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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 134214 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Luglio 29, 2009, 05:11:02 pm »

Il Cavaliere ha invitato Tremonti a «frenare il carattere»

Il Carroccio lancia la sfida sulle regionali

L’offensiva dei lumbard, il premier cerca di trovare un equilibrio grazie al «caso Sud»


ROMA — Il problema per Berlusco­ni non è il partito del Sud ma la compe­tition con la Lega, in uno scontro di li­nea politica e di potere che mette in fi­brillazione il governo, anticipando i tempi di una campagna elettorale per le Regionali di fatto già iniziata. E se do­menica il premier è uscito allo scoper­to sul Mezzogiorno, preannunciando un piano d’interventi, è stato per evita­re che fosse Bossi a dettare l’agenda con la sua sortita sull’Afghanistan, ma anche per mettere quanto più possibi­le la sordina mediatica allo scontro av­venuto a Massa tra ronde di estrema destra e di estrema sinistra. Sulla «lega­lizzazione» delle ronde proprio il Cava­liere aveva espresso dubbi a più ripre­se, temendo rischi di ordine pubblico, ma aveva dovuto sottostare alle richie­ste dell’alleato. Perciò ha premuto l’acceleratore sul­la questione meridionale, per impadro­nirsi della scena, sebbene sia consape­vole che un «piano» ancora non esiste. Infatti il vertice di oggi si preannuncia «al buio», sulla quantità delle risorse da investire e su chi le gestirà.

L’inten­to di Berlusconi era e resta quello di rie­quilibrare i rapporti con la Lega e ridi­mensionare il ruolo di Tremonti nel­l’esecutivo. «Il premier sono io», ha ri­petuto ieri il Cavaliere, che grazie al­l’operato di Gianni Letta — impegnato in un gioco di sponda con il Colle — ha lavorato per modificare le parti del de­creto anti-crisi su cui si è disputato il primo tempo della sfida con la Lega. E con Tremonti. Al titolare di via XX Settembre il pre­mier ha chiesto un atteggiamento me­no conflittuale con i colleghi di gover­no. Per dirla con una battuta che la Gel­mini ha fatto proprio a Tremonti, «tu sei il nostro male necessario». È un mo­do per riconoscergli «capacità» e «ge­nialità». Ma ci sarà un motivo se Berlu­sconi ha invitato il ministro dell’Econo­mia a «frenare il carattere», ad essere «più calmo e tranquillo»: «Devi capire che alla fine le tensioni si riversano su di me. Perché tutti vengono, chi per una cosa, chi per un’altra, a chiedermi d’intervenire».

Così il Cavaliere ha pen­sato di aver chiuso il cerchio, rimpadro­nendosi del primato. Senonché il Carroccio ha giocato al rilancio, aggiungendo al fuoco della po­lemica — dopo l’Afghanistan — anche la riforma scolastica. Perché è vero che sulla missione militare Bossi ha assicu­rato l’appoggio alla linea del governo, tuttavia le perplessità ribadite ieri sulla presenza italiana in quel territorio di guerra hanno destato scalpore, al pun­to che nei suoi colloqui riservati il pre­sidente della Camera si è detto «molto preoccupato», ha definito «ambigua» la posizione della Lega e rilevato che «certi interrogativi, se posti in modo unilaterale, rischiano di indebolire la posizione dell’Italia nella Nato». Come non bastasse, il Carroccio ha chiesto di inserire nella riforma della scuola un test per i professori sulla co­noscenza del dialetto della zona dove chiedono di insegnare, bloccando il provvedimento in commissione alla Camera. È una questione solo all’appa­renza folkloristica, in realtà mira a far presa nel tessuto profondo del corpo elettorale nordista, in vista delle Regio­nali.

Nella competizione la Lega è già pronta e in grado di dar battaglia sui propri temi, mentre il Pdl appare co­stretto a inseguire e muovere sulla di­fensiva. Certo, le mosse del Carroccio sono anche un modo per difendere il mini­stro dell’Economia, che è al centro di un’offensiva concentrica, e in questo senso il compromesso raggiunto sul dl anti-crisi, la decisione cioè di inserire le modifiche in un altro decreto, non possono soddisfare Berlusconi: varare un nuovo provvedimento per correg­gerne uno che non è ancora stato licen­ziato dal Parlamento, è un colpo all’im­magine del governo e soprattutto del premier. Il Cavaliere voleva utilizzare la que­stione meridionale per riprendersi una centralità che aveva perso per via degli scandali sui festini e le donnine. Ora, è vero che il fragore dello scontro nel centrodestra sovrasta il rumore delle polemiche sulla vita privata del pre­mier, ma il costo politico rischia di es­sere alto, perché la maggioranza offre il quadro di una coalizione che non rie­sce ad avere una visione collegiale del Paese, spaccata negli interessi da difen­dere, con un Berlusconi che fatica a es­serne la sintesi. Di qui l’ossimoro co­niato da Fini, che vede una fase in cui regnano insieme «stabilità e incertez­za».

Francesco Verderami
29 luglio 2009

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« Risposta #76 inserito:: Agosto 19, 2009, 12:07:04 pm »

19/8/2009 (7:38) - IL RICHIAMO DEL COLLE

Napolitano: "Aspetto risposte sull'Unità d'Italia dal governo"
 
Il Presidente della Repubblica si dice preoccupato dai ritardi: «Se ho scritto una lettera è per avere chiarimenti»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Di certo avrebbe preferito trascorrere le sue brevissime vacanze leggendo altro - almeno sui quotidiani - piuttosto che lo stillicidio di polemiche distillate dall’estate leghista. I dialetti nelle scuole, i test agli insegnanti, le bandiere regionali affianco al tricolore, la zuffa intorno all’inno di Mameli... Nulla, insomma, che possa aver fatto particolarmente piacere a Giorgio Napolitano, nella sua doppia veste di simbolo e garante dell’unità nazionale e di meridionale e meridionalista convinto. Chi gli sta vicino o fa la spola tra i «palazzi» e la tenuta presidenziale di Castel Porziano giura che il Capo dello Stato si sia a ragion veduta astenuto dall’intervenire. «Non è questione che si possa affrontare con una battuta. Ci sto riflettendo... Del resto - dice il Presidente - il rovescio della medaglia in questione è la situazione del Mezzogiorno e lo stato di estremo disagio in cui versano le nostre regioni meridionali». Di questo parlerà certamente presto, magari anche prima della visita in Basilicata, prevista per i primi giorni di ottobre.

Ma che naturalmente non prenda parte alla discussione in corso non significa che il Presidente la sottovaluti. Fedele allo stile sobrio che ne sta caratterizzando il mandato, si è affidato ai due tradizionali capisaldi della sua azione. Da una parte, una sollecitazione discreta al governo affinché intervenisse, perché considerava impossibile che si tacesse di fronte a certe polemiche. Dall’altra, un’attenzione particolare alle cose concrete, ai fatti, alle azioni con le quali dimostrare - governo, Parlamento e forze politiche - che l’unità del Paese e i suoi simboli sono considerati tutt’oggi un valore da preservare. E c’è appunto una cosa concreta alla quale il Capo dello Stato dedica da settimane la sua attenzione: il programma per le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia.

Qualche settimana fa Giorgio Napolitano prese carta e penna e scrisse una lettera al governo per conoscere gli intendimenti e gli impegni dell’esecutivo per la celebrazione del centocinquantenario: è passato del tempo, e attende ancora una risposta. La lettera era riservata, naturalmente, ma il tenore è facile da immaginare, essendo invece nota un’altra missiva che il Presidente inviò negli stessi giorni al Comitato di Torino per le celebrazioni (era il tempo della polemica sollevata da Galli Della Loggia intorno al centocinquantenario dimenticato). Rallegrandosi per il lavoro di quel comitato, Giorgio Napolitano esprimeva rammarico «per altre iniziative delle istituzioni regionali, locali e soprattutto nazionali che, purtroppo, non si riesce ancora a veder definite». Il tempo è passato, siamo ancora a quello. Ora è previsto che nella prossima seduta di governo il ministro Bondi illustrerà il programma delle celebrazioni. «Magari interverrò allora - dice il Presidente - sulla base di quello che verrà o non verrà fuori».

L’attenzione era dunque già alta, e le forti e recenti polemiche non l’hanno certo abbassata. Saranno, magari, solo i soliti fuochi d’artificio estivi dei «lumbard», ma non si sa mai... Ed è per questo che il Presidente tiene a conoscere il programma di iniziative cui pensa il governo: un programma che, nelle aspettative del Capo dello Stato, dovrà rappresentare - per il suo spessore - la migliore risposta a certe recenti polemiche. Insomma, dire che il Capo dello Stato sia preoccupato, probabilmente è improprio: ma raccontarlo sereno forse sarebbe una bugia. «Se ho scritto una lettera è per avere una risposta - annota -. Ormai siamo a fine agosto, la scadenza comincia a non esser lontana e se in autunno non si stringe... A quel punto saremo arrivati alla fine del 2009, e quindi occorrerà fare tutto nel 2010 perché gli eventi possano regolarmente aver luogo l’anno dopo. I tempi sono molto stretti...». La conclusione? Semplice: il Presidente resta in attesa. «Attendo - dice - una risposta ormai improrogabile dal governo, affinché chiarisca i suoi intendimenti e i programmi in vista del nostro anniversario». Una risposta, certo, alle sue preoccupazioni intorno alle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia; ma anche una risposta ai timori di chi vede quell’unità attaccata e derisa ad ogni piè sospinto.

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« Risposta #77 inserito:: Settembre 05, 2009, 05:12:05 pm »

Strategie

Il Cavaliere vuole trattare con Casini

La prospettiva di un incontro tra i due per mettere fine alle ostilità


Silvio Berlusconi non si fida di Pier Ferdinando Casini ed è sentitamente ricambiato: ecco una buona base di partenza per aprire una seria trattativa politica. L’operazione coinvolge ormai da tempo gli stati maggiori dei due partiti, ma è stato il Cavaliere ad avviarla. In prima persona. Alla vigilia delle ferie estive il premier chiamò il leader dell’Udc, che non restò sorpreso per la telefonata bensì per il tono della conversazione.

«Al rientro dalle vacanze dovremo vederci per valutare alcune cose», disse Berlusconi a Casini. Parole che manifestavano l’intenzione di porre fine alle ostilità e di riaprire un dialogo, liberato però dalle promesse fatue di un tempo, dagli scontri ricomposti con sorrisi a denti stretti. Quando il premier e il leader dell’Udc si incontreranno — perché si sono ripromessi di farlo—siederanno uno dinnanzi all’altro, consapevoli delle proprie forze e delle proprie debolezze. Il gesto del Cavaliere è il segno di un’apertura di credito verso l’ex alleato e al contempo la conferma che il disegno del bipartitismo è tramontato: perciò se il Pd avrà come alleati naturali la sinistra e l’Idv, il Pdl vorrebbe avere al fianco l’Udc per bilanciare la Lega, che è il vero problema strategico per Berlusconi.

Gli sherpa si muovono con prudenza e riservatezza: Gianni Letta ha inviato alcuni emissari del premier da Casini; Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello si sono incontrati con i centristi alla fine di luglio. Franco Frattini è della partita. Altero Matteoli si spende per la causa. Ma è chiaro che dietro tutti c’è la regia del premier, deciso al passo. Come sempre, quando il realismo politico dettato dai numeri glielo impone. Perché le Regionali saranno la madre di tutte le elezioni, da quel voto dipenderà lo sviluppo della legislatura, e uno studio dimostra che i centristi saranno decisivi per la vittoria di sette governatori su tredici.

«Tornare insieme si può, l’Udc non è più un pericolo», è la tesi del Cavaliere. Ma un accordo politico che addirittura preveda un ritorno all’antica alleanza è per ora impensabile, controproducente per entrambi. Troppi rischi per il premier, a fronte delle tensioni che potrebbe scatenare nei rapporti con la Lega, e anche per via dell’ostilità ancora forte di una parte del Pdl, contraria a un nuovo patto con l’Udc.

Nemmeno Casini ha interesse in questo momento a una simile intesa. Intanto non si fida, «non mi fido del tutto», ha confidato ad alcuni prelati. Poi vuol capire se la crisi nelle relazioni tra Berlusconi e il mondo cattolico si ricomporrà o si acuirà, così da lucrare consensi. E soprattutto non ha interesse a modificare oggi una strategia che gli ha consentito di crearsi uno spazio politico fra Pdl e Pd, e di consolidare il proprio elettorato.

Per ora l’Udc non si muove. «A Berlusconi non chiediamo parole né tantomeno poltrone», dice infatti Casini: «Noi chiediamo fatti, fatti politici. E la linea che lui ha assunto in queste settimane ci allontana». In surplace, attende segnali chiari dal Cavaliere, che è intenzionato a sottoscrivere un patto sulle Regionali con i centristi «anche senza un accordo complessivo», come ha spiegato l’altro ieri in Consiglio dei ministri. Ma entro l’autunno anche Casini dovrà rompere gli indugi. Perché se è vero che fra un anno sarà l’ago della bilancia nella sfida elettorale tra Pdl e Pd, è altrettanto vero che in base alle sue scelte si capiranno le intenzioni dell’Udc in vista delle Politiche, cioè quali saranno i suoi futuri alleati. Da che parte allora farà pendere il piatto della vittoria Casini? Verso il centrodestra o il centrosinistra?

È la mossa che rivelerà la strategia dell’ex presidente della Camera, che in molti dicono tentato dal giocare la partita del dopo-Berlusconi. Una partita a medio-lungo termine che partirebbe da un graduale riavvicinamento agli ex alleati attraverso intese parlamentari su alcuni temi importanti: dal testamento biologico alla giustizia. Senza dimenticare l’accordo per le Regionali, che — come ha detto il Cavaliere — può essere anche valutato «caso per caso ». Ma non a caso.

E infatti negli ultimi tempi Casini si è fatto più prudente circa un accordo in Puglia con Massimo D’Alema. Complice la crisi politica (e non solo) del centrosinistra nella zona, ha frenato i suoi: «Non faremo i crocerossini». E a Raffaele Fitto, incontrato sotto l’ombrellone, ha aggiunto: «Evitiamo di farci del male». Per evitare di restare ingabbiato in uno schema, tiene però le mani libere nel Lazio, altra regione cruciale nella sfida tra Pdl e Pd, e dove il voto cattolico sarà determinante.

Perciò il premier corteggia i centristi, come solo lui sa fare. E dire che il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, lo conosce da anni, eppure è rimasto ancora una volta colpito dalle lusinghe del Cavaliere, tanto da averlo confidato a un amico: «Tempo fa mi squilla il telefono. È Berlusconi. Mi dice: "Caro Lorenzo, come stai? Mi è dispiaciuto per l’attacco che hai subito dal Giornale. Per te infatti è stato cambiato il direttore"».

Francesco Verderami
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« Risposta #78 inserito:: Settembre 08, 2009, 06:59:07 pm »

Silvio e Gianfranco

I fondatori del Pdl separati in casa

Temi etici e immigrazione Rapporti interrotti da mesi tra i due «cofondatori»


A Fini non piace il modo in cui Berlusconi gestisce l’azione di governo e il partito. Al premier non piace come il presidente della Camera interpreta il suo ruolo istituzionale. Sono anni che «Silvio» e «Gianfranco» conducono una vita da separati in casa, ognuno a criticare l’altro per i suoi vizi.

Insomma è una storia antica, che ogni tanto torna d’attualità per il ru­mor di piatti. L’editoriale che Feltri ha pubblicato ieri sul Giornale con­tro il «compagno Fini» ha reso ma­nifesto lo scontro tra i «cofondato­ri » del Pdl che nei giorni scorsi si era riacceso, da quando la terza cari­ca dello Stato si era espressa a favo­re del voto amministrativo per gli immigrati e aveva invocato «modi­fiche » al testo della legge sul testa­mento biologico da parte della Ca­mera. Non è un caso se ieri il Cavaliere — smentendo le sue smentite — ha pubblicamente bocciato la linea di Fini su questi due temi, difenden­do il testo votato dal Senato sul te­stamento biologico che il presiden­te della Camera aveva definito «cle­ricale ». In più — per coprire l’offen­siva di Bossi — ha rassicurato il pro­prio elettorato, annunciando che «il centrodestra non cederà mai» sul voto agli immigrati, «un subdo­lo stratagemma comunista». È chia­ro che Berlusconi non si rivolgeva alla nuora, cioè al Pd, ma alla suoce­ra- Fini. E dunque, sarà pur vero — come ha sottolineato con una nota in serata — che non gli è piaciuto l’articolo del direttore del Giornale, ma è altrettanto vero che Berlusco­ni non è disposto a compromessi, e che difenderà ad ogni costo e con ogni mezzo la propria impostazio­ne politica nel governo e nel Pdl. Non è dato sapere se si tratti di una vera e propria resa dei conti con l’ex leader di An, se davvero ci sono delle analogie con il «caso Bof­fo » come sostengono i finiani.

Di certo i rapporti tra palazzo Chigi e Montecitorio sono interrotti da pri­ma dell’estate, tanto che La Russa — ambasciatore nelle relazioni tra «Silvio» e «Gianfranco» — già allo­ra ammetteva di essere «tempora­neamente un disoccupato». Il sorri­so di quei giorni è scomparso ora dal volto del ministro e coordinato­re del Pdl, preoccupato per l’andaz­zo, perché — così ha confidato ad alcuni deputati - «tanti piccoli inci­denti finiscono spesso per creare un grande problema». Berlusconi invece sembra non cu­rarsi di aprire un altro fronte, per di più con Fini. È stanco, «sono stan­co — ha detto — di certe situazio­ni ». E c’è un motivo se nei suoi col­loqui riservati ha messo a raffronto «l’atteggiamento istituzionale» del capo dello Stato con quello del pre­sidente della Camera, se ha rilevato una grande differenza tra il Napoli­tano che si reca nelle zone terremo­tate d’Abruzzo per evidenziare co­me ci sia «fiducia nelle istituzioni», e il titolare di Montecitorio che par­tecipa ai dibattiti pubblici «per fare il controcanto» al governo. Finora il Cavaliere si era limitato a qualche battuta su Fini, che «alla Camera è sempre seguito da sette commessi in guanti bianchi, men­tre a palazzo Chigi io ne ho uno so­lo ». Finora era riuscito a trattener­si: «L’abbiamo eletto lì? Facesse il suo mestiere». Mesi fa, quando non era ancora esploso il «caso Noemi», «Silvio» non aveva dato credito a un racconto su «Gianfranco», che — parlando della corsa al Colle — avrebbe detto: «Se si andasse a vota­re per il Quirinale, chi pensate che avrebbe più voti tra me e Berlusco­ni? ». «Non ci crederei nemmeno se l’avessi ascoltato con le mie orec­chie », aveva tagliato corto il pre­mier. Oggi che tutto è cambiato, oggi che — per dirla con il coordinatore del Pdl Bondi — avverte il clima del «tutti contro uno», oggi il Cavaliere è deciso a chiarire quali sono i rap­porti di forza nel governo e nel par­tito. È la logica «cesarista» e del «pensiero unico» che Fini ha sem­pre osteggiato, ma la sua linea è sempre più minoritaria nel Pdl.

«So­no tutti con me», sostiene Berlusco­ni, che sulle candidature per le Re­gionali vuol parlare da solo con Bos­si, che sull’alleanza con l’Udc vuole trattare da solo con Casini. Con Fini non è restato nulla, nemmeno il «pranzo del martedì», che sarebbe dovuto diventare un appuntamen­to settimanale e che si è tenuto in­vece solo un paio di volte. Il pugno di ferro è il segno che il premier intende giocarsi il tutto per tutto di qui alle elezioni dell’an­no prossimo, consapevole che — superato quell’appuntamento — non ci saranno altri ostacoli fino al­la conclusione della legislatura. La frattura con l’altro «cofondatore» potrebbe però provocare dei proble­mi nel Pdl, una perdita di consensi che il «caso Boffo» — secondo i sondaggi — non ha provocato con l’elettorato cattolico. Il rischio è un effetto straniamento del popolo di centrodestra e una tensione che po­trebbe evidenziarsi in Parlamento. Ma il vero punto è che Berlusco­ni ha colto in questi mesi le prime operazioni di quanti mirano alla sua successione, alla stagione in cui non sarà più ricandidato a palaz­zo Chigi. È una partita lunga e dagli esiti al momento imprevedibili, tut­tavia non c’è dubbio che l’operazio­ne di posizionamento, dentro e fuo­ri il Pdl, sia già iniziato. Finora il premier aveva saputo come controbattere, in certi casi aveva anche usato l’arma dell’iro­nia. All’indomani del malore che lo colse sul palco di un comizio, e che sollevò seri interrogativi sul suo fu­turo in politica, il Cavaliere incro­ciò casualmente Rutelli all’aeropor­to di Ciampino. Siccome era al tele­fono, chiese all’esponente di centro­sinistra di attenderlo «qualche istante»: «Finisco subito», sussurrò mettendo la mano davanti al cellu­lare. Rutelli, desideroso di aver noti­zie sulle sue condizioni di salute, si sedette per aspettarlo. Un paio di minuti dopo vide arrivare Berlusco­ni, a passo spedito e con un largo sorriso sulle labbra: «Scusa France­sco, stavo parlando con Fini. Gli ho detto che per prendere il mio posto dovrà attendere ancora».

Francesco Verderami
08 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #79 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:39:50 pm »

Dietro le quinte

 Il Cavaliere e il sondaggio su Fini «Non andrebbe oltre il 4%»

Il capo del governo studia le contromosse


Berlusconi sa che non è finita e non finirà, che i media insisteranno sui festini e le donnine, che le vicende giudiziarie torneranno a lambirlo, che «i miei nemici» — come definisce l’indistinta coalizione di interessi a lui ostile — cercheranno di tenerlo sotto pressione.

Ma la variabile oggi è Fini. Perché se da una parte il Cava­liere è certo che il presidente della Camera continuerà a di­stinguersi - tenendo in fibrilla­zione governo, partito e mag­gioranza - dall’altra non riesce ancora a capire quale sia il vero obiettivo del «cofondatore» del Pdl. Era scontato che il premier lo accusasse di «tradimento», «ingratitudine» e «slealtà» do­po il suo discorso di Gubbio. Così com’era chiaro che l’ex lea­der di An avrebbe pubblicamen­te detto ciò che da tempo spie­gava nei colloqui riservati: e cioè che «Berlusconi per difen­dersi si è consegnato nelle ma­ni di Bossi», che «il Pdl è ridot­to a una sorta di Forza Italia al­largata », che «se spegnessero la luce nella stanza del governo e lì dentro ci fosse Tremonti non si sa cosa gli accadrebbe».

È vero che il tema sollevato da Fini sulla vita interna del nuovo partito è assai sentito, persino il capogruppo Cicchitto - subito dopo il congresso - so­steneva che «d’ora in poi la de­mocrazia telefonica usata da Berlusconi in Forza Italia non potrà più bastare». Ma a Gub­bio Fini si è spinto oltre, criti­cando la politica dell’esecutivo e - secondo il premier - «ali­mentando speculazioni» sul de­licato tema delle inchieste di mafia. I tentativi di rattoppo non hanno nascosto lo sbrego, semmai l’hanno reso più evi­dente. In più Bossi è tornato ad attaccare in modo veemente il presidente della Camera, con il quale - dopo il varo del decreto sicurezza - aveva tentato di stringere un accordo, se è vero che era andato a trovarlo di per­sona a Montecitorio: «Gianfran­co, tienimi fuori dalle tue be­ghe con Silvio. Io non c’entro nulla e non voglio finirci in mezzo». Non è andata così.

E comunque resta senza ri­sposta l’interrogativo del Cava­liere: dove vuole arrivare Fini? Finora sono state valutate due ipotesi. La prima è quella che il premier definisce «la sindrome da Elefantino», riferimento alla lista presentata da Fini alle Eu­ropee del ’99, e con la quale l’al­lora capo di An provò a conqui­stare la leadership del cen­tro- destra. Quell’operazione fal­lì. E fallirebbe anche stavolta, a detta di Berlusconi, che ha com­missionato subito un sondag­gio per rilevare l’appeal elettora­le dell’alleato: «Se si presentas­se con una sua lista e con le sue idee, non andrebbe oltre il 4%». Ma prospettive di terzo polo non ce ne sono, anche Monteze­molo ha voluto mettere a tace­re i boatos. Inoltre Fini non in­tende «ballare da solo», sebbe­ne si senta solo nel Pdl. Tanto che la mattina dell’attacco di Feltri sul Giornale notò che nemmeno Gianni Letta l’aveva chiamato per solidarizzare.

C’è allora l’altra ipotesi: quel­la cioè che Fini immagini un precipitare degli eventi per fat­tori al momento non noti. La sentenza della Consulta sul «lo­do Alfano» è vissuta nel Palaz­zo come una sorta di sentenza sulla legislatura. Però non ba­sta a spiegare tutto. Eppoi «io non me ne andrò mai, mai», ri­pete il Cavaliere, conscio che la sua immagine internazionale è irrimediabilmente rovinata, ma forte del consenso nel Paese. Anche i dirigenti del Pd l’hanno constatato nel primo rilevamen­to riservato che hanno ricevuto da Ipsos dopo la pausa estiva. Nonostante le polemiche e gli scandali, da luglio a settembre Berlusconi ha perso solo un punto nell’indice di fiducia (50,7%), restando davanti a tut­ti gli altri leader, anche loro tut­ti in calo. Di più: il Pdl, in trend positivo da luglio, è arrivato al 38,2%. E la forbice nelle inten­zioni di voto per coalizioni è au­mentato di un punto e mezzo, con il centrodestra oggi al 49,4% e il centrosinistra al 37,9%.

«E allora: cosa devo chiarire con Fini?», s’infuria il Cavalie­re. Forse il premier dovrebbe valutare una terza ipotesi, esa­minata da alcuni dirigenti del Pdl. È un altro scenario, non quello del «Fini contro Berlu­sconi », ma quello del «Fini do­po Berlusconi», magari logora­to dagli attacchi. Ecco la sfida. Ecco la scommessa

Francesco Verderami
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« Risposta #80 inserito:: Settembre 13, 2009, 12:12:09 pm »

Il retroscena

La solitudine del «cofondatore»

In attacco per uscire dall’angolo

Ha legami con i leader europei da Sarkozy a Cameron. Ma non può bastare


Aznar l’ha indicato come «il successore» di Berlusconi, la Pelosi l’ha invitato a Washington, in Israele è atteso per un discorso alla Knesset, ma nel suo partito Fini è confinato alla marginalità.

Colpisce questo fenomeno politico, che fa del presidente della Camera un vero e proprio caso. In lui si toccano gli estremi, anche nei sondaggi, dove l’ex leader di An gode di giudizi positivi elevati che però non si traducono consensi, se è vero che Berlusconi l’ha testato «e da solo non va ol­tre il 4%». Al congresso del Pdl strappò i maggiori applausi, i più convinti, tranne aver dovuto constatare — dopo il battima­ni — che molti l’avevano abbandonato. E non c’è dubbio che l’offensiva contro Berlu­sconi sia figlia dell’isolamento in cui si sen­te relegato dal premier.

È per uscire dall’an­golo che Fini ha deciso di uscire allo scoper­to, perché — sostiene — «i patti non sono stati rispettati», perché essere «cofondato­re» del Pdl significa avere un ruolo, impor­rebbe al Cavaliere di condividere le scelte. Non certo di concordarle solo con Umberto Bossi. Ecco cosa voleva dire Fini quando ha ri­velato una parte della conversazione telefo­nica con il premier: «Lui mi ha detto che non è stato fatto nulla». Non è così secondo il presidente della Camera. Giusto perché il tema delle candidature alle Regionali è di at­tualità, delle scelte passate sul Friuli, l’Abruzzo e la Sardegna, Fini ha saputo dal­le agenzie di stampa. E non accetta di sentir­si dire che «i tuoi erano a conoscenza, caro Gianfranco». Anche perché molti di quei «tuoi» non li considera più suoi da tempo: «Ci sono più berlusconiani in An che in For­za Italia» sussurrò preveggente anni fa.

Non parla più con nessuno (o quasi) dei dirigenti del Pdl. Il premier, che aveva pro­messo di vederlo a pranzo ogni martedì, nemmeno lo chiama. Ed è davvero singola­re per una personalità che intesse relazioni con il mondo delle imprese e con i leader internazionali. Almeno i rapporti con Carlo De Benedetti non glieli potrà contestare, Berlusconi. Perché quando il Cavaliere fu sul punto di mettersi in affari con l’Inge­gnere, per festeggiare la riconciliazione gli regalò un libro: «L’amico ritrovato» di Fred Uhlman. Con tanto di dedica. Certo, parlare ora al presidente del Consiglio dell’editore di Repubblica non è il caso. Però è normale che Fini incontri Montezemolo, discuta con banchieri e finanzieri.

L’anomalia sta nel vuoto che vede attor­no a sé in politica. Segue con interesse l’at­tività della sua fondazione, ha legami con la gran parte dei leader europei, da Sarkozy fino a Cameron, a ognuno dei quali ha scrit­to la prefazione dei loro libri nella traduzio­ne in italiano. Ma non può bastare a Fini, se poi non è profeta nella sua patria. Il Pdl, che nacque come una fusione tra due azien­de. E lui — per quanto avesse la quota di minoranza — voleva e vuole avere una par­te nelle decisioni. È dura se il socio di mag­gioranza si chiama Berlusconi. Ma si è vi­sto cos’è successo a Gubbio. Fini ha impu­gnato il bilancio e contestato la governan­ce. Il Cavaliere dice che «non c’è niente da chiarire», mentre gli uomini di Fini avvisa­no che cinquanta deputati potrebbero farsi gruppo in Parlamento e chiedere di sedere il lunedì alla cena di Arcore accanto al Sena­tùr.

Non è questo però il percorso che l’ex leader di An aveva immaginato. Da quando si è legato alla nuova compa­gna, la sua vita è cambiata: è più riservato, molto casalingo. Frequenta il vice capo­gruppo vicario del Pdl alla Camera, Bocchi­no, ed è stretto a un rapporto di amicizia con la presidente della commissione Giusti­zia di Montecitorio, Giulia Bongiorno. Poi ci sono i neo fedelissimi, come Granata, che ieri — così riporta l’ Unità — ha annun­ciato di aderire «sostanzialmente» alla ma­nifestazione per la libertà di stampa. Ed è sulla «libertà» che Fini sta scrivendo un pamphlet, in coincidenza con l’anniversa­rio della caduta del Muro. La prefazione sa­rà di Berlusconi?

Francesco Verderami
13 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #81 inserito:: Settembre 14, 2009, 11:54:02 am »

Il centrodestra

Doppio test per Berlusconi tra Lodo Alfano e Regionali

Fini: ma l’attesa messianica di quella sentenza è fuori luogo


E dire che Berlusconi voleva sponsorizzare l’operazione di Casini e Rutelli. Si offrì tre mesi fa all’ex leader della Margherita durante la festa della Guardia di finanza. Quando il Cavaliere vide il presidente del Copasir sul palco delle autorità, lo chiamò accanto a sé: «Vieni, Francesco. Mettiti qui, tra me e Gianni Letta».

Rutelli non fece in tempo ad avvicinarsi, che il Cavaliere gli sussurrò all’orecchio: «Per un giovane che deve fare un nuovo partito c’è bisogno di un po’ di pubblicità.
Fa sempre comodo». Accadde tutto in pochi istanti, l’ex capo della Margherita scorse la minaccia dei fotografi e si sco­stò un attimo prima che al suono dell’inno nazionale venisse im­mortalato accanto al premier. Più tardi Berlusconi tornò a proporsi al dirigente del Pd come testimonial, usando l’arma del­l’ironia. «Dovremmo vederci. Lo dico nel tuo interesse. Sai, ho ac­quistato una scultura di tuo non­no Mario: è bellissima. L’ho mes­sa a Villa Certosa. Vieni a trovar­mi. Magari organizziamo anche un bel matrimonio tra l’avvocato Mills e Noemi». E Rutelli, licen­ziandosi: «Se ci incontrassimo al bar del paese, daremmo meno nell’occhio».

Insomma è da tempo che il Ca­valiere avverte il tramestio di Pa­lazzo, e scruta le manovre di chi lavora con l’obiettivo di succeder­gli. Sa di non aver rivali, tranne il tempo che passa. E le battute — come quelle con Rutelli — gli ser­vono per celare un tormento inte­riore che a volte gli fa perdere lu­cidità, e politicamente lo spinge ad arroccarsi con la Lega. Ma il Carroccio ha un costo, e il conto sta per essergli servito con le can­didature alle Regionali. Perché è questo il vero tornan­te della legislatura, ed è inutile prefigurare al momento assetti e alleanze future. L’ipotesi di elezio­ni anticipate l’anno prossimo non regge, né sarà la Consulta sul «lodo Alfano» a dettare i tem­pi e l’agenda politica, se è vero che Fini ritiene «fuori luogo l’at­tesa messianica per quella senten­za».

Saranno le Regionali la vera sfida: se il premier le perderà, le fibrillazioni aumenteranno al punto da minacciare la stabilità del governo; se invece le vincerà, allora non ce ne sarà più per nes­suno. E per vincere Berlusconi fa affidamento sull’asse con Bossi. Ecco spiegata l’ union sacrée che oggi tiene insieme — per mo­tivi diversi — Fini, Casini e Rutel­li. È la battaglia per evitare quella che l’ex capo della Margherita de­finisce «l’Opa della Lega sul Nord». Se il Senatùr ottenesse i candidati governatori per il Pie­monte e il Veneto, e riuscisse poi a conquistare quelle Regioni, non solo metterebbe le basi per garantirsi il primato sull’intero Settentrione, ma avrebbe un po­tere di veto e di controllo anche sul governo nazionale, come mai avuto prima. Ed è su questo tema che il pre­sidente della Camera incalzerà il Cavaliere. Nelle vesti di «con­fondatore » del Pdl gli chiederà «in che modo intende risponde­re alle pretese» di Bossi. Fini non mette certo in discussione l’alleanza, che gli appare però «squilibrata», a causa del «con­flitto d’interessi politico di Ber­lusconi, contemporaneamente capo del governo e capo del par­tito », un duplice ruolo che all’ex leader di An ricorda il «De Mita premier e segretario della Dc» degli anni Ottanta. Il «conflitto d’interessi politi­co » gli serve per sviluppare un ra­gionamento che ruota attorno al nodo del «rapporto privilegiato di Berlusconi con la Lega»: «Oggi questo rapporto da una parte è un’assicurazione sulla vita per il governo, ma dall’altra rischia di essere la pietra tombale del Pdl». E allora, il premier è dispo­sto a mettere a repentaglio il par­tito che ha appena fondato, pur di concedere al Carroccio più di quanto gli spetti, in base ai rap­porti di forza?

Perché «se si vuo­le parlare in termini di quote» — argomento usato per zittirlo nel Pdl — «in termini di azione di governo, di iniziative politi­che », è evidente agli occhi di Fi­ni come la Lega abbia conquista­to spazi che gli sono stati lasciati per evitare tensioni nell’esecuti­vo. Da Berlusconi attende rispo­ste, «Silvio si illude se pensa di eludere questi nodi». Oggi l’obiettivo del presidente della Camera è dunque diverso da quello di Rutelli e Casini, gio­ca dentro il perimetro del centro­destra attuale, mira a contrastare l’avanzata del Carroccio con l’in­tento di rilanciare il Pdl e riequili­brare la coalizione. Difficile capi­re come si chiuderà la partita: ma­gari il Cavaliere sfrutterà la mos­sa del presidente della Camera per chiedere a Bossi di ridimen­sionare le richieste. Il resto sono solo manovre di posizionamen­to. Come dice Rutelli, «si vedrà» se in futuro ci saranno nuovi as­setti. Intanto si notano i primi se­gnali. Quando Fini, alla kermesse dell’Udc, ha parlato della necessi­tà di un «bipolarismo europeo», ha fatto capire che «l’attuale bipo­larismo non è l’unico possibile».

Tutto è fermo, finché c’è Berlu­sconi. E tutto è in movimento in vista del dopo-Berlusconi. Il Ca­valiere resta comunque una varia­bile imponderabile. «Nel 2005— come ricorda Rutelli — lo dava­no per morto e non era vero. Quattro mesi fa lo davano per eterno e non era vero». Prossimo bollettino medico alle Regionali.

Francesco Verderami
14 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #82 inserito:: Settembre 14, 2009, 05:37:11 pm »

«Patti tra mafia e pezzi dello Stato? Nel ’93 Forza Italia non era ancora nata»

Dell’Utri: sdegnato, cercano fantasmi Puntano a me per colpire il Cavaliere


ROMA — «Vogliono colpire me per colpire Silvio Berlusconi, sono la pedina usata per arrivare al presi­dente del Consiglio. È un’operazio­ne evidente, direi quasi smaccata, un rigurgito giudiziario, l’estremo tentativo di abbattere il capo del go­verno. Ma sarà un altro tentativo vano: non ce l’hanno fatta finora, non ci riusciranno nemmeno sta­volta ». Ancora vicende di mafia e di politica, ancora la storia delle stragi tra il ’92 e il ’93, ancora una verità da ricercare, ancora la Sicilia con i suoi pentiti, ancora il nome di Marcello Dell’Utri al centro di nuo­ve inchieste.

Il senatore del Pdl se l’aspettava, «c’era da aspettarselo», ed è «sde­gnato » per quanto sta accadendo. Sebbene si senta «tranquillo con la mia coscienza», teme che la vicen­da possa provocare un contraccol­po sul processo d’appello per mafia che lo coinvolge «e che si sta con­cludendo ». In primo grado è stato condannato a nove anni, e le «novi­tà » che sono emerse «potrebbero influire sulla corte»: «Perciò le pre­sunte rivelazioni, che poi sono in­venzioni allo stato puro, sono un si­luro alle mie coronarie».

Magari anche a quelle del pre­mier, con il quale Dell’Utri ha af­frontato l’argomento questionan­do proprio «di salute»: «Nel senso che abbiamo convenuto sulla ne­cessità di non farci fagocitare da certi eventi, di non somatizzarli. Al­trimenti un risultato il nemico lo raggiunge, quello di farci ammala­re. In fondo si tratta di cose trite e ritrite, accuse identiche furono ipo­tizzate già quindici anni fa e venne­ro archiviate per l’inconsistenza delle prove. Stanno cercando fanta­smi».

Ha ascoltato il discorso pronun­ciato ieri da Gianfranco Fini, il suo riferimento alle nuove inchieste sulle stragi da parte della magistra­tura, l’appello rivolto ai dirigenti del Pdl di «non dare mai l’impres­sione di non avere a cuore la legali­tà e la verità», «e sono completa­mente d’accordo con il presidente della Camera, è giusto — spiega Dell’Utri — che si indaghi per arri­vare alla verità su quegli anni. Si parla di patti tra la mafia e pezzi del­lo Stato? Bene, ma di quale Stato?». Perché questo è il punto, secon­do uno degli uomini più fidati del Cavaliere, «perché nel ’93 Forza Ita­lia non era ancora nata, e Berlusco­ni — che allora era solo un impren­ditore — fino all’ultimo provò a convincere i Popolari di Mino Mar­tinazzoli ad allearsi con la Lega, per non consegnare il Paese ai comuni­sti. Insomma, a quei tempi noi non eravamo in politica, e lo Stato era rappresentato da altri. Nei mesi scorsi ho letto che sono stati tirati in ballo Luciano Violante e Nicola Mancino. Loro c’erano nel ’93. Sia chiaro, con ciò non voglio accusare nessuno, anzi non credo alle illazio­ni che sono state fatte sul conto del­l’ex presidente della Camera e sul­l’attuale presidente del Csm. Piutto­sto dà l’idea di come si procede sul­l’accertamento della verità».

Su Fini, dunque, nessun «cattivo pensiero». Dell’Utri esclude «in mo­do categorico» che le «fibrillazio­ni » nel centrodestra siano legate ai «rigurgiti giudiziari»: «Nel Pdl so­no scosse di assestamento dopo la nascita del nuovo partito. È natura­le, vista la complessità del passag­gio. Tra Fini e Berlusconi si tratta di scosse politiche, dal profilo an­che umano...». Come dire che se lo sono date quando erano alleati e continueranno a darsele da «cofon­datori », che stanno insieme anche se non si sopportano. «Ma fa parte del gioco».

«Tutt’altra storia l’operazione giudiziaria che mira a eliminare il premier, un personaggio geniale che i suoi nemici non possono capi­re nemmeno nei suoi difetti. Ma è inutile che si dannino: Silvio non è abbattibile». «Nemici», ripete sem­pre il senatore, che non concede mai il termine avversari, e vede nel­le inchieste giudiziarie lo strumen­to «ripetutamente usato per scon­figgere » il Cavaliere. Perciò dice di «comprenderlo» quando Berlusco­ni «si sfoga» contro le «toghe politi­cizzate ». E non è affatto stupito dal modo in cui Giorgio Napolitano svolge il suo ruolo istituzionale, in­tervenendo — come ha fatto ieri— per invitare alla «moderazione» il Csm: «Il capo dello Stato si sta com­portando veramente bene. È un gran signore».

Assai diverso il giudizio sui «ne­mici » del premier, catalogati come «quelli che non ci stanno, quelli che lanciano appelli e raccolgono firme contro il presidente del Con­siglio, quelli che nei loro giochi di potere non pensavano mai di ve­dersi la strada intralciata da Berlu­sconi ». La lista è lunga: «Partiti po­­litici, poteri cosiddetti forti e maga­ri occulti, editori, imprenditori, fi­nanzieri... C’è la fila di chi lo vor­rebbe mandare a casa. Si mettano il cuore in pace. Silvio non mollerà mai».

Nemmeno — così anticipa — se il Cavaliere rimanesse esposto alle intemperie giudiziarie per l’abroga­zione del «lodo Alfano» da parte della Corte Costituzionale: «Vedre­mo cosa deciderà la Consulta, ma a prescindere dalla sentenza non ci saranno conseguenze politiche. Berlusconi non passerà la mano, procederà con l’azione di governo. Niente scossoni, niente elezioni an­ticipate. C’è ancora tanto da fare».

Se così davvero fosse, se le previ­sioni del senatore del Pdl si rivelas­sero esatte, la sfida per il dopo-Ber­lusconi somiglierebbe a una lunga volata, «e infatti chi pensasse oggi di essere in prossimità del traguar­do, farebbe meglio a ritirarsi. Il tra­guardo è lontano, siamo solo a me­tà gara, c’è ancora da scalare un gran premio della montagna. Non è giunto il momento dello scatto, quando verrà anche Silvio si prepa­rerà ». Come «si preparerà»? Non è forse questa l’ultima corsa del Cava­liere? «Può darsi», sorride Dell’Utri: «Ma non è detto. Perciò dico che tutti dovrebbero mettersi il cuore in pace».

Francesco Verderami
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« Risposta #83 inserito:: Settembre 16, 2009, 03:36:24 pm »

Tensioni nel pdl

Fini e l’incontro rifiutato col Cavaliere

Il presidente della Camera: «Non vado a Canossa». E Bossi lo chiama


Il paradosso è che Fini parla con Bossi e non con Berlusconi. D'altronde, quando il «cofondatore» del Pdl porta in tribunale il direttore del giornale del fratello dell'altro cofondatore, cosa potrebbero dirsi oggi «Silvio» e «Gianfranco»? Nulla hanno da dirsi, l'ha spiegato l'ex leader di An a Gianni Letta, che tenta di co­struire un ponte tra le macerie di un rapporto ormai logoro, e che ha cercato di convincere Fini ad accettare un «incontro riservato» con il premier. «A parte il fatto che Silvio non rie­sce mai a tenere nulla di riser­vato — è stata la risposta del presidente della Camera — se poi si venisse a sapere che l'’ho incontrato, sembrerebbe che io sia andato a Canossa». Paro­le che confermano come la frattura con il Cavaliere sia an­che personale, segnata da quel­la che Fini definisce l'«aggres­sione» subita dal Giornale.

La querela contro Feltri ha una valenza politica, e infatti l'inquilino di Montecitorio — dopo averla annunciata — ieri l'ha ufficializzata: «Perché un giornalista — questo è il suo ragionamento — ha tutto il di­ritto di esprimere le proprie opinioni, magari di sentirsi co­sì bravo da determinare il di­battito politico. Ci può stare che si abbiano manie di gran­dezza... Insomma, passi per il 'compagno Fini', ma le minac­ce non posso accettarle».

Certo, il «cofondatore» del Pdl è consapevole che bisogne­rà arrivare a una ricomposizio­ne, ma nessuno sa come e quando si risolverà il conflit­to, se il ministro Matteoli deve limitarsi a dire che «ne uscire­mo perché dobbiamo uscir­ne». Tuttavia «per ora dell'in­contro non se ne fa nulla», ha spiegato Fini a Letta, al quale è stato affidato un messaggio per Berlusconi: «Deve capire che faccio sul serio». Chissà se ha espresso le stesse tesi a Ghedini, deputato-avvocato del presidente del Consiglio, se anche a lui Fini ha confer­mato che il «conflitto d’inte­ressi politico» del Cavaliere— al contempo premier e capo del partito — rischia di nuoce­re al neonato Popolo della li­bertà, a vantaggio della Lega.

Di sicuro il modo in cui Ber­lusconi ha replicato ieri sera — evidenziando le «concezio­ni diverse» che lo separano da Fini — testimonia il muro con­tro muro. Però anche il pre­mier ha necessità di bloccare uno stillicidio quotidiano che rischia di nuocergli. E infatti, sebbene fosse visibile l'irrita­zione verso l'alleato — bollato come «professionista della po­litica » — Berlusconi ha offerto delle concessioni sulla demo­crazia interna al partito, si è detto pronto a un «caminetto» con il presidente della Camera per «discutere» e «condivide­re » le decisioni, bilanciando le cene del lunedì con Bossi.

E proprio Bossi, che fino al­l’altro giorno ha picchiato du­ro su Fini, ieri ha avuto un col­loquio telefonico con l’ex lea­der di An. È stato il leghista Co­ta — così raccontavano alcuni dirigenti del Pdl — a far da ponte alla conversazione, è sta­to lui a passare il cellulare al Senatùr. Il capogruppo del Car­roccio alla Camera ha un otti­mo rapporto con l'inquilino di Montecitorio, che durante il di­battito sul decreto anticrisi — mentre presiedeva l'Aula — gli inoltrò un bigliettino di congratulazioni per il suo in­tervento, citando De Gaulle, e distinguendo tra «la politica con la p maiuscola e quella minuscola».

Cota è per Bossi l'ufficiale di collegamento con Fini. Ogni giovedì il leader del Car­roccio chiede informazioni al capogruppo sul colloquio del giorno prima: «Com’è andata con Gianfranco?». Stavolta però ha voluto parlare di per­sona con l'alleato, per dirgli che «un conto sono le que­stioni politiche, altra cosa so­no gli attacchi personali», che al ministro delle Riforme non piacciono, «non mi sono mai piaciute».

La solidarietà personale ri­volta a Fini non ha fatto dun­que velo sulle divergenze che hanno provocato lo scontro tra i due. Sul nodo del diritto di cittadinanza per gli immi­grati, ad esempio, Bossi ha ri­badito che «non fa parte del programma di governo». Più o meno quanto Berlusconi ha ripetuto a Porta a Porta , dicen­do che l’esecutivo «assolve agli impegni assunti con il pro­gramma sottoscritto da tutti». Fini sa di non avere molti mar­gini di manovra su questo te­ma, si è affrettato a spiegare di non avere «nulla contro la Le­ga », e ha fatto capire che il pro­blema è «l’incapacità del Pdl», di imporre una linea, come in­vece fa la Lega. È davvero sin­golare quanto è avvenuto ieri. Perché mentre resta l’incomu­nicabilità con Berlusconi, il presidente della Camera ha parlato con Bossi e si compli­menta con Tremonti per l’ope­ra di mediazione tentata con l’intervista al Corriere.

Ma sono i due «cofondato­ri » che dovranno prima o poi parlarsi. Entrambi ne hanno interesse. Perché è vero che il Cavaliere è in una posizione dominante: lo dimostra come si è conclusa la storia della let­tera con cui i deputati prove­nienti da An hanno chiesto un «patto di consultazione» tra il premier e Fini. Il compromes­so raggiunto è stato un déjà vu dei vecchi riti correntizi, con la ricomparsa dei colon­nelli e la riedizione dell’eterna lotta tra «lealisti finiani» e «berlusconiani di destra». Non ci sono dubbi sul fatto che il premier abbia il control­lo del partito, ma la fronda del presidente della Camera è pericolosa, in Parlamento e nel Paese. Un Pdl rissoso può compromettere la corsa per le Regionali, dove per vincere il Cavaliere sa di dover con­quistare — oltre alla Lombar­dia e al Veneto — il Lazio, la Campania e la Puglia. Senza, sarà sconfitta.

Francesco Verderami
16 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #84 inserito:: Settembre 19, 2009, 10:35:46 am »

 Campagna per le Regionali decisiva: il premier pronto ad abolire la par condicio

Berlusconi-Fini, l’ora del faccia a faccia

I due «poteri» Silvio e Gianfranco hanno bisogno l’uno dell’altro.

Dal Cavaliere la telefonata per vedersi


Sono stati prima alleati e poi cofondatori di un partito. Ma quando Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini si vedranno, sarà un incontro tra poteri che perseguono ormai obiettivi diversi, consapevoli però di dover trovare un’intesa, quantomeno un compromesso. Sarà elettricità pura. Sarà vietato il cortocircuito. Da un paio di giorni il premier e il presidente della Camera avevano capito che non era più il tempo di farsi la faccia feroce, che era giunta l’ora di vedersi.

L’altro ieri Fini ha dato un segna­le, dalle colonne del Messaggero si è detto pronto all’incontro, e a tar­da sera il Cavaliere l’ha chiamato per concordare l’appuntamento. Fuori i secondi, sarà un faccia a faccia senza mediatori. L’intesa do­vranno trovarla da soli, chiedendo e offrendo garanzie che solo loro possono assicurarsi: sulla struttura del partito, sull’azione di governo, sul ruolo delle istituzioni e su alcu­ne riforme. Nessuno potrà gridare scandalizzato al baratto, è la politi­ca con le sue regole e i suoi rappor­ti di forza. Se è vero che Berlusconi ha le chiavi d’accesso su tutte le questio­ni poste da Fini la scorsa settimana, è altrettanto vero che solo «Gian­franco » può aprire a «Silvio» la stra­da per superare delle difficoltà fino­ra insormontabili per il presidente del Consiglio. Nulla di segreto, è già tutto pub­blico. I due ex alleati, che oggi sono due poteri, non hanno mai smesso infatti di lanciarsi dei messaggi. L’ha fatto Fini a Gubbio, quando— dopo aver chiesto una sorta di rifon­dazione del Pdl — in un inciso ha offerto a Berlusconi una delle con­tropartite: «...E per quanto riguarda la riforma dei regolamenti parla­mentari, sono pronto a metterla al­l’ordine del giorno dell’attività del­la Camera...». L’ha fatto Berlusconi a Porta a Porta , quando — dopo aver detto che tra lui e Fini ci sono «due visioni diverse» — ha dato la propria disponibilità a istituziona­lizzare gli incontri con un «caminet­to ». Chiaro, no? Talmente chiaro che il presidente della Camera non se l’è presa per l’epiteto che il pre­mier gli ha rivolto: «Gianfranco è un professionista della politica». «Silvio l’ha detto per difendersi».

I due poteri hanno bisogno l’uno dell’altro in questa fase. L’ex capo della destra si era sentito tagliare «l’erba sotto i piedi» nel Pdl, perciò chiede la consultazione permanen­te tra «cofondatori», la codificazio­ne delle riunioni di partito e dei ver­tici di maggioranza, «che garanti­rebbero peraltro a Berlusconi di proporsi come il baricentro dell’al­leanza con Bossi». Traduzione: c’è da riequilibrare l’assetto interno del Pdl e da ridimensionare il ruolo della Lega, «a cui finora è stato con­cesso più di quanto il suo peso poli­tico le consentirebbe». Per esem­pio, offrire il candidato governato­re al Carroccio in Veneto, vorrebbe dire «sopravvalutare la forza dell’al­leato ». Così com’è impensabile non decidere «insieme» il candida­to governatore nel Lazio. Berlusconi potrebbe convenire, anche perché il tema delle Regiona­li è per lui cruciale.

Il Cavaliere de­ve vincere nel 2010 per evitare che le fibrillazioni mediatiche a cui è si­stematicamente sottoposto diventi­no vere e proprie «scosse» politi­che nel governo. E per vincere, ol­tre alla Lombardia e al Veneto, do­vrà conquistare i più grandi bacini elettorali del Centro-Sud: Lazio, Campania e Puglia. Se così fosse, non ce ne sarebbe più per nessuno, almeno fino al 2013. L’impresa non è semplice. Intan­to perché la legge elettorale, il Tata­rellum, rischia di far disperdere il voto nei rivoli delle liste locali. Ep­poi perché mettere la propria faccia nella campagna elettorale di tante regioni, è più complicato di quan­do in Sardegna Berlusconi si scelse il candidato e lo portò al successo. E allora il premier getterà sul ta­volo della trattativa la riforma del sistema di voto, con l’introduzione dello sbarramento al 4%, e soprat­tutto «almeno la modifica» della par condicio, una legge «illibera­le », che — fosse per lui — andreb­be abolita. Una settimana fa ha sol­levato nuovamente la questio­ne con i dirigenti del Pdl. Tut­ti conoscevano a memoria il ragionamento di Berlusco­ni: «Non è possibile che un partitino dell’1 per cento possa avere in tv lo stesso spazio della pri­ma forza politica in Ita­lia ». In molti gli hanno fatto notare che «non sarà facile» cambiare le norme in pochi mesi. Nessuno immaginava quale sarebbe stata la controreplica del pre­mier: «E se lo facessimo per decreto?».

Il tema della modifi­ca della par condicio è stato messo in agenda da Berlusco­ni, che da giorni tiene nella propria cartellina la dichiarazione con cui il leader del Pd, Franceschini, ha rifiu­tato l’invito di Vespa al Porta a Por­ta delle polemiche: «La mia presen­za sarebbe da intendere come una sorta di par condicio, per coprire l’incredibile scelta della Rai di stra­volgere il palinsesto. Ma io non mi renderò complice di questa opera­zione ». Per il Cavaliere è come se il capo dell’opposizione avesse scon­fessato la legge, sdoganando di fat­to la sua operazione. Se però la pratica non è stata an­cora istruita, è perché c’è prima l’incontro con Fini, «e Berlusconi — sosteneva giorni fa il presiden­te della Camera — deve compren­dere che è anche nel suo interesse se si pone termine a una politica barricadera. Deve capire che il dia­logo può venirgli utile, che può es­sere funzionale anche all’attività del governo in Parlamento». Un ra­gionamento che sembra valere per la riforma dei regolamenti, per la modifica del sistema di voto e ma­gari anche per una nuova par con­dicio. Fuori i secondi: sarà un in­contro tra poteri. Sarà domani o lu­nedì? Francesco Verderami

Francesco Verderami
19 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #85 inserito:: Settembre 19, 2009, 11:02:56 am »

Il retroscena

Afghanistan, sul Cavaliere anche la spinta dei sondaggi: il 58% dice basta

Tendenza già nei dati di luglio


ROMA - Fosse solo Bossi a dire «tutti a casa». Il problema per Berlu­sconi è che l’opinione pubblica italia­na chiede a grande maggioranza il rientro del contingente dall’Afghani­stan. E non da oggi. Già a luglio tutti gli istituti demoscopici lo rilevarono, dopo la morte del paracadutista Di Li­sio, saltato su una mina esplosa al pas­saggio di un convoglio militare in una strada a nord-est di Farah. Quei son­daggi avevano trovato conferma la scorsa settimana in un nuovo rileva­mento di Ispo, dal quale risultava che solo il 26% degli italiani restava favore­vole al mantenimento della missione, mentre il 58% chiedeva il ritiro delle truppe.

Si tratta di numeri che — se­condo Mannheimer — «sono destina­ti inevitabilmente a salire dopo la stra­ge di Kabul». Così Berlusconi si trova dinnanzi a un problema politico non semplice, stretto com’è nella morsa del patto sot­toscritto con Obama — al quale aveva promesso un maggior coinvolgimen­to italiano in Afghanistan durante la visita a visita a Washington — e le pulsioni del Paese a cui il leader della Lega dà voce, senza curarsi del linguaggio di­plomatico e dei rapporti internaziona­li. Già a luglio il leader della Lega dis­se «io riporterei i nostri ragazzi a ca­sa », e criticò la missione «che costa tanti soldi». Allora il premier riuscì a far rientrare il caso, spostandolo nel tempo, sottolineando «il contributo dell’Italia» per il pacifico svolgimento delle elezioni che «avvicinano l’Afgha­nistan alla democrazia». Ma già a luglio — attraverso un son­daggio riservato — il premier si era re­so conto quanto fosse mutata la perce­zione dell’opinione pubblica rispetto alla fase iniziale della missione, quan­do l’invio dei militari era considerato dalla maggioranza dei cittadini «un contributo» per restituire la libertà al popolo afghano, vessato dai talebani. Con l’andare del tempo l’intervento umanitario si è trasformato agli occhi degli italiani in un’operazione di guer­ra. Ad aggravare le cose c’erano state le notizie sulla produzione di oppio co­me unica voce dell’economia interna, e sul dilagare del fenomeni di corru­zione negli apparati dello Stato.

Attraverso il report d’inizio estate il Cavaliere aveva voluto ascoltare la vo­ce del Paese: insieme a due cittadini su dieci che si opponevano comun­que «a ogni tipo di guerra», un altro terzo di italiani invocava il rientro dei militari, insieme a un 20% che chiede­va una riduzione del contingente e l’avvio di una exit strategy. Solo il re­stante 25% sosteneva ancora la missio­ne, ma con una ridefinizione delle re­gole di permanenza. Sono dati che au­torevoli dirigenti del Pdl hanno visio­nato, i più recenti. Sono dati che quasi certamente peggioreranno. Dopo le elezioni in Afghanistan, infatti, con le polemiche sui brogli, è assai probabi­le che la «fiducia» nell’esito della spe­dizione internazionale si sia ulterior­mente abbassata rispetto a luglio. E al­lora era già bassa: quasi la metà dei cit­tadini riteneva che l’intervento a Ka­bul non avesse dato risultati e che i soldati italiani non fossero adeguata­mente equipaggiati. L’attentato di ieri, con la morte dei militari, segna — a detta degli analisti — «un salto di qualità» che bisognerà valutare nei test demoscopici: ai costi economici ora si aggiunge il costo al­tissimo di vite umane. La strage di Ka­bul potrebbe essere per l’opinione pubblica una conferma ai convinci­menti di luglio, quando solo un quar­to degli italiani considerava la spedi­zione «una missione di pace», un al­tro 20% era convinta fosse «una mis­sione di guerra» e il 40% riteneva che la spedizione umanitaria si stesse tra­sformando in una operazione bellica.

Gli istituti di ricerca avranno poi mo­do di studiare quali sviluppi abbiano avuto altri fattori, registrati da prece­denti sondaggi: per esempio, l’opinio­ne pubblica nel tempo ha iniziato a non comprendere il senso dell’inter­vento militare. Paradossalmente era più facile capire la presenza in Iraq, dove c’è il petrolio. È vero che sulla presenza delle trup­pe italiane in Afghanistan c’è una so­stanziale convergenza tra maggioran­za e opposizione, ma è altrettanto ve­ro che — superati i giorni del lutto na­zionale — toccherà a chi sta al gover­no, a Berlusconi spiegare al Paese. E il Cavaliere sa che in quel 58% di cittadi­ni che per Ispo sono contrari alla mis­sione, il 48% vota centrodestra. Il pri­mo messaggio inviato ieri dal premier testimonia le difficoltà di tenere insie­me gli impegni internazionali e le di­namiche politiche interne. Ad un Bos­si che vuole si discuta la questione «nel prossimo Consiglio dei mini­stri », si oppone la richiesta del finiano Bocchino di convocare un vertice di maggioranza: sono scintille. Ha gioco facile Bersani nel rilevare «la confusione che regna nel gover­no », se è vero che si è notata anche la divergenza tra il capo della Lega e Ma­roni, per una volta a fianco di La Rus­sa. Il punto è, come ha sottolineato il sottosegretario alla Difesa Crosetto, che «le parole di Bossi aumentano esponenzialmente il pericolo per i no­stri militari». Berlusconi dovrà trova­re la quadratura del cerchio nel Palaz­zo, cercando di parlare anche al Paese. Cosa che lo preoccupa, «perché l’Italia — disse ai tempi della strage di Nassi­riya — è un Paese di mamme».

Francesco Verderami
18 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #86 inserito:: Settembre 22, 2009, 08:37:08 am »

L'INCONTRO CON FINI - IL RETROSCENA

Il Cavaliere e il compromesso obbligato «Ma rischiamo il rapporto con i cattolici»

Timori sul biotestamento. E sugli immigrati: potremmo perdere consensi tra i nostri elettori


ROMA — Tendenza Silvio. Nono­stante lo scontro con Gianfranco Fi­ni, le tensioni con Umberto Bossi sul­l’Afghanistan, i morsi della crisi eco­nomica sull’occupazione e i rapporti complicati con il mondo cattolico, il Cavaliere continua a salire nei son­daggi riservati che l’opposizione mo­nitora settimanalmente. Perché an­che l’ultimo report di Ipsos , analizza­to dai dirigenti del Pd, ha evidenzia­to un dato tendenziale in ascesa per il premier e il suo partito: nell’indice di fiducia, infatti, Berlusconi guada­gna un altro decimale (oggi è al 51,2%) e il Pdl tre (dal 38 al 38,3%). Ma non è sulle variazioni numeri­che che si soffermano gli analisti, bensì sul trend positivo che da lu­glio non conosce soste. I rilevamenti fanno capire che — in assenza di un’alternativa — l’opinione pubbli­ca continua a puntare sul presidente del Consiglio, se è vero che la Lega subisce una flessione di mezzo pun­to, scende al 10,1%, e non raccoglie il consenso degli elettori di centrode­stra, rimasti contrariati dal duello tra i «cofondatori» del Pdl. Ed è proprio lo scontro con Fini a preoccupare Berlusconi, perché la «fiducia» è un credito da onorare con l’azione di governo, dunque in Parlamento, dove i provvedimenti dell’esecutivo devono trovare il con­senso. Il premier deve quindi disin­nescare il conflitto con il presidente della Camera, con il quale i problemi politici ieri sono stati solo esamina­ti. I due infatti si rivedranno, dopo il viaggio negli Usa del Cavaliere, sicco­me non potevano bastare due ore di colloquio per chiudere la vertenza.

Il faccia a faccia in casa Letta è servito quantomeno per chiarirsi — in alcu­ni frangenti anche a muso duro — e per constatare che non possono fare a meno l’uno dell’altro. Non c’è dub­bio che l’ex leader di An non abbia progetti politici alternativi al Pdl, non ci ha mai pensato: l’ha spiegato a Berlusconi, che pure si fa forte dei sondaggi commissionati da tempo sulle «basse potenzialità» del «brand» finiano. Dall’altra parte il Cavaliere sa che — se non vuole apri­re un fronte pericoloso — deve con­cedere al «cofondatore» un ruolo adeguato nel partito. Ed è chiaro che il presidente della Camera è preoccu­pato di non esporsi: vuole verificare che le promesse verranno mantenu­te. Altrimenti, rischierebbe di qui a breve una cocente sconfitta. Poco importa però se «Silvio» non si fida di «Gianfranco» e vicever­sa, se l’unica intesa è stata quella di non parlarsi più attraverso i media. Entrambi sanno che i problemi resta­no, frutto delle due «visioni diver­se ». Certo, la consultazione perma­nente consentirà di cercare dei com­promessi su questioni spinose. Ma è da vedere se e come si comporrà una mediazione su temi, per esem­pio, come i diritti agli immigrati e il testamento biologico.

Perché Berlu­sconi teme che le posizioni di Fini «da una parte ci facciano perdere consensi nel nostro elettorato, e del­­l’altra mettano a rischio il rapporto con il mondo cattolico», assai in­quieto e critico verso il premier, co­me ha fatto capire ieri il presidente della Cei, Angelo Bagnasco. Allora il consenso nei sondaggi as­sume per il premier un altro signifi­cato, è un debito contratto con l’opi­nione pubblica, da restituire entro la primavera se lo si vuole far fruttare alle Regionali. È vero che il Pd resta per ora accartocciato su se stesso, e sebbene questa settimana guadagni quasi mezzo punto (28,9%), non rie­sce a drenare voti all’Idv, quotato so­pra l’8% malgrado un calo di due de­cimali. Nelle tabelle di Berlusconi i Democratici non vanno oltre il 27%, semmai è su Pier Ferdinando Casini che dovrà fare delle valutazioni: tra i leader, infatti, negli indici di gradi­mento il capo dei centristi è salito al 48,8%, ed è secondo solo al Cavalie­re, che nei suoi report calcola l’Udc al 6,8%. Che fare allora per le Regionali? Anche questo tema è stato trattato ie­ri da Berlusconi e Fini.

Nei giorni scorsi l’ex leader di An — a parte far muro contro le «eccessive pretese» al Nord della Lega — teorizzava che «per rafforzare il Pdl è necessario le­gittimare le strutture territoriali del partito. Non è pensabile che le scelte dei candidati governatori siano frut­to solo di una decisione romana». È un ragionamento da rifare con il pre­mier, che su questo punto — e an­che su altri — proprio non ci sente. Ma è come se tutto fosse sospeso, in attesa di altri eventi. Perché è ve­ro che nel Pdl si avverte un cauto ot­timismo sulla decisione della Con­sulta per il lodo Alfano, ma ad otto­bre la decisione della Corte Costitu­zionale avrà un’influenza sulle scel­te politiche, nel Palazzo. Fini ha già detto che «questo clima di messiani­ca attesa è fuori luogo», tranne ag­giungere poi che «mentre tutti aspet­tano la sentenza, sarà importante co­noscere le motivazioni». E Berlusco­ni — giorni fa — ha cercato di mo­strarsi distaccato: «Se fosse necessa­rio — ha detto — si potrebbe fare un altro lodo. Ma io sono tranquillo perché, anche se andassi a processo, sul caso Mills mi assolverebbe qual­siasi tribunale fatto da giudici non politicizzati e prevenuti contro di me».

Possibile che ieri i «cofondato­ri » abbiano parlato solo del partito?

Francesco Verderami
22 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #87 inserito:: Ottobre 02, 2009, 11:00:48 pm »

Il retroscena

«Il bersaglio non era il Pd»

Le rassicurazioni di Berlusconi

Resta la tensione con il «cofondatore» Fini


ROMA — Qual è il motivo che spinge Berlusconi a usare toni da campagna elettorale permanente? Le Regionali sono ancora troppo distanti per giustificare una simile strategia mediatica, e il premier sa che l'opinione pubblica è stanca delle risse di Palazzo e attende dal governo risposte sui nodi della crisi economica e dell'occupazione. Perciò ha colpito il modo in cui ha affondato il colpo contro l'opposizione alla Festa della libertà.

È vero che il Cavaliere ha sempre tenuto a marcare la distanza, chiudendo finora qualsiasi spiraglio all'ipotesi di dialogo. Ma quel passaggio ambiguo sull'Afghanistan lo ha costretto ieri a rettificare il tiro, a far sapere che «non era il Pd il bersaglio» della sua sortita, così da attutire il contraccolpo dopo l'esternazione irritata del capo dello Stato, con il quale — ovviamente — «i rapporti restano ottimi». Epperò c'è qualcosa che non torna: le battute — reiterate anche domenica — sugli Obama «abbronzati», e le galanterie ostentate alla Gelmini, contraddicono la linea che il premier si era imposto appena la scorsa settimana, quando — per evitare il tormentone sul «gossip» — aveva avvisato i giornalisti: «D'ora in poi parlerò solo dell'azione di governo». Il nervosismo del Cavaliere su quella che definisce «spazzatura» è evidente, e la decisione dell'esecutivo di intervenire sulla Rai dopo la puntata di Annozero, lo testimonia. Se poi nel suo discorso dell'altro ieri Berlusconi non ha fatto cenno alla trasmissione di Santoro c'è un motivo: «Non ne ho parlato per non alimentare la polemica. Farei il gioco di chi mi attacca». Sono troppi i fronti aperti, anche per uno come lui, che ha fatto cambiare i piani di volo del suo aereo per il rientro dagli Stati Uniti pur di incontrare Benedetto XVI a Ciampino, e garantirsi la photo-opportunity con il Papa. E le poche righe che Avvenire ha riservato all'incontro il giorno dopo, sono state — a detta del premier — «più che uno sgarbo a me, una mancanza verso il Santo Padre».

Resta al momento senza risposta l'interrogativo sulle ultime mosse di Berlusconi, così come sembra restare sospesa la politica nella settimana che precede la decisione della Corte costituzionale sul lodo Alfano. Non è dato sapere se sia questo il reale motivo del nervosismo del premier, che ha deciso di tenere un profilo mediatico molto basso sulla vicenda per non darle grande risalto. «Se la Consulta dovesse porre dei rilievi sul lodo — è l'unico concetto che ha espresso — se ne potrebbe varare un altro. Comunque sono sereno. Qualsiasi tribunale non politicizzato, sul caso Mills mi assolverebbe». Allora cos'è che turba il Cavaliere? E perché domenica ha detto che «noi governeremo sempre», dopo aver evocato il '94, che richiama alla memoria il ribaltone? Una cosa è certa: il premier non ha citato Fini alla Festa della libertà, e ieri il presidente della Camera non ha citato Berlusconi alla presentazione di un libro sulla mafia. Ma non è passato inosservato un passaggio del suo intervento, quando ha detto che «chi rappresenta le istituzioni e il popolo sovrano dev'essere come la moglie di Cesare, aldilà di qualsivoglia sospetto». Un messaggio senza destinatario.

A Gubbio era stato più diretto, invitando il Pdl a «non lasciar adito al minimo sospetto» e a «collaborare con i magistrati» nelle inchieste sulle stragi di mafia. Così dicendo, aveva fatto infuriare il premier. È evidente come le «diverse visioni» dei «cofondatori» non siano facilmente componibili e che la convivenza sarà segnata da continue scosse, sebbene Berlusconi resti il dominus del Pdl. Ma «l'unità» nel partito, della quale proprio domenica il Cavaliere si era vantato, non esiste: in Puglia le tensioni che si erano create in estate tra Fitto e Quagliariello sono state sedate da un intervento di Berlusconi; in Sicilia nemmeno Berlusconi è riuscito a metter fine alla guerra tra Alfano, Miccichè e i finiani; in Lombardia i seguaci di La Russa e gli ex forzisti sono venuti quasi alle mani alla Festa della libertà; in Campania è in atto un braccio di ferro tra la Carfagna e il sottosegretario Cosentino che vorrebbe candidarsi a governatore; in Veneto Galan picchia duro sulla Lega per menare sui suoi (ex) amici forzisti. Altro che «unità». Perciò Berlusconi vorrebbe rifondare il Pdl appena fondato, introdurre la regola dell'incompatibilità tra incarichi di governo e di partito per rinnovarne i vertici, chiudere con la stagione del triumvirato, puntare su un coordinatore e un vice con forti deleghe, inserire nuove leve, come Maurizio Lupi. Ma prima deve attendere il responso delle Regionali. E prima ancora altri responsi.

Francesco Verderami
29 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #88 inserito:: Ottobre 06, 2009, 11:03:33 am »

Le mosse e il caso del ’94

Offensiva sulle escort, Berlusconi sospetta una manovra «anti-nazionale»

Al nervosismo si unisce il senso di smarrimento.

In molti temono il rischio di un conflitto tra le istituzioni e il Paese


Finora i sospetti si erano concentrati so­lo sul presidente della Camera. Ma lunedì Roberto Calderoli ha aggiunto alla lista (nell’intervista al Corriere) anche un «gran visir» del governo. E molti hanno interpretato l’uscita come un attacco esplicito a Gianni Letta. È nota la distanza che separa il Carroccio dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e sono no­te le divergenze tra il braccio destro del Cavaliere e Giulio Tremonti, che è l’uomo del Pdl più vicino alla Lega. Ma se persino Letta viene infilato nel frullatore, se persino lui viene ad­ditato come un potenziale traditore, vuol dire che Silvio Berlusconi - nel tentativo di fronteggiare l’accer­chiamento mediatico e giudiziario a cui si sente sottoposto - ha perso la presa della sua stessa maggioran­za. Ed è una percezione che attraver­sa l’intero centrodestra, sebbene Umberto Bossi lunedì abbia di nuovo giurato lealtà al premier, dicendosi all’apparenza pronto al voto antici­pato.

Ma al nervosismo si unisce ora il senso di smarrimento, che si propaga nel Palazzo alla vigilia della sentenza sul Lodo Alfano. E in molti temono si concretizzi per la prima volta il rischio di un conflitto tra le istituzioni e il Paese. Perché stavol­ta non è come nel ’94. Allora il Cava­liere, colpito da un avviso di garan­zia, dovette cedere il campo a un centrosinistra che fu in grado di co­struire un’alternativa di governo. Oggi invece il premier è chiamato indirettamente in causa dalla sen­tenza sul Lodo Mondadori, ma l’op­posizione è debole e l’opinione pub­blica in maggioranza è schierata con Berlusconi, che - così dicono i suoi sondaggi - viene visto come «vittima» di un’operazione politi­co- giudiziaria. Anche le analisi demoscopiche commissionate dall’opposizione continuano a rilevare il legame tra il premier e gli italiani, se è vero che il report settimanale di Ipsos per il Pd - all’indomani del contestato scu­do fiscale - fa rimbalzare di quasi due punti la fiducia sull’operato del governo (dal 54,1% al 55,9%) e sul Pdl (dal 51,6% al 53,3%).

Mentre l’ef­fetto Annozero fa calare appena il giudizio sul Cavaliere (dal 52,9% al 52,8%) e le intenzioni di voto sul suo partito (dal 37,8% al 37,5%), con il Pd che comunque scende (dal 29% al 28,8%) al pari dell’Idv (dal­l’ 8,4% all’8,1%). Ecco la faglia. A fronte di un Ber­lusconi indebolito nel Palazzo, c’è un Berlusconi rafforzato dal giudi­zio popolare. Ed ecco il bivio. Si trat­ta di capire come il premier vorrà muoversi: proseguirà fino al termi­ne della «missione quinquennale» - come ha detto lunedì - o proverà ad usare la forza che gli deriva dal consenso? Il quesito potrà scioglier­lo solo dopo il giudizio della Consul­ta sul lodo Alfano. L’idea di «andare avanti» è stata una risposta alla sen­tenza sul Lodo Mondadori che l’ha colto di sorpresa. Berlusconi è ab­battuto e furibondo con quello «stuolo di legali che costano una for­tuna » e che pare abbiano appreso la decisione del tribunale per mail, «mentre De Benedetti da giorni an­dava dicendo in giro che mi avreb­be rovinato». La sentenza ha richia­mato alla sua mente il famoso «non poteva non sapere», e l’idea di ri­spondere all’attacco facendo orga­nizzare una manifestazione di piaz­za potrebbe avere delle controindi­cazioni, evocando il conflitto d’inte­ressi.

Inutile perder tempo dietro le re­criminazioni, sebbene Berlusconi abbia interpretato l’offensiva sulle escort come una «manovra diversi­va» per poi colpirlo negli interessi e nella moralità. Di una cosa il Cavalie­re è certo: si tratta di un’operazione «anti-nazionale». Dietro questo con­cetto si cela sempre più il sospetto che la manovra abbia addentellati oltre confine. E non è un timore re­cente, se - per capire cosa stava succedendogli - avrebbe chiesto aiuto ai servizi di una potenza ami­ca ma non alleata. Si avvicina la decisione della Con­sulta e si avvicina il bivio. Il premier dovrà decidere se resistere a tutti i suoi «oppositori» o provare a usare la forza del consenso popolare. La strada delle elezioni anticipate è pe­rò difficile e pericolosa, perché fuo­ri da Palazzo Chigi Berlusconi po­trebbe non trovar più riparo. A me­no che qualcuno non si sacrifichi in sua vece, e in nome della lealtà al Ca­valiere si intesti un governo come quello di Fanfani dell’87, che si fece sfiduciare pur di portare la sua Dc alle elezioni.

Ma erano altri tempi.

Francesco Verderami

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« Risposta #89 inserito:: Ottobre 07, 2009, 04:10:53 pm »

La linea

Berlusconi: se non passa la norma toglierò tempo al Paese per difendermi

Il Cavaliere ai suoi: «Sarei costretto a prepararmi per andare in Tribunale»


ROMA — «Le cose si risolveranno per il meglio», diceva ieri Berlusconi in attesa del calcio di rigore. Come a voler infondere ottimismo nel suo gruppo dirigente ma anche stroncare l'estenuante chiacchiericcio che gli toglieva l'aria, riempiendola di congetture sulla sentenza della Corte Costituzionale. Meglio far due passi per i negozi del centro di Roma, perché «se proprio la Consulta dovesse bocciare il lodo di Angelino — ecco il punto — vorrà dire che sottrarrò del tempo agli impegni istituzionali, per prepararmi al meglio e andare in tribunale a difendermi». Non c'è dubbio che in caso di risultato avverso si presenterebbe così davanti agli italiani, ribadendo che «io non mollo», che «mi sento con la coscienza a posto», che «non ho nulla da temere da una giustizia non politicizzata», e che pertanto il lodo Alfano, «il lodo di Angelino», serviva solo a consentire l'esercizio delle funzioni pubbliche del presidente del Consiglio non era un escamotage per sottrarlo alla legge.

Ieri, in attesa del calcio di rigore, mentre tutti gli uomini del Cavaliere tenevano il fiato sospeso e la mandibola aperta - tranne dispensare sorrisi e sostenere che «il premier è di ottimo umore» - Berlusconi ha fatto le prove generali davanti a ministri e capigruppo, ribadendo ciò che aveva detto lunedì. Andrà avanti, a prescindere dalla scelta dei giudici, perché non vuol darla vinta ai suoi «oppositori» e perché è questo - secondo i suoi sondaggi - che vuol sentirsi dire l'opinione pubblica. È vero che tra le fila del Pdl resta forte il partito del voto, brandito però come un'arma tattica e non come un'autentica strategia politica, ed è altrettanto vero che Berlusconi non avrebbe timore del verdetto popolare, «non ho paura delle elezioni», aveva spiegato l'altra sera ad alcuni imprenditori che erano andati a trovarlo ad Arcore. Ma in quel comunicato scritto due giorni fa per avvisare che «il governo porterà a termine la sua missione quinquennale», c'era il pensiero autentico del Cavaliere e l'approvazione di Confalonieri, il patron di Mediaset, l'amico di una vita, che tempo fa aveva sottolineato come le elezioni sono sempre una scommessa: «Vi ricordate Chirac, che pensava di stravincere e poi fu costretto alla coabitazione con il socialista Jospin?». «Mai mollare», lo ripete sempre Bossi, anche lui sugli spalti ad aspettare l'esito del calcio di rigore. Perciò il colloquio tra il Senatùr e Fini è slittato ancora, perciò di Regionali non si parla nel centrodestra fino alla sentenza della Consulta.

L'attesa però causa distrazioni e fa affiorare il nervosismo nella maggioranza. Certo non ha valenza politica il fatto che ieri il governo sia andato sotto per un voto alla Camera sulla legge per l'infanzia. Ma Berlusconi non sarà stato contento di sapere che l'emendato approvato era stato presentata dai dipietristi. Sicuramente non ha gradito di veder lavati in pubblico i panni sporchi di palazzo Chigi. Perché è vero che con Gianni Letta ci sono stati (e ci sono ancora) motivi di tensione, che il premier e il suo braccio destro in Consiglio dei ministri hanno avuto uno scambio di opinioni molto acceso, «ma Gianni è quello che risolve mille situazioni al giorno», e non è bene in questa fase assistere a una campagna di delegittimazione interna: dà l'idea dello sfaldamento. Invece è l'ora di mostrarsi uniti e ottimisti, il calcio di rigore sta per essere battuto. E dunque «bravo Fini» che l'altro ieri ha respinto l'ipotesi di esecutivi tecnici, sebbene oggi sarà a convegno con Montezemolo. Tanto Berlusconi resta, «io non mollo», e dunque non c'è spazio per un sacrificio come quello di Fanfani, che si fece sfiduciare dalle Camere pur di portare la Dc alle urne. «Solo Schifani fa rima con Fanfani», sorrideva ieri l'ex ministro Landolfi, poco prima che la seconda carica dello Stato dicesse: «Non vedo sbocchi per governi diversi».

In fondo è meglio anche per il Pd, che può smetterla di dividersi su un inesistente «governo del presidente». Così ieri alla Camera Bersani ha potuto parlar d'altro con Casini, e Veltroni ha continuato a magnificare il film di Tornatore, Baarìa, trovandosi per una volta d'accordo con Berlusconi. Bisognava pur passare il tempo in attesa del calcio di rigore.

Francesco Verderami

07 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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