Concita DE GREGORIO

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Epifani: non permetterò che la Cgil sia messa all’angolo

Concita De Gregorio


Waterloo. Caporetto. Titoli senza troppa fantasia, certo: giusto per capirsi. Il sindacato – la Cgil, tra i sindacati – è arrivato alla fine. Due volte il disastro Alitalia collassa a un passo dalla meta, due volte il dito è puntato contro il sindacato. Sono stati loro, è colpa loro. Un sentimento diffuso, un senso di estraneità alle storiche forme della battaglia sindacale che contagia ormai anche il cinema, nel cinema i registi di sinistra: nel documentario sulla Thyssen di Calopresti i sindacalisti inzuppano la brioche nel caffellatte mentre la Lega fa reclutamento nelle fabbriche, nel film di Virzì sui call center al difensore dei diritti dei precari attaccano i bigliettini di scherno sulla schiena.

Battaglie di retroguardia, conservatorismo miope. È notte, ormai. È la notte fra giovedì e venerdì, Cai ha ritirato l’offerta. Guglielmo Epifani arrotola al gomito le maniche della camicia, la cravatta è allentata. Tiene in mano la lettera datata “Roma, 18 settembre” e indirizzata a Colaninno. Comincia così: «Signor presidente, come d’intesa le confermo la nostra adesione e la nostra firma all’accordo quadro…». Finisce con una firma, appunto: la sua firma. Epifani aveva firmato, Colaninno sapeva dal giorno prima che lo avrebbe fatto: «Come d’intesa», se lo erano detti. «Bisogna stare molto attenti – dice adesso che è davvero tardi con la voce arrochita dalla giornata campale – bisogna davvero evitare di cadere nella trappola di questo governo: è chiaro che a loro faccia comodo dire che siamo stati noi ma non è così. Ecco la lettera, i fatti sono questi. Noi non abbiamo difeso i piloti: abbiamo provato a convincerli. I due terzi del personale di volo non è rappresentato dalla Cgil. Non si poteva arrivare ad un accordo senza di loro. Lei può fare il giornale senza i giornalisti? Ecco, è così. Poi io credo che le ragioni che hanno portato al fallimento dell’intesa siano più ampie di quel che appare: sulla decisione simultanea e unanime dei componenti della cordata devono aver pesato molti elementi, diverso tipo di pressioni a partire dal quadro catastrofico internazionale per finire a motivi di equilibrio politico. Sia come sia: dev’essere chiaro che i piloti hanno sei o sette rappresentanze diverse, sono una somma di corporazioni. C’è stato un tentativo di mettere all’angolo la Cgil che è passato da lì. La Fiat dell’80 non c’entra niente, semmai qui è il contrario».

Sia come sia, Epifani, lei è ritratto oggi come l’esecutore testamentario di un sindacato in agonia: un fatto culturale prima che tecnico. La Cgil frena, ferma, blocca e oltretutto non rappresenta più i giovani, i lavoratori precari che temono di associarsi perché ricattati dalla “flessibilità”: il sindacato così com’è non è più di questo tempo. «È certamente questo il messaggio che si vuole far passare. Questo governo cerca il nostro discredito e non c’è dubbio che lo faccia in un clima generale in cui si prova a fare a meno del sindacato. Però vede: è proprio a questo tentativo che dobbiamo fare argine e dobbiamo farlo partendo dai fatti. La Lega nelle fabbriche, lei dice: benissimo. Però nelle fabbriche votano Lega ma sono iscritti alla Fiom. Non posso dire tutti ma molti, moltissimi. Allora è un altro il problema: è la cerniera fra il sindacato e la politica, fra il sindacato e il partito che si è indebolita. I nostri tassi d’iscrizione sono sempre altissimi, molto più alti che altrove in Europa. Non c’è più un prototipo di lavoratore, la realtà è variegata. Certo: un tempo si arrivava al sindacato attraverso la politica. Certo, le generazioni più giovani sono sottoposte al ricatto del datore di lavoro in nome della flessibilità ed hanno paura di aderire al sindacato. I precari non si iscrivono, è vero: sono spaventati. La campagna ostile al sindacalismo è stata potentissima: è la politica che deve battersi contro questo tentativo di ostracismo». E non lo fa, sottintende Epifani: non lo fa abbastanza. La “cerniera” fra sindacato e partiti di sinistra: quella si è sciupata. «Sono convinto che su Alitalia alla fine Berlusconi ricorrerà all’ennesimo colpo di teatro. È una gestione del paese fatta di continui colpi di scena. Non è così che si tutelano i diritti, non così si conserva la democrazia. Noi abbiamo agito come sempre con senso di responsabilità e mi creda, questa volta in specie con una disponibilità estrema. Prima di suonare il de profundis del sindacato bisognerebbe guardarsi attorno: abbiamo affrontato la questione di cinquemila esuberi in Telecom, sei o settemila saranno quelli di Alitalia, quattromila quelli di Merloni. Quando si parla di quindicimila lavoratori bisogna contare da uno a quindicimila e soffermarsi a pensare che ogni numero è una persona. Ci vogliono ore a contare: uno sono io, uno è lei, provi a immaginare. Altro che Caporetto. Siamo nel pieno della guerra e dobbiamo crederci, dobbiamo restare fermi qui non arretrare di un passo davanti all’offensiva populista. Dobbiamo vincere».

Pubblicato il: 20.09.08
Modificato il: 20.09.08 alle ore 8.16   
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La paura è di destra

Concita De Gregorio


Cara Unità. Sei persone massacrate da chili di piombo nella "Campania felix" raccontata da Berlusconi, la terra salvata dall´immondizia e quindi dall´illegalità. Il governo ci ha detto che la nostra è la nazione più sicura al mondo grazie alla "tolleranza zero" del ministro leghista che siede al Viminale e che spedisce l´esercito a presidiare le città. Quali città? Villa Literno o Grazzanise non fanno parte di questa Italia sotto controllo, linda e pulita? O questa campagna della sicurezza colpisce solo i più deboli e lascia impunita la criminalità vera? È facile prendersela con un bimbo nomade o una ragazza sfruttata su un marciapiede. Meno facile è affrontare Gomorra che come un cancro si mangia il Paese e la coscienza civile di un popolo.

Vincenzo Cosimi

Il governo (il ministro Maroni) è stato ieri chiuso in riunione diverse ore coi capi delle forze di polizia i quali devono avergli illustrato l´esistenza dei clan dei Casalesi, della Camorra in Campania e più in generale della rete internazionale di latitanti che controlla e stabilisce chi debba essere ucciso e quando, si tratti di traffico di droga di armi o di immondizia. Uno, gli hanno detto per esempio, è stato arrestato ieri a Barcellona: viveva lì da nababbo da anni e comandava omicidi. Dunque ora Maroni lo sa, possiamo stare tranquilli. Difatti ha deciso di spostare dal Fontanone del Gianicolo una certa quantità di camionette militari che (immaginiamo controvoglia, il cambio è foriero di rischi) si recheranno in quella terra di nessuno fra Villa Literno e Castel Volturno dove pure, a dispetto della speranza, vive ancora qualche italiano. Quattrocento uomini, ha promesso. Domani, ha detto. Vedremo. La questione è complessa perché il decreto che ha reso le piazze urbane scenari di guerra prevede l´uso dei militari solo nelle città e non nelle campagne. Una sbadataggine: il governo, ora che ha appreso dell´esistenza della camorra, è pronto a rimediare. Maroni si metterà certo in contatto con Borghezio, suo collega di partito ed altissimo esponente della Lega di governo, europarlamentare esperto in sicurezza. Non prima però che costui sia rientrato da Colonia dove, unico politico al mondo, è salito sul palco di una manifestazione neonazista sventolando la bandiera tricolore. La piazza era vuota, la polizia ha bloccato i manifestanti mascherati da SS. È arrivato solo Borghezio, cravatta verde e Padania in mano, a parlare di Oriana Fallaci. I tedeschi l´hanno portato via di peso. Ora quando torna potrebbe essere dislocato anche lui insieme ai quattrocento militari nei dintorni di Grazzanise a fare comizi contro il pericolo islamico: è un´idea. In alternativa Berlusconi potrebbe dire che Borghezio è una vergogna nazionale e chiedere a Bossi di cacciarlo dal partito. Non lo farà perché non ha tempo. Sta lavorando. Prepara la nuova soluzione del caso Alitalia e ha da fare con la sconcia presenza delle schiave nigeriane per strada: combatte la paura dei cittadini onesti. La paura. La fabbrica della paura studiata apposta per farci guardare la pagliuzza, mai la trave. È di ieri una ricerca pubblicata su ‘Science´ da tre universitari usa: la biologia condiziona l´ideologia, dicono. Le persone più inclini a spaventarsi (davanti a immagini o rumori orribili) aderiscono a partiti conservatori. La paura è di destra, s´intitola l´articolo. Siamo a posto. L´alleato della sinistra temeraria è in arrivo. Non serve la politica, che idea fuori moda. Ci salverà la scienza.

Pubblicato il: 21.09.08
Modificato il: 21.09.08 alle ore 12.47   
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Dolce morte grande ipocrisia

Concita De Gregorio


Sono un cattolico che crede che sul tema della fine della vita si ascoltino molto i monsignori e poco i cittadini. Mi hanno colpito le parole di Mina Welby: «Bisogna arrivare a una legge sul testamento biologico che raccolga le dichiarazioni di fine vita non solo per rifiutare alcune cure, ma anche per chiederle». Penso che la libertà di chiedere cure faccia il paio con la scelta drammatica di lasciarsi morire. E ci si lascia morire in tanti modi: smettendo di lavarsi, di cibarsi, di interessarsi a ciò che ci circonda. Una legge può aiutare solo se ci sa mettere al riparo dalle ideologie, dalle demagogie. Una legge che non tuteli gli interessi di chi la fa ma quelli dei malati. Delle persone che vivono coi malati. Di noi.

Alvaro Malerba, Vercelli



Al riparo dalla demagogia. Che meraviglia sarebbe, no?, se per una volta, per questa volta almeno la discussione si concentrasse sull’oggetto – chi sta morendo, chi vive senza vivere - e non sul soggetto, sulla tronfia presunzione di chi pontifica, sul narcisismo di chi vuole un palcoscenico nuovo per dire gonfiando il petto qualcosa di clamoroso e di insolito, i riflettori ancora su di sé e qualche voto, qualche copia di giornale in più. Il dibattito sul testamento biologico è il festival nazionale delle parole a vuoto. Ipocrita fin dalla scelta dei termini: eutanasia non si può dire, non sta bene. Ipocrita alla radice, la più grande delle ipocrisie. L’eutanasia, in Italia, esiste già. Lo sanno bene tutti: i medici e i pazienti, le famiglie a cui è toccato e tocca il dolore di star vicino a chi se ne sta andando o se ne è andato già ma non può morire davvero. Esiste e funziona così: quando un malato terminale non reagisce più, quando la sua vita è solo un calvario di cateteri e di sonde c’è sempre qualcuno, tra i meravigliosi medici che lavorano al confine con la morte, che avvicina le mogli, i figli, i genitori e spiega loro, chiede, prova a capire. Nessuno domanda: volete voi che. No, non è così. Sono pochi, pochissimi quelli che riuscirebbero a rispondere. È enorme il peso della decisione, insopportabile. Allora succede questo. C’è un momento di non ritorno, i medici lo conoscono. Inutile declinarlo qui: quando il drenaggio delle urine rallenta, cose indicibili così. Quando i familiari smettono di parlare tra loro. Ecco, quello è il momento in cui arrivano, una mattina, gli infermieri (persone che hanno scelto di lavorare in hospice, angeli a volte rudi, ma angeli) e dicono con la voce squillante al malato in coma «buongiorno, come va stamattina?». Lo chiamano per nome. Gli raccontano cosa succede fuori e intanto lo spogliano nudo, lo lavano, aprono la finestra e meglio ancora se è gennaio, fanno cambiare aria, raccontano una storia, insaponano, fa freddo, l’acqua sul corpo corre, che buon profumo il sapone, no?, che bello sentirsi puliti. Loro lo sanno bene. Sanno cosa stanno facendo. Cantano, a volte. Non ci si sveglia più da quell’ultimo bagno. Era l’ultima aria quella entrata dalla finestra aperta. Poi la sera, poi la notte, poi basta. Basta andare negli hospice, basta vivere la vita per sapere che è così. Chi maneggia il dolore lo sa. Il Paese è più avanti – sempre - di chi dibatte sulle sue sorti. La realtà è un chilometro oltre l’orizzonte delle parole a vuoto. La vita vera è questa, la morte – succede - un sollievo. Chi la frequenta lo sa. E ora torniamo pure al dibattito: prego monsignore, dica pure onorevole.




Pubblicato il: 28.09.08
Modificato il: 28.09.08 alle ore 14.49   
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Quando l'Amore diventa «Malamore»


Concita De gregorio


Le donne provano la temperatura del ferro da stiro toccandolo. Brucia ma non si bruciano. Respirano forte quando l’ostetrica dice «non urli, non è mica la prima». Imparano a cantare piangendo, a suonare con un braccio che pesa come un macigno per la malattia, a sciare con le ossa rotte. Portano i figli in braccio per giorni in certe traversate del deserto, dei mari sui barconi, della città a piedi su e giù per gli autobus. Le donne hanno più confidenza col dolore. Del corpo, dell’anima.

È un compagno di vita, è un nemico tanto familiare da esser quasi amico, è una cosa che c’è e non c’è molto da discutere. ci si vive, è normale. Strillare disperde le energie, lamentarsi non serve. Trasformarlo, invece: ecco cosa serve. trasformare il dolore in forza. Ignorarlo, domarlo, metterlo da qualche parte perché lasci fiorire qualcosa. È una lezione antica, una sapienza muta e segreta: ciascuna lo sa. (...)
«Le femmine servono ai cuccioli» dice il bambino seduto davanti alla tv, danno un documentario sugli animali. Poi ripete: «Lo sai mamma? Le femmine servono perché devono fare i cuccioli, i maschi da soli non li possono fare».
Non c’è dubbio, i maschi da soli non possono. Però le femmine non «servono» solo a fare i cuccioli, penso di rispondere. Non dico niente, invece. Ci sono cose che non si spiegano con le parole. Lo capirà, lo vedrà, lo imparerà strada facendo. Certo, bisogna sempre ricominciare da capo. A ogni generazione di nuovo. Dimostrare, convincere. A cosa servono le femmine? Sembra proprio, nelle parole di un bambino, l’origine di tutte le questioni. Non sono sicura che a fare la stessa domanda a cento adulti, uomini e donne, si otterrebbero risposte convincenti. «Servono a far più bella la vita» mi ha risposto un amico credendo di dire cosa gradita, immagino sentendosi galante.

Deve essere qui il cuore di tutto. Siamo proprio certi che le femmine servano a qualcos’altro che a fare i cuccioli, a rendere piacevole l’esistenza altrui? E loro, le donne, dietro le parole e i gesti di una sicurezza ogni giorno esibita in pubblico ne sono davvero convinte in privato? Cosa sono disposte a offrire – a sopportare – in cambio della possibilità di dimostrare che no, non servono solo a fare i cuccioli né ad allietare con la loro deliziosa presenza le impegnative vite altrui? Ma soprattutto, perché in fondo sentono, anche quando non lo dicono, di doverlo dimostrare? (...)

Vorrei poter dire che se devi uscire alle cinque per un impegno improrogabile e alle cinque meno dieci la persona con cui dividi l’esistenza ti pone una questione epocale da cui dipende l’esito della tua giornata, della settimana e della vita, ecco, quella è una prova di forza, una forma sottile di violenza che si esercita nel celebre quesito: dimostrami che cosa è più importante per te. Perché si sa che l’amore viene prima di tutto, per le donne è certamente così. Perché se hai interessi fuori, più importante deve essere sempre, tuttavia, l’interesse dentro.Perché se un uomo può dire scusami ma ho da fare e dimenticarsi l’anniversario, la spesa, la festa di compleanno del bambino, la consegna a domicilio, una donna no, non può farlo. o meglio: può, ma paga un prezzo. È normale, no? È nella natura delle cose. Vorrei poter dire che violenza è telefonare otto volte durante un consiglio di amministrazione per chiedere in quale cassetto si trova il termometro ma non posso farlo, naturalmente, perché violenza è massacrare l’ex moglie e buttarla viva in un cassonetto, soffocare l’amante incinta di nove mesi e seppellirla mentre respira ancora, dare un passaggio all’ex ragazza e farla violentare da otto amici per due giorni, picchiare la moglie davanti ai figli nel salotto coi divani bianchi e la mega tv con lo schermo al plasma, convincere che il suicidio sia il minore dei mali, bastonare perché hai messo i jeans, far saltare i denti «perché ti avevo detto di stare a casa e non importa se dovevi andare in farmacia, ti ho detto che da sola non esci». Segregare, umiliare, costringere, esercitare la forza delle mani e non solo la brutalità delle parole. Sparare, certo. Soffocare col cuscino. Usare un corpo e sbarazzarsene, poi addormentarsi tranquilli. tutti fatti accaduti realmente, tutti episodi di cronaca degli ultimi mesi. C’è una gerarchia della violenza, è ovvio. Ci sono reati e ci sono soprusi. C’è un’abitudine, una tolleranza della violenza che è la cosa più spaventosa di tutte. Un’accettazione della fatalità della sopraffazione che non vieta, tuttavia, di chiedersi: ma come mai? cosa è successo, perché è possibile? come mai chi muore non si ribella un anno, un mese, dieci giorni prima di morire? Si muore anche restando in vita, ciascuno lo sa, e la domanda resta intatta.

Questo non è un libro sulla «violenza domestica», sulla violenza esercitata dagli uomini sulle donne nell’intimità delle case e delle vite. È piuttosto una raccolta di storie che gira intorno a un’altra domanda, speculare e opposta: come mai oggi, nell’Italia delle ragazze calabresi che a scuola sono le più brave in Europa, delle figlie delle rivoluzioni sociali, delle manager e delle capitane d’impresa, come mai nel mondo delle trentenni e delle quarantenni che hanno studiato all’estero, che sono cresciute libere, che sarebbero nelle condizioni di esercitare la loro autonomia, delle ventenni che potrebbero aspirare a fare l’astronauta e non la moglie, che non dovrebbero aver bisogno dei soldi e della tutela di nessuno, come mai – ecco – queste donne sono disposte a sopportare? Perché consentono che si eserciti su di loro la violenza, sottile o radicale? Perché subiscono, perché non si ribellano? I dati parlano chiaro, anche se in questo libro non troverete dati ma solo storie. I dati ci sono, e volumi che li espongono anche. Cinque anni di indagini Istat: nove violenze carnali su dieci non sono denunciate, il 96 per cento delle violenze cosiddette minori sono taciute. 96 per cento, quasi tutte. La vergogna, si dice. Ma anche se fosse solo vergogna: vergogna di cosa? Di non essere abbastanza brave a sopportare? Di non aver saputo adempiere al compito stabilito? Di essere macchiate e indicate dalla riprovazione sociale? La paura, si dice anche.

Ma se vale per chi non ha nulla e teme di perdere quel poco che resta, come si spiega allora l’epidemia di massacri e omicidi nelle classi alte e medio alte, il medico che avvelena la moglie con un farmaco volatile e torna a operare, il direttore artistico del teatro che la bastona e la chiude viva in un sacco per i cappotti, l’imprenditore dotato di auto fuoriserie che istiga i figli a scrivere sul muro del salotto «sei una perdente, mamma: vattene». Perché queste donne non hanno reagito prima, perché hanno lasciato che dentro le mura di casa, in segreto, si esercitasse su di loro una quotidiana umiliazione per poi uscire e tacere, tornare in ufficio e sorridere, andare a scuola a insegnare e dire alle colleghe non è niente, sono caduta, ho urtato contro l’armadio? (...)
Qui però di storie di violenza che conduce alla morte ne troverete solo una e neppure accaduta in Italia: l’omicidio di Marie Trintignant per mano del suo bellissimo e celebre compagno, il cantante idolo della sinistra francese Bertrand Cantat (anche un idolo della sinistra uccide, certo). Le altre sono fiabe (Barbablù, La rateta, la topolina che sceglie di sposare il gatto), sono film (La sposa cadavere, capolavoro di Tim Burton, Ti do i miei occhi di Icíar Bollaín). Sono donne di carta disegnate nei fumetti (Eva Kant) e donne vere che hanno disegnato e scolpito opere meravigliose (Louise Bourgeois, Dora Maar, Lee Miller, Sophie calle, Artemisia Gentileschi). Storie autentiche di anonime donne qualunque e di potenti ministri della Repubblica. Sante e streghe di molti secoli fa, prostitute di questo. Troverete riscritta la storia di Circe, che non era una maga orribile e cattiva ma una donna bellissima che tutti, compreso Ulisse, continuavano solo ad amare e abbandonare. Troverete una galassia piena di scie dolorose e luminose da dove cominciare a rispondere alla domanda: come mai è ancora possibile sopportare tutto questo? Cosa inchioda le donne al dovere o al desiderio di sopportare? Quanto di buono nasce dal dolore quando al dolore si sopravvive? cosa passa dalla mente e dal cuore delle donne che portano, per tutti, il peso della violenza?
Il malamore è gramigna, cresce nei vasi dei nostri balconi. Sradicarlo costa più che tenerselo. Dargli acqua ogni giorno, alzare l’asticella della resistenza al dolore è una folle tentazione che può costare la vita.

Il brano è tratto dal libro di Concita De Gregorio, «Malamore», dal 30 settembre in libreria


 


Pubblicato il: 30.09.08
Modificato il: 30.09.08 alle ore 13.17   
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Le conseguenze della paura

Concita De Gregorio


Cara Unità,
da giorni ed ogni giorno si ripetono episodi di razzismo di una gravità inaudita. La destra al governo, incapace di frenare la perversa macchina della paura instillata per anni nelle teste di cittadini, nega l’evidenza anche di fronte agli episodi eclatanti. Nell’opera di propagazione della paura ha avuto come connivente l’informazione. Una volta innescata la violenza è contagiosa e può dispiegare la sua brutalità, come sta avvenendo. La lotta per estirpare il razzismo dovrebbe cominciare con l’educazione: ma oggi sappiamo la scuola in che mani è.

Mario Sacchi, Milano



Sul nostro giornale Luigi Manconi scriveva ieri che non è il razzismo, in astratto, che va combattuto, ma il dilagare epidemico di episodi di razzismo. Non la teoria ma la pratica. Del resto alla domanda «sei razzista?» pochi (per ora) rispondono sì. Tutt’al più quando gli chiedi perché hai picchiato quel ragazzo cinese dicono: «Boh». Per noia, per divertimento, perché si può, è normale. Dei morti ammazzati di Castel Volturno questo giornale ha pubblicato nomi e cognomi ma sono difficili da ricordare: di solito si dice 6 neri. Si somigliano, no, i neri? Come i cinesi: si somigliano tutti. Eppure il tema non è ancora, oggi, l’odio razziale. Può peggiorare, ci sono tutti i sintomi ma la questione adesso - siamo in bilico - è ancora la spaventosa assuefazione a un linguaggio e a un comportamento violento, quasi sempre inutilmente violento, sciattamente violento e gradasso che si fonda sulla paura dell’invasore straniero. Quello che ti toglie il lavoro, che ti ruba in casa, che si prostituisce sul tuo marciapiede e «diminuisce il valore dell’immobile» in cui vivi, spiegano i sindaci anche di sinistra. Il valore dell’immobile. Lo so, qui scatta l’accusa di moralismo. C’è sempre uno che si alza e dice: la gente ha paura, deve essere protetta. La gente ha paura perché la paura è un’industria, è facile e proficuo alimentarla. La gente ha paura di chi non sta alle regole e spaccia e violenta e rapina, di chi compra coi soldi la sua impunità e ce ne sono di bianchi e di neri che lo fanno, di italiani e di romeni, molti italiani anche illustri. I figli di stranieri nati in Italia sono 400mila. Fra sei anni saranno 1 milione. Sono ragazzi che parlano con l’accento della città dove sono cresciuti, che vanno a scuola - quando sono messi in condizione di andarci - coi nostri figli. Si può strillare, strepitare, picchiare e umiliare chi non ci somiglia ma più che criminale è inutile. Stiamo andando lì, non c’è niente da fare. Bisogna mettere in moto il cervello prima delle mani. La storia va lì e nel mondo, in Europa, siamo fra gli ultimi a sperimentarlo. Le banlieu parigine le abbiamo già viste. Londra e Berlino le conosciamo. L’integrazione non è un tema da affrontare con argomenti sentimentali o retorici. Non c’entrano la solidarietà, la compassione, la giustizia. Anche, certo. Ma prima ancora c’entra la ragione. Imparare a vivere insieme e a rispettarsi serve a noi quanto a loro. Non avremo una sorte diversa, avremo questa e non c’è argine che tenga: non serve urlare nè sparare. Il futuro è la condivisione, le genti si mescolano. Separiamo il bene dal male, non il bianco dal nero. Proviamo ad esercitare il pensiero, persino il pensiero complesso. È un buon esercizio in sé, oltretutto. I bambini sanno farlo, è crescendo che si sciupano. Aiutiamoli. È meglio e per giunta, davvero: non c’è alternativa.

Pubblicato il: 05.10.08
Modificato il: 05.10.08 alle ore 8.35   
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