Concita DE GREGORIO
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Album di famiglia
Concita De Gregorio
La Lettera
Leggo la risposta di Romano Prodi a Berlusconi riguardo alle intercettazioni sul caso Italtel: «Non vorrei che si creasse un caso per cambiare la legge. Le norme attuali servono ai giudici. Si pubblichino pure tutte le mie telefonate». In un´Italia sull´orlo del baratro dove imperversano tentativi di delegittimare la magistratura, di imbavagliare i giornali, di far sparire ogni opinione contraria, di uscire indenni da processi legittimi leggere queste parole mi ha davvero colpito. Ripenso ai viaggi fatti senza autista guidando la propria auto, alle leggi per le quali un capo di governo non può tenere per sé i regali ricevuti in occasione di visite ufficiali all'estero. Di quel modo di andare dritto ai problemi, senza cercare facili consensi e senza illudere nessuno. Grazie Prodi per questo ulteriore e necessario insegnamento. Personalmente ne farò tesoro. Sarebbe bello che accadesse anche a chi ci governa, che ci riflettesse chi dovrebbe fare opposizione.
Mauro Del Nero
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«Si pubblichino pure tutte le mie telefonate» è una frase che qualunque uomo pubblico dovrebbe poter dire. Sappiamo fin troppo bene che non è così ed è d´altra parte anche vero che c´è una differenza fra quel che si dice (al telefono, in privato) e quel che accade poi davvero: c´è una distanza fra l´esibizione di sé e la propria reale consistenza, tra le parole e i fatti. Alcuni millantano, alcuni temono, certi altri blandiscono. Bisogna poi vedere, in concreto, le conseguenze delle minacce e delle promesse: è ovvio. Tuttavia, come scrive Maria Giorgianni da Aversa, la frase di Prodi ci riporta «a quel che ci dicevano da bambini e che ripetiamo ai nostri figli: male non fare paura non avere». I lettori hanno spesso la capacità di andare con poche frasi semplici non le parole della politica, le parole della vita al cuore delle cose. «Prodi ha vinto due volte le elezioni, quando ha perso si è ritirato», scrive Fulvio Sereni da Torino. Una cosa semplice, un fatto. C´è molto bisogno di questo, si vede. C´è bisogno di ritrovarsi sulle questioni elementari, imparare l´alfabeto daccapo e dare un nome ai colori. «Non è caduto nel tranello teso da Berlusconi e dai suoi giornali, non ha scelto la strada facile dell´indignazione, quella che la mia famiglia non si tocca», si chiude la stessa lettera. La difesa della famiglia: la nostra memoria tampone è ormai ridotta alla settimana in corso ma qualcuno ricorda, invece, che sulla moglie di Mastella è caduto il governo. Su quella di Berlusconi, esibita ieri in foto sotto la tenda di Gheddafi, si stringono intese per miliardi di dollari in petrolio. Belle le immagini della signora e del neonato, complimenti. Peccato per il non detto, presidente: pubblicate pure tutte le telefonate, anche le mie.
Pubblicato il: 31.08.08
Modificato il: 31.08.08 alle ore 11.45
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Ingrid e Rita
Concita De Gregorio
Ancora vive. Rita Levi Montalcini e Ingrid Betancourt si raccontano qui, nella penombra di questo corridoio, la gioia di essere ancora vive e dunque di potersi parlare all’orecchio e di stringersi le mani, di sorridersi e di piangere, di chiedersi come si fa a resistere, di dirsi e tu come hai fatto quando c’erano i nazisti? E tu come hai fatto nella giungla? A cosa pensavi, chi pregavi, dove abita la tua forza in questo corpo gracile, e la tua in questo sguardo di luna? Come ti hanno trattata? E a te? Hai avuto paura di morire? Mille volte, anzi sempre, ma invece no alla fine, guarda: no. A pensarci bene non ho avuto paura mai. La vera prigione sono gli altri, sono gli uomini attorno. Vuoi una tazza di tè? Sì grazie. Mostrami il tuo braccialetto d’oro. E tu il tuo, quello di bottoni: è bellissimo. Che donna straordinaria. Che donna straordinaria tu. È stato difficile? Sì, lo è stato. Dimmi del Nobel. No, dimmi piuttosto del tuo.
Sono le cinque del pomeriggio, suonano alla porta. Due mesi prima di essere sequestrata dalle Farc Ingrid Betancourt aveva inviato al premio Nobel il suo libro, «Forse mi uccideranno domani», e le aveva chiesto di incontrarla nel suo imminente viaggio in Italia. Montalcini le aveva risposto che l’avrebbe vista con piacere, avevano stabilito il giorno, fissato in agenda. Poi il rapimento. È stata Ingrid, ora in visita a Roma, a chiedere di poterle fare visita: di mantenere l’impegno. Sono passati sei anni. Oggi Rita Levi è sola in casa con la governante Giovanna, novantenne, e il segretario. Lui apre la porta. Betancourt è con la madre Yolanda. Le due donne si vengono incontro, si abbracciano a metà del corridoio, in penombra. «Sono contenta di essere viva per conoscerla», dice Ingrid all’orecchio dell’ospite. Rita Levi Montalcini si discosta e le sorride, le prende in mano le mani: «Mia cara, sono io che sono contenta di essere ancora viva per conoscerla. Che regalo, non trova? Farò cento anni in aprile. Di meglio non potevo sperare».
Siedono sul divano di velluto giallo, si parlano in francese. «Non sento molto bene purtroppo, il mio udito si è consumato», dice Rita. «Non così il suo sguardo, che è magnifico», risponde Ingrid. «Mi dica, cara. Mi racconti della sua vita nella giungla». «No la prego: prima di parlare di me mi dica di lei. Di cosa si sta occupando, di cosa si occuperà in futuro?». Montalcini racconta delle sue ricerche, del «ngf factor» che le ha dato il Nobel: spiega cosa sia, quali gli sviluppi possibili ma subito torna a ciò che le unisce. Come sia successo tutto questo, come siano arrivate fin qui. «Essere considerata di una razza inferiore è stata la mia forza. Io sono ebrea, durante il nazismo non potevo andare all’università, dovevo nascondermi. Così è stato nella mia camera da letto che ho studiato e che ho scoperto quello che mi ha portata a Stoccolma. In una sorta di prigione, ma pensi che fortuna: non mi importava di morire, mi importava di studiare e di camminare lungo un cammino che continuerà dopo la mia morte. E lei, cara Ingrid: come ha fatto a resistere nella prigione della giungla?». La prigione sono gli altri, dice Betancourt: «La prigione sono gli uomini attorno a te, i loro sguardi, i loro gesti. È proprio così: per sopravvivere non bisogna pensare a se stessi ma agli altri, all’amore di chi è lontano, al dopo. A quel che resta da fare. Dio mi ha dato la forza. Ho trovato la forza nel pensiero dei miei figli, di mia madre». L’hanno trattata bene, chiede con pudore Montalcini. Betancourt abbassa la testa e la scuote. No, non mi hanno trattata bene. «Ho scoperto qualcosa che non sapevo. Un uomo con le armi che ha potere su uomini e donne senz’armi perde l’umanità, la logica, la pietà. Può diventare ignobile, diventa ignobile. La sopraffazione non conosce regole né confini, è assoluta, bestiale. Ma per favore, parliamo di lei non di me. Mi dica: come ha resistito durante la persecuzione nazista?»
Senza avere paura, risponde Montalcini «Essere ebreo o islamico, uomo o donna, di una fede politica o di un’altra non conta: conta come ciascuno agisce. Io ero sicura che sarei morta ad Auschwitz, è un miracolo che non mi abbiano deportata sono salva per caso. Passammo la frontiera a piedi con la mia famiglia e non ci scoprirono. Un caso. Potevo morire ma non ho mai pensato a me, alla mia persona, alla mia morte. Lei ci ha pensato?». Sì, ci ho pensato. «Ero sicura di morire. In certi giorni, terribili, ne sono stata certa ma non me lo sono mai augurata davvero. Mai, nemmeno nei momenti che non posso raccontare. Avevo i miei figli». Come è stato ritrovarli dopo tanto tempo: facile, difficile? «Né l’uno né l’altro: è stato magnifico». Mi mostri il suo braccialetto, adesso: posso vederlo? «Eccolo. L’ho fatto coi bottoni della mia casacca e coi fili della tracolla che regge le armi dei sequestratori. È un rosario. Guardi, può tenerlo, lo tenga. E il suo invece, così prezioso?». Il mio è un bracciale che disegnai per la mia gemella Paola, «poi era troppo pesante per lei, da quando non c’è più lo porto io: guardi, può tenerlo. Ma piuttosto, mi dica. Come ha vissuto questi sei anni?». Betancourt gira il bracciale d’oro e pietre preziose tra le mani, Montalcini tiene il rosario di bottoni: «Ogni giorno, con gli altri prigionieri, ci dicevamo “non lamentiamoci oggi perché domani sarà peggio”». Era vero: è stato sempre peggio. Ho cercato cinque volte di fuggire, cinque volte mi hanno ripresa e dopo è stato molto, molto peggio. Ci si lava nei ruscelli, si mangia dagli alberi, non esiste l’igiene personale, un momento di solitudine: mai». E la speranza? Chiede Montalcini. «La speranza non finisce. È incredibile, è una specie di miracolo ma la speranza non muore davvero mai. Però non voglio affliggerla col mio racconto, mi dica invece: quali sono i suoi progetti?». Il Nobel racconta: «Non dormo, mangio pochissimo, lavoro sempre. Sapendo che la fine deve essere vicina sto approfittando di ogni ora. Il mio cervello è meglio di quando avevo vent’anni. Sto per partire per un convegno in Galilea, un convegno scientifico. Mi occupo dell’istruzione delle donne africane, ho dato seimila borse di studio. E lei? Tornerà a fare politica?». Non subito, non ora, non nella forma che conoscevo prima, risponde Betancourt. «Non posso dire mai più perché mai più ho disimparato a dirlo, è una formula senza senso che dovremmo bandire. Non adesso. Non posso tornare in Colombia, troppi problemi di sicurezza. Non voglio, d’altra parte, dividere i colombiani. Non mi piace la politica che genera odio. Bisogna saper perdonare, piuttosto. Bisogna trovare un altro modo, guardare avanti. Ora quel che devo fare è riprendere in mano la mia vita. Ritrovarla. I miei figli li ho lasciati bambini, lo ho ritrovati adulti. Vivrò tra Parigi e New York, con loro, per un tempo. Proverò a capire qual è il mio posto. La battaglia non finisce, certamente. Ci sono ancora 26 persone sequestrate dalle Farc. Dobbiamo trovare il modo di ascoltare le Farc senza puntare il dito contro di loro. La Colombia non ha bisogno di guerre fratricide. Penso a mio padre, mentre dico questo: mio padre è morto un mese dopo il mio sequestro. Era un uomo straordinario. Avrei voluto che vivesse, come lei, cento anni. Gli devo uno sforzo ulteriore, adesso. Devo lavorare a unire, a cucire: lo farò». Anche a costo di rischiare ancora?, chiede Montalcini. «No, bisogna rischiare senza azzardo», sorride Betancourt mentre le stringe le mani. «Il libro che le inviai si intitolava “Forse mi uccideranno domani”. Lo avrebbero fatto volentieri, lo so con certezza. Avrebbero voluto uccidermi ma non ci sono riusciti. È anche per questo che sono qui oggi. Qui da voi in Italia, da chi mi ha così tanto sostenuta: i vostri giornali, il vostro sindaco di allora Veltroni, la Provincia che oggi mi ospita e che mi tratta come una regina. Non lo merito ma dico, e ne sono certa: non mi hanno uccisa per la pressione internazionale che chiedeva conto di me. Siete voi che mi avete salvata».
Montalcini ha lo sguardo lucido, prende un suo libro intitolato «Elogio dell’imperfezione» - una traduzione in francese - glielo porge. La governante Giovanna ha preparato dei dolcetti di burro. «Io non ho doni per lei, me ne scuso», dice Betancourt. La centenaria le sorride come si fa coi bambini, le stringe il capo tra le mani e la bacia: «Ci sono sessant’anni di differenza, fra noi, eppure mi sembra che non ci sia un minuto. Coraggio, Ingrid, avanti. Non siamo noi che l’abbiamo salvata. Si è salvata da sola. Ciascuno si salva nel coraggio di seguire il suo orizzonte. Lei merita il Nobel più di me. Così bella, così ferma. Ci rivedremo ancora, ne sono certa. Verrò a trovarla a Parigi». A ciascuna il suo bracciale, adesso. Tenga il suo, grazie e lei il suo. A ciascuna la sua vita, la sua storia.
Pubblicato il: 03.09.08
Modificato il: 03.09.08 alle ore 13.02
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Onora la madre
Concita De Gregorio
Sarà un limite, ma mi sfugge del tutto la ragione per cui dovremmo sapere chi è il padre del bambino di Rachida Dati. Sarà un eccesso di discrezione, ma mi fa impressione vedere sulle prime pagine dei giornali le foto di Josè Maria Aznar (un ex primo ministro belloccio, certo dipende dai gusti, comunque un uomo dotato di potere oltrechè di moglie in carica) associato, anzi sovrapposto con indelebile allusione all’immagine del ministro di Giustizia francese e del suo ventre rotondo. Sarà pochezza, sarà anche demagogia che è ormai l’etichetta per ogni sussulto di residuo buon senso ma mi pare che altre emergenze, altre drammatiche permanenze meriterebbero lo spazio dei nostri quotidiani. Poteva esserci chiunque, in quella foto sovrapposta. D’Alema, Schroeder, Putin ma perché non l’idraulico, il vicino di pianerottolo, l’amico d’infanzia. Ecco: perché non l’idraulico? Ma è ovvio: perché ogni donna che acceda a un posto di potere deve essere l’amante di qualcuno. È così rassicurante: conferma l’ordine naturale delle cose. Amante di Sarkozy, per esempio: la soluzione più facile. Che altro motivo avrebbe avuto il primo ministro di Francia di nominarla ministro se non per ripagarla dei suoi favori? Del resto da noi non si usa così? Dati ha detto: “La mia vita personale è molto complicata”. Come quella di chiunque, del resto. Poi: “Non sono malata, continuerò a lavorare”. Tradotto: sono fatti miei e sto benissimo, che c’è da fare oggi? A nome delle migliaia di donne che entrano in sala parto da sole, milioni. A nome di chi non ha mai visto Aznar. Coraggio, è sempre stato così e non può che migliorare. Possiamo farcela.
Pubblicato il: 05.09.08
Modificato il: 05.09.08 alle ore 11.24
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Sulla pelle degli studenti
Concita De Gregorio
Sono un insegnante precario meridionale della scuola statale della provincia di Pordenone apprezzato dai miei alunni e dai loro genitori che ogni anno si battono per la mia riconferma. Dall'anno prossimo sicuramente a causa della riforma del maestro unico non lavorerò più (Sergio Catalano)
Comincia così una lunga lettera che racconta come dal tempo del «maestro unico» i saperi si siano allargati e specializzati, le classi cresciute di numero, la presenza di bambini stranieri aumentata, le risorse per il sostegno ai disabili diminuite ma come intatto resti invece il bisogno di chi ha sei anni o ne ha dieci di essere «seguito dalla presenza costante e attenta di uno sguardo adulto». Inoltre, dice il maestro Sergio, «i bambini di oggi non sono più quelli di vent'anni fa». Non lo sono più, non c'è dubbio, e a nulla servirà imporre loro di alzarsi in piedi quando entra l'insegnante, di mettersi il grembiule col fiocco, di imparare il Padre Nostro per obbligo come propone l'assessore veneto, di andare tutti il 4 novembre alla parata come suggerisce La Russa. È il mondo fuori che è cambiato, il mondo che i bambini delle elementari si portano in aula sugli schermi dei videofonini forniti da genitori ansiosi e assenti, di solito ansiosi in quanto assenti, e che gli insegnanti fino all'altro giorno non potevano sequestrare all'ingresso in classe perché sarebbe stato, appunto, un attentato alla proprietà privata. Intendiamoci. Cambiare la scuola ad ogni cambio di ministro è un'antica tradizione che ha prodotto guasti in ogni epoca e sotto ogni bandiera. L'assemblearismo e le «conquiste di libertà» non sempre hanno garantito progresso.
La decisione di non esporre i quadri coi risultati degli esami «per la tutela della privacy» è semplicemente grottesca, dice per esempio in una lettera il professor Mario Mirri da Pisa. Ha ragione. I miei figli hanno fatto le elementari andando uno in prima a cinque anni con la sperimentazione Berlinguer, uno a sette perché è nato a febbraio e la Moratti stabiliva al 30 gennaio il limite di ingresso, uno col tempo pieno, uno coi moduli, uno con la settimana corta l'altro con la giornata breve. Posso dire con certezza che cambia solo il grado di nevrosi dell'organizzazione domestica. Di nevrosi e di bisogno: una donna su cinque, ci dicono le cifre di ieri, quando fa un figlio smette di lavorare. A parte le implicazioni culturali e sociali (enormi) il danno è economico, vorrei dire a Tremonti: il lavoro femminile, per usare il linguaggio berlusconiano, «muove l'economia». Dal punto di vista della didattica però - dal punto di vista dei bambini - quello che conta non sono i voti né i grembiuli. Sono gli insegnanti, le persone. Va bene il grembiule, ha il vantaggio di non scempiare una maglietta al giorno col pennarello indelebile. Vanno bene i voti, i giudizi, il debito o il credito, l'esame a settembre: è lo stesso. Va bene persino farli alzare quando entra il maestro, se la palestra a scuola non c'è almeno si sgranchiscono le gambe. Dev'essere chiaro questo, però: il taglio di 87 mila insegnanti non ha nessuna motivazione culturale. È il taglio di 87 mila stipendi, tutto qui. È un risparmio giocato sull'unica cosa che in Italia funziona ancora meglio che nel resto del mondo: la competenza la passione e il talento delle persone che lavorano nella scuola elementare. Un governo che fa economia sui maestri è irresponsabile. Fa quadrare oggi conti che pagheremo tutti noi domani. L'unica risorsa di cui disponiamo è il futuro. Risparmiare sulla pelle dei bambini è criminale.
Pubblicato il: 07.09.08
Modificato il: 07.09.08 alle ore 8.33
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Governare col trucco
Sono arrabbiata. Sono fiera di esserlo. La rabbia aiuta a non abituarsi a tutto. Ho sentito le parole del ministro Carfagna. Diceva: «Io provo orrore per le donne che vendono il proprio corpo per denaro». Parlava forse di un suo calendario? No, parlava delle prostitute o meglio: solo di quelle che stanno per strada. Perché non succede niente? Perché non telefoniamo, chiamiamo, bussiamo, usciamo per strada? Forse ci stiamo davvero abituando a tutto.
Laura Guasti, Firenze
Più che altro stiamo cadendo nella trappola magistralmente ordita in anni di politica televisiva da Berlusconi e dai suoi ministri: discutere dei dettagli, attaccarci agli slogan, accapigliarci su una scemenza di facciata senza arrivare mai alla sostanza delle cose. Il grembiule, il voto, la bella cordata di imprenditori che «vuole salvare la compagnia di bandiera», la tassa abolita, l’immondizia sparita, l’esercito per strada che così sei più tranquillo quando esci la sera. Chi non vorrebbe salvare Alitalia, camminare in strade pulite, pagare meno tasse, avere figli che imparano in classe le regole della convivenza e quando tornano a casa che è buio non debbano imbattersi in prostitute abbrutite? La gente di sinistra, forse? E allora che problema c’è: ecco qua il governo del fare, lasciatelo lavorare. La questione, purtroppo, è che è un trucco. È il gioco delle scatole: una bella scatola col fiocco da esibire, l’altra marcia da nascondere. Le tre carte. I limoni legati col nylon alle piante del G8, la calza sull’obiettivo che maschera le rughe. È sempre quel trucco lì, una toppa, e poi via per settimane a parlare del fiocco.
È evidente che lo scopo della proposta Carfagna non è quello di combattere la prostituzione: è un progetto di decoro urbano, il suo. Una questione di ordine, di eleganza dell’inquadratura. L’obiettivo è mostrare strade sgombre di viados. Guardate che pulizia. Se volesse combattere la prostituzione dovrebbe occuparsi della tratta di essere umani, di mafia del commercio sessuale, di chi fa entrare in Italia milioni di ragazzine senza documenti e poi le riduce in schiavitù, di come faccia e di chi glielo consenta. Dovrebbe poi anche occuparsi dell’altra prostituzione, quella tutta italiana e non di strada: la prostituzione «pulita» delle studentesse che ricevono in studi che sembrano quello del dentista e poi la sera vengono a fare la baby sitter a casa tua, ragazze ben pagate e ben consapevoli della loro scelta, del resto motivata dalla richiesta di un esercito di uomini «per bene» che saldato il conto tornano in ufficio. Non lo fa, naturalmente. Allo stesso modo Gelmini esibisce la sua riforma come quella del grembiule e dei voti in pagella, un bel ritorno all’ordine antico: peccato che tagli 90mila posti da maestro e azzoppi la scuola. La scatola vuota e ben ripulita dai debiti della cordata Alitalia, le tasse comunali che cambiano nome, l’esercito che fa la guardia alle discariche ma si dimentica dei treni dei tifosi. È sparita la camorra, a Napoli? Gomorra era uno scherzo? Certo che no, ma conta la foto. Un bell’annuncio, un bel grembiule blu, quattro soldati con la mitraglietta cosa vuoi che sia se poi alle volanti hanno tagliato la benzina. Devono solo stare fermi, tanto. E poi tutti giù a parlare di estetica, pazienza per l’etica.
Concita De Gregorio
Pubblicato il: 14.09.08
Modificato il: 14.09.08 alle ore 8.16
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