Concita DE GREGORIO

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«Ho scelto di fare il padre». Il coraggio di Sergio

Concita De Gregorio


È vero. Lascia il lavoro per amore. Lo sbalordimento, l’incredulità e l’ironia feroce di cui è bersaglio sono la misura esatta – millimetrica – dell’arretratezza culturale in cui siamo immersi fino a non accorgercene più, il segno preciso del pensiero dominante che ci istupidisce e che ci assorda. Un uomo non lascia la carriera, la politica, il potere per la famiglia. Non è possibile. Ci dev’essere dell’altro. È una scusa. Saranno i sondaggi. Sarà il partito che lo boicotta. Sarà la paura di perdere. Invece no. È Edoardo. Non ci credete? Poveri voi. Poveracci, proprio. Non avete capito niente della vita.

«Guardalo». Sergio Cofferati accende lo schermo del suo telefonino: compare la foto di suo figlio Edoardo, un anno a novembre. «Non è venuto molto bene qui però». Certo, non vengono mai bene i neonati nei telefonini. Le persone amate sono sempre - sempre – «più belle di così». Il sindaco sorride, guarda ancora la foto. «È molto sveglio». La folla intorno lo chiama: lui non sente, non risponde. Edoardo ha avuto un po’ di febbre, di recente. Niente di grave. Lui non c’era però, gli è dispiaciuto non esserci: molto. Si è preoccupato. Si è sentito in colpa. «Avere un figlio alla mia età è un dono della vita. Un’altra opportunità che arriva come un regalo, non capita a tutti la seconda occasione di mettere a fuoco quel che passa e quel che resta, è una fortuna. A sessant’anni non si possono fare spallucce, dire ho da fare. Non c’è più tempo».

A sessant’anni quando hai una compagna di quaranta e un figlio di uno e ti è già successo tutto – il sindacato, il Circo Massimo, la Grande Speranza della Nuova Sinistra, la delusione, il lavoro duro, la periferia dell’impero, la popolarità e l’impopolarità, il paladino dei lavoratori e lo sceriffo – a sessant’anni puoi anche permetterti di sovvertire «l’ordine naturale delle cose» e dare una nuova lezione, questa sì rivoluzionaria: «Raffaella, la mia compagna, ha un buon lavoro, un lavoro che ama e non è giusto chiederle di lasciarlo». Ottimo. Raffaella Rocca lavora come ufficio stampa del più importante teatro di Genova, lo fa “da prima”: prima di conoscere il padre di suo figlio. «Se ci fossero state le condizioni avrebbe potuto anche trasferirsi a Bologna e vivere con me, ma quelle condizioni non ci sono state. Ho percepito molta ostilità nei suoi confronti, lei per prima l’ha percepita e sofferta». Fenomenale. Bologna ha rigettato la compagna di Cofferati. Non ha perdonato al sindaco di aver fatto campagna elettorale con una moglie e di essersi insediato con un’altra. Il moralismo di sinistra, dice qualcuno. Era antipatica, dice qualcun altro. Antipatica a chi? «Quando Raffaella è entrata in ospedale i giornalisti hanno telefonato ai medici per avere notizie spacciandosi per parenti». Succede. «Non deve succedere». Hanno detto che era incinta di due gemelli quando non lo era. Hanno detto che stava male quando stava bene.

Mi hanno messo in croce perché non sono andato a una partita di calcio perché dovevo partire con loro per le vacanze. Capita, quando uno fa il sindaco. «Non deve capitare». Non dovrebbe, diciamo. Ecco quindi gli scontri pubblici coi giornalisti, alla Festa dell’Unità di settembre. Ecco i primi segnali: la difesa della sfera privata. Raffaella ha un lavoro, ma a Bologna non lo poteva fare: «I teatri sono tutti in qualche misura nell’orbita del Comune, avrebbero detto che era lì in quanto donna del sindaco e non per le sue capacità». Sicuramente l’avrebbero detto. Cofferati lo avrebbe trovato insopportabile. Dunque è rimasta a Genova, 300 chilometri da Bologna. «Lo scorso fine settimana sono venuti qui, ma un bambino di quell’età non può passare la sua vita in autostrada, anche in prospettiva». In prospettiva, certo. Migliaia, milioni di chilometri. Migliaia di ore: giorni, mesi in autostrada. Dunque? Cosa può fare un sindaco? «Sto con loro. Vado a vivere a Genova. Potrò lavorare molto anche da lì, ne ho parlato con Veltroni». C’è da occuparsi del partito del Nord. C’è da fare in Liguria, in Lombardia, in Piemonte. Veltroni ha condiviso. «Una scelta che capisco e che rispetto, una decisione importante», ha detto il segretario Pd. Non che non abbia provato a convincerlo, certo. «Però poi quando l’ho ascoltato non ho potuto far altro che abbracciarlo». È successo martedì scorso. Un colloquio privato. Veltroni è la persona che Cofferati ha informato per prima. Per seconda, sì. Vado dalla mia famiglia, gli ha detto. Non saranno pochi i problemi, lo so: scusami. Però ho dato, e anche molto: questo per me adesso conta di più. Vedrai che non lo capiranno, ma sbagliano. Per essere in sintonia con la realtà bisogna prima essere in armonia con se stessi. «Me ne assumo la responsabilità». Quindi ecco, vedete, questo è quel che è successo. Quando la ministra di Brown Ruth Kelly dice che lascia perché torna dai suoi quattro figli non c’è niente di strano: strano era piuttosto che facesse il ministro, con quattro figli. Le donne preparano la cena, un ministro come fa? Quando lascia il portavoce di Bush (Lawrence Ari Fleischer) perché torna «dalla famiglia, alla vita» si dice che è esaurito. Quando – in Italia – un politico si separa dalla moglie per amore di un’altra donna si dice che è stato ingenuo, sprovveduto: le mogli non si lasciano mai, non conviene (politicamente?) nemmeno a sinistra. Si possono benissimo far convivere, no?, mogli reali e mogli apparenti. Non è così che fan tutti? Se poi, incredibilmente, un uomo abbandona la sua poltrona di governo per fare in modo che la donna con cui vive mantenga il suo lavoro di ufficio stampa (c’è paragone?) e per stare vicino al figlio con la febbre senza sentirsi sempre nel posto sbagliato come capita a milioni di madri che lavorano si sconfina nel delirio senile o nel buio dell’incomprensione: è matto, è esaurito, ha perso la ragione o c’è senz’altro un’altra ragione. No. Non c’è. «Sono un uomo fortunato». La prima volta, con la prima moglie conosciuta da ragazzo e col figlio ormai uomo, trentenne, c’è stato sempre molto, moltissimo altro da fare. Ora si può riprovare, ripensare, rivedere cosa importa nella griglia dei valori. «Il suo lavoro non vale meno del mio», dice di Raffaella. «Non posso lasciare che Edoardo cresca senza un padre». Roba da non credere. Da farci le prime pagine e parlarne nelle scuole. Il privato e la politica. Cose da pazzi. Archiviamolo subito come un incidente. In alternativa ci toccherebbe dire che Cofferati è un eroe della modernità, un marziano in patria. Uno che ha fatto un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per l’umanità. Bisognerebbe dir questo di lui, ma non succederà. Non lo farà nessuno, tranquilli.

Pubblicato il: 10.10.08
Modificato il: 10.10.08 alle ore 10.31   
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La vergogna e il Bagaglino

Concita De Gregorio


Quando stamattina ho letto su internet della morte di Haider ho provato un sentimento di cui mi sono vergognato. Anche ora mi imbarazza definirlo. Forse la parola adatta non esiste. Non è «soddisfazione», ma onestamente le somiglia. Non è stata la prima volta. Ero un ragazzo quando morì Franco. Rafael Alberti disse qualcosa come: «Le fiamme dell'inferno non sono sufficienti per accoglierlo». Mi piacque. Quella frase mi tornò in mente quando morì Pinochet. Mi è tornata in mente oggi, dopo Haider. Poi mi sono vergognato. Forse perché Haider aveva la mia età e questo mi ha fatto avvertire che non era solo un simbolo, era un uomo. Ho guardato le sue foto. Ho letto che lo paragonano a Bossi. Ho pensato ai loro vestiti tirolesi, alle camicie nere di Berlusconi al Bagaglino, ai simboli neofascisti esibiti da chi ci governa. Ho provato pena per Haider, alla fine, poi anche per me.

Giovanni Pera


È una bella lettera, la leggo e la rileggo. Bella perché parla di vergogna senza vergogna e di pena senza pudore. Perché entra con semplicità in un terreno complesso: l’ambiguità dei propri sentimenti e nei sentimenti, è chiaro, alberga anche la politica. Non ci si rallegra per la morte di nessuno: mai. Di un tiranno a lungo subìto, questo sì può accadere: «Beviamo a viva forza, è morto Mirsilo», scriveva Alceo. Però Haider non era un tiranno e neppure un dittatore, non era Franco né Pinochet. Era un leader politico della destra estrema, la destra vincente fatta di simboli odiosi e a questo può ridurre l’esasperazione e la frustrazione di chi si trova, davanti all’onda, in minoranza: a confondere la battaglia politica con l’odio personale. È un errore gravissimo che nasce dalla cultura sommaria dominante, rafforza questa cultura anziché combatterla: buoni contro cattivi, indiani contro cow boy e chi vince non fa prigionieri. Non è questo il terreno di scontro: non è la vita o la morte dell’avversario. È il prevalere delle idee e dei valori di cui ciascuno è portatore, è la mia opinione contro la tua e la forza delle ragioni che la sostengono, il comune sentire da cui germinano.

Questo il vero campo di battaglia: lo spirito del tempo e gli elementi che lo costruiscono, lo consolidano. Il problema non è che Berlusconi la sera vada al Bagaglino, nel fine settimana da Messeguè, la notte in discoteca vestito in «total black». Le donne se sono mogli di qualcun altro, dice la sua barzelletta, si pagano. È evidente che personalmente – finché è nel lecito - può vestire e passare il tempo come vuole. Il problema è il compiacimento e l’identificazione che suscita come «modello politico vincente». Il berlusconismo. L’idea che del fascismo non mi occupo perché ho da lavorare, che il Parlamento mi deprime. Che se hai i soldi puoi aggiustare i conti delle banche e delle città, puoi comprarti l’impunità e delle regole chi se ne frega, roba da moralisti tristi. È da qui che germinano i cori «duce duce» che ormai accompagnano la nostra nazionale di calcio all’estero, i caschi rosa con la svastica che le adolescenti comprano al mercato «perché vanno». Di questo sì c’è da vergognarsi: di non saperglielo spiegare. Meno male che si torna in piazza. Protestare va bene ma anche proporre, per favore. Indicare una rotta diversa, se possibile. Che non sia speriamo che muoia. Come per Haider, che non ci mancherà ma che se fosse invecchiato sconfitto a trastullarsi coi falconi in una baita sarebbe stato meglio. Per lui e per tutti.

Pubblicato il: 12.10.08
Modificato il: 12.10.08 alle ore 11.30   
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Rinunciare a 30 anni

Concita De Gregorio


Ho 29 anni e vado avanti a contrattini. Scarse prospettive, pochi soldi, niente illusioni. La bagarre sui fannulloni non fa altro che alimentare l’odio nei nostri confronti mentre intorno a me vedo macerie, spazzatura, degrado, amoralità, abuso, assenza dello Stato. Dunque criminalità. Il caso di Roberto Saviano è illuminante: di una situazione, di una generazione, di una questione meridionale ancora lontana dall’essere risolta. Inventarsi una nuova vita è così sbagliato? Cercare un posto dove è possibile lavorare, metter su famiglia, avere una casa e dei diritti, è così malvagio? Carlo Fedele, Napoli



Caro Carlo, che rabbia e che tristezza le decine di lettere che arrivano qui al giornale da giovani donne e uomini come te. Che frustrazione davanti alla montagna di curriculum vitae che crescono sulle nostre scrivanie: centinaia, migliaia di persone di 20, 30, 40 anni che chiedono di affacciarsi qui con le loro proposte, le loro idee, i loro studi, le loro speranze. Se anche potessimo dare a ciascuno di loro, per un giorno, una tribuna – e ci vorrebbero anni – sarebbe abbastanza? Certo che no. Sarebbe, per molti, solo un’illusione. Non si parla che di Saviano, per strada. È una vergogna per questo Paese che Roberto dica: me ne vado. Hai ragione però: è legittimo. Gli uomini, prima di essere simboli, sono persone. Saviano ha diritto, innanzitutto, a campare. A nessuno si può chiedere di immolarsi in nome e al posto dei mediocri che pontificano. Contro i farabutti che manovrano il potere. Gli eroi della sinistra rompono le righe, ha scritto qualcuno. Battono in ritirata. Rinunciano. Ci hanno messo dentro anche Cofferati che lascia Bologna per la famiglia ma è diverso, mi permetto di osservare: è diverso rinunciare a 60 anni quando hai dato, hai combattuto, ti hanno ostacolato e detestato anche dentro la tua casa politica. È un segnale ad uso interno, una sfida in codice: continuate così e andremo tutti in malora. Se invece hai 20 anni, 30 e la vita davanti, ecco: allora rinunciare è davvero una sconfitta di tutti. Non è questo il momento di ritirarsi, scrivevo il giorno che sono arrivata qui. È durissima, ma bisogna sfidare il muro di gomma dell’inerzia e le clientele dei senza talento, il conservatorismo della paura. Marco Simoni, un trentenne che insegna alla London School of Economics, ci ha raccontato su queste pagine della sua fuga dall’Italia e del disastro della nostra università in mano alle baronie. Volentieri, oggi, lascio la parola a due tuoi e suoi coetanei. Giuseppe Veltri, calabrese, vive e insegna a Parigi. Peppe Provenzano, siciliano di 26 anni, studia a Pisa. Leggi cosa scrivono, riparliamone.

Pubblicato il: 19.10.08
Modificato il: 19.10.08 alle ore 14.52   
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Quel sorriso


Concita De Gregorio


Sembrava che ridesse sempre, anche quando parlava serio. Anche in questa foto qui sopra dove forse ride davvero, chissà, non è proprio un sorriso in effetti: è quel suo modo di stare al mondo con i pugni chiusi, la fronte alta, la coscienza limpida e nelle parole un dubbio, sempre. Alla fine di ogni frase una domanda, perpetua ricerca.
Mai un lamento. Di tutti gli altissimi insegnamenti che Vittorio Foa, morto alla fine di un secolo irripetibile, ci lascia in dote questo che sembra un dettaglio mi pare stasera il più grande. Quel sorriso, diverso e lo stesso in tutte le foto e i ricordi. Ciò che in una vita come la sua un sorriso perpetuo significa: andare avanti, pensare agli altri, provare ancora, non chiudersi, non arrendersi, anche il dolore è un dono che porta sempre altrove, è un compagno e un amico.

C’è dell’altro, dopo. Venite e vedrete.

Questo il lascito, questo quel che ciascuno dovrebbe provare a portare con sé. I più giovani specialmente. Quelli che non hanno avuto e non avranno la possibilità di sperare in un riscatto definitivo e radicale perché non hanno avuto quel passato e quel presente, non hanno avuto quella storia. Lo ascoltavano in un silenzio solido, infatti, i ragazzi.

Sentivano bene la densità pesante – il monito - di quel sorriso al posto del pianto. Una sera d’autunno di molti anni fa (è un piccolo ricordo, ce ne sono mille più emblematici ma si sa come funziona la memoria: seleziona gerarchie segrete) Foa si presentò nella sala della Società psicanalitica italiana a parlare ad una platea di giovani studiosi e di studenti di un tema intitolato “Il mestiere di un uomo libero”. Che la libertà sia un mestiere, una fatica da conquistare ogni giorno sarebbe stato già da solo materia di riflessione silenziosa: bastava il titolo. Parlò a lungo, per regalo. Sempre con quel sorriso che esibiva i denti radi, con gli occhiali troppo grandi e un po’ storti, il bastone da un lato. Raccontò dei suoi anni in prigione: trasformò il carcere in un privilegio. Ne disse con leggerezza, con pudore e con semplicità. Fu chiaro – dopo pochi minuti, fu chiaro a tutti – come patire la galera fosse stato un modo, il modo scelto dalla vita, per andare incontro al futuro e decifrare il presente.

Un’esperienza fortunatissima, sembra pazzesco no?, eppure proprio così, una risorsa per capire le cose, sentirle, andarci in fondo e che peccato per quelli che devono faticare tanto per arrivarci comunque, anche senza prigione, che sforzo dovete fare voi che non avete avuto questa stessa sorte ma non preoccupatevi, adesso ve lo racconto. Faceva solo domande: sembravano tutte risposte. Alla fine rimase a lungo fuori, sul marciapiede che corre accanto al parco, di notte. I giovani gli chiedevano della sua vita, lui replicava informandosi della loro. Di cosa vi importa, per cosa vi arrabbiate? chiedeva. Non restate in silenzio, fate del silenzio una ricerca. E difatti in quella lettera che poi Ronconi ha messo in scena, in quel libro intitolato “Il silenzio dei comunisti” domanda a Miriam Mafai e ad Afredo Reichlin: «Cara Miriam, caro Alfredo, erano milioni in tutto il mondo e anche in Italia gli uomini e le donne che si dicevano comunisti: militanti, iscritti, elettori, simpatizzanti.

In Italia pochi anni fa piú di un terzo dei cittadini si dicevano tali. Ora stanno in grande parte in silenzio, il loro passato è cancellato nella memoria. Sento acutamente, quasi come un’ossessione, questo silenzio. Tendono a scomparire i testimoni di un’esperienza e insieme si oscura un pezzo della nostra storia. L’anticomunismo a vuoto non è forse paura? Perché si ha paura? di che cosa? Il silenzio non è necessariamente un male. Da esso nasce la parola: nella parola si chiudono i problemi mentre nel silenzio essi restano aperti».

Quale idea è rimasta vuota? Quale speranza? Il disegno di una società giusta? «Oppure, cosa ancora piú grave, il distacco è da un’identità, individuale o collettiva?». L’identità, di questo parlava ancora negli ultimi giorni quando temeva per Obama, il sogno americano, e quando insisteva che certo bisogna coltivare il nostro, in Italia, e crederci, e costruirlo perché altra strada non c’è : alternativa non è data. Un ragazzo, sembrava. Con tutta la vita davanti, tutti i nostri ieri nel sorriso pieno di dolore e di coraggio.



Pubblicato il: 21.10.08
Modificato il: 21.10.08 alle ore 10.32   
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12/12/2008 08:08

Scioperare serve ancora


Concita De Gregorio


Il giorno dell'Onda, dopo aver visto in piazza centinaia di migliaia di studenti ricercatori insegnanti e famiglie in tutta Italia, Silvio Berlusconi aveva detto con la consueta sicumera che il governo non si sarebbe lasciato impressionare, che non si sarebbe fatto condizionare da una esibizione di professori fannulloni e di ragazzi che non hanno voglia di studiare, di universitari figli di papà. Qualcuno aveva anche provato a suscitare l'incidente, ricordate le camionette in piazza Navona. Qualcun altro lo aveva invocato: se ci fosse il morto tanto meglio. Poco più di un mese dopo Maria Stella Gelmini maestra unica della scuola italiana ritira i punti qualificanti della sua cosiddetta riforma: quella delle superiori slitta al 2010, la scelta del maestro unico alle elementari sarà facoltativa e dipenderà dalle richieste. Resta dunque intatta la possibilità di accedere al tempo pieno, per moltissimi genitori - in specie per le donne - condizione indispensabile per conciliare famiglia e lavoro. Bene, la notizia è che dunque gli scioperi servono ancora nonostante lo scherno e il disprezzo con cui questo governo di solito li accoglie. È importante saperlo oggi che la Cgil scende in piazza contro la manovra economica e contro la quotidiana strage di lavoratori: l'ultimo ieri all'Ilva di Taranto, cinque morti il giorno prima e quasi duecento solo nell'edilizia dal principio dell'anno. Le bandiere della Cgil stamani saranno listate a lutto. Pierluigi Bersani spiega a Laura Matteucci perché anche lui scende in piazza: «Continuo a sperare che il sindacato riesca a presidiare il mondo del lavoro restando unito».

Ultime notizie di ieri: cinquemila i precari Fiat i cui contratti non saranno rinnovati. Scene drammatiche fra i dipendenti Alitalia cassintegrati, le lettere stanno arrivando in queste ore: i primi ad essere allontanati sono i portatori di handicap, poi le donne. Claudia Fusani è andata alla Magliana con loro. Piove una notte e Roma va a fondo. Centinaia di incidenti gravi e gravissimi, una donna uccisa dall'acqua che ha travolto l'auto. Alemanno scarica le responsabilità sull'amministrazione precedente. Il punto è che i tombini della Capitale sono intasati dalle foglie, bisognerebbe pulirli. Alcuni sono rimasti sigillati dalla visita di Bush. Bisognerebbe togliere i sigilli visto che è autunno, e piove. Di clima si tratta a Bruxelles. Berlusconi e il premier polacco sono arrivati decisi amettere il veto alle misure che puntano a ridurre del 20 per cento le emissioni dannose. La mediazione di Sarkozy ha portato a un compromesso, l'Italia sarà costretta ad accodarsi. Il premier insiste intanto a dire che sulla giustizia «farà da solo», dell'intesa con l'opposizione non gli importa. Illuminanti le parole di Franco Cordero intervistato da Federica Fantozzi.

È l'anniversario di Piazza Fontana, lo ricorda in ultima Carlo Lucarelli. A Bologna domani c'è una messa in chiesa per i gay vittime di omofobia, Caffarra deve essersi distratto, il Papa ne è senz'altro all'oscuro. Manoel de Oliveira compie cento anni, lo racconta Alberto Crespi. Sua figlia Adelaide (ultrasettantenne) risponde al telefono da casa dove è in corso una festa. «È sempre in giro, lo vedo meno ora di quando ero bambina», ride. Sta girando un film.

da unita.it

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