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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 133936 volte)
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« Risposta #255 inserito:: Gennaio 14, 2016, 06:12:51 pm »

IL RETROSCENA

Blitz di Renzi: pronti sei nomi per il governo
Il completamento della squadra di governo non sarà una mera formalità, ma consentirà anche di capire come il premier avrà chiuso le vertenze con gli alleati di Ncd e con la minoranza del Pd, e come si appresta ad affrontare un stagione per lui decisiva, che culminerà con il referendum costituzionale

Di Francesco Verderami

Tutto in ventiquattro ore. Prima il voto finale del Senato sulle riforme, poi il Consiglio dei ministri in cui verrà annunciata la «ristrutturazione» dell’esecutivo. La definizione serve al premier per sfuggire all’uso del termine «rimpasto», parola mediaticamente infausta e politicamente impropria, visto che in effetti si tratta solo di posti vacanti da riempire. Il completamento della squadra di governo - le scelte che verranno compiute - non sarà una mera formalità, ma consentirà anche di capire come il premier avrà chiuso le vertenze con gli alleati di Ncd e con la minoranza del Pd, e come si appresta ad affrontare un stagione per lui decisiva, che culminerà con il referendum costituzionale.

Non è un caso che la «ristrutturazione» - prevista per il 21 gennaio - sia stata calendarizzata per il giorno seguente al responso di Palazzo Madama sulle riforme. Lo si intuisce dal modo in cui l’altra notte il sottosegretario Lotti, in un vorticoso giro di telefonate, spiegava ai suoi interlocutori che «è il momento di definire gli incarichi di governo e di chiudere questa storia. Perché poi dovremo impegnarci nella campagna referendaria». È chiaro che tutto ruota attorno al verdetto del Senato, dove serviranno 161 voti per il visto definitivo alle riforme. E il passaggio porterà alle scelte successive, nel governo come nel Pd, se è vero che Renzi - tenendo fermo il tandem dei suoi vice Guerini e Serracchiani - vuole procedere anche al «rimpasto» della segreteria democrat. La decisione era già stata assunta durante alcune riunioni di partito, dove era emersa la necessità di intervenire. E non solo per colmare dei vuoti.

Non è ancora chiaro chi entrerà in Consiglio dei ministri per Ncd: i più accreditati sono l’attuale vice di Orlando alla Giustizia, Costa, e l’ex sindaco di Milano Albertini, che dopo le dimissioni di Lupi garantirebbero a quel partito la «visibilità» persa al Nord. Si vedrà. Ma già il fatto che - undici mesi dopo l’addio dell’allora titolare alle Infrastrutture - Renzi abbia deciso di colmare quel vuoto, smentisce la tesi di un veto verso gli alleati. Con la «ristrutturazione» il premier toglie di mezzo ogni inciampo, consolidando il rapporto con Alfano. E il risarcimento nella squadra verrà completato dal ritorno del sottosegretario Gentile, che aveva lasciato l’incarico dopo il caso del giornale Calabria Ora nel quale era rimasto coinvolto il figlio, poi scagionato dalle accuse. Stabilizzare i gruppi di Area popolare era e resta un obiettivo del capo del governo per evitare fibrillazioni parlamentari al Senato.

Quanto al Pd, la lista delle nomination si è ristretta e nella griglia di appunti che Lotti provvede ad aggiornare con la matita risalta ora il nome di Nannicini, che da consigliere economico del premier si prepara ad essere «promosso» sottosegretario. Se così fosse, resterebbero ancora almeno quattro caselle vuote, una delle quali di peso: quella del vice ministro agli Esteri, lasciata vacante da Pistelli, e per la quale è in predicato un giovane della sinistra dem, Amendola. Resta da capire se sarà davvero così. Perché le scelte di Renzi daranno l’idea del rapporto che il leader democratico intende avere con la minoranza, specie con le componenti più dialoganti, saranno una traccia per seguire i cambiamenti della geografia interna, consentiranno di verificare fino a che punto si spingerà il coinvolgimento (anche) dell’area bersaniana. In questo senso aveva preso corpo l’ipotesi di un ingresso al governo di Errani, sebbene l’opzione in questi ultimi tempi sia caduta, a testimonianza di una frattura che si evidenzierà al congresso.

Tutto in ventiquattro ore: prima il test del Senato sulle riforme, poi la «ristrutturazione» dell’esecutivo. Ma qualche ora dopo un altro passaggio sarà politicamente interessante e avverrà a Palazzo Madama, con l’elezione dei presidenti di commissione: il voto - a scrutinio segreto - stabilirà se Verdini dall’«appoggio esterno» al governo passerà all’«appoggio interno», se cioè un rappresentante del gruppo Ala conquisterà uno di quegli scranni. Nelle «trattative» - raccontano autorevoli dirigenti democrat - Palazzo Chigi è stato al crocevia. Il nodo sono gli effetti che provocherebbe la scelta, in un senso o nell’altro, nel Pd e nel gruppo di Verdini. Renzi punta alla riduzione del danno.

14 gennaio 2016 (modifica il 14 gennaio 2016 | 08:39)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_14/blitz-renzi-pronti-sei-nomi-il-governo-7c00aa8e-ba8f-11e5-8d36-042d88d67a9f.shtml
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« Risposta #256 inserito:: Gennaio 25, 2016, 11:34:16 pm »

SETTEGIORNI
Le due strade del premier dopo il referendum

Di Francesco Verderami

Se è vero che il destino del governo è legato al risultato del referendum, è altrettanto vero che proprio il referendum decreterà la fine della sua missione. Perciò a ottobre, se sarà riuscito a traghettare l’Italia nella Terza Repubblica, Renzi dovrà decidere cosa fare: interrompere la navigazione o proseguire nella rotta.

Ecco la scelta che compete al premier, su questo ragionano i suoi alleati «interni» ed «esterni», dal capogruppo di Ncd Lupi al leader dei forzisti ammutinati Verdini: tutti proiettati sul prossimo futuro. È come se l’autunno fosse già alle porte, è un tema dirimente che impegna anche la minoranza democrat nelle riunioni riservate, è un argomento che ieri ha attraversato il dibattito alla direzione del Pd. Perché se davvero Renzi - doppiato lo scoglio del referendum - decidesse di spingersi fino alle colonne d’Ercole della legislatura, cambierebbe la natura del suo esecutivo. E l’alleanza con una costola del vecchio centrodestra, nata per varare le riforme, si trasformerebbe in una coalizione politica proiettata verso le elezioni.

Su questa analisi convergono le due estreme della maggioranza che fanno da corona al presidente del Consiglio, sebbene le loro reazioni siano contrapposte. Il cambio di ragione sociale del governo avrebbe infatti conseguenze traumatiche nel Pd e - sotto la spinta levatrice della campagna referendaria - legherebbe l’area postberlusconiana a Renzi. Nulla sarebbe più come prima: né la natura della maggioranza né la composizione del Consiglio dei ministri. E c’è un motivo se il premier non affronta la questione, e fa mostra di non vedere il bivio: deve ancora scegliere. Intanto si porta avanti, punta alla consultazione popolare d’autunno per poi regolare i conti nel partito.

In Italia e in Europa si allunga però la fila di quanti ritengono che in realtà abbia già deciso: dall’ex presidente della Camera Casini, secondo cui si andrà alle urne nella «primavera inoltrata» del 2017, al capogruppo del Ppe Weber (come dire Merkel), convinto che il segretario del Pd abbia alzato il tiro su Bruxelles per portare al voto anticipato Roma: «Solo così si spiega cosa sta facendo». È una tesi che ha fatto breccia sulle colonne del Wall Street Journal, è uno scenario che è stato reso immaginifico sul Foglio, con tanto di «grilletto e pallottola d’argento».

Ma le certezze di chi osserva le mosse di Renzi non trovano riscontro (per ora) negli atti di Renzi. Il fatto è che il premier si rende conto di come un cambio di sistema possa determinare effetti imprevedibili: nel ‘94, per esempio, nessuno nel Pds come nel Ppi immaginava che avrebbe vinto Berlusconi. È un ricordo ricorrente nei ragionamenti del leader democrat, che evocando il fondatore del centrodestra confida di emularlo: «Ci sarà il G7 in Italia», ha detto ieri, e probabilmente si terrà nella sua Firenze.

Ai vertici europei - tra il serio e il faceto - ripete spesso ai capi di stato e di governo che «io scadrò dopo di voi». Vuol dire quindi che pensa davvero di proseguire fino al 2018? La risposta si avrà in Europa, dove il braccio di ferro in atto cela il tentativo del premier di crearsi dei varchi, dei margini di manovra nei conti pubblici. Perché il suo sogno è trasformare la legge di Stabilità del 2017 in un manifesto elettorale per il 2018, dove poter dar corso alla riforma dell’Irpef promessa al Paese e aggiungerci un tocco (manco a dirlo) berlusconiano: così come il leader di Forza Italia - a sorpresa - promise il taglio dell’Ici prima che si aprissero le urne, Renzi vorrebbe annunciare l’abolizione del canone Rai, suo vecchio pallino.

Sono proiezioni molto in là nel tempo, ma è ora che il premier deve creare le condizioni per riuscire nell’impresa. Mentre alleati «interni» ed «esterni» - così come i suoi compagni di partito - attendono di capire cosa vorrà fare al bivio: se andare avanti, mettendo in conto un cambio della maggioranza o fermarsi e contemplare la fine anticipata della legislatura. Ma più delle modifiche costituzionali è la revisione del sistema di tassazione la riforma più attesa tra gli elettori. E Renzi dovrebbe spiegare i motivi dell’addio alla promessa.

Nel 1992, Bush senior perse la Casa bianca per mano di Clinton, dopo una campagna elettorale durante la quale i democratici proposero ossessivamente le immagini di quattro anni prima, in cui il candidato repubblicano giurava che non avrebbe messo le mani nelle loro tasche: «Leggete le mie labbra, nessuna nuova tassa». Nel centrodestra hanno già pronti gli spot con l’annuncio di Renzi all’Assemblea del Pd nel luglio dello scorso anno: «... E nel 2018 cambieremo l’Irpef». Le scorciatoie possono rivelarsi pericolose nei cambi di sistema.

23 gennaio 2016 (modifica il 23 gennaio 2016 | 09:36)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_23/due-strade-premier-il-referendum-161e9780-c1ab-11e5-b5ee-f9f31615caf8.shtml
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« Risposta #257 inserito:: Aprile 02, 2016, 12:31:42 pm »

Settegiorni

Caso Guidi, le mosse del premier per evitare il rischio contraccolpo
Rilancio tra azione di governo e referendum di ottobre. Nessun timore sul caso trivelle

Di Francesco Verderami

Se c’è un pericolo per il premier è l’omologazione, l’idea cioè che possa essere considerato dall’opinione pubblica simile ai suoi predecessori. Un presidente del Consiglio come tanti altri, insomma. Ecco il rischio a cui Renzi vuole sfuggire, consapevole di come la novità sia un processo che il tempo inevitabilmente tende a levigare e che gli inciampi della politica finiscono per appannare. Perciò ha indotto il titolare dello Sviluppo economico alle immediate dimissioni, nonostante l’iniziale smarrimento di chi non si aspettava di dover affrontare una tale emergenza.

La rapidità della mossa gli è servita per attutire il colpo, che è stato comunque avvertito ed è stato causa di una forte arrabbiatura. Perché è parso subito chiaro al leader del Pd che gli avversari — fuori e dentro il suo stesso partito — avrebbero coinvolto nel «caso Guidi» anche la Boschi, intrecciando l’affaire Banca Etruria al ruolo istituzionale avuto dal titolare per i Rapporti con il Parlamento sull’emendamento incriminato, e servendo così al Paese l’immagine di un impasto esiziale per chi due anni fa ha promesso discontinuità. Per Renzi non c’era (e non c’è) tempo per cercare indizi su un complotto giudiziario ai suoi danni, sebbene il sospetto alberghi nella sua testa. Così come non era (e non è) tra le sue priorità il referendum sulle trivelle, se è vero che ieri autorevoli esponenti del governo erano pronti a scommettere sulla percentuale dei votanti alla consultazione del 17 aprile: «Nonostante tutto, non supererà il 25%». Non è un problema per il premier nemmeno la mozione di sfiducia. Anzi, l’offensiva delle opposizioni è considerata un’opportunità da sfruttare in Parlamento.

La manovra del grillino Di Maio, a cui si è accodato il capo della Lega Salvini, ha aperto infatti una crepa nell’area di centrodestra. Perché a fronte della pubblica adesione del capogruppo forzista alla Camera Brunetta, è stato notato il silenzio del suo collega al Senato. E Romani non sarebbe convinto dell’approccio: la sua tesi è che in questo modo si rafforzerebbe il governo. Opinione condivisa da altri esponenti del partito e rappresentata a Berlusconi. L’obiettivo dei Cinque Stelle è far risaltare che il governo verrebbe «salvato» in Parlamento da Verdini, ammaccando ancor di più l’immagine di Renzi. Ma c’è un motivo se il leader di Forza Italia ha invitato i suoi interlocutori a «parlarne con Brunetta». Il punto è che l’ex premier si trova a un bivio: non vorrebbe rompere ciò che resta della vecchia coalizione, ma non intende nemmeno accodarsi alle manovre grilline, conscio che solo loro ne trarrebbero giovamento. Nel giorno delle dimissioni della Guidi è passato in secondo piano una sua frase, riportata dall’Agi: «In futuro — ha detto evocando lo strappo per il Campidoglio — non avrei alcun timore di andare divisi alle elezioni politiche».

Berlusconi deve decidere se essere irrilevante nel campo delle forze populiste oppure essere determinante nel campo delle forze governative (non del governo). È uno scenario che fa da sfondo al gioco sulla mozione di sfiducia e che potrebbe avvantaggiare Renzi. Ma rimane pur sempre un gioco di Palazzo. Nel Paese è tutta un’altra storia. La sindrome dell’omologazione il premier la scorge nei sondaggi, dove — rispetto al passato — il suo personale indice di fiducia è oggi valutato di pochi punti superiore rispetto ai valori del suo governo. La riduzione di quella forbice rappresenta un segnale, rivela che l’opinione pubblica si è ormai assuefatta alle dosi massicce di «ottimismo» iniettate da Renzi, e che non fanno più presa le citazioni sugli «80 euro, il Jobs act, la riforma della scuola».

Già lo storytelling è da rivedere, se il leader del Pd vuole raggiungere l’obiettivo a cui continua a credere: «Noi alle Politiche prenderemo il 40%». Ma il rischio sulla strada, più della classica buccia di banana, è rappresentato dalla quotidianità. E Renzi non vuole offrire del suo gabinetto l’immagine di un governo del tran-tran, che combatte con i decimali dell’Istat e della Commissione europea. Metterà mano al dicastero dello Sviluppo economico, dove potrebbe tornare De Vincenti, liberando un ruolo a palazzo Chigi in attesa di definire la posizione di Carrai. Il nodo politico è però un altro: trovare la leva per il rilancio. Il premier — malgrado metta in conto un risultato negativo alle Amministrative — è convinto che la chiave di volta sarà il referendum sulla riforma costituzionale. Così metterebbe a tacere quanti, nel suo stesso partito, pensano ciò che il governatore pugliese Emiliano dice: «Non c’è bisogno di opporsi a Renzi. Andrà a sbattere da solo».

1 aprile 2016 (modifica il 1 aprile 2016 | 23:26)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_aprile_01/caso-guidi-mosse-premier-evitare-rischio-contraccolpo-02d18a4a-f84f-11e5-b848-7bd2f7c41e07.shtml
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« Risposta #258 inserito:: Maggio 08, 2016, 11:22:09 am »

IL RETROSCENA

Il nuovo ministro dello Sviluppo dopo Guidi: la strettoia del premier «Mi serve uno che sia all’altezza»
Alla fine Renzi si è convinto che neppure De Vincenti può essere spostato


Di Francesco Verderami

Quando era al governo, Berlusconi impiegò centocinquantuno giorni per sostituire Scajola con Romani al ministero per lo Sviluppo economico. Impossibile battere quel record. Ma il fatto che a più di un mese dalle dimissioni della Guidi non sia stato ancora scelto un sostituto, evidenzia per Renzi un problema di penuria di classe dirigente. Perché non c’è dubbio che se il premier avesse individuato una soluzione l’avrebbe già indicata al capo dello Stato. E dunque le discussioni sul profilo tecnico o politico nel metro di selezione del candidato, la volontà di mantenere un equilibrio tra generi nel governo, e il conseguente balletto mediatico sul nome della nomina, sono l’effetto non la causa dell’impasse. Il garbuglio è un altro, emerge da una battuta pronunciata da Renzi al termine dell’ennesima fumata nera: «Mi serve uno che sia all’altezza».

Il problema
Così il premier ha fatto mostra di essere consapevole del suo problema: quello di non avere personale a sufficienza, soprattutto nel Pd. È una sorta di crisi di vocazione o una mancanza di talenti. Di sicuro è un fatto senza precedenti per un partito erede della tradizione comunista, che ha sempre tradizionalmente espresso personalità nel campo delle relazioni industriali e sindacali: perché quello del lavoro — nelle sue varie espressioni — è stato per decenni il core business della sinistra. Da quando la Guidi ha lasciato lo Sviluppo economico, a palazzo Chigi ogni settimana si è chiusa con la promessa di risolvere la pratica per la settimana successiva. Sebbene la settimana scorsa il premier abbia ammesso che «siamo ancora in alto mare», e questa settimana abbia dovuto depennare (quasi) tutti i nomi della lista. Errani, Bellanova, De Micheli, Testa: ogni soluzione ha la sua controindicazione, per ragioni politiche, per lo standing inadeguato, per i rischi di insorgenti conflitto d’interessi...

I nomi
Renzi si è dovuto convincere che anche De Vincenti, il più accreditato, non poteva essere trasferito. Intanto perché il sottosegretario vuole rimanere alla presidenza del Consiglio, eppoi perché lo stesso premier si è reso conto che — dopo aver già spostato Delrio alle Infrastrutture — trovare per quel ruolo un terzo sostituto dopo due anni di governo non sarebbe opportuno. Né sarebbe possibile richiamare oggi Calenda dalla missione diplomatica, visto che è appena partito per Bruxelles.

Gli incastri
Proprio questo gioco di incastri, dove girano sempre i soliti nomi, è rivelatore della penuria di classe dirigente. Ed è un segnale preoccupante per chi — inseguendo il blairismo e puntando sul ricambio generazionale — si ritrova sguarnito di uomini e donne con cui dar seguito alla svolta. È come se dietro la rottamazione non ci fosse (quasi) nulla. Perciò è indicativo il modo in cui, qualche sera fa, Renzi si è rivolto ad alcuni rappresentanti del suo gruppo dirigente. La tensione legata all’offensiva giudiziaria e all’offuscamento d’immagine del Pd era altissima nella stanza, quando il premier si è sfogato: «...E non riusciamo a far passare il messaggio che stiamo facendo le riforme».

I dem
Il fatto è che nel Pd si avverte un certo scollamento, se è vero che un esponente di lungo corso come il governatore del Lazio, ha deciso di centellinare la partecipazione alla campagna elettorale per le Amministrative. «Mi sono arrivati centinaia di inviti», ha raccontato ad un compagno Zingaretti: «Ma di questi candidati ne conosco pochissimi. E allora ho deciso di andare solo da quelli che puntano alla riconferma. Per sicurezza». Per la sostituzione della Guidi la prossima settimana potrebbe essere quella buona. O forse bisognerà attendere ancora un’altra settimana, proprio a ridosso dell’assemblea di Confindustria, convocata per fine mese: si noterebbe se si aprisse in assenza del ministro. Dal dicastero lo hanno segnalato. Non passa sera senza che arrivino segnalazioni a palazzo Chigi: dall’accumulo di dossier, fino alle «sollecitazioni» del Parlamento, dove giacciono provvedimenti come quello sulla concorrenza, fermo alla commissione Industria del Senato.

Il record
I centocinquantuno giorni di interim di Berlusconi sono un record che Renzi non potrà mai battere. Ma nei cinque mesi di supplenza, il premier dell’epoca — muovendosi al limite dei conflitti d’interesse — si occupò di quel ministero dove Renzi non mette piede e non mette firme, al punto che anche le strutture tecniche sono ormai scadute, e c’è chi teme che la Corte dei Conti decida di intervenire. Serve chiudere il dossier, serve «uno all’altezza».

6 maggio 2016 (modifica il 7 maggio 2016 | 00:32)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_maggio_07/dopo-guidi-strettoia-premier-105d04e8-13cd-11e6-acb9-4814fe47e238.shtml
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« Risposta #259 inserito:: Dicembre 09, 2016, 04:42:55 pm »

I volti della crisi
Crisi di governo, l’«Ora et manovra» di Franceschini: un uomo per tutte le stagioni e sempre con un alibi
Cosa pensasse di lui, Renzi l’aveva detto due anni fa al microfono in una direzione del Pd: «Scusate, nella ressa è sparito un cappotto. Dario si è già costruito un alibi di ferro»


Di Francesco Verderami

Cosa pensasse di lui, Renzi l’aveva detto due anni fa al microfono in una direzione del Pd: «Scusate, nella ressa è sparito un cappotto. Dario si è già costruito un alibi di ferro». Solo processi indiziari a carico dell’avvocato Franceschini, mai una prova che abbia consentito alle sue presunte vittime di incastrarlo. Che poi in politica non esistono i complotti, perché ogni vicenda è la risultanza di mosse azzeccate e sbagliate. E se Renzi si trova oggi in un cul de sac non è certo per colpa del ministro della Cultura. Ma siccome lo dipingono così, siccome per anni è riuscito a superare indenne le alterne fortune del centrosinistra, dell’Ulivo e del Pd, con l’avvento di Renzi aveva deciso di rifugiarsi nella splendida stanza del suo dicastero, circondato da un muro di libri e incurante del motto che gli avevano cucito addosso: «Ora et manovra». Adesso che la risultanza referendaria ha spinto il premier a dimettersi, vive come un’ingiustizia quel venticello, la tesi cioè che si sia messo in proprio — in combutta con Berlusconi — per spodestare Renzi: «Scusate non posso parlare, sono ad Arcore a chiudere l’accordo». Una battuta per sdrammatizzare una situazione drammatica per il Pd. Un modo per sottolineare che ad Arcore non c’è mai stato, lui...

Sia chiaro, nessun Candide o Forrest Gump potrebbe campare così a lungo nel Palazzo. L’arte manovriera e l’istinto di sopravvivenza sono capacità e caratteristiche di chi si è forgiato alla scuola democristiana dei coltelli. Ma se anche stavolta Franceschini dovrà difendersi dall’accusa di tramare, potrà sempre dire che un alibi ce l’ha. Perché proprio lui, prima del voto, aveva consigliato Renzi a non compiere il passo che invece ha compiuto: «Matteo, non lasciare Palazzo Chigi. Se resti, potrai continuare comunque a controllare anche il partito. Se lasci, non avrai la forza nemmeno per controllare il partito». Un suggerimento che il premier, sospettoso di natura, deve aver vissuto come una trappola e che in queste ore è invece diventata la linea del Piave per chi ha subito la Caporetto delle urne. Le ombre sono dappertutto e per Renzi l’ombra più insidiosa ha il profilo di Franceschini, specie dopo che il ministro si è opposto all’idea del premier di andare precipitosamente al voto: «Questo sarebbe un suicidio e io non intendo suicidarmi». Essendo azionista nel partito e nei gruppi parlamentari, ha pesato le parole facendo capire quanto pesavano.

Più nel Pd cresce la voglia di sbarazzarsi di Renzi, più Franceschini dice di «seguire la linea di Renzi». Non c’è bisogno dello spargimento di sangue. Perché l’adozione del Consultellum alla Camera e al Senato, aprirebbe una lunga stagione di larghe intese dopo le elezioni. E il premier del futuro governissimo sarebbe il frutto di una mediazione tra partiti, non il leader di uno dei partiti. Da scrittore ha scritto pagine dense di colpi di scena, da politico i colpi di scena li ha vissuti e talvolta subiti. La sintesi sta in una vignetta di Vincino che desidererebbe avere e che il Corriere pubblicò diciassette anni fa: ritrae una furibonda mischia rugbistica dalla quale esce indenne Mattarella che, ovale in mano, s’invola verso la meta. Il giorno prima Franceschini — già vestito per salire al Colle a giurare da ministro della Difesa del secondo governo D’Alema — era rimasto incastrato nella mischia. Dovette attendere. Seppe attendere. Bisogna saper attendere.

8 dicembre 2016 (modifica il 9 dicembre 2016 | 00:59)
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Da - http://www.corriere.it/la-crisi-di-governo//notizie/ora-et-manovra-franceschini-uomo-tutte-stagioni-d7c39c00-bd8b-11e6-bfdb-603b8f716051.shtml
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« Risposta #260 inserito:: Marzo 23, 2017, 11:12:42 am »

SETTEGIORNI

Il piano Berlusconi per le rivincite: «La riabilitazione vale 5 punti»
Il sistema elettorale sarà decisivo. Per ora la prospettiva del listone con Salvini è esclusa


  Di Francesco Verderami

Non è stato il voto su Minzolini che l’ha indotto a queste riflessioni. Semmai il modo in cui è stata respinta la decadenza del parlamentare azzurro ha fortificato i suoi convincimenti, che vanno oltre l’umiliazione subita nel 2013, quando la stessa Aula, con gli stessi senatori, lo espulse dal Palazzo: «Ora è chiaro che la legge Severino fu un’arma usata dal Pd per far fuori l’avversario politico». Un’arma che il Cavaliere ritiene ora di poter sfruttare a proprio vantaggio, per ribadire che «c’è un problema democratico da risolvere e che riguarda la possibilità di un leader di poter rappresentare nelle urne i propri elettori».

Obiettivo al 20 per cento
Berlusconi sa di avere un formidabile vettore mediatico. E lo userà per convincere un pezzo di opinione pubblica che il suo progetto può davvero concretizzarsi. Al tempo stesso è consapevole che difficilmente riuscirà a realizzare quel disegno fino in fondo. Intanto la Corte di Strasburgo, se sentenziasse a suo favore, gli restituirebbe l’onore politico, ma non inciderebbe sulla possibilità di ricandidarsi. Semmai sarebbe l’allungamento della legislatura a poter offrirgli la chance. Come ha scritto Magri sulla Stampa, se le elezioni si svolgessero nel maggio del 2018 - evento possibile secondo le norme costituzionali - Berlusconi avrebbe il tempo per presentare al Tribunale di sorveglianza la domanda di riabilitazione. E in base alla legge Severino, se la richiesta venisse accolta, potrebbe partecipare alla sfida.
È uno scenario (quasi) irrealizzabile, ma evocativo. Perché - non potesse candidarsi - il Cavaliere si presenterebbe al Paese come una «vittima del sistema», per ottenere quei voti necessari a garantirsi la centralità nel Palazzo nella prossima legislatura. «L’importante è superare il 20%»: ecco l’obiettivo di Berlusconi, convintosi peraltro che restare fuori dalle Camere potrebbe essere ininfluente. In fondo Renzi, Grillo e Salvini in questa legislatura hanno avuto ruoli da protagonisti senza essere parlamentari.

I rapporti con Salvini
Perciò - raccontano autorevoli fonti - «il dottore si sta acconciando a fare il Grillo», a gestire il suo marchio come fa il capo del Movimento: alle elezioni del 2013 era lui il frontman di candidati a quei tempi senza volto e senza nome. Ed è così che il Cavaliere sta selezionando le «novità», sfidando i dirigenti forzista e la loro ilarità quando parla dell’«albero della libertà»: «Il tempo delle ideologie è finito. E senza quella spinta, solo puntando sugli interessi singoli e collettivi degli elettori possiamo sperare di riportarli a votare». Berlusconi si vede al bivio del sistema: potrebbe essere decisivo per la vittoria della sua coalizione o potrebbe incidere sulla scelta del premier di un governo di larghe intese. In attesa della legge elettorale, scarta (per ora) la prospettiva del listone con Salvini, con il quale non vuol prendere nemmeno un caffè. E il leader della Lega contraccambia, attaccandolo persino sul Milan: «Da tifoso sono imbarazzato per la telenovela sul closing. Maglia e dignità hanno un valore che non so dove siano finite».

Gli accordi
È una «telenovela» anche l’accordo nel centrodestra, con Berlusconi che per sgambettare Salvini lancia Zaia come candidato premier, e Salvini che per sgambettare Berlusconi (e Maroni) fa circolare il nome della Gelmini come possibile candidata al Pirellone. Ma persino nel Pd c’è chi scommette infine su un’intesa tra i due. Anche perché il Cavaliere, per mettere le briglie al capo del Carroccio, ricorda ai leghisti che «l’anno prossimo ci sono le regionali in Lombardia». E intanto cerca di raccogliere al suo progetto (quasi) tutti. A Rotondi e Cesa, incontrati riservatamente, ha chiesto di prendere in lista «i transfughi centristi». Dinnanzi alla riottosità del segretario dell’Udc, ha aggiunto: «Ho sentito Casini e mi ha detto che sapeva del nostro incontro» ... Strasburgo, provincia di Arcore.

18 marzo 2017 (modifica il 18 marzo 2017 | 08:39)
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Da - http://www.corriere.it/politica/17_marzo_18/piano-berlusconi-le-rivincite-la-riabilitazione-vale-5-punti-a74124fc-0bac-11e7-a9ee-e937d2fc7af8.shtml
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« Risposta #261 inserito:: Maggio 16, 2017, 02:07:43 pm »


LO SCENARIO

Banca Etruria, Boschi agli amici: «Mi sento sola e isolata, ma non mi dimetto: non sono colpevole»
L’indagine sulle banche voluta dal leader PD potrebbe trasformarsi in un palcoscenico dove Renzi potrebbe essere rimesso sul banco degli imputati.
Boschi: mi sento sola

Di Francesco Verderami

Se davvero Renzi cerca l’incidente per andare al voto anticipato, il caso Boschi non è quello più indicato. E se cercava la rivincita con la commissione d’inchiesta sulle banche, le coincidenze finiscono per renderlo vittima della nemesi. È chiaro il motivo che aveva spinto Renzi, dopo il crac Etruria, a voler fare chiarezza sugli istituti di credito italiani. L’allora presidente del Consiglio riteneva (e ritiene ancora) di avere valide ragioni, «visto che su di me e sul mio governo sono stati scaricati problemi nati molti anni prima, sul finire dello scorso decennio, quando le banche andarono fuori dai parametri senza che le autorità intervenissero». Perciò aveva insistito sulla commissione d’inchiesta, anche dopo l’addio a Palazzo Chigi, resistendo ai suggerimenti di un pezzo del suo partito e persino del Quirinale, che lo invitavano alla prudenza.

Non poteva immaginare quanto stava per accadere quel giorno di inizio mese, quando venne informato che la Conferenza dei capigruppo di Montecitorio aveva calendarizzato il voto in Aula sulla commissione per il 24 maggio. E siccome c’era fretta per insediarla, nessuno aveva presentato delle modifiche al testo varato dal Senato. Così fra due settimane la Camera darà via libera al progetto renziano, offrendo agli avversari del leader democrat un palcoscenico di cui si serviranno per rimetterlo politicamente sul banco degli imputati. È l’eterogenesi dei fini, è il passato che ritorna e intralcia il suo disegno di riscatto, costruito sulla pietra d’angolo delle primarie.

Nell’immaginario collettivo le banche sono destinate a rappresentare il tallone d’achille di Renzi, come per Berlusconi lo erano le televisioni. Anche perché la sua immagine si sovrappone all’immagine della Boschi, di nuovo sotto i riflettori per la storia della banca e di suo padre. Ieri la sottosegretaria si è presentata in Consiglio dei ministri ostentando sicurezza, dilungandosi sui decreti legislativi da vagliare. Ma quella maschera celava la disperazione di chi ha confidato agli amici più intimi di sentirsi «sola e isolata», «spinta ancora in questa storia per ragioni che mi sfuggono», epperò decisa a non cedere siccome «le dimissioni sarebbero un’ammissione di colpevolezza. E io non sono colpevole».

Anche Renzi è contrario a un suo passo indietro, non tanto per evitare ripercussioni sull’attuale governo quanto per scongiurare un effetto negativo sul giudizio dei suoi mille giorni a palazzo Chigi. Ma l’interessamento a Banca Etruria di Delrio — a quei tempi sottosegretario alla Presidenza — alimenta i sospetti, che pure l’ex vice ministro Zanetti considera «frutto di una visione distorta della politica»: «È normale per un parlamentare occuparsi dei problemi del territorio. Se c’è una banca in difficoltà, non è sbagliato interessarsene, se non si fanno pressioni. Il punto è che la Boschi ha detto in Parlamento di non essersene occupata. Solo Ghizzoni potrebbe dire la parola definitiva».

Ma non lo fa. E il silenzio dell’ex ad di Unicredit fa alzare la voce agli avversari di Renzi. Così l’idea di far passare la nottata non regge con l’approssimarsi del voto sulla commissione d’inchiesta. Il Pd è pronto a chiederne la presidenza, il forzista Brunetta è pronto a chiedere «l’audizione del governatore Visco, perché è chiaro che si partirà dai casi più recenti». Chissà se al leader democrat sono tornati in mente certi suggerimenti, anche del Colle: i timori che la commissione potesse diventare un predellino per la campagna elettorale, il rischio che il suo uso strumentale finisse per minare la politica in un quadro peraltro di fragilità del sistema creditizio italiano.

Una sorta di Armageddon, insomma, una roba da crisi di sistema. «Un suicidio involontario», dice il centrista Cicchitto, che scorge in queste pulsioni certe similitudini con la fine della Prima Repubblica, nel tentativo di restituire l’onore al proprio partito e a se stessi: «Magari andremo a rompere le scatole pure a chi da Francoforte sta salvando l’Italia...». E ci sarà un motivo se Berlusconi — nonostante abbia dei conti da regolare con la storia — pare preoccupato a tenere quel vaso di Pandora quantomeno socchiuso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
12 maggio 2017 | 23:24

Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/17_maggio_13/commissione-inchiestache-puo-diventare-boomerang-91f49ff8-3757-11e7-91e3-ae024e503e5d.shtml
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« Risposta #262 inserito:: Giugno 05, 2017, 11:39:56 am »


IL PREMIER E LA RIFORMA

Gentiloni «leale» col Pd, ma se il voto è anticipato, la sua scelta è settembre
L’alternativa è il 2018, «per non restare in mezzo al guado». Il presidente del Consiglio sorride ai suoi interlocutori: osservo quanto accade con atteggiamento zen

Di Francesco Verderami

Non si chieda a Gentiloni di opporsi a Renzi, ma non gli si chieda nemmeno di essere d’accordo fino in fondo con Renzi: sarà «leale verso il mio partito», cioè verso il segretario, e spiega che farà «quanto mi verrà richiesto». Insomma, è pronto a staccarsi la spina, se la legge elettorale verrà approvata in tempo per andare alle urne in settembre. Ecco l’unica condizione che pone il premier: a settembre o l’anno prossimo, «si voti subito o a scadenza naturale», per scongiurare un pericoloso accavallamento dell’agenda politica nazionale con le scadenze che impegnano l’Italia in Europa. «Bisogna evitare che il sistema resti in mezzo al guado», secondo Gentiloni. Posizione non proprio simile a quella di Renzi, che giorni addietro — nelle consultazioni con i partiti sulla legge elettorale — si era spinto fino a ottobre inoltrato con il calendario delle urne. E davanti alle preoccupazioni dei suoi interlocutori aveva messo persino in conto un’eventuale procedura di infrazione da parte di Bruxelles pur di chiudere presto la legislatura e avere entro l’anno un governo legittimato dal voto, capace di trattare a muso duro con l’Unione.

La fretta

Se il presidente del Consiglio ripete che farà «quanto mi verrà richiesto», la richiesta può già trovarla nella legge elettorale, nella definizione territoriale dei collegi che è stata direttamente inserita nella riforma, al contrario di quanto accadde con il Mattarellum e con l’Italicum. Allora il compito toccò al Viminale. Ed è vero che anche stavolta è stata assegnata la delega al governo, ma stavolta è previsto che — in caso di voto anticipato — vengano adottati i criteri stabiliti dalla nuova legge. Smontare e rimontare l’assetto dei collegi non è facile: ai tempi del Mattarellum furono necessari tre mesi, per l’Italicum ne servirono quattro. Per il «tedesco» sembra sia bastata la consulenza dell’Ufficio studi della Camera e alcune riunioni notturne tra esponenti del Pd e di Forza Italia. È la prova regina della fretta, la dimostrazione che si contano i giorni. Ma non c’è modo di interpretare cosa si celi dietro il sorriso enigmatico con cui Gentiloni si offre agli interlocutori: «Osservo quanto accade con atteggiamento zen». Mentre Renzi torna a chiamarlo con il doppio cognome più il titolo nobiliare e gli azzera in direzione quanti facevano riferimento a lui. Mentre nel gruppo dirigente — persino nella stretta cerchia del capo — c’è chi si adegua alla linea con il timore che non sia quella giusta. Mentre nei gruppi parlamentari c’è la ressa per conquistare un posto nei listini del proporzionale, tutti consapevoli che un posto nei collegi con il «tedesco» — per com’è congegnato — sarebbe una lotteria, e che l’elettore con la sua croce sulla scheda metterebbe in moto processi imperscrutabili.

Il patto del G4

Sia chiaro, il premier non è alla ricerca di una sponda, non può né vuole ostacolare la linea del partito, cioè di Renzi. Perciò non accenna mai al plauso ricevuto in questo periodo dai partner europei e tantomeno si attarda sui sondaggi: la scorsa settimana, secondo il report di Ixè per la trasmissione Agorà, il suo indice di fiducia è cresciuto di un punto (34%), mentre il segretario è sceso di un punto (30%), superato persino dal governo (31%). Il tempo che rimane a Gentiloni è il tempo che si daranno i partiti sulla riforma del sistema di voto. Il futuro si vedrà. Ma se la legge elettorale è lo specchio dell’anima delle forze politiche, allora bisognerà vedere se reggerà — e in che modo — il patto del G4: tra Pd, Forza Italia, Lega e M5S, i Cinquestelle paiono al momento l’anello debole. Perché Grillo è intervenuto per normalizzare i suoi, ma il dissenso alla riforma dell’ala movimentista si alimenta del dissenso della rete e trae linfa dai media di riferimento. Dal Fatto Quotidiano, per esempio, che ieri titolava: «Gratti il tedesco ed esce l’Italicum. Capilista bloccati e multi-candidature pro casta».

Sovrapposizione delle immagini

L’immagine di Grillo che si sovrappone a quella di Renzi e Berlusconi sarebbe un disastro per M5S, che per anni ha denunciato il «Parlamento dei nominati». E infatti a sera i grillini dicevano che sulla legge elettorale «ancora non ci siamo». Quando e se «ci saranno», in tempo per andare al voto l’ultima settimana di settembre, Gentiloni dimostrerà la sua lealtà al partito, cioè a Renzi. Intanto si prepara a mettere in sicurezza le riforme che sono a metà del guado alle Camere, a partire dal ddl sulla Concorrenza, come gli ha chiesto Mattarella.

3 giugno 2017 | 00:02
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/politica/17_giugno_02/gentiloni-leale-col-pd-ma-se-voto-anticipato-sua-scelta-settembre-8f17b1f4-47d7-11e7-b4db-9e2de60af523.shtml
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« Risposta #263 inserito:: Giugno 05, 2017, 11:44:06 am »

PARTITI

La terapia illusoria dei magistrati che entrano in politica
Questa commistione che ormai fa solo confusione non è più un problema di subalternità del potere politico, ma una forma inconscia di deresponsabilizzazione

  Di Francesco Verderami

Nel ‘94 ci provò Silvio Berlusconi con Antonio Di Pietro, nel ‘96 ci riuscì Romano Prodi sempre con Di Pietro, e ancora tre anni fa Matteo Renzi si presentò al Quirinale con una lista di ministri in cui c’era Nicola Gratteri come Guardasigilli. L’uso politico del magistrato è un rito antico, si rinnova dai tempi di Tangentopoli: per i leader della Seconda Repubblica farsi affiancare da una toga è stata finora una forma di garanzia offerta alla pubblica opinione, la rappresentazione di una rottura rispetto al passato e alle sue pratiche. È allora singolare che i grillini — interpreti del nuovo — perpetuino una vecchia e frusta cerimonia: offrire posti di governo a esponenti della magistratura non è un segno di diversità ma un gesto di continuità. Questa commistione che ormai fa solo confusione non è più un problema di subalternità del potere politico, ma una forma inconscia di deresponsabilizzazione: non si chiedono voti per governare la cosa pubblica cercando una patria potestà per gestirla. Ha ragione quindi Piercamillo Davigo quando teorizza (e pratica) la separazione delle carriere tra politici e magistrati, al contrario di quanto teorizza (e sembra voler praticare) il suo collega Antonino Di Matteo. Peraltro, con questo approccio alla questione, l’ex pm di Mani pulite contribuisce a rompere una crosta di ipocrisia, l’idea cioè che la presenza delle toghe assicuri pulizia nel Palazzo. Anche perché il tasso di magistrati nelle istituzioni è oggi elevatissimo: sono dappertutto.

Ci sono magistrati che scrivono leggi nei ministeri e magistrati che disfano leggi fuori dai ministeri, ci sono magistrati tra le cariche istituzionali e magistrati che indossano la fascia tricolore da sindaco nelle stesse città dove — fino al giorno prima — avevano vestito i panni del procuratore. Una volta le toghe in politica erano un’eccezione, e anche se oggi sono diventate una regola i problemi del Paese sono rimasti gli stessi: il debito pubblico, la disoccupazione e pure la corruzione. Serve un programma per risolverli, non farsi accompagnare da papà.

1 giugno 2017 (modifica il 1 giugno 2017 | 20:41)
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Da -  http://www.corriere.it/opinioni/17_giugno_02/terapia-illusoria-magistrati-che-entrano-politica-1f28f9ae-46f9-11e7-b9f8-52348dc803b5.shtml
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« Risposta #264 inserito:: Giugno 05, 2017, 11:50:14 am »

IL RETROSCENA

Trattative (e nervosismi) sul «tedesco» Berlusconi: le urne? Responsabilità vostra
La data del voto tra 24 settembre e 22 ottobre. E Renzi non esclude la procedura d’infrazione

  Di Francesco Verderami

Lui si impegna sulla legge elettorale ma è l’altro che deve vedersela per il voto anticipato. Lui è Berlusconi, l’altro ovviamente è Renzi. E lui sulla data in cui si andrà alle urne non ha offerto garanzie all’altro, nel senso che «saranno loro a doversene assumere la responsabilità». «Loro», cioè il Pd. Sia chiaro, il patto tra i due c’è e sembra anche saldo, ma sull’appuntamento con le urne — che nel calendario del leader democrat oscilla tra il 24 settembre e il 22 ottobre — il Cavaliere può tutt’al più assecondare le mosse dell’interlocutore.

Nessun conflitto con Mattarella
Ma fino al portone del Quirinale. Oltre non intende andare, e non solo perché non vuole entrare in conflitto con Mattarella ma perché l’affaire non è nelle sue disponibilità: guida una forza di opposizione. Le procedure per chiudere anticipatamente la legislatura sono delicate, specie se sul Colle si avverte una certa refrattarietà all’argomento, perciò Berlusconi manovra con «cautela», che è anche la parola d’ordine trasmessa al suo partito. Già la storia della legge elettorale sta creando nervosismo in Forza Italia: dal modello di scheda con cui si andrà a votare alla definizione dei collegi, ogni dettaglio è visto come una potenziale trappola.

Le rassicurazioni del Pd
E non bastano le rassicurazioni del Pd, le promesse sul futuro governo di larghe intese, i «sei ministri nostri» di cui parlavano alcuni azzurri ieri in Transatlantico. Meglio approfondire per non ritrovarsi a dover correre ai ripari, perché all’ultimo momento si capisce che la soglia di sbarramento al 5% favorisce Pd e M5S a discapito di Forza Italia nella spartizione degli scranni lasciati vacanti da chi non ha superato il quorum. E dato che quella partita è ormai persa, meglio vigilare sul resto, per non permettere che — oltre al vantaggio già acquisito — i due partiti avversari ne aggiungano anche un altro: perché se la ripartizione proporzionale dei seggi avvenisse non attraverso un collegio unico nazionale ma in base a piccoli collegi circoscrizionali, Renzi e Grillo avrebbero un ulteriore «boost» di posti in Parlamento.

Niente tecnicismi
E ci rimetterebbe (ancora) Berlusconi. Per quanto i tecnicismi lo facciano letteralmente assopire, il Cavaliere ha inteso di doversi ridestare, per evitare la stangata, memore com’è della profezia sentita da Verdini: «Silvio, stai attento». E infatti Verdini non sa se il patto reggerà fino in fondo: «Speriamo...», dice. Perché più l’accordo si avvicina alla chiusura più si avvertono inevitabili scricchiolii. Accade sempre quando c’è di mezzo la legge elettorale, ma c’è un motivo se ieri — come racconta l’Agi — incontrando alcuni sindaci a villa Gernetto, Berlusconi è tornato alla trattativa sul capo dello Stato che mandò a monte il primo Nazareno: «Mi salutai con Renzi alle 20 con l’accordo su Amato al Quirinale e la mattina dopo seppi che proponevano Mattarella».

La cautela prima di tutto
Non andò così, e Gianni Letta non spiegherà mai in pubblico quali furono gli «errori» commessi da Berlusconi in quell’occasione. Ma la citazione del Cavaliere dà l’idea del momento: «Perché Renzi è tornato a essere un nostro interlocutore, ed è bravo. Anche se bisogna stare attenti a fidarsi». Appunto. E siccome la lingua batte sempre lì, la «cautela» è diventata precetto: sulla data del voto se la sbrighi il «bravo» con il Colle. Per quanto ieri M5S e Lega, evocando le urne per settembre, proprio al Colle hanno voluto inviare un messaggio. Renzi, al contrario, davanti alla direzione del Pd è parso quasi disinteressarsene: «Non abbiamo impazienza di andare al voto».

La legge di Stabilità
È stato talmente olimpico che la delegazione di un partito, ricevuta il giorno prima al Nazareno, si è domandata chi avesse davvero incontrato. Durante l’incontro era stato chiesto a Renzi come si sarebbero potute conciliare le urne subito dopo l’estate, con le scadenze parlamentari per l’approvazione del Def e della Nota di variazione, previste entro il 27 di settembre. E come si sarebbe potuto assolvere al compito europeo di trasmettere la legge di Stabilità a Bruxelles entro il 15 di ottobre, con un Parlamento appena insediato. «Io quelli li conosco», aveva attaccato il padrone di casa con vocabolario tranciante. La versione di Renzi è che l’Italia debba avere entro fine anno un nuovo esecutivo, capace di gestire la contrattazione con l’Europa, pronto a mettere in conto persino un’eventuale procedura d’infrazione. In attesa del nuovo governo, al vecchio spetterebbe inviare una bozza della legge di Stabilità, perché quella vera arriverebbe dopo. Perciò Berlusconi...

30 maggio 2017 | 23:27
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/politica/17_maggio_30/trattative-nervosismi-tedesco-berlusconi-urne-responsabilita-vostra-3cd96146-457d-11e7-81bc-6e91411407c5.shtml
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« Risposta #265 inserito:: Luglio 13, 2017, 11:28:30 am »

L’INTERVISTA

Berlusconi: c’è un solo centrodestra, quello moderato e liberale. Legge elettorale: ripartire dal sistema tedesco
Il leader di Forza Italia: rieccomi, guiderò la campagna elettorale. Nessun delfino, esistono solo in monarchia. Noi siamo il primo partito e forza trainante

Di Francesco Verderami

Presidente Berlusconi, lo sa che nel Pd la chiamano «Fanfani»? Il signor «rieccolo», come scrisse Montanelli del leader democristiano.
«Ricordo bene la battuta di Montanelli. Ma io non sono mai andato via. Comunque, “rieccomi”».

Il centro-destra ha vinto le Amministrative, ma in vista delle Politiche — in questo sistema multipolare — non si vede oggi un baricentro.
«Il baricentro lo decideranno gli elettori con il voto, finalmente. Per il momento, alle Amministrative hanno scelto noi. A dimostrazione che un centro-destra con una forte componente liberale, moderata, ancorata al Ppe, è in grado di esprimere idee e persone giuste per vincere, ma soprattutto per governare bene le città e la nazione. In questo centro-destra, Forza Italia — che si è confermata il primo partito della coalizione per voti e per numero di eletti — ha una funzione trainante. È la prova che il vento è tornato a spirare nella nostra direzione».

In realtà Genova è stata considerata il prototipo di una coalizione che proietta il centro-destra oltre Berlusconi. L’ha vissuta come una forma di ammutinamento o come un fatto fisiologico della politica?
«Io credo che gli elettori di Genova abbiano scelto, come avevo suggerito loro, un bravo sindaco, un manager prestato alla politica: Marco Bucci. Hanno dato un giudizio severo sulla sinistra, non sulle chiacchiere di Palazzo. E poi abbiamo ottenuto eccellenti risultati in molte regioni, dal Nord al Sud, grazie all’impegno dei nostri militanti e dirigenti: per tutti, vorrei citare una regione importante come la Lombardia, dove abbiamo vinto quasi ovunque, grazie anche al grande lavoro del nostro coordinatore Mariastella Gelmini. Ma tutti i nostri coordinatori regionali si sono impegnati con entusiasmo e passione».

Per marcare il suo primato nel centro-destra, ha annunciato la presentazione di un programma che starebbe scrivendo di suo pugno.
«Abbiamo preparato un bellissimo albero della libertà, rappresentazione grafica di un programma che sarà rivoluzionario: le radici sono i nostri valori cristiani e i nostri principi liberali, i rami rappresentano i diversi problemi del Paese e i frutti sono le nostre proposte per superarli e far ripartire l’Italia. Ne citerò due. La flat tax, l’imposta piatta uguale per tutti, famiglie e imprese, al livello più basso possibile con una quota esente per i primi 12.000 euro, in modo da assicurare la progressività. E poi il reddito di dignità: di fronte alle cifre drammatiche sulla povertà in Italia serve assicurare un reddito minimo, appunto dignitoso, nel quadro di una riforma complessiva del welfare. Proprio nei giorni scorsi uno dei più prestigiosi think tank italiani, l’Istituto Bruno Leoni, ha avanzato in questa materia proposte molto simili alle nostre. È un’altra conferma del fatto che siamo sulla strada giusta».

Pensa basterà per tenere uniti i due centro-destra apparsi negli ultimi tempi?
«Non mi ero accorto che ci fossero due centro-destra. Io ne conosco uno solo, quello che ho inventato 23 anni fa e con cui abbiamo vinto molte elezioni a tutti i livelli. Un centro-destra unito, plurale, vincente. Una coalizione basata sui valori dell’Occidente liberale, all’interno della quale uomini e idee della destra democratica hanno trovato spazio e ruolo. Quale sarebbe l’altro? Quello della signora Le Pen, che ha garantito la vittoria della sinistra in Francia?».

A proposito di Salvini, in campagna elettorale lei si è mostrato più comprensivo verso i guai di Renzi che conciliante con il leader della Lega: ha detto che se ci fosse un governo Salvini-Di Maio scapperebbe all’estero.
«La mia era ovviamente una battuta. Più che altro, a scappare sarebbero moltissimi elettori della Lega. Quanto a Renzi, dire che io sia stato comprensivo non è esatto. Semplicemente non uso verso gli avversari gli stessi metodi che sono stati usati verso di me, in particolare per quanto riguarda la persecuzione mediatico-giudiziaria».

Teme di non potersi ricandidare, visti i tempi della Corte di giustizia europea: se non le fosse possibile ripresentarsi, non sarebbe opportuno che — da fondatore del centro-destra — lanciasse un suo candidato?
«I delfini esistevano nelle monarchie, e non sempre riuscivano a salire sul trono. Per quanto mi riguarda, alle elezioni ci sarò comunque. Anche se la Corte di Strasburgo non desse il suo verdetto in tempo utile, sarò in campo a guidare la campagna elettorale. Certo, sarebbe una clamorosa ingiustizia per milioni di italiani che non potrebbero votare il loro leader».

Il sistema politico non ha un baricentro e nemmeno una legge elettorale. Fallito l’accordo sul proporzionale, sarebbe pronto a un’intesa su un sistema che garantisse il premio di maggioranza a una coalizione? E pensa che il Pd accetterebbe?
«Il premio di coalizione ha più senso del premio di lista, ma poiché il Pd non ne vuol sentir parlare, noi siamo fermi al sistema tedesco, sul quale tutti i maggiori partiti fino a 15 giorni fa erano d’accordo. Qualcuno deve spiegarmi cos’è cambiato e perché non si può ripartire da dove eravamo arrivati».

Ritiene che a questo punto si arriverà alla scadenza naturale della legislatura?
«Temo sia inevitabile, anche se preferirei che si votasse prima per tornare a dare finalmente la parola agli italiani».

L’Europa e i mercati ci guardano: nell’interesse del Paese sarebbe ragionevole andare al voto senza aver varato una legge di Stabilità?
«Il voto in democrazia non è una patologia, è il normale esercizio della sovranità popolare. Se la legge di Stabilità dovesse essere impostata da un governo e conclusa nel suo iter da un altro governo, non succederebbe nulla di traumatico. Però temo che ormai sia una discussione astratta».

Insiste con il proporzionale, ma lei non era l’uomo del bipolarismo?
«Il bipolarismo l’ho portato io in Italia, quando ce n’erano le condizioni. Ma oggi gli italiani hanno deciso di non essere bipolari, e quindi dobbiamo rispettare la loro volontà, e non cercare di forzarla. I sistemi elettorali servono per garantire le decisioni degli elettori, non per coartare la loro libertà, costringendoli a scelte che non vogliono fare. Sono uno strumento, non un valore in sé, e in momenti storici diversi servono sistemi diversi».

Questo momento storico lascia presagire che si andrà verso governi di larghe intese. Nella Prima Repubblica partiti con forti identità si coalizzavano per governare. E l’Italia divenne una potenza mondiale. Perché oggi si fatica a parlarne: è il Paese che non è più abituato o sono i politici che non hanno capacità di mediare?
«Anche allora ci furono coalizioni e coalizioni. Ci fu il centrismo, che realizzò il miracolo economico e trasformò un Paese devastato dalla guerra in una delle grandi potenze economiche mondiali. Ci fu il centro-sinistra, che fece cose importanti ma compromise la crescita per l’eccessiva dilatazione della spesa pubblica. Ci fu la disgraziata stagione del compromesso storico, e poi il pentapartito, che pur commettendo numerosi errori avviò una nuova modernizzazione del Paese. Le coalizioni funzionano se sono coerenti al loro interno, e comunque sono una decisione degli elettori».

Per rimanere in tema, qual è la sua opinione su Renzi: pensa che da rottamatore finirà per essere rottamato?
«Si possono attribuire a Renzi due tipi di errori: ha atteggiamenti mutevoli che anche noi abbiamo subìto. E poi non si è mostrato in grado, per quella sua cultura politica tipica della sinistra democristiana, di realizzare quella vera modernizzazione della sinistra che sarebbe molto utile all’Italia. Tuttavia non si può non riconoscere che sia dinamico e determinato».

Che effetto le ha fatto vedere Prodi tornare sulla scena?
«Mi ha incuriosito. Significa che essere stato umiliato per tre volte dai suoi non gli è bastato».

Nell’immaginario collettivo ha sostituito «i comunisti» con Grillo: ma se prende così tanti voti non sarà perché le forze della Seconda Repubblica hanno fallito?
«Verissimo: il successo dei grillini è il fallimento della politica. Io considero pericolosissimi i Cinquestelle ma ho massimo rispetto e comprensione per chi li vota. Questi elettori esprimono un disagio, una rabbia, una delusione verso la politica che non solo condivido, ma faccio mie. A quegli elettori noi abbiamo il dovere di proporre una diversa qualità dell’offerta politica, basata su persone oneste e credibili e su programmi concreti e realizzabili. Questo è l’unico modo per fermare un movimento come quello di Grillo, che se mai dovesse governare sarebbe la sciagura definitiva per il nostro Paese. Basti pensare alle politiche fiscali, basate sulla patrimoniale, su tasse altissime sulla casa e su tasse di successione al 50%».

Per quanto i dati macroeconomici segnalino un balzo del Pil, l’Italia deve fare i conti con la crisi di pezzi del sistema bancario. E i costi in parte ricadono sui cittadini.
«Sono molto preoccupato. Intanto sarei cauto a parlare di balzo del Pil, visto che cresciamo ad una velocità che è pari alla metà dei nostri partner europei: la crescita è troppo bassa per incidere sulla disoccupazione, che è un grande dramma sociale del nostro Paese. In realtà è la situazione complessiva dell’Italia che mi preoccupa molto, e che mi induce ad usare volutamente una parola forte come “rivoluzione”. Sono necessarie risposte terribilmente urgenti e concrete in ogni settore: l’economia non cresce, la disoccupazione aumenta, la perdita del benessere e quindi la povertà ci minacciano, l’immigrazione dilaga incontrollata, i cittadini non si sentono sicuri, e in più siamo tutti vittime dell’oppressione fiscale, burocratica e giudiziaria. Per uscire da questa situazione ci vuole dunque una vera e propria rivoluzione: quella grande rivoluzione liberale che è il vero obbiettivo finale del nostro agire».

Ritiene che il governo abbia fatto bene a varare il decreto per salvare gli istituti veneti?
«Bisognava intervenire prima e meglio, garantendo così un enorme risparmio ai contribuenti. Ritengo comunque sia giusto evitare una bancarotta che avrebbe effetti incalcolabili a catena, soprattutto sui piccoli risparmiatori. Non è la prima volta che il governo è costretto a intervenire per salvare delle banche dal fallimento. Mi sembra il minimo chiedere, di fronte a tanto esborso di denaro pubblico, che sia fatta chiarezza sulle responsabilità a tutti i livelli».

C’è poi l’emergenza immigrazione che...
«Su questo la situazione è assolutamente fuori controllo. Finalmente, forse, se n’è accorto anche il governo. Ma per il momento siamo solo alle intenzioni, anche se buone, mentre ondate di migranti si riversano sul nostro Paese. Un traffico indegno e insieme un dramma sociale per gli italiani. Eppure il problema non è irrisolvibile: quando eravamo al Governo, avevamo praticamente azzerato gli sbarchi. Questo grazie ai trattati che avevamo firmato con la Libia e gli altri Paesi del nord Africa».

Ma è tutto cambiato da allora, e la Libia di fatto non esiste più.
«Nel 2011, la politica irresponsabile di Sarkozy e Obama di sostegno alle cosiddette “primavere arabe” provocò l’apertura della diga. Il regime di Gheddafi venne abbattuto e la Libia piombò nel caos. Nel frattempo, in Italia, un vero e proprio colpo di Stato portò il mio governo alle dimissioni. Da allora, cominciò il disastro: oltre 700mila nuovi arrivi. Ora quella diga va chiusa, perché produce un dramma per gli italiani, e per gli stessi migranti che si illudono di venire a trovare il benessere e invece trovano solo miseria. Le soluzioni passano attraverso l’Europa. Ma non basta ridistribuire i rifugiati, bisogna stipulare con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo dei trattati per bloccare gli scafisti prima della partenza, e degli accordi per far accettare il rimpatrio dei clandestini. Oltre l’emergenza, per fermare questo fenomeno epocale occorre poi un grande piano Marshall per lo sviluppo dell’Africa, sotto la bandiera delle Nazioni Unite, con la partecipazione dell’Europa, degli Stati Uniti, della Federazione Russa, della Cina. Un piano di cui l’Italia deve farsi promotrice».

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30 giugno 2017 (modifica il 30 giugno 2017 | 08:05)

Da - http://www.corriere.it/politica/17_giugno_30/c-solo-centrodestra-20ca10cc-5d0b-11e7-95ac-44c3014ce0fa.shtml
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« Risposta #266 inserito:: Settembre 24, 2017, 12:09:01 pm »

Troppe incognite per Berlusconi, l’intesa non piace a Gianni Letta
Ma i promotori della legge hanno studiato una procedura per evitare agguati in Aula.
L’ex sottosegretario è compiaciuto del fatto che il leader di Forza Italia e il segretario del Pd abbiano ripreso a dialogare direttamente

  Di Francesco Verderami

Non è colpa sua se lo dipingono così: sempre suadente e conciliante. Invece ci sono momenti in cui Gianni Letta si altera e si mostra intransigente. In questi giorni, per esempio, il consigliere di Berlusconi ha un dubbio per ogni capello sulla riforma elettorale, che a suo giudizio non va bene, non conviene. Il vocabolario non inganni: sentirgli dire che l’accordo «è un errore dettato da una visione miope della politica», è come sentirgli pronunciare una parolaccia. La parolaccia a Gianni Letta è scappata davanti al Cavaliere e a quanti hanno spinto per stringere l’intesa con Renzi sul Rosatellum. Certo, l’ex sottosegretario è compiaciuto del fatto che il leader di Forza Italia e il segretario del Pd abbiano ripreso a dialogare direttamente. Ed è convinto che nella prossima legislatura l’unica prospettiva possibile (e auspicabile) sia un governo di larghe intese. Ma ritiene che, al di là delle buone intenzioni, il modello elettorale scelto possa ostacolare il progetto. Infatti contesta il merito e la tempistica del patto.

Rischio di pagar dazio
Ancora all’ultima riunione Letta aveva invitato a lanciare lo sguardo oltre il contingente. È vero che il meccanismo di coalizione permetterebbe a Berlusconi di evitare la lista unica con Salvini, e magari consentirebbe di lucrare un po’ di seggi a danno dei grillini: «Ma la riforma ci getterebbe nelle braccia della Lega», per due ragioni. Per la difficile trattativa con il Carroccio che attenderebbe Forza Italia sulle candidature nei collegi maggioritari al Nord, e per il legame politico che comunque gli eletti forzisti di quei collegi contrarrebbero con l’alleato leghista. Era stato un modo elegante per spiegare che, dopo le elezioni, verrebbe complicato tagliare quel cordone e puntare sulla grande coalizione senza correre il rischio di pagar dazio. Come un altro rischio sarebbe consentire a Salvini — proprio grazie ai collegi maggioritari — di rafforzarsi nei numeri in Parlamento, al punto da poter immaginare un accordo con i Cinquestelle. In entrambi i casi verrebbe certificata la fine della leadership berlusconiana. Per tutelarla, Letta riteneva (e ritiene ancora) che gli azzurri debbano andare alle urne separati da Salvini. Anche con il Consultellum, se del caso. Che poi, non è detto non ci fosse tempo per trovare l’intesa su un modello migliore.

Un «Mattarellum» al contrario
Se il patto non conviene
Ed ecco l’obiezione sul timing avanzata dal braccio destro del Cavaliere, secondo il quale sarebbe stato meglio spostare la trattativa dopo le elezioni tedesche e dopo il voto in Sicilia: da un lato l’affermazione della Merkel (e la contestuale crisi dell’Spd), dall’altro la vittoria del centro-destra nell’Isola, avrebbero garantito una maggiore forza contrattuale a Berlusconi. E soprattutto avrebbero allungato i tempi della legislatura, magari fino a maggio, consentendo al Cavaliere di conoscere la sentenza della Corte di giustizia europea a cui è legato il suo destino politico. Insomma il patto non conviene, non va bene. E sebbene sia stato stipulato c’è da scommettere che Letta tornerà alla carica con Berlusconi, per correggere «un errore» causato da una carenza altrui di diottrie nell’analisi politica. Anche perché non è scontato che il patto regga, per via delle numerose variabili e delle tante incognite numeriche da tenere in conto. Il primo stress-test sul Rosatellum si avrà alla Camera. Gli agguati nelle votazioni a scrutinio segreto che affondarono a giugno il sistema «tedesco» sono più facili ora, perché la nuova maggioranza è aritmeticamente più fragile: ci sono i centristi al posto dei grillini.

«L’emendamento canguro»
Ma la volontà politica potrebbe sopperire alla debolezza numerica. Di questa volontà c’è traccia nel lavoro preparatorio dei gruppi che hanno stipulato il patto, e che — in vista della prova d’Aula — hanno studiato un escamotage con cui potrebbero depotenziare le armi degli avversari. La tecnica legislativa può essere a volte fantasiosa, consentendo di trovare delle soluzioni. E come al Senato «l’emendamento canguro» fece saltare l’ostruzionismo sulle riforme costituzionali, così alla Camera una «norma di principio» potrebbe rendere meno pericolose le imboscate sulla riforma elettorale. Forse.

22 settembre 2017 (modifica il 22 settembre 2017 | 23:55)
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Da - http://www.corriere.it/politica/17_settembre_23/troppe-incognite-berlusconi-letta-06d2403a-9fd8-11e7-b69e-b086f39fca24.shtml
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« Risposta #267 inserito:: Ottobre 09, 2017, 05:38:39 pm »

SETTEGIORNI

Il patto tra Renzi e Berlusconi per avere «mani libere» dopo le urne
L’obiettivo di depotenziare M5S.
Le coalizioni-ologrammi pronte a dissolversi

  Di Francesco Verderami

«Si vince quando si ha un leader e un programma», diceva un tempo Berlusconi. Siccome oggi non può essere il leader in campo, ne può conciliare le sue posizioni europeiste con quelle sovraniste di Salvini, con il Rosatellum aggira i due problemi. Le coalizioni sono ologrammi: scompariranno dopo il voto. L’intesa con Renzi sulla legge elettorale fa perno sui dettagli tecnici della riforma ma anche su una comune tattica mediatica. C’è un motivo se il Cavaliere — al pari del leader democrat — ha mantenuto un profilo basso durante la trattativa, lasciando trapelare dubbi, esitazioni e persino ripensamenti: in questo modo non è stato commesso l’errore che a giugno provocò l’affondamento del «tedesco». Evitando di assumersi la paternità del Rosatellum, mostrandosi quasi trascinati al compromesso, entrambi hanno tenuto finora il patto quanto più possibile al riparo dalle (inevitabili) tensioni politiche.

Depotenziare i Cinquestelle
Ma il patto li soddisfa. Senza un premio di maggioranza per il rassemblement vincente e senza l’indicazione di un candidato premier tra partiti alleati, il nuovo sistema di voto lascia al capo di Forza Italia e al segretario del Pd le «mani libere» dopo le urne, quando tutti sanno che l’unico governo possibile sarà frutto di una maggioranza di larghe intese. Semmai ci saranno i numeri. Proprio per venire incontro a questa esigenza, il Rosatellum — grazie ad alcuni accorgimenti noti agli specialisti della materia — tra «assenza di scorporo» e «collegamenti con liste locali» dovrebbe favorire l’altro obiettivo che i due si sono dati: comprimere il tripolarismo, depotenziare cioè il risultato dei Cinquestelle.

Il cavaliere non sgancerà nemmeno un euro
L’interesse è reciproco, la strategia è chiara. Lo si intuisce dal linguaggio comune adoperato in questo anticipo di campagna elettorale contro «i populisti», e dalle parole ancor più esplicite usate dal coordinatore del Pd Guerini a Porta a Porta: «Una legge contro i grillini? Non è colpa nostra se non si coalizzano con nessuno». Appunto. E nell’attesa di verificare se il patto stavolta diventerà legge, il Cavaliere — al pari di Renzi — mette in fila le truppe, dividendole tra futuribili liste funzionali a ottimizzare il consenso. La sua idea di depositare il marchio «Rivoluzione Italia» non deve però trarre in inganno: da sempre il fondatore del centrodestra protegge i nomi testati. Non si sa mai. Intanto ha fatto avvisare tutti i potenziali alleati che bussano alla sua porta per un finanziamento: «Il dottore vuole attendere l’approvazione della riforma». Traduzione: fino ad allora non sgancerà nemmeno un euro. Dopo, chissà. Anche perché il Rosatellum gli avrà pure tolto di mezzo due problemi (quello della leadership della coalizione e quello del programma comune) ma non lo esimerà dalla sfida con Salvini per la lista che percentualmente avrà il primato nel centrodestra. Per vincere è probabile che vorrà fare il pieno con Forza Italia.

Coalizioni ologramma
Tutto era impossibile ottenerlo, e Berlusconi ritiene di aver raggiunto il miglior accordo possibile alle condizioni date. Come Renzi, che se ha deciso di aprire alle coalizioni non è perché sia stato folgorato sulla via del Rosatellum, ma perché indotto dall’accordo in Sicilia con Alfano, grazie al quale i centristi (e Mdp) dovranno superare una soglia abbordabile: il 3%. È la prova che le leggi elettorali non sono neutre, ma rispecchiano la fase politica del momento. Le coalizioni ologramma sono figlie di questo tempo: ognuno andrà a caccia di voti per il proprio partito, in una guerra tra «vicini di casa» che è già iniziata. Come testimonia il derby sovranista tra Meloni e Salvini sui referendum in Lombardia e Veneto.

«Si voterà il 4 marzo»
È vero che nell’immaginario collettivo il centrodestra è dato oggi in vantaggio su Pd e M5S, ma senza una maggioranza nei due rami del Parlamento le forze dell’alleanza non potranno formare da sole un governo. E analizzando i sondaggi del momento, emerge che i loro dati — disaggregati — sono inferiori alle percentuali dei democratici e dei grillini. Dopo le urne l’ologramma scomparirà. Resta ancora da capire se il Rosatellum supererà il test degli scrutini segreti alla Camera. E va interpretato il modo in cui ieri, alla riunione azzurra dei lombardi, il capogruppo del Senato Romani ha invitato i dirigenti locali ad appuntarsi una data: «Preparatevi. Si voterà il 4 marzo». Un tono assertivo, simile a quello del coordinatore di Ap Lupi, che trovandosi casualmente al Pirellone, ha fatto capolino alla riunione di Forza Italia con una battuta: «Siamo di nuovo insieme. Non vi avevano avvisati?». La certezza sulla data delle elezioni può venire solo dalla sicurezza che la riforma verrà approvata. E solo la fiducia può dare garanzie. La smentita alla Stampa, che l’altro giorno aveva rilanciato l’ipotesi, fa testo fino a un certo punto: c’è il precedente della fiducia sull’Italicum. E stavolta ci sarebbe anche il sostegno tecnico di due partiti dell’opposizione.

6 ottobre 2017 (modifica il 7 ottobre 2017 | 08:23)
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Da - http://www.corriere.it/politica/17_ottobre_07/patto-capi-dem-forza-italia-berlusconi-1a1f6d76-aad6-11e7-bf9b-eb2db464e457.shtml
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« Risposta #268 inserito:: Novembre 12, 2017, 12:38:37 pm »

07 Novembre 2017

Di Francesco Verderami

Primo: «Non avrebbe senso intestare la sconfitta in Sicilia a Matteo Renzi».
Secondo: «Non avrebbe senso usare strumentalmente il risultato per fini interni».
Terzo: «Non avrebbe senso una resa dei conti nel Pd, che infatti non ci sarà».


Fissato il chiodo, Dario Franceschini si avventura in una scalata di nono grado con l’intento di raggiungere «in due settimane» la cima, cioè «un’alleanza tra le forze che stanno oggi nel campo del centrosinistra, da costruire in vista delle elezioni politiche».
Un’impresa al limite del possibile. E per riuscirci il ministro della Cultura si propone di seguire la via tracciata da Silvio Berlusconi per il centrodestra: «Talvolta a scuola si copia per essere promossi».
È il segno dei tempi. Ma c’è un «valido motivo» se, per parlare a Pierluigi Bersani e Giuliano Pisapia, Franceschini cita il Cavaliere. «L’onda populista che ha colpito l’Europa ha investito anche l’Italia. E il voto siciliano, che precede di qualche mese il voto nazionale, deve farci capire quale rischio stiamo facendo correre al Paese: consegnarlo alle forze antisistema. Ora, a fronte dei dati economici che ci descrivono in crescita, e a fronte della prospettiva di partecipare l’anno prossimo al processo di rilancio dell’Unione con un governo europeista, chiedo: davvero l’area di centrosinistra non ha interesse a reagire?».
 
Quel campo politico è un campo di battaglia.
 
«Lo so, le lacerazioni sono fresche e i rapporti complicati. Ma si può avere per una volta un approccio pragmatico? Il nuovo sistema di voto porta a costruire delle alleanze. Nei trecento collegi uninominali, dove vince chi prende un voto in più degli altri, questo campo non sarebbe competitivo se si presentasse diviso. Eppure questo campo esiste. Perciò rivolgo un appello a chi di questo campo è parte: per quanto sia attraversata da forti divisioni, è un’area che ha sostenuto i governi Letta, Renzi e Gentiloni, amministra insieme regioni e comuni».
 
E pensa possibile la nascita di una coalizione.
 
«Parlo di un’alleanza. Non mi rifaccio alle esperienze dell’Ulivo e dell’Unione. Non ci sono le condizioni né il tempo per riproporre simili modelli. Ma ognuno con il proprio simbolo e il proprio leader potrebbe collaborare alla costruzione dell’alleanza».
 
Quindi di Renzi non sarebbe più il candidato premier.
 
«Renzi è il leader del Pd. E lui per primo oggi dice che non si impone come candidato di una coalizione. D’altronde la nuova legge elettorale prevede solo il capo della lista. E allora perché accapigliarsi su un tema che non esiste? Guardiamo cosa ha fatto Berlusconi, che è sempre il più veloce ad adeguarsi ai cambiamenti. Il nuovo centrodestra si basa su un sistema di competizione interna. I partiti che ne fanno parte non avranno un candidato premier comune. I leader si mostrano litigiosi nella contesa del primato e continueranno a farlo: parlano a elettorati diversi, si sfidano tra loro. Ma questa sfida resta nel perimetro dell’alleanza. E alla fine i voti li sommano, non li sottraggono all’alleanza».
 
Ai «compagni» di Campo progressista e di Mdp propone di copiare Berlusconi.
 
Se fino a sei mesi fa siamo stati nello stesso partito, perché non potremmo stare nella stessa alleanza?

«Propongo di adattarci al nuovo sistema elettorale, come fa Berlusconi. E siccome il tema della premiership è superato, perché dovremmo continuare a dividerci inutilmente? Il Pd avrà come suo candidato il suo segretario, come dice il nostro statuto. Il campo di governo alla sinistra del Pd ne indicherà un altro, mantenendo la sua originalità. Stessa cosa potranno fare i centristi. In questo quadro di competizione, le forze potrebbero essere sommate e non si eliderebbero. Ritengo sia un’operazione doverosa: se fino a sei mesi fa siamo stati nello stesso partito, perché non potremmo stare nella stessa alleanza?».
 
Perché, più che uno spirito di collaborazione, prevale un reciproco desiderio di vendetta.
 
«E la vendetta sarebbe consegnare l’Italia a Grillo e Salvini? Conosco lo spirito che anima molte persone di buonsenso. So che ognuno avverte sulla propria pelle le ferite. E sia chiaro, io non sono equidistante, considero la scissione un errore. Ma invito tutti alla ragione, nel breve tempo che abbiamo a disposizione: sabato ci sarà l’Assemblea di Pisapia, poi la Direzione del Pd, infine l’Assemblea di Mdp. Il nodo va sciolto subito, sapendo che abbiamo nelle nostre mani il destino del Paese».
 
Se il dialogo inizia con il Pd che attacca Grasso… Che fa: non risponde? Silenzio dissenso.
 
«Esatto».
 
Possibile non ci sia spazio per l’autocritica nel Pd
 
«Non siamo riusciti a mettere a frutto i risultati positivi dell’azione dei nostri governi, che…».
 
…Ministro, mi riferivo a Renzi: lei rilancia una proposta che a luglio la portò a un duro scontro con il suo segretario.
 
«A me interessa la sostanza. Nei momenti in cui ho avuto opinioni differenti da Renzi non ho esitato a esprimerle. Se oggi faccio questo appello è perché credo sia necessario trovare un minimo comun denominatore tra centristi, Pd e sinistra di governo: insieme potremo essere competitivi, divisi saremo colpevoli. Da dirigente di partito, penso sia giusto all’occorrenza esprimersi in maniera diversa dal segretario. Ma poi il segretario va sostenuto».
 
Ricorda Forlani.
 
«Ricordo che la Dc le elezioni le vinceva».

http://www.areadem.info/adon.pl?act=doc&doc=35106
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« Risposta #269 inserito:: Luglio 29, 2018, 01:06:09 pm »

Decreto Dignità, Salvini costretto a esporsi.
Le mosse di Giorgetti per ridurre il danno

Inizialmente il ministro dell’Interno aveva scelto la linea del basso profilo sul decreto. Ma il tentativo è fallito.
D'altronde i segnali dal territorio erano chiari

  Di Francesco Verderami

Inizialmente Salvini aveva scelto la linea del basso profilo sul decreto Dignità: un po’ per tener fede al patto di governo che prevede di non invadere le sfere d’influenza dell’alleato, un po’ per salvaguardare il rapporto con il mondo imprenditoriale che rischiava di incrinarsi. Ma il tentativo è fallito, e la protesta degli industriali veneti costringe il segretario della Lega ad esporsi per non veder compromessa la luna di miele con un pezzo importante di elettorato, soprattutto al Nord. D’altronde i segnali che provenivano dal territorio erano chiari: due settimane fa il governatore Zaia aveva riservatamente trasmesso a Roma le contestazioni che l’altro ieri sono state rese pubbliche. E non è detto che le modifiche al testo basteranno per placare il malcontento, così come potrebbero rivelarsi insufficienti le promesse di «iniziative volte ad agevolare le imprese» che lo stato maggiore del Carroccio ha rimandato alla prossima legge di Stabilità. Sebbene il sottosegretario all’Economia Bitonci giudichi «esagerate le critiche» degli industriali, le perplessità dei maggiorenti leghisti alle norme volute dai Cinque Stelle rimangono. Quando Di Maio lanciò il decreto, a Salvini fu chiaro che si trattava del tentativo grillino di rispondere politicamente allo strapotere mediatico conquistato dal titolare dell’Interno con l’immigrazione. I suoi ministri gli fecero peraltro notare che il provvedimento aveva «un’impronta cigiellina, visti i consulenti che hanno collaborato alla stesura».

La triangolazione
Così la patata bollente venne scaricata nelle mani del solito Giorgetti, che — oberato com’è di dossier — vive la sua esperienza a palazzo Chigi con un approccio sempre più millenarista: «Un giorno qui vale dieci anni». Da un mese e passa l’obiettivo della Lega è quello di ridurre il danno e di trasformare il «bandierone grillino in una bandierina». Ma attutire l’impatto del decreto non è facile, anche se il sottosegretario alla Presidenza sfrutta le sue competenze e conoscenze per arrotondare gli spigoli del decreto, contando sul fatto che all’Economia compete la vigilanza della parte economica, e che sul testo il coordinamento spetta al Dipartimento Affari Giuridici e Legislativi di palazzo Chigi, cuore pulsante del governo, casella che Conte non ha ancora riempito... Forte di queste triangolazione, Giorgetti ha trasmesso in questo periodo messaggi rassicuranti agli interlocutori: «Intanto ci sarà la mediazione nel governo e poi ci sarà il lavoro del Parlamento». Strappati i voucher per il turismo e l’agricoltura, come voleva il ministro Centinaio, si arriverà anche alla decontribuzione per i contratti a tempo indeterminato. Il punto è se si andrà oltre, perché sul decreto incombe la fiducia. Inizialmente Di Maio voleva evitarla per una questione d’immagine, ma più del filibustering dell’opposizione il governo teme un iter complicato e ha poco tempo per convertire il decreto in legge.

Il rischio di soffocare la ripresa
Se così fosse, la soluzione metterebbe la sordina alle perplessità che accomunano i ministri leghisti ai detrattori del provvedimento: la preoccupazione che le nuove norme sul lavoro possano soffocare la timida ripresa, il rischio che invece di garantire stabilità all’occupazione si favorisca l’aumento del lavoro nero, eppoi la prospettiva di un abbassamento dei livelli occupazionali contemplata nella relazione di accompagnamento al decreto. Perciò ieri Salvini è dovuto intervenire dopo le proteste degli industriali. Con quel suo «a fine percorso vedremo chi avrà avuto torto e chi ragione», pone una sorta di questione di fiducia rivolta agli imprenditori, è un modo per rilanciarsi come garante di un mondo che ripone altre aspettative. Il vero problema risiede nella differenze politiche tra M5S e Lega, amplificate in queste ore dalle nomine, e su cui la Meloni accende i riflettori: «Se al Tesoro il governo conferma Rivera, che scrisse il decreto salva-banche per Renzi, dov’è il cambiamento?». È vero che non c’è Consiglio dei ministri senza tensioni. Ai tempi del «caso Diciotti», per esempio, la nave fermata in mare con i migranti, Salvini fu perentorio: «Non deve attraccare». «È un’imbarcazione militare», replicò la responsabile della Difesa. «Non se ne parla», si sentì rispondere. Ma per ora lo scontro non è destinato a deflagrare, non sul decreto dignità. Poi, come dice Salvini, «verranno momenti difficili»: sulla Tav, sul Tap, sulla pedemontana veneta, sulla legge di Stabilità, dove la Lega vorrà dare risposta (anche) agli industriali.

25 luglio 2018 (modifica il 26 luglio 2018 | 14:41)
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Da - https://www.corriere.it/politica/18_luglio_26/decreto-dignita-salvini-costretto-esporsi-mosse-giorgetti-ridurre-danno-6461aae4-904e-11e8-9e3d-9a7bf81b9c8e.shtml
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