LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Novembre 30, 2007, 12:13:31 am



Titolo: Francesco VERDERAMI
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2007, 12:13:31 am
Il retroscena / «Morire per Danzica, non per Prodi»

La Cosa Rossa cade nei sondaggi

Allarme nell’ala radicale


ROMA—«Forse potremmo morire per Danzica, certamente non moriremo per Prodi». Il paradosso della politica italiana è che si può pronunciare un epitaffio anche per un governo in vita. Perché non c’è dubbio che ieri Prodi alla Camera, con la fiducia sul Welfare ha ottenuto quanto chiedeva. Ma se pezzi consistenti della maggioranza — come spiega Diliberto — vedono nel premier una sorta di «dracula» che «vampirizza» gli alleati, allora per l’esecutivo diventa complicato anche tirare a campare.

Di sicuro i leader della sinistra radicale—un tempo «guardie del corpo» del Professore—non accettano più di fare i donatori: «Di sangue ne abbiamo già versato — dice il segretario del Pdci —e a causa di Prodi stiamo perdendo il consenso dei nostri elettori». I sondaggi riservati stanno a testimoniarlo, da mesi gli indici per le forze movimentiste sono costantemente negativi. Nell’ultima settimana, addirittura, a fronte di una modesta ripresa del governo (che nei giudizi positivi passa dal 33,5% al 34,9%), si registra l’ennesima flessione per il Prc (sceso ancora di due decimali al 4,6%), per i Verdi (che calano dal 2,3 al 2,1%) e per il Pdci (che atterrano all’1,6%).

In un altro rilevamento, dove si studiano i consensi «per blocchi», il segnale è ancor più allarmante, perché la Cosa Rossa—presa nel suo insieme — non va oltre il 5%. Solo il Pd è dato in crescita di quasi un punto (al 27,7%), e questo è motivo di ulteriore tensione nell’area estrema del centrosinistra. Prodi non è Danzica, «e noi non siamo disposti a sacrificare il rapporto con la nostra base», avvisa Giordano: «A gennaio la verifica sarà decisiva, e chiederemo di incastrare le questioni di governo con la partita sulla legge elettorale».

Così il segretario del Prc offre due elementi: il primo, temporale, proietta la sfida decisiva all’inizio del 2008; il secondo evidenzia come la durezza dello scontro sia acuito dal nodo della riforma sul sistema di voto. «E se qualcuno pensa che stiamo scherzando, si sbaglia», spiegava ieri il capogruppo di Rifondazione Migliore al collega dell’Udeur Fabris: «Ci siamo rotti i c...».

Per meglio dire si sono rotti i rapporti politici. Con Prodi «ma anche» con Veltroni, se è vero quanto ha raccontato il democratico Filippeschi lasciando l’Aula di Montecitorio: «I deputati del Prc ormai sospettano di noi. Dicono che vorremmo metterli a gennaio dinanzi al fatto compiuto, con una legge elettorale capestro da accettare o con la prospettiva del referendum da subire. Ci accusano, insomma, di voler provocare le elezioni anticipate che loro assolutamente non vogliono».

Le urne sono il vero terrore per i partiti della Cosa Rossa, lo s’intuisce dallo sconforto del verde Cento, secondo il quale «siamo andati alla trattativa sul Welfare con un’arma giocattolo, mentre Prodi aveva la pistola carica»: «A gennaio perciò la sinistra movimentista dovrà riacquistare autonomia politica.
L’Unione è finita».

Per capire in che condizioni versa l’alleanza, bastava sentire i discorsi pronunciati dai leader comunisti nel dibattito per la fiducia aMontecitorio. Talmente violenti verso Prodi, che il capogruppo del Pd Soro è arrivato a dire: «Il governo non meritava di essere trattato così dalla sua maggioranza». Traduzione: la crisi dopo la Finanziaria va messa in conto. Ipotesi che Bertinotti nei colloqui riservati non accantona.

 Nella sinistra massimalista è giunta dunque l’ora del «si salvi chi può», e per salvarsi da Prodi è l’ora di prenderne le distanze: così vanno interpretate le dimissioni del presidente della commissione Lavoro della Camera, il pdci Pagliarini. In gioco c’è la sopravvivenza delle ditte.

Da quando il Cavaliere è passato dalla logica della spallata a Prodi alla logica dell’abbraccio con Veltroni, si è scatenato il finimondo nella maggioranza, dove lo schema delle «mani libere » è diventato una moda. Ieri il capo dei Socialisti Boselli è arrivato ad attaccare il telefono al premier, «che non può pensare di tirare a campare ma deve governare». Nessuno intende «morire per Prodi», come nessuno intende consegnare il proprio futuro nelle mani di Veltroni con la legge elettorale.

Perché non è solo la Cosa Rossa a diffidare del leader democratico, se è vero che il gruppo del Senato guidato da Dini e Bordon starebbe meditando di far saltare «il nuovo inciucio»: per rompere lo schema in base al quale «con il Cavaliere dialoga solo Walter», si appresta a chiedere incontri ufficiali con i leader dei due schieramenti, con tanto di nuova proposta di riforma elettorale proporzionale. Vedere Berlusconi non è più un tabù da quando nell’Unione è in gioco la sopravvivenza.

Francesco Verderami
29 novembre 2007

da corriere.it


Titolo: Francesco Verderami - Fausto sfida «i benpensanti» della sinistra
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2007, 04:35:24 pm
Sette giorni - l'intesa con il Cavaliere

Fausto sfida «i benpensanti» della sinistra

Il presidente della Camera lancia una sfida di «politica culturale» invitando gli intellettuali a superare i pregiudizi


Porgendo la mano a Silvio Berlusconi, aveva messo tutto in conto. Ora Fausto Bertinotti è diventato bersaglio di critiche e censure. La colpa di Bertinotti è di aver accettato il dialogo con il Cavaliere. E dinanzi all'accusa il presidente della Camera lancia una sfida di «politica culturale» agli intellettuali di sinistra benpensanti, li invita a superare «i pregiudizi», a smetterla con gli «integralismi », e a sostenere il dialogo sulle riforme, strada che è comunque intenzionato a percorrere fino in fondo. Perché la partita va al di là della trattativa sulla legge elettorale: «Possibile non si capisca? Possibile non si avverta il sentimento profondo del Paese? Possibile non si comprenda che la classe dirigente corre il rischio dell'apartheid? Possibile non si veda che se non ce la facciamo, stavolta falliamo tutti e soprattutto cade tutto?».

Bertinotti confida che attraverso questa chiave di lettura possa essere compreso il significato della sua mano tesa verso Berlusconi, descritto da molti nel centrosinistra come un «nemico» con cui non si deve parlare per non perdere la propria verginità politica. Si rende conto delle ostilità che incontra, ne parla quotidianamente al telefono con Walter Veltroni, vittima anche lui di allusioni e battute tendenziose. Ma resta fiducioso: «Sono fiducioso per disperazione». Concetto terribile, espresso di getto, quasi volesse levarsi un peso. A suo dire, d'altronde, se il dialogo fallisse, dopo non ci sarebbe nulla, tranne l'immagine del dramma di Torino alla ThyssenKrupp, dove «ho percepito una separazione, un cancello, tra gli operai che stavano dentro la fabbrica e si sentivano soli, e noi che venivamo visti come quelli che stanno fuori e non muoiono bruciati».

È il pericolo dell'«apartheid» che lo preoccupa. E se ieri, con incredibile coincidenza, Giampaolo Pansa sull'Espresso lo ha disegnato come «il grande puffo», Furio Colombo sull'Unità lo ha intruppato nello «schieramento dei super partes berlusconiani», e la senatrice comunista Manuela Palermi su Liberazione
l'ha accusato di sacrificare la Cosa rossa sull'altare dell'intesa con Veltroni e il Cavaliere, Bertinotti non ha ceduto alla tentazione di voltare le spalle alle critiche. Ha preferito la fatica del confronto, che è diventata sfida: «È una sfida di politica culturale. Io penso infatti che il dialogo sia necessario per rinnovare il nostro sistema e agganciarlo al grande processo di trasformazione dei partiti che è in atto in Europa. La legge elettorale è solo un tassello, il primo passo. E per compierlo bisogna rischiare».

«Io rischio», dice Bertinotti: «Iniziamo a rischiare tutti. Iniziamo a rompere le logiche opportunistiche, a superare i settarismi, ad abbandonare interessi di piccolo cabotaggio, in base ai quali, io che sono girotondino non ci sto, io che sono un piccolo partito non ci sto, io che punto a preservare una posizione di potere non ci sto. Con la politica del "non ci sto" siamo diventati "politiglia", come ha scritto Giuseppe De Rita sul Corriere. Perciò sono convinto che sia giusto dialogare con tutti, anche con Berlusconi ». In fondo, come ha spiegato ai suoi, il dialogo porta a un processo di «auto-responsabilizzazione » del Cavaliere: la mano tesa è un segno di fiducia, toccherà a lui non dilapidarla.

È l'unica strategia per uscire dal pantano, «lo penso anch'io che sono forse il più prevenuto di tutti verso Berlusconi», dice Ciriaco De Mita, infastidito dagli «attacchi pretestuosi» al presidente della Camera: «Questa purtroppo è la prova che si fa fatica a vincere la stupidità. Perché il Cavaliere stavolta ha compiuto davvero un gesto di straordinaria intelligenza politica, prestandosi al dialogo. Finalmente accetta di confrontarsi senza sotterfugi, e apre la strada a un bipolarismo adulto. Per questo dovremmo essere tutti contenti». Bertinotti, venuto a conoscenza delle parole di De Mita, ha sorriso come a voler sottoscrivere il ragionamento dell'ex segretario democristiano.

La sfida culturale oltre che politica a sinistra è lanciata, «io ho deciso di rischiare». Bertinotti è consapevole che il fallimento non rappresenterebbe la sconfitta di qualcuno ma di tutti. E spera che, a forza di insistere, in futuro sarà buona regola tenere cordiali rapporti con l'avversario pur tenendo la distanza. Oggi qualsiasi gesto distensivo desta invece scandalo. E figurarsi dunque cosa direbbero in quel mondo che si nutre di livore verso «il nemico», se sapessero di una telefonata che il presidente della Camera volle fare per solidarizzare con il Cavaliere. Erano i giorni in cui impazzavano su tutti i quotidiani e i settimanali le foto pruriginose che ritraevano l'ex premier in compagnia di alcune starlette, ospiti della sua villa in Sardegna, e sedute sulle sue gambe.

 Bertinotti lesse commenti di condanna e analisi politiche irridenti, perciò decise di alzare la cornetta: «Presidente — esordì — mi spiace molto, perché queste sono cose fastidiose. È già sgradevole che si scavi nella vita privata e si violi la privacy. Lo è ancor di più se tutto ciò viene usato come appiglio per attaccare l'avversario politico». È collusione morale, quella di Bertinotti? E le regole di garanzia che ha chiesto per il «deputato Berlusconi» al procuratore di Napoli, sono un segno di complicità? Fabio Mussi, che pure non è del tutto convinto delle mosse di «Fausto», appoggia la sua sfida di «cultura politica»: «È ora di rifuggire dall'idea che non si parla con il nemico. E spero finiscano i tentativi di epurazione e di denigrazione. Sono retaggi che appartengono... al tempo che fu». Purtroppo sono «retaggi» che resistono.



Francesco Verderami
15 dicembre 2007

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI -
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2008, 11:05:15 am
La «simpatia» dei Democratici per il braccio destro di Silvio

Il Pd e la tentazione Gianni Letta

Due anni fa, alla vigilia della formazione del governo di centrosinistra, Francesco Rutelli confidò che «Gianni Letta è l'uomo che manca a Romano Prodi».


Possibile che ora il braccio destro del Cavaliere serva al Pd per sostituire il Professore a palazzo Chigi, ed evitare così un disastroso ritorno alle urne? Più che un'ipotesi è una suggestione. E non appartiene al Cavaliere ma alberga come un pensiero inconfessabile nella mente di molti dirigenti democratici, alla ricerca disperata di una soluzione della crisi. D'altronde il centrosinistra si rivolge sempre a Gianni Letta per le emergenze e le imprese difficili. Non fu Romano Prodi — appena diventato premier — a proporgli la guida della Federcalcio nei giorni di Calciopoli? E non fu Walter Veltroni a dire che avrebbe lanciato la candidatura di Roma per le Olimpiadi solo se Gianni Letta fosse entrato nel board del comitato promotore? Proporre all'uomo di Silvio Berlusconi la guida del governo sarebbe un modo per mettere le briglie al Cavaliere e fermarne la corsa verso le elezioni. Infatti il capo del centrodestra nega l'evenienza, e smentisce di averne mai parlato. Per una volta dice il vero: è nel campo della (ex) maggioranza che se ne parla sottovoce. Ieri Gianfranco Fini scommetteva che gli avversari non arriveranno mai a ufficializzare la proposta, «vorrebbe dire che sono alla disperazione». «Se non lo fanno — obietta il democratico Antonio Polito — è perché ai maggiorenti del centrosinistra mancano le palle per farlo. Invece, extrema ratio, qualsiasi ipotesi sarebbe preferibile al precipitare senza paracadute verso le elezioni. Sì, anche Gianni Letta».

Che poi in questa fase l'analisi dell'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio sulla situazione politica non sembra discostarsi da quella di tanti autorevoli dirigenti del Pd. Raccontano che ieri fosse un po' depresso, perché invece della linea scelta da Berlusconi («elezioni subito») avrebbe preferito l'altra opzione, la presa d'atto cioè che invece di una sfida immediata alle urne servisse una «fase di decantazione»: una sorta di governo di «decompressione nazionale». Giusto il tempo di dare al sistema nuove regole e mettere al riparo il Paese dal gelo dell'economia mondiale. Anche perché — questa è la sua tesi — fra sei mesi, dopo il voto, i problemi che oggi sono già in agenda si ripresenteranno magari in forma acuta, a fronte di un'opinione pubblica ancor più esasperata dalle emergenze.

Sembra di sentir parlare Veltroni, e non è un caso se durante la corsa per le primarie nel Pd il sindaco di Roma rivelò che «dal centrodestra mi prenderei Gianni Letta». Dato che la crisi ha travolto Prodi e il suo governo, non sarebbe giunta l'occasione per avere Gianni Letta quantomeno in comproprietà? Secondo il socialista Roberto Villetti «l'idea sta forse nella mente di Goffredo Bettini», potente braccio destro del leader democratico, che non passa giorno senza aver parlato con il plenipotenziario berlusconiano: «Ma il primo a non volere Letta a palazzo Chigi — prosegue Villetti — è il Cavaliere». Eppoi c'è l'ostilità delle forze dell'Unione, a partire da Rifondazione comunista: «Per noi — spiega il capogruppo del Prc alla Camera, Gennaro Migliore — sarebbe un rospo che non potremmo mai digerire».

 Eppure senza un'intesa con Berlusconi appare impossibile per il centrosinistra evitare il piano inclinato delle urne, e scongiurare una pesante sconfitta che i sondaggi evidenziano con i loro diagrammi. Così nel Pd l'idea lettiana viene al momento coltivata come una suggestione, nella speranza di poterla magari concretizzare, man mano che le consultazioni andranno avanti. È una flebile speranza, legata — sostiene il democratico Riccardo Villari — «a una scelta politico»: «Se nel centrodestra si facesse largo la volontà di costruire un percorso condiviso, è ovvio che bisognerebbe aprirsi alla collaborazione con personalità dell'altro schieramento». Gianni Letta è un nome che nemmeno Prodi ieri ha voluto bruciare: «Deciderà il presidente della Repubblica a chi affidare l'incarico di guidare il governo». Chi mai si sarebbe aspettato tanta prudenza da colui che per dodici anni è stato l'alfiere dell'antiberlusconismo?


Francesco Verderami
26 gennaio 2008

da corriere.it



Titolo: Francesco Verderami Casini: non sono una crocerossina
Inserito da: Admin - Gennaio 30, 2008, 11:04:29 am
Il leader dell'Udc che chiede il voto

Casini: non sono una crocerossina

«I giochi miserandi dell'Unione non mi interessano».

E oggi incontra Berlusconi

 
Oggi Casini vedrà Berlusconi. Fine dei giochi. L'incontro del leader centrista con il Cavaliere servirà a definire i termini della «nuova alleanza » di centrodestra, e sarà anche un modo per marcare definitivamente la distanza dai «pateracchi che il centrosinistra sta tentando di fare pur di evitare le elezioni»: «Perché un conto era il governo di armistizio nazionale che avevo proposto — dice Casini — altra cosa sono operazioni miserande per mettere in piedi un esecutivo rabberciato che non credo nemmeno nascerà». Il leader dell'Udc ieri si è schierato per «l'immediato ricorso al voto». Doveva farlo per uscire dall'ambiguità, dove si era cacciato anche per colpa di due «eventi collaterali»: una presa di posizione poi smentita del Quirinale che inseriva il suo partito tra quelli contrari al urne (dunque di fatto favorevoli a un qualsivoglia governo), e una dichiarazione di Baccini — esponente udc in rotta di collisione con il leader — che si era detto pronto a votare un gabinetto guidato da Marini. Casini, che si trovava in Israele, aveva appreso con irritazione dello «scherzetto poco serio » proveniente dal Colle: «Ma chi s'inventa certe cose? Se qualcuno pensa che ci mettiamo a fare le crocerossine del Pd, si sbaglia». E per rintuzzare anche la sortita di Baccini, prima ha mandato in avanscoperta il segretario dell'Udc, poi è dovuto intervenire di persona: «Ormai per noi ci sono solo le elezioni».

Non poteva né voleva restare in mezzo al guado, specie dopo che il Cavaliere — uscendo dal colloquio con Napolitano — aveva bruciato persino l'opzione dell'esploratore. Casini doveva mettere a tacere le voci maligne e diffidenti che iniziavano a circolare nel Polo, e che lo indicavano come un novello Dini. Da Gerusalemme ha dato a Cesa il compito di far sapere agli alleati che «siamo persone serie e affidabili. Avevo detto che senza Berlusconi non avrei appoggiato alcun governo, e così sarà». Il leader di Forza Italia si è ben presto rassicurato, Fini non ne aveva avuto nemmeno bisogno: «Solo chi non conosce Pier può pensar male. Ci possono essere tattiche diverse tra noi, ma la strategia è comune ». Raccontano che l'abbiano cercato in tanti al telefono, da Marini a D'Alema, da Veltroni ad Amato, e che Casini si sia negato: «Non passatemi nessuno. Tanto sanno come la penso». È stato meglio per i suoi interlocutori non trovarlo, ne avrebbero ascoltato gli epiteti: «Pur di salvarsi nel centrosinistra hanno provato a prendersi Baccini. Sono una manica di str...». Politicamente parlando, avrebbe comunque negato l'appoggio, anche la sola astensione, a un esecutivo: «Ma con che faccia. Quando incontrai Veltroni per proporgli il sistema elettorale tedesco, lui mi rispose che non si poteva fare se Berlusconi non fosse stato d'accordo. Ora vorrebbero che l'Udc votasse un governo. Se non eravamo sufficienti allora, perché dovremmo esserlo oggi? A brigante, brigante e mezzo». Agli strali rivolti contro il capo del Pd fanno da contrappunto gli apprezzamenti verso D'Alema, «l'unico che si è comportato seriamente, sposando dall'inizio il sistema tedesco. Ricordo quando mi disse che era contrario al Vassallum: anche lui riteneva quel modello elettorale una legge truffa». Così facendo Casini evidenzia la crepa profonda che attraversa i democratici sulla riforma così come sulla gestione della crisi. Avesse parlato con Berlusconi, ieri, il leader dell'Udc avrebbe saputo quel che il Cavaliere ha riferito ai suoi: «C'è D'Alema dietro questo tentativo di formare un governicchio. Vogliono evitare il voto, ma così rischiano di perdere credibilità persino nel loro elettorato».

 Più o meno quanto pensa anche Veltroni, sebbene il sindaco di Roma preferirebbe non andare alle urne con Prodi ancora a Palazzo Chigi. Perché di urne si parla ormai, e a voce alta. Lo stesso Casini ne è convinto: «Il capo dello Stato deve provare a far qualcosa, ma il quadro non può cambiare e non ha margini». Non ne ha più nemmeno il leader dell'Udc dopo l'offensiva del Cavaliere: «Gli appelli della Cei e di Confindustria a varare un governo per le riforme sono giusti, ma io ho una responsabilità di partito e non è colpa mia se sono prevalse le convenienze personali». Talmente stretta è la strada che Fini ieri ha raccontato a Berlusconi dei contatti indiretti avuti con Marini e Amato: «Entrambi non vorrebbero prendere un mandato pieno, ma solo un incarico esplorativo». Entrambi hanno fatto sapere che non si prestano a costruire «un governo rabberciato». Non ci sono spazi, e anche se ci fossero — ha spiegato il capo di An — «vorrei vedere poi il Prc, e gli altri partitini dell'Unione votare la fiducia a un governo che, tra i primi atti, dovrebbe firmare il decreto per indire i referendum elettorali... ». Oggi Casini vedrà il Cavaliere. Fine dei giochi. Quelli «miserandi dell'Unione non m'interessano».

Francesco Verderami
30 gennaio 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI.
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2008, 09:07:23 am
Il Cavaliere: sarò sorprendente «Nel mio governo posti al Pd»

Silvio prepara l'offerta a Walter

L'ipotesi: all'opposizione una Camera e Commissioni


ROMA— «Dopo le elezioni vorrei proporre a Veltroni un'intesa per aprire una stagione costituente e fare le riforme. Anche rinunciando a essere il premier, se è il caso». Era novembre, ben prima dunque che scoppiasse la crisi di governo, e Berlusconi confidò il progetto a un autorevole dirigente del Pd con cui aveva grande familiarità. Erano i giorni della «spallata» e nonostante Prodi continuasse a resistere il 
 
Cavaliere era certo che «comunque» si sarebbe andati presto al voto e che si sarebbe imposto nelle urne: «Ma so — aggiunse — che se anche tornassi a palazzo Chigi, in queste condizioni sarebbe tutto molto difficile. Eppoi il Paese continuerebbe a rimanere spaccato». Non era per spirito di buonismo che annunciò la sua intenzione di aprire al capo del Pd, ma spinto da realismo politico. E per accreditare il disegno rivelò i tre nomi che avrebbe eventualmente proposto a Veltroni per la guida dell'esecutivo costituente: «Tremonti, Frattini e Gianni Letta», che proprio in quella fase ruppe clamorosamente il suo riserbo, lanciando l'idea del governo di larghe intese.

 Difficile prevedere se alla fine andrà così, di certo Berlusconi in questi giorni ha ripetuto l'intenzione di voler avanzare l'offerta a Veltroni dopo il voto, e preventivando la vittoria nelle urne ha spiegato addirittura di esser «pronto a far posto a 5 esponenti del Pd» in un esecutivo di 12 dicasteri dove «i restanti sette posti toccherebbero al Polo». Conosce le difficoltà dell'operazione, paventa che i Democratici «non riescano a reggere una simile prospettiva», ma nei suoi ragionamenti è già proiettato oltre lo scontro elettorale. In mente ha quel governo «per le riforme» che già propose da sconfitto due anni fa e che ora vorrebbe rilanciare da «vincitore»: «D'altronde ci sono cose condivise che si possono fare insieme. E avremmo interesse a farlo».
Così, accanto a un programma stringato della Cdl, ipotizza «alcune riforme» da varare «con approccio bipartisan». Ecco cosa si cela dietro il disegno berlusconiano della «stagione costituente ». E in questo senso l'ex premier avrebbe in animo di affidare a quella che già definisce «opposizione» la presidenza «di una Camera» ma anche «numerose commissioni parlamentari», più di quante solitamente sono già appannaggio della minoranza in Parlamento. «Sarò sorprendente», assicura. È un modo per far capire che, tramontata l'epoca prodiana, tramonta anche la logica del muro contro muro, del vincitore che punta a far la parte dell'asso pigliatutto: alla Rai, per esempio, l'assetto attuale non andrebbe «stravolto», a quanto pare nemmeno nelle conduzioni dei Tg su alcuni dei quali c'è un giudizio positivo. Non è chiaro quale sia il confine tra il realismo e il tatticismo. Anticipare la mossa può avere un costo, rischia di produrre disaffezione nell'elettorato polista.

Ma così Berlusconi sembra volersi tutelare da un altro rischio, e cioè che— una volta vinte le elezioni — il Polo riproponga i difetti della legislatura in cui governò. Perché, nonostante i sedici punti di vantaggio sull'Unione, al Senato la Cdl avrebbe tra i dodici e i venti senatori di maggioranza. E già ieri l'Udc ha iniziato le grandi manovre, avvisando il Cavaliere che «saremo determinanti nel centrodestra». Come non bastasse Casini — ecco il colpo a sorpresa — è pronto a candidarsi come senatore, conscio che a palazzo Madama si giocherà la partita politica: «Io penso — sussurrava ieri il capo dei centristi — che l'offensiva del dialogo serva a Berlusconi per gettar scompiglio nel Pd. E comunque, sono stato il primo a dire che la prossima dovrà essere una legislatura costituente». Traduzione: nell'eventuale scenario delle larghe intese ci sarò anch'io.

E il segretario Cesa è ancor più esplicito: «Se vinceremo e il governo sarà politico, lo guiderà Berlusconi. Se invece si andrà verso un esecutivo istituzionale, si aprirà un altro discorso». Ecco la prova che anche l'Udc ha costruito una rete con i democratici. È una sfida nella sfida. A palazzo Grazioli, su nomi come quelli del veltroniano Bettini e del dalemiano Latorre si fa conto. Vengono considerati «pienamente affidabili ». Certo, l'idea di una lista comune Pd-FI è solo una suggestione, «un'utopia » come ha spiegato il Cavaliere. «Un'ipotesi irrealistica», per dirla con Veltroni.

Ma il fatto che il sindaco di Roma fosse pronto a un governo di larghe intese prima del voto, sembra voler preparare il partito e gli elettori all'evenienza dopo il voto.

E se si aggiunge che non intende fare una campagna elettorale all'insegna dell'antiberlusconismo...

Francesco Verderami
05 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: LUIGI LA SPINA Il Signor No parla di dialogo
Inserito da: Admin - Febbraio 05, 2008, 06:47:06 pm
5/2/2008
 
Il Signor No parla di dialogo
 
LUIGI LA SPINA

 
Non si saprà mai se la sorprendente ipotesi di una intesa Berlusconi-Veltroni lanciata sulla prima pagina del Giornale di ieri sia stato un ballon d’essai ispirato dal Cavaliere per ammonire gli alleati del suo schieramento, cercare di seminare lo scompiglio in campo avverso, ribaltare la responsabilità dell’interruzione della legislatura. Oppure, più semplicemente, sia partorita solo dalla imprevedibile fantasia del direttore del giornale di famiglia, per di più nel giorno del lutto per la scomparsa di mamma Rosa. Qualunque sia la verità, la proposta-provocazione ha avuto un merito, quello di individuare il più insidioso punto di debolezza, tra i tanti di forza, di Silvio Berlusconi alla vigilia dell’apertura della campagna elettorale: quello di apparire come il «Signor No». Colui che, per un vantaggio elettorale immediato, personale e di partito, costringe gli italiani ad andare al voto con una legge contro la quale si sono pronunciati, oltre che mezzo Parlamento, non solo i sindacati, che si potrebbero dipingere come fiancheggiatori del centrosinistra, ma quasi tutte le organizzazioni imprenditoriali e artigiane, in genere non tenere nei confronti di quella parte politica.

Nei prossimi due mesi, fino a metà aprile, quando molto probabilmente si voterà, dovremo aspettarci molti altri colpi di scena, da entrambi gli schieramenti. Berlusconi, infatti, dovrà cancellare, con una campagna propagandistica a suon di colpi d’artificio, l’impressione di un noioso revival di quelle del 2006 e del 2001, per non rievocare addirittura quelle del secolo passato. Veltroni dovrà costantemente segnare la discontinuità con l’era prodiana, rimarcando la novità della sua offerta elettorale, sia nei contenuti politici sia nelle forme in cui si presentano.

Così, ancor prima che il presidente della Repubblica abbia ufficialmente dichiarato il fallimento della legislatura e sia stata stabilita la data delle elezioni, già si intravedono, con sufficiente chiarezza, le linee fondamentali di quello sforzo di convincere gli elettori che non siamo alla vigilia della più noiosa campagna elettorale degli ultimi tempi. Anche per non contribuire a rafforzare il maggior rischio del prossimo voto, quello di una straordinaria vittoria dell’astensionismo.

Il Cavaliere, poiché non può cambiare il nome del solito candidato alla presidenza del Consiglio, né la formazione degli alleati, col consueto terzetto Fini-Bossi-Casini, ha deciso di cambiare il messaggio con il quale si presenterà agli italiani. Non più l’uomo della «rottura», anzi della rupture come si dice adesso alla Sarkozy, rispetto ai tradizionali ipocriti balletti consociativi della politica italiana. Ma l’uomo del dialogo, l’unico, ora, capace di mettere fine a quella sterile guerra di tutti contro tutti che, nella seconda Repubblica, ha portato l’Italia sull’orlo di un declino storico. La riforma della legge elettorale, simbolo di una nuova fase della politica italiana, sarà lui a riuscire a portarla a compimento, nella prossima legislatura. Il traguardo del Quirinale, in questo modo, potrebbe sancire la sua avvenuta mutazione: da capopopolo di una guerresca fazione a padre della patria, consacrato, se non unto, dal balsamo della grande riconciliazione nazionale.

Più facile, apparentemente, l’annuncio innovativo di quello che sarà il suo avversario, Walter Veltroni. Innanzi tutto il nome di un candidato che, per la prima volta, si presenta nella corsa a palazzo Chigi. Poi un partito nuovo, il Pd, che ha scelto il suo leader con un metodo inedito in Italia, le primarie. Veltroni, inoltre, aggiungerà a queste caratteristiche alcune innovazioni, esteriori ma non secondarie: un programma di pochi punti che dovrebbe far dimenticare le famose 278 pagine di quell’autentico inutile elenco del telefono che appesantì subito il governo Prodi e la promessa, in caso di successo, di un governo snello, con una forte riduzione di ministri. Ma, soprattutto, Veltroni annuncerà, sia pure con tutto il garbo che gli conosciamo, la rupture più significativa: quella dell’esperienza dell’Ulivo, la formula con la quale, per 15 anni, il centrosinistra, con alterne fortune, ha gareggiato nella competizione politica italiana. L’intesa con la sinistra radicale, prima di desistenza elettorale, poi, di alleanza organica nell’Unione, è stato il vincolo, nel bene e nel male, al quale si è legato il partito del riformismo italiano. Ora, aldilà di possibili intese tecniche al Senato, sembra si sia chiusa la lunghissima epoca, cominciata agli esordi della nostra Repubblica, nella quale, dalla sinistra del nostro paese, era stata sempre osservata scrupolosamente la regola di non avere mai nemici da quella parte.

La prossima campagna elettorale, così, si presenta già con una curiosa inversione di ruoli: là dove c’era l’annuncio di una novità dirompente ora c’è la promessa di un dialogo conciliante; nel campo di quella che era la continuità si avanzano, invece, brusche e potenzialmente dirompenti mutazioni. Se questi cambi di campo serviranno a ravvivare la campagna elettorale siano benvenuti. Speriamo solo che, come si diceva a scuola, cambiando l’ordine dei fattori, i risultati della politica italiana siano destinati a non rimanere immutati.
 
da lastampa.it


Titolo: Francesco VERDERAMI. Paletti di Fini: ma sia un accordo di ferro
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2008, 11:14:52 am
IL RETROSCENA

Paletti di Fini: ma sia un accordo di ferro

Silvio e Gianfranco: oggi l'incontro decisivo. Il leader vuole accelerare verso il partito unitario


ROMA — È come se la campagna elettorale avesse aperto le urne per il referendum, perché la mossa del Pd di andare da solo al voto ha innescato nel Polo un processo unitario. Proprio quel che aveva previsto Fini la scorsa settimana: «Se Veltroni terrà fede alla parola, allora dovremo semplificare anche noi il quadro delle liste nella Cdl». L'idea era stata suggerita a Berlusconi che aveva preso tempo. Ma di tempo non ne resta più, e ieri infatti il Cavaliere ha impresso un'incredibile accelerazione al progetto. Sotto la spinta dell'alleato è andato oltre, proponendo ad An una lista elettorale unitaria. Così l'incontro di oggi tra l'ex premier e Fini non sarà un colloquio come tanti, potrebbe essere il primo passo verso una decisione storica.

Perché Fini è pronto a discutere l'intesa, «a patto che la lista unitaria non sia un mero accordo tecnico, ma abbia un respiro politico». Traduzione: se unica sarà la lista, unici dovranno poi essere i gruppi parlamentari. Con la chiara prospettiva di procedere a tappe forzate verso il partito unitario, «un processo — secondo il capo di An — che non era stato archiviato, solo rinviato». Non sarà facile arrivare a un accordo nei tempi strettissimi che la campagna elettorale ha imposto. Ma tant'è. Bisogna sfruttare il momento. Fini vuol andare a vedere il gioco del Cavaliere, che punta a un «patto federato con la Lega», e allarga il gioco anche a Casini sostenendo che l'Udc dev'essere della partita, sebbene conosca già le obiezioni dei centristi e il loro «no».

Il partito unitario del centrodestra è stato la causa delle tensioni e degli scontri con Berlusconi, l'obiettivo che l'ex ministro degli Esteri ha sempre inseguito, prima con il referendum del '99 e poi con quello ammesso a gennaio dalla Consulta e spostato all'anno prossimo per via delle elezioni anticipate. Ora l'obiettivo referendario potrebbe realizzarsi senza ricorrere alla consultazione popolare, se davvero Forza Italia e An arrivassero all'intesa. Fini è tanto determinato a percorrere questa strada, quanto prudente a esporsi: «Prima va stretto un accordo di ferro» con il Cavaliere. Un accordo che passa dalla formazione dei gruppi unitari alla Camera e al Senato e deve prevedere anche un «patto» con i Democratici per la revisione dei regolamenti parlamentari all'inizio della prossima legislatura, così da evitare la successiva proliferazione dei partitini nei due rami legislativi. Perché anche di questo c'è bisogno. Sarebbe «una risposta all'antipolitica ».

Tuttavia i problemi sulla strada dell'accordo non sono pochi né di facile soluzione. Berlusconi — come al solito in questi casi — ha commissionato una serie di sondaggi per verificare quale sia la soluzione migliore. L'interrogativo intanto è se una lista unitaria rischi di prendere meno voti delle liste separate. C'è un precedente del 2006 che non è sfuggito a Palazzo Grazioli: allora la lista unica dell'Ulivo alla Camera prese molti più voti delle liste Ds e Dl che si presentarono divise al Senato. Semmai il Cavaliere e Fini arrivassero a un'intesa politica, ci sarebbero poi da sciogliere altri nodi: il primo riguarderebbe i «rapporti di forza» nelle liste unitarie. Berlusconi non intende far riferimento ai dati delle ultime elezioni, «visto che nei rilevamenti non siamo più al 24% ma oltre il 30%», e dall'altra parte An si valuta «intorno al 15%». Inoltre c'è il problema dell'election day: sarebbe complicato lo stesso giorno andare insieme al voto per le Politiche e trovarsi con i simboli dei partiti separati alle Amministrative. È vero però che le rogne maggiori in questo caso saranno del Pd, che andando da solo alle Politiche entrerà in conflitto con la Cosa Rossa, alleata alle Amministrative. «Sarà difficile spiegarlo agli elettori », spiegano nel Polo.

 Si tratta comunque di dettagli rispetto alla portata dell'eventuale intesa, che non consente giochi tattici. Gli interessi sono convergenti: Berlusconi punta a ottenere un doppio successo nelle urne, vincere le elezioni e superare nei consensi i Democratici; Fini mira all'obiettivo del partito unitario, il suo sogno nel cassetto, quello per il quale si è riservato di decidere cosa fare «da grande» in caso di vittoria: tornare alla Farnesina, puntare alla presidenza di una Camera, o ambire alla leadership della nuova forza politica. I punti da chiarire Fini vuole gruppi unitari alle Camere. E c'è il nodo dei rapporti di forza nelle liste: no di Berlusconi alle ultime elezioni come riferimento Gianfranco Fini, presidente di An.

Francesco Verderami
08 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: Silvio e i sondaggi: Lega super, timori sui post dc
Inserito da: Admin - Febbraio 12, 2008, 10:39:25 am
Il retroscena

Silvio e i sondaggi: Lega super, timori sui post dc

Nel report dell'ex premier l'insidia dei simboli nuovi e il ruolo dello Scudo crociato


ROMA — È il favorito, non c'è dubbio. E i sondaggi riservati che ieri ha trovato sulla scrivania continuano a darlo in netto vantaggio: con il blocco del Pdl attestato al 40%, con la Lega che raddoppia i consensi presi nel 2006, con il Pd che non riesce a sfondare il muro del 30%, con la Cosa Rossa sotto l'8%, «cannibalizzata per ora da Veltroni», e con l'Udc al limite della soglia del 4%, messa in difficoltà dallo stato d'incertezza in cui versa. Insomma, Berlusconi sembrerebbe proiettato verso una larga vittoria, e visti i dati potrebbe addirittura fare a meno di Casini. Perciò sta ponendo i centristi dinnanzi all'aut aut, perché parte nella trattativa da una schiacciante posizione di forza. Ma la lettura del report ha confermato al Cavaliere che sui risultati elettorali pesano ancora delle incognite, non legate solo alla scelta di allearsi o meno con i centristi. Intanto, come racconta un autorevole dirigente forzista che ha letto l'ultimo sondaggio, senza Casini ci sarebbero delle «criticità » sul Senato.

È vero che al momento il Pdl senza l'Udc avrebbe un margine a Palazzo Madama «tra i 10 e i 15 senatori», ma esisterebbero dei rischi per i premi di maggioranza regionali previsti dal «Porcellum»: in Calabria, Campania, Puglia, Sicilia, e persino nel Lazio se anche Storace dovesse correre da solo. Ecco perché Berlusconi non ha ancora rotto gli indugi. Dovesse seguire l'istinto, smetterebbe di ascoltare i suggerimenti di Gianni Letta e del suo portavoce Bonaiuti, «visto peraltro che con Cuffaro e Mastella perdo voti». Insomma, non perderebbe tempo dietro ipotesi di mediazione. Tra queste c'è l'opzione di offrire all'Udc il collegamento all'alleanza in cambio di un «patto» — da annunciare prima del voto — di andare insieme alle Europee del 2009 con un'unica lista targata Ppe. Più che una via d'uscita per ora sembra una suggestione, di cui c'è traccia sull'ultimo numero del periodico Formiche, pubblicato però prima che scoppiasse la guerra tra i due (ex) alleati. Ma nel braccio di ferro con Casini c'è anche un altro motivo che frena il Cavaliere: è una questione di marketing. Elettorale, ovviamente. Secondo i suoi analisti di fiducia, le prossime elezioni saranno all'insegna del «tutto nuovo» per due fattori. Il primo è che gli schieramenti non saranno simili ai precedenti, e l'opinione pubblica sta cercando ancora di capire «chi si alleerà con chi».

È vero che lo scontro tra Berlusconi e Veltroni sta bipolarizzando la sfida a danno di tutti gli altri partiti, ma i primi test hanno sottolineato che tra gli elettori c'è una fase di disorientamento, causata dall'assenza dei «vecchi» simboli: dai Ds a Rifondazione, da Forza Italia ad An. Il fatto che siano cambiati a ridosso del voto è una scommessa, non a caso nel simbolo del Pd c'è un richiamo all'Ulivo e in quello del Pdl ci sarà il nome di Berlusconi a caratteri cubitali. I marchi «collaudati», in presenza di quelli nuovi, potrebbero avere dunque un peso. Secondo gli esperti berlusconiani la Lega ne trarrà grande beneficio, così come potrebbe trarne l'Udc con lo scudocrociato che da sempre è un valore aggiunto per ogni forza post dc. Perciò restano degli interrogativi che il Cavaliere sta valutando: quanto potrebbe lucrare nelle urne Casini da queste novità? E se i centristi andassero da soli, fino a che punto comprometterebbero il vantaggio del Pdl sul Pd al Senato? Al momento non è facile calcolarlo.

 Gli analisti giudicano «fondamentali» i sondaggi che si faranno a metà marzo con il facsimile della scheda elettorale, quando saranno chiari schieramenti e liste. Ma si deve attendere ancora un mese. Nulla è certo, così come non è chiaro se Pdl e Udc troveranno in extremis un'intesa. Per ora è solo guerra di posizionamento. Al Cavaliere è stato fatto notare che Veltroni, nel discorso di Spello, ha citato solo Moro, «un modo per attrarre i voti democristiani », mentre la Cosa Rossa sta attaccando il Pd definendolo «partito di centro»: «È un messaggio— diceva ieri Mussi — su cui insisteremo ». L'obiettivo è chiaro: far passare l'idea che il Pd non rappresenta più la sinistra. Berlusconi invece ne parla come del «partito di Prodi», per non far dimenticare «il fallimento del centrosinistra ». Su questa linea sta approntando un nuovo slogan: «Dovremo spiegare che il nostro sarà un "governo a progetto"». Perché gli elettori vogliono certezze sul timing delle leggi, e non avrebbero nemmeno gradito la riforma delle pensioni varata dal Professore. Anche questo dicono i sondaggi del Cavaliere. Francesco Verderami

Francesco Verderami
12 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Par condicio, prove di grande coalizione
Inserito da: Admin - Febbraio 19, 2008, 04:56:45 pm
Il retroscena

Par condicio, prove di grande coalizione

Dietro l'altolà l'accordo in Vigilanza per la spartizione degli spazi nelle tribune elettorali


ROMA — L'offensiva dipietrista contro Mediaset ha messo ieri in difficoltà Veltroni e ha fatto traballare l'asse con il Cavaliere alla vigilia delle prime «prove tecniche» di larghe intese. Prove tecniche che inizieranno oggi in Parlamento e si consumeranno nell'accordo in commissione Vigilanza Rai tra Pd e Pdl per la spartizione degli spazi nelle tribune elettorali sulla Tv di Stato. È un'intesa alla quale gli sherpa dei due leader lavorano riservatamente dal giorno in cui Napolitano ha sciolto le Camere, ed è frutto di «interessi convergenti», di una «comune interpretazione » della par condicio, che sicuramente contrasta con quella delle altre forze politiche — dalla Sinistra arcobaleno all'Udc — e preannuncia uno scontro durissimo anche con Radicali e Socialisti.

Ma ieri Di Pietro ha rischiato di compromettere tutto.

La sua proposta di ridurre il Biscione a «una sola rete» ha scatenato la reazione del fronte berlusconiano contro Veltroni. Colto di sorpresa e imbarazzato, il leader democratico ha tentato di limitare i danni: anzitutto ha chiamato l'ex pm, invitandolo a rettificare e a «rispettare il patto di alleanza»; poi si è affidato a Follini, responsabile per le Comunicazioni del Pd, per «circoscrivere l'incidente » con una nota ufficiale. È stato un intervento tampone quello di Veltroni, inviperito per i contraccolpi politici determinati «dalla leggerezza con cui Di Pietro ha rilasciato quelle dichiarazioni », e preoccupato di «riproporre agli elettori un'immagine vecchia »: l'immagine cioè della coalizione prodiana del 2006, e di un leader che non riesce a governare la propria alleanza. Finora l'ex sindaco di Roma era stato abile a far dimenticare l'Unione e le sue beghe, così com'era stato abile a parlare di sistema televisivo davanti alla Costituente del Pd: sabato aveva affrontato il nodo Rai, rilanciando l'idea del ministro Gentiloni di «autonomizzare » il servizio pubblico dai partiti con la creazione di una «Fondazione ». Oltre non era andato, nè avrebbe voluto farlo. Invece il capo dell'Idv l'ha risospinto su «posizioni antiquate », riproponendo «logiche da espropri » che non hanno più senso: «Di Pietro — si è lamentato Veltroni con i suoi — si è accorto che è nata Sky? Che c'è il digitale terrestre? Che in prospettiva le reti analogiche non sono più il core business del settore?».

È vero. Ma è altrettanto vero che nella sfida di aprile per palazzo Chigi le reti analogiche restano ancora importanti. Perciò oggi in Vigilanza le due maggiori forze inizieranno un gioco di sponda sul regolamento delle tribune elettorali, basato sul voto incrociato di una serie di emendamenti su cui è stato raggiunto l'accordo. L'intento — secondo autorevoli fonti di entrambi i partiti — è garantire che Pd e Pdl sulle reti Rai «non siano danneggiati dalla par condicio». Nessuno accredita ufficialmente l'operazione. Il presidente della Commissione, Landolfi di An, si limita a dire: «Bisogna fare in modo che un "summum ius" — cioè la par condicio — non si trasformi in "summa iniuria" per partiti più rappresentativi ». E il capogruppo democratico Morri sottolinea come sia «ormai evidente che si è costruito un clima mediatico in cui la competizione per il governo del Paese passa tra Pd e Pdl». Più chiaro di così... A parti rovesciate Sinistra arcobaleno, Udc, Socialisti, Radicali e Destra temono di venir penalizzati nella tv di Stato dall'alleanza Veltroni-Berlusconi.

 E preparano le barricate sapendo che oggi si disputerà solo la prima fase del match: quella che regolamenta gli spazi di comunicazione fino al 10 marzo. Sarà soprattutto nella seconda fase che si accenderà lo scontro, perché si dovranno stabilire i tempi da assegnare nelle tribune Rai alle liste e alle coalizioni candidate, per il periodo che va dal 10 marzo fino al termine della campagna elettorale. Allora andrà stabilito se anche i programmi giornalistici — da Porta a Porta ad AnnoZero a Ballarò — dovranno usare il bilancino con «tutti» i partiti e con «tutti» i candidati premier: «È assurdo — sostiene il ministro Gentiloni — equiparare quei contenitori alle tribune, e pretendere un'assoluta parità. Il rischio è non consentire alla Rai di fare informazione». Ora che non ci sono più solo due coalizioni, Pd e Pdl si alleano contro gli alleati di un tempo e costruiscono le larghe intese sugli spazi in tv. Come dice il democratico Lusetti «competition is competition».

Francesco Verderami
19 febbraio 2008

da corriere.it


Titolo: I numeri riservati danno al cavaliere solo sette senatori di vantaggio
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2008, 03:13:02 pm
I numeri riservati danno al cavaliere solo sette senatori di vantaggio

Nostalgia per Casini e timori sul Senato

Il Pdl si sente in bilico in quattro regioni: a rischio Liguria, Lazio, Abruzzo e Calabria


ROMA — La nostalgia per l'alleanza con l'Udc è un sentimento che alberga nel cuore di molti dirigenti forzisti. Custodito con grande riservatezza, in queste ore viene alimentato dai calcoli che gli esperti del Pdl ripetono in modo maniacale. E che però danno lo stesso risultato: a Palazzo Madama, malgrado il netto vantaggio nei sondaggi, il margine non è quello di «30 senatori» annunciato in tv da Berlusconi. I numeri riservati dicono sette seggi. Il motivo? In alcune regioni importanti, dove il centrodestra è dato per vincente, il Pd paradossalmente ci guadagna in virtù dell'attuale sistema di voto.

Il caso più eclatante è la Lombardia, dov'è scontato il successo del Cavaliere, ma dove Veltroni potrebbe accaparrarsi tutti i seggi di «minoranza», dato che né l'Udc né la Sinistra arcobaleno dovrebbero raggiungere la soglia dell' 8%. Viceversa nelle regioni rosse, dove il rassemblement di Bertinotti è forte, il Pdl sarebbe costretto a dividere con lui i posti assegnati ai «perdenti». Insomma, nel gioco del «dare e avere» Berlusconi ci rimetterebbe.

Quello del Senato è un pasticciaccio brutto, ecco perché tra i forzisti si avverte il rammarico dello strappo con Casini. Se l'Udc fosse oggi alleato del Pdl la sfida con Veltroni sarebbe già chiusa. A suo tempo furono in tanti a cercare di evitare la rottura, da Gianni Letta a Bonaiuti, da Pisanu a Formigoni. E in questi giorni i discorsi di allora tornano sotto forma di sussurri. Dunque il divorzio è stato un errore? «Più che un errore è stata una scelta», commenta Gargani: «Sbagliare in politica — chiosa sibillino — è un'altra cosa, è sottovalutare gli effetti di una mossa».

Ieri Berlusconi non ha lasciato trapelare queste ansie, spiegando che lo strappo fu «deciso da Casini» e che senza di lui «al governo realizzeremo per intero il nostro programma». Ma il Cavaliere sa che al Senato rischia una maggioranza risicata, perciò vuole «gente affidabile» e «culi di pietra», perciò prepara una strategia mediatica d'attacco nelle quattro aree chiave del duello: Abruzzo, Calabria, Liguria e soprattutto Lazio, dove il vantaggio su Veltroni alla Camera è di 6 punti, mentre al Senato è solo dello 0,6%, per effetto del voto disgiunto che porterebbe gli elettori di sinistra a dare il voto utile al Pd. In queste regioni Berlusconi e Fini concentreranno la loro attenzione con iniziative comuni. In Campania invece non ci sarebbe storia: il leader democratico ieri ha ricevuto un sondaggio disastroso che dà il suo partito al 26,4%.

Epperò vincere potrebbe non bastare al Pdl per avere certezze al Senato. Certezze che nemmeno gli analisti possono dare, alle prese come sono con una variabile al momento indecifrabile: il «partito del non voto», accreditato del 26%. Per ora ci si limita ai flussi, che indicano un travaso di consensi dai democratici all'Udc, salita al 6% nei sondaggi. «Ma nel Pd l'emorragia sul territorio è molto più forte», secondo il leader del Pri Nucara: «Specie al Sud sono in libera uscita anche quadri dirigenti locali. È lì che il Pdl deve agire capillarmente per intercettare i consensi moderati. Veltroni ha fatto un gran casino con le liste».

Berlusconi nei colloqui riservati ha parlato anche del modo «cinico» in cui l'avversario ha «decimato » gli uscenti. Prova ne era ieri la delusione che si leggeva sul volto del deputato ulivista Khaled Fouad Allam. Scaricato senza convenevoli, l'intellettuale dice che tornerà a scrivere: «Mi hanno proposto di fare l'editorialista dell'Osservatore Romano». La mattanza sta per consumarsi anche nel Pdl. E se le liste verranno chiuse all'ultimo momento, sarà proprio per evitare che gli esclusi — soprattutto di An — tentino di accasarsi con la Destra di Storace. Scottato per le polemiche suscitate dalle voci sulla candidatura di alcune «veline», il Cavaliere ha scelto il profilo basso e optato per altri nomi. Raccontano si sia molto irritato per il caso scoppiato sulla Yespica, e per la battuta della soubrette, che si era detta pronta a votare per Veltroni: «Hai capito questa signora...». Ma non è a lei che Berlusconi sta pensando in queste ore. Semmai a Casini.

Francesco Verderami
06 marzo 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Ma Clemente pensa al ritorno ...
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2008, 03:13:49 pm
Il retroscena

Ma Clemente pensa al ritorno

«Farò come Bossi, la Lega del Sud»

Lega e An: fermati un giro. E lui: che ci vado a fare a Strasburgo?


ROMA — Ora Mastella non c'è più. Se n'è tornato ieri a Ceppaloni, «che sarà la mia ridotta, la ridotta del Sannio», dalla quale ripartirà tra una settimana, un mese, un anno, è ancora da vedere. Ma ripartirà Mastella, prendendo esempio da Bossi: «E come Umberto ai suoi esordi, farò una Lega campana, inizierò dal territorio, con pochi amici. Da lì riprenderò a far politica, perché senza non so vivere». Ora che Mastella non c'è più, probabilmente scompariranno i suoi detrattori, quelli che lo schernivano per la sua villa, per la piscina a forma di cozza che tutti hanno visto perché tutti sono stati suoi ospiti. Tutti hanno visitato la casa del mostro.

Il giorno in cui si sposò il figlio, c'era di fatto l'intero governo, con Prodi in prima fila. Al rito religioso la chiesa era così stipata che a un certo punto il ministro degli Esteri decise di prender aria, proprio mentre l'officiante salutava i presenti: «Saluto il presidente del Consiglio, il vice segretario D'Alema... », disse confondendosi. E Fassino, che non si era mosso, in quel clima di allegria regalò una battuta al vicino di banco: «Così impara Massimo ad andar via prima. È stato immediatamente declassato». Chi non è stato a Ceppaloni, ha aperto a Mastella le porte di casa. Un anno fa al Campidoglio — quando da sindaco di Roma si preparava a diventare leader del Pd — Veltroni lo ricevette per una colazione servita da camerieri in guanti bianchi, e per proporgli di allearsi: «Insieme, Clemente. Insieme per un nuovo Ulivo». Ora l'Ulivo non c'è più. E nemmeno Mastella. Chi è cresciuto alla scuola democristiana ha imparato che in politica non esiste l'amicizia, e che la gratitudine è il sentimento del giorno prima.

Il giorno dopo, il giorno della crisi di governo, D'Alema lo incrociò al Senato e non lo degnò neppure di uno sguardo: «Nemmeno mi saluta chillu str... Dopo tutto quello che ho fatto anche per lui». Per lui e per altri. Quando seppe che la moglie stava per essere arrestata, chiamò Prodi in lacrime chiedendo conforto, confidando in chissà cosa. «Speriamo vada tutto per il meglio», gli sussurrò il premier: «Ti faccio i miei migliori auguri». A un meridionale come lui parve una solidarietà di rito: «E dire che mi sono attirato gli attacchi del pm De Magistris pur di difenderlo da quell'assurda inchiesta calabrese ». È stato allora che Mastella ha smesso di essere un politico. Dal giorno in cui gli hanno toccato «Sandra» ha smesso di far roteare gli occhi, caratteristica che Berlusconi colse quando lo conobbe: «Appena gli dicevo una cosa, iniziava a muovere lo sguardo da destra a sinistra, da sinistra a destra, come un tergicristallo. In quei momenti, secondo me, lui pensava: "Mi conviene, non mi conviene"...».

Perché non c'è dubbio che l'ex ministro del Professore e del Cavaliere ha lucrato per anni nel gioco di Palazzo, con una tale durezza che alla vigilia delle elezioni del '96 spaccò una sedia del Settecento ad Arcore per una disputa sui seggi con Berlusconi. Quella lucidità è andata persa nell'ultima trattativa. Il desiderio di trovare riparo per sé e la sua famiglia lo ha indotto a rompere con Prodi e a sottoscrivere senza alcuna cautela un accordo che il leader del Pdl non ha poi mantenuto. È vero, ha trovato tre fieri avversari: Fini, Maroni e i sondaggi, che lo indicano come un appestato. Raccontano però che il leader di An e anche Bossi (più disponibile ad accoglierlo) gli avessero consigliato di «fermarsi un giro»: «Fermati Clemente, alle prossime regionali in Campania vedremo di trovare un'intesa su tua moglie. Fermati Clemente, poi ti rilanci alle Europee». «E che faccio a Strasburgo, mi iscrivo alla commissione Caccia e Pesca come D'Alema?».

Esaurita ogni possibile mediazione — l'Mpa di Lombardo, la Dc di Pizza — il Cavaliere ha smesso di rispondergli al telefono e l'ha girato a Letta: «Gianni, parlaci tu. Sono a disagio, non so che dirgli». Un giorno che Letta non c'era, è stata la moglie a togliere dall'imbarazzo Berlusconi. È stata Veronica a parlare con la moglie di Mastella. Nei frangenti difficili le donne sanno dire quel che gli uomini temono di pensare. Casini, per esempio, anche lui ha detto no a «Clemente», dopo averlo pubblicamente elogiato in questi anni: «È una forza della natura, è inaffondabile». De Mita invece voleva aprirgli le porte, «come si fa con un figliol prodigo». Alla fine nessuno l'ha voluto: «L'infamia e l'isolamento mi stanno distruggendo». Perciò se n'è tornato a Ceppaloni, convinto che — siccome non c'è più — non ci saranno più politici su voli di Stato da fotografare, raccomandazioni nelle Asl da denunciare, nemmeno piscine a forma di cozza da criticare. Fino al prossimo mostro. O forse fino al ritorno di Mastella. Nel 2006 Alle Politiche 2006 l'Udeur ha ottenuto circa cinquecentomila preferenze in ciascun ramo del Parlamento. Il partito guidato da Clemente Mastella aveva conquistato anche un seggio alle elezioni Europee del 2004

Francesco Verderami
07 marzo 2008

da corriere.it


Titolo: Ciarrapico: filtra la voce che il regista sia Gianni Letta...
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2008, 09:05:01 am
Inchiesta sull’editore per i contributi durante il governo Berlusconi

L’idea di Silvio gela l’idillio con Fini

Caso Ciarrapico: filtra la voce che il regista della candidatura nel Pdl sia Gianni Letta

 
Il «caso Ciarrapico» coglie in contropiede il Pdl, toglie a Berlusconi il vantaggio di chi stava sfruttando gli errori e gli affanni del Pd, offre a Veltroni l’appiglio per mettere sulla difensiva l’avversario, provoca l’indignata reazione della comunità ebraica, ma soprattutto spezza l’incantesimo del «nuovo idillio» tra il Cavaliere e Fini. Le parole usate dall’imprenditore sul fascismo mandano in frantumi l’immagine della convention elettorale di Milano, e sono la causa dello scontro tra i due alleati. In realtà le frizioni erano iniziate con l’inserimento di Ciarrapico nelle liste del Pdl al Senato, un rospo che Fini aveva dovuto ingoiare.

Ed è proprio attorno a quella scelta che resta un alone di mistero, con molti passaggi ancora oscuri. È vero—come filtrava ieri da palazzo Grazioli — che sarebbe stato Gianni Letta a imporlo, così da «drenare voti alla Destra di Storace», impegnata a rosicchiare «con successo» i consensi di An? Oppure è vero quanto raccontano fonti autorevoli di Forza Italia, e cioè che la candidatura sarebbe stata decisa personalmente da Berlusconi? L’ex premier — preoccupato di perdere il Lazio — più volte avrebbe incontrato l’editore negli ultimi tempi per offrirgli il seggio. E comunque, è possibile che Fini abbia saputo solo all’ultimo momento della candidatura, nonostante i contatti quotidiani con l’alleato, e malgrado al tavolo delle liste sedessero anche dirigenti del suo partito? È certo che a Storace era giunta voce già la scorsa settimana, tanto che durante un pranzo — presente donna Assunta Almirante — se l’era presa con il Cavaliere per il «colpo basso».

Così com’è certo che ieri mattina Berlusconi non si era ancora reso conto del danno causato dall’intervista di Ciarrapico su Repubblica. «Non andiamo dietro le solite polemiche montate dalla sinistra », era esploso: «A parte il fatto che anche loro a Roma hanno avuto rapporti con lui, agli elettori queste cose non interessano. La gente pensa a come arrivare a fine mese, altro che storie». La storia del «caso Ciarrapico» era invece solo agli inizi, perché Fini— a cui l’imprenditore è a dir poco inviso—s’infuriava. E le conversazioni al telefono con l’alleato sembravano la riedizione degli scontri di pochi mesi fa. La prima smentita di Ciarrapico — frutto di un lavoro di mediazione complicato — non serviva a smorzare il caso, che assumeva per il Cavaliere un’altra dimensione quando anche Bossi usciva allo scoperto, chiedendo la testa del candidato. Poche ore prima Maroni aveva chiamato il leader di An per avere chiarimenti. «È un’idea tua, Gianfranco?». «Quella è l’ultima persona al mondo che avrei messo in lista. È un’idea di Forza Italia ». «Ma a cosa serve?». «Se ti dicono che serve per prendere voti a Storace, non ci credere», aveva risposto sibillino Fini. Maroni non si capacitava, «così si cancella tutto il vantaggio mediatico accumulato sul Pd.

Ma come: Veltroni è in mezzo a una strada con il caso Calearo, perde voti per la polemica con i Radicali, e noi ci mettiamo nei guai da soli? Che poi queste cose magari a Roma non fanno effetto, ma sopra la "linea Gotica", al Nord, rischiano di farci pagare pegno». Nel frattempo si era scatenato il finimondo nella comunità ebraica e già la Nirenstein, candidata con il Pdl, si era pubblicamente scagliata contro Ciarrapico. Insomma, più che gestire l’offensiva del Pd, il centrodestra doveva sminare l’ordigno confezionato in casa. Un altro candidato della comunità, Ruben, presidente dell’Anti Defamation League, esterrefatto chiedeva lumi, e s’imbatteva nel malumore di Fini: «Alessandro, tu sai cosa ho fatto per cambiare il profilo della destra. Ora arriva questo... Così facevo prima a tenermi Storace». Poco dopo a chiamare Ruben era un Gianni Letta che si diceva «imbarazzatissimo», che ripeteva «sono da sempre vicino alla comunità ebraica, sono amico di Israele», e che prometteva — come già aveva fatto Fini—di «intervenire energicamente». Anche dentro Forza Italia il clima s’infuocava, perché il «Ciarra» in quel partito non si è fatto molti amici: Tajani ha una querela in corso; il senatore uscente di Latina, Fazzone, ricandidato, da tempo è oggetto di una campagna di stampa ostile da parte dei giornali locali dell’editore...

In molti insomma attendevano l’annuncio di un suo ritiro. Invece, l’unica concessione che Ciarrapico ha fatto, è stata una presa di posizione contro le leggi razziali fasciste. Ma non è questo il suo solo tallone d’Achille. Sono i suoi problemi giudiziari che in campagna elettorale potrebbero rivelarsi un boomerang per il Pdl. Ciarrapico infatti — famoso per il ruolo di mediatore sul «lodo Mondadori» tra Berlusconi e De Benedetti—è attualmente indagato dalla procura di Roma, che a dicembre dispose una serie di perquisizioni nei suoi confronti per un’inchiesta sui contributi per l’editoria nel periodo 2002-2005, cioè quando il Cavaliere era al governo. Secondo l’accusa, gli incartamenti prodotti per ottenere i contributi avrebbero «indotto in errore» la presidenza del Consiglio, e avrebbero consentito all’editore di incassare oltre 22 milioni di euro in più rispetto al dovuto. Come non bastasse, sarebbe in corso un’indagine a suo carico per evasione fiscale. È iniziata la campagna elettorale. Veltroni ringrazia Berlusconi per il «regalo».

Francesco Verderami
11 marzo 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco Verderami. Alitalia: Rutelli «tentato» dalla via italiana
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2008, 09:42:57 pm
Ma resta la diffidenza vero la mossa del cavaliere

Alitalia: Rutelli «tentato» dalla via italiana

Il vicepremier spera in un sussulto dell'imprenditoria nazionale per salvare la compagnia

Ora che Berlusconi rilancia la sua vecchia idea, Rutelli non rivendica il copyright e confida in un «sussulto dell'imprenditoria nazionale» per Alitalia.

Nel vice premier albergano sentimenti contrastanti: c'è il desiderio che «Az» resti italiana, e c'è la diffidenza verso il Cavaliere, il timore che la sua mossa sia solo una «manovra elettorale». «Ma se davvero è in grado di costituire una cordata in tempi brevi, lo faccia. Certo, quando gli sento chiedere un prestito ponte per l'operazione, quando gli sento dire che anche i suoi figli ne potrebbero far parte, mi domando se lui pensi che al governo ci sia gente con gli orecchini al naso». Rutelli non accenna al conflitto d'interessi, si limita a evocarlo. D'altronde non è ora di polemizzare, sebbene sostenga che «la crisi di Alitalia» sia diventata «irreversibile » con Berlusconi a Palazzo Chigi. Avrebbe tanti «rospi da sputare», «penso al modo in cui vennero dirottate molte rotte dall'hub naturale di Fiumicino su Malpensa, che era e resta senza infrastrutture ». «Penso agli imprenditori che mi dicevano di non voler mettere piede in quell'hub ». «Penso alla concorrenza creata proprio dagli altri scali lombardi...». Nessuno però può scagliare la prima pietra, e se si potesse capitalizzare un euro per ogni errore commesso da politici e manager, oggi Alitalia sarebbe in attivo. Invece è stretta tra l'offerta di Air France - che anche Rutelli considera «bassa» - e il rischio di fallimento. A meno che la terza via annunciata da Berlusconi non diventi realtà, «e sarei felicissimo se ci fosse un soprassalto di energie delle forze produttive, finanziarie e industriali italiane», giura Rutelli: «A suo tempo chiesi di investire su Alitalia. "Costituite una cordata - dissi a molti - oppure perderemo la compagnia". Tutti si negarono, non meno dei partner asiatici che pure il governo Prodi cercò con ostinazione. Chissà, oggi che il nodo va sciolto o tagliato, potrebbe esser maturato un sussulto di consapevolezza. Meglio tardi che mai. Sarebbero benvenuti». A patto però che «si tratti di un progetto industriale forte e abbia una partnership internazionale. Perché Alitalia non può ridursi a una compagnia regionale». Niente giochini, «nessuno pensi di far fallire la società. Se la cordata esiste, bene. Altrimenti c'è Air France», che il candidato sindaco di Roma definisce «il male minore ». Ma chi lo spiegherà ai sindacati, ostili al «ricatto» dei transalpini, e al «fronte del nord» che ha compattato addirittura Lega e Confindustria? Il vice premier ritiene che i sindacati «preferiranno trattare con Spinetta, piuttosto che veder saltare tutto per aria», e quanto a Malpensa «c'è ancora lo spazio perché si affermi come hub settentrionale e del traffico business ».

PRIORITA' IL «SISTEMA NAZIONALE» - La priorità è comunque «il sistema nazionale »: «Per un Paese con 60 milioni di abitanti, milioni di imprese, e un flusso turistico formidabile, serve una partnership che tuteli questi interessi e non li pieghi al servizio di un'altra strategia nazionale. In tal senso Air France dà garanzie». Certo, Rutelli ammette che «l'ultima offerta è stata ridimensionata», riconoscendo così il primo errore del governo, che concesse la trattativa in esclusiva ad Air France: «Quello è stato un limite. Sollevai il tema in Consiglio dei ministri, dissi che per le grandi cessioni c'era bisogno di tenere aperta la competizione». AirOne era il competitor, «invece Toto non ebbe nemmeno accesso alla due-diligence ». Rutelli tuttavia precisa che «l'offerta era comunque debole, sia sul piano finanziario, sia priva di un partner internazionale ». Ora la compagnia potrebbe rientrare in gioco, ma serve «chiarezza» per evitare che su una scelta delicatissima si innesti una speculazione elettorale. Epperò è stato il governo a fornire il formidabile assist a Berlusconi. Rutelli lo sa e lo dice: «Sul timing della trattativa e sulla sua gestione politica, è preferibile stendere un pietoso velo». In un solo colpo il governo si è trovato contro Confindustria, i sindacati e i due terzi del Parlamento. In un solo colpo ha procurato un grave danno alla «rimonta» di Walter Veltroni, che è furibondo con il premier e il ministro dell'Economia: «È vero che la partita su Alitalia è durissima - sospira Rutelli - ma l'idea di giocarla mentre è in corso la campagna elettorale, e senza costruire il consenso, è roba da masochisti. Questa non è la vendita di un centro commerciale.

Che in aprile si sarebbe votato avrebbero dovuto saperlo anche i ministri che non si candidano alle elezioni». E Padoa Schioppa non poteva non sapere... 

Francesco Verderami
22 marzo 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Il capo della Lega e gli scenari del dopo 14 aprile
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2008, 06:50:26 pm
Il capo della Lega e gli scenari del dopo 14 aprile

E Casini lodò Umberto: solo lui ha testa politica

L'elogio del leader centrista all'ex alleato.

I due, che da alleati vivevano da separati in casa, ora si scambiano messaggi


Quando erano alleati Bossi e Casini vivevano da separati in casa. Ora, da avversari, si scambiano messaggi. Bossi ha inviato un segnale a Casini, prospettando «un nuovo accordo e un nuovo rapporto» con l'Udc in caso di pareggio. Quel segnale il leader dei centristi l'ha ricevuto, e riconosce al Senatùr di essere «un vero animale politico, uno che ha testa, uno che si dimostra più furbo di Fini, e che ha capito l'errore commesso da Berlusconi ». Oltre non può né vuole andare, «farei harakiri se solo ipotizzassi un ritorno all'alleanza con il Cavaliere». D'altronde, all'indomani del divorzio, nessuno gli dava credito, nessuno scommetteva sulla sua sopravvivenza. Oggi invece il suo posizionamento al centro è redditizio, perché — nonostante l'emorragia di dirigenti passati nel Pdl — i sondaggi gli attestano numeri lusinghieri, e da alcuni studi emerge un ricambio di elettori per il suo partito, misurato «tra il 20 e il 30%»: «È la prova di come stiamo drenando al Pd quei voti che un tempo erano della Margherita».

Ecco perché Casini fa mostra di scartare l'opzione bossiana, e per allontanare da sé ogni sospetto, ha in programma di attaccare «a testa bassa quel furbacchione di Umberto». Però con i fedelissimi ha analizzato la sortita del leader leghista: «Dà l'idea che anche lui colga i limiti dell'operazione Pdl». È in prospettiva che quel messaggio va interpretato. E se davvero le urne consegnassero un pareggio, Bossi e Casini avrebbero interessi convergenti: entrambi sono contro l'inciucio tra Berlusconi e Veltroni, entrambi ritengono che l'inciucio non ci sarà, ed entrambi vorrebbero capitalizzare la loro forza. A partire dalle riforme, visto che il Senatùr vorrà vigilare dalla poltrona del ministero, e visto che il segretario dell'Udc Cesa continua a sottolineare «l'asse di ferro stretto con la Lega per una legge elettorale proporzionale». Si vedrà. Per i centristi dipenderà dall'esito del voto, da come il voto si tramuterà in seggi, dai seggi che eventualmente riusciranno a conquistare al Senato... «È un investimento sul futuro», spiega Casini, che aspetta di conoscere il responso delle urne per capire «se il Pd è un partito davvero solido o se è a rischio smottamento dopo le elezioni, magari per un brutto risultato ». Insomma, al momento sono troppe le variabili, ed è impossibile poterle calcolare tutte.

Ma ieri l'ex presidente della Camera ha di fatto risposto al segnale di Bossi: la proposta di un «governo dei migliori» per la prossima legislatura, era un segnale criptato, un modo per dire che in caso di pareggio si potrebbe arrivare a un'intesa, ma senza il Cavaliere a palazzo Chigi. «Piuttosto Gianni Letta ». Ognuno in questa fase marca il proprio territorio e manda messaggi per posizionarsi. Il fatto che Bossi abbia aperto all'Udc non è questione di poco conto, «è un atteggiamento molto serio e consapevole », commenta Cesa: «È il realismo politico di chi conosce i dati». I dati raccontano che la partita di palazzo Madama è tutt'ora aperta, «e credo — prosegue Casini — che anche Berlusconi abbia capito il grosso errore compiuto con noi. Quando si appella al voto disgiunto e chiede ai nostri elettori di votare per lui al Senato, dà una dimostrazione di debolezza». Lo aveva previsto Bossi, che ai tempi della rottura chiamò il leader centrista esortandolo a non fare «una stupidaggine»: «È una stupidaggine, Pier». «Non parlare con me, rivolgiti a qualcun altro».

E il Senatùr lo fece: «Saranno pure i soliti democristianoni, Silvio, ma sono sempre restati nel centrodestra. E con loro si vince facile». In quei giorni le provò tutte. Cesa ricorda «le telefonate di Calderoli, che da Bossi aveva ricevuto il mandato di trovare assolutamente una soluzione, un compromesso». Niente da fare. « Primum vivere », divenne il motto di Casini, che lo sussurrò all'orecchio di un dirigente del Pd: «L'importante è arrivare in Parlamento, e noi ci arriveremo. Poi cambierà tutto». Qualcosa sta già cambiando, e il segnale di Bossi rivela anche una fase di forte attrito con il Cavaliere. Il capo leghista chiede garanzie, vuole anzitempo prenotare i posti nel governo. Una marcatura così asfissiante che nei giorni scorsi Berlusconi è andato in escandescenze. Ma finché «Silvio » non cederà, «l'Umberto» gli farà il controcanto: su Alitalia, sul duello tv, e anche su Casini...

Francesco Verderami
29 marzo 2008

da corriere.it


Titolo: .. la Lega sfida gli alleati «Vogliamo un governatore e il Viminale»
Inserito da: Admin - Aprile 08, 2008, 06:08:19 pm
Sfiorata la rissa tra Cota e Crosetto durante un incontro pubblico a Cuneo

Dispetti ai comizi, la Lega sfida gli alleati «Vogliamo un governatore e il Viminale»


E’ vero quanto dice Berlusconi, che tra lui e Bossi c’è «un rapporto speciale».
Solo che in politica il Senatur è abituato a non far sconti, nemmeno all’«amico Silvio», e il Cavaliere a volte se ne lamenta perché l’atteggiamento del leader leghista gli ricorda quello di Murdoch: «Rupert— spiegò— sostiene di essere mio amico, poi però cerca di aggredire Mediaset». Più o meno quel che sta facendo il Carroccio in campagna elettorale con il Pdl.

Qualche sera fa a Barge, paesino della provincia di Cuneo, durante un comizio si è sfiorata la rissa tra alleati. Era accaduto che il segretario piemontese della Lega, Cota, avesse arringato la piccola folla in questo modo: «Votate il Carroccio perché così il Carroccio terrà in riga Berlusconi». Crosetto, responsabile regionale azzurro, era rimasto esterrefatto. E visto che l’alleato non la smetteva, è salito sul palco e gli ha risposto a muso duro: «L’unico problema è mettere in riga Cota. Se la Lega tornerà al governo e potrà rilanciare le riforme federaliste che ci stanno a cuore, dovrà dire grazie a Berlusconi». Il dirigente forzista non smentisce l’episodio, si limita a rilevare che «in effetti i leghisti sul territorio sono un po’ aggressivi».

Lo sono eccome, e hanno una forte capacità penetrativa. Tanto che la segretaria dell’Ugl Renata Polverini — tornata da un tour al Nord — ha raccontato ad alcuni dirigenti del sindacato di aver sentito «tanti nostri iscritti decisi a votare Lega». Il metodo, per quanto artigianale, coincide con i rilevamenti di molti istituti di ricerca. Per uno di questi il Carroccio è in crescita costante da un mese, una novità rispetto ai test di ogni precedente consultazione, test nei quali la Lega aveva sempre avuto una flessione nelle settimane a ridosso del voto. Stavolta non è così. E comunque tutte le società demoscopiche la accreditano tra il 5 e il 6%. Tremonti spiega che il «successo» della Lega è dovuto «alla capacità di Bossi di aver fatto passare l’immagine di un movimento in cui convivono rivoluzione e capacità di amministrazione».

Il fatto è che il Carroccio continua a erodere voti al Cavaliere anche per la visibilità e la notorietà del simbolo. Perciò Berlusconi ripete ossessivamente ai suoi candidati di pubblicizzare il marchio Pdl. Insomma, «Silvio» sarà pure «un amico», ma per il Senatùr «competition is competition» al Nord. E ci sarà un motivo se da un paio di settimane lo liscia in contropelo. Berlusconi lancia l’idea della cordata italiana per Alitalia? Bossi commenta che «è difficile riuscirci». Berlusconi rifiuta il duello tv con Veltroni? Bossi dice che «avrebbe fatto meglio ad accettarlo ». Berlusconi attacca l’Udc? Bossi sostiene che «dopo le elezioni dovremo rimetterci insieme a Casini». E soprattutto: Berlusconi rimanda a dopo il voto il tema della lista dei ministri? Bossi annuncia che «io andrò al dicastero delle Riforme».

Perché questo è uno dei contenziosi aperti, se è vero che alcune settimane fa il confronto tra i due è stato piuttosto ruvido, con il capo del Carroccio fermo nel chiedere per il suo partito una poltrona di governatore al Nord e il ministero degli Interni a Roma. Il Cavaliere ha messo le mani avanti per la Lombardia: «Formigoni non si muove. Ci sarà anche l’Expo di Milano da gestire ». E ha rinviato le trattative sul governo: «Ne riparliamo dopo il voto. Non ci ho messo ancora la testa». Sarà, intanto Bossi per sicurezza gli ha lasciato un post it. Lo si capisce dal modo in cui Maroni—che è stato titolare degli Interni nel ’94 — si schermisce sulla questione: «Noi sappiamo accontentarci. Certo, se ci offrissero il Viminale non diremmo no. Tutto dipenderà dal risultato elettorale». Appunto. E il Carroccio sarebbe determinante al Senato qualora Berlusconi approdasse a palazzo Chigi.

«Silvio» ieri ha chiamato «Umberto » dopo la battuta sullo stato di salute del leader leghista che gli impedirebbe di tornare al governo. Il Cavaliere, come al solito, ha detto di esser stato «male interpretato», e Bossi come al solito ha detto di credergli. Tranne poi alzare la posta sul federalismo fiscale, «che andrà varato entro l’estate se vinceremo ». C’è da scommettere che fino a sabato tra i due ci sarà ancora qualche scintilla. È possibile si tratti di un gioco delle parti, servirebbe a smentire l’asse del Nord e consentirebbe a Berlusconi di conquistare i voti moderati al Centro-sud, necessari per vincere - ad esempio - nel Lazio. Ed è indubbio - come sottolinea Maroni - che «gli attacchi del Pd ci giovano». Casini l’ha intuito, infatti ha derubricato la polemica sui «fucili leghisti» a «folklore». Il Cavaliere invece, piccato dai sondaggi, ha assunto «uno stile ciampiano», come ironizza un autorevole dirigente forzista. L’irritazione verso l’«amico» Bossi è autentica, quanto indistruttibile è la loro alleanza.

Francesco Verderami
08 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Il Carroccio potrebbe reclamare il Pirellone
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2008, 04:12:19 pm
Gli scenari

E il Cavaliere ha già pronto il governo

Letta vicepremier, Esteri a Frattini

Alla Lega due ministeri tra cui il Viminale. Formigoni, ipotesi Senato.

Il Carroccio potrebbe reclamare il Pirellone

 
ROMA — «Abbiamo fatto la rivoluzione. Merito nostro e merito anche di Veltroni». Ieri le urne non hanno solo consegnato a Berlusconi la vittoria, ma hanno cambiato anche il profilo politico del Paese. E chissà se il Cavaliere ha affrontato l'argomento al telefono con il leader del Pd, se gli ha riconosciuto il ruolo di aver contribuito a «cambiare la faccia del sistema». È certo che la sua soddisfazione per aver centrato il risultato si è unita al compiacimento per aver fatto piazza pulita degli ex alleati centristi, così da potersi concentrare sul governo. «Vorrò essere ricordato come un uomo di Stato», ha sussurrato il capo del Pdl. E per quanto possa sembrare un epitaffio su se stesso, la frase testimonia che era già proiettato sul compito che l'attende a palazzo Chigi, dando per scontato il risultato prima dell'annuncio. Lo stesso Fini era convinto del successo, tanto che venerdì aveva confidato ad un amico: «Ci prenderemo la rivincita con gli interessi». Così è stato. «E il risultato è più che soddisfacente — ha commentato il leader di An — visto che il simbolo era nuovo».

Solo che il dopo-voto si preannuncia più difficile del voto, stavolta infatti non sarà più come le volte precedenti, e l'incombenza si avvertiva ieri anche nelle parole con cui Bossi ha catechizzato i suoi: «Mi raccomando, dovremo essere governativi e responsabili». Come a voler smentire lo stereotipo di una Lega barricadera. Ciò non vuol dire che tutto è stato predisposto. Gli unici incarichi sicuri sono quelli di Tremonti all'Economia e di Frattini agli Esteri, come annunciato dal Cavaliere. Per il resto c'e lo schema che Berlusconi ha in testa per il suo governo: il gabinetto infatti sarà per metà composto da esponenti di Forza Italia e per l'altra metà da An e Lega. Ma il modulo è l'unica certezza, perché la formazione dell'esecutivo è da definire. D'altronde il futuro premier doveva aspettare il voto per verificare quali fossero i rapporti di forza nel centrodestra e il peso dei dicasteri da assegnare poi agli alleati.

Quando Berlusconi dice che la Lega avrà «due ministeri» invece dei tre preventivati, è perché — forte del risultato — Bossi può ora rivendicare con successo il dicastero pesante del Viminale e un posto di governatore in una regione del Nord. Così, se davvero Formigoni puntasse alla poltrona del Senato — bilanciando la presidenza di Fini alla Camera — la Lega reclamerebbe per sé il Pirellone. Un traguardo storico, che potrebbe raggiungere ai danni di An. Nella battaglia di posizionamento in queste settimane si sono inseriti in molti: per gli Interni, gli Esteri e anche la Difesa, con Martino sponsorizzato da alcuni ex colleghi europei e da politici americani di primo piano. Si dice che la prossima settimana Martino partirà per gli Stati Uniti, dove la madre di McCain — il candidato repubblicano alla Casa Bianca — avrebbe organizzato una cena in suo onore. «Di ministeri parleremo dopo il voto», aveva detto Berlusconi per evitare frizioni in campagna elettorale con gli alleati, e con gli stessi esponenti del suo partito.

Le pressioni dentro Forza Italia erano infatti diventate molto forti, tanto che per tamponarle il Cavaliere aveva preannunciato un incarico ministeriale «di peso» per Gianni Letta. Se si trattasse di un escamotage o di una vera mossa non è dato saperlo, di sicuro Letta — nei suoi colloqui riservati— aveva anticipato ad alcuni interlocutori dello schieramento avverso che «io non farò mai il ministro». Sarà vicepremier, che un po' è come rifare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio. «In fondo — sorrideva ieri un autorevolissimo dirigente azzurro — Gianni per Berlusconi è come la coperta per Linus». Letta è insostituibile in quel ruolo. Anche per tenere i rapporti con il Pd. Perché il voto avrà pure innescato «la rivoluzione», ma è tutto da vedere se e in che modo si svilupperà il dialogo con Veltroni. L'esito del risultato è stato al centro di una prima analisi nel Pdl: «E mentre noi abbiamo vinto senza colpire a morte l'Udc — ha commentato Matteoli — dall'altra parte Veltroni ha cannibalizzato Bertinotti senza ottenere il successo. Segno che ha fatto il pieno a sinistra, non ha sfondato — anzi ha perso — al centro, e dovrà fare i conti con un'area estrema che farà della piazza il suo Parlamento. Il rischio insomma è che tutto ciò metta in difficoltà il settore moderato dei democratici. Con quali riflessi sul dialogo, non si sa».

In verità, gli interrogativi vanno allargati anche al centrodestra, visto che Lega è pronta a mettersi di traverso rispetto a ipotesi di «intese» con Veltroni. Martino ritiene che il Cavaliere ci proverà comunque, perché Berlusconi — a suo dire — «non credo vorrà abusare della vittoria, e nel caso in cui lo riterrà necessario, aprirà il confronto con il Pd per varare riforme condivise. Lui sa che i cittadini non lo hanno votato per gestire l'esistente. Altrimenti si sarebbero tenuti il centrosinistra». Le incognite sul futuro sono molte. L'unica certezza è che ieri Berlusconi ha iniziato a «sfidare» Veltroni proprio sul terreno del dialogo, prima di tornare a festeggiare con gli amici più intimi la rivincita: «L'avevo detto che Prodi sarebbe stato una parentesi». Quanti due anni fa avevano creduto alla sua «rimonta»?


Francesco Verderami
15 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Quell'incontro segreto tra Silvio e Walter
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2008, 12:05:07 pm
Teatro del faccia a faccia ancora una volta la casa di Gianni Letta

Quell'incontro segreto tra Silvio e Walter

Il futuro premier e il leader del Pd hanno già avuto modo di confrontarsi su Alitalia e commissario Ue


ROMA - Il dialogo è iniziato. Berlusconi e Veltroni hanno avuto un primo colloquio riservato. Ed è un dettaglio se i due si siano visti l'altra sera a casa di Gianni Letta — come testimoniano i movimenti delle scorte addette alla sicurezza — o se si siano solo sentiti. È certo comunque che il futuro premier e il leader del Pd hanno iniziato a discutere sui rapporti tra maggioranza e opposizione.

Il rendez-vous — secondo fonti autorevoli — non è servito solo ad affrontare la questione delle «regole del gioco». Al centro del colloquio ci sono stati infatti anche altri temi: dal «caso Alitalia» — che passa nelle mani del prossimo governo — fino al sostituto di Frattini alla Commissione europea, nomina che invece Prodi rivendica e non vuol lasciare a Berlusconi. «Casa Letta» evoca la stagione della Bicamerale e dei rapporti tra il Cavaliere e D'Alema sulle riforme istituzionali. Ma il segno del colloquio dell'altro ieri tra Berlusconi e Veltroni è assai diverso rispetto a quello del '97, anche perché il tema della legge elettorale — ad esempio — sarebbe stato per ora accantonato. «È l'ultima delle nostre preoccupazioni», ha spiegato il leader del Pdl dopo il colloquio.

È vero che sullo sfondo già si staglia lo scoglio referendario del prossimo anno, ma la tesi del futuro premier è che l'attuale sistema di voto vada «difeso, magari aggiornato con alcune modifiche, perché ha dimostrato di essere valido»: «D'altronde, proprio con questa legge elettorale è stato sconfitto il disegno centrista». Insomma, una «buona azione di governo», unita a una «buona relazione con l'opposizione» e all'avvio delle riforme, a detta del Cavaliere, depotenzierebbe l'appuntamento del 2009 fino a renderlo inoffensivo.

E non c'è alcun dubbio che il rafforzamento del bipartitismo stia molto a cuore al leader democratico, convinto anche lui che non si debbano aprire varchi a eventuali terzi poli. Perciò l'incontro di ieri mattina tra Casini e D'Alema ha irritato l'inquilino del Loft, ed è parso ai dirigenti del centrodestra come «la risposta all'asse tra Berlusconi e Veltroni». Di qui l'interrogativo che si è posto Matteoli: «Il leader del Pdl è ben disposto, molto più che in passato, a dialogare con il Pd. Il punto è: con quale Pd?».

Il timore che tra i democratici sia iniziata una resa dei conti dopo la sconfitta elettorale allarma la nuova maggioranza: «Quando Prodi ufficializza le sue dimissioni da presidente del Pd — prosegue Matteoli — e quasi lega questo annuncio al fatto che sarà lui a decidere il successore di Frattini in Europa, bisogna capire se dietro c'è un disegno. Siccome circola voce che alla Commissione voglia andarci D'Alema, se Prodi nominasse il ministro degli Esteri uscente farebbe un favore a Veltroni. Perché con D'Alema a Bruxelles, il leader del Pd avrebbe campo libero in Italia. Ma io non credo al buonismo di Prodi...».

Infatti tra i possibili sostituti di Frattini si parla di Enrico Letta e soprattutto di Fassino. Una cosa però è certa: Berlusconi vuol garantirsi con il suo (ex) sfidante, quelle che proprio Veltroni chiama «le regole della buona convivenza». Raccontano che il Cavaliere abbia dato assicurazioni all'interlocutore, pronto a confrontarsi a patto che il dialogo non venga utilizzato per alimentare strumentalmente divisioni nel Pd.

L'interesse a un solido rapporto politico oggi è reciproco: per Veltroni è un modo di consolidare il ruolo di capo indiscusso dell'opposizione, per Berlusconi è l'opportunità di governare senza l'ansia di dover fronteggiare in Parlamento una controparte barricadera e pregiudizialmente ostile. Perché in agenda ci sono molte questioni: l'Alitalia, certo, ma anche riforme in materia giudiziaria ed economica, che ieri — guarda caso — l'ambasciatore americano in Italia ha definito «necessarie». E nel Pdl è opinione comune che il dialogo con il Pd sia «necessario». Il segretario del Pri Nucara lo ha ribadito a Fini: «Teniamoci stretti Veltroni, ce n'è bisogno in vista di una fase difficile. È alto il rischio che abbia ragione Cossiga e che scoppino tensioni sociali, con la sinistra radicale fuori dal Parlamento». Fini ha condiviso, ed è corso con la mente «al primo maggio», «alle piazze d'Italia piene di bandiere rosse»: «E finché sarà così, va bene...». Va bene che Berlusconi e Veltroni abbiano iniziato a dialogare.

Francesco Verderami
17 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Il nuovo governo e i rapporti con Cgil, Cisl e Uil
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2008, 01:45:08 am
Il retroscena - Tremonti e i sindacati

L'offerta di Giulio: noi molto ragionevoli

Il nuovo governo e i rapporti con Cgil, Cisl e Uil


ROMA - «Niente dogmatismi, niente furie ideologiche».
Persino sul fronte dei rapporti sindacali Tremonti annuncia che il governo Berlusconi del 2008 sarà diverso da quello del 2001.

Il ragionamento di Tremonti fa capire che il futuro esecutivo non avrà intenzione di sfiancarsi in battaglie simili a quella sull'articolo 18, anzi «avremo un atteggiamento estremamente ragionevole ». Certo colpisce che all'indomani dell'affondo di Montezemolo contro i sindacati, il centrodestra tenda la mano alle organizzazioni del lavoro, e le difenda come a evitare il rischio di una loro delegittimazione. Dietro i segnali distensivi, si cela in realtà una precisa strategia, lo si intuisce quando il ministro dell'Economia in pectore spiega che «proporremo la defiscalizzazione degli straordinari e dei contratti di secondo livello, così come prevede il nostro programma »: «Se poi ci dicessero di no, allora vorrebbe dire che qualcosa nel sindacato non va». Ecco il punto: il Cavaliere si appresta a usare l'arma del dialogo sulle riforme, caricando sui suoi interlocutori la responsabilità di accettare o rifiutare la proposta, sapendo che stavolta non sarà lui a correre il pericolo di venir delegittimato dal Paese. Il pericolo lo correrebbero i sindacati. Perché nel Paese — come sostiene Tremonti — «il clima è diverso»: «Fino a ieri la sinistra era considerata permanente e noi provvisori. Ora è il contrario. Si è compiuta una rivoluzione culturale copernicana».

Se nel '94 Berlusconi cadde anche per mano di uno sciopero generale sulle pensioni, «se allora — come racconta il vicepresidente di Forza Italia — eravamo fuori da tutto, oggi anche l'establishment internazionale ha un approccio completamente diverso verso di noi». Il Cavaliere vuole sfruttare il «cambio di clima ». La fine delle ostilità nei suoi confronti sembra per esempio preludere a un proficuo rapporto con «la nuova Confindustria», come la definisce Tremonti: «Sono certo che lavoreremo bene, perché non sarà un partito politico». La svolta berlusconiana è la logica conseguenza della svolta dettata una settimana fa dalle urne. È un sentimento che attraversa tutto il centrodestra. È in sintonia con «l'appello» che Confalonieri aveva lanciato dopo la vittoria elettorale del Pdl, l'idea cioè che oggi al Paese servano «riforme senza scontri». E non può essere solo una coincidenza che il presidente di Mediaset abbia inserito nel pacchetto anche la riforma dei contratti, dicendo che «i sindacati, è vero, sono diventati asfissianti, ma non si potrà agire contro di loro». Il motivo è evidente, lo sottolinea il leghista Calderoli, che per primo ha criticato l'offensiva di Montezemolo: «A parte il fatto che anche Confindustria, oltre i sindacati, dovrebbe recitare il mea culpa, non vedo perché in questa fase si debbano radicalizzare i toni. Di questo passo il prossimo governo si troverebbe a gestire una situazione molto esasperata e magari un'ondata di scioperi... Eh no». L'obiettivo del centrodestra è un altro: marcare le responsabilità delle parti sociali — come ha fatto ieri Maroni ricordando «l'ostilità dei sindacati verso la legge Biagi» — e proporre al contempo «un nuovo tavolo di trattative sulle riforme». Il muro contro muro per Berlusconi non avrebbe senso, non pagherebbe: c'è il consenso dell'opinione pubblica, c'è una netta maggioranza in Parlamento, dunque «si può fare», o almeno si può tentare di cambiare il Paese senza mettersi in conflitto con il Paese. Piuttosto verrà messo alla prova il sindacato.

Nel Pdl si interrogano sull'atteggiamento che terrà Epifani: è vero che difficilmente potrà stare sulle barricate a lungo, perché — ad avviso degli analisti berlusconiani — «farebbe la fine della sinistra radicale». Tuttavia, proprio l'assenza della Sinistra Arcobaleno in Parlamento potrebbe creare gravi problemi al segretario della Cgil. Nel frattempo i rapporti del Pdl con la Cisl si fanno sempre più stretti. Un mese fa, alla commemorazione di Marco Biagi, l'ex sottosegretario forzista Sacconi incontrò Bonanni, e giocando sul nome del paese di origine del sindacalista, lo salutò così: «Dopo che vinceremo le elezioni torneremo a... Bomba». Il Berlusconi del 2008 vuol essere diverso da quello del 2001. Dovrà esserlo, perché — come rammenta spesso Fini — «Facemmo un grave errore quando sottoscrivemmo il Patto per l'Italia con i sindacati e poi non lo onorammo». Era il 2002. Nel 2006 vinse l'Unione.

Francesco Verderami
20 aprile 2008

da corriere.it


Titolo: Luca, Emma e il cavaliere «concertativo»
Inserito da: Admin - Maggio 03, 2008, 10:52:41 am
Settegiorni

Luca, Emma e il cavaliere «concertativo»

Bonanni ai suoi: vuole l'accordo con le parti sociali. Tutte, anche la Cgil


Il Berlusconi rivoluzionario, che in passato voleva abrogare la concertazione, ha lasciato il posto al Berlusconi concertativo che a suo modo annuncia una rivoluzione. Perché davvero sembra che stia cambiando tutto e non solo nella forma. Il gesto del Cavaliere verso Luca di Montezemolo, l'accoglienza alla nuova Confindustria, i ripetuti colloqui riservati con i leader sindacali, testimoniano — per usare le parole del segretario della Cisl, Raffaele Bonanni — che «Berlusconi vuol fare le larghe intese... con le parti sociali ». Il ruolo di «ambasciatore del made in Italy nel mondo» che dovrebbe svolgere l'ex presidente degli industriali, non è solo «il segno di una linea aperta e modernizzatrice » del futuro premier, come dice il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto.

C'è anche un approccio discreto ai problemi e alle persone. Garantisce infatti a Montezemolo di tenersi a distanza dalle vicende strettamente politiche, gli permette di portare avanti il progetto di un think tank alla cui nascita collaborano da tempo politologi e professori universitari, e intanto gli consente di indossare — senza schierarsi — le vesti di «civil servant», cosa alla quale tiene ancor di più dopo aver letto sul Financial Times del «modello Ferrari per l'Italia». Il Berlusconi del '94, e anche quello del 2001, diceva «dentro o fuori», come a voler celare la propria vulnerabilità. Il Berlusconi del 2008 — sebbene abbia rovesciato i rapporti di forza — accoglie Emma Marcegaglia dicendole «collaboreremo, perché il Paese ha bisogno di un clima diverso e di una stagione nuova».

E qualche sera dopo riceve in gran segreto Bonanni e Luigi Angeletti chiedendo loro aiuto: «Aiutatemi, così ci aiuteremo. Sono preoccupato per la nostra economia, dobbiamo rilanciarla. In questo modo aiuteremo i lavoratori ». Il Cavaliere rivoluzionario del passato avrebbe scelto il ministro del Welfare come fa chi è pronto a entrare in guerra. Il Cavaliere concertativo di oggi si mostra invece disponibile ad ascoltare i suggerimenti di sindacati e Confindustria, favorevoli alla scelta di Maurizio Sacconi per il dicastero del Lavoro, scorporato se del caso da quello per la Salute, dove An vorrebbe un suo rappresentante. Forse ha ragione il segretario della Uil, quando — ricercando le ragioni della svolta — sostiene che «rispetto al '94 e al 2001, sindacati e poteri forti avevano messo nel conto la vittoria di Berlusconi. In più avevano iniziato a conoscerlo. Ora peraltro non ci sono questioni su cui si possa aprire uno scontro duro, com'è accaduto per la riforma della pensioni. Eppoi c'è un approccio maturo ai problemi da parte del leader di centrodestra. Per questo non ci sarà una stagione di conflitto».

Sembra incredibile questa triangolazione che prende corpo, e che coinvolge Confindustria e una parte del sindacato in un gioco di sponda con il Cavaliere. Ma ce n'è la prova. Alla vigilia del colloquio tra la Marcegaglia e il futuro premier, Bonanni andò a trovare la neo presidente degli industriali. Entrambi convennero su un punto: bisognava spingere perché il governo - appena entrato in carica - adottasse subito misure a favore della produttività. «Così si partirebbe con il piede giusto». Il giorno dopo la Marcegaglia chiese a Berlusconi di presentarsi all'Assemblea di Confindustria del 22 maggio con «un regalo»: il provvedimento già approvato sulla detassazione degli straordinari e sugli aumenti contrattuali di secondo livello.

Il Cavaliere ci proverà, conta su Giulio Tremonti per far bella figura. L'ha ripetuto davanti al suo futuro ministro dell'Economia e a Gianni Letta l'altra sera, discutendone con Bonanni e Angeletti. «E quando Berlusconi sostiene che sul tema bisogna agire — ha commentato il leader della Cisl con i suoi — significa che vuol far l'accordo con gli industriali e tutte le organizzazioni del lavoro. Cgil compresa». «Aiutatemi, così ci aiuteremo», ha detto il premier in pectore. Quella frase valeva anche per la vertenza Alitalia. I sindacati si sono mostrati disponibili, aspettano di sapere se Berlusconi riuscirà a trovare il partner internazionale per «Az», poi collaboreranno con lui, e lo consiglieranno, quando si dovrà discutere di esuberi. Concertazione, sinonimo di rivoluzione.

Francesco Verderami
03 maggio 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI. Il luglio caldo di Silvio Berlusconi si avvicina,...
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2008, 05:55:21 pm
Retroscena

La tenaglia di luglio tra Napoli e Milano

«Una manovra giudiziaria per marchiarmi e togliermi la possibilità di arrivare al Colle»


Il luglio caldo di Silvio Berlusconi si avvicina, è segnato da scadenze istituzionali e giudiziarie che potrebbero cambiare la storia della politica. E non c'è dubbio che il 10 luglio sarà la giornata più torrida del mese, perché in quella data la corte d'Appello di Milano dovrà decidere se accogliere o meno l'istanza di ricusazione presentata dai legali del premier contro il giudice Nicoletta Gandus al processo Mills. Ma il Cavaliere in quegli stessi giorni dovrà difendersi anche su un altro fronte, dato che a Napoli rischia il rinvio a giudizio per il caso Rai-Saccà. «Da Napoli potrebbe arrivargli un brutto regalo», sussurra amareggiato Amedeo Laboccetta, deputato del Pdl che conosce persone e storie del palazzo di giustizia partenopeo.

Napoli e Milano. Come una tenaglia. Ecco il motivo per cui il premier ha scatenato l'offensiva contro le toghe «sovversive» e non accetta «transazioni», ecco perchè ieri Niccolò Ghedini era alla Camera da deputato per votare la fiducia al governo di Berlusconi, ma da legale di Berlusconi portava sottobraccio un codice di procedura penale pieno di annotazioni. «Devo portarmi il lavoro appresso», ha spiegato. «Tra il primo e il 18 luglio avrò otto udienze tra Milano e Napoli. Il presidente mi ha chiesto: "Che faccio, ti seguo? Ogni volta però dovrei impegnare un'intera giornata per prepararmi. Bloccherei l'attività di governo". Non ne può più. Continua a ripetere: "Devo andare a Napoli per l'emergenza rifiuti o per difendermi?". Noi cerchiamo di calmarlo, ma come si fa...».

Il luglio caldo del Cavaliere si avvicina, e Berlusconi ha capito che doveva giocare d'anticipo per pararsi il fianco. Perciò si è mosso con gli emendamenti bloccaprocessi al decreto sulla sicurezza, perciò ha impresso un'accelerazione allo «scudo» per le cariche istituzionali, «che non è mai stato un decreto — precisa il ministro per i Rapporti con il Parlamento — ma un disegno di legge». Ciò non toglie che il premier voglia accelerarne l'iter in Parlamento, «chiederemo che venga calendarizzato già a luglio », annuncia infatti Elio Vito. In tanto sarà diventato legge il provvedimento sulle intercettazioni. E c'è un motivo se anche su questo tema c'è stata una corsa contro il tempo. Lo lascia intuire Laboccetta quando s'indigna riferendosi al caso Rai-Saccà, quando ricorda che «l'attività di un premier non può dipendere da qualche intercettazione, magari pruriginosa, ma senza alcuna rilevanza penale. È una vergogna, è necessario reagire».

Ghedini è il depositario dei segreti del Cavaliere, «quella storia delle intercettazioni è una strana storia», commenta. Strana e insidiosa per Berlusconi, specie dopo che un magistrato napoletano ha denunciato il furto di alcune trascrizioni. «Una denuncia — precisa Ghedini — che è avvenuta dopo un nostro esposto. E il furto sarebbe avvenuto a casa del magistrato. Cosa ci fanno delle intercettazioni a casa di un magistrato?». L'interrogativo del deputato-avvocato rimanda ad altri interrogativi: di che conversazioni si tratta? E c'è qualcuno che ora ne è in possesso? Umberto Bossi avrà le sue ragioni se invita Berlusconi a «tenere un profilo più basso», «ma è comprensibile il motivo per cui il presidente morde il freno», ribatte Ghedini.

La posta in palio nel luglio caldo del Cavaliere non incrocia solo i destini della legislatura. Va oltre. Perché è evidente che il premier verrebbe azzoppato da un'eventuale richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Napoli, e sarebbe costretto a dimettersi se fosse colpito da una sentenza di condanna nel processo Mills. Ma c'è di più. E Berlusconi l'ha capito: «Con questa manovra giudiziaria mi vogliono marchiare, vogliono impedirmi in futuro di aspirare al Quirinale». Dinanzi a una sfida di tale portata che non contempla il pari, ogni altra scadenza a palazzo Chigi viene derubricata. Compresa la sentenza che proprio all'inizio di luglio giungerà dalla Consulta sul «caso Petroni», il consigliere Rai dimissionato dal ministro dell'Unione Tommaso Padoa-Schioppa, che venne poi reintegrato nel Cda di viale Mazzini. Per un paradosso politico, se la Corte costituzionale dovesse dar ragione al centrodestra che a suo tempo impugnò il provvedimento, s'incepperebbe il meccanismo del rinnovo ai vertici dell'emittente di Stato. Salterebbe così un tassello importante nel mosaico del potere. In più ci sarebbe il rischio di una messa in mora della legge Gasparri, tanto cara al Cavaliere. Pensando allo scontro istituzionale in atto sulla giustizia, il sottosegretario Alfredo Mantovano si è lasciato sfuggire un sorriso sui problemi Rai: «Tanto in estate trasmettono solo repliche...».


Francesco Verderami
26 giugno 2008



Titolo: «Silvio bulletto al telefono. Ma mai parlato di ministre»
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2008, 05:00:36 pm
Sette giorni

«Silvio bulletto al telefono. Ma mai parlato di ministre»

«Nessuno può fargli la morale. Indecenti certe inchieste»

Confalonieri: «Non farebbe cose che non può raccontare»


Fedele Confalonieri che se si può trarre una morale da questa vicenda boccaccesca in cui è rimasto coinvolto Silvio Berlusconi, è che «nessuno può fargli la morale». Dice Confalonieri che «in questa storia nessuno può scagliare una pietra contro Berlusconi. Infatti le pietre restano ammucchiate lì per terra ». Nessuno meglio del presidente di Mediaset può spiegare il premier, descriverne l'indole, il modo di vivere, e anche il resto. E raccontando la storia del Cavaliere, arriva a identificarsi con l'amico che licenziò dall'orchestrina perché passava troppo tempo a corteggiare le signorine in sala invece di suonare. «Silvio, nonostante il peso degli anni e degli incarichi, si è portato appresso quell'aspetto goliardico e giovanilista, quell'aria da bulletto di paese che non riesce a tenersi, a restare riservato. Credo che se dovesse fare una cosa per poi non dirla, si risparmierebbe la fatica. Non la farebbe. È così, si attarda nei particolari, e non fa distinzioni se discute di questioni aziendali, politiche o private». Ma il privato di un presidente del Consiglio diventa cosa pubblica, specie se le sue conversazioni piccanti finiscono nei brogliacci delle Procure.

INCHIESTE PIÙ INDECENTI DELLE BATTUTE - «A parte il fatto che certe inchieste sono a mio avviso più indecenti di certe battute, pensare che Berlusconi dovesse chiedere favori per ottenere altri tipi di favori è un insulto alla sua intelligenza. Può capitare al telefono di parlare in modo pruriginoso. Come tutti, anch'io sono a volte un po' sboccatello. In privato succede. Ed è successo con Silvio, figurarsi. Quando parla con me, magari per rilassarsi, non si risparmia. Però questa storia di una conversazione in cui lui mi avrebbe raccontato di una neoministra... Non è vera». Proprio su «questa storia» si è concentrata l'attenzione dei media e della politica, perché non c'è dubbio che avrebbe rilevanza politica se fosse vera, se il premier fosse stato mosso da particolari virtù di una signorina per promuoverla ad incarichi ministeriali. «Non è vero», ripete Confalonieri: «Me ne ricorderei», sorride. Com'è diverso il tono Fedele Confalonieri della sua voce da quello che aveva Berlusconi giorni fa, mentre parlava con l'amico delle «vergognose insinuazioni » che iniziavano a circolare: «Vado orgoglioso dei giovani che ho portato al governo. Dovresti vederli in Consiglio dei ministri, Fedele. Mara Carfagna, per esempio, arriva sempre preparata. Discute in modo appropriato. È brava. Ma c'è chi non aspetta che gettar fango. La verità è che a sinistra vivono di invidia e si nutrono di sospetti». «Dammi retta, non te la prendere». È difficile rimaner calmi, specie quando certe storie mettono a rischio la serenità familiare.

VERONICA - Ormai tra i politici circola voce che il Cavaliere tema più Veronica Lario di Nicoletta Gandus, giudice del processo Mills. Berlusconi ha cercato di smentire anche questa: «Veronica si è calata nei panni della nonna, è sempre amorevole e presente. Di me si disinteressa». Confalonieri, da amico vero, sa essere discreto e premuroso con il premier. Raccontano che giovedì si fosse preoccupato, non vedendolo: «Silvio, ti cerco da quattro ore. Dov'eri finito?». «Stavo al telefono con mia moglie... Che casino ». «Lei dov'è, all'estero? ». «Ma quale estero, è a Macherio». Benedetto G8. Benedetto visita in Giappone. E benedetto «Fidel», per il premier, perché il capo del Biscione tenta di dare ad ogni cosa una «giusta dimensione », sdrammatizzando se necessario. Così, dopo aver paragonato il Cavaliere a figure storiche come Lenin e Mao, stavolta lo accosta a un genio della musica, o almeno questo sembra voler fare quando ricorda che «Mozart pizzicava il sedere alle cameriere». C'è una pausa tra la battuta e il resto del discorso, serve a cambiar registro di voce, ad assumerne uno più adatto all'argomento: «Non siamo quelli di vizi privati e pubbliche virtù, però credo che un po' di sana ipocrisia sia il lubrificante della convivenza. Sostenendo sempre la verità non è possibile campare». A volte Confalonieri ha scelto di «campare» anche con l'amico Silvio. Infatti ha evitato di dirgli che non era d'accordo sul modo in cui voleva affrontare il nodo delle intercettazioni, perché a suo avviso «non era giusto varare un decreto» né «prendersela con i giornalisti».

MATRIX - Invece avrebbe preferito che il premier fosse andato a Matrix, «glielo avevo consigliato, e non per trasformarsi in uno spaccamontagne ma per raccontare con toni pacati cos'ha fatto da quando è tornato al governo e cosa gli hanno fatto da quando è tornato al governo. Avrebbe potuto separare la verità dalle infamie, e non sarebbe stato un atto di guerra, un attacco alle istituzioni. Più semplicemente il presidente del Consiglio avrebbe parlato con il Paese che l'ha scelto. Ma è prevalsa un'altra idea». È prevalsa l'idea di Gianni Letta, «e siccome penso che ognuno debba fare il suo mestiere, mi attengo a questa vecchia regola. Solo mi dispiace che sia passata l'immagine di un Berlusconi messo sotto tutela, di un leader che va controllato perché incapace di andare in tv e di gestirsi, come fosse uno che è sempre sul punto di incespicare, un politico qualunque. Berlusconi è un grande comunicatore». Francesco Verderami

Francesco Verderami
05 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Cossiga e le «nozze necessarie» tra Berlusconi e D'Alema
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2008, 06:12:24 pm
Progetti e segreti

Cossiga e le «nozze necessarie» tra Berlusconi e D'Alema

Il ruolo del presidente emerito per un nuovo incontro tra i due leader


ROMA — Se Francesco Cossiga si propone da sensale è perché davvero pensa che stavolta si possa combinare il matrimonio tra Silvio Berlusconi e Massimo D'Alema, connubio di cui si parla da più di un decennio con cadenza regolare. Perciò ha discusso con i «promessi sposi», e racconta di non averli trovati riluttanti. «Al Cavaliere ho detto che aveva sbagliato interlocutore. Si era fidato di Gianni Letta, che gli aveva apparecchiato l'intesa con Walter Veltroni, mentre dovrebbe tornare con D'Alema, lui sì che ha statura. Eppoi hanno molte cose in comune. Massimo, per esempio, è l'unico anti-giustizialista del Pd. Quando alla Camera ha riconosciuto l'esistenza del nodo politica-magistratura, si è tirato dietro persino Edmondo Bruti Liberati. E il fatto ha destato scalpore». Cossiga non dice se sia riuscito a convincere Berlusconi, «ma ci sono buone speranze. Perché durante la nostra conversazione il premier mi ha confidato che D'Alema resta a suo avviso "il migliore". Proprio così, "un vero uomo politico, uno che se prende un impegno lo mantiene sempre"». E non c'è dubbio che i due abbiano «la stessa sensibilità», almeno così sostiene l'ex presidente della Repubblica: «Sulle questioni giudiziarie, tanto per dire, solo Massimo può capire Berlusconi, perché con certi pm ha rischiato e rischia ancora di rimanere vittima di una macchinazione per il caso Unipol-Bnl. Solo D'Alema può capire cosa patisce uno come Silvio, che appena tornato a palazzo Chigi ha visto ripartire la caccia all'uomo. Ha tentato di difendersi ma lo hanno già colpito nell'immagine, tanto da esser stato sputtanato dal dossier-stampa presentato dagli americani al G8». «A Massimo ho consigliato la stessa cosa, l'ho invitato a tornare a parlare con Berlusconi. Se si fossero sentiti in questi giorni, la partita sulla giustizia l'avrebbero giocata insieme e diversamente. Sarebbe bastato un colpo di telefono. Se l'avesse fatto, se il Cavaliere avesse chiamato D'Alema, avrebbe evitato la fesseria di introdurre lo scudo per le alte cariche dello Stato. Oh, fosse venuto il morbillo a Niccolò Ghedini... A parte il fatto che i pm proveranno a friggerselo lo stesso, vorrò vedere se la Consulta non affosserà il "lodo Alfano". Perché, come all'Anm, è alla Corte Costituzionale che si annidano i peggiori nemici del Cavaliere. Dicono che Giorgio Napolitano abbia dato la parola, e che non accadrà nulla. Bene, verificheremo fino a che punto il capo dello Stato sarà in grado di far valere la sua moral suasion sui giudici antiberlusconiani». Resta da capire cosa sarebbe successo se il premier avesse alzato il telefono e parlato con D'Alema. «Massimo — prosegue Cossiga — gli avrebbe consigliato di non perder tempo e di ripristinare l'immunità parlamentare. Perché, come scriveva lo storico François Guizot, in politica l'abuso dell'immunità è meno lesivo del governo dei giudici. E non aveva visto il governo dei pm...». Sì, ma Guizot non vota in Parlamento. «D'Alema sì, e avrebbe votato a favore, lo so per certo. Lui avrebbe avuto il coraggio di farlo. Veltroni no, visto che si è legato ad Antonio Di Pietro. E uno che si è legato a Di Pietro, mi domando e domando a Berlusconi, che garanzie può dare?». D'Alema invece, «D'Alema sì. È uno serio. È con lui che il Cavaliere deve parlare». Insomma, si parlano o non si parlano? Sostiene Cossiga che «per ora non si parlano direttamente»: «Siccome Massimo è uno serio, mica si siede a discutere senza sapere su cosa si tratta». In che senso? «Beh, in tutti i sensi. Anche sulle grandi riforme, ovviamente. Lui ogni volta che ci vediamo mi racconta della Bicamerale, sospira che se non fosse fallita avremmo ora una repubblica semi-presidenziale e la separazione delle carriere per i magistrati. Vecchia storia quella, e dolorosa per D'Alema, secondo il quale sarebbe stato Berlusconi a mandare tutto all'aria. Ma questa è la versione ufficiale. L'altra, quella vera, è che fu l'allora capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro a far saltare l'operazione. Però oggi le cose sono cambiate, dunque ci sarebbe la possibilità di arrivare al matrimonio». Piccolo particolare: in mezzo ci sarebbe Veltroni, «ecco... non so se D'Alema se lo sia già cucinato. Questo proprio non lo so. Appena ne faccio cenno, Massimo mi risponde "ma no, presidente, Walter è un bravo ragazzo..."». Vuol dire che se lo sta cucinando a fuoco lento? «Autorizzo a scrivere che Cossiga, posto dinanzi alla domanda, sorride storto, tipico di quando non vuole dissentire né apertamente assentire». E prosegue: «Il fatto è che D'Alema ha una visione politica opposta. Lui vuol portare il Pd nel Pse. Vuol tornare alla prima Repubblica, cioè ai partiti strutturati. Rivuole la proporzionale con il recupero dei resti. Vuole riformare la Costituzione che a mio avviso — e lo dico sottovoce — è la peggiore di tutte le costituzioni. E mentre Walter gioca nel loft, D'Alema gioca a tutto campo, inciucia con Bossi, aspetta la telefonata di Berlusconi. E aspetta di tornare a vincere, sapendo di contare sui buoni rapporti con gli Stati Uniti, dove ha lasciato un buon ricordo». Con Condoleezza Rice? «Macché, quand'era premier e marciò su Belgrado a fianco di Bill Clinton. Quelle sono cose che a Washington non dimenticano».

Francesco Verderami
13 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Alla Lega serve l'appoggio del Pd: «Sulla devolution...
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2008, 11:05:20 am
D'Alema sarebbe pronto a avviare un confronto anche sulla giustizia

Massimo-Senatùr, è gioco di sponda

Ma l'obiettivo è premere su Silvio

Alla Lega serve l'appoggio del Pd: «Sulla devolution sbagliammo, non lo rifaremo»



Due mesi fa, quando Berlusconi dialogava con Veltroni, Bossi inneggiava all'autodeterminazione della maggioranza. Due mesi fa, quando Veltroni veniva ricevuto dal premier, D'Alema era scettico sull'eventualità di un accordo. È stato allora che il Senatùr e l'ex ministro degli Esteri hanno ripreso i contatti: il primo per non finire stritolato da un'eventuale intesa tra Berlusconi e Veltroni, il secondo per non restarne escluso. «È stato allora — secondo Cossiga — che D'Alema ha scelto Bossi, perché era l'interlocutore più diretto e immediato». Chissà se ha ragione il democratico Follini, secondo cui «pretendere di parlare con il capo della Lega invece che con il capo di tutto il centrodestra, è ingenuo in linea di fatto e disinvolto in linea di principio». È certo che il patto stretto ieri tra il Cavaliere e il Senatùr per far marciare in Parlamento sia il federalismo fiscale sia la riforma della giustizia, fa capire quanto sia difficile anche solo scalfire l'asse tra i due, nonostante le tensioni.

D'Alema però non avrebbe intenzione di riprodurre lo schema «ribaltonista» del '94, così sostiene il suo braccio destro Latorre: «Nel centrodestra sono evidenti le contraddizioni, che in autunno saranno acuite dalla crisi economica. Tuttavia — precisa il vice capogruppo del Pd al Senato — è velleitario pensare che questo preluda a una crisi di governo. Piuttosto la situazione spingerà inevitabilmente le grandi forze politiche a un confronto sui temi cruciali delle riforme, e le costringerà a ricercare una soluzione alla crisi di sistema». Traduzione: D'Alema sta forzando su Bossi per convincere Berlusconi a dialogare. E così, due mesi dopo i ruoli si sono rovesciati. Ed è chiaro che al momento si tratta di un gioco tattico, gioco nel quale il Senatùr e l'esponente del Pd sono abilissimi. Addirittura Bossi ne ha insegnato le regole ai più giovani dirigenti del partito, raccontando come si comportò dopo lo strappo con il Cavaliere nel '95: «Mentre facevo tappezzare il Nord di manifesti contro Berlusconi, restavo in contatto con Tremonti e Urbani». Quanto a D'Alema ha detto loro di «stimarlo, come stimavo Craxi. Quello sì che aveva una statura diversa...». Dietro la tattica si cela anche la strategia. Al Carroccio serve la sponda del Pd, i rapporti tra Maroni e il ministro ombra Minniti sono ottimi, così come quelli tra Calderoli e il sindaco di Torino, Chiamparino. Alla Lega serve l'intesa, «ci serve — spiega il leghista Reguzzoni — perché abbiamo visto che fine ha fatto la devolution, e con il federalismo fiscale non possiamo sbagliare. Dobbiamo dar seguito alle promesse, o il Nord che oggi è con noi potrebbe voltarci le spalle. Faremmo la fine di Bertinotti».

Così come Bossi anche D'Alema ha interesse a tener saldo il rapporto, «e Massimo è sincero quando si dice disponibile a trovare una soluzione sul federalismo fiscale e sul resto delle regole», assicura Ventura, altro dalemiano di ferro: «Ma ora Berlusconi vuole imporre la contestualità della riforma della giustizia...». Non è stata casuale la scelta di tempo del Cavaliere, consapevole della rete che si stava costruendo, delle triangolazioni tra Lega e Pd con al vertice Tremonti, con il quale D'Alema aveva intanto provveduto a ricostruire i rapporti. Ora i rapporti sono tornati ottimi, se è vero che ieri mattina alla Camera — durante il suo discorso sulla manovra — il ministro dell'Economia ha definito D'Alema (insieme a Fini) «uno statista». Introducendo il tema della giustizia, il premier ha fatto capire che resta lui il dominus del gioco, e la mossa era stata messa nel conto dal dirigente democratico che l'aveva pronosticata proprio con i leghisti: «Vedrete che non finirà con il "lodo Alfano". Questa storia andrà avanti e creerà problemi a noi e a voi». In realtà anche su questo tema D'Alema sarebbe pronto a dialogare, perché a suo modo di vedere il nodo del rapporto politica-giustizia va sciolto, «ma bisognerebbe uscire dall'emotività e dalle contingenze». E se la presidenza del «comitato» per la riforma della magistratura che Berlusconi ha affidato a Cossiga, fosse un segnale del Cavaliere a D'Alema? «Non sono così bravo a fare il mediatore», sorride l'ex capo dello Stato: «Ma siccome sono amico dei due...». Una cosa è certa, è inutile ipotizzare che la coppia «B-B» vada in crisi. Per capirlo, basta un aneddoto del passato governo Berlusconi, narrato dal repubblicano Nucara. «Durante un vertice arroventato, mi voltai verso il premier: "Hai sentito cosa dicono i leghisti?" E lui: "Non ti preoccupare, tanto stasera sento Bossi. Piuttosto, hai sentito cos'ha detto Follini?"».

Francesco Verderami
18 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Massimo-Senatùr, è gioco di sponda
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2008, 09:32:07 am
D'Alema sarebbe pronto a avviare un confronto anche sulla giustizia

Massimo-Senatùr, è gioco di sponda

Ma l'obiettivo è premere su Silvio

Alla Lega serve l'appoggio del Pd: «Sulla devolution sbagliammo, non lo rifaremo»


Due mesi fa, quando Berlusconi dialogava con Veltroni, Bossi inneggiava all'autodeterminazione della maggioranza. Due mesi fa, quando Veltroni veniva ricevuto dal premier, D'Alema era scettico sull'eventualità di un accordo. È stato allora che il Senatùr e l'ex ministro degli Esteri hanno ripreso i contatti: il primo per non finire stritolato da un'eventuale intesa tra Berlusconi e Veltroni, il secondo per non restarne escluso. «È stato allora — secondo Cossiga — che D'Alema ha scelto Bossi, perché era l'interlocutore più diretto e immediato». Chissà se ha ragione il democratico Follini, secondo cui «pretendere di parlare con il capo della Lega invece che con il capo di tutto il centrodestra, è ingenuo in linea di fatto e disinvolto in linea di principio». È certo che il patto stretto ieri tra il Cavaliere e il Senatùr per far marciare in Parlamento sia il federalismo fiscale sia la riforma della giustizia, fa capire quanto sia difficile anche solo scalfire l'asse tra i due, nonostante le tensioni.

D'Alema però non avrebbe intenzione di riprodurre lo schema «ribaltonista» del '94, così sostiene il suo braccio destro Latorre: «Nel centrodestra sono evidenti le contraddizioni, che in autunno saranno acuite dalla crisi economica. Tuttavia — precisa il vice capogruppo del Pd al Senato — è velleitario pensare che questo preluda a una crisi di governo. Piuttosto la situazione spingerà inevitabilmente le grandi forze politiche a un confronto sui temi cruciali delle riforme, e le costringerà a ricercare una soluzione alla crisi di sistema». Traduzione: D'Alema sta forzando su Bossi per convincere Berlusconi a dialogare. E così, due mesi dopo i ruoli si sono rovesciati. Ed è chiaro che al momento si tratta di un gioco tattico, gioco nel quale il Senatùr e l'esponente del Pd sono abilissimi. Addirittura Bossi ne ha insegnato le regole ai più giovani dirigenti del partito, raccontando come si comportò dopo lo strappo con il Cavaliere nel '95: «Mentre facevo tappezzare il Nord di manifesti contro Berlusconi, restavo in contatto con Tremonti e Urbani». Quanto a D'Alema ha detto loro di «stimarlo, come stimavo Craxi. Quello sì che aveva una statura diversa...». Dietro la tattica si cela anche la strategia. Al Carroccio serve la sponda del Pd, i rapporti tra Maroni e il ministro ombra Minniti sono ottimi, così come quelli tra Calderoli e il sindaco di Torino, Chiamparino. Alla Lega serve l'intesa, «ci serve — spiega il leghista Reguzzoni — perché abbiamo visto che fine ha fatto la devolution, e con il federalismo fiscale non possiamo sbagliare. Dobbiamo dar seguito alle promesse, o il Nord che oggi è con noi potrebbe voltarci le spalle. Faremmo la fine di Bertinotti».

Così come Bossi anche D'Alema ha interesse a tener saldo il rapporto, «e Massimo è sincero quando si dice disponibile a trovare una soluzione sul federalismo fiscale e sul resto delle regole», assicura Ventura, altro dalemiano di ferro: «Ma ora Berlusconi vuole imporre la contestualità della riforma della giustizia...». Non è stata casuale la scelta di tempo del Cavaliere, consapevole della rete che si stava costruendo, delle triangolazioni tra Lega e Pd con al vertice Tremonti, con il quale D'Alema aveva intanto provveduto a ricostruire i rapporti. Ora i rapporti sono tornati ottimi, se è vero che ieri mattina alla Camera — durante il suo discorso sulla manovra — il ministro dell'Economia ha definito D'Alema (insieme a Fini) «uno statista». Introducendo il tema della giustizia, il premier ha fatto capire che resta lui il dominus del gioco, e la mossa era stata messa nel conto dal dirigente democratico che l'aveva pronosticata proprio con i leghisti: «Vedrete che non finirà con il "lodo Alfano". Questa storia andrà avanti e creerà problemi a noi e a voi». In realtà anche su questo tema D'Alema sarebbe pronto a dialogare, perché a suo modo di vedere il nodo del rapporto politica-giustizia va sciolto, «ma bisognerebbe uscire dall'emotività e dalle contingenze». E se la presidenza del «comitato» per la riforma della magistratura che Berlusconi ha affidato a Cossiga, fosse un segnale del Cavaliere a D'Alema? «Non sono così bravo a fare il mediatore», sorride l'ex capo dello Stato: «Ma siccome sono amico dei due...». Una cosa è certa, è inutile ipotizzare che la coppia «B-B» vada in crisi. Per capirlo, basta un aneddoto del passato governo Berlusconi, narrato dal repubblicano Nucara. «Durante un vertice arroventato, mi voltai verso il premier: "Hai sentito cosa dicono i leghisti?" E lui: "Non ti preoccupare, tanto stasera sento Bossi. Piuttosto, hai sentito cos'ha detto Follini?"».

Francesco Verderami
18 luglio 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - E Letta senza più spazi si smarca anche in pubblico
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2008, 12:29:36 pm
Sette giorni La «nuova vita» del sottosegretario

Silvio: stiamo vicini a Giulio.

E Letta senza più spazi si smarca anche in pubblico


Il cuore dice Gianni Letta, la mente dice Giulio Tremonti, perché è da lì che passano questioni e rapporti a cui Silvio Berlusconi tiene molto. Compreso l’asse politico con la Lega. Così ieri in Consiglio dei ministri il premier ha preferito la ragione al sentimento, elogiando il titolare dell’Economia.
Il Cavaliere doveva scegliere. E ha scelto. Non ha aperto la riunione di governo esortando i ministri alla «correttezza nel confronto con le altre istituzioni», come gli aveva chiesto il giorno prima Letta, durante il burrascoso vertice con le Regioni. Berlusconi ha invece reso gli onori a Tremonti, «con il quale ho chiacchierato a lungo l'altra sera». Gli effetti di quel colloquio si sono manifestati nell'appello all'esecutivo: «Dobbiamo stare vicini a Giulio, condividere la sua linea di rigore e tenere in ordine i conti pubblici. Perché ha ragione quando dice che in autunno la crisi potrebbe complicarsi. È inutile quindi andare a chiedergli soldi. Non è che non vuole darne, è che non ce ne sono».

È vero che appena Tremonti ha lasciato la riunione, il premier ha confortato i dolenti in processione. Ha riconosciuto per esempio che «sì, Sandro ha ragione», quando il titolare dei Beni culturali Bondi gli ha chiesto «almeno di farci decidere le riduzioni di bilancio che ci riguardano». E ha promesso a Mariastella Gelmini «una soluzione positiva», quando la responsabile dell'Istruzione ha convenuto sulla «necessità di fare sacrifici, senza dimenticare però che la scuola non è una priorità ma è la priorità. E con i tagli previsti per il 2009, rischio di non poter aprire le scuole nelle zone di montagna». Senza Tremonti, insomma, in Berlusconi il sentimento è tornato a prevalere sulla ragione, anche perché la «soluzione» che ha garantito a tutti verrà girata a Letta, «il crocevia» come lo chiama il ministro per le Infrastrutture Altero Matteoli. Ma stavolta il sottosegretario non avrà i margini di un tempo.

Il modo in cui Tremonti ha varato la manovra e strutturato la Finanziaria toglie quegli spazi di manovra nei quali Letta si muoveva con abilità, tessendo rapporti e offrendo mediazioni alle parti sociali, alle associazioni di categoria e persino ai partiti di opposizione. Molte cose sono cambiate. Anche Letta. È una nuova vita quella del sottosegretario, che aveva fatto del riserbo la sua forza. Per dire, i contrasti con Tremonti nell'esecutivo precedente furono molto più aspri degli attuali, ma mai visibili, nemmeno agli altri ministri. Invece alcune settimane fa, proprio davanti ad alcuni esponenti di governo, ha volutamente graffiato il titolare dell'Economia con un tocco d'ironia: «Dopo quello che mi hai fatto, stavo per dimettermi». E giovedì, in presenza dei governatori regionali, ha intimato maggior rispetto verso di loro «da parte di chi vuole il federalismo fiscale».

Non c'è dubbio che Letta resta il civil servant invidiato dall'opposizione a Berlusconi: «È l'uomo che manca a Romano Prodi», disse di lui Francesco Rutelli. Ma non c'è dubbio che stia interpretando il ruolo diversamente. Non è chiaro se — come raccontano — il suo disappunto sia dovuto a impegni che non è poi riuscito a mantenere, è certo che quando si distingue lo fa rimarcando la sua educazione istituzionale: «Qualsiasi linea politica si intende scegliere, va sostenuta senza mai perdere di vista la correttezza e la disponibilità al confronto verso gli interlocutori. In Parlamento, con le Regioni, con i sindacati». Il Cavaliere sa di non poter fare a meno di Letta e di Tremonti. Al primo recentemente si è riferito con affetto in Consiglio dei ministri: «Scrivono che qui si litiga ma non è vero. Io litigo solo con Gianni». Del secondo ammira la creatività, «anche se quando ci parli sembra di sentire "io Tarzan tu Jane"».

La mente di Berlusconi dice «Giulio», il cuore dice «Gianni», a cui avrebbe affidato la vicepresidenza del Consiglio se la Lega non si fosse opposta. E «Gianni» nella sua nuova vita sembra davvero un altro. Ieri doveva esserci la prima riunione del comitato per l'Expo 2015, invece è stato tutto rinviato perché il decreto istitutivo dev'essere rifatto. Pare contenesse uno strafalcione per cui i rappresentanti del comitato avrebbero dovuto rispondere anche in solido. Il premier aveva già firmato il decreto quando è arrivata l'obiezione dell'Economia: «Sì, è arrivata ieri notte...», ha spiegato Letta con un moto di fastidio.

Francesco Verderami
02 agosto 2008



da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI. L'offensiva lumbard sul Pdl preoccupa il cavaliere...
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2008, 06:02:54 pm
Il retroscena L'offensiva lumbard sul Pdl preoccupa il Cavaliere

Sfida del Nord tra Silvio e Umberto

«La Lega non pensi di muoversi da sola»

Federalismo fiscale, il premier a Tremonti: «Approvarlo subito? Devo pensarci»

 
 
Dovrebbero vedersi stasera il Cavaliere e Bossi, in compagnia del solito Tremonti. Ma l'appuntamento ancora ieri pomeriggio non era stato confermato, perché il premier pare avesse fatto sapere di esser già impegnato. E tanto basta per capire il nervosismo che agita il centrodestra alla vigilia di un tornante decisivo nell'azione di governo. Sia chiaro, non è alle viste alcuno strappo tra il Pdl e la Lega.

Come vadano le cose nel centrodestra, l'ha spiegato il ministro Scajola a Bobo Craxi durante una chiacchierata questa estate: «Tra noi c'è chi si affatica inutilmente pensando al futuro. In realtà non ci sono alternative a Berlusconi. La storia poi che lui pensi al Quirinale non esiste: governerà più a lungo del re Sole». Se andrà così è da vedere. Quanto al presente, l'ultimo sondaggio che Ipsos ha inviato al Pd testimonia però che la «luna di miele» del Cavaliere con il Paese non è terminata, anzi. Gli italiani che «scommettono» sulla vittoria del centrodestra anche alle prossime elezioni sono saliti dal 48,4% di fine luglio al 59,8% di inizio settembre. Il giudizio positivo sull'operato del governo è passato dal 52,1% al 56,1%, con il Cavaliere che è schizzato dal 52,5% al 58,2%. E il Pdl non ha risentito per l'avanzata della Lega, progredendo nei consensi fino al 36,7%. I dati non hanno sorpreso i dirigenti del Pd: «Basti pensare - spiegava giorni fa il veltroniano Tonini - ai cavalli di battaglia di Berlusconi. I rifiuti in Campania e Alitalia sono due questioni che avremmo dovuto risolvere quando eravamo noi al governo». Ma paradossalmente, proprio il fatto di essere il dominus della politica con un'opposizione in crisi, scesa al 26,6% di giudizi positivi - si sta ritorcendo contro il premier, costretto a fronteggiare polemiche quotidiane: da quelle estemporanee ma pesanti provocate dalle parole del sindaco di Roma Alemanno e dal ministro La Russa sul fascismo e sulla Rsi, a quelle meditate e mirate del Carroccio.

In ballo c'è il federalismo fiscale, una partita all'ombra della quale si giocano gli equilibri della coalizione e i futuri assetti di potere. Il Cavaliere pensava di dettare i tempi, invece la Lega ha innescato il timer, aprendo più fronti polemici. Raccontano di un Berlusconi per metà infastidito e per metà preoccupato, non certo per la tenuta della coalizione quanto per l'immagine del governo e per i rapporti con il Carroccio. Le mosse leghiste hanno fatto saltare la sua strategia comunicativa. È dovuto intervenire per difendere il ministro dell'Istruzione Gelmini dall'ennesimo attacco di Bossi, e ha dovuto smentire la reintroduzione dell'Ici: «Solo l'idea che i cittadini possano pensare che noi gli metteremo le mani in tasca mi fa inorridire». Non vuole alzare il livello dello scontro ma non può far finta di nulla, «spero solo - ha detto ieri - che finita l'estate siano finite anche certe esternazioni». Il punto è che non è finita, anzi è appena iniziata la sfida per il primato al Nord. L'anno prossimo, politicamente cioè domani, le Amministrative saranno se possibile un test ancora più importante delle Europee, perché varranno come prova generale per le successive elezioni Regionali. Bossi era stato esplicito con Berlusconi ancor prima del varo del governo: allora chiedeva un governatore per il Carroccio tra Veneto e Lombardia; oggi mette l'ipoteca sul dicastero dell'Istruzione qualora la Gelmini venisse candidata al Pirellone. «Competition is competition», la regola vale anche nel centrodestra.

E nella competizione la Lega si è impadronita di tre temi politici di prima grandezza, così da usarli come moltiplica di consensi: sicurezza, immigrazione e, appunto, federalismo fiscale. Berlusconi avverte il rischio, sostiene che «la Lega è un alleato indispensabile ma non può pensare di muoversi in proprio »: «Il federalismo fiscale non è solo una loro bandiera, ma un obiettivo di tutto il centrodestra. E va fatto nell'interesse di tutto il Paese». Fino a che punto il Cavaliere scarichi le proprie tensioni su Tremonti, elemento di raccordo con il Carroccio, è questione per ora secondaria. E sull'invito del titolare dell'Economia a dare il via libera presto al federalismo fiscale per interrompere lo stillicidio, prende tempo: «Devo pensarci». Così questa settimana il Consiglio dei ministri potrebbe al massimo avviare un «esame preliminare » sul testo. Il Cavaliere vuol vederci chiaro sul merito e sul metodo del progetto, e soprattutto insiste per un accordo «preliminare e di ferro» sulle questioni che gli stanno a cuore: la legge elettorale per le Europee «con sbarramento alto e senza preferenze»; e la riforma della giustizia, che andrebbe approvata «insieme al federalismo fiscale».

E qui sorge il problema che è stato sottoposto all'attenzione di Berlusconi e che non è di facile soluzione. Quanto varrebbe l'accordo «di ferro» già a gennaio? Perché il federalismo fiscale è un disegno di legge delega collegato alla Finanziaria: una volta licenziato dal Parlamento, entro fine anno, spetterà al governo varare i decreti legislativi. Insomma, l'eventuale braccio di ferro sui contenuti della riforma si sposterebbe in Consiglio dei ministri. Da quel momento la Lega si troverebbe in una posizione di forza, e potrebbe giocare al rilancio con Berlusconi su due tavoli. Su quello parlamentare, per esempio, dato che è impensabile l'approvazione della riforma della giustizia entro fine anno. Ma soprattutto sul tavolo politico: dalle nomine ai candidati sindaci nel Nord, le richieste del Carroccio potrebbero diventare esose per il Cavaliere, e magari Bossi potrebbe minacciare corse solitarie in alcuni comuni. È difficile pensare che il Senatur possa mettere in pratica la teoria delle «mani libere», Berlusconi lo definisce sempre un «fedele alleato». Ma se vuol «vederci chiaro» è perché fidarsi è bene...

Francesco Verderami
09 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Letta, i fornitori e l'allarme da Londra
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2008, 04:03:22 pm
IL RETROSCENA ALITALIA

Letta, i fornitori e l'allarme da Londra

Il Cavaliere cerca di «recuperare» 500 piloti in esubero, dirottandoli in parte verso la compagnia Air Italy


Più della trattativa che nella notte si è sbloccata, a preoccupare ieri Berlusconi era la prospettiva di quanto potrebbe accadere dopo l'intesa su Alitalia con i sindacati: il timore di scioperi selvaggi, blocchi stradali, disordini di piazza. E le preoccupazioni per le tensioni sociali s'intrecciavano con la volontà del premier di evitare a tutti i costi il fallimento della compagnia aerea, accompagnata da una forte irritazione per come fosse stato gestito fin lì il negoziato. Per stringere il patto Berlusconi ha premuto sui sindacati, propensi a trovare un'intesa ma a loro volta preoccupati, «perché senza l'ok dei piloti non potremo governare la protesta». «L'accordo consentirebbe intanto di far partire l'operazione», era la tesi del Cavaliere, che teneva in serbo una soluzione innovativa per il contratto delle «aquile» e si era già impegnato a dirottarne altri 500 in esubero, in gran parte verso una piccola società: la Air Italy. Nel frattempo aveva ricevuto ulteriori garanzie di sostegno da Air France e Finmeccanica. Le cattive notizie nel pomeriggio erano giunte da Cai, se è vero che Colaninno l'aveva informato di «problemi con gli azionisti». Perciò Berlusconi aveva chiesto ai ministri di fare «qualche altra concessione», in modo da «convincere» poi gli acquirenti di Az. E mentre chiedeva, continuava a imprecare, dicendo che «bisognava lasciarsi dei margini, invece di presentare tutto subito». Avrà forse il tempo di ragionarci sopra. Certamente ieri non aveva il tempo né la voglia di ricostruire gli ultimi giorni della trattativa, di andare appresso a chi riteneva che il negoziato andasse gestito fin dall'inizio da Palazzo Chigi, di chi criticava la guerra di visibilità tra ministri, di chi puntava l'indice sulla scelta di Colaninno e Fantozzi come attori della vicenda, di chi addirittura osservava il distacco di Tremonti, che giorni fa — alla Festa di Azione giovani — dinnanzi alle preoccupazioni di un dirigente di An aveva risposto: «Nooo... Va tutto bene».

Berlusconi doveva e deve salvare Alitalia.
E non solo per salvar la faccia. Ieri quell'affondo contro la sinistra è stato un modo per mandare un avvertimento, inserito in un passaggio della sua dichiarazione: dietro il rischio di «suicidio» per il fallimento di Az, il premier scorgeva «motivazioni politiche che non hanno nulla a che vedere con le richieste dei lavoratori ». Si riferiva alle voci su un'ipotesi alternativa al «piano Fenice», che Veltroni nel pomeriggio avrebbe di fatto accreditato, invitando il governo a «chiudere subito» o a «riaprire la procedura». La risposta del Cavaliere non si è fatta attendere. E alla sortita pubblica ha fatto seguire una serie di messaggi riservati. Da una parte ha fatto sapere che — in caso di fallimento di Alitalia — avrebbe modificato nuovamente la legge Marzano, rivedendo così le condizioni di favore per l'acquisto della compagnia. Dall'altra ha fatto capire ai sindacati che la rottura su Az avrebbe provocato anche la rottura delle relazioni e soprattutto la rottura della trattativa sugli incentivi. Un gioco pesante, non c'è dubbio, come pesante era il clima a Palazzo Chigi. L'altra notte Gianni Letta aveva urlato al telefono tutta la sua rabbia: «È una situazione pazzesca. Sono qui a implorare i fornitori per convincerli a garantire il carburante agli aerei, e invece di procedere si blocca tutto? ». E ai sindacati che chiedevano conto delle nuove voci su altri possibili acquirenti, il sottosegretario replicava: «Voi dovete dare un segnale». Macché, le organizzazioni cambiavano

Il grande mediatore
Sulla vicenda Alitalia anche il sottosegretario alla presidenza, Gianni Letta, ha perso il suo aplomb: «È una situazione pazzesca. Sono qui a implorare i fornitori per convincerli a garantire il carburante agli aerei»
interlocutore nel governo, rivolgendo però la stessa domanda. «Ma non è vero», rispondeva esausto il ministro del Welfare Sacconi: «Chi e come metterebbe questi soldi?». L'atmosfera era surreale come le notizie che si spargevano nel Palazzo: all'aeroporto di Londra pare avessero chiesto soldi contanti per far partire un vettore di Alitalia.

Non era pensabile che Berlusconi restasse defilato.
Tanto più che le parti si erano rovesciate: «Veltroni — commentava ieri il forzista Grillo — non cavalchi l'irragionevole protesta ». Più o meno quanto dicevano in campagna elettorale i dirigenti del Pd. Irritato dal fatto che Epifani avesse sempre disertato il tavolo della trattativa, oltre a prendersela contro «questi comunisti», il capo del governo doveva trovare una soluzione. «Si chiude, si chiude», sorrideva in serata il ministro Rotondi: «Cos'è una trattativa senza suspense?». Non appariva perciò strano se Casini, che conosce Berlusconi, ieri aveva evitato di attaccarlo: «La soluzione è pessima, ma sono al fianco del premier e mi auguro che la sua mediazione abbia successo». Un modo per non restare sotto le macerie ora che il premier sembra sul punto di farcela anche stavolta.


Francesco Verderami
14 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - La trincea del Pd: aiutiamo Epifani
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2008, 03:59:26 pm
Il retroscena

La trincea del Pd: aiutiamo Epifani

Tonini: «Non siamo quelli del tanto peggio tanto meglio»



Dopo l’offensiva di Berlusconi su Alitalia, nel Pd hanno capito che per difendersi bisognava difendere la Cgil, «sostenere Guglielmo», come ha detto Veltroni riferendosi a Epifani. Veltroni si è reso conto che — anche a costo di smentirsi dopo appena due giorni — era necessario riposizionare il partito, abbandonando la linea dello scontro frontale con il governo su Alitalia e offrendo una sponda alla Cgil, impegnata a lavorare a un esito positivo del negoziato. «Sosteniamo Guglielmo» non è solo una parola d'ordine, è la trincea scavata dal leader del Pd per arginare il Cavaliere, per ridurre il danno nel caso in cui davvero Berlusconi chiudesse la trattativa. Certo, un successo del premier costringerebbe l'opposizione a pagare un pedaggio politico e mediatico molto alto, «ma il prezzo della rottura — è stato il ragionamento svolto dallo stato maggiore democratico — sarebbe ancor più alto». E non tanto perché Berlusconi si è premurato di scaricare anzitempo le responsabilità di un eventuale fallimento di Az sul sindacato e sulla sinistra, ma perché il Pd non potrebbe sopportare una spaccatura tra le organizzazioni del lavoro, con la Cgil spinta magari verso una deriva barricadera.

Che questa sia la linea lo s'intuisce chiaramente dal ragionamento di Tonini, uno degli uomini più vicini a Veltroni: «Noi lavoriamo per un sindacato unito, autonomo e riformista. Noi non siamo quelli del "tanto peggio tanto meglio"». Il Pd intende scongiurare una riedizione del 2002, quando Cisl e Uil firmarono il «Patto per l'Italia» con il governo Berlusconi e Cofferati salì sulle barricate portando milioni di persone a Roma. Nemmeno Epifani potrebbe permettersi una frattura con le altre due confederazioni, perciò — nonostante domenica sera abbia dapprima tentato di frenare — alla fine ha dovuto aprire, firmando l'accordo quadro per Alitalia insieme a Bonanni, Angeletti e Polverini e avendo da Letta la rassicurazione che il governo sarebbe stato pronto a difendere l'intesa in caso di accordo senza i piloti: «C'è l'impegno formale del presidente del Consiglio». Così d'incanto ieri mattina lo stato maggiore del Pd ha iniziato a cambiar registro, pur continuando a criticare la soluzione scelta dal governo. Il ministro ombra dell'Economia, che ha avuto più di un colloquio con Epifani, ha ribadito che l'intesa con Air France sarebbe stata «la migliore soluzione» per la compagnia aerea e per i contribuenti, sui quali «verrà caricato almeno un miliardo e mezzo» di debiti di Alitalia. Però non ha affondato il colpo più di tanto, «adesso vediamo se ci sarà questo accordo», ha aggiunto Bersani: «E comunque dobbiamo reagire contro quanti ci accusano di disfattismo». Ancor più esplicito è stato D'Alema, che ha rigettato la tesi secondo la quale «noi staremmo soffiando sul fuoco per far fallire Alitalia»: «Non è così. Sarebbe una condotta assai irresponsabile, com'è stata invece quella di Berlusconi» in campagna elettorale.

D'Alema ha fornito una sponda solida al segretario della Cgil, complimentandosi con i sindacati che «nella situazione data hanno offerto una grande prova. Ora bisogna augurarsi che si trovi una via d'uscita, C'è un'ipotesi di accordo sul piano industriale, e c'è da sperare che il senso di responsabilità dei sindacati eviti il peggio». Più chiaro di così. D'altronde non c'erano né ci sono ulteriori margini, quelli che Veltroni aveva intravisto sabato, quando nella fase di stallo del negoziato, nel momento in cui il «piano Fenice» sembrava dovesse saltare, chiese al governo di «chiudere subito l'accordo» o di «riaprire la trattativa» a nuovi acquirenti. Già, ma chi? Non è dato saperlo, dopo la smentita formale di Unicredit circa un'interessamento ad Az. Sta di fatto comunque che Berlusconi ha immediatamente provveduto a bloccare quelle che ha definito «manovre di disturbo» attorno alla cordata Cai e che — a suo dire — avevano iniziato a trovare orecchie attente persino tra esponenti della sua maggioranza. Ad accreditare la tesi di una sorta di «tentato sabotaggio» del «piano Fenice» è stato ieri il ministro Scajola, secondo il quale «ci sono molti avvoltoi in giro»: «Compagnie aeree europee, ma non solo...». Con la svolta di ieri il Pd ha provveduto ad allontanare ogni possibile sospetto.

Epperò è chiaro che attorno ad Alitalia si sta giocando più di una partita politica. È una partita in cui sono in gioco assetti di potere e di sistema. I maggiorenti democratici ne sono consapevoli, sottovoce spiegano che «dal '94 ad oggi questa è la prima partita in cui il Cavaliere è il principale attore, anzi l'unico». Come a dire che la sinistra è rimasta ai margini. Fino alla scorsa settimana, quando ancora l'operazione berlusconiana sembrava potesse fallire, Veltroni è andato giù pesante. Ora non più. Non può: c'è da difendere la Cgil, dunque in parte se stessi. Non si può restare al fianco di quanti — durante il negoziato — hanno fatto richieste surreali. Raccontano infatti che ci sia stato chi ha chiesto di prevedere garanzie sindacali a difesa di future assunzioni e chi addirittura ha chiesto che fine avrebbero fatto i voli gratis garantiti a parte del personale. Per far capire la situazione drammatica in cui versa Az, pare abbiano informato i sindacati che in questi giorni la compagnia ha pagato un rifornimento di carburante di dodicimila euro con la carta di credito personale di un dirigente aziendale... «Sosteniamo Guglielmo» così dice Veltroni. Ma questo sembra togliere dalle secche solo momentaneamente il Pd e la Cgil. La manifestazione del 25 ottobre — che il leader democratico sta preparando con molta cura — rischia di mettere in difficoltà Epifani. Siccome saranno i temi economici e le questioni del salario a caratterizzare l'evento, quale atteggiamento terrà Veltroni se il sindacato nel frattempo avrà firmato l'intesa su Az e starà lavorando con Confindustria al rinnovo del modello contrattuale? C'è il rischio di mettere in difficoltà la Cgil con la Fiom. Rovesciando i ruoli, dopo l'eventuale accordo su Alitalia e con le trattative sul costo del lavoro in corso, anche Veltroni si troverebbe in difficoltà. È un passaggio complicato per il Pd. E Berlusconi non intende fare sconti.

Francesco Verderami
16 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - L'ira del Cavaliere e la telefonata a Colaninno
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 10:25:21 am
Raccontano di un Berlusconi scuro in volto e di una telefonata accesa con il NUMERO UNO di Cai.

L'ira del Cavaliere e la telefonata a Colaninno

I contatti tra Bersani e il sottosegretario Letta

 
 
ROMA — Raccontano di un Berlusconi scuro in volto e di una telefonata piuttosto accesa tra il premier e il presidente di Cai. Perché non è così che doveva concludersi ieri la partita Alitalia, non erano questi i patti. Perché a suo dire l'intesa con la cordata di imprenditori era stata costruita puntando a superare anche l'eventuale ostilità di un pezzo del sindacato, non assegnando alla Cgil e ai piloti il potere di veto sulla riuscita dell'operazione. Il Cavaliere l'aveva ripetuto a più riprese che si sarebbe andati avanti «con chi c'era». Ed è più o meno quel che il leader della Cisl Bonanni ha giurato ai suoi di aver sentito dire mercoledì all'ad di Cai, Sabelli, mentre Epifani continuava a prender tempo. «Andare comunque avanti» era la parola d'ordine, condivisa anche da uno dei maggiori artefici finanziari della cordata. Ecco quale sarebbe stato il motivo del diverbio tra Berlusconi e Colaninno, che invece puntava su un consenso più largo, dunque sull'appoggio della Cgil, per poter tenere a bada alcuni soci insofferenti e avviare una sfida industriale difficilissima. L'esito della riunione di Cai, il suo passo indietro, ha colto perciò di sorpresa il Cavaliere e il suo governo, se è vero che ancora l'altra sera, in un vertice informale a Palazzo Chigi, tutti i ministri della trattativa — tranne Sacconi — manifestavano davanti al premier ottimismo sull'esito della vertenza.

Nelle stesse ore al quartier generale del Pd, anche i dirigenti democratici erano convinti che il negoziato si sarebbe chiuso in modo positivo, e già si preparavano alle contromisure mediatiche seguendo uno schema prestabilito: la soluzione scelta dall'esecutivo è pessima, ma non saremo noi i disfattisti. Governo e opposizione erano dunque impreparati all'evento. Con il comunicato di Cai il Cavaliere ha visto d'un colpo la propria immagine sbriciolarsi, ha visto il fallimento del progetto a cui aveva lavorato, l'«italianità» di Az, e ha visto aprirsi «un baratro» nel quale rischia di cadere. Perché se così finisse la partita, non dovrebbe solo fronteggiare l'ipotesi di fallimento di Alitalia ma anche il blocco dei trasporti aerei, il rischio di collasso del sistema, l'avvio del conflitto sociale. Se così fosse, anche il Pd avrebbe seri problemi: a parte l'offensiva di Berlusconi, deciso a scaricare ogni responsabilità sulla sinistra, i democratici verrebbero travolti dalle macerie di una Cgil isolata da Cisl e Uil e schiacciata su posizioni estreme. Per quanto possa apparire paradossale, dal momento in cui ieri Colaninno ha detto «no», governo e opposizione separatamente hanno iniziato a muoversi in sintonia, cercando in extremis di rimettere assieme i cocci. Lo s'intuiva dal ragionamento del democratico Tonini, che portava ad esempio il caso dei rifiuti a Napoli: «Lì Berlusconi ha risolto il problema perché ha stipulato una tregua con Bassolino».

Il Pd, al pari del Cavaliere, confida che non tutto sia compromesso, perché — come dice Follini — «le conseguenze per il Paese e per il premier sarebbero molto dure. Lo sarebbero un po' meno per noi, però lo sarebbero comunque ». Dalle cinque del pomeriggio è partita la rincorsa a Colaninno. Da una parte Letta, messo sotto pressione da Berlusconi che ha il dente avvelenato per com'è stata gestita la trattativa. Dall'altra parte Epifani, che per ore ha chiesto a Cai di riaprire il tavolo. Secondo fonti del governo, pare che il capo della cordata sia stato irremovibile, e che abbia chiesto al segretario della Cgil di firmare senza porre altre condizioni, perché la posizione del suo sindacato e quella dei piloti sarebbe per Cai «incompatibile con qualsiasi soluzione aziendale». Nel Pd c'è chi — come Bersani — immagina soluzioni alternative, e chiede tempo. Chissà se ha sentito Letta, com'è accaduto in questi giorni. Di certo, il suo, è un modo per nascondere la terribile verità che avanza per Az. «E vedere festeggiare i lavoratori per il "no" di Cai mi ha addolorato », sussurra Tonini. Perché è chiaro l'epilogo, a meno di una clamorosa sorpresa. Vorrebbe dire che Epifani ha cambiato rotta dopo aver giocato al rilancio come in una mano di poker. Tra i democratici non è solo Follini a parlare di «irresponsabilità » del sindacato. Persino dirigenti ex diessini lo criticano sottovoce: «Ormai fatica a controllare la Cgil e ci ha provato». Non aveva fatto i conti con Colaninno. Come Berlusconi.

Francesco Verderami
19 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI. Il cavaliere e il soccorso rosso
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2008, 04:29:22 pm
Il cavaliere e il soccorso rosso


E se si arrivasse a un'intesa su Alitalia tra il governo e il Pd? Se la logica delle «contrapposte convergenze» portasse Berlusconi e l'opposizione a siglare, per interessi diversi, un tacito patto, così da risolvere positivamente la vertenza?

Perché il premier è terrorizzato non tanto dall'idea del crac di Az ma dal conseguente blocco aereo che paralizzerebbe per molto tempo il Paese: «Mi getterebbero la croce addosso». A loro volta i democratici, senza un'intesa, temono di restar fuori da un nuovo assetto di potere, che li escluderebbe dai giochi per chissà quanti anni. Così ieri si è intravista la trama del comune disegno: riportare la Cgil alla ragione e convincere Cai a rientrare nella sfida. Non esiste una terza via, su questo il Cavaliere è stato chiaro: «O c'è Cai o c'è il fallimento».

Ed è una sorta di «compromesso storico» quello a cui si sta lavorando. D'altronde — come dice il democratico Follini — «salvare Alitalia è un'impresa titanica, e per riuscirci serve una falange macedone politica». Da Gianni Letta a D'Alema, ognuno per la propria parte lavora sotto traccia. E ognuno lancia dei segnali. Al forzista Napoli, per esempio, è stato affidato il compito di invitare Epifani ad «aver coraggio», a «sfruttare l'occasione per dimostrare che non è solo un leader sindacale ma che ha anche un profilo politico». Dal fronte avverso è arrivato il soccorso rosso: bastava incastrare le parole di D'Alema — secondo cui «c'è ancora tempo» — al ragionamento svolto dal suo braccio destro Latorre, per capire che i messaggi erano rivolti al capo della Cgil («noi auspichiamo la ricomposizione del sindacato») e al Cavaliere («confidiamo nell'accordo»). Ed è stato ancor più esplicito Fioroni quando — in appoggio al cislino Bonanni — ha chiesto ad Epifani di «fare un passo in più in avanti per togliere ogni alibi a chi cerca capri espiatori».

Il gioco delle «contrapposte convergenze » è però assai complicato e ad alto rischio. Perché il premier è disposto — come spiega il suo portavoce Bonaiuti — «a lasciare uno spazietto alla sinistra». Insomma, senza esagerare. Ma le mire di Veltroni sono più ambiziose, punta a de-berlusconizzare la trattativa su Az, strappandola dalle mani del governo e affidandola al commissario della compagnia aerea, Fantozzi. E c'è un motivo se il leader del Pd vuol giocare la sfida di Az in campo neutro, lo spiegava giorni fa il democratico Ventura: «Dietro la partita su Alitalia si cela una partita economico- finanziaria enorme», che passa da Expo 2015 e arriva agli investimenti in Libia.

E non c'è dubbio che se Berlusconi riuscisse nell'impresa, ridisegnerebbe la mappa del potere in Italia, divenendone l'unico regista. «In quel caso — commenta il democratico Carra — ci rivedremmo forse tra venti anni ». Veltroni intende evitare la nascita di «un sistema putiniano», sebbene ieri si sia scoperto troppo appoggiando le scelte di Epifani, e prestando così il fianco all'accusa di esser stato «il regista del niet della Cgil». Ma non è un caso se il premier non ha replicato direttamente: tace in attesa di capire come si chiuderà il caso Alitalia, vuol vedere l'esito della partita «tutta interna alla sinistra» tra i democratici e Colaninno.

La politica è al bivio, tra un tacito patto sancito dalle «contrapposte convergenze » e la radicalizzazione dello scontro che porterebbe a un conflitto sociale senza precedenti. Ma stavolta la soluzione non è affidata solo ai protagonisti del Palazzo, un ruolo determinante lo giocano gli imprenditori.
Raccontano che al termine della riunione di giovedì, gran parte dei soci di Cai sia rimasta stordita dagli epiteti «banditi! banditi!» dei dimostranti, e non voglia più sentir parlare di piloti, «al massimo — ha detto uno di loro — di piloti automatici».

Dopo il colloquio burrascoso dell'altro ieri, pare si sia rasserenato il clima tra il premier e Colaninno, al quale — durante il Consiglio dei ministri — Letta ha riconosciuto un «comportamento lineare e corretto».

Il presidente di Cai era stato chiaro con Berlusconi che lo invitava ad andare avanti anche senza la Cgil: «Io non sto acquistando un gioiello ma voglio renderlo produttivo. E per farlo, non posso avere contro i lavoratori». Si vedrà se Cai rientrerà in gioco, se non si è sciolta è perché Colaninno ha invitato i soci a pensarci: «Non è facile mettere insieme così tanti imprenditori. Perciò riflettiamo, possono venirci nuove idee su cui investire». Tanto basta per far ammettere a Fioroni che «la politica non conta. Ed è incartata».


Francesco Verderami
20 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Il retroscena. An media.
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2008, 12:31:34 pm
Berlusconi: «Mi astengo da interventi pubblici per non irrigidire le posizioni»

La mossa del Cavaliere

Accordo con i piloti e Lufthansa

Il retroscena. An media. E i tedeschi chiedono la «pace sociale»


MILANO - Altro che mediare con la Cgil. Per uscire dalle secche dei veti incrociati e salvare così Alitalia, Berlusconi ha deciso di sparigliare puntando sui piloti e derubricando il ruolo di Veltroni e di Epifani.

È un colpo a sorpresa quello del premier, l'estremo tentativo di evitare il fallimento della compagnia di bandiera, che verrebbe preceduto dallo scioglimento della Cai, la cordata a cui aveva lavorato. Perché durante l'incontro a palazzo Chigi con Gianni Letta, Colaninno e Sabelli non hanno ceduto di un millimetro sul «piano Fenice », hanno solo ribadito l'interesse per Az, a condizione però che i sindacati accettino il progetto presentato. Diversamente alcuni soci sarebbero pronti a ufficializzare già domani l'uscita dalla cordata. Il Cavaliere resta convinto di riuscire nell'impresa, ritiene che «l'Italia debba continuare ad avere una compagnia aerea », e che «questo risultato si raggiungerà». «Ce la faremo, sono fiducioso», ha detto ai suoi ministri. Non ha spiegato in che modo, ma si è lasciato sfuggire un dettaglio: «Mi sto frenando a fare interventi pubblici, perché non vorrei che tutto ciò irrigidisse ulteriormente le posizioni».

«Interventi pubblici» Berlusconi in effetti non ne ha compiuti, incontri riservati sì. Fonti accreditate riferiscono infatti di contatti diretti con i rappresentanti dei piloti, ai quali Berlusconi avrebbe illustrato il percorso per arrivare all'intesa. Se è vero che il nodo principale è il partner industriale, il premier avrebbe sottolineato che Lufthansa è «interessata» ad un rapporto con Alitalia, «ma solo in caso di pace sociale ». Il «matrimonio» tra Cai e la compagnia tedesca, che entrerebbe come socio di minoranza, si potrebbe celebrare pertanto «dopo» un accordo tra la nuova società e i sindacati. E servirebbe tempo. Non è dato sapere se il capo del governo sia riuscito a rompere il muro dell'intransigenza, è certo che sui piloti — e da settimane — si muovono i ministri di An, da Matteoli a Ronchi, a La Russa. E ieri perfino il presidente della Camera Fini si è speso a sostegno della mediazione. È sui piloti che il governo (e non solo) punta per sbloccare la fase di stallo, e le parole di Sacconi «porremo attenzione ai problemi specifici delle alte professionalità», rappresentano un ulteriore indizio.

Per il resto è difficile stabilire se la giornata del premier sia stata infastidita di più dalla sciatica o dalla lettera che gli ha inviato Veltroni. Raccontano che il leader del Pd abbia chiamato Gianni Letta in serata per sapere se sarebbe arrivata la risposta di Berlusconi. Il sottosegretario si è speso in tal senso. «No, non insistere, non gli darò questa importanza », ha glissato il Cavaliere, che ha lasciato al suo portavoce, Bonaiuti, il compito di commentare: «Veltroni ha scoperto l'acqua calda». Peraltro era stato proprio Letta a mettere Berlusconi sull'avviso, notando la «coincidenza » delle richieste del segretario democratico con quelle giunte riservatamente la sera prima da Epifani. «È la prova provata — ha commentato il premier — che Veltroni ha usato la Cgil come uno strumento politico. Roba da irresponsabili. Ma è roba passata ».

Non si sa a cosa alludesse il Cavaliere parlando di «roba passata». Si dice che prima di recarsi a palazzo Chigi, ci sarebbe stato un colloquio tra Colaninno e Veltroni, dal quale il presidente della Cai avrebbe chiesto e ottenuto garanzie sull'appoggio politico al «Piano Fenice». Anche per questo ieri sera Berlusconi si mostrava fiducioso, mentre autorevoli esponenti del Pd ammettevano che la lettera di Veltroni serviva a cancellare l'immagine del «disfattista » e ad agevolare il rientro in gioco di Epifani. «Avevo ragione — ha chiosato Berlusconi — quando dicevo che quella era una questione tutta interna al centrosinistra».

Battuta maliziosa, che richiama alle divergenze nel Pd sulla vendita di Az a Cai. Ma al di là dell'ottimismo il premier non può per ora andare. La partita su Alitalia resta ad alto rischio, e il fallimento della compagnia segnerebbe il suo governo. E ha ragione Veltroni quando — al vertice del Pd di ieri — ha detto che «durante la trattativa con Air France Berlusconi cavalcò la tigre della Cisl e dei piloti». Però è altrettanto vero quel che ha detto subito dopo Enrico Letta, assai critico con Epifani: «Il suo errore durante il negoziato è stato gravissimo. Se Alitalia fallisse, avrebbe offerto un alibi politico al Cavaliere». Ma il Cavaliere è certo di farcela.

Francesco Verderami
24 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - La fine del «Veltrusconismo» tensioni tra il premier e...
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2008, 12:04:19 pm
Dietro il caso alitalia

La fine del «Veltrusconismo» tensioni tra il premier e il leader Pd, media solo Letta

Del «Veltrusconi» ormai non c'è più traccia, la breve stagione del dialogo tra il Cavaliere e il leader del Pd è alle spalle e forse i due continueranno a non parlarsi.


«Con l'irreale intervista al Tg1 — ha commentato ieri sera il portavoce del premier, Bonaiuti — Veltroni conferma che con questa sinistra non si può discutere». Ma nelle istituzioni, nel governo e persino dentro Forza Italia, c'è chi continua a perseguire l'obiettivo del confronto tra Berlusconi e il capo dei Democratici. Gianni Letta non ha mai smesso di crederci e in questi giorni di trattative su Alitalia si è speso per un riavvicinamento: «Almeno rispondiamo alla sua lettera», ha chiesto invano al Cavaliere martedì, visto che Veltroni aveva infine appoggiato la «cordata italiana» voluta e creata da Berlusconi. Niente da fare.

Raccontano che ieri mattina il sottosegretario alla Presidenza fosse depresso, o forse solo stanco. Sta di fatto che in una delle tante riunioni convocate per salvare la compagnia di bandiera, si è lasciato andare: «Sono una persona che affronta i problemi con l'intento di risolverli, pensando all'interesse generale, senza farmi mai strattonare. Invece questa vicenda si è svolta in un quadro politico che non ha aiutato». Si riferiva a Epifani, all' «interesse politico» che il leader della Cgil aveva fatto prevalere inizialmente nella vertenza: «Ma devo dire che alla fine Veltroni ha agevolato ». Nelle stesse ore, alla riunione del governo ombra, il leader del Pd si faceva sfuggire un apprezzamento per il braccio destro del Cavaliere: «Se non ci fosse stato lui...».

Insomma, Letta e Veltroni continuano a coltivare un rapporto, quasi facessero da contraltare ad altri equilibri ed altri attori. Almeno così s'intuisce dal ragionamento che il democratico Morando ha sviluppato lunedì al coordinamento del Pd: «L'assenza di Tremonti dalla trattativa su Alitalia è il segno dello scontro nel governo tra la linea di Gianni Letta e quella del ministro dell'Economia». Con tanto di maliziosa nota a margine sull'intervista di D'Alema al Sole 24 Ore, in cui c'era più di un riferimento al titolare di via XX settembre. Al pari di Letta, anche il presidente del Senato lavora perché il Cavaliere e Veltroni inaugurino la stagione del «confronto». Schifani si è prodigato già questa estate, durante un pranzo con il segretario democratico.

C'era anche la sua collaborazione nell'intesa sottoscritta sulla Rai, e sancita durante il colloquio informale al Quirinale dell'11 settembre, quando Berlusconi, Letta e i presidenti delle Camere avevano discusso con Veltroni sui nuovi equilibri nella Tv di Stato. È stato allora che Schifani ha ribadito al premier «l'utilità» di un rapporto con il capo del Pd. Anche in quel caso il Cavaliere si è ritratto, additando l'avversario per gli «attacchi personali che mi rivolge»: «Non ho dimenticato la lettera che ha scritto al Foglio », e in cui Veltroni l'aveva «screditato» sotto il profilo morale. Dopo quanto è accaduto su Alitalia e sulla Rai, Berlusconi ritiene di aver avuto ragione a non fidarsi. I pontieri ammettono che gli «atteggiamenti ondivaghi di Veltroni non aiutano», ma non per questo demordono. Verdini, per esempio, coordinatore di Forza Italia, continua a ricercare punti di mediazione con il capo del Pd su temi spinosi come la legge elettorale. E c'è un motivo se tutti insistono nell'intrapresa: il Cavaliere non li sostiene apertamente, ma non li ha mai nemmeno sconfessati. Un giorno magari il loro lavoro tornerà utile. Anche perché Confalonieri, l'amico di cui più si fida, gliel'ha detto: «Silvio, tra D'Alema e Veltroni meglio Veltroni».

Francesco Verderami
25 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il presidente di Mediaset Silvio è stato l'artefice di tutto
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2008, 12:58:46 pm
L'intervista

Confalonieri: gran lavoro di Letta ma anche Walter ha contribuito

Il presidente di Mediaset: Silvio è stato l'artefice di tutto.

Ora trovi il modo di dare soldi a chi fatica a finire il mese


ROMA — «Gianni... Gianni Letta, intendo... Su Alitalia ha fatto un grandissimo lavoro. Poi, in un Paese in cui tutti salgono sul carro del vincitore, riconosciamo comunque a Walter Veltroni di aver contribuito a risolvere il problema». Nell'inner circle del Cavaliere nessuno può permettersi di pensare ciò che Fedele Confalonieri dice. Il presidente di Mediaset non ha picchi nel tono di voce, si tiene distante dalle polemiche politiche di giornata, dalla corsa ad accaparrarsi i meriti per il lieto fine del «caso Az».

Ed è solo all'apparenza sorprendente il modo in cui derubrica il ruolo del governo nella vicenda, e si limita a citare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio: «È chiaro che è stato Berlusconi l'artefice di tutto. Lui ha avuto l'idea e poi la forza di salvare la compagnia di bandiera con una cordata italiana, ma il capo dell'opposizione ha evitato che nella fase finale della trattativa la Cgil prendesse una deriva... và, lasciamo stare. Sono accadute cose incredibili». Sarebbe un processo alle intenzioni scorgere un pizzico di malizia dietro questi complimenti al segretario del Pd, eppoi non è un mistero che il patron del Biscione preferisca la strada del confronto con il Partito democratico alla strategia del muro contro muro. Così, sebbene il premier abbia interrotto i rapporti con Veltroni, Confalonieri non desiste: «Io penso che serva un'opposizione costruttiva, non quella di chi nel momento più difficile della trattativa è andato ad arringare all'aeroporto di Fiumicino». Non cita il nome di Antonio Di Pietro, il riferimento al leader dell'Idv è solo un inciso nel racconto della fase più complicata del negoziato su Alitalia. «In questi giorni ho letto sul Financial Times il tentativo di paragonare la vicenda della nostra compagnia di bandiera a quella dei minatori inglesi all'epoca del governo di Margaret Thatcher. A parte il fatto che Berlusconi non è la Thatcher, per fortuna in Italia abbiamo evitato di vivere una storia drammatica come quella. Ma se è possibile fare un accostamento con quegli avvenimenti, allora spero che per il nostro Paese il caso Alitalia sia il momento della ripartenza».

Dal modo in cui affronta la questione, s'intuisce la volontà di tenere un profilo basso. Sarà perché non intende sfoggiare toni trionfalistici o forse perché vuole celare le preoccupazioni che il Cavaliere deve avergli confidato prima dell'accordo: il timore di un fallimento nella trattativa, il crac della compagnia, le ripercussioni sul sistema nazionale e soprattutto sul governo: «In principio molti pensavano che Berlusconi non sarebbe riuscito nemmeno a presentare una cordata. Invece la cordata si è materializzata, ed è stata bipartisan». Fin troppo per alcuni, persino nel governo, dove c'è chi è rimasto sorpreso dalla presenza e dal ruolo di Roberto Colaninno. Sono passati dieci anni da allora, ma nessuno ha dimenticato lo scontro tra Berlusconi e l'allora patron di Telecom, che rispose a muso duro nella polemica con il Cavaliere, invitando il leader del Polo e i suoi alleati a «non starnazzare». Confalonieri copre con un cerotto quel vecchio sbrego: «Gli imprenditori — dice — sono persone ruvide e pragmatiche, non sono fini dicitori come i politici e i sindacalisti che parlano in modo forbito e sono abituati a farlo in pubblico». Poggia dunque sul pragmatismo il patto stretto tra il premier e il numero uno di Cai: «In fondo — spiega Confalonieri — Berlusconi è un imprenditore e usa il linguaggio degli imprenditori, non si attarda sulle colorazioni politiche. Pensa: c'è un problema da risolvere? Troviamo una soluzione, il resto non conta». Non è così, almeno non è solo così. Perché è evidente che l'operazione Alitalia è anzitutto un'operazione politica, la prima vera operazione berlusconiana da quando il Cavaliere è sceso in campo. «Una svolta c'è stata», risponde infatti Confalonieri, che riconosce come — dopo la vittoria elettorale — si stia ridisegnando la mappa del potere in Italia. E oggi il leader del centrodestra è diventato un punto di riferimento. Nulla è più come in passato, «in passato — ricorda il presidente di Mediaset — avevano guardato a Berlusconi con un misto di sufficienza e di ostilità. Ma lui è un leader, la leadership è una dote. Poi bisogna saperla esercitare e ora la sta esercitando». In un passato più recente Confalonieri accostò «l'amico Silvio» a Lenin e a Mozart, ma erano momenti in cui il Cavaliere si trovava in difficoltà, e in tanti scommettevano su un suo imminente tramonto politico. Ora non è più così, perciò «Fidel» non usa paragoni, dice che «Berlusconi non è la Thatcher».

E d'un tratto si capisce il motivo per cui ha adottato il profilo basso: «Il nostro Paese deve recuperare il senso dell'ordinarietà, deve cancellare l'idea in base alla quale sia una cosa straordinaria togliere i rifiuti dalle strade di Napoli, o salvare l'italianità della compagnia di bandiera, affidandola a un gruppo di imprenditori e riducendo al massimo gli esuberi». Non c'è enfasi, «l'enfasi non serve». Berlusconi è «Berlusconi», «un premier che vuol fare dell'Italia un Paese normale, per usare un'espressione coniata da altri. La gente l'ha capito e lo sta premiando». Ma non è tempo di specchiarsi nei sondaggi, «il governo deve dare ora ai cittadini un po' di soldi». Confalonieri è consapevole che le casse dello Stato sono vuote e che il ministro dell'Economia Giulio Tremonti le ha blindate. Tuttavia sprona Berlusconi, «pensi lui come fare, ma trovi il modo. Perché non sarà il problema della terza o della quarta settimana, ma è chiaro che gli italiani faticano ad arrivare a fine mese. Bisogna aiutarli. E a volte non servono grandi riforme o un'eccessiva produzione di leggi. Penso al ministro dell'Istruzione, a Mariastella Gelmini, alla reintroduzione del grembiule e del sette in condotta nelle scuole. Penso a un Paese normale».

Francesco Verderami
26 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Il metodo Letta incanta la sinistra
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2008, 05:36:42 pm
Settegiorni - il ruolo del sottosegretario

Il metodo Letta incanta la sinistra

«Il compagno L» - definizione di Francesco Cossiga - è ormai diventato il «check point Charlie» del bipolarismo italiano

 
 
Ci sarà un motivo se dall'altro ieri il braccio destro di Silvio Berlusconi è diventato «il compagno Gianni Letta», se da Walter Veltroni a Guglielmo Epifani la sinistra ha preso ad elogiarlo. Non è solo un segno di gratitudine per l'atteggiamento che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sta tenendo nella fase più delicata del negoziato su Az. È piuttosto la dimostrazione che «il compagno L» - definizione di Francesco Cossiga - è ormai diventato il «check point Charlie» del bipolarismo italiano, il punto di contatto tra due leader divisi da un Muro che non cade. Sbaglierebbe Veltroni se davvero pensasse di separare Gianni Letta dal Cavaliere, perché il «compagno L» è l'essenza del berlusconismo, il suo alter ego.

Pare fosse un altro il messaggio che il capo dei Democratici abbia voluto lanciare, sostenendo che «in questo esecutivo Letta è poco più di un libero professionista»: l'obiettivo - secondo autorevoli dirigenti del Pd - era quello di alludere alle due linee che dividono il governo. Dal confronto estivo sul federalismo fiscale, Letta era parso uscire un po' ammaccato, dopo che Berlusconi in Consiglio dei ministri aveva preso le parti di Giulio Tremonti. Ma il caso Az l'ha riconsegnato al ruolo di protagonista. Cossiga dice che «Gianni è determinante nelle trattative. Sa accontentare tutti, sa benedire come un monsignore e contemporaneamente salutare da compagno con il pugno chiuso. Non che la faccenda Alitalia si sia risolta, anzi. I problemi maggiori devono venire. E siccome il ministro dell'Economia ne è consapevole - chiosa malizioso il Picconatore - ha deciso di non esporsi».

È una tesi che nel Pd sostengono da tempo. Paolo Gentiloni non a caso sottolinea «l'assenza del Tesoro dalla trattativa» prima di omaggiare Letta: «È onnipresente, è dialogante, è cultore delle istituzioni e delle mediazioni. Peccato stia di là». «Di qua», cioè dal loft veltroniano, sanno di avere nel «compagno L» più che un interlocutore affidabile. Una sponda. Goffredo Bettini lo chiama «il decisivo»: «Chiamatemi il decisivo per favore». È successo ancora giovedì. Non è chiaro se dovesse parlargli di Alitalia o di Rai, è certo che il sottosegretario ha risposto, e sebbene in sottofondo si avvertissero voci concitate, Letta ha discusso al telefono con il dirigente del Pd, confidandogli infine di sentirsi «un po' stanco»: «Sono cinque notti che non dormo». Con oggi fanno sei. Roberto Colaninno, che da una settimana condivide la stessa sorte, dopo averlo visto all'opera da vicino ne ha tessuto le lodi sull'Unità. È vero, il patron di Cai ha elogiato tutti, Veltroni ma anche Berlusconi, «che non mi ha mai fatto mancare il suo incoraggiamento e ha sempre creduto al successo della cordata italiana ». Tuttavia, se la trattativa è arrivata al passaggio decisivo, «è per merito di Gianni Letta»: «Non ha mai mollato».

Quanto ad Epifani, Cossiga arriva tardi. È da tempo che il segretario della Cgil ha fatto outing. Due anni fa andò in televisione e dichiarò: «Se potessi, strapperei Letta al centrodestra ». A dirla tutta, una settimana fa, e sempre in tv, Epifani ha ringraziato anche Altero Matteoli «per l'atteggiamento che ha tenuto durante la trattativa». «In altri tempi - ha sorriso il ministro di An guardando la trasmissione - l'avrebbero cacciat o dalla Cgil». Sarebbe però un errore ritenere che Letta sia un mediatore accomodante. In Consiglio dei ministri, nei giorni dello strappo di Epifani, il sottosegretario alla presidenza espresse giudizi severi verso il sindacalista e i dirigenti democratici: «Sono false e inaccettabili le accuse che vengono dalla Cgil e dal Pd. Ho letto le dichiarazioni dell'onorevole Piero Fassino, le trovo infondate». E nel ricostruire le fasi della trattativa, rivelò un dettaglio: «Non è vero che si sia lavorato per spaccare le organizzazioni del lavoro. Perché, quando è stato necessario, non ho esitato - cosa per me insolita - ad alzare la voce con il ministro Sacconi in presenza dei rappresentanti sindacali, per dimostrare che c'era e resta la volontà di dialogare». Ecco perché Letta era e resta il braccio destro di Berlusconi. E al premier non dispiace che sia diventato il «compagno L». Se è vero che è il suo alter ego, ne trarrà beneficio.

Francesco Verderami
27 settembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Il Pd spera ancora nel metodo Letta
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2008, 06:03:09 pm
Riforme

Il Pd spera ancora nel metodo Letta

«Noi siamo pronti»



Persino nelle strategie di comunicazione hanno preso ormai strade contrapposte. E se ieri Berlusconi ha invitato i rappresentanti del governo all'astinenza televisiva, in vista del 25 ottobre Veltroni ha chiesto a centodieci dirigenti del Pd — uno per ogni provincia — di trasformarsi in altrettanti cameraman, per filmare la manifestazione e riversare il materiale all'emittente del partito: Youdem tv.

Berlusconi e Veltroni sono divisi su tutto. Ma l'invito rivolto dal capo del governo ai presidenti delle Camere per riformare i regolamenti parlamentari, evoca la stagione del dialogo, il vecchio patto tra il Cavaliere e il leader del Pd. «Il tema è lo stesso», spiega il senatore democratico Tonini: «Dare al Paese nuove regole. Ma l'approccio è diverso: allora Berlusconi aveva la mano tesa, oggi mostra il pugno e lo brandisce come una minaccia ». In questa fase è scontato che si scarichino sull'avversario le colpe della rottura, «è chi sta al governo che determina il clima politico». Tuttavia, nonostante la durezza dello scontro e l'approssimarsi della manifestazione di partito, Tonini — uno dei più fidati consiglieri di Veltroni — evita di aggiungere un altro mattone al muro che divide i due schieramenti. Anzi, «mi auguro si possa riaprire un confronto sulle riforme. Ma perché ciò possa avvenire — precisa — bisogna capire se il premier ne è intenzionato». Sarà anche un modo di addebitare a Berlusconi le responsabilità del fallimento, però s'intravvede un segnale quando dice che «noi sulla necessità di cambiare le regole e di cambiarle insieme al centrodestra ci stavamo e ci stiamo ancora. Perché quel confronto più che utile è necessario. Potrà ripartire se il premier cambierà toni e atteggiamento. Se non c'è rispetto per l'interlocutore, se il governo procede a forza di strappi, non può esserci dialogo. Il galateo istituzionale non è questione di forma ma di metodo».

L'incrocio tra il concetto di «galateo istituzionale» e la parola «metodo» porta Tonini a ricordare quanto è accaduto durante la trattativa su Alitalia, «nella quale il Pd ha avuto un ruolo importante perché il negoziato finisse positivamente». E subito il discorso vira sul sottosegretario alla presidenza del Consiglio, sul «metodo Letta»: «Quel metodo ha funzionato, ed è quel metodo che va adottato». Dunque Gianni Letta era e resta il punto di riferimento di quanti non si rassegnano al muro contro muro. «E noi — prosegue Tonini — non siamo quelli del tanto peggio tanto meglio, siamo dell'idea che si debba lavorare nell'interesse del Paese, restiamo convinti che le riforme servano e che serva farle insieme, nella chiarezza dei ruoli, separando il terreno del confronto sulle regole, dallo scontro duro e senza sconti sulle politiche del governo».

 È vero che il 25 ottobre sarà una data importante per il Pd, ma il 26 lo sarà ancor di più. E il dirigente veltroniano fa capire quale può essere un tratto del sentiero. Sta però al Cavaliere la prima mossa, «sulle riforme eravamo pronti e lo siamo ancora. Ma deve ritornare lo spirito che aleggiava in Parlamento nei giorni del dibattito sulla fiducia al governo. Berlusconi ha sconfessato se stesso, ha precipitato il Paese e la politica in un clima di contrapposizione. Torni indietro, la smetta con i colpi di mano». Lo «spirito di maggio» è lontano, lo scontro tra chi viene accusato di puntare a «un sistema putiniano» e chi viene definito «un leader inesistente» non sembra destinato a cessare. Però è bastato che Berlusconi chiedesse la riforma dei regolamenti parlamentari — in una giornata segnata dal diverbio con il presidente di Montecitorio sull'uso dei decreti — per capire che solo con un'intesa sulle regole si può arrivare al cambio di sistema auspicato dal Cavaliere. Serve un'intesa con l'opposizione per modificare i metodi di lavoro delle Camere, «e il Pd — sottolinea Tonini — lavora perché il Paese abbia una democrazia decidente. Perché proprio una democrazia che non decide apre la strada a decisioni senza democrazia. In Parlamento è giusto dare al governo una corsia preferenziale per i suoi provvedimenti, in modo da decidere rapidamente. E al tempo stesso serve uno statuto che garantisca l'opposizione. Sono proposte che insieme ad altre abbiamo presentato alle Camere ». Secondo il senatore del Pd tocca al Cavaliere dare una svolta. Il «metodo Letta» è la strada per ristabilire un contatto: «In quel caso — conclude Tonini — noi saremo pronti. Per noi la porta del confronto sarà aperta. A chiuderla è stato Berlusconi».

Francesco Verderami
03 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Sulla riforma tra gli industriali prevale lo scetticismo...
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2008, 12:24:45 am
Sulla riforma tra gli industriali a Capri prevale lo scetticismo

Federalismo, gli imprenditori e «l’alleanza degli spreconi»

La Guidi: rischio di costi duplicati. Quadrino: no agli errori di quando si fecero le Regioni

Sarà certamente una «riforma di portata storica», come dice Giulio Tremonti, ma sul federalismo fiscale il mondo dell’imprenditoria si mantiene assai prudente.



Gli imprenditori riconoscono la bontà del progetto e tuttavia attendono di verificarne gli effetti, perché temono che invece di ridurre spese e tasse finisca per aumentarle. Da anni Confindustria studia la materia, la bozza di un documento—ancora riservato— è nelle mani di Luca Garavoglia, presidente di Campari. E l’analisi svolta ieri sul Riformista dal professor Luca Ricolfi non è passata inosservata, specie quando il politologo ha previsto «un punto in più di spesa pubblica» per effetto dei costi nel comparto sanitario. L’appellativo con cui ha ribattezzato la riforma, «federalismo assistenziale», sarebbe a suo giudizio la conseguenza di uno «scambio tra la Lega e le regioni del Sud», una sorta di «alleanza degli spreconi», basata sul fatto che «tutti vogliono più soldi». A Capri, dove i giovani industriali sono riuniti, la presidente Federica Guidi dà voce alle preoccupazioni degli imprenditori, perché «in linea di principio il progetto è cosa buona, imporrà agli amministratori locali una gestione più oculata. Ma c’è il rischio che la riforma produca duplicazioni nei costi, e che alla fine tutto si scarichi sui contribuenti». Ecco il motivo per cui permangono delle «criticità», perché «da parte nostra resta alto il livello di attenzione », accresciuto dalla «preoccupazione che destano i bilanci degli enti locali», minati non si sa fino a che punto dal «virus» della finanza creativa adottata negli ultimi anni. La scommessa «è legata alla prospettiva di un uso virtuoso delle risorse e di un miglioramento dei servizi pubblici», su questo il presidente di Bnl Luigi Abete non ha dubbi: «Restano però i dubbi sulla sorte di alcune regioni del Sud, e su un aumento della spesa». È vero, come spiega il presidente degli industriali siciliani Ivan Lo Bello, che «in Parlamento arriverà solo una legge quadro» e che «bisognerà attendere la stesura dei decreti delegati » per avere una «visione complessiva» della riforma: «Sarà allora che si scatenerà la guerra tra le regioni, che ci saranno vincitori e vinti. Esiste però la preoccupazione che gli amministratori interpretino il federalismo fiscale come la soluzione dei loro problemi di bilancio. Il pericolo—conclude—è che alla fine si vogliano accontentare tutti. Sarebbe un disastro, vorrebbe dire allargare le maglie della spesa». C’è un «precedente» che allarma il mondo imprenditoriale, è Umberto Quadrino ad evocarlo, «e tutti ricordiamo cosa accadde con la nascita delle regioni, quando la spesa pubblica aumentò a dismisura»: «L’esperienza passata — prosegue l’amministratore delegato di Edison—autorizza a pensar male. Servono regole severe per non ripetere quegli errori». E siccome rispetto al passato non sarebbe più possibile scaricare sullo Stato le gestioni clientelari e assistenziali del territorio, «con la situazione debitoria in cui versano regioni, province e comuni, sarebbero i cittadini a pagar dazio con nuovi balzelli».

Si avverte un clima di preoccupazione, e non è chiaro se si tratti solo di diffidenza verso l’ignoto o piuttosto di timori circostanziati dagli studi di Confindustria. Perché forse le «criticità» di cui parla la Guidi sono contenute nel documento degli imprenditori. D’altronde la «storica riforma» nasce in una fase altrettanto storica, lo spettro del ’29 paventato da Tremonti si è incarnato nel tracollo dell’economia mondiale. «Ci sono banche—spiegò due anni fa il superministro—che nei loro forzieri hanno solo degli algoritmi». E non si fa illusioni sul prossimo futuro, anzi è convinto che «il peggio non è ancora arrivato»: questo ha spiegato a Silvio Berlusconi alla vigilia del viaggio a Parigi per il «G4». Il premier si era già fatto un’idea lunedì scorso, quando — come ha raccontato ad un amico—aveva ricevuto una telefonata da George W. Bush. Era il giorno del suo compleanno, ma soprattutto era il giorno in cui il Congresso americano aveva bocciato il piano da 700 miliardi di dollari deciso dalla Casa Bianca, e nei ragionamenti del presidente statunitense si erano materializzati scenari drammatici che Wall Street aveva vissuto solo l’11 Settembre. Il voto di ieri a Washington ha allontanato quei fantasmi, ma i timori restano. Ci sarà tempo prima che nasca l’Italia del federalismo fiscale, e il tempo servirà anche per capire come verrà disinnescata la vera bomba su cui è poggiato il Paese, e che potrebbe far saltare la riforma: il debito pubblico. «Ecco il vero nodo», dice l’amministratore delegato di Invitalia, Domenico Arcuri: «Da come verrà affrontata e risolta la questione si capirà se andremo verso un autentico federalismo fiscale o verso un surrogato. Il debito pubblico che ora è centralizzato, sarà spartito tra le regioni? Perché non si possono suddividere solo i ricavi. Ma se il debito venisse federalizzato, il rischio di un aumento delle tasse sarebbe altissimo. E un aumento della pressione fiscale vorrebbe dire condizionare lo sviluppo di alcune regioni del Sud, come la Puglia. Per altre, come la Calabria, sarebbe uno sforzo insostenibile ».

Francesco Verderami
04 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Per il 25 era pronta una raccolta di firme pro riforma
Inserito da: Admin - Ottobre 18, 2008, 11:37:05 am
Per il 25 era pronta una raccolta di firme pro riforma

E Berlusconi fermò i gazebo

Recuperiamo i sindacati»

Il sostegno del Colle al ministro: ma niente più decreti



Non c'è ministro dell'Istruzione che non abbia subìto una contestazione. Mariastella Gelmini chieda a Beppe Fioroni, suo predecessore, che ogni mattina offriva brioche e cappuccino a un sindacalista piazzato fisso sotto il dicastero. Eppoi ieri gli slogan dei manifestanti erano in buona parte meno aspri delle battute che Umberto Bossi gli dedicò nei giorni in cui varava la riforma della scuola.

Paradossalmente, infatti, il titolare dell'Istruzione all'inizio del mandato ha avuto più sostegno da avversari come Luigi Berlinguer e Franco Bassanini che dalla Lega e da Giulio Tremonti. Il democratico Fioroni sostiene addirittura che «sul suo provvedimento avremmo potuto trovare l'intesa in due minuti se il ministro dell'Economia non avesse imposto tagli draconiani». Ma non avendo intenzione né interesse a rinverdire il duello che contrappose Letizia Moratti a Tremonti, la Gelmini ha fatto di necessità virtù, e con il tempo è riuscita a invertire la tendenza. Nei rapporti con Tremonti e nei rapporti con l'opinione pubblica. Come ha scritto il Riformista, a fronte della piazza che la contesta, i sondaggi hanno preso a premiarla. Dalla sua può vantare l'appoggio di Silvio Berlusconi, la protezione di Gianni Letta, il tifo di uno spettatore come Fedele Confalonieri e soprattutto la stima — ricambiata — di Giorgio Napolitano. L'ultima volta che l'ha ricevuta al Quirinale, il presidente della Repubblica teneva sulla scrivania il libro bianco di Fabrizio Barca, un dossier sulla spesa pubblica che l'economista aveva scritto ai tempi del governo Prodi e in cui era sottolineata la necessità di ridurre e riqualificare la spesa scolastica.

Con la Gelmini, Napolitano è stato finora comprensivo e incoraggiante, in pubblico, come ieri, e in privato: «Mi raccomando però — le ha detto — niente più decreti ». La strada del ministro resta difficile, le iniziative del Carroccio e i limiti di bilancio, incrociano le richieste di Regioni e sindacati. Perché la verità non sta mai da una parte sola, persino il Cavaliere ne è convinto. Non a caso mercoledì ha voluto parlare della riforma scolastica mentre si trovava a Bruxelles, stretto tra la crisi economica e il braccio di ferro sulle misure per il clima. E c'è un motivo se il suo messaggio si è concentrato sull'occupazione e sulle garanzie alle famiglie per il tempo pieno. Nelle pieghe del decreto ci sono ambiguità che vanno chiarite, anche per tenere aperto il dialogo con il sindacato. Sono parole che Berlusconi ha pronunciato ieri in Consiglio dei ministri, «va recuperato il dialogo con il sindacato che non è ideologizzato». Ovvero, va recuperato il rapporto con Cisl, Uil e Ugl per evitare che la Cgil li costringa allo sciopero generale del 30 ottobre.

Già la prossima settimana la Gelmini potrebbe convocare le confederazioni, anche perché sul pubblico impiego Tremonti pare disposto ad aprire i cordoni della borsa, cosa assai complicata se la richiesta non fosse venuta dal premier. Il fatto è che Berlusconi non vuole dare appigli agli avversari, il suo timore — in prospettiva — è che la scuola possa offrire un varco all'offensiva dell'opposizione, che le rigidità sulla spesa si trasformino in un tallone d'Achille del governo, finora inattaccabile a detta dei sondaggi. Il Cavaliere non rifarà errori come quello sull'articolo 18, ed è forse per prudenza che ha deciso di far sospendere un'iniziativa per il 25 ottobre, giorno in cui il Pdl avrebbe dovuto presentarsi nelle piazze d'Italia con i gazebo per raccogliere firme a favore della riforma scolastica: ha preferito non misurarsi con la manifestazione organizzata da Walter Veltroni.

In fondo, una ricerca commissionata da Berlusconi proprio sulla Gelmini ha dato «risultati eccellenti». Nel report si legge che «l'Italia profonda» concorda con la riforma della scuola, il gradimento arriva anche dai genitori i cui figli sono scesi in strada a manifestare: il grembiule viene identificato con «l'ordine», voto in condotta e maestro unico con il «rigore». «Dobbiamo andare avanti, dare una scossa. Bisogna innovare la scuola », ha commentato il Cavaliere. Che, manco a dirlo, ha aggiunto un altro settore: «... La scuola e la giustizia. Anzi, la scuola pubblica è messa peggio della giustizia. Perché, malafede a parte, i magistrati sono più preparati degli insegnanti ». Per sua fortuna la Gelmini non è Guardasigilli.

Francesco Verderami
18 ottobre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Silvio, i sondaggi e il «novembre caldo»
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2008, 10:03:40 am
Tremonti stringe rapporti con i leader sindacali contrari alla «deriva massimalista» Cgil

Silvio, i sondaggi e il «novembre caldo»

La linea del capo del governo: ora varare provvedimenti che smorzino la tensione


Per la prima volta nei sondaggi Silvio Berlusconi accusa un calo nel gradimento personale, «perché la faccia sui tagli ce la metto io», perché è lui il premier, ed è su di lui che si scaricano le tensioni sociali, le incertezze di un Paese che non sa come e quando uscirà dalla crisi. Sapeva che sarebbe andato incontro a un autunno caldo e a un inverno rigido per i morsi dell'emergenza economica, l'aveva messo in conto già in campagna elettorale. Ma se ieri fosse saltata la trattativa su Alitalia, il Cavaliere avrebbe «perso la faccia», come ha detto Umberto Bossi, e le ripercussioni sul governo sarebbero state pesanti. Perché sull'italianità della compagnia di bandiera aveva scommesso, e il fallimento di Az avrebbe provocato un pericoloso cortocircuito politico, amplificato mediaticamente — agli occhi dell'opinione pubblica — dagli scioperi della scuola, degli statali e dei metalmeccanici.

Raccontano che nelle ore più convulse Berlusconi abbia voluto capire se una «manina politica» si fosse inserita nei delicati equilibri della vertenza tra Cai e sindacati, e che l'incontro con Roberto Colaninno sia servito proprio a dissipare quei dubbi: il sospetto di «una trappola» scattata quando non ci sarebbe più stato il tempo per rimediare. Dubbi e sospetti che albergavano anche nella mente di Gianni Letta, a cui il premier aveva affidato il dossier. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio si attaccava al telefono, furente con «i sindacati confederali che fanno i furbi» e con quei «banchieri e industriali che ora si lamentano» per gli equilibri ai vertici della compagnia: «Ora, solo ora, dopo mesi che discutiamo...».

Nulla lasciava presagire simili rischi, se è vero che nei giorni scorsi Berlusconi aveva affrontato l'argomento con Bossi, offrendo «garanzie» sul partner straniero di Alitalia. «Anche Letizia Moratti è della stessa idea, bisogna puntare su Lufthansa», aveva chiesto il capo del Carroccio, e il Cavaliere lo aveva rassicurato. Insomma, non era questo il fronte che lo preoccupava, ed ormai erano lontani i giorni in cui nel governo aveva suscitato scalpore l'assenza di Giulio Tremonti dal tavolo della trattativa. «Se mi fossi seduto lì — aveva spiegato il ministro dell'Economia — avrei accreditato l'idea che lo Stato potesse intervenire per acquistare la compagnia». Erano e restano altre le emergenze che deve fronteggiare il premier, chiamato a dare risposte al Paese e alla sua maggioranza sulla crisi. Perciò non sono state casuali ieri le sortite dei capigruppo del Pdl, con Maurizio Gasparri che ha definito «prioritaria la difesa del potere d'acquisto per le famiglie» e Fabrizio Cicchitto che ha parlato di «misure allo studio da parte del governo».

Un classico gioco delle parti, con cui si punta a sgretolare il muro issato da Tremonti a tutela dei numeri della Finanziaria. Un'operazione combinata e assecondata da Berlusconi, convinto che l'unico modo per rispondere all'offensiva di piazza della Cgil e del Pd sia «varare misure che smorzino la tensione». È ormai chiaro che nel centrodestra si confrontano due modi diversi di approcciare la crisi, e Tremonti — conscio dell'accerchiamento — non è rimasto fermo. Da qualche tempo ha stretto rapporti con i leader sindacali contrari alla «deriva massimalista» della Cgil, ed è con loro che ha ragionato sul «nuovo mondo»: «Con il crollo del sistema siamo entrati in un mondo sconosciuto. L'impatto della crisi sul comparto produttivo sarà pesante e noi dovremo salvare il patrimonio umano».

Evocando i lavoratori, Tremonti ha fatto presa sugli interlocutori, assicurando risorse al ministro del Welfare Maurizio Sacconi per la cassa integrazione. E Sacconi, insieme a Tremonti, è stato ospite del convegno organizzato dalla fondazione Nuova Italia di Gianni Alemanno per un dibattito sull'economia sociale di mercato. Chissà se il titolare di via XX settembre ha illustrato la sua visione del futuro anche a Massimo D'Alema, con cui coltiva un intenso rapporto culturale, è certo che ai sindacati ha promesso di impegnarsi a favore delle fasce più deboli, come i non auto-sufficienti. Renata Polverini dell'Ugl confida che «arrivino risposte concrete»: «Il confronto è utile, ed è importante che le proposte siano condivise prima».

Tremonti è pronto alla contromossa, la prova sta nel breve intervento pronunciato ieri in Consiglio dei ministri: «Nel 2009 persino la Germania non crescerà. È con questo che dovremo fare i conti. Perciò, se pensassimo di muoverci con l'intento di invertire il ciclo economico, sappiate che il ciclo non lo invertiremo. Diverso è il ragionamento se volessimo muoverci per far vedere che cerchiamo di dare un po' di respiro alle famiglie, ai lavoratori». È il richiamo al «patrimonio umano da salvare». Ecco il modo in cui Tremonti mira a spezzare l'accerchiamento.

Francesco Verderami
01 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Silvio, il lupo, il leone e la volta che Bush non rise
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2008, 10:02:29 am
Sette giorni

Silvio, il lupo, il leone e la volta che Bush non rise

Le «frizioni» con Chirac e gli ultimi scontri con l’«amico» Sarkozy su clima e Petrella


Ieri sera la telefonata di Obama a Berlusconi ha salvato l’Italia da una polemica davvero surreale. La speranza è che per lunedì, quando si saranno sentiti anche il futuro vicepresidente americano Biden e Frattini, non ci sia più traccia di questo scontro politico in Italia.

Uno scontro che ha impegnato le energie del premier, del governo, di maggioranza e opposizione, e che non ha avuto per oggetto la crisi economica ma è ruotato attorno a un aggettivo. Non c’è dubbio che il Cavaliere fosse in buona fede quando ha dato dell’«abbronzato » al prossimo presidente degli Stati Uniti. Forse era spinto da un moto d’invidia e ammirazione per la giovinezza e lo charme di Obama, ma come gli ha ricordato Bossi non si può vivere fuori dai codici della diplomazia.
Invece Berlusconi ha continuato a battagliare con i Democratici (italiani), «perché non mi piego alla stupidità e alla malafede».

E dire che aveva cambiato registro, tornato a palazzo Chigi. Si era completamente affrancato dal complesso di inferiorità che lo aveva accompagnato agli esordi, quando—a torto—i Grandi della terra l’avevano accolto come un parvenu che presto sarebbe scomparso dalla scena. Al G7 di Napoli del 1994 aggiustò poltrone e microfoni agli ospiti, suscitando vivo stupore. Al vertice europeo di Corfù, dopo un lungo pranzo, cedette il passo a Mitterrand davanti alla toilette malgrado un’impellente esigenza. Il primo incontro con Chirac fu introdotto da un lungo istante di silenzio. «So cosa pensi di me», disse d’un tratto Berlusconi: «Che sono diventato presidente del Consiglio grazie alle televisioni». «Ma no, che dici». «Non importa. Sarò pronto ad appoggiare le vostre iniziative, a patto di venire consultato per tempo». «Sarà così». Chirac non lo chiamò mai.

Gli attacchi dell’opposizione per la battuta su Obama saranno anche stati venati di strumentalità, ma è stato il premier a prestare il fianco. Eppure dopo la vittoria elettorale, nelle Cancellerie si era preso atto della sua leadership, e Berlusconi aveva iniziato ad autodefinirsi «il saggio» della nuovo compagnia, il «socio anziano» del vecchio club. E non è che siano mancati in questi mesi momenti di tensione, persino con Sarkozy. Sul «caso Petrella», la terrorista che non è stata estradata in Italia, Berlusconi ha saputo celare la propria irritazione verso l’Eliseo, invitando anche il Guardasigilli a tenere un «profilo basso» nella vicenda.

Al Consiglio dei ministri di due settimane fa, discutendo sul «pacchetto clima » affidato a Ronchi e alla Prestigiacomo, ha allacciato pollici e indici delle mani per spiegarsi: «Io e il presidente francese siamo così. Ma amicizia non significa dire sempre sì». Mai si è scomposto in pubblico, sebbene alla cena di Villa Madama con gli industriali abbia rivelato alcuni aspetti spigolosi del carattere di Sarkozy: «...E comunque, capisco, vuole acquisire visibilità, imporsi come leader europeo e avere un ruolo internazionale. Ma sul clima dovrà mediare o non cederemo».

Ha parlato davanti al Congresso americano, ha organizzato il vertice di Pratica di Mare, vanta un legame strettissimo con la Russia di Putin, eppure rischia di venire ricordato solo per le sue battute. Obama non avrà riso l’altroieri. Una volta non rise nemmeno «l’amico George», e Berlusconi è intenzionato a inserire quell’episodio «nelle mie memorie quando sarà il momento».

«Il fatto — secondo il racconto del premier—risale alla vigilia della guerra in Iraq. Il conflitto sembrava ormai inevitabile e chiesi a Bush un incontro nella speranza di dissuaderlo. Andai a Washington, nella sala Ovale c’era il suo staff al completo. La tensione era alta, perciò decisi di affidarmi a una storiella per spiegarmi. "Caro George, c’era una volta un leone che appena vedeva il lupo lo riempiva di botte, urlandogli di tagliarsi i capelli. Il lupo si rivolse alla volpe perché mettesse fine a quella situazione, e la volpe accettò l’incarico: si recò dal leone e gli spiegò che non poteva continuare a percuotere il lupo senza motivo. Ma il re della foresta gli addebitava cappuccetto rosso, i tre porcellini... Allora la volpe lo invitò a trovare quantomeno un pretesto: chiedi al lupo di andarti a comprare le sigarette; se al ritorno ti avrà portato un pacchetto di morbide, lo colpirai dicendogli che le volevi dure. E viceversa. Quando il leone vide il lupo si comportò come gli aveva consigliato la volpe. Il lupo, sorpreso per non esser stato colpito, corse felice a comprare le sigarette. Ma per strada si bloccò, perché non sapeva che tipo di pacchetto acquistare. Così tornò indietro e alla vista del leone gli chiese: preferisci le morbide o le dure? Il re della foresta restò per un attimo spiazzato. Poi lo colpì: ti ho detto di tagliarti i capelli!". Tutti nella stanza si misero a ridere, solo Bush rimase silenzioso. E dopo qualche istante mi disse: "Silvio, tu hai ragione. Ma a Saddam farò fare la fine del lupo"». E non fu una battuta.

Francesco Verderami
08 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - E Letta il mediatore dice sì alla linea dura
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2008, 11:02:05 am
IL CASO ALITALIA

Berlusconi chiama Colaninno: il governo è al vostro fianco

E Letta il mediatore dice sì alla linea dura


L’allarme era scattato domenica. Berlusconi si era affrettato a chiamare i soci Cai per evitare che nella cordata si aprissero nuove crepe, tali da compromettere l’«operazione Az». E ancora ieri mattina il premier ha voluto sincerarsi che tutto filasse per il verso giusto.

Perciò Berlusconi ha sentito Colaninno ed altri imprenditori della società: «A tutti— racconta il Cavaliere—ho detto che il governo è al loro fianco, che li ringraziamo per quanto stanno facendo e che continueremo a seguirli, ad essere loro vicini». Le tensioni sindacali—culminate ieri con la paralisi dei cieli—avevano provocato nuove tensioni nella cordata, e il presidente del Consiglio lo riconosce quando spiega che «in momenti come questi sale la voglia di dire "ma chi me lo fa fare". Invece no, bisogna andare avanti. E così sarà».

Sull’«italianità della compagnia di bandiera» Berlusconi ci ha messo la faccia e non vuole sorprese. Il passaggio di questi giorni è stato certamente meno drammatico rispetto a quanto accadde il 31 ottobre, quando al momento della firma del contratto Cai fu sul punto di passar la mano, spiazzando il premier. Da allora il Cavaliere monitora quotidianamente la situazione, grazie a Gianni Letta. Il sottosegretario alla presidenza per una volta si è trasformato in falco, e per proteggere l’«operazione Az» ha avallato la linea dura del ministro Matteoli, con la precettazione dei lavoratori che ieri hanno aderito allo sciopero. Si è trattato di un segnale politico rivolto agli acquirenti di Alitalia ma anche ai sindacati confederali che avevano sottoscritto l’intesa, e che al riguardo avevano chiesto «garanzie» al governo e alla cordata. Palazzo Chigi le ha mantenute, e anche Cai — tramite l’ad Sabelli — ha assicurato che non convocherà più tavoli di trattativa per le sigle rimaste fuori dall’accordo.

Come non bastasse, l’esecutivo è pronto a nuove mosse se fosse necessario. Non è un caso che il titolare delle Infrastrutture abbia chiamato ieri Maroni, «perché— avvisa Matteoli — in caso di scioperi selvaggi dovrà essere il Viminale a intervenire. Non è pensabile che venga bloccato il Paese. Non lo tollereremo e non lo permetteremo». È il blackout del sistema a preoccupare il presidente del Consiglio, perché non c’è dubbio che l’opinione pubblica scarica per ora sui lavoratori di Az le responsabilità della paralisi nei cieli, ma se la situazione si protraesse a lungo sarebbe il governo a pagarne le conseguenze. La precettazione serve per prepararsi a ogni eventualità. Tuttavia, siccome — per usare un’espressione di Confalonieri — «Berlusconi non è la Thatcher», il Cavaliere confida che non si arrivi a un drammatico braccio di ferro, e dell’ex premier inglese preferisce citare un motto: «Chi governa non può abbattersi di morale». Berlusconi non vuol fare la parte della Thatcher, d’altronde non è questo lo scenario che si ipotizza a Palazzo Chigi.

Il prossimo via libera di Bruxelles alla vendita di Alitalia farà partire infatti il timing che porterà Az in mano alla Cai entro il primo dicembre. Ma Sabelli è al lavoro con gli avvocati perché già la prossima settimana si decidano i criteri di selezione e si passi all’assunzione del personale. Tutto dovrebbe quindi avvenire prima dello sciopero proclamato per il 25 novembre. I lavoratori a quel punto saranno posti dinnanzi all’aut aut: accettare le nuove condizioni o perdere la cassa integrazione. «A quel punto — come sottolinea Matteoli — chi non sarà più dipendente non avrà più titolo a entrare nelle zone aeroportuali ». Più chiaro di così... Il governo mette ancora in conto un periodo di disagi, il ministro delle Infrastrutture ammette che «l’operazione non sarà indolore». Nel frattempo Berlusconi continuerà a «star vicino» e a «ringraziare» gli imprenditori della cordata. Perché, fin dall’inizio, il premier sa qual è l’anello debole, la vera incognita dell’«operazione Az»: Cai.

Francesco Verderami
11 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Deluso da Pdl e Veltroni: e Letta perse la calma
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2008, 10:46:15 am
LA RAI - IL DUELLO

Deluso da Pdl e Veltroni: e Letta perse la calma

Sperava che Walter scaricasse il Di Pietro anti premier.

Gelo con la maggioranza: c'è chi ha remato contro
 


ROMA — A nessuno è consentito premere su Silvio Berlusconi, tranne a Gianni Letta. E ieri pomeriggio il sottosegretario ha premuto sul Cavaliere, ha usato toni e modi che solo lui può permettersi. Così è riuscito a convincere il premier che sul «caso Villari» non poteva restare in silenzio, che dopo la nota di Gianfranco Fini e la dichiarazione di Renato Schifani anche lui doveva invitare il neo-presidente della commissione di Vigilanza Rai a dimettersi, per onorare l'intesa bipartisan su Sergio Zavoli, per mettere in riga un pezzo di maggioranza «che ha remato contro», per porre termine a una vicenda dai risvolti surreali e che però non è affatto conclusa. Perché Villari non si è dimesso, anzi ieri sera ha inviato al dg della Rai Claudio Cappon la bozza del regolamento per le elezioni in Abruzzo. L'emergenza economica si aggrava, il Paese è minacciato da tensioni sociali fortissime, e la politica italiana si avvita in una crisi sulla tv di Stato: con il Quirinale che osserva con «forte preoccupazione» l'evolversi della vicenda, con i presidenti delle Camere costretti a spingersi ai limiti dello strappo istituzionale. È una partita con poche luci e molte ombre, dietro cui si celano la lotta intestina nel Pd, una guerra trasversale di potere sulla Rai nel centrodestra, e uno scontro generazionale che oppone i giovani emergenti del Pdl al plenipotenziario di Berlusconi. Gianni Letta, appunto.

Infuriato come non mai perché in Vigilanza i commissari di maggioranza hanno «disatteso gli accordi stabiliti», ma irritato anche con Veltroni per il modo in cui il segretario del Pd — a fronte dell'intesa siglata su Zavoli — non ha preso le distanze dalle parole pronunciate da Antonio Di Pietro contro il premier «corruttore politico», nè ha mosso un dito per le insinuazioni di Leoluca Orlando su Schifani. Al Cavaliere già l'altro ieri erano saltati i nervi: «Ma che accordo è questo? E in cambio di cosa lo facciamo?». E dire che il presidente del Senato si era trattenuto per non rispondere a tono all'esponente dell'Idv, «perché ricordo — ha raccontato ai suoi — come tentò di giustificarsi dopo l'intervista che aveva rilasciato al Corriere, quando mi disse: "No, Renato, non volevo accostare il governo all'Argentina dei colonnelli ma a quella di Peron"...». Di errori il leader democratico ne ha commessi tanti, però ieri pomeriggio — dopo il rifiuto di Villari a dimettersi — Fini e Schifani hanno vestito i panni istituzionali. Appena Veltroni ha informato il presidente della Camera che «da questo momento non parteciperemo più alle riunioni della Vigilanza», la terza carica dello Stato si è messa in moto. Temendo un nuovo e più grave stallo, ha invitato Villari a dimettersi con una nota che non ha precedenti nella storia parlamentare repubblicana.

A Fini non sarà mancata la copertura del Colle, e i timori che filtravano dal Quirinale si sono colti anche nei ragionamenti privati di Schifani, preoccupato per le «prospettive di un conflitto istituzionale» e per le «ripercussioni sui lavori di Camera e Senato»: «Si rischia una vittoria di Pirro». Come a dire che un successo politico su un Veltroni messo all'angolo, potrebbe tradursi in un danno per l'azione di governo. Toccava al Cavaliere la mossa successiva. Veltroni — dopo un colloquio telefonico con Gianni Letta — aveva spiegato allo stato maggiore del Pd che «Berlusconi non c'entra con questa operazione a favore di Villari», che «sono stati pezzi di An e di Forza Italia ad averla fatta». Ma è proprio così? Perché senza le pressioni del sottosegretario, il premier non sarebbe uscito allo scoperto, tentato dall'idea di sfruttare la situazione per muoversi successivamente come un panzer a viale Mazzini. E infatti ha tentato di resistere alle pressioni del suo braccio destro, sostenendo che «si tratta di questioni parlamentari».

Non risultano telefonate tra il Cavaliere e Schifani, eppure c'è una singolare coincidenza tra le parole usate nei suoi colloqui riservati dal presidente del Senato e quelle adottate dal sottosegretario a palazzo Chigi per convincere Berlusconi. Perché «con Villari al vertice della Vigilanza e con il Pd assente dalla commissione», «il percorso per arrivare al nuovo cda Rai si trasformerebbe in un Vietnam, e non si potrebbe nominare il presidente». Così il premier si è convinto al passo del comunicato. È presto per capire se Letta ha vinto, perché è riuscito certo a imporsi con Berlusconi dinanzi a «un pezzo di maggioranza che rema contro», ma restano ancora dei margini di ambiguità nell'operato del Cavaliere e nel centrodestra. Bastava sentire come ieri sera si è espresso Ignazio La Russa, che prima si è complimentato con il «bravissimo» Villari, poi con «la maggioranza che in Vigilanza ha fatto bene a non chiedergli di dimettersi», e infine con «Fini, Schifani e Berlusconi che hanno fatto prevalere il senso delle istituzioni invitando Villari a dimettersi». Ma Villari non si è dimesso. E i conti non tornano

Francesco Verderami

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Silvio e la strategia dell'attenzione
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2008, 11:12:59 am
Il retroscena

Silvio e la strategia dell'attenzione

Berlusconi e la strategia dell'attenzione per il ceto medio: detassazione a dicembre


ROMA — Per Berlusconi l'intesa Sarkozy-Merkel è al tempo stesso una buona e una cattiva notizia.
L'idea di allentare i parametri di Maastricht consente al premier di ottenere quanto finora Tremonti non gli aveva concesso in nome del Patto di stabilità: «Ora potremo usare un paio di miliardi per detassare almeno in parte le tredicesime». Perché è questo l'obiettivo a breve termine del Cavaliere, che mira in un sol colpo a conquistare il plauso di commercianti e artigiani, lavoratori e industriali, svuotando di significato lo sciopero generale indetto dalla Cgil, e lasciando il sindacato al proprio «errore». Il titolare di via XX Settembre si sta predisponendo al passo, per dare a Berlusconi quel che Bruxelles gli consentirà di dare. D'altronde il premier è determinato e non sente ragioni: il suo intento è recuperare il consenso perduto nell'ultimo mese, o meglio, evitare un'ulteriore erosione di credibilità nel rapporto con l'opinione pubblica. Dopo aver «coperto» settori importanti — da quello bancario a quello delle imprese — non può limitarsi a un intervento a favore di pensionati e lavoratori con stipendi di fascia bassa. È alla middle class che vuole inviare un segnale con il piano anticrisi, e la detassazione delle tredicesime gli garantirebbe un ritorno immediato: «Sarebbe una dose di ottimismo in un clima di sfiducia». E sarebbe solo il primo passo. Perché in prospettiva il premier tornerà a bussare alla porta di Tremonti, convinto che l'accordo tra Parigi e Berlino è anche una cattiva notizia per l'Italia, siccome preannuncia una politica aggressiva dei due Paesi che porrà «un problema di concorrenza di sistema». Cosa vuol dire, lo spiega la segretaria dell'Ugl: «Facciamo l'esempio del settore auto. Se Francia e Germania dovessero impegnarsi a favore delle loro industrie, l'esecutivo italiano come potrebbe esimersi da un intervento, dato che anche Obama l'anno prossimo dovrebbe farlo negli Stati Uniti?». La tesi della Polverini coincide con quella esposta da Epifani l'altra sera al vertice tra governo e parti sociali. Ed è proprio all'incontro di palazzo Chigi che Berlusconi ha disvelato la sua «strategia dell'attenzione». Il premier non credeva nè crede a un recupero della Cgil, sapeva che nulla l'avrebbe fatta recedere dallo sciopero generale. Ma voleva e vuole evitare di offrire pretesti. Ed è stato plastico il suo gesto iniziale, quando tra la folla di leader sindacali è andato a salutare Epifani: «Do la mano a lui per tutti».

La mossa istrionica non gli è stata suggerita da Gianni Letta, semmai il sottosegretario è stato il regista che preparato il vertice e che ha convinto il premier a prendervi parte. In questo modo Berlusconi ha legittimato i sindacati come interlocutori istituzionali e d'ora in poi sfuggirà all'accusa che comunque l'altra sera gli è stata rivolta: «Da quando è al governo non l'abbiamo mai vista a un tavolo ufficiale ». «L'emergenza richiedeva la sua presenza », lo ha difeso Letta. «E se sarà necessario — ha proseguito il premier — vedremo di convocare un altro incontro ». Il piano anticrisi è per Berlusconi il piano per uscire da un particolare tipo di crisi, legato non all'offensiva dell'opposizione ma alla perdita di consensi e alle fibrillazioni che inevitabilmente attraversano il centrodestra. Sa che l'operazione è limitata nelle cifre e nel tempo, e se lo avesse per un attimo dimenticato, ci ha pensato il leader della Cgil lunedì sera a ricordarglielo: «Noi siamo qui a discutere di interventi tampone. Da gennaio vorrei discutere di interventi strutturali». Gennaio è lontano per il Cavaliere, che al momento è concentrato a pressare Tremonti da una parte, e dall'altra a mostrarsi dialogante. Talmente dialogante da sorprendere tutti. Ieri per esempio ha stupito Giuliano Amato con quel discorso privo di spigoli pronunciato all'Assemblea degli industriali di Roma: «Non sembra nemmeno Berlusconi...», ha sussurrato l'ex ministro di Prodi. Il punto è che «Silvio non è la Thatcher », come dice il suo amico Confalonieri: non vuole andare allo scontro con la Cgil, non ne ha interesse, dato che «persino un pezzo importante del Pd non condivide la linea di Epifani».

Di più: dopo aver annunciato l'investimento di 16 miliardi per infrastrutture, addirittura Di Pietro si è detto pronto a collaborare con il governo. Ma è alla middle class che Berlusconi vuol dare risposte, perciò è tornato a bussare per le tredicesime. «E il nodo politico — secondo il segretario del Pri Nucara — sta nelle tensioni che attraversano il rapporto tra il premier e Tremonti. Sono loro che devono trovare una linea comune, che ancora non c'è, ma che si troverà». Il problema ruota attorno ai soldi. La Russa fa finta di riferirsi alle richieste di «Cgil e Pd» per accennare ai problemi interni: «Parlando delle richieste di opposizione e sindacati, Giulio racconta sempre la stessa storiella. C'è un tizio che entra in un bar e dice: "Caffè per tutti". Il barista chiede: "Chi paga?". E quello: "loro". Dove "loro" sta per ministero dell'Economia ». «Ed è facile governare facendo debito», commentava ieri Tremonti a un convegno. Berlusconi non poteva ascoltarlo. Era a palazzo Chigi, impegnato a rassicurare Confindustria sul protocollo di Kyoto: «Se Sarkozy non cambia il piano sul clima, porremo il veto. Quella roba lì è una minaccia per l'impresa italiana».

Francesco Verderami
26 novembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI I tormenti di Silvio che scruta i sondaggi
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2008, 08:42:49 am
Politica         

Malumori anche nel Pd. Carra: stiamo difendendo un miliardario australiano

I tormenti di Silvio che scruta i sondaggi

Al capo del governo tre punti in meno in 24 ore per il caso Sky. Lo sfogo col ministro: pago solo io


Scagli il primo decoder chi è senza peccato, e sul «caso Sky» né Berlusconi né il Pd sono immuni da colpe e omissioni. Il premier giura che non sapeva nulla della norma sulla pay-tv, «Tremonti non me ne aveva parlato». A parte la smorfia di La Russa, che non ci crede, il Cavaliere non poteva non sapere. In politica il teorema vale, specie per chi è presidente del Consiglio. Infatti Berlusconi è subito caduto nei sondaggi: tre punti secchi in meno, nel giro di ventiquattr'ore. Lui solo però, non il suo governo. Ed è la prima volta che un simile fenomeno accade. Tanto che l'altra sera il premier se n'è lamentato ad alta voce per telefono con Tremonti: «Pago solo io in termini di consenso. Capisci? Solo io. Ho perso cinque punti», gli ha spiegato gonfiando il crollo per drammatizzare la faccenda... L'aumento dell'Iva sulla tv satellitare ha fatto da moltiplicatore alla delusione dell'opinione pubblica.

Perché il «decisionista» Berlusconi aveva annunciato il pacchetto anti- crisi come «un'iniezione di fiducia e ottimismo»: ma la detassazione delle tredicesime — a cui teneva — non c'è stata, e la social card non l'ha convinto del tutto prima ancora di non convincere gli italiani. Poi è esploso il «caso Sky», che ha sfidato il Cavaliere con le sue stesse armi: marketing e spot, il volto di Ilaria D'Amico e la campagna di mail da inviare per protesta a palazzo Chigi. Un'operazione che ha stupito persino un duro come Confalonieri, silenzioso con la stampa, non con l'amico di una vita: «...Perché di iniziative a difesa di Mediaset ne ho fatte tante, Silvio, ma senza perdere mai il senso della misura». E ci sarà un motivo se anche il democratico Follini ha censurato l'offensiva mediatica di Sky. Nessuno può scagliare decoder in questa vicenda, nemmeno il Pd. Tremonti l'ha inchiodato al suo passato, al governo Prodi, rivelando il carteggio tra l'Ue e il Professore, che si era impegnato con Bruxelles a cambiare l'aliquota alla tv satellitare.

Così Berlusconi ha provato a distogliere l'attenzione dalla trave che ha nel proprio occhio, il conflitto d'interessi, denunciando in pubblico i «rapporti privilegiati del centrosinistra con Sky», e ricordando in privato che «Prodi quando stava a palazzo Chigi si faceva intervistare solo dal tg di Murdoch, mica dalla Rai». Molti esponenti del Pd ieri alla Camera evocavano i trascorsi «privilegiati » con il famoso «squalo». Come la festa per cento persone in una splendida villa romana sul Gianicolo, organizzata da Murdoch in onore dei maggiorenti diessini e diellini subito dopo la vittoria elettorale dell'Unione nel 2006. Terminata la cena, il tycoon si ritirò sotto un gazebo per ricevere a uno a uno i dirigenti del centrosinistra, dalla Melandri in giù. Ed è emblematico il gesto con cui Carra — che fu testimone del frenetico via vai sotto quel pergolato — preferisca sorvolare sull'episodio.

Questione di bon ton. «Mi limito a dire — commenta l'esponente del Pd — che noi oggi difendiamo i privilegi di un miliardario australiano contro gli asseriti privilegi di un miliardario italiano. È una storia che ci riporta ai tempi del Medioevo, quando si chiamava da fuori confine l'imperatore per regolare i conti con un signorotto di casa. È una storia che dovrebbe analizzare non un politologo ma il professor Cardini. Rende l'idea, incredibile, che noi non pensiamo a regolare il sistema, ma che pur di battere Berlusconi siamo disposti a mantenere il sistema scompensato».

Il centrodestra, per nascondere l'evidente scivolone, insinua sul passato ma anche sul presente «rapporto privilegiato» del Pd con Murdoch. «Noi della Lega non abbiamo una tv», ha detto ieri Bossi. Traduzione del forzista Napoli: «Si riferisce alle tv del Pd, che stanno nel bouquet di Sky. A una in particolare, Youdem, quella di Veltroni, che ha ottenuto un trattamento privilegiato e dal canale 787 sta per passare al 550, assai vicino a Tg24».
D'un colpo il Pd si è ritrovato sulla difensiva, con Tremonti che si è scagliato contro «quelli che hanno criticato i 40 euro della social card e ora difendono un paio di euro per Sky».

In un impeto di sincerità il veltroniano Realacci ha ammesso che «avrei fatto altre battaglie prima di questa, battaglie che interessano un maggior numero di cittadini e con maggiori problemi». Nonostante la confusione nelle file dei Democratici, sono i conti nel centrodestra a non tornare. Perché è il premier che è caduto nei sondaggi, perché era stato il premier in mattinata ad aprire uno spiraglio alla trattativa, tranne rimangiarsi tutto dopo lo stop arrivato da Tremonti.
Perché La Russa è il testimonial della rabbia di An, visto che «avevo chiesto quale fosse la copertura del decreto ma nessuno mi ha avvisato prima».
Perché dentro Forza Italia sono molti i dirigenti di primissimo piano a sussurrare quel che l'ex ministro Martino dice, e cioè che «Silvio si è dato la zappa sui piedi.

Anzi gliel'ha data Tremonti». E nei capannelli in Transatlantico i berlusconiani si sono subito divisi, tra quanti ipotizzano che il ministro dell'Economia abbia ambizioni politiche, e quanti invece vedono nel suo rigore finanziario un primo passo per una carriera internazionale.

Intanto va in onda lo scontro tra il Cavaliere e lo Squalo. Ma non erano amici?

Francesco Verderami
03 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI E Silvio fa i conti «La Lega mi ha stufato»
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2008, 11:38:59 am
Il pdl - i nodi

E Silvio fa i conti «La Lega mi ha stufato»

«L'addio alle Province è nei patti, quei soldi servono»

Lo scontro sulla giustizia è servito a Berlusconi per regolare i conti nella maggioranza, ristabilire i rapporti di forza e porre un paletto alla tattica movimentista della Lega, che stava stringendo accordi con il Pd sul federalismo.

Ecco il motivo per cui Berlusconi ha brandito il tema della magistratura come un'arma.


E non c'è dubbio che intenda riformarla, ma non è questa oggi la priorità: in cima ai suoi pensieri c'era e c'è la crisi. La giustizia è stata usata come un diversivo. Perché il Cavaliere è consapevole che la partita della legislatura si gioca sull'economia, ruota attorno a quella che Confalonieri ha definito la «sana dialettica» con Tremonti, e riguarda la linea da adottare per affrontare l'emergenza. Sostenendo che «non si può dialogare con l'opposizione», il premier ha voluto spostare l'attenzione dei media dalla crisi, e soprattutto mettere sull'avviso Bossi. Quando l'ha fatto, nel pomeriggio di mercoledì, si era già assicurato tre obiettivi: aveva appena sbloccato — dopo un braccio di ferro durato oltre un mese — i primi 16 miliardi da investire nelle infrastrutture; aveva ottenuto l'aumento «fino a un miliardo almeno» dei fondi per i lavoratori che dovranno ricorrere alla cassa integrazione; e — cosa importante — aveva garantito alla Gelmini il via libera per chiudere l'intesa con i sindacati sulla scuola, alla vigilia dello sciopero generale della Cgil.

Non è la giustizia, è la crisi economica che lo assilla, con i danni che rischia di produrre al Paese e in prospettiva anche alla stabilità del governo. Una stabilità che Berlusconi misura quotidianamente attraverso il termometro del consenso. E non è un caso se due giorni fa — annunciando una ripresa negli indici di gradimento — aveva spiegato il precedente calo nei sondaggi: «Colpa delle polemiche sull'Iva a Sky, e delle vicende legate alla scuola». La scuola prometteva di rimanere una minaccia, perciò ha impegnato Gianni Letta per arrivare al patto con i sindacati, mettendo nel conto che l'opposizione l'avrebbe criticato e si sarebbe attribuita il successo della vertenza. Ma il sentiero andava bonificato da quella mina. E l'intesa porta la sua firma. Come raccontava ieri il leader della Cisl Bonanni, «fino all'ultimo il Tesoro ha resistito, prima che Berlusconi si imponesse». Si era imposto la mattina precedente, durante un incontro a tratti molto teso con Tremonti e il titolare dell'Istruzione. A quell'incontro era seguito un vertice che il premier ha rivelato durante la presentazione del libro di Vespa: «Ci siamo appena visti con Tremonti, Scajola e Fitto...». Non ha detto in pubblico quel che ha spiegato ai suoi collaboratori, e cioè che «la riunione è stata accesa ma indispensabile».

È stato dopo quel vertice che è andato allo scontro sulla giustizia con il Pd. Berlusconi ha parlato a Veltroni perché Bossi intendesse. Lo spiega senza mezzi termini il fedelissimo Valducci: «È tutta una partita interna. Sembrerà un paradosso ma c'è un motivo se Berlusconi cita i sondaggi, perché con quelli è costretto a governare. Nel senso che, appena ha avuto un momento di flessione, hanno cercato di metterlo in difficoltà. Sulla scuola è stata la Lega, sull'Iva per Sky è stata An. Così, appena si è rilanciato nel rapporto con l'opinione pubblica, ha voluto farsi sentire». A Bossi che ieri gli rammentava l'accordo sul federalismo, il premier ha ribattuto ricordandogli che «l'abolizione delle province è parte del mio programma». Da tempo preme perché si intraprenda il percorso, «con i soldi risparmiati potremmo fare molte cose, invece...». Invece la Lega ha sempre risposto picche, «e io mi sono stufato». Si è stufato di sentirsi dire che non ci sono fondi: ha dovuto ingoiare il rospo della mancata detassazione delle tredicesime e ha ottenuto in cambio solo la social card, che non lo entusiasma. È a caccia di soldi Berlusconi, in vista di un 2009 che si preannuncia economicamente duro e politicamente importante, perché incrocerà il test delle Amministrative e il voto per Strasburgo. Certo, l'economia italiana non è minacciata dai mutui che negli Usa hanno avuto l'effetto di un ordigno sul sistema, ma può esser minata dal credito al consumo, che agisce come un cecchino sui singoli cittadini e rischia di spezzare il meccanismo. Il vertice di mercoledì con Tremonti, Scajola e Fitto è servito al premier per vederci chiaro: sul piatto ci sono infatti 110 miliardi, tra fondi europei e fondi per le aree sottoutilizzate. Come verrà spesa questa montagna di soldi? Ecco la partita della legislatura, non la giustizia.

Francesco Verderami
12 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il Palazzo teme l'assedio: arriva la bufera
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2008, 12:34:29 am
La Roma politica

Il Palazzo teme l'assedio: arriva la bufera

I boatos su nuove mosse della magistratura nei confronti dei massimi esponenti del Pd


ROMA — «Noi non accettiamo di farci intimidire». Perché anche lei ha sentito i boatos di Palazzo che danno per imminente un coinvolgimento dei vertici del Pd nel tritacarne giudiziario, «anche a me sono giunte certe voci», dice il ministro ombra Linda Lanzillotta. Sono le stesse voci che la cattolicissima Paola Binetti — con agganci porporati oltre Tevere — aveva sussurrato di buon mattino a un deputato laziale rimasto senza fiato: «La procura di Roma sta per muoversi. Tu capisci...».

Ovviamente ha capito. Non sarà una nuova Tangentopoli, ma i meccanismi somigliano a quelli che negli anni Novanta spazzarono via un'intera classe dirigente. Certo, c'è chi prova a sdrammatizzare, come Ermete Realacci, che ha dovuto calmare la sua segretaria in preda al panico: «Onorevole, c'è un ispettore di polizia qui fuori che la cerca». «Fallo entrare, sarà venuto per gli auguri». Il venticello che è tornato ad alzarsi dopo tanto tempo, scatena nel Pd sentimenti contrapposti. Anche Realacci ha sentito uno strano refolo, «se così fosse, se puntassero a colpirci ai massimi livelli, allora reagiremmo con fermezza. Perché non tutto quel che ha fatto la magistratura si è poi rivelato fondato». Ieri nell'Aula di Montecitorio i deputati democratici hanno prestato più attenzione alla lettura delle intercettazioni pubblicate dai giornali che alle votazioni sui decreti. La sensazione dell'assedio ha richiamato alla mente di Luigi Nicolais le difficoltà politiche di Veltroni: «Povero Walter, sta preso dai turchi». Quel modo di dire meridionale rende l'idea dell'accerchiamento: «E noi siamo preoccupati. Ma cosa possiamo fare? Siamo prigionieri — giustamente a mio avviso — della nostra linea. Abbiamo sempre combattuto contro la strategia berlusconiana dell'attacco ai magistrati. Ora dovremmo metterci in scia? Perderemmo tutto».

Ma non tutti la pensano a quel modo nel Pd. La Lanzillotta ritiene che proprio assoggettandosi al giustizialismo «il partito perderebbe, perché si mostrerebbe impotente»: «Per questo va separato l'aspetto giudiziario da quello politico, va spiegato che noi non ostacoleremo le inchieste, ma che al tempo stesso ci impegneremo per contribuire al varo di una riforma della magistratura. Senza una riforma condanneremmo il Paese all'immobilismo per altri vent'anni». Lo dirà anche oggi alla direzione del Pd: «Servono le riforme». La sua, quella sui servizi pubblici locali, non vide la luce «ostacolata come fu, in modo trasversale, anche da alcuni dei personaggi che ora sono coinvolti nelle inchieste». Quella vischiosità la riconosce oggi nei boatos su nuove iniziative giudiziarie che riguarderebbero i massimi esponenti del Pd. Quelle voci sono interpretate insomma come un segnale: «D'altronde — chiosa maliziosamente — ci sono tanti pezzi di potere in Italia che fanno resistenza al cambiamento». Raccontano che Veltroni non citi mai la parola complotto, ma parli di «singolari coincidenze».

E comunque l'affanno dei democratici si coglie nel linguaggio del corpo, nelle frasi lasciate a metà, nell'assenza di solidarietà che Salvatore Margiotta misura non su se stesso ma «sull'amico Lusetti». La Camera aveva appena votato contro l'autorizzazione all'arresto del deputato, coinvolto nell'inchiesta sul petrolio lucano. Dunque Margiotta avrebbe potuto limitarsi a poche parole di circostanza, invece ha rivolto un pensiero «a Renzo»: «Perché appena Italo Bocchino è stato tirato dentro le vicende giudiziarie in Campania, Ignazio La Russa è intervenuto in sua difesa. Per Renzo, Renzo Lusetti, nessuno ha speso una parola nel Pd». C'era un misto di sconforto e di comprensione: «Io li capisco i miei, però... Evito di pensare ai teoremi per non impazzire, ma... Certo, la preoccupazione che su certe vicende si parta dal territorio per arrivare a Roma...». I democratici sono posti dinnanzi a un bivio, anzi secondo il politologo Gianfranco Pasquino, i crocevia sono due: «Il primo è che il Pd ha problemi con la giustizia e farebbe meglio a riconoscerli, se non vuol perdere la credibilità rimasta. Per esempio, sarebbe stato meglio se Massimo D'Alema avesse autorizzato l'uso delle intercettazioni che lo riguardavano sul caso Unipol. Il secondo crocevia è decisivo: se il Pd pensasse di risolvere la questione con una collusione politica con il Pdl, si autodistruggerebbe e non ci sarebbe più un'alternativa di governo al centrodestra, perché il campo del centrosinistra sarebbe dominato da Antonio Di Pietro».

Gli scranni dei deputati democratici confinano con quelli dell'Idv, ma è come se tra i due gruppi ci fosse ormai un check point Charlie. Perciò in pochi si sono accorti che la dipietrista Silvana Mura porta sul viso il segno dello scontro politico con gli «alleati». Quel livido sulla guancia è una metafora: gliel'ha provocato un faldone pieno di firme per il referendum contro il lodo Alfano che le è caduto addosso. L'Idv è il gemello siamese da cui il Pd vorrebbe staccarsi. Ma non può farlo né dirlo, così tocca a Francesco Cossiga spiegare quel che i democratici osano appena sussurrare. E cioè che «i magistrati stanno aiutando Di Pietro, l'unico che può chiedere loro di non infierire sul Pd. L'unico a cui danno ascolto e anche una mano. Perché nelle inchieste — spiega Cossiga — i pm si fermano davanti all'Idv. Mi dicono che a Napoli avevano trovato qualcosa su qualcuno, ma non si sono mossi. D'altronde Tonino li difende, e loro devono pur avere un partito di riferimento in Parlamento...».

Francesco Verderami
19 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il sistema Roma e Alfredo l'«amico di tutti»
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2008, 12:14:21 pm
IL CASO NAPOLI:L'INCHIESTA

Il sistema Roma e Alfredo l'«amico di tutti»

L'avvocato Pellegrino jr: «Feci ricorso contro di lui, mi dissero di essere prudente»


Questa finora è una Tangentopoli senza tangenti, un'inchiesta penale sul malcostume politico e non sul malaffare. Il rischio quindi è che in assenza di prove e di reati finisca per andare assolto anche il malcostume. Perché non era certo virtuoso il «sistema» che ruotava attorno all'imprenditore Alfredo Romeo, e che da Napoli si è espanso fino a Roma. A Roma quel «sistema» c'è chi l'ha visto da vicino, come Gianluigi Pellegrino, figlio dell'ex senatore Giovanni Pellegrino, che negli anni di Mani pulite fu uno dei pochi, sinceri garantisti del Pci-Pds. Del padre Gianluigi avrebbe desiderato seguire le orme politiche, ha invece preso le redini dello studio legale. E da avvocato si è imbattuto in Romeo, difendendo una società concorrente nella gara da 576 milioni decisa dalla giunta di Veltroni per la manutenzione delle strade capitoline.

LE «SQUADRE» - «A questo tipo di gare - spiega Pellegrino - si partecipa di solito in squadra, in modo che le imprese si dividano i ruoli. Nella squadra di Romeo c'era un imprenditore, Luigi Bardelli, che era stato consigliere d'amministrazione di una società pubblica, "Risorse per Roma". Cioè proprio l'ente che aveva predisposto gli atti per il bando della gara su incarico del Comune. Denunciai la cosa per conto della Manital, la società che assistevo, e decidemmo di ricorrere al Tar, chiedendo che la squadra di Romeo venisse esclusa, perché in potenziale conflitto d'interessi». Fu allora che l'avvocato iniziò a capire chi fosse l'immobiliarista arrestato giorni fa a Napoli: «Non l'ho mai incontrato, ma mi sembra di conoscerlo. Perché dopo il ricorso molte persone iniziarono a parlarmi di lui, a invitarmi alla prudenza. "Sai, è un tipo dinamico e anche molto potente". Di più "è un intoccabile"». Pellegrino sostiene che «nessuno mi ha fatto nomi dei suoi amici. Forse perché era amico di tutti. Se posso chiosa giocando sul nome dell'imprenditore - direi che il Romeo aveva molte Giuliette in politica».
È ormai noto che il Tar diede ragione alla Manital, ma quello che Pellegrino contesta è il modo in cui è stato raccontato il resto della storia: «Non è vero che il Consiglio di Stato diede poi ragione a Romeo. Disse piuttosto che la Manital, per ragioni di forma, non poteva partecipare alla gara e dunque non poteva presentare il ricorso. Insomma, non sentenziò che l'aggiudicazione dell'appalto a Romeo fosse legittima». Il dettaglio non è di poco conto, se è vero - come sottolinea l'avvocato - che «il Comune non ha mai firmato il contratto con Romeo, ma gli ha assegnato i lavori per la manutenzione della rete viaria con un affidamento provvisorio». Grazie a questo escamotage «ancora oggi, dopo che il nuovo sindaco ha revocato l'incarico, ci sono i cantieri di quella società per le strade di Roma. E l'atto di revoca resta un passaggio delicato: se venisse redatto male, Romeo potrebbe impugnarlo e citare per danni il Comune».

PARADOSSO ALL'ITALIANA - Sarebbe davvero clamoroso, un tipico paradosso all'italiana, l'effetto perverso dei bizantinismi giuridici che consentono di trovare scappatoie. Sia chiaro, non c'è una prova del malaffare, almeno non c'è ancora. Tuttavia è evidente il segno di un malcostume politico «gravissimo e diffuso», per certi versi ancor più pericoloso del reato. «In effetti - commenta Pellegrino - se è condannabile solo ciò che è reato, c'è il rischio che il malcostume dilaghi. D'altronde chi, volendo trarre profitto e sapendo di non pagar dazio, resisterebbe a continuare nella pratica? Perciò chi si è macchiato di queste colpe dovrebbe fare un passo indietro». Il dito è puntato contro l'ex amministrazione romana, contro «il muro di gomma della burocrazia che si faceva forte degli appoggi politici, nel silenzio dei media. Alcuni giornali di destra, a dire il vero, ci diedero voce». Per il resto fu una battaglia combattuta con la carta bollata, «presentammo molte diffide chiedendo che venisse revocata l'aggiudicazione dell'appalto. Fu tutto vano. Eppure il sistema di controllo c'era, se solo la giunta comunale avesse voluto ascoltarci». Perché nessuno lo fece? «È la domanda che mi faccio da tempo e alla quale non so dare risposta», sospira Pellegrino. Come il padre è di centrosinistra, «lo sono per convinzione prima ancora che per filiazione », per questo è amareggiato dai segni di degrado politico della sua parte. Ed è preoccupato dall'inchiesta giudiziaria, «temo che l'elefante partorisca un topolino». Come il padre è un garantista, e sa che non spetta alla difesa dimostrare l'innocenza cristallina. Tocca all'accusa l'onere della prova. Epperò fuori dalle aule di giustizia resta il problema del malcostume, di quel «legame forte e diffuso tra politici e imprenditori » che ha avuto nell'«intoccabile » Romeo uno dei protagonisti. Uno, non l'unico.

Francesco Verderami
20 dicembre 2008

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Gianfranco e il premier
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2009, 12:23:27 am
Il retroscena

Gianfranco e il premier

L'ultima lite è sul Pdl

E la nascita del nuovo partito rischia di essere posticipata


ROMA — Non si parlano. Non si vedono. Non si sentono. E soprattutto non si sopportano. Ma le differenze di carattere non c'entrano: lo scontro tra Berlusconi e Fini è politico, è la manifestazione di profonde divergenze sul modo in cui sta nascendo il Pdl, «e siccome le tensioni si stanno riverberando sul governo, c'è il rischio — ammette il forzista Valducci — che la nascita del nuovo partito sia posticipata». Eppure il premier aveva già fissato la data delle assise: il 27 marzo, giorno della vittoria elettorale nel '94. Perciò La Russa, plenipotenziario di An, non crede ad un rinvio, «anche perché se ci fosse un ritardo, non si tratterebbe di un ritardo». Diverrebbe un problema serio.

Tuttavia che esista l'ipotesi di un «rinvio» lo s'intuisce dal vertice che Berlusconi ha convocato oggi con i ministri azzurri e lo stato maggiore di Forza Italia. Si parlerà anche di Pdl, «ed è evidente — sussurra uno dei partecipanti — che siamo in presenza di una crisi di rigetto, per quanto piccola. Si tratta di mettere insieme due modi di far politica. Anzi, due mondi». Il Cavaliere resta legato all'idea che tempo addietro il suo amico Confalonieri raccontò così: «Sarà un'autentica rivoluzione culturale. Nascerà un partito un po' lasco, senza le caratteristiche di un partito tradizionale ma — confidò il patron di Mediaset — strutturato in modo tale da sopravvivere comunque a Berlusconi. Sarà il suo lascito: un partito conservatore italiano». È nella «struttura» che le idee del presidente della Camera divergono da quelle del premier, «e c'è un solo modo perché il Pdl veda la luce», dice il segretario del Pri Nucara: «I due si devono parlare e mettere d'accordo. Altrimenti il progetto non reggerà ».

È vero che tanto il Cavaliere quanto il leader di An sono determinati ad andare avanti. «Indietro non si torna», precisa Berlusconi. Anche Fini è dello stesso parere. Lo spiegò alcune settimane fa, in un colloquio riservato in cui si intravedevano già le avvisaglie della tempesta: «La situazione è difficile ma non cambierà nulla. Berlusconi ha intenzione di continuare a governare a colpi di decreti e fiducia. Tremonti decide tutto di testa sua. Bisognerebbe invece muoversi in altro modo. Io farò il presidente della Camera. E poco importa se di volta in volta scriveranno che faccio il ventriloquo di Napolitano, che miro al Colle o a sostituire Berlusconi. Non ci faccio più caso. La verità è che non perdo di vista il Pdl. Quello è un grande obiettivo».

L'obiettivo è comune, però il crescendo degli scontri rischia di danneggiare il progetto. Perché non c'è dubbio che alle Europee ci sarà la lista unica, ma in quale contesto? I contrasti tra Berlusconi e Fini tolgono energie che servirebbero a contenere l'offensiva leghista, sempre più «partito di lotta e di governo», come lo definì Matteoli, sempre più orientato a una logica di «mani libere » nell'alleanza: i casi Alitalia e tassa per gli immigrati lo dimostrano. «In effetti — dice La Russa — negli ultimi tempi la Lega va a caccia di consensi nel nostro elettorato. In una coalizione esiste un dovere di lealtà tra alleati e il diritto di ogni singola forza a preservare il proprio patrimonio elettorale. Noi dovremo iniziare a esercitare con maggior vigore il nostro diritto». Berlusconi continua a ripetere che «con Bossi non ci sono problemi», ma dopo il vertice del lunedì Castelli ha costretto Gianni Letta a smentire pubblicamente di aver tifato per Air France nella partita Alitalia, e Maroni ha rilanciato la tassa per gli immigrati, preannunciandone l'inserimento nel ddl sicurezza.

Tra il premier e il ministro dell'Interno si è infine trovata un'intesa che sa però di vittoria per la Lega: non si chiamerà tassa ma «contributo» per rilasci e rinnovi dei permessi di soggiorno, simile a quanto previsto in molti Paesi europei. Anche Fini sarebbe d'accordo. Rimangono i contrasti tra il leader di An e il Cavaliere. «Devono parlarsi », sospira il forzista Lupi. Anche perché la situazione sarà pure diametralmente opposta rispetto alla scorsa legislatura — per numeri e stabilità politica — ma l'immagine di rissa continua che da tempo offre l'esecutivo all'opinione pubblica fa tornare in mente il governo Prodi.

Francesco Verderami
14 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI. Voto locale, la Lega pensa allo strappo
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2009, 03:08:55 pm
Sette giorni. I lumbard si preparano a «battere cassa» alle amministrative

Voto locale, la Lega pensa allo strappo

E fa un sondaggio per «misurarsi»

Sospetti nel Pdl, mentre nel Carroccio cresce la voglia di andare da soli


MILANO - Berlusconi e Umberto Bossi non si erano già messi d'accordo? Non avevano già deciso di andare insieme al voto alle prossime Amministrative? Invece no, l'intesa non c'è. Almeno non c'è ancora. Così il documento che il Cavaliere aveva fatto predisporre rimane senza firma.

«L'intesa si farà, Umberto l'ha promesso», ha detto il premier al recente vertice forzista. A parte il fatto che c'è una certa differenza tra un'affermazione di principio e un accordo elettorale, cosa ne è stato del patto stipulato dal Cavaliere e il Senatùr a settembre, durante la cena a palazzo Grazioli alla quale partecipò anche Renzo Bossi? Le Amministrative erano ancora lontane, eppure Berlusconi volle sincerarsi di «certe voci che arrivano dalle regioni»: «Sento troppa confusione, Umberto». «C'è qualche rompiballe, ma non ti preoccupare». «Niente scherzi, eh?». «Tranquillo, si va insieme dappertutto». Ora, siccome quel copione si ripetè in Consiglio dei ministri, quando il governo approvò il testo sul federalismo, ci sarà un motivo se ieri il capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto ha pubblicamente chiesto alla Lega di «prepararsi per tempo» in vista delle Amministrative, «dove andranno presentate liste unitarie»: «Perché l'alleanza va rispettata. Non possono pensare di andare da soli al primo turno».

Invece nel Carroccio si accarezza questa ipotesi. Emanuela Dal Lago, ex presidente della provincia di Vicenza e attuale vice capogruppo dei deputati leghisti, avvisa intanto che «prima di definire le intese c'è da aspettare il voto sul federalismo. Poi, personalmente non credo che sul territorio ci sia bisogno di alleanze fotocopia rispetto a quella nazionale o a quelle regionali. La decisione spetta a Bossi, tuttavia ritengo che la Lega per le Amministrative dovrebbe essere più libera, più se stessa, assumere il rischio di correre da sola al primo turno. In fondo con il Pdl non ci siamo mica sposati».

Il segnale arriva dal Veneto, dove i «padani » sono ormai il primo partito, e nei sondaggi vengono accreditati di percentuali che nemmeno la Dc dei tempi d'oro. In Veneto cinque province andranno al voto. In Lombardia otto. In Piemonte sei. E Bossi — lasciando liberi i suoi di minacciare il Pdl — si prepara a batter cassa. Di più: la Lega ha commissionato un sondaggio per verificare quanto prenderebbe se corresse da sola, per esempio nelle regioni rosse. Un modo per alzare ulteriormente il prezzo, sapendo che Berlusconi dovrà concedere. Perché il premier non può permettersi gli «scherzi», perché il 6 e 7 giugno non solo si terrà il più importante test di elezioni locali, con il rinnovo di 73 province e oltre 4000 comuni, ma ci sarà anche il voto europeo. Se la Lega si slegasse, l'effetto trascinamento potrebbe essere devastante per il Pdl nella competizione per Strasburgo. Secondo i calcoli del professor Paolo Natale, pubblicati da Europa, il Carroccio raddoppierebbe la rappresentanza: da 4 a 8 seggi. Il fatto è che ne sottrarrebbe un paio a Berlusconi. È al primato nordista che punta il Senatùr, in vista della trattativa per le Regionali.

Tra gli uomini del Cavaliere c'è grande allarme. Il problema è stato affrontato al vertice forzista presieduto da Berlusconi, che ha definito «indispensabile » l'intesa al primo turno con il Carroccio: se i leghisti avessero «mani libere», potrebbero forzare sulle loro parole d'ordine: federalismo, immigrazione, patto di stabilità dei comuni, versione moderna di «Roma ladrona». Con danni elettorali ma anche di governo. Raccontano che il Cavaliere si sia infuriato scorrendo i sondaggi locali: «Hanno gente brava. Hanno giovani. Hanno la base. Controllano il territorio. Noi dove siamo? ». Bossi c'è. E nei comuni con meno di 15 mila abitanti è pronto ad annunciare che la Lega correrà da sola. Berlusconi sarà costretto ad accettare, nonostante i dirigenti locali del Pdl siano già in rivolta, perché è proprio da quei comuni che il Carroccio prende la sua forza. Fossero tutti questi i problemi del premier...

Francesco Verderami

17 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI. - E Bossi dà i due mesi a Giulio. (è un gioco. ndr)
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2009, 01:04:08 pm
Il retroscena

E Bossi dà i «due mesi» a Giulio

«A marzo voglio i conti».

Spuntano vecchie stime: per il federalismo fiscale non bastano 100 miliardi
 
 
ROMA — «Fino a marzo. Tremonti ha chiesto tempo fino a marzo, e noi gli daremo tempo fino a marzo». E Bossi, mentre parlava attorniato dai deputati leghisti, continuava a scrivere una ruvida lettera che di lì a poco avrebbe inviato al ministro dell’Economia. Una settimana fa le tensioni tra il senatur e l’«amico Giulio» erano arrivate all’apice: l’emendamento che consentiva a Roma di sforare i limiti di spesa regolati dal patto di stabilità per i comuni, aveva scatenato la polemica dei sindaci nordisti del Carroccio.

Quel giorno, dinnanzi alla rivolta dei suoi parlamentari, Bossi aveva convocato il gruppo della Camera e aveva esortato Tremonti a partecipare alla riunione per spiegare la questione. Ma il titolare di via XX settembre aveva declinato l’invito, facendo per di più sapere che il patto di stabilità non andava toccato, altrimenti non solo sarebbero saltati i conti ma prima ancora si sarebbe dimesso lui.

Chissà se la mossa del leader leghista, quella lettera, sia stata dettata da un sincero moto di stizza o se invece sia stato un colpo di teatro inscenato per placare gli animi dei suoi e convincerli a votare la fiducia al decreto anti-crisi. È certo che Bossi ha parlato di «marzo» come di una sorta di tempo limite: «Tremonti dice che deve fare i conti, che sta cercando di risparmiare i soldi per il federalismo fiscale. Staremo a vedere». Quella sorta di time-out serve al ministro dell’Economia, in attesa di nuovi appuntamenti europei, e soprattutto della trimestrale di cassa: perché c’è più di un timore sul crollo degli introiti derivanti dall’Iva, «e noi—ripete ogni volta Tremonti — dobbiamo stare attenti alle agenzie di rating: se declassassero il nostro debito sarebbe un disastro», vista la concorrenza dei titoli di Stato tedeschi e francesi. A marzo forse la situazione sarà più chiara, sebbene nessuno ne abbia certezza. Quando Tremonti dice che «si naviga a vista», è perché finora ogni previsione è saltata: l’anno scorso, a governo appena insediato, si riteneva che l’impatto della crisi in Italia sarebbe avvenuto in settembre, poi si spostò tutto a dicembre, e ora al primo semestre del 2009.

A marzo forse il ministero dell’Economia fornirà alla Lega ciò che chiede da tempo, e cioè una proiezione dei costi del federalismo fiscale, che ancora non c’è. «Eppure qualche dato ci dev’essere», andava ieri a memoria il sottosegretario Crosetto: «Se non ricordo male, durante il passato governo Berlusconi venne fatto uno studio. Il costo della riforma calcolato allora era superiore ai cento miliardi». Un’enormità di questi tempi. Perciò Tremonti invita gli alleati a un sano realismo. L’ha fatto capire ieri in Aula al Senato, svelando una verità che tutti già conoscevano: «Nell’attuazione del federalismo fiscale terremo in considerazione il vincolo esterno, cioè fare la riforma in un contesto di crisi. E l’obiettivo del governo è evitare che l’attuazione del federalismo finisca per intensificare e prolungare la crisi». Traduzione: non possiamo appesantire i conti pubblici.

Rispetto alla scorsa settimana le tensioni con la Lega sono diminuite, ma restano latenti. Lo testimoniano alcune battute salaci su Tremonti fatte da Bossi con autorevoli esponenti del Pdl. Ne sono prova i brusii dei senatori leghisti quando ieri il titolare dell’Economia ha detto all’Assemblea di palazzo Madama che «non è ancora possibile stimare i costi della riforma», elencando così tante variabili da prefigurare la difficoltà dell’operazione. Le parole di Tremonti hanno creato un problema al Carroccio, che attraverso il ministro Calderoli ha lavorato all’intesa con il Pd. Ora i democratici sono invece propensi a votare contro la riforma. Rischiano di spaccarsi, è vero. Ma non appoggiando il provvedimento metterebbero in crisi il progetto leghista, che mirava a una riforma condivisa con l’opposizione.

La partita sarà comunque lunga e complessa. Il momento della verità arriverà con i decreti attuativi, quando il ministro dell’Economia dovrà fornire i soldi per la riforma. Sarà allora che «Giulio» e «Umberto» metteranno alla prova il loro rapporto. Nessuno dei due intende anticipare i tempi: Tremonti perché confida in una situazione economica migliore, Bossi perché vuole che il federalismo venga varato definitivamente a ridosso delle Politiche del 2011. Avrebbe la campagna elettorale già fatta.

Francesco Verderami
22 gennaio 2009

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI E Silvio ruppe gli indugi «Serve un miliardo»
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2009, 01:17:35 pm
Retroscena

E Silvio ruppe gli indugi «Serve un miliardo»


Prima dell'annuncio il premier non ha avvisato nessun rappresentante del governo. Nemmeno Gianni Letta. E sono molte le ragioni che l'hanno spinto a ufficializzare proprio ieri un vertice per interventi a sostegno del settore automobilistico. Perché proprio ieri Confindustria ha chiuso la trattativa sui contratti, ennesimo segnale di un rapporto di collaborazione con l'esecutivo.

Dopo aver risposto agli appelli del premier anche sulla salvaguardia dell'«italianità» di Az, il mondo delle imprese chiedeva a Berlusconi di non far cadere nel vuoto la richiesta di aiuto. E il Cavaliere ha risposto, mettendo dinanzi al fatto compiuto Tremonti. Il titolare dell'Economia è chiamato a un ruolo difficile in questo tornante della crisi, e sa di trovarsi nel centro del mirino. L'ha confidato lunedì scorso, durante la riunione dell'Aspen che si è tenuta a Milano: «Mi pressano tutti, e tutti chiedono solo una cosa. Soldi. Ma i soldi non ci sono». Dovrà trovarli per il comparto auto, così ha deciso Berlusconi, convinto che - dopo la compagnia di bandiera - si debba salvaguardare «un altro importante asset italiano». Il premier si sarebbe rafforzato nelle proprie certezze dopo alcune chiacchierate con Alfredo Cazzola, il suo candidato sindaco per Bologna, l'inventore del Motorshow. E comunque erano chiari i messaggi che gli erano giunti da Confindustria, e che ieri sera la Marcegaglia ha esplicitato all'incontro tra governo e parti sociali: «È necessario un intervento a favore del settore automobilistico, se si vuole salvaguardare il sistema Paese». Perché Tremonti ha ragione a temere la concorrenza dei titoli di Stato di Parigi e Berlino, ma Berlusconi teme che la concorrenza di francesi e tedeschi in alcuni settori industriali possa mettere in ginocchio l'Italia.

Ci sarà un motivo se per la prima volta ieri il premier ha evocato il rischio di un «nuovo Ventinove», se dopo aver fatto pubblicità ai titoli Eni ed Enel, ieri ha esortato a non cambiare tenore di vita così: «Se una famiglia aveva programmato l'acquisto di un'auto, e se la può ancora permettere, perché non deve farlo?». Si vedrà se l'aiuto pubblico sarà sotto forma di incentivo per la rottamazione o di un fondo a favore dell'innovazione tecnologica. Fonti autorevoli del governo, sulla base di conti ancora molto sommari, stimano un intervento dello Stato tra gli ottocento milioni e il miliardo. «Quando sono in ballo quasi cinquecentomila posti tra dipendenti e indotto - dice il presidente della commissione Lavoro della Camera, Saglia - non si può parlare di favori alla Fiat, ma di sostegno al sistema». Berlusconi non sente ragioni. Toccherà a Tremonti verificare come reperire nuove risorse. In un momento assai delicato per il governo, raccontano che il titolare dell'Economia si stia impegnando in un lavoro di squadra con i colleghi, «è simpatico persino con Brunetta», sorride un ministro. Ieri alcuni rappresentanti delle Regioni hanno testimoniato che per la prima volta si è avvertita durante l'incontro con il governo «una forte sintonia tra Letta, Sacconi, Fitto e Tremonti». È attraverso l'intesa con le Regioni che l'esecutivo vorrebbe reperire gli 8 miliardi necessari per gli ammortizzatori sociali. Ora serve un altro miliardo per l'auto. Anche perché le trattative riservate sui contratti, che per mesi Gianni Letta ha condotto con Epifani, sono fallite ieri sera. Il democratico Damiano da tempo aveva detto a esponenti della maggioranza di «non farsi illusioni». Così è stato. E ora che la Cgil è fuori dall'accordo, con la crisi economica che entra nella fase più acuta, Berlusconi teme una stagione di forti tensioni sociali. La preoccupazione è visibile. Per questo il premier ha modificato i toni nelle sue esternazioni: «Essere ottimisti non significa non essere realisti». Per questo vuole soldi da Tremonti.

Francesco Verderami

23 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: La mossa di Letta e la tregua dei ministri
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2009, 06:24:03 pm
Ancora incognite sull'entità degli stanziamenti per gli aiuti al settore

La mossa di Letta e la tregua dei ministri

Equilibrio precario nell'esecutivo diviso tra chi si sostiene gli interventi per il settore auto e chi invece li osteggia


Il primo brivido l'ha procurato Gianni Letta. Sembrerà incredibile ma il braccio destro di Berlusconi — aprendo il vertice sulla crisi dell'auto a palazzo Chigi — ha voluto togliersi un sassolino dalla scarpa con Epifani: «Mi spiace rilevare che certe ricostruzioni di stampa sull'accordo per i contratti non sono state veritiere». Così dicendo Letta ha rivolto lo sguardo verso il capo della Cgil, che aveva scaricato sul governo la responsabilità di averlo messo dinnanzi al fatto compiuto: «Non è così», ha chiosato Letta, che per mesi e a più riprese ha tenuto colloqui riservati con il leader sindacale.

È stato un modo per «ristabilire la verità dei fatti». D'altronde era l'unico modo per il sottosegretario, visto che dal giorno dello «strappo» sui contratti Epifani si nega al telefono con tutti: siano esponenti del governo o di Confindustria.

Nel vertice delle puntualizzazioni, anche Scajola ha voluto precisare che «gli interventi saranno rivolti a favore dei settori produttivi».
«Ministro», è stato interrotto: «Ha detto "settori" e non "settore"». «Ho inteso misurare le parole», ha risposto il titolare per lo Sviluppo economico. Una conferma che il governo non limiterà il piano anti-crisi al comparto auto. Sulle risorse da investire, invece, Scajola non ha anticipato nulla, sebbene prima dell'incontro abbia voluto puntualizzare (appunto) che le voci circolate sui 300 milioni «sono infondate». Una versione edulcorata dello sfogo al quale il ministro si era lasciato andare in mattinata: «Che ci facciamo con 300 milioni, quando la Francia ha investito 5 miliardi?». Chi fosse il destinatario della sua arrabbiatura, è facile capirlo: il titolare dell'Economia. Epperò all'ora di pranzo, alla riunione interministeriale che ha preceduto l'incontro con le parti, le tensioni sembra si siano dissolte.

I due fronti che finora si erano osteggiati nel governo - Tremonti, Sacconi e Calderoli da una parte; Letta, Scajola e Prestigiacomo dall'altra - avrebbero raggiunto un'intesa, di sicuro hanno siglato una tregua. Se ciò sia dovuto alle pressioni del premier, intenzionato a sostenere il settore auto, è tutto da verificare. È certo che il progetto di stampo europeo al quale si sta lavorando, sarebbe più simile al modello francese che a quello tedesco, e verrebbe esteso ad altri settori. In questo quadro Scajola avrebbe trovato il consenso della Lega e quello del ministro di via XX Settembre. All'incontro di martedì con i vertici Fiat, Tremonti aveva assicurato il pieno appoggio del Tesoro per i finanziamenti della Banca europea per gli investimenti. Il resto compete alle Attività produttive, e le eventuali risorse andranno trovate nei bilanci di quel dicastero. Dunque, le casse dell'Economia non verrebbero intaccate.

L'accordo (o la tregua) nel governo regge su equilibri precari. Sindacati e industriali ieri l'hanno capito quando Scajola ha chiesto «dieci giorni» per presentare il piano. Perché le divisioni sotto traccia restano. Cosa pensi degli aiuti all'auto, Calderoli l'ha confidato al vicepresidente di Confindustria Bombassei: «Io ce l'ho solo con la Fiat». Cosa dica Sacconi, lo sanno quegli industriali veneti che a Treviso hanno osannato il ministro del Lavoro per il suo attacco alle «logiche assistenzialiste delle grandi imprese». Ma dopo che Berlusconi ha raccolto il grido di dolore del settore auto, e ci ha messo la faccia, è impensabile una retromarcia. E il Pd è pronto a sostenere il piano, sebbene confidi non si tratti di pochi spiccioli: «Trecento milioni - spiega il sindaco di Torino, Chiamparino - non possono bastare. Eppoi, posso capire il problema dei conti per Tremonti, ma il riflesso pavloviano del Carroccio contro la Fiat è incomprensibile. A parte il fatto che con Marchionne le cose sono cambiate, Calderoli sa che la Brembo sta fra Milano e Bergamo, che l'Iveco è a Brescia, e che non pochi di quegli operai votano Lega». Ora però il governo si è compattato. Su cosa non si sa, visto che al vertice delle puntualizzazioni, non è stato rivelato il piano né l'ammontare delle risorse.

Francesco Verderami

29 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI L'accusa di Berlusconi: grave errore del Colle
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2009, 05:45:22 pm
Scajola: «I padri costituenti chiari, nessun diritto di veto sui provvedimenti del governo»

L'accusa di Berlusconi: grave errore del Colle

Il premier ai suoi: atto figlio di un cupo armamentario culturale
 

«Napolitano ha commesso un errore grave». E le parole pronunciate da Berlusconi alla notizia della morte di Eluana Englaro innescano immediatamente l'offensiva del Pdl contro il Colle, riecheggiano nei comunicati dei parlamentari del centrodestra, diventano un esplicito atto d'accusa verso il Quirinale con il capogruppo Gasparri: «In questa vicenda peseranno le firme messe e quelle non messe ». Quella che Napolitano ha rifiutato di apporre al decreto, e che a detta del premier ha «reso impossibile l'azione del governo per salvare una vita».

In quell'atto del capo dello Stato, il Cavaliere ha visto «tutta la cupezza di un armamentario culturale figlio di una stagione che non è ancora tramontata». Non usa il termine comunista, Berlusconi. O meglio, quel termine giurano che non l'abbia usato ieri sera. La morte della Englaro spezza l'afflato trasversale di quanti — anche nel Pd — erano pronti a votare il provvedimento voluto dal premier, e apparecchia il tavolo di una polemica politica che è già scontro istituzionale. Il ministro Scajola lo spiega con l'accortezza tipica di un diccì, ma lo spiega: «Mi auguro che la vicenda possa servire a fare una legge, e che la legge porti il nome di Eluana. Purtroppo il Parlamento è stato lento nel legiferare. Il governo ha tentato di rimediare, e sarebbe stata cosa buona se il decreto avesse avuto il corso che non ha avuto».

Dinnanzi al rischio di un'escalation della tensione tra Palazzo Chigi e il Colle, Scajola sottolinea come «i padri costituenti avessero chiarito senza alcun fraintendimento le prerogative del governo. Non ci può essere un diritto di veto sopra i provvedimenti dell'esecutivo. Spiace che il problema sia emerso su un tema così delicato e proprio ora che al Quirinale siede un presidente della Repubblica di grande equilibrio ». L'equilibrio su cui aveva retto la coabitazione tra Napolitano e Berlusconi è saltato. Il capo dello Stato aveva avvertito immediatamente l'accerchiamento, non a caso ieri pomeriggio ha invitato Casini al Colle per capire quale fosse la posizione del leader centrista, dopo che l'Udc si era schierato a favore del decreto. E ieri sera il presidente della Repubblica ha chiamato Fini, furibondo per le parole pronunciate da Gasparri. Quale fosse il suo pensiero, il presidente della Camera l'ha fatto sapere subito: «Gasparri è un irresponsabile». Si ripropongono così le posizioni di venerdì scorso, quando era scoppiato lo scontro istituzionale. È tutto da vedere se il Cavaliere, come temono nel Pd, miri al bersaglio grosso. È certo ormai il muro contro muro tra Quirinale e Palazzo Chigi, sta tutto nel ragionamento pronunciato dal premier in queste ore: «Davvero Napolitano dice che si metterà di traverso sulla riforma della giustizia? Ma non è solo lui che controfirma i provvedimenti del governo. Anche il governo controfirma gli atti del presidente della Repubblica. E se finora l'ho fatto senza nemmeno vedere di cosa si trattava, ora ci metterò più attenzione».

Prossimamente Napolitano sarà chiamato a nominare un giudice della Corte costituzionale. Così il «caso Englaro», con tutta la sua drammaticità, scolora e lascia spazio a uno scontro tra cariche dello Stato che ruota attorno a una questione politica di prima grandezza posta da Berlusconi: «In Italia chi comanda?». Nei suoi conversari, tempo addietro, affacciava l'interrogativo con la «storiella delle sedie»: «Quando c'è un evento pubblico, il cerimoniale stabilisce che la prima sedia spetti al capo dello Stato. Poi c'è la sedia per il presidente del Senato, poi c'è quella per il presidente della Camera, poi quella per il presidente della Consulta. Infine, se ne rimane ancora una, c'è anche quella per il presidente del Consiglio. Altrimenti si può sempre arrangiare con uno strapuntino».

La rupture berlusconiana potrebbe portare allo «scontro finale» con Napolitano, come sostiene Cossiga, oppure — come immaginano i più fedeli collaboratori del Cavaliere — a un «chiarimento» sulla linea di demarcazione dei rispettivi ruoli istituzionali. Di sicuro il premier ha colto l'occasione del «caso Englaro » per mettere la parola fine alla prassi avviata da Oscar Luigi Scalfaro ai tempi di Tangentopoli, quando — in quella fase emergenziale — l'allora capo dello Stato chiese e ottenne che ogni atto di governo fosse sottoposto al vaglio preliminare del Quirinale sulla base del principio della «co-decisione». Un principio che persino autorevoli esponenti del Pd considerano «estraneo» alla Costituzione, e che oggi il premier definisce «una prassi inaccettabile ». Il braccio di ferro è appena iniziato.

Francesco Verderami

10 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: L'avviso di Rutelli e degli ex Dl: avanti così e ci sarà la scissione
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2009, 03:07:25 pm
IL RETROSCENA

L'avviso di Rutelli e degli ex Dl: avanti così e ci sarà la scissione

Il presidente del Copasir: non accetteremo il ruolo di «partito contadino» alla polacca né un derby tra Ds
 

ROMA — Sono soci fondatori del Pd e non intendono diventare quello che furono gli indipendenti di sinistra ai tempi del Pci. Non vogliono cioè morire da «indipendenti di centro » in una forza egemonizzata dagli ex Ds. Insomma, non accettano il ruolo del «partito contadino polacco», per usare l'espressione di cui Rutelli si serve per esorcizzare il rischio. Ma il rischio è altissimo, almeno così è avvertito dagli esponenti democratici di area moderata, dopo l'investitura di Bersani fatta ieri da D'Alema. Con la sua mossa l'ex ministro degli Esteri ha reso pubblica un'operazione di cui tutti erano a conoscenza. E infatti non è da ieri che si respira un clima di scissione nel Pd. Da giorni, per esempio, nei suoi colloqui riservati l'ex leader della Margherita osserva sconsolato l'orizzonte: «Abbiamo faticato tanto per dar vita a una cosa nuova e ora dovremmo andare alle primarie per la segreteria con due candidati dei Ds? È impensabile. Basta. Così non si va da nessuna parte». Rutelli non riduce il problema a una questione nominalistica, «non è solo l'infinita lotta tra Walter e Massimo, a cui ora si aggiunge Pier Luigi. E non si può nemmeno ridurre tutto allo scontro fra centristi e sinistristi. Qui — ha spiegato ad alcuni colleghi — c'è la difficoltà di un partito che fa fatica su tutto, fatica a parlare con il Paese, e si rifugia magari nelle piazze, negli slogan, oppure dietro la Cgil. O ancora nel laicismo. E appena provi a esprimere una tesi, c'è chi dà una lettura caricaturale del rapporto tra i cattolici e la Chiesa. Come fossimo teleguidati dai cardinali. Mi chiedo, allora, cos'è il Pd se non possono avere patria i contributi di idee di quanti militavano nella Margherita? Non è un caso infatti se un terzo degli elettori dei Dl se n'è andato».

Sono rimasti loro, quelli del gruppo dirigente, i nuovi «indipendenti di centro», ridotti al ruolo di spettatori nella sfida tra post-diessini. Una sfida che si preannuncia cruenta e che li vede peraltro divisi. Lunedì scorso le crepe sono diventate ancor più evidenti durante una discussione avvenuta nello studio di Castagnetti e voluta da Marini. Eluana Englaro non era ancora morta, e l'area cattolica tentava di arrivare a una linea condivisa sul provvedimento del governo. Tranne Rutelli, escluso, c'erano (quasi) tutti: Franceschini, Fioroni, la Bindi, Follini, Lucà, Zanda, e anche Tonini. Ma siccome un punto di vista comune non si trovava, la discussione si è accesa. Finché — durante l'intervento della Bindi che invitava a non votare il ddl — Fioroni è sbottato: «Parla, Rosi, parla. Vai avanti così che ci rimani solo tu a portare la bandiera dei cattolici nel Pd dopo le Europee ».

Si sarà trattato di uno sfogo dettato dalla concitazione del momento, ma è indicativo della situazione. Fioroni è preoccupato che l'offensiva di D'Alema «cambi il progetto del Pd». Quale sia il progetto dalemiano è chiaro agli «indipendenti di centro»: Bersani alla guida del partito che aggreghi pezzi di sinistra radicale e in prospettiva lanci un candidato- premier espressione del mondo cattolico o comunque moderato. «Ma noi non potremmo fare gli indipendenti di centro in un partito troppo di sinistra», commenta Follini: «Se fossimo costretti ad assistere dalla tribuna al derby tra Veltroni e Bersani, vorrebbe dire che il Pd ha preso la deriva della "Cosa 4". E noi lì non potremmo approdare». Più o meno quanto avrebbe spiegato a D'Alema giorni fa con una battuta: «Massimo, non è pensabile che noi stiamo in Italia con la Cgil, in Europa con il Pse e in Medio Oriente con Hamas». Tra i democrats la parola «scissione » non è più un tabù, ma un'eventuale prospettiva da analizzare. «E D'Alema — secondo Lusetti — ha messo in conto una scissione dal centro nel Pd. Se ha lanciato un'Opa sul partito è colpa della debolezza di Veltroni. Ma se i post-comunisti pensano di rimettere una "S" alla sigla del Pd, un pezzo di noi se ne andrà». È da chiarire dove. E comunque non tutti prenderebbero questa decisione. Marini potrebbe restare. Certo, in caso di una transumanza di cattolici, non gli sarebbe facile accettare una soluzione Bersani, sebbene abbia stretto di nuovo con D'Alema e giudichi «disastrosa» l'attuale gestione. Perciò ha ripreso a dire «mo' vediamo » e invita i suoi alla «prudenza »: «Niente cedimenti di nervi». I nervi sono invece a fior di pelle, e ognuno si muove in proprio. Fioroni ha serrato ancor di più l'asse con Veltroni, testimoniato dal rimpasto nella giunta del Lazio che garantisce al leader del Pd la maggioranza regionale del partito. L'operazione è stata fatta ai danni di Enrico Letta, davanti al quale Veltroni ha recitato la parte di chi cadeva dalle nuvole: «La giunta del Lazio? Non ne so niente. Vado a informarmi». Letta attenderà le Europee per informare delle sue mosse il segretario, intanto ha divorziato da Bersani, con il quale per anni aveva fatto coppia fissa. Il progetto di «Pier Luigi» non gli piace: «Per uscire dall'isolamento non ci si può rinchiudere a sinistra». Nel tempo le cose cambiano. È solo questione di tempo.

Francesco Verderami
15 febbraio 2009

da corriere.it


Titolo: Berlusconi avverte: non sottovalutate Franceschini
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2009, 10:35:57 am
Il Cavaliere: «Franceschini è meno moscio di Veltroni». E il «giuramento sulla Costituzione» è stato efficace

Berlusconi avverte: non sottovalutate Franceschini

Primi test sul rivale numero 9: «Con quella faccia da bravo ragazzo in tv funziona»


Avrà pur «fatto fuori» otto rivali, e il «Signor nove» sarà pure un «reggente», un «vice disastro» come l’hanno definito i suoi stessi compagni di partito. Ma c’è un motivo se Silvio Berlusconi ha invitato i dirigenti del Pdl a non sottovalutare Dario Franceschini: «Non sottovalutatelo, in tv funziona».

Il Cavaliere ha iniziato a studiare il segretario del Pd come un allenatore studia gli avversari prima di una sfida: ne ha fatto testare le potenzialità, ha analizzato le sue prime uscite pubbliche, e soprattutto l’ha osservato in televisione. Non è che il premier nutra dubbi sull’esito dello scontro elettorale di giugno, le vittorie alle Europee e alle Amministrative non sono in discussione, «non ci sfuggiranno, perché la crisi del Pd è profonda. Lì dentro c’è gente abituata solo a vivere di rendita con i voti del territorio. E quei voti si vanno esaurendo». Nonostante queste certezze, Berlusconi ha deciso di adottare con Franceschini gli stessi metodi che l’hanno portato a competere con gli altri otto rivali. La prova tv è stato il primo step, perché il modo in cui un politico si propone davanti alle telecamere rappresenta per il premier un discrimine. E a suo avviso il «Signor nove» funziona «con quella faccia da bravo ragazzo »: «Eppoi è meno moscio di Veltroni ».

Nei test demoscopici ha poi letto quanto già intuiva, e cioè che il capo del Pd sconta un basso livello di notorietà. Ma paradossalmente la sua debolezza è al momento la sua forza, perché nell’opinione pubblica la scarsa conoscenza del leader democratico viene interpretata (per ora) come un segnale di novità, di ricambio generazionale. È da vedere se Franceschini riuscirà a consolidarsi e ad affermarsi. Le prime mosse sono state «scolastiche», il Pdl infatti aveva messo nel conto che si sarebbe presentato brandendo la bandiera dell’antiberlusconismo. Invece il giuramento sulla Costituzione è stato ritenuto un gesto a suo modo innovativo, un’operazione di marketing politico per acquisire notorietà e farsi riconoscere dal suo mondo di riferimento. In questo senso, e fatte le debite proporzioni, per il popolo di centrosinistra il «giuramento di Ferrara» vale quel che valse il contratto degli italiani di Berlusconi per l’elettorato di centrodestra. Per questo il Cavaliere lo tiene sotto osservazione, sapendo che i dati dei sondaggi vanno interpretati, che i numeri possono riflettere verità contrapposte.

Per esempio, il «Signor nove» piace alla gente che potenzialmente potrebbe votare per il centrosinistra, ma non piace alla gente di sinistra, se è vero che più del 50% dei democratici provenienti dal Pci-Pds-Ds preferirebbe un post comunista al suo posto. Ma Franceschini è l’antidoto alla scissione del Pd, infatti il Cavaliere ritiene «altamente improbabile» l’addio di Francesco Rutelli e l’esodo degli ex Popolari verso altri lidi: «Se ne andrà qualcuno, ma saranno piccoli spezzoni». Dunque il nuovo segretario è considerato un collante. Per quanto «reggente», la sua elezione è vista da Franco Marini - almeno così hanno raccontato al premier - «come quella che portò Bettino Craxi alla guida del Psi»: al Midas doveva essere di passaggio, poi non se ne andò più. Berlusconi ha ascoltato, ma pare che sentendo il nome dell’ex premier e suo grande amico sia sobbalzato.

Avrà considerato eccessivo il paragone. È certo che - provando a interpretare la strategia di Franceschini - ci ha visto il tentativo di riprodurre «la strategia di Romano Prodi»: «Lui mira a ricostruire il vecchio centrosinistra, con l’aggiunta dell’Udc». Oltre non il Cavaliere non è andato, in attesa del voto di giugno quando si capiranno le sorti del Pd. Fossero domani le elezioni, i suoi avversari non avrebbero scampo, ridotti come sono al 23%, a due punti cioè da quello che viene considerato lo «zoccolo duro» dei democratici, statisticamente la loro soglia minima. Il nuovo segretario dovrà arrestare l’erosione di consensi, visto che l’Idv è all’8% e il Prc ha raggiunto il 4%. E il premier prevede che, per riuscirci, Franceschini proverà a coinvolgerlo in uno scontro diretto durante la campagna elettorale. Ma Berlusconi ha già deciso che non gli replicherà mai in prima persona, per non dargli sponde.

Il guaio per il successore di Veltroni è che ha poco tempo: i tre mesi che lo separano dalle urne rischiano di non bastare per consolidare la leadership. Il Cavaliere non vuole tuttavia distrazioni nel centrodestra, «non sottovalutatelo», anche se il suo intuito gli dice che Pier Luigi Bersani è per il futuro l’avversario maggiormente accreditato. In realtà glielo dicono anche i suoi sondaggi. «Per me comunque uno vale l’altro». Fosse così, Bersani sarebbe il «Signor dieci».

Francesco Verderami

28 febbraio 2009
da corriere.it


Titolo: La trincea sudista di D'Alema
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2009, 10:44:53 am
Gli obiettivi: evitare che il Pdl sfondi e porsi come riferimento del partito nel Sud

La trincea sudista di D'Alema

La strategia del «deputato di Gallipoli» dietro il dialogo con Lombardo e Tremonti
 

Massimo D'Alema ha spostato la «linea del Piave» centinaia di chilometri più a sud, a delimitare Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, regioni governate ancora dal centrosinistra. Se il Cavaliere dovesse sfondare quella linea, il Pd non avrebbe perso una partita. Non ci sarebbe più partita. È vero che le elezioni regionali si terranno l'anno prossimo, ma il voto di giugno — quello europeo e soprattutto quello per le amministrative — farà capire se è possibile organizzare una resistenza all'offensiva di Silvio Berlusconi. Perché se anche il Sud dovesse capitolare, i democratici perderebbero un pezzo determinante del loro insediamento territoriale, «e senza il Sud — teorizza D'Alema — non esiste un partito di massa. Che faremmo a quel punto, il partito dei salotti?». Ecco cosa l'ha spinto a chiedere la detassazione per cinque anni delle imprese che operano nel Mezzogiorno, ecco cosa l'ha indotto al confronto con Giulio Tremonti sul progetto di una nuova Banca del Sud, ecco spiegato il tentativo di aprire un dialogo con l'Mpa di Raffaele Lombardo: «Caro Raffaele — gli ha detto l'altra settimana — sentiamoci ogni tanto.

E dopo le Europee, quando ci sarà da votare in Parlamento su questioni che riguardano il Sud, guardiamoci negli occhi». Il meridionalista D'Alema vuole rafforzare le trincee della sua «linea del Piave», tentando di incunearsi nelle contraddizioni di un governo «che sottrae i fondi al Mezzogiorno per darli al Nord». Lui che fu il primo a tentare l'approccio con quel «baluba» di Umberto Bossi, lui che definì la Lega «una costola della sinistra», da tempo si è messo a sconfessare «certe verità rivelate», spiegando che «al Nord ci saranno pure dei problemi ma la questione settentrionale non esiste, è un falso storico. Esiste semmai la questione meridionale». «Numeri alla mano» sottolinea come la spesa pubblica pro capite al Sud sia più bassa rispetto al Nord. E che, certo, al Nord — a fronte di un sistema produttivo avanzato — c'è una pubblica amministrazione poco efficiente, ma al Sud è ancor più inefficiente e dunque le tasse che si pagano sono eccessive rispetto al Settentrione. Non c'è congresso o convegno dove manchi di denunciare il «falso storico » della questione settentrionale, sebbene un pezzo rilevante del Pd al Nord — da Sergio Chiamparino a Massimo Cacciari, da Filippo Penati a Mercedes Bresso — si esprima e agisca in modo completamente diverso, tentato com'è dal rapporto con la Lega, e intenzionato a non rompere con il Carroccio sul federalismo fiscale. L'idea federalista non dispiace a D'Alema, è l'impianto della riforma che però non lo convince, perché — a suo avviso — non funziona e rischia di spaccare il Paese. C'è da difendere il Sud, e già prima del cambio della guardia al vertice dei Democratici aveva detto che «il loft è troppo distante dalla trincea» per capire cosa stava accadendo nel Meridione

. Ecco perché si è intestato la battaglia, che già alle elezioni del 2008 aveva visto schierati dirigenti del Pd come Nicola Latorre. A quei tempi il vice capogruppo al Senato, avvertendo forti resistenze nel partito, scrisse un articolo sull'Unità per sottolineare che «la questione meridionale non poteva essere scambiata solo per una questione criminale». D'Alema si muove senza perdere di vista una visione unitaria del Paese (e del Pd). D'altronde, spiega oggi Latorre, questa sfida «si muove nel filone del riformismo meridionalista che ha nutrito la grande stagione del primo governo di centrosinistra». Per rafforzare la tesi si getta nel passato citando nomi illustri, «da Salvemini a Saraceno », e si proietta sul futuro: «È chiaro che la questione meridionale è legata all'idea complessiva di sviluppo dell'Italia. Perché l'Italia non può più sopportare il divario crescente tra Nord e Sud. Il punto è che se non si invertisse la tendenza anche il Nord ci rimetterebbe, perché il Paese perderebbe la sfida della competitività. E siccome la sfida si riaprirà una volta superata l'emergenza della crisi, se non ci riorganizzassimo perderemmo il passo rispetto agli altri stati». D'Alema si propone come azionista di riferimento del Pd nel Mezzogiorno, chiama alla resistenza i dirigenti locali del partito, raccontano stia impegnando anche le risorse intellettuali della fondazione Italianieuropei. Sa che sarà difficile reggere all'offensiva berlusconiana, specie in Campania dove la situazione è molto compromessa. Conosce i piani del Cavaliere, e i ragionamenti che svolge nelle riunioni riservate, e cioè che il Pd «sul territorio andrà incontro a una pesante sconfitta». I «recenti scandali» e il «logoramento del partito dei sindaci», a detta del premier «stanno allontanando il loro elettorato»: «La forza della sinistra risiedeva negli amministratori. Dopo quanto è accaduto, è stata colpita la rappresentazione più vicina all'opinione pubblica». Perciò il «deputato di Gallipoli» prova a organizzare una difesa, consapevole che su quella «linea del Piave », spostata centinaia di chilometri più a sud, si giocheranno le sorti di un'intera classe dirigente.

Francesco Verderami
07 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Lega, quota 10% a rischio
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2009, 11:47:41 am
IL DIALOGO

Lega, quota 10% a rischio

E il Senatur «cerca» il Pd

Il Carroccio punta al loro sì al federalismo per evitare il referendum
 

ROMA - Berlusconi lancia il piano casa? Bossi dice: «Voglio vederci chiaro». Berlusconi propone di ridurre i parlamentari? Bossi dice: «Voglio capire meglio». Berlusconi incontra il gotha delle banche? Bossi dice: «Caccino fuori i soldi per le imprese». Berlusconi è in corsa per il Quirinale? Bossi dice: «Viviamo alla giornata ». Franceschini chiede di tassare i redditi più alti? Bossi dice: «Può andar bene». E meno male che per citare i problemi nel centrodestra il Cavaliere usa il nome di Gianfranco Fini. In realtà il premier non è solo chiamato a gestire un rapporto difficile con il presidente della Camera.

Deve fronteggiare anche il Senatur, che è in sofferenza: le sue esternazioni lo testimoniano, e i sondaggi evidenziano che da alcune settimane il Carroccio è in flessione, ha perso un punto percentuale, è tornato sotto «quota 10%» dove ormai stazionava stabilmente. Soprattutto — come evidenzia senza mezzi termini il forzista Napoli — «la Lega ha perso l'iniziativa, non detta più i temi e i tempi della politica, costretta com'è a inseguire Berlusconi, che dal giorno dopo la vittoria in Sardegna ha in mano l'agenda e il pallino». C'è dunque un motivo se il capo del Carroccio fa il contropelo al premier e apre al segretario del Pd. Anzi, i motivi sono due. Intanto la trattativa sulle Amministrative con il Pdl non è chiusa: Bossi non intende accontentarsi solo di Sondrio e Bergamo, pretende Monza, e per ottenerla si è messo a fare la guerriglia sulla Provincia di Milano. La disponibilità verso Franceschini è legata invece all'esigenza di ottenere almeno l'astensione dei Democratici alla Camera sul federalismo fiscale. Bossi non può permettersi un voto contrario del Pd, e le posizioni «meridionaliste » di D'Alema hanno messo in allarme i dirigenti del Carroccio, specie dopo la riunione di due giorni fa al gruppo dei deputati democratici. In quella sede si è fatta strada la tesi dalemiana, sono emerse forti perplessità sulla riforma. Ecco perché Calderoli si sta prodigando per rassicurare l'opposizione, ecco perché l'altra notte in commissione il ministro del Carroccio ha accettato alcuni emendamenti del Pd al testo. Le dimissioni di Veltroni hanno senza dubbio penalizzato la strategia del dialogo impostata da Bossi, che sta tentando di costruire un rapporto con i nuovi vertici del Pd. Un voto contrario sul federalismo fiscale, esporrebbe la riforma al rischio del referendum e condannerebbe il Senatur a un ruolo subalterno al Cavaliere.

L'astensione sarebbe invece un successo nel merito e nel metodo su Berlusconi, garantirebbe una maggiore autonomia dall'alleato. Perciò ieri sera anche Maroni ha fatto eco al Senatur sulla proposta di Franceschini, «per questo — spiega Bersani — ma anche per altro. Perché Bossi con un occhio è attento al federalismo, e con l'orecchio ascolta i suoi sindaci, che dal territorio segnalano i problemi ». È al Nord che la crisi si fa maggiormente sentire. Come spiega infatti il sottosegretario al Commercio estero Urso, «la grave contrazione dei mercati internazionali ha colpito le nostre esportazioni. Pertanto, le aziende italiane più colpite dalla crisi sono quelle settentrionali». Bossi e Maroni dicono dunque sì a un «contributo in tempi di crisi da parte di chi ha di più», mentre Berlusconi fa mostra di non curarsene, bolla l'idea come «populista», e lascia che siano i suoi dirigenti ad attaccare il leader del Pd.

Il Cavaliere aveva messo in guardia lo stato maggiore del Pdl sulle capacità «movimentiste e demagogiche» di Franceschini, avversario che certo non lo preoccupa, non può preoccuparlo, ma che — sondaggi alla mano — è comunque riuscito ad arrestare l'emorragia di consensi dei democratici, risaliti di un punto questa settimana, tra il 23 e il 24 per cento. È da vedere se il successore di Veltroni riuscirà davvero a risalire la china, è certo che è riuscito finora a imporre i suoi temi. Questo non vuol dire che nel Pd siano tutti entusiasti dell'ultima proposta, perché in molti sottovoce lamentano una «deriva populista e di sinistra». Nessuno al momento intende esporsi, ma a leggere bene il commento di Bersani non è che il candidato alla segreteria dei Democratici si sia spellato le mani per applaudire la mossa dell'attuale leader. Bersani ha definito «realistica e utile» la proposta di Franceschini, ma ha aggiunto che andrebbe «agganciata alla lotta contro l'evasione fiscale ». Traduzione: altrimenti a pagare sarebbero sempre e soltanto i soliti noti. E addio voti. Bossi non si cura dei dettagli, per il Senatur il federalismo val bene appoggiare una tassa che tanto non si farà mai.

Francesco Verderami

12 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI
Inserito da: Admin - Marzo 20, 2009, 11:46:24 pm
Torna la sintonia in vista del congresso

Silvio, Gianfranco e la fusione dolce

Per Berlusconi l'obiettivo è «quota 40%» alle Europee.

Per Fini è un investimento sul «dopo»
 
 
ROMA — Forse davvero ieri è nato il Pdl, perché la presa di distanze del premier dalla Lega riflette per la prima volta l'immagine di Berlusconi e di Fini in sintonia, alla vigilia delle assise che uniranno Forza Italia e An. Sarà stato perché Berlusconi è stanco della liaison di Bossi con i Democratici sul federalismo, saranno stati i sondaggi che preannunciano uno sfondamento elettorale del Carroccio al Nord, o le rimostranze del mondo cattolico, tuttavia che il premier e Fini si ritrovino su un tema delicato come quello della sicurezza, rappresenta una novità. Perché finora il Pdl è stato descritto come una proiezione del «discorso del predellino», un partito a immagine e somiglianza di Berlusconi, privo di regole e senza una vera piattaforma programmatica. D'altronde il Cavaliere ancora in questi giorni continua a ripetere che «ogni qualvolta rileggo il mio discorso del '94, lo considero così attuale che mi verrebbe voglia di riproporlo al congresso». Un modo per dire che la nuova formazione è il proseguimento del suo progetto iniziale. Ma il premier non può né vuole forzare la mano. L'assemblaggio di FI e An è passaggio difficile quanto indispensabile, sta a cuore tanto a Berlusconi quanto a Fini. Il primo perché ne ha bisogno subito, visto che a giugno sarà chiamato al test delle Europee dove intende raggiungere «quota 40%».

Il secondo perché sul Pdl ha investito tutto, «è un progetto strategico» spiega il presidente della Camera, che ragiona in prospettiva. Questo «progetto strategico», in fondo, lo coltiva da dieci anni, da quando ci provò con l'Elefantino alle Europee del '99: «Ma in politica i tempi sono fondamentali per la riuscita di un'operazione. E se quell'esperimento fallì, non fu perché l'idea era sbagliata, bensì perché non era ancora il momento. Ora il momento è arrivato». Domenica parlerà al popolo di An, svestirà per un giorno i panni istituzionali e farà un discorso politico, a braccio, senza testo scritto, con pochi appunti per fissare i passaggi chiave. E sarà — così scommettono i fedelissimi — un discorso «conciliante» verso il Cavaliere, consapevole del ruolo di co-fondatore di una forza che al momento è certamente legata a una leadership indiscussa, ma che potrà esistere ancora solo se «sarà aperta, dialettica, plurale, inclusiva, animata da una vera democrazia interna». Sono parole di Alessandro Campi, intellettuale molto vicino a Fini.

E sono parole che Fini condivide «pienamente». «Non dobbiamo avere paura oggi, se vogliamo disegnare il nostro futuro»: così il leader di An chiederà al gruppo dirigente della destra di condividere il progetto. «Nel Pdl porteremo i nostri valori», ma per avere «un futuro», Fini ritiene necessario sciogliersi dal legame delle correnti, «non mi preoccuperò di essere in minoranza, perché nel nuovo partito sarà indispensabile far convivere idee differenti». Una corrente lo consegnerebbe a un ruolo minoritario, perciò fa mostra di non curarsi delle battute di Berlusconi, secondo il quale «sono cambiate le cose con quelli di An da quando hanno scoperto il rapporto diretto con me». Ma il punto non è se il Cavaliere ha strappato dei colonnelli a Fini. La partita per il presidente della Camera si aprirà in seguito, semmai. Almeno così s'intuisce dai ragionamenti che ha svolto tempo addietro durante alcuni colloqui riservati. Fini ritiene che il centrodestra ha davanti a sé «una lunga stagione di governo», ben oltre quindi l'orizzonte dell'attuale legislatura. Se così fosse, per Berlusconi arriverebbe «il momento delle scelte». Traduzione: a quel punto dovrebbe decidere se puntare al Quirinale o restare a palazzo Chigi. In quel momento si aprirebbe una nuova fase, e sarebbe allora che Fini potrebbe giocare o meno le carte in mano. Una partita lunga e complessa, comunque l'unica possibile per chi ha rifiutato il ruolo di delfino, consapevole che quel ruolo non esiste. Per ora il Pdl è una scommessa, e in questa scommessa Fini si muove sfidando il Cavaliere sul terreno dei contenuti da «destra repubblicana».

Certo che era «soddisfatto» ieri per la posizione assunta dal premier sulle ronde e sulla norma che riguarda la denuncia degli immigrati clandestini da parte dei medici. «Non si può fare la battaglia sul caso Englaro — si sfogò Fini ai tempi del famoso decreto — pensando così di intestarsi un ruolo con il Vaticano. Perché poi, quando da Oltre Tevere ti chiedono conto di certe norme che rischiano di alimentare fenomeni razzisti, non si può rispondere con un "ah ma quelle cose le vuole Bossi"». Sarà stata un'esigenza tattica quella di Berlusconi, sarà stato un segnale inviato a Bossi e al Paese, il primo assaggio di una competizione elettorale che lo preoccupa. Ma il risultato è che il Cavaliere e Fini si sono ritrovati per la prima volta dalla stessa parte della barricata. E ieri anche i toni del presidente della Camera erano assai diversi rispetto al passato: «A Silvio la "lettera dei 101" è venuta utile. Ed è un bene che si sia espresso in quel modo. In fondo gli servirà per avere margini di mediazione con la Lega». Berlusconi e Fini d'accordo è una notizia. Poi magari riprenderanno a litigare. Nel Pdl.

Francesco Verderami

20 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI SuperSilvio tra discoteche e libri di storia
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2009, 03:51:58 pm
SETTEGIORNI

SuperSilvio tra discoteche e libri di storia

Il Silvio del '94 non c'è più: era fuori dai salotti, ora il salotto è lui


L'uomo di lotta è diventato uomo di governo, e della rivoluzione liberale è rimasto solo il discorso con cui scese in campo. Perciò è falsa l'iconografia che in questi giorni lo raffigura sempre simile a se stesso, perché se è vero che dal '94 il Paese è cambiato, è cambiato anche Silvio Berlusconi.

Marco Follini, che per anni l'ha visto da vicino, sostiene che il Cavaliere «oggi ha più velluto nel guanto e più ferro nel pugno ». Il senatore del Pd, che di Berlusconi è stato vice premier, ne sottolinea l'evoluzione, spiega che «è cambiato a tal punto da esser più efficace nella sostanza e meno suadente nella forma. Ora sta più attento al risultato, e più misurato negli eccessi, tende a controllarsi e a fare meno errori». Perché di errori ne fece quindici anni fa, quando arrivò a Palazzo Chigi. Raffaele Bonanni, segretario della Cisl, ricorda come nel '94 «dileggiò lo sciopero generale» con il quale le organizzazioni del lavoro si scagliarono contro la riforma delle pensioni varata dal primo governo Berlusconi: «Andò dritto per la sua strada e perse». E nel 2001 «tentò ancora la prova di forza» con la riforma dell'articolo 18. «Adesso non è più così, sa distinguere nel pluralismo tra sindacato e sindacato. Negli anni ha capito l'importanza di stare al centro ed è più incline alla mediazione ».

Si presentò agli italiani brandendoL'elogio della follia di Erasmo da Rotterdam come fosse il suo libretto rosso e non c'è dubbio che quella furia iconoclasta colpì l'immaginario collettivo. In molti, specie tra i suoi oppositori, dissero che era tutto studiato, come la calza sull'obiettivo della telecamera. Gianfranco Pasquino rigetta questa tesi, ritiene che «nel '94 Berlusconi si gettò davvero nell'impresa con la straordinaria incapacità di valutare quanto stava facendo». Roberto Maroni rammenta quella breve esperienza, quando il Cavaliere «arrivava in Consiglio dei ministri con i sondaggi sui provvedimenti che dovevamo varare. Sondaggi che erano stati sfornati alle sette del mattino e che influivano sulle sue scelte. Ricordo come Giuliano Ferrara, allora titolare dei Rapporti con il Parlamento, provava a dissuaderlo: "Presidente — gli diceva — non dia retta e non stia nemmeno appresso alle giornalate. Vada avanti". Oggi invece c'è nelle riunioni di governo la consapevolezza di un progetto. E la forza politica porta il resto dei poteri a seguire, perché c'è il consenso».

Come non vedere dunque la mutazione di Berlusconi? «Infatti — prosegue Pasquino — il premier è diventato istituzionalmente consapevole della complessità della situazione. Ora sa trattare con gli alleati, li blandisce e li critica. Poi, certo, ha sempre delle urgenze che sfociano in intemperanze. Infatti si irrita per gli intralci del Parlamento, considera ingombrante il Quirinale. Perché lui si sente un uomo del fare e a volte tende a strafare. Per fortuna il sistema democratico prevede pesi e contrappesi. Tuttavia — conclude il politologo — è evidente che Berlusconi è entrato nella storia e che gli studiosi dovranno occuparsi di lui, mentre a Romano Prodi dedicheranno appena un rigo». Agli studiosi però, secondo il direttore del Riformista Antonio Polito, toccherà anche spiegare «come sia possibile che il Cavaliere quindici anni dopo appaia ancora "il nuovo". Perché in quindici anni Margaret Thatcher rivoltò il Regno Unito ed Helmut Kohl riunificò le Germanie, prima che entrambi fossero consegnati alla pensione. La rivoluzione promessa da Berlusconi invece non si è inverata eppure l'Italia continua ad attendere, quasi aspettasse l'avvento del messia». La forza del Cavaliere sta proprio nella capacità di essere cambiato, «dal '94 — aggiunge infatti Polito — ha capito come muoversi. Intanto ha capito che non poteva governare con Pier Ferdinando Casini e che a Umberto Bossi va posto un freno. Ma soprattutto ha capito che doveva vincere la battaglia con l'establishment. Quell'establishment che per anni ha praticato l'indipendenza e coltivato il sogno di scalzarlo e che oggi è dovuto scendere a patti.

E Berlusconi, un tempo tenuto fuori dai salotti, è diventato salotto esclusivo. C'è da vedere se riuscirà ad essere magnanimo ed ecumenico ». Il Cavaliere è diventato un potere forte perché è mutato mentre il Paese gli mutava intorno. Ai giovani leoni che sta svezzando, è rimasta impressa una lezione politica fatta dal premier tempo addietro, appena rientrato da una nottata in discoteca: «La società non siete voi che vivete di politica. Tre ore in balera — così l'ha definita — valgono più di un trattato di sociologia. E lasciate pure che ironizzino sul mio conto». Il contatto diretto è lo strumento di cui si è servito per salire sul predellino di un'auto e sollevarsi dalla sorte a cui l'avevano già consegnato gli alleati. E i sondaggi restano ancora l'arma da cui non si separa, li adopera per prepararsi al confronto, persino nelle relazioni con i capi di Stato e di governo stranieri. In passato ha fatto testare Bill Clinton, George W. Bush, Jacques Chirac, Vladimir Putin e oggi continua con Barack Obama e Nicolas Sarkozy, «perché quando ti relazioni con loro — è la tesi del Cavaliere— devi capire con chi hai a che fare e come comportarti. E devi sapere cosa pensa la gente di loro». In questo Berlusconi non è cambiato.

Francesco Verderami
28 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI E Fini aspetta Bossi sulla linea del Piave
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2009, 11:34:55 am
Il rilancio della consultazione è un'arma politica che il premier può usare con la Lega

E Fini aspetta Bossi sulla linea del Piave

L'ex leader di An pensa al 7 giugno per l'accoppiata con amministrative, data di cui il Senatur non vuole discutere


ROMA - C'è una linea del Piave che il Pdl deve difendere per impedire alla Lega di dilagare al Nord. Ed è su quella linea che Fini ieri si è schierato a fianco di Berlusconi, sebbene il presidente della Camera abbia gettato nello sconcerto i maggiorenti del partito quando dal palco del congresso ha pronunciato la parola «referendum». Perché tutti sanno che di referendum elettorale Bossi non vuol sentir parlare, e dunque la citazione è sembrata una sorta di provocazione, il tentativo di mettere in difficoltà il premier con l'alleato. E invece no. Fini l'ha fatto per dare al Cavaliere un'arma politica da usare con il Carroccio per frenarne le pretese, sapendo che Berlusconi è indispettito con i leghisti. «Ora stanno chiedendo davvero troppo e senza dare nulla in cambio», ha detto l'altra sera il capo del governo davanti ad alcuni ministri, dopo l'approvazione del federalismo alla Camera e il contemporaneo stop al «piano casa».

Fini ieri gli ha dato manforte, ha finto addirittura un lapsus freudiano parlando del «referendum del 7 giugno», siccome sa che la data non è stata ancora definita, e che sul «7 giugno» il Senatùr non ci sente: «Per noi è impercorribile ». È chiaro il motivo: unendo il voto di Amministrative ed Europee alla consultazione popolare, il referendum raggiungerebbe il quorum e la Lega sarebbe spacciata. Il Pd infatti sarebbe pronto a un sostegno bipartisan dei quesiti che disegnerebbero un sistema bipartitico e non più bipolare. Ed è al Pd che Quagliarello si rivolge, «la sinistra non ci può accusare di non voler stravincere. Perché se passasse il referendum, altro che 51% prenderemmo». Il vice capogruppo del Pdl parla all'opposizione perché Fini ascolti. Più diretto è il ministro degli Esteri Frattini, contrario alla data del 7 giugno, «e non solo per le fibrillazioni che una simile decisione provocherebbe nel governo»: «Non possiamo essere alleati con la Lega alle Amministrative e lo stesso giorno scontrarci sul referendum». In realtà Fini ha voluto consegnare nelle mani di Berlusconi non un problema ma un'opportunità: «Gli organismi dirigenti del Pdl decidano quale posizione assumere». Carta bianca, insomma. L'obiettivo del presidente della Camera è piuttosto garantire al premier una «nuova centralità » nei giochi di maggioranza. D'altronde l'antico asse con il Carroccio non gli serve più, nel senso che non ne ha più bisogno per farsi scudo con An: la competizione è finita, ora c'è il Pdl. E il nuovo partito per forza di cose dovrà entrare invece in competizione con la Lega.

Berlusconi è il primo ad esserne convinto, non vuol perdere la sfida elettorale in Veneto e Lombardia. Nel caso in cui alle Europee il Carroccio sorpassasse il Pdl nelle due regioni, l'anno prossimo chiederebbe almeno il candidato governatore di Venezia. E il premier non vuole nemmeno pensarci: «Formigoni e Galan non si toccano. Discutiamo al massimo del Piemonte». «Il 7 giugno conteremo i voti», ripete all'unisono l'intero stato maggiore di Bossi, rimandando alle urne la trattativa sulle Regionali. E non è un caso se ieri, dopo Fini, anche Formigoni ha affondato il colpo contro il Carroccio. Toccherà oggi a Berlusconi sfruttare lo spazio politico che il congresso gli ha offerto. Deve porre dei paletti alla Lega e garantirsi dei successi di qui a giugno, a partire dal «piano casa ». Per quanto possa apparire paradossale, sarà più facile per il premier muoversi nel Palazzo. Elettoralmente, invece, sarà assai più complicato: al Nord, il 7 giugno, Bossi sarà il suo più grande alleato alle Amministrative e il suo più temibile avversario alle Europee. In che modo il Cavaliere potrà farlo capire agli elettori? C'è da difendere la linea del Piave. E Fini, che sta nel Pdl, sta con Berlusconi.


Francesco Verderami
29 marzo 2009
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il premier e quei gesti pop : «Sembra un amico tra amici»
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2009, 11:13:27 am
Sette giorni La strategia per non apparire algido al suo elettorato

Il premier e quei gesti pop : «Sembra un amico tra amici»

Le scelte mediatiche di Berlusconi durante i vertici internazionali


Come si fa a stringere la mano di Obama senza dare le spalle alla casalinga di Voghera? Come si fa a discutere con Sarkozy senza smettere di parlare con il pensionato di Palermo? Questo è il problema di Berlusconi, muoversi tra i potenti della terra e al tempo stesso restare sul predellino dell’auto in mezzo ai suoi elettori, «il mio popolo».
 Ecco l'origine delle ormai famose gaffe che il premier ripete ad ogni appuntamento internazionale: un misto di spontaneità e di strategia mediatica elaborata da diabolici spin doctor. Il Cavaliere si fa «pop» per scongiurare il rischio di apparire algido, per evitare che si crei una cesura con l'opinione pubblica, una distanza che per uno come lui - in campagna elettorale permanente - potrebbe ripercuotersi sugli amatissimi sondaggi. Eccolo, allora, adoperare al G20 le battute di Gigi Proietti per definire l'inquilino della Casa Bianca «un tipo con lo sguardo acchiapponico», eccolo stringere a sè in un abbraccio il presidente americano e quello russo, e addirittura gridare «mister Obamaaa...» alla photo-opportunity con la regina Elisabetta.

Così il Cavaliere interpreta se stesso: resta un potente, sì, ma da bar sport. «E non so se ci sia intenzionalità nei suoi gesti - dice Nando Pagnoncelli - però non c'è dubbio che gli effetti siano quelli. L'idea cioè di trasmettere un messaggio molto semplice al suo elettorato». L'ad di Ipsos sottolinea «suo elettorato» perché «le reazioni che Berlusconi suscita non sono univoche»: «Nella pubblica opinione di centrosinistra, infatti, provocano alzate di sopracciglio. Nell'area di centrodestra sono accolte con benevolenza». È da ricercatore che esamina «quelle che passano comunemente per gaffe», e che invece «interpretano l'umore popolare, e si saldano con un sentire diffuso»: «Tutti, per esempio, ricordano la sua frase sulla "superiorità della civiltà occidentale" che suscitò grandi polemiche. Ebbene, numeri alla mano quel concetto è largamente pensato dagli italiani».

Il Daily Telegraph definisce il Cavaliere «il giullare» dei vertici, il democratico Bersani ironizza sul «ruolo da intrattenitrice» che ha avuto la delegazione italiana a Londra. Ed è vero che l'Italia non ha tenuto il banco al risiko del G20, e che il G8 della Maddalena rischia di non essere un appuntamento decisivo, come spera il premier. «Ma la sua foto con Obama e Medvedev - secondo Pagnoncelli - ha una potenza enorme»: «Quel gesto giocoso di Berlusconi ha trasferito l'idea che lui è un amico tra amici, che conta, e che perciò il nostro Paese conta». Berlusconi interpreta se stesso, «e noi vecchietti - sorride Giampaolo Pansa - passata la barriera dei settanta un po' sbrocchiamo. Tuttavia il rapporto che Berlusconi ha con l'opinione pubblica è fortissimo, la sinistra non se n'è ancora resa conto fino in fondo. Lui ha un solo nemico: la crisi economica. Per il resto è ormai un professionista della politica».

Un professionista anomalo. Lo scandalo provocato a corte con il «mister Obamaaa...», si è rivelato uno spot, e non solo perché Buckingham palace ha smentito che Sua Maestà si sarebbe offesa, anzi si è divertita. Tutti i potenti, specie di questi tempi, hanno bisogno del consenso popolare. E con la sua trovata il premier ha offerto l'immagine di chi non adotta lo stile delle legazioni diplomatiche, ma fa discendere i suoi ragionamenti dalla digestione del linguaggio dei passanti incrociati per strada. Raccontano che dopo il siparietto fosse festante per aver strappato una citazione al presidente americano: «Mi ha detto di non avermi chiamato "Berlusconi" perché ancora non sa pronunciarlo. Dovrò educarlo a fargli dire "Silvio"». Invece Obama ha già imparato, perché l'ha cercato senza trovarlo, mentre si metteva in posa per un'altra foto: «Where is Bierluscone?». Ecco la vittoria del gaffeur di professione. «Ma quale gaffe...», tuona divertito Giuliano Ferrara: «Ma se Michelle Obama ha abbrancato la regina come fosse una vecchia compagna di scuola. La verità è che quel bauscia del Cavaliere ha fatto saltare il protocollo. È la vittoria sul perbenismo e sull'establishment. Così ha fregato tutti. Lo dico io che gli voglio bene, rischiamo di tenercelo per troppo tempo».

Francesco Verderami
04 aprile 2009

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi evita scontri e punta sul voto popolare
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2009, 10:32:57 am
Il retroscena

A Bondi il compito di replicare: elogi al Quirinale

Berlusconi evita scontri e punta sul voto popolare

L’obiettivo: «riforma silenziosa» attraverso le urne



ROMA — Se è vero che nei sondaggi raccoglie la fiducia nel 73% dell’opinione pubblica, se è vero che dice di sentirsi «per la prima volta il presidente degli italiani», perché il premier dovrebbe andare allo scontro con il capo dello Stato? Infatti non ci va, non ne ha interesse. Lo schema del Cavaliere è cambiato da tempo, e la riforma del sistema non passa per una modifica della Costituzione ma attraverso il consenso popolare, che la Carta la modifica di fatto.

Non è un caso se nelle liste per le Europee del Pdl il nome di Berlusconi si staglierà su quello degli altri candidati: il premier mira infatti a sfondare il tetto dei 3 milioni e mezzo di preferenze. Sarebbe una sorta di plebiscito che avrebbe dei riflessi nei rapporti politici e istituzionali. Perché, per quanto l’equiparazione sia del tutto impropria, mediaticamente farebbe un certo effetto quella massa di consensi rispetto ai 543 voti raccolti da Napolitano in Parlamento nel giorno della sua elezione al Quirinale. È così che il Cavaliere misurerebbe la distanza con il Palazzo, esercitando una pressione che non verrebbe mai esplicitata. Non passa occasione infatti senza che il premier rinnovi la propria «incondizionata stima» per il capo dello Stato.

Ecco come si gioca la partita, Napolitano ne è consapevole, e ieri ha fatto la prima mossa. Ma non sembra il Colle l’obiettivo di Berlusconi, da un paio di anni il tema gli è indifferente, tanto da non aver dato peso nelle scorse settimane a una battuta che gli era stata riferita, e che era stata attribuita al presidente della Camera: «Parliamoci chiaro, se fra quattro anni si vota per il Quirinale, chi avrebbe più voti tra me e Silvio»? «Non ci crederei nemmeno se l’avessi sentita con le mie orecchie», ha tagliato corto il premier. È dalla tolda del governo che ambisce a varare la riforma silenziosa. Da tempo ci pensa, ben prima che tornasse a palazzo Chigi. Proprio alla vigilia della caduta di Prodi, al senatore del Pdl Riccardo Conti giurò che «io lassù non ci voglio andare. Così com’è, il Quirinale è un mausoleo. Eppoi non intendo fare la fine di Fanfani », concluse, evocando le forche caudine del Parlamento che impedirono al potentissimo leader dc di salire al Colle. Insomma, senza un sistema autenticamente presidenziale il Cavaliere non correrebbe per la prima carica dello Stato.

Tesi ripetuta anche a Nucara, in tempi più vicini: «Quando gliene accennai — rivela il segretario del Pri — fu sbrigativo e chiaro. Se fosse del tutto sincero non lo so, però mi disse: "Nel caso, c’è Gianni", Gianni Letta». Berlusconi non vuole lo scontro istituzionale, non gli serve. La strategia si è disvelata ieri quando ha lasciato a Bondi il compito di replicare. In una breve nota il coordinatore del Pdl ha eluso gli affondi del capo dello Stato e ha commentato solo la parte del discorso sul rafforzamento dei poteri del governo, complimentandosi con il presidente della Repubblica che «ancora una volta ha saputo interpretare correttamente e saggiamente i bisogni del Paese e del suo futuro». Il resto è un silenzio che sa di assedio. E che può essere il preludio di nuovi conflitti sulla decretazione d’urgenza, sull’uso ripetuto della fiducia da parte del governo. «D’altronde, o si garantisce una corsia preferenziale in Parlamento per i provvedimenti dell’esecutivo—obietta Gasparri — oppure si fanno i decreti. C’è bisogno di una democrazia governante e più efficiente».

I rapporti tra Quirinale e palazzo Chigi sono inchiodati a questo problema irrisolto, restano segnati dallo scontro sul «decreto Englaro». «Con il capo dello Stato sono stato chiaro », spiegò giorni dopo il premier al governatore siciliano Lombardo: «Nulla di personale. Ho fatto presente le esigenze di governo. Tutto chiarito, per il momento». È dalle urne che Berlusconi vuol far emergere la riforma sostanziale del sistema, e siccome le Europee sono abbinate alle Amministrative — che impegneranno 30 milioni di elettori italiani — la percentuale dei votanti si preannuncia più alta di quanto in molti pronosticano. Proprio ciò che serve al Cavaliere per superare l’asticella dei tre milioni emezzo di preferenze.

Ha già in mente l’operazione di traino: i candidati del Pdl alle Amministrative saranno accompagnati dalla scritta «Berlusconi per...». C’è infine quella bomba ad orologeria chiamata referendum. La decisione di far votare i quesiti insieme ai ballottaggi, il 21 giugno, sembra un sistema appropriato di disinnesco. Se così non fosse, con il sistema elettorale cambiato per decisione degli italiani, il premier avrebbe addirittura a disposizione l’arma del voto anticipato. Sarebbe il colpo decisivo. Napolitano lo sa, perciò ieri si è spinto fino a chiedere la modifica della legge elettorale. È la linea Maginot del Colle.

Francesco Verderami

23 aprile 2009
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Voglio un 25 aprile di libertà (arroganza inutile. ndr)
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2009, 03:01:36 pm
Sette giorni

Berlusconi: basta pregiudizi

Voglio un 25 aprile di libertà

«Nel discorso non userò la parola comunista, non serve più»


Nel suo discorso sul 25 Aprile Silvio Berlusconi non userà la parola comunista, «non ce n’è motivo, non serve più». Perché secondo il premier c’è un solo modo per festeggiare la festa della Liberazione superando ogni divisione: è darle il senso di una «festa di libertà», «la libertà da ogni pregiudizio». Ed è come se cadesse un muro che per quindici anni ha resistito, perché dal ’94 —da quando scese in campo— il Cavaliere ha usato la parola «comunista» per fronteggiare gli avversari. Allo stesso modo, dal ’94, Il Cavaliere ha sempre percepito che la festa della Liberazione veniva vissuta dai «comunisti» come festa di liberazione da Berlusconi. La scorsa settimana, appena Dario Franceschini l’ha invitato a partecipare alla ricorrenza, il premier ha intravisto una trappola nell’offerta, tanto da aver reagito d’istinto sulle prime: «Possibile che quando governo io, del 25 aprile si debba cominciare a parlare dal 25 marzo? ». È stato allora che ha deciso di presenziare, e da allora ha iniziato a pensare a un discorso che fosse di conciliazione nazionale, giocato sul valore della tradizione e al contempo sulla necessità di una pacificazione. Così ha riposto l’armamentario ideologico di cui si è sempre servito per chiamare a raccolta gli elettori.

Via la parola «comunista» dal testo, «non ce n’è motivo, non serve più», ha detto ieri ai dirigenti del Pdl che avevano notato l’assenza di quel termine identificativo. E con un tratto di penna il premier ha abbattuto il muro che ha diviso finora il Paese, e che lo divideva da un pezzo di Paese. Scrivendo il discorso, Berlusconi si è fatto guidare dall’idea di offrirsi con un messaggio da capo di governo, non da capo di una parte, perché bisogna allungare lo sguardo «alle nuove generazioni». Non a caso ieri, parlando del suo ruolo di presidente del Consiglio, ha detto che «chi governa deve saper sempre guardare al futuro», e non solo nell’amministrazione degli affari di Stato. Libertà vuol dire essere «liberi da ogni pregiudizio». E se ha scelto Onna per parlare, è perché voleva accostare un remoto simbolo delle efferatezze naziste al dramma del terremoto che in queste settimane ha unito la nazione. Ricorda ancora, ieri l’ha ricordato, «il giorno dei funerali, io e Gianni Letta insieme, con gli occhi umidi, senza parole»: «Per una volta, finalmente, ho avvertito come nel dolore collettivo fossero state messe da parte le divisioni. Ho sentito la vicinanza e la gratitudine di chi abbiamo soccorso. Ho visto il coraggio dei soccorritori. E osservando tutto ciò mi sono sentito orgoglioso di guidare questo Paese».

C’era lo Stato quel giorno ai funerali, c’erano tutti gli uomini dello Stato a partecipare al lutto, epperò mancavano i simboli dello Stato, non c’era per esempio la Bandiera, non si è intonato il «silenzio» dopo le esequie religiose. E si è notato. «Qualche dettaglio, magari importante, è potuto anche sfuggire », ammette Berlusconi, che invita tuttavia a guardare «lo sforzo di chi sta gestendo una comunità di 75 mila persone, a cui abbiamo apprestato l’alloggio e continuiamo a garantire tre pasti caldi al giorno, i servizi igienici, l’assistenza logistica, l’assistenza sanitaria e quella psicologica». Insomma, se c’è stata una mancanza simbolica, si rimedierà al vertice dei Grandi, «perché — sostiene sempre il premier — ho voluto spostare il G8 a L’Aquila come segnale di solidarietà nazionale e internazionale. E proprio in termini simbolici significa che, non solo l’Italia, ma tutta la comunità mondiale si troverà vicino alle popolazioni colpite dal terremoto». La scelta di trasferire l’evento dalla Sardegna all’Abruzzo dice di averla «meditata a lungo»: «Ne ho parlato con Guido Bertolaso, e ovviamente con Gianni Letta, con il quale lavoro spalla a spalla. Insieme al capo della Protezione civile e al sottosegretario alla Presidenza avevo compiuto dei sopralluoghi alla Maddalena. Quella sede l’avevamo ereditata come governo, e ritenevo fosse una scelta sbagliata, con enormi problemi logistici e di sicurezza non ancora risolti, che per di più avrebbero comportato spese ingentissime».

Berlusconi fa capire che l’idea non è di pochi giorni fa, né risale all’ultima visita in Sardegna per verificare lo stato dei lavori alla Maddalena. Avviene molto prima, «quando ho visitato la scuola della Guardia di Finanza dell’Aquila, e mi sono reso conto che la struttura era, è adeguata alle esigenze di un vertice complesso come il G8, che il secondo giorno diventerà un G14 e il terzo un G21». Letta e Bertolaso «subito si sono trovati d’accordo », e insieme a loro Giulio Tremonti, perché «con questo spostamento si risparmiano 220 milioni di euro». Si dice che Berlusconi non riesca a tenere un segreto, eppure stavolta nulla è trapelato fino al Consiglio dei ministri di due giorni fa. Ancora la mattina, poco prima di recarsi all’Aquila per la riunione dell’esecutivo, molti esponenti del governo assicuravano alla stampa che il G8 si sarebbe svolto alla Maddalena. Il Cavaliere sorride, quasi a scusarsi con quanti «non ne sapevano nulla», se non li ha informati è stato per evitare fughe di notizie, «perché se l’indiscrezione fosse finita anzitempo sui giornali, ne sarebbe uscito un polverone, e tutto sarebbe stato più complicato. Poi però la proposta è stata approvata all’unanimità». Ma questa non è una novità. Il fatto nuovo ha imposto un frenetico giro di contatti con le Cancellerie straniere, «e fin dal primo momento abbiamo registrato da parte di tutti un consenso non solo formale. Non ho parlato con nessun capo di Stato e di governo, però da nessuno è giunto un veto, anzi ».

Ora Berlusconi è atteso a una prova quantomai rischiosa, ne è conscio ma è convinto di riuscire a superarla. È certo che l’idea di organizzare il G8 in Abruzzo non verrà interpretata dal Paese come una mercificazione del dolore a uso elettorale. Al momento l’opinione pubblica sarebbe dalla sua, lo si capisce quando accenna al fatto che «gli italiani stanno condividendo la mia scelta», svelando così di aver fatto uso a tempo di record dei suoi amatissimi sondaggi per testare il progetto. In passato—neppure tanto tempo fa — dinnanzi alle critiche che già salgono dall’opposizione per «un’iniziativa che sa di passerella », avrebbe risposto a muso duro. Oggi preferisce smorzare i toni, evitare la polemica, soffocarla in uno spirito di «unità nazionale». Certo, non manca di sottolineare che «l’opposizione è sempre contraria alle nostre decisioni. Ma — ecco la sorpresa — ho registrato anche delle eccezioni, dei segnali positivi. Le divisioni d’altronde non servono a nessuno, semmai in situazioni come questa dell’Abruzzo l’unità è davvero auspicabile ». C’era una volta il «Cavaliere nero », oggi c’è un premier che avverte di essere diventato «il presidente degli italiani», che finalmente celebrerà il 25 aprile, che salirà all’altare della Patria insieme al capo dello Stato, che ha tagliato dal suo discorso la parola «comunisti», e che inviterà il Paese a festeggiare la Liberazione come «la festa di chi ama la libertà». E «liberi da ogni pregiudizio» si appellerà alla «conciliazione nazionale».

Francesco Verderami
25 aprile 2009

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il premier ai suoi: stavolta non mi scuso
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2009, 10:13:48 am
IL RETROSCENA


Il premier ai suoi: stavolta non mi scuso


Il Cavaliere oggi vola a Milano per un chiarimento con la moglie dopo le critiche sulle candidate-veline
ROMA - Non sapeva se ridere o di­sperarsi, Enrico Letta: «Stanno per arriva­re dati terrificanti sul fabbisogno dello Stato, e di cosa si parla? Di 'papi'». Per­ché in effetti non si parlava d’altro ieri in Parlamento, della diciottenne Noemi che chiama Berlusconi «papi» e dell’en­nesima sfuriata di Veronica Lario contro il marito. Ma per quanto possa apparire paradossale non c’è differenza tra questa storia d’interno familiare e i conti dello Stato, perché lo scontro tra il premier e la sua consorte è un affare di Stato nel sistema della seconda Repubblica.

Così la «dynasty all’italiana» si è pre­potentemente infilata nelle dinamiche politiche. All’ombra di una lite privata sulla suddivisione dell’asse ereditario— con Berlusconi a dir poco irritato con la moglie, «la signora», che starebbe cer­cando di «mettermi contro i figli» — si sono prodotti effetti sul Pdl e sul gover­no, con ministri e dirigenti di partito pre­occupati per i contraccolpi d’immagine alla vigilia delle elezioni. Perché dopo il 25 aprile il Cavaliere è schizzato ben ol­tre il 73% nella fiducia degli italiani e il suo partito nei rilevamenti ha raggiunto «quota 45%». Insomma, il rischio che la lite recasse danni c’era. Non a caso ieri mattina il Ca­valiere ha commissionato subito un son­daggio, dal quale — così ha spiegato in serata ai suoi — «sono uscito vincitore». Gli italiani sarebbero dalla sua parte, «stavolta non dovrò chiedere scusa», co­me accadde nel 2007 dopo la lettera in­viata dalla moglie a Repubblica. Tanto basta per capire quanto abbia inciso la faccenda privata nelle faccende pubbli­che. Ecco perché martedì — venuto a sa­pere in mattinata delle intenzioni della moglie — Berlusconi aveva invano tenta­to di evitare che la questione esplodesse. Ecco perché oggi avrebbe intenzione di volare a Milano. Ecco il motivo per cui sarebbe saltato il pranzo con Fini. D’altronde non sarebbe stata una cola­zione serena, dato che Berlusconi aveva il dente avvelenato con il presidente del­la Camera, perché la sua fondazione, Fa­refuturo, con un articolo aveva sparato a zero sulle «veline in lista», prima che la moglie lo attaccasse.

Quando poi la si­gnora Lario ha fatto riferimento proprio a quell’articolo, apriti cielo. È vero che Fi­ni aveva in parte rettificato il tiro di Fare­futuro, ed è vero che le liste del Pdl all’ul­timo momento sono state in parte sbian­chettate, «ma le candidature — racconta il coordinatore Verdini — erano concor­date, Gianfranco ne era a conoscenza. Più volte l’ho sentito in questi giorni». La Russa conferma la versione del colle­ga, «eravamo d’accordo su tutto, anche perché avevamo potere di veto sulle pro­poste ». Il ministro della Difesa, chiamato spes­so a fare da pompiere tra il Cavaliere e Fini, ci prova anche stavolta: «A parte il fatto che Gianfranco ha preso subito le distanze dall’articolo di Farefuturo, Sil­vio non ce l’ha con lui. Diciamo che gli attribuisce una sorta di 'responsabilità oggettiva', come accade alle squadre di calcio che devono rispondere del com­portamento dei tifosi sugli spalti». Sarà, ma ciò non basta a placare l’ira del premier, pronto a sfidare tutto e tut­ti, facendo campagna elettorale «con le veline a fianco»: «Ho chiesto dei giovani perché non volevo che le liste fossero in­zeppate dai soliti noti, per di più d’età avanzata. Mentre il Pd candida Berlin­guer e Cofferati, alla faccia del rinnova­mento. Ed è spregevole quello che han­no detto sul conto di alcune ragazze. La stessa cosa l’avevano fatta con Mara Car­fagna. E poi...». E poi Franceschini ha ri­conosciuto che verso la ministra «gli uo­mini hanno mostrato tutto il loro razzi­smo inconsapevole, il loro maschili­smo ». Insomma, dirà pure «cose sbaglia­te » ma è «preparata». Non erano tuttavia solo le «veline in lista» il motivo del dissidio tra Berlusco­ni e sua moglie, e se la «dynasty all’italia­na » è diventata un affare di Stato, è pro­prio il leader del Pd che l’ha spiegato nel­l’intervista alla Stampa, quando ha getta­to lì che «dopo Silvio ci sarà Pier Silvio».

Non era una battuta, c’era dietro un ra­gionamento sul sistema presidenziale ca­ro al Cavaliere, e che riproduce il model­lo statunitense, dove da decenni le gran­di famiglie si contendono la Casa Bianca: dai Kennedy, ai Bush, ai Clinton. Ecco perché ieri non si parlava d’altro in Parlamento, nonostante la crisi, l’Abruzzo. E soprattutto il sì del Cavalie­re al referendum. Una mossa dirompen­te. Perché è vero che il 21 giugno difficil­mente la consultazione otterrà il quo­rum, ma ci sono alcune variabili che ven­gono calcolate nel Pdl: insieme al 12% de­gli italiani che andrebbe a votare per i ballottaggi, c’è un 15% di cittadini legati al referendum. Se poi a sostenerlo ci fos­sero Berlusconi, Fini e Franceschini... Di qui alle Europee il premier non di­rà altro sull’argomento, attenderà il risul­tato delle urne. E se davvero superasse il 45%, allora potrebbe anche decidere di dare un ulteriore segnale sul referen­dum. «E se passasse — come dice Cic­chitto — sarebbe con quella legge che si andrebbe a votare». Magari in anticipo.

Francesco Verderami
30 aprile 2009

  da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI La preoccupazione per il fronte cattolico
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2009, 11:20:02 am
Il retroscena Berlusconi vuole evitare il Tribunale e arrivare a un compromesso

Lo sfogo del Cavaliere : «Contro di me ondata di falso perbenismo»

La preoccupazione per il fronte cattolico


(28 aprile 2009) ROMA — Ancora una settimana fa era «il presidente di tutti gli italiani». Ci ha pensato sua moglie, «la signora», a picconare il basamento della statua. Perché sarà pur vero che, per ora, Silvio Berlusconi tiene nei sondaggi, che tutti gli analisti giudicano la lite familiare priva di riflessi sull'elettorato. Ma il Cavaliere - dopo l'affondo di Veronica Lario - teme che «l'offensiva di perbenismo e falso moralismo avviata contro di me» possa alla lunga intaccare la sua immagine, il suo indice di gradimento presso l'opinione pubblica, e infine i suoi consensi.

È il fronte cattolico che lo preoccupa maggiormente, lì c'è il rischio di uno smottamento, e come non bastassero gli avversari «c'è anche l'amico Umberto», Umberto Bossi, che si è messo a fare la talpa per scavargli la terra sotto i piedi. Competition is competition, vale anche per il centrodestra. Fossero questi tutti i suoi problemi. Il fatto è che la «Dinasty» all'italiana impone al premier di tutelarsi su molti, troppi fronti. Il primo è legato alla pesante allusione della moglie sulla «frequentazione di minorenni». I rischi potrebbero non limitarsi a un contraccolpo nell'ambito politico e nella controversia del divorzio. Perciò il Cavaliere ha anticipato un pezzo della sua strategia mediatica: le foto della festa a Casoria per i 18 anni di Noemi Letizia, la giovane che chiama Berlusconi «papi», verranno pubblicate sul prossimo numero di Chi, settimanale del gruppo Mondadori. Ma ieri il tg di Italia1, Studio Aperto, le ha mostrate come anticipazione, «ed è la prova della mia moralità e buona fede». È evidente come la strategia d'immagine del premier s'intrecci con la linea legale, per controbattere alle accuse della Lario. Raccontano che in queste ore il suo umore ondeggi tra un senso di liberazione, «mi sento un uomo libero» ha detto, e picchi di indignazione verso «la signora»: «Lei non mi vuole parlare? Sono io che non voglio parlarle».

Le battute sul «sobillatore» della Lario e sui «giornali di sinistra» non sono state affatto casuali: agli amici il Cavaliere ha fatto un identikit preciso del personaggio, rivelando che «Veronica ci passava le ore al telefono, subendone il fascino intellettuale e finendo per prestarsi a una macchinazione politica». Pare che voglia addirittura farne uno dei punti della linea di difesa. Ma c'è di più: il premier immagina che dietro le mosse della (ex) moglie si celino «avvocati e finanzieri», e che dunque sia l'impero dell'«imperatore» nel mirino. Una cosa è certa, Berlusconi non può né vuole arrivare in tribunale. I panni di famiglia diverrebbero cosa pubblica e sarebbe un disastro che vorrebbe risparmiare anzitutto ai figli. Per questo è propenso a ricercare un compromesso. È l'unico punto sul quale i due (ex) coniugi concordano. Si preannuncia uno scontro fra eserciti legali. È in questo clima che descrivono un Fedele Confalonieri assai preoccupato per la serenità dell'amico e anche per la tranquillità di Mediaset. Al patron del Biscione, che si è sempre speso per pacificare le cose tra «Silvio» e «Veronica», non piace l'idea dell'azienda ridotta a prateria dove si fanno scorribande.

D'altronde c'è chi - toccando ferro - rammenta come finì la vicenda dell'Arnoldo Mondadori Editore, che iniziò proprio con una lite tra due rami della stessa famiglia. E ci sarà un motivo se ieri - mentre lo staff del Cavaliere si preparava già a fronteggiare «un'estate di paparazzate contro il premier» - ad Arcore veniva ricevuto Bruno Ermolli, amico strettissimo di Berlusconi e grande consulente di strategie aziendali. Il Biscione va difeso, il Biscione non si tocca. Fuori dalla porta il Cavaliere ha lasciato le vicende politiche, l'astio verso «quel Fini» a cui attribuisce un ruolo - per quanto indiretto - nella vicenda, e il disappunto verso Bossi. La battuta del leader leghista sulle veline non gli è piaciuta, perché «quando Walter Veltroni ha candidato Marianna Madia, tutti hanno parlato di ricambio generazionale. Invece, appena ho proposto io delle giovani, una delle quali ha persino collaborato con le agenzie delle Nazioni Unite, si è scatenato il putiferio. Altro che ciarpame, questo è razzismo».

Ancora una settimana fa Berlusconi era «il presidente di tutti gli italiani». Non è stata l'opposizione a picconarlo ma la (ex) moglie. Così sì è aperta una crepa, e tutti lavorano per allargarla. Tra il serio e il faceto l'altro giorno la leghista Emanuela Dal Lago commentava: «Magari potessimo candidare la Lario con noi...». Berlusconi è consapevole dello sbrego, e per quanto cercherà di abbassare i toni della vicenda familiare, lo scontro legale e mediatico sul divorzio si preannuncia durissimo. Sarà stato un caso, ma il 30 aprile, proprio dopo l'attacco della «signora» al Cavaliere, sulla prima pagina del Giornale è apparsa la rubrica «controcorrente» con uno strano testo: «Una delle celebri figure della corrida è la Veronica. Il toro il più delle volte ne esce male».

Francesco Verderami
05 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI E il tarlo del Cavaliere ora è stravincere alle Europee
Inserito da: Admin - Maggio 09, 2009, 10:13:20 pm
Giorni di umore nero nel timore di conseguenze elettorali legate alla crisi familiare

E il tarlo del Cavaliere ora è stravincere alle Europee

I consigli di Confalonieri, che l’ha invitato a far spostare l’attenzione dalle vicende personali alle questioni politiche


Il consenso è sempre in prestito, e non c’è dubbio che gran parte del Paese continui a investire su Silvio Berlusconi. Ma da due settimane qualcosa è cambiato, e la «sindrome del tarlo» si è insinuata nella mente del premier, intaccando l’immagine di chi si sentiva ormai «il presidente di tutti gli italiani». Per certi versi Berlusconi l’aveva previsto, «con sondaggi così alti posso solo scendere», ma immaginava che le difficoltà sarebbero arrivate per questioni di governo o per iniziativa del­l’opposizione. Invece, proprio in coincidenza con il primo com­pleanno del suo esecutivo, è co­stretto a fronteggiare una crisi familiare che è tracimata nel­l’ambito politico, incidendo sul­l’umore e interferendo con l’azione.

C’è un tarlo che mina in que­ste ore il suo stato d’animo e che alla lunga rischia di eroder­ne l’immagine dinanzi all’opi­nione pubblica. Cosa già vista e vissuta, non è un caso se ha evo­cato la parabola del 2001 come a esorcizzarla. Francesco Cossiga, che giorni fa gli ha reso visita, conosce l’Italia delle piazze Vene­zia e dei piazzali Loreto, sa quali sono i sintomi della «sindrome del tarlo» e quali possano essere gli effetti: «Alle Europee, con una vittoria elettorale, è chiaro che Berlusconi potrà spazzare tutto via. Nella democrazia dei numeri chi prende i voti prende il banco. Ma il premier — ecco il punto — d’ora in avanti dovrà stare attento, perché al primo scivolone gli italiani gli faranno pagare anche questa vicenda, e con gli interessi». Perciò il Cavaliere deve scon­giurare l’evenienza, deve impe­dire che il tarlo lo logori politica­mente dall’interno. Fedele Con­falonieri, l’amico di una vita, è consapevole del problema, fin dall’inizio l’ha invitato a tenere i toni bassi sulla questione fami­liare. Non è dato sapere se fosse d’accordo con il passaggio televi­sivo di Berlusconi, è certo che al­l’indomani di «Porta a Porta» l’ha esortato a cambiar registro: «Silvio, ora concentrati sulle co­se da fare. Tu sei il presidente del Consiglio, occupati del go­verno, dei problemi economici, dell’Abruzzo, e lascia perdere il resto».

Ma non è semplice sdoppiar­si, infatti a ogni incontro, a qual­siasi interlocutore, il Cavaliere ri­pete che «quanto mi sta accaden­do è incredibile. Mia moglie poi, mia moglie...». Con la signora Lario i rapporti sono interrotti. Come sono interrotti i rapporti politici con Gianfranco Fini. Rac­contano che il suo umore sia pessimo, spesso lo sorprendono con il pensiero altrove. Persino l’altra sera, alla cena con gli in­dustriali, dove ha sfoggiato sor­risi di rappresentanza, a un cer­to punto si è lasciato andare. È stato quando — elogiando gli esponenti del suo governo — ha speso parole particolari per Sandro Bondi: «È la persona con il più alto tasso di coerenza e le­altà nei miei riguardi». Tutti hanno capito, perché il ministro dei Beni Culturali è stato l’unico a presentarsi in tv a difenderlo sulla «dynasty all’italiana».È davvero paradossale quan­to accade, perché Berlusconi sta vivendo con il Paese la più lun­ga luna di miele della storia re­pubblicana, nessun presidente del Consiglio è mai riuscito a tenere un legame così forte e duraturo con l’opinione pub­blica, malgrado il tracollo dell’economia mondiale.

Ancora ieri ha presentato il rendiconto del primo anno di governo, che nel Paese è valutato— a leggere i sondaggi — positivamente. Ma c’è un mo­tivo se Gianni Letta, nei colloqui riservati, è parso agitato ai mini­stri, preoccupato com’è per la faccenda che coinvolge il pre­mier: «In questo momento — si è raccomandato — bisogna esse­re prudenti». È vero, il governo sta andan­do avanti, ha «rafforzato la sua squadra», come dice il Cavalie­re, e sembra anche che si avvici­ni il tempo delle nomine. Ma tut­to appare sospeso, in attesa che il capo muova il passo. La cam­pagna elettorale del Pdl, per esempio, è ancora bloccata. Ber­lusconi l’aveva impostata con uno stile istituzionale, lui che fi­no a due settimane fa si sentiva «il presidente di tutti gli italia­ni » aveva deciso di non usare i famosi cartelloni sei per tre, che l’avevano reso vincente: «C’è la crisi economica, eppoi sono in­flazionati. Meglio puntare sul governo del fare».

La mission in Abruzzo, il 25 aprile, il G8 all’Aquila, così ipo­tizzava di realizzare il pieno nel­le urne. Ieri in Abruzzo non c’è andato più. Domani non andrà a Marcianise, domenica si dice sal­terà l’apertura della campagna elettorale per la provincia di Mi­lano. Intanto la Lega ha appicci­cato i suoi manifesti in tutto il Nord, e nei report riservati sem­bra pronta a far man bassa in Ve­neto. L’opposizione nel frattem­po alimenta «il tarlo» e inizia a lavorarlo ai fianchi proprio sul­l’Abruzzo, dove Berlusconi ha su­scitato aspettative altissime. Da tre giorni Europa, quotidiano del Pd, batte sullo stesso tasto in prima pagina: «Basta con la tre­gua. È ora di alzare la voce». Non a caso il governo ha modificato il decreto, affidando inoltre al sindaco dell’Aquila la responsa­bilità della ricostruzione. È un modo per coprirsi il fianco.

Ma è un altro oggi il vero fian­co scoperto del Cavaliere, lui non ha bisogno degli amatissi­mi sondaggi per percepire l’umore del Paese. Veleggia oltre quota 40%, è vero. Ma deve sni­dare il tarlo, quel dubbio che al­la lunga può far presa sugli ita­liani. E magari evidenziarsi in autunno, al primo incidente se­rio di percorso. Per riuscirci de­ve decidere come riproporsi do­po la crisi familiare, se tornare sulla scena o isolarsi per un po’. In entrambi i casi deve mettere in conto dei rischi. Esserci o non esserci (nelle piazze), que­sto è il suo dilemma.

Francesco Verderami
09 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il Cavaliere sceglie di evitare le piazze e mette in ...
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2009, 12:09:37 am
Settegiorni

Il Cavaliere sceglie di evitare le piazze e mette in agitazione il partito

I tre coordinatori pdl: gli mettiamo pressione perché si mostri ma lui rinvia
 

Un altro fine settima­na senza poter osten­tare il corpo del capo in campagna elettorale. Sil­vio Berlusconi è in Rus­sia, non sui palchi dei co­mizi per il Pdl, e a nulla finora è valsa la proces­sione di ministri e dirigen­ti di partito, preoccupati per la sua assenza. Nel Pdl tutti sgomitano per ave­re il premier nella loro città, «se non per un discorso, per un atto di presenza, Silvio. Almeno una passeggiata». Sanno che è il re Mi­da del consenso, capace - così di­cono i sondaggi - di incidere fino a cinque punti ad ogni apparizio­ne in favore di un candidato, e di lasciargliene incollati due dopo la partenza. E siccome - per dirla con Fedele Confalonieri - «la lea­dership di Berlusconi è una lea­dership fisica», è chiaro il motivo dell’allarme.

Senza il Cavaliere il marchio non tira, almeno non co­me potrebbe. Se non c’è, se non appare, è per­ché la vicenda familiare ha lascia­to il segno, anche politicamente. Raccontano che ieri in Consiglio dei ministri sia rimasto sulle sue. Cordiale come al solito, ha orga­nizzato anche un rinfresco per fe­steggiare la prima volta di Miche­la Brambilla a palazzo Chigi. Ma non ha riempito di barzellette la pre-riunione, nè Gianni Letta ha dovuto usare il campanello per fermarlo. Solo una battuta, ripetuta poi in conferenza stampa, sempre sul tema delle «veline» e delle «mino­renni ». Ne fa uso da settimane per indurre l’opinione pubblica ad andare oltre, e anche per met­tere ordine tra le macerie del suo personale terremoto d’immagine. Perché è vero - come spiega il sondaggista Nando Pagnoncelli ­che «gli italiani sono pragmati­ci », che «la vicenda ha inciso po­co sulla valutazione del governo e sull’orientamento di voto», mentre «è nel giudizio sulla per­sona che Berlusconi risulta in ca­lo ».

Ma è proprio questo il punto. Ignazio La Russa dice di essere andato a trovarlo «insieme a San­dro Bondi e Denis Verdini», gli al­tri due coordinatori del partito: «Gli stiamo mettendo pressione per farsi vedere. Lui però riman­da. D’altronde, ben prima che gli capitasse la faccenda, ci aveva av­visato delle sue intenzioni. Vole­va impostare una campagna elet­torale sobria». Non è mancato nè mancherà agli appuntamenti isti­tuzionali, alle convention delle ca­tegorie produttive che sono vola­no di consensi. Ma sempre al chiuso, sempre in luoghi asettici, e da presidente del Consiglio non da leader che si fa toccare per stra­da, come ha sempre fatto da re taumaturgo, da moderna icona pop-politica. È il prezzo che il Pdl sta pagan­do per la bufera scoppiata dopo quella festa dove Noemi l’ha chia­mato «papi». «È un prezzo che sta pagando il suo partito e lui personalmente», sostiene France­sco Cossiga: «Se non si mostra in pubblico è perché teme che gli gettino una signorina tra le brac­cia per menare altro scandalo». Di più, teme «la calunnia». Come ha confidato giorni fa ad un ami­co, «un conto è che mi diano del playboy, cosa che mi lusinghereb­be, altra cosa è se mi dicessero una parola che non voglio nem­meno pronunciare». Cossiga è andato a trovarlo la scorsa settimana, l’ha visto «incu­pito e sofferente per l’atteggia­mento della moglie». Non solo. Secondo l’ex capo dello Stato «sul­la storia di Casoria, Berlusconi pensa di esser stato attirato in una trappola. E quando parla di 'congiura' non si riferisce ai gior­nali o alla sinistra, che semmai ci sono montanti sopra. No, lui pen­sa ad altro».

Non è dato sapere di cosa si tratti, è certo - lo riferisce Cossiga - che «durante la nostra conversazione ha avuto apprezza­menti per Massimo D’Alema»: «'Se ci fosse stato D’Alema a diri­gere il Pd - così mi ha detto - non avrebbero sollevato un polvero­ne. Come mi ripeti sempre, caro Francesco, resta il migliore di quelli lì'». Berlusconi non c’è, oggi è in Russia. Ad essere maggiormente preoccupati sono gli ex azzurri, impegnati nella sfida intestina con gli ex di An. Altro che liste bloccate: dalla lotta delle preferen­ze si stabiliranno i rapporti di for­za interni, oltre gli eurodeputati per Strasburgo. «Il Pdl è nato ma è una fatica tenerlo insieme», ha commentato il premier la scorsa settimana, dopo l’ennesima riu­nione per l’ennesima vertenza. Perché sarà anche vero che il Cavaliere non si muove - «il presi­dente non ci ha fatto ancora ave­re la sua agenda», è il refrain quo­tidiano - però è concentrato sul­l’appuntamento di giugno. E fa previsioni: il Pdl «supererà il 40%, e ogni frazione in più sarà per me un successo», mentre il Pd «perderà moltissimi punti ri­spetto alle Politiche, ma non sarà una disfatta, arriverà al 26%», un risultato che - a suo dire - non fa­rà crollare il progetto. È così che attende di tornare in campo, perché lo farà - non c’è al­cun dubbio - a ridosso delle urne. E chissà, forse l’assenza, l’astinen­za dal contatto con «il popolo», è l’ennesima trovata elettorale, un modo per suscitare curiosità, cre­are aspettativa. Il tentativo di rico­struirsi quel profilo che ha perso tre settimane fa.

Francesco Verderami
16 maggio 2009

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI. Silvio: «Cosa vogliono, che mi dimetta?» (SI ndr)
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2009, 10:46:23 am
Il capo del governo preoccupato anche dagli effetti delle vicende personali

Toghe e caso Noemi: Silvio si sente «braccato»
 
Berlusconi ritiene di essere vittima di un’operazione che mira a destabilizzarlo.

«Cosa vogliono, che mi dimetta?»
 
 
ROMA — «Cosa vorrebbero, che morissi in un attentato? Cosa dovrei fare, scompari­re?». Berlusconi si sente come un toro a cui i picadores stanno infliggendo le banderillas, per poi lasciarlo senza forze al colpo del mata­dor. Dice di essere «circondato, braccato», e ie­ri pomeriggio la sua furia senza bersaglio era rivelatrice del suo stato d’animo: «Sono scon­fortato. Vogliono che molli tutto e mi dimetta? Questo vogliono? Massì, chi me lo fa fare, arri­vederci...»

Così aveva farcito le sue conversazioni pri­ma di presentarsi all’Aquila. E quel ragiona­mento svolto con autorevoli ministri e dirigen­ti di partito, quell’atto d’accusa verso una spectre priva di volti e di nomi, aveva allarma­to la corte del Cavaliere, dove a un certo punto era prevalso il timore che davvero il premier fosse pronto a un gesto clamoroso, di sfida quantomeno, se non addirittura di rassegnazio­ne. È chiaro che senza Berlusconi l’intera archi­tettura politica cederebbe, perché senza di lui ­ lo spiegò tempo addietro Confalonieri - salte­rebbe tutto. Ma non è questione all’ordine del giorno, semmai il patron di Mediaset è preoccu­pato per l’amico di una vita, teme che altre ban­derillas possano venire usate per stroncare una leadership che oggi non ha rivali.

La sentenza Mills è un altro colpo all’imma­gine del premier, «coperto» dall’avvocato in­glese e protetto dal lodo Alfano. Certo, l’ennesi­ma offensiva contro Berlusconi per la sua enne­sima vertenza giudiziaria, nelle urne potrebbe trasformarsi in un boomerang per l’opposizio­ne. Ma per quanto possa apparire paradossale, la campagna elettorale non interessa più nes­suno, nell’inner circle del Cavaliere se ne sono convinti, «tanto, anche se il Pd arrivasse al 27% invece del 25%, si direbbe che in fondo ha ottenuto un buon risultato rispetto alle atte­se».

È Berlusconi nel centro del mirino, almeno così lui si sente: vittima di un’operazione che mira a destabilizzarlo. E più del caso Mills, è ossessionato dai vortici sulla vicenda di Noemi che lo chiama «papi», da quella parola terribile che non osa nemmeno pronunciare, che teme di veder affiorare sulle labbra dei suoi contestatori, o di veder riproposta sulle prime pagine della stampa internazionale quando ospiterà i leader mondiali al G8. Ecco oggi la priorità del premier: c’è un’immagine da rico­struire in fretta, come l’Abruzzo, anche al co­spetto dei potenti della Terra. L’ha fatto capire quando ha ammesso che «il danno c’è stato, certamente», e che sarà chiamato a «uno sfor­zo per far passare la realtà» con le cancellerie straniere.

Sarà pur vero che l’indice di gradimento re­sta altissimo, «ero al 75,1% e sono calato solo dello 0,3%, cioè nulla». Ma intanto l’altra sera alla cena elettorale di Milano — citando gli amatissimi sondaggi — è rimasto sul vago di­cendo che «il Pdl sta ben sopra il 40%», lascian­do intuire una flessione. Eppoi, a forza di subi­re colpi, il rischio è che un tarlo possa logorare il suo rapporto con l’opinione pubblica, anco­ra solidissimo. Chi lo cinga d’assedio non lo di­ce, al di là dell’offensiva contro «la stampa di sinistra». Che sia pronto a ribattere è evidente, quando annuncia di volersi recare in Parlamen­to a parlare di giustizia.

Ma Berlusconi avverte l’accerchiamento. La crisi economica sembrava il suo unico nemi­co. In autunno, «quando eravamo sull’orlo del­l’abisso », Tremonti aveva scorto strane mano­vre dentro e fuori il Palazzo, le aveva attribuite al «partito della crisi», a «quelli del tanto peg­gio tanto meglio». «Sfascisti idelogici», li ave­va definiti il titolare di via XX Settembre, «so­no personaggi che si illudono di poter eredita­re qualcosa dalla caduta del governo, senza ca­pire che una crisi non sarebbe solo la fine del­l’esecutivo ma la fine di tutto». «L’allarme è rientrato», spiegava Tremonti una settimana fa. Ora c’è un altro fronte, ben più insidioso, a preoccupare il Cavaliere.


Francesco Verderami

20 maggio 2009
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il retroscena: Anche Letta preoccupato
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2009, 06:26:35 pm
Il retroscena: Anche Letta preoccupato

Il premier e la sindrome dell’«anatra zoppa»: disegno contro di me


ROMA — Il sorriso negli ultimi tem­pi Berlusconi lo indossa solo nelle occa­sioni pubbliche, e anche in quei casi la maschera a volte cede. D’altronde non è facile celare l’inquietudine per chi si sen­te «vittima di un disegno costruito a ta­volino » che ha l’obiettivo di indebolirlo, fiaccarlo e infine isolarlo, per trasformar­lo in un’anatra zoppa, in un leader cioè senza più leadership, in un premier sen­za più potere, in attesa di essere sostitui­to. È un’ossessione che non lo lascia più, anzi che è proprio il Cavaliere ad ali­mentare giorno dopo giorno, andando alla ricerca di riscontri che convalidino la tesi.

Perché è vero che nel Palazzo e nelle ur­ne non c’è al momento la possibilità di scalfire la sua forza: non ci sono i numeri in Parlamento per un ribaltone, nè c’è un’opposizione in grado di rimontarlo nei consensi, «e siccome non riescono a colpirmi politicamente, stanno tentando altre strade». Il punto è che il suo tallone è ben in mostra, le vicissitudini personali hanno allargato l’area del bersaglio. Lo de­scrivono «assai irrequieto e angosciato», convinto com’è che «siamo solo ai preli­minari »: il colpo semmai — ecco il moti­vo del suo stato d’animo — lo attende do­po le elezioni, a ridosso del G8.

In questa sindrome che lo attanaglia, Berlusconi intravede una sinistra coinci­denza a sostegno delle sue congetture: nel ’94, al vertice di Napoli, fu l’avviso di garanzia del pool di Mani Pulite a desta­bilizzarlo; stavolta — siccome nemme­no il caso Mills sembra produrre quegli effetti — teme ci proveranno «con la spazzatura». Se accadesse, sarebbe un terremoto. Raccontano che finora il pre­mier non sarebbe riuscito a capire da do­ve stia arrivando l’attacco: scartata l’ipo­tesi dell’opposizione e dei giornali, «ter­minali » a suo dire del disegno, lascia aperta la pista della magistratura, della finanza italiana e persino di lobby inter­nazionali.

Ancora ieri — dopo l’ennesima offen­siva contro il «Parlamento pletorico» e le «toghe rosse» — ha confidato di non aver paura di manovre di Palazzo: «Il pro­blema non sono Fini o Casini, figurarsi, ma certi poteri. Non vorrei stessero di nuovo pensando a mettersi in proprio». Non è un caso se nei giorni scorsi Gianni Letta si è mosso con riservatezza e caute­la nei panni dell’ambasciatore: ha avuto colloqui con Carlo De Benedetti, editore del gruppo Repubblica-L’Espresso, e con importanti banchieri. E non è un ca­so se ieri a Confindustria si è avvertito il gelo del premier con pezzi del gotha im­prenditoriale, se De Benedetti ha stretto le mani di (quasi) tutti i ministri senza mai incrociare il Cavaliere.

Difficile capire se Letta coltivi la stes­sa sindrome, di certo è preoccupato, per­ché convinto che «la campagna di ag­gressione », unita alla campagna mediati­ca, non si arresterà. Di più. Teme che sta­volta non sarà come ai tempi del «caso Saccà», quando da un’inchiesta della Procura di Napoli emersero le intercetta­zioni tra il dirigente Rai e il premier su alcune attrici. «Stavolta il tentativo per colpire Berlusconi sarebbe stato perfe­zionato, costruito meglio», sussurra un autorevole ministro. E non è facile spie­gare al Cavaliere che non può andare in pizzeria come uno qualunque o mostrar­si disponibile con chiunque. Nei giorni in cui tutto ebbe inizio, Berlusconi urlò ad alcuni suoi consiglieri: «Non sono te­nuto a dirvi sempre dove vado e cosa faccio. Non faccio nulla di male nella mia vita».

Ma è proprio lì che l’opposizione si prepara a mirare. Finora il Pd ha tenuto separato lo scontro politico dalle faccen­de private del premier, ma ora i Demo­cratici stanno raccogliendo le firme alla Camera per un’interpellanza urgente al Cavaliere, perché risponda «direttamen­te » ad alcune domande: «Quando e co­me ha conosciuto Benedetto Letizia»? «Qual è la natura dei rapporti con lui»? «Conosce le copiose proprietà immobi­liari della famiglia Letizia»? «Qual è la natura dei rapporti con Noemi che cono­sce da quando era minorenne»? «Dopo quanto affermato da Veronica Lario, ci sono altre minorenni che incontra o 'al­leva' »? E «quali sono le sue condizioni di salute». Tutto ciò — è scritto nel te­sto — per fare «chiarezza» su una vicen­da che «rischia di danneggiare l’Italia e le sue Istituzioni a livello internaziona­le », anche perché siamo «alla vigilia del G8»...

Francesco Verderami
22 maggio 2009

DA CORRIERE.IT


Titolo: Francesco VERDERAMI E il premier fa la conta dei nemici (e fa il lagnoso ndr).
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2009, 11:03:01 am
Il retroscena

Il capo del governo racconta della madre e della sorella scomparse: che vuoto nella mia vita

E il premier fa la conta dei nemici

Inquietudine anche per il caso rifiuti.

Sollievo sulla Chiesa: fandonie, i rapporti non sono rotti


Un mese fa, dopo il 25 aprile, si sentiva ed era «il presidente di tutti gli italiani». Un mese dopo eccolo, il premier, rifugiarsi nelle viscere dello stadio a San Siro, inseguito dai cori su «Noemi» e «papi», preoccupato che le telecamere possano immortalare la scena, trasformando quelle parole nelle moderne monetine di Craxi. Domenica scorsa per Berlusconi do­veva essere un test per il ritorno in pub­blico, un esperimento nel salotto di ca­sa, al «Meazza», con il suo Milan: è fini­ta peggio della sfida di calcio con la Ro­ma. Così il Cavaliere è tornato a rinta­narsi, a comunicare dal chiuso del suo ufficio, plumbeo nell’umore e sordo agli appelli di quanti gli chiedono di uscire allo scoperto e contrattaccare.

Come se non bastasse la gogna me­diatica di cui si sente vittima, e che gli sta procurando un calo nei consensi e un vistoso danno d’immagine interna­zionale, da giorni è assillato per una nuova offensiva giudiziaria, i cui con­torni gli sono ancora poco chiari, pro­veniente da Napoli, questo è certo, co­me sembra certo che la vicenda sia le­gata al problema dei rifiuti. In princi­pio aveva temuto soltanto per il capo della Protezione civile Bertolaso, ora sa di essere anche lui «nel mirino» e sostiene che «la manovra fa parte del disegno per colpirmi», per lavorarlo ai fianchi e fiaccarlo politicamente.

Quando si perde la serenità ogni om­bra ingigantisce i timori e i sospetti, sebbene l’opinione pubblica continui a sostenerlo nei sondaggi. Così nel san­cta santorum del premier c’è chi — fa­cendo di conto sui suoi «nemici» — ag­giunge alla lista addirittura il tycoon australiano Murdoch, e motiva questa congettura legando l’aumento dell’ali­quota agli abbonamenti per la tv satel­litare, deciso l’anno scorso dall’esecuti­vo, ai ripetuti attacchi del Times con­tro il Cavaliere.

In un’atmosfera davvero surreale, nel governo c’è persino chi racconta di strani conciliaboli dentro e soprattutto fuori dal Palazzo, su un fantomatico «governo di emergenza economica» da approntare se l’argine degli ammor­tizzatori dovesse cedere per l’aumento esponenziale della disoccupazione, precipitando il Paese in una crisi socia­le. «Mi viene da ridere», è stato il com­mento a denti stretti del premier. Ep­pure ieri Bossi è stato sibillino quando ha detto che la crisi economica durerà ancora due o tre anni, per poi aggiun­gere che «tutto dipende da chi sarà al­la guida. Se c’è Berlusconi qualche la­voro si trova». «Se» c’è Berlusconi? Ma la legislatura non termina tra quattro anni?

Il «caso Noemi» è come un fer­mo-immagine, la politica appare fer­ma, in attesa di nuovi e clamorosi col­pi di scena o di una reazione del pre­mier. Così s’inseguono voci su un ritor­no a breve in pubblico di Berlusconi, già stasera all’Olimpico per la finale di Champions, e illazioni senza fonda­mento, compresa quella che vorrebbe la ragazza di Casoria una «nipote segre­ta » del Cavaliere. Ecco quali effetti di­storsivi produce quell’immagine bloc­cata che ipnotizza tutti.

Ma la politica in realtà è in gran mo­vimento. La crisi della giunta siciliana, per esempio, è interpretata nel centro­destra come l’anticipazione di quanto potrebbe accadere nel day-after berlu­sconiano, il rischio cioè dell’implosio­ne del progetto pdl. Sul fronte delle ri­forme si prepara una union sacrée con­tro i progetti del Cavaliere. La Lega poi — come spiega il ministro Calderoli — è «preoccupata di far vedere i risul­tati del governo» e allo stesso tempo «è preoccupata per Berlusconi», per il suo stato d’animo. E nel Carroccio re­sta forte il timore per ciò che potrà de­cidere il premier sul referendum dopo le Europee.

C’è «Noemi» però. E allora si atten­de che persino la Cei prenda posizione sull’argomento. E l’ansia si era impa­dronita anche di Berlusconi, se è vero che ieri mattina — tirando un sospiro di sollievo — ha anticipato a un autore­vole ministro che «tra poco i vescovi italiani assumeranno una posizione comprensiva», che «farà giustizia di quanto si dice in giro, e cioè che si sa­rebbero rotti i rapporti con il mondo cattolico. Non è vero, tutte fandonie. La sinistra si illudeva». In effetti la Cei ha deciso di non esprimere un giudi­zio sul premier, anche se «non si può essere incuranti degli effetti che certi atteggiamenti producono».

Il Cavaliere non ha tirato a indovina­re, ancora una volta deve tutto alle rela­zioni diplomatiche Oltretevere di Gian­ni Letta. «Ma io vi giuro sulla testa dei miei figli che nulla di quanto si dice è vero», ha ripetuto Berlusconi ai suoi più fidati consiglieri: «Ed è avvilente che la sinistra si sia gettata così nelle mie tristi vicende personali». E nel rac­contare la propria tristezza ha evocato la madre e la sorella scomparse, «il vuoto che hanno lasciato nella mia vi­ta ». Medita di prendersi «una rivincita contro i fomentatori d’odio», intanto resta chiuso nel suo bunker. Solo con se stesso e con la sua valanga di con­sensi.

Francesco Verderami

27 maggio 2009
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Marina: «Superata ogni decenza Sono orgogliosa di mio padre»
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2009, 09:43:13 am
IL COLLOQUIO

Marina: «Superata ogni decenza Sono orgogliosa di mio padre»

«Da Franceschini arrivano scuse? Le respingo. Disegno politico contro il premier»


ROMA — Da settimane tace, «sono settimane che soffro senza dire una parola per quanto sta capitando a Silvio Berlusconi», così lo chiama. «Ma stavolta non posso più tacere». E stavolta non è la presidente di Fininvest e Mondadori a parlare, non è la donna che la rivista Forbes definisce «la più influente d'Italia», non è la signora che siede a Mediobanca. È Marina Berlusconi, una figlia che intende difendere l'onore del padre con le unghie, e con un tono di voce che ha fatto letteralmente ribaltare dalla sedia il fratello: «Hai sentito cos'ha detto l'onorevole Dario Franceschini?», ha urlato al telefono a Pier Silvio. Il Tg1 aveva appena trasmesso lo stralcio di un comizio del leader democratico: «Agli italiani e alle italiane vorrei chiedere una cosa. Fareste educare i vostri figli da Berlusconi?». È pomeriggio inoltrato e Marina è ancora arrabbiata. «Arrabbiata? Sono indignata. Furiosa. Eh no, basta. Ora basta davvero. Il signor Franceschini — così lo chiama — non può permettersi di insultare Silvio Berlusconi. Ma chi si crede di essere? Si rende conto della gravità della sua dichiarazione? Dovrebbe vergognarsi, v-e-r-g-o-g-n-a-r-s-i».

Al telefono si avverte il rumore di un pugno che si abbatte sulla scrivania, si sente il respiro affannoso di chi ha deciso di svestirsi del proprio ruolo in nome del padre: «Le parole di Franceschini sono un insulto, e non soltanto per Berlusconi. Perché insultando mio padre ha insultato anche me, la donna che sono, la madre che sono, e che sta trasferendo ai propri figli i valori che a loro volta mi hanno trasmesso i miei genitori». Si è sempre detto e scritto del legame particolare che unisce Marina al padre. Eccone la prova. «Si è superato ogni limite di decenza», protesta ad alta voce: «Questa non è libertà di parola, non è una semplice caduta di stile in campagna elettorale, questa è un'infamia». Perciò non accetta la puntualizzazione del segretario del Pd, dispiaciuto per il fatto che «le mie dichiarazioni sono state male interpretate». «Se si tratta di scuse, sono respinte. È la marcia indietro di chi si rende conto di aver sbagliato. Ma le sue parole al telegiornale le hanno sentite tutti. E penso che, come dirigente di partito, stia trascinando questa vicenda su un piano che con la battaglia politica, anche quella dei colpi bassi o bassissimi, non c'entra nulla». «Ma quale diritto ha di dire anche una parola, una sola, su Berlusconi padre? Io questo diritto ce l'ho e stavolta non intendo restar zitta. Vuol fare una domanda agli italiani? Gli rispondo da italiana, che è mamma e che ha avuto la fortuna di avere un genitore come Silvio Berlusconi. E parlo di fortuna non per il cognome che porta o per quello che ha fatto, ma per il padre che è stato e che è. Mio padre ha sempre lavorato tanto, ma non c'è stata una volta, una volta sola, in cui io non l'abbia sentito vicino quando ne avevo bisogno. E vicino nel modo giusto, a seconda delle situazioni: una presenza forte, se di quella avevo bisogno; o discreta, sfumata, se era la cosa giusta. Mi ha fatto sentire sempre molto amata, rispettata come figlia e come donna. Ha sempre compreso e sostenuto le mie scelte. Ma cosa ne sa Franceschini di me, di noi...».

Le regole della lotta politica le sono chiare, è la lezione morale che non accetta: «Il segretario del Pd parla di valori? Allora sappia che ho fatto dei valori che i miei genitori mi hanno trasmesso la spina dorsale della mia vita. Ed è grazie a tutto l'amore che mi hanno dato, e a quello che mi hanno insegnato, che oggi, a 42 anni, posso dire di essere una donna contenta, soddisfatta e fiera della mia vita, della mia famiglia, di mio marito, dei miei figli». Non intende parlare del «caso Noemi», «anche perché si tratta di una montagna di infamie costruite sul nulla», ed è la prima volta nel corso della conversazione che il tono cambia e si incrina: «Verrà il momento in cui mi toglierò i sassolini dalle scarpe, per restituire al mittente quei macigni fatti di parole che sono stati poggiati sul mio cuore di figlia. Verrà il momento. Non è ancora arrivato». Vive il dolore del padre, ne condivide lo stato d'animo dopo l'annuncio del divorzio da parte di Veronica Lario: «Ma quello che ho dentro preferisco tenerlo per me». Difende la privacy della famiglia, Marina, e racconta che «questo periodo difficile sta, se possibile, rafforzando il legame tra fratelli e sorelle. Ci sentiamo ancor più uniti». Ma oggi il «Berlusconi» da difendere è il padre, che certo è anche il premier. «E come si fa a negare che ci sia un disegno politico contro di lui?», commenta. «È un disegno portato avanti da chi non sa più nemmeno cosa sia la politica. È evidente: dopo tanto tempo c'è un governo stabile, che fa il suo lavoro, che dà soluzioni concrete, che ha restituito autorevolezza alle istituzioni. Si pensi per esempio a come ha gestito l'emergenza dei rifiuti in Campania e il terremoto in Abruzzo. Ci sarà un motivo se gli italiani oggi dicono che "finalmente lo Stato c'è". E ora il tentativo di distruggere Berlusconi rischia in realtà di distruggere la dignità recuperata dalla politica, e il ritrovato senso di una presenza utile ed efficace delle istituzioni». Ma non è il premier che Marina vuole difendere. Il Cavaliere ci penserà da sé. È l'onore del padre che le preme: «Io sono orgogliosa di mio padre come uomo e come genitore. Auguro sinceramente ai figli di Franceschini di avere un padre come il mio».

Francesco Verderami

28 maggio 2009
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il risultato delle elezioni indebolisce Berlusconi
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2009, 11:04:30 am
Il risultato delle elezioni indebolisce Berlusconi

Offensiva su intercettazioni e giustizia

Allarme per il voto dei cattolici

Tra i credenti perso il 20% in un mese. Crisi di immagine. E il premier ora teme uno choc sul G8


ROMA — È allarme rosso nel Pdl. Altro che 25 aprile, al­tro che pacificazione naziona­le, altro che dialogo e riforme condivise. Da domani maggio­ranza e opposizione contribui­ranno ognuna per la propria parte a rendere ancora più alto il muro che le tiene separate. Perché ormai è chiaro quale te­ma terrà banco in Parlamento fino all’estate, è sulla giustizia che si sfideranno i due schiera­menti. Berlusconi ha invitato il suo Guardasigilli a prepararsi per uscire allo scoperto, sapen­do che Bossi si comporterà da «alleato leale», dopo aver otte­nuto quanto chiedeva: la legge delega sul federalismo fiscale. E siccome al momento non ci sono le condizioni per un ta­volo bipartisan dove discutere sulle modifiche alla Carta costi­tuzionale, il Cavaliere vorreb­be sfruttare questi due mesi di lavoro parlamentare per porta­re a casa il nuovo testo sulle in­tercettazioni e la riforma del processo penale. Era questo il piano prima delle elezioni, ma il risultato delle urne lo conse­gna indebolito e sarà più com­plicato in questo modo dar bat­taglia.

Eppure lo scontro inizierà già domani alla Camera, dove si voterà la mozione del Pd che chiede l’abolizione del «lodo Alfano». Per l’ennesima volta sarà come ripiombare in un passato che non è mai alle spal­le, se è vero che si intravedono le ombre di ulteriori e clamoro­si colpi di scena giudiziari. Da tempo voci preoccupate ali­mentano i colloqui riservati dell’inner circle berlusconia­no, nuovi fantasmi si muove­rebbero nel triangolo delle pro­cure di Milano, Napoli e Paler­mo, con il Cavaliere — e non solo lui — nel mirino. È un’ipoteca politica che gra­va anche sul G8 dell’Aquila, do­ve Berlusconi teme «una sgra­devole sorpresa» come quella del ’94. È una questione che co­munque ieri sera è rimasta ai margini delle prime analisi sul voto.

A preoccupare i dirigenti del Pdl, semmai, è stato l’azzar­do del premier, che tenendo al­tissima l’asticella del risultato in campagna elettorale aveva prodotto un’aspettativa molto ambiziosa. Anche troppo. «Quota 40» era la soglia, inve­ce non solo è sceso sotto quel limite, ha ripiegato anche ri­spetto alle Politiche. Una scon­fitta. Nessuno lo immaginava nel Pdl, dove si è avvertito un sen­so di smarrimento, più di quanto ne avesse prodotto la sfuriata di Berlusconi qualche ora prima, irritato per la «pessi­ma organizzazione» dell’ulti­ma manifestazione a Milano: «C’era pochissima gente». Quella convention è stata em­blematica perché ha dato l’idea di un partito che stenta a decollare. In fondo, quando il premier sostiene di esser stato «forzato» a candidarsi, disvela la fragilità del Pdl.

Il punto è che Berlusconi re­sta l’unico attaccante, l’uomo panino, il collettore di consen­si. Fino al 25 aprile, infatti, quando ancora macinava gli avversari, quando si sentiva ed era «il presidente di tutti gli ita­liani », il Pdl veleggiava tra il 43-45%. Il Cavaliere appariva un dominus della politica ita­liana capace di proiettare la sua forza anche a livello inter­nazionale, prefigurando il Pdl come primo partito del Ppe e ipotecando persino la presiden­za dell’Europarlamento. Poi è cambiato tutto.

La crisi d’immagine è iniziata cinque settimane fa, il tarlo del sospet­to su Noemi, la ragazza di Caso­ria che lo chiama «papi», ha iniziato a minare il suo rappor­to con l’opinione pubblica, che aveva toccato il suo picco stori­co nel giorno della festa della Liberazione, quel «76%» di fi­ducia che lo stesso premier aveva definito «imbarazzan­te». Da allora è precipitato nei numeri personali. Una crepa si è aperta soprattutto con l’elet­torato cattolico: per i sondaggi­sti, in meno di un mese, c’è sta­to un crollo di venti punti per­centuali, concentrati sui cre­denti praticanti. E con lui ha preso a calare anche il Pdl. Berlusconi a quel punto ha capito di essere in affanno e do­po aver giocato la competizio­ne con la Lega si è aggrappato a Bossi. Nel Pdl c’è chi contesta le sue ultime sortite, perché non si possono cedere Kakà al Real e il Veneto alla Lega a po­chi giorni dal voto.

La sconfit­ta si fa cocente, paradossal­mente passa in secondo piano il fatto che si sia allargata la for­bice con il Pd. Resta la botta. È tutto da vedere se cambie­rà la strategia del Cavaliere, è certo che già prima delle urne il premier si era preparato a ri­solvere i casi politici aperti, riannodando i rapporti con il governatore siciliano Lombar­do e anticipando di voler lascia­re a un leghista la candidatura in Veneto alle prossime regio­nali. Berlusconi mirava (e mi­ra) a spegnere i focolai d’incen­dio per garantirsi un percorso parlamentare sicuro sui prov­vedimenti che gli stanno più a cuore, in modo poi da concen­trarsi su un G8 che non sarà fa­cile, vista la freddezza con cui la Casa Bianca tiene i rapporti con l’Europa intera. Immagi­narsi con l’Italia di un Cavalie­re che si è indebolito.

Francesco Verderami
08 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Fini riapre il confronto nel partito
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2009, 10:35:56 am
«Pdl fotocopia leghista, Sud deluso» Fini riapre il confronto nel partito

Telefonata al premier, critiche ai tre coordinatori. Il rammarico di Letta


ROMA — Voleva emulare De Gasperi, «voglio essere il De Gasperi di un’Italia moder­na », diceva il premier un mese fa, quando «quota 40» appari­va un obiettivo elettorale rag­giungibile, e che avrebbe fatto del Pdl un partito forte come solo la Dc degli anni Cinquan­ta. Sa che a far saltare il suo progetto non è stata l’opposi­zione, o la stampa straniera, o un complotto internazionale, ma «la mia signora», così ha sospirato ieri, sintetizzando il crescendo polemico iniziato sulla candidatura delle «veli­ne », e culminato nel caso Noe­mi, la ragazza di Casoria che lo chiama «papi». In quel mo­mento — un mese fa — Berlu­sconi avrebbe avuto bisogno di un partito che lo sorregges­se e ne surrogasse l’assenza, siccome «con tutte le infamie che i media mi hanno riversa­to addosso non ho potuto fare campagna elettorale».

Non è andata così perché il Pdl non è stato organizzato co­sì per volontà del Cavaliere. La novità è che il premier vuol porre rimedio a questo deficit. Ed è proprio quanto Fini si at­tende. Raccontano che il presi­dente della Camera abbia chia­mato il premier, e le sollecita­zioni che sono giunte a Berlu­sconi in serata attraverso una nota della fondazione Farefutu­ro riflettono il pensiero del «co­fondatore » del Pdl. Fini auspi­ca che il partito «nasca davve­ro », che dietro il leader ci sia «una struttura legittimata e vi­sibile », perché quella struttura «gli potrebbe tornare molto utile — così recita la nota — per contenere» l’offensiva le­ghista e il malcontento del Sud «emerso dall’astensione»: «Non basta che Berlusconi si occupi personalmente del caso Sicilia», se poi non c’è un grup­po dirigente che sappia regge­re altri eventuali casi.

Non c’è dubbio che il presi­dente della Camera critichi il premier per una «politica di go­verno a trazione leghista», che ha dato a Bossi «una forte affer­mazione elettorale». E non c’è dubbio che Fini chieda maggio­re attenzione verso il Sud dove si avverte «un senso di crescen­te insoddisfazione». E il Mezzo­giorno entrerà nell’agenda di governo, «bisognerà dare visi­bilità alla nostra azione in que­sta area del Paese», dice il mini­stro Fitto. Ma sono i «triumvi­ri » del Pdl il bersaglio dell’at­tacco di Fini-Farefuturo, dato che «al vertice» del partito «non pare abbiano colto» il problema: «E la cosa è grave». Insomma, il presidente della Camera sprona il Cavaliere, confidando in un cambio di passo nel partito e nel gover­no, dove un Pdl «senza preciso profilo» ha svolto «una politi­ca fotocopia» della Lega.

Spera poi che «dalle vicende che lo hanno colpito», Berlu­sconi capisca di «stare più tran­quillo ». Perché in fondo — ha spiegato ai suoi — «si sarebbe potuto commentare un buon risultato elettorale, se Silvio non avesse fatto la sparata» su «quota 40». Più o meno quel che ha commentato un ramma­ricato Gianni Letta nei suoi col­loqui riservati: «Senza quegli eccessi, Berlusconi avrebbe po­tuto dire che il suo governo è l’unico ad aver davvero retto in Europa». «Nessun altro in­fatti — spiega il ministro Mat­teoli — ha fatto meglio di noi. Anche perché, quanto il Pdl ha perso in punti percentuali è fi­nito alla Lega, rimanendo nel­l’alveo della maggioranza».

Invece Berlusconi, pur di ar­rivare laddove solo la Dc era ar­rivata, ha giocato d’azzardo con i numeri. Ma non sono sta­ti i sondaggi a tradirlo, se è ve­ro che alla vigilia del voto nes­sun istituto gli assicurava più «quota 40». Missione fallita. Il segretario del Pri Nucara so­stiene che dal Paese è giunto un messaggio al Cavaliere: «Se vuole governare deve capire che lui è il capo di una coalizio­ne, non può limitarsi a fare il capo di un partito».

Berlusconi ha compreso il messaggio dell’opinione pub­blica e si appresta a cambiar passo. Il fatto di voler mettere mano nel partito è un modo per assumersi la responsabili­tà di quanto accaduto, e per porre fine a «lotte intestine», come quella in Sicilia, «che hanno disorientato quanti ci votano». Intanto si augura che «finita la campagna elettorale finisca l’aggressione contro di me». Eppoi i dati ufficiali delle urne hanno cambiato il suo umore, che ieri mattina era pessimo, perché avvertiva sul­la propria pelle «lo smacco» di chi in Europa si era prenotato come grande vincitore.

Nonostante la botta, infatti, il Pdl è diventato il primo parti­to in tutte le circoscrizioni, e il Pd è stato scavalcato nelle re­gioni centrali a dominanza ros­sa. Dalle tabelle in suo posses­so ha notato che — in termini assoluti — se il suo partito ha perso 2 milioni e 850 mila voti, i Democratici ne hanno persi 4 milioni e 100 mila, mentre la Lega ne ha conquistati 100 mi­la. Tra quei 5 milioni e 900 mi­la di cittadini che stavolta han­no disertato le urne, c’è anzitut­to il granaio siciliano che mira a recuperare.

È vero, il sorpasso sul Pd è «a scendere», non «a salire», ma i risultati delle Amministra­tive gli segnalano «performan­ce molto lusinghiere». Ed è co­sì che Berlusconi mediatica­mente tenterà di uscire dall’an­golo preparandosi alla partita delle Regionali, che si svolge­ranno tra un anno, cioè doma­ni. Perché c’è da trovare presto un compromesso con il Carroc­cio sui governatori, magari proponendo a Bossi la candida­tura di un leghista in Piemon­te. E c’è da riallacciare un rap­porto con l’Udc, che farà fatica a chiudere un’intesa con il Pd, visto l’ostacolo ingombrante dell’Idv. Il Cavaliere non sarà il nuovo De Gasperi, ma magari può diventare un nuovo Berlu­sconi. Ecco la scommessa.


Francesco Verderami
09 giugno 2009


  da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI I timori di un «governo di emergenza economica»
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2009, 11:18:27 pm
Il retroscena

E Silvio si sente nel mirino: pronto a nuove offensive sperando nell’asse con Bossi

I timori di un «governo di emergenza economica»


ROMA — Ora inizierà la caccia a «mister x», a quella «persona» che avrebbe dovuto «destituire» il Cava­liere con un «piano eversivo», co­struito — secondo il premier — sul­le «quattro calunnie messe in fila contro di me»: «Veline, minorenni, Mills e voli di Stato». Gli indizi non mancano per costruire un teorema, ma la caccia al personaggio misterio­so resterà un gioco di società, un gossip sul gossip, almeno finché reg­gerà il patto tra Berlusconi e Bossi.

Perché è vero che il Cavaliere si sente nel centro del mirino, e non perde mai di vista le ombre da cui si sente circondato: ascolta le voci del Palazzo dove si ipotizza un fantoma­tico «governo di emergenza econo­mica », testa la notorietà e il gradi­mento di personaggi come Draghi e Montezemolo, e scruta soprattutto i movimenti di importanti cariche istituzionali e di autorevolissimi membri del suo stesso gabinetto, cercando di capire il gioco a inca­stro con pezzi dello Stato, presunti artefici di un’operazione comunque interna al centrodestra. Così s’intui­sce, a decrittare la battuta del mini­stro Rotondi, che nelle settimane scorse ha parlato del «tentativo di creare un moderno caso Montesi ma senza vittime».

Sembra di rivedere le scene del film Todo Modo tratto dal romanzo di Sciascia, dove i potenti leader de­mocristiani riempivano la stanza di santità prima di lasciar spazio ai re­foli del maligno. Nell’inner circle di Berlusconi si avverte il nervosismo che il leader trasmette a fasi alter­ne. Perché ancora l’altro giorno, per ore e ore, si è appartato con la Brambilla per studiare uno spot con cui promuovere il turismo nazionale all’estero. E quando l’ha illu­strato — spiegando che nel filmato avrebbe avuto il ruolo di promoter delle bellezze italiche — gli è stato fatto notare che il copione somiglia­va un po’ alla pubblicità dei tortelli Rana. «Se permettete — ha rispo­sto sorridente il premier — sono un figurino niente male rispetto al­l’amico Rana». Insomma aleggia un misto di an­sia e ilarità attorno al problema, che però esiste a sentire i boatos prove­nienti da alcune procure, o il com­mento del ministro Gelmini dopo la denuncia del «piano eversivo» da parte di Berlusconi: «Credo che ab­bia qualche motivazione per essere preoccupato». Ma ci sarà un motivo se il premier è passato politicamen­te indenne per quindici anni attra­verso numerose traversie giudizia­rie, mentre ora sembra accusare il colpo per storie più da rotocalco ro­sa. È come se avversari senza volto e senza nome avessero trovato il suo punto debole. Ed è stato proprio il Cavaliere a offrire il fianco, è stato lui ad accendere la miccia, andando a Casoria per la festa di Noemi che lo chiama «papi».

Nell’ultimo report riservato sul «giudizio dei leader», redatto da Ip­sos per il Pd, c’è il segno evidente di quanto la vicenda abbia impattato sulla politica. Prendendo come date di riferimento i test del 22 aprile e dell’11 giugno, si nota come Berlu­sconi è sceso dal 60% al 53,1% (con un minimo che ha toccato il 51%); Franceschini è calato dal 49,1% al 43,7% (con un gradimento comun­que superiore al partito di tre pun­ti); mentre Bossi è salito dal 40,2% al 46,4%; Di Pietro è passato dal 40,1% al 42,1%; e Casini è balzato dal 47% al 51,8%. Il lavorio ai fianchi del Cavaliere, quel «tarlo» insinuato nell’opinione pubblica hanno lascia­to il segno. Ed è vero che dalle urne è emersa una tendenza chiara verso il centrodestra, ma l’immagine di Berlusconi è stata logorata. Specie a livello internazionale.

Cosa succederebbe se dovessero concretizzarsi i timori del premier e di molti esponenti del Pdl? Se cioè lo stillicidio dovesse proseguire? Se altre vicende, magari senza risvolti giudiziari, chiamassero ancora in causa il Cavaliere sulla base del­l’odierno canovaccio? Il provvedi­mento approvato dalla Camera sul­le intercettazioni telefoniche non è ancora legge. E comunque — è già accaduto con le foto di Villa Certosa — non garantirebbe all’estero. È im­maginabile cosa accadrebbe se i me­dia stranieri rilanciassero durante il G8.

Forse allora è questa la vera chia­ve con cui interpretare la sortita di Berlusconi davanti ai giovani indu­striali. La denuncia di un «piano eversivo» è un modo per prepararsi e preparare il Paese a un’eventuale nuova offensiva. Non voleva essere una battuta, quella fatta dal Cavalie­re giorni fa, quando ha detto: «Sto preparando un matrimonio tra Noe­mi e Mills, e metterò loro a disposi­zione un aereo di Stato». Era un se­gnale non una boutade.

Quindi, più che ricostruire l’iden­tikit di «mister x», sarà decisivo ve­rificare quanto è solido l’asse tra Berlusconi e Bossi, e se davvero il Senatùr — come ha fatto capire — non accetterà di appoggiare qualsi­voglia esecutivo in cui il Cavaliere non sia il premier. Se così fosse, un’eventuale crisi di governo si tra­scinerebbe fino a traumatiche ele­zioni anticipate. Scenari di cui si di­scute nei palazzi istituzionali. Ma perché se ne discute oggi se il gover­no Berlusconi dovrebbe durare an­cora quattro anni?


Francesco Verderami
14 giugno 2009

  da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI «Io, Silvio e Letta, i reduci del '94 Il nostro rapporto...
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2009, 10:44:09 pm
Gli scenari

«Io, Silvio e Letta, i reduci del '94 Il nostro rapporto non può cambiare»

Tremonti e le voci di «complotto»: solo chi l’ha vissuto sa cos'è, senza il Cavaliere si rivota


ROMA - «Piacere», dice. E si presenta: «Sono il com­plottista». Tremonti lo fa ap­pena legge negli occhi dei suoi interlocutori il retropen­siero: le riunioni all’Aspen, gli incontri pubblici con Pro­di, quelli riservati con D’Ale­ma, il ribaltone, la fine di Berlusconi e lui che entra a Palazzo Chigi a capo di un governo d’emergenza econo­mica. «Piacere sono il complotti­sta», sorride per ridicolizza­re il chiacchiericcio. Non è così che ha salutato ieri il Ca­valiere all’aeroporto di Ciam­pino, non ce n’era bisogno. Lui arrivava da Milano, il pre­mier dagli Stati Uniti, e per un po' hanno discusso di questioni economiche, cioè della Finanziaria da imposta­re e del G8 da gestire, all’in­domani dell’incontro di Ber­lusconi con Obama «perfet­tamente riuscito», secondo il titolare di via XX settem­bre. Dopo che il presidente americano ha inserito i «glo­bal legal standard» tra gli obiettivi da raggiungere, Tre­monti è parso compiaciuto: d’altronde è la prima volta che un governo italiano im­pone un tema nell’agenda dei Grandi della Terra.

Da Washington è tornato un Cavaliere sicuramente rinfrancato rispetto ai giorni scorsi, ma ancora preoccupa­to per vicende interne - estranee alla politica - che sono all’origine del suo ner­vosismo scaricato con le ac­cuse contro il «piano eversi­vo » ordito ai suoi danni, e ri­lanciato nella polemica con D’Alema che ha annunciato prossime «scosse». È stato così che lo scorso fine setti­mana ha preso inizio la cac­cia a «mister x», alla persona che «senza il voto degli italia­ni » dovrebbe sostituirsi a Berlusconi. Tremonti è finito nella li­sta, anche per via delle frizio­ni che a scadenza regolare lo vedono protagonista con il premier quando bisogna mettere mano al portafogli dello Stato. Non era tuttavia preventivato il modo in cui avrebbe reagito. Lo scherno, che vale più di una smentita, gli è servito per spiegare nei colloqui riservati quanto ave­va già detto alla vigilia delle Europee: «Bossi non soster­rebbe alcun governo che non fosse guidato da Berlu­sconi. Se qualcuno ci pensa se lo levi dalla testa. In Parla­mento non ci sarebbero i vo­ti nemmeno per votare una Finanziaria e poi andare alle urne».

Perciò scherza sull’etichet­ta che gli hanno ritagliato, tranne farsi serio quando rammenta il complotto del ’94: «Solo chi l’ha vissuto può capire. Sono passati quindici anni, alcuni nel frat­tempo sono andati via e altri sono arrivati. Rispetto ad al­lora siamo rimasti in tre: Sil­vio, Gianni Letta e io. E nes­suno dei tre vuole rivivere quell’episodio». Non smenti­sce i momenti difficili con Berlusconi. Anzi, di quegli episodi si serve per spiegare che «il legame tra noi non è solo politico, va oltre le que­stioni tecniche. È un rappor­to personale, non modifica­bile». «Silvio, Gianni e io». E con questo concetto Tremon­ti spiega che il core-busi­ness, il «nocciolo duro» del­l’esecutivo resta impermea­bile agli eventi, «perché aver vissuto il '94 non vuol dire solo aver vissuto un’espe­rienza, è avere esperienza». Resta il fatto che è stato Ber­lusconi a sollevare il polvero­ne con la denuncia del «pia­no eversivo». E siccome in Parlamento l’opposizione non ha i numeri per farlo ca­dere, era implicito il riferi­mento a una «manina» inter­na alla maggioranza.

Può darsi che Berlusconi fosse nervoso per l’imminen­te e delicatissima visita negli Stati Uniti, come può darsi che gridare al complotto fos­se un escamotage per disin­nescarlo. Molte ipotesi sono state fatte, mentre nei Palaz­zi della politica si commenta­va l’attivismo di alcuni grand commis. Pare che an­che il «complottista» abbia condiviso il sorriso in quelle circostanze, è sicuro che ha spiegato il tutto con una bat­tuta: «Questa vicenda è fi­glia dell’ozio. E l’ozio è pa­dre dei vizi». Si riferiva - co­sì dicono - «alla sinistra, che siccome non ha nulla da fare, studia progetti di rilan­cio, alimenta le voci di com­plotti ». Dopo l’esito dell’incontro tra Obama e Berlusconi c’è nel centrodestra il desiderio di placare le tensioni che pu­re lo attraversano, di mettere la sordina alle voci che co­munque non smettono di ali­mentarsi. Quanto a Tremon­ti, avrà modo di continuare a discutere con il premier. Non ha mai smesso. La scor­sa settimana, durante una chiacchierata sulla crisi, men­tre il titolare dell’Economia disegnava ancora scenari a tinte forti, il Cavaliere ha det­to invece di intravedere trac­ce d’azzurro all’orizzonte. È un canovaccio che si ri­pete ogni qualvolta Berlusco­ni si appresta a batter cassa e si sente rispondere che «non ci sono fondi». E ogni volta il contrasto viene accompa­gnato da una battuta. Mesi fa, al termine di una riunio­ne di governo, Berlusconi chiese alla scorta di accom­pagnare il ministro alla mac­china: «Sta piovendo, usate l’ombrello. Perché se prende l’acqua mi si restringe. E lui è già stretto di suo con la borsa».


Francesco Verderami
17 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Attesa di un gesto per uscire dalla condizione di minorità
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2009, 07:11:12 pm
Palazzo Chigi

L’attesa di un gesto per uscire dalla «condizione di minorità»

Il Cavaliere «vittima della generosità» e la svolta invocata dagli amici

 
L’ esortazione è stata pubblica e privata, perché non solo Giuliano Ferrara l’ha invitato a un mutamento radicale, a una rigenerazione. Anche Fedele Confalonieri, l’amico di una vita, confida in un «nuovo inizio».

Serve una «palingenesi», questo è l’auspicio di chi tiene disinteressata­mente alle sorti di Silvio Berlusconi. Per­ché senza uno scatto del premier — co­me scriveva l’Elefantino sul Foglio l’al­tro ieri — si protrarrebbe un «clima da 24 luglio permanente». Ed è impensabi­le che la politica viva l’eterna vigilia di un crollo, la fine di un’era, quella berlu­sconiana, che il presi­dente della Camera nemmeno prevede. Ma non c’è dubbio che a lungo andare il clima che si respira nel Palaz­zo e nel Paese avrebbe un costo per la demo­crazia, potrebbe porta­re — come dice Gian­franco Fini — alla «sfiducia dei cittadi­ni verso le istituzioni».

È come se la nemesi si fosse abbattu­ta sul Cavaliere: per quindici anni il suo privato ha contribuito alle sue vittorie pubbliche, e adesso lo costringe sulla di­fensiva. E mentre in passato a Berlusco­ni veniva contestato il modo in cui si proponeva agli elettori e li conquistava, ora gli viene chiesto — gliel’ha chiesto ieri il quotidiano dei vescovi, Avvenire — «un chiarimento con l’opinione pub­blica » sui suoi fatti personali.

Tutti attendono un gesto da Silvio Berlusconi, coinvolto in una storia di fe­ste e di donnine che al momento ha mi­nato la sua immagine, non i suoi con­sensi. Al di là dei giochi di potere e di macchinazioni giudiziarie, il premier di­ce di sentirsi vittima anche di se stesso, «vittima cioè della mia generosità». È una valutazione complessiva, non per questo legata alle ultime vicende, che però riflette lo stato d’animo del Cavalie­re e anche il suo atteggiamento, le sue scelte che stupiscono, ma fino a un cer­to punto, chi lo conosce bene.

Malgrado gli ultimi due mesi siano stati costellati da errori mediatici e di tattica politica, malgrado la sua macchi­na di voti si sia inceppata, difende i col­laboratori più stretti e le loro mosse, con la stessa foga con cui difende se stesso. Perché non è stato solo Ferrara a criticare Nico­lò Ghedini per quel concetto, «utilizzatore finale», di cui pure l’av­vocato si è scusato. Ep­pure Berlusconi — a quanti gli facevano no­tare l’errore e i rischi che determinava — ha chiesto comprensione per il pena­­lista: «Poveretto, deve fare tante cose ogni giorno».

All’indomani delle elezioni europee, aveva sottratto Adriano Galliani alle ac­cuse di numerosi dirigenti del Pdl che gli addebitavano una percentuale nella perdita di consensi, dato che a due gior­ni dalle elezioni l’amministratore del Milan aveva rilasciato un’intervista alla Gazzetta dello Sport con la quale aveva di fatto annunciato la cessione di Kaká al Real Madrid. «È un amico di vecchia data. Non vi mettete pure voi, che già in famiglia...», era stata la risposta del pre­mier: «Il fatto è che c’era una perdita nel bilancio societario e non potevo ri­pianarla io, in un momento di crisi eco­nomica come questo». Eppure Berlusco­ni sapeva quanto avesse pesato l’addio del calciatore brasiliano. Alle sole Pro­vinciali di Milano, infatti, tremila sche­de erano state annullate dagli elettori, che dopo aver barrato il simbolo del Pdl avevano aggiunto: «Questo è per Kaká».

Tutti aspettano dal premier ciò che il premier però — almeno per il momen­to — non intende dare, perché si senti­rà pur vittima della sua generosità, «è così che mi fregano», ma si sente soprat­tutto al centro di oscure «trame», e se ora il fronte giudiziario è Bari, immagi­na se ne aprano altri a Palermo, a Mila­no, pare anche a Firenze. Non crede, al­meno così dà conto, a chi lo invita a guardare verso gli Stati Uniti, perché «con Obama abbiamo chiarito tutto, con la signora Clinton le relazioni sono eccellenti, e ho uno splendido rapporto con la presidente Pelosi».

No, è in Italia — a suo modo di vede­re — l’epicentro del terremoto, è verso i palazzi della politica nazionale che ten­de lo sguardo, e di Massimo D’Alema di­ce oggi che «usa mezzucci». Avrà anche ragione il premier quando rigetta certe accuse dell’opposizione, perché è diffici­le immaginarlo a capo di un regime se poi non ne controlla i gangli più impor­tanti, ed è esposto in questo modo. Em­blematica è l’immagine di ieri, con Ber­lusconi che confida al telefono di non sentirsi spiato, proprio mentre è sotto l’occhio furtivo di una telecamera.

Tuttavia per il premier resta il proble­ma di uscire da quella che Ferrara ha de­finito «l’incredibile condizione di mino­rità in cui si è ficcato». E resta il nodo di governare il Paese, di dare risposte agli interrogativi che il presidente della Ca­mera pone ormai da mesi, a partire dal­la necessità di varare una riforma dello Stato che sia condivisa dall’opposizio­ne, per passare alla costruzione di una forza, il Pdl, che secondo Fini «di fatto non è ancora nata»: «La Lega è l’unico partito vero in Italia».

Chissà se pensa anche a «Gianfran­co » quando dice di sentirsi vittima del­la sua stessa generosità, è certo che per misurare la distanza dal «cofondatore», il Cavaliere usa l’ironia: «Gianfranco al­la Camera ha otto commessi che lo se­guono ovunque. Io a palazzo Chigi ne ho uno solo». Ma non c’è sorriso sul vol­to di Berlusconi. Non era così che imma­ginava la vigilia di un G8 molto delica­to. Dovesse superarlo senza intoppi for­se inizierebbe per lui il 26 luglio.

Francesco Verderami
20 giugno 2009

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il Carroccio lancia la sfida sulle regionali
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2009, 05:11:02 pm
Il Cavaliere ha invitato Tremonti a «frenare il carattere»

Il Carroccio lancia la sfida sulle regionali

L’offensiva dei lumbard, il premier cerca di trovare un equilibrio grazie al «caso Sud»


ROMA — Il problema per Berlusco­ni non è il partito del Sud ma la compe­tition con la Lega, in uno scontro di li­nea politica e di potere che mette in fi­brillazione il governo, anticipando i tempi di una campagna elettorale per le Regionali di fatto già iniziata. E se do­menica il premier è uscito allo scoper­to sul Mezzogiorno, preannunciando un piano d’interventi, è stato per evita­re che fosse Bossi a dettare l’agenda con la sua sortita sull’Afghanistan, ma anche per mettere quanto più possibi­le la sordina mediatica allo scontro av­venuto a Massa tra ronde di estrema destra e di estrema sinistra. Sulla «lega­lizzazione» delle ronde proprio il Cava­liere aveva espresso dubbi a più ripre­se, temendo rischi di ordine pubblico, ma aveva dovuto sottostare alle richie­ste dell’alleato. Perciò ha premuto l’acceleratore sul­la questione meridionale, per impadro­nirsi della scena, sebbene sia consape­vole che un «piano» ancora non esiste. Infatti il vertice di oggi si preannuncia «al buio», sulla quantità delle risorse da investire e su chi le gestirà.

L’inten­to di Berlusconi era e resta quello di rie­quilibrare i rapporti con la Lega e ridi­mensionare il ruolo di Tremonti nel­l’esecutivo. «Il premier sono io», ha ri­petuto ieri il Cavaliere, che grazie al­l’operato di Gianni Letta — impegnato in un gioco di sponda con il Colle — ha lavorato per modificare le parti del de­creto anti-crisi su cui si è disputato il primo tempo della sfida con la Lega. E con Tremonti. Al titolare di via XX Settembre il pre­mier ha chiesto un atteggiamento me­no conflittuale con i colleghi di gover­no. Per dirla con una battuta che la Gel­mini ha fatto proprio a Tremonti, «tu sei il nostro male necessario». È un mo­do per riconoscergli «capacità» e «ge­nialità». Ma ci sarà un motivo se Berlu­sconi ha invitato il ministro dell’Econo­mia a «frenare il carattere», ad essere «più calmo e tranquillo»: «Devi capire che alla fine le tensioni si riversano su di me. Perché tutti vengono, chi per una cosa, chi per un’altra, a chiedermi d’intervenire».

Così il Cavaliere ha pen­sato di aver chiuso il cerchio, rimpadro­nendosi del primato. Senonché il Carroccio ha giocato al rilancio, aggiungendo al fuoco della po­lemica — dopo l’Afghanistan — anche la riforma scolastica. Perché è vero che sulla missione militare Bossi ha assicu­rato l’appoggio alla linea del governo, tuttavia le perplessità ribadite ieri sulla presenza italiana in quel territorio di guerra hanno destato scalpore, al pun­to che nei suoi colloqui riservati il pre­sidente della Camera si è detto «molto preoccupato», ha definito «ambigua» la posizione della Lega e rilevato che «certi interrogativi, se posti in modo unilaterale, rischiano di indebolire la posizione dell’Italia nella Nato». Come non bastasse, il Carroccio ha chiesto di inserire nella riforma della scuola un test per i professori sulla co­noscenza del dialetto della zona dove chiedono di insegnare, bloccando il provvedimento in commissione alla Camera. È una questione solo all’appa­renza folkloristica, in realtà mira a far presa nel tessuto profondo del corpo elettorale nordista, in vista delle Regio­nali.

Nella competizione la Lega è già pronta e in grado di dar battaglia sui propri temi, mentre il Pdl appare co­stretto a inseguire e muovere sulla di­fensiva. Certo, le mosse del Carroccio sono anche un modo per difendere il mini­stro dell’Economia, che è al centro di un’offensiva concentrica, e in questo senso il compromesso raggiunto sul dl anti-crisi, la decisione cioè di inserire le modifiche in un altro decreto, non possono soddisfare Berlusconi: varare un nuovo provvedimento per correg­gerne uno che non è ancora stato licen­ziato dal Parlamento, è un colpo all’im­magine del governo e soprattutto del premier. Il Cavaliere voleva utilizzare la que­stione meridionale per riprendersi una centralità che aveva perso per via degli scandali sui festini e le donnine. Ora, è vero che il fragore dello scontro nel centrodestra sovrasta il rumore delle polemiche sulla vita privata del pre­mier, ma il costo politico rischia di es­sere alto, perché la maggioranza offre il quadro di una coalizione che non rie­sce ad avere una visione collegiale del Paese, spaccata negli interessi da difen­dere, con un Berlusconi che fatica a es­serne la sintesi. Di qui l’ossimoro co­niato da Fini, che vede una fase in cui regnano insieme «stabilità e incertez­za».

Francesco Verderami
29 luglio 2009

da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Napolitano: Aspetto risposte sull'Unità d'Italia dal governo
Inserito da: Admin - Agosto 19, 2009, 12:07:04 pm
19/8/2009 (7:38) - IL RICHIAMO DEL COLLE

Napolitano: "Aspetto risposte sull'Unità d'Italia dal governo"
 
Il Presidente della Repubblica si dice preoccupato dai ritardi: «Se ho scritto una lettera è per avere chiarimenti»

FEDERICO GEREMICCA
ROMA


Di certo avrebbe preferito trascorrere le sue brevissime vacanze leggendo altro - almeno sui quotidiani - piuttosto che lo stillicidio di polemiche distillate dall’estate leghista. I dialetti nelle scuole, i test agli insegnanti, le bandiere regionali affianco al tricolore, la zuffa intorno all’inno di Mameli... Nulla, insomma, che possa aver fatto particolarmente piacere a Giorgio Napolitano, nella sua doppia veste di simbolo e garante dell’unità nazionale e di meridionale e meridionalista convinto. Chi gli sta vicino o fa la spola tra i «palazzi» e la tenuta presidenziale di Castel Porziano giura che il Capo dello Stato si sia a ragion veduta astenuto dall’intervenire. «Non è questione che si possa affrontare con una battuta. Ci sto riflettendo... Del resto - dice il Presidente - il rovescio della medaglia in questione è la situazione del Mezzogiorno e lo stato di estremo disagio in cui versano le nostre regioni meridionali». Di questo parlerà certamente presto, magari anche prima della visita in Basilicata, prevista per i primi giorni di ottobre.

Ma che naturalmente non prenda parte alla discussione in corso non significa che il Presidente la sottovaluti. Fedele allo stile sobrio che ne sta caratterizzando il mandato, si è affidato ai due tradizionali capisaldi della sua azione. Da una parte, una sollecitazione discreta al governo affinché intervenisse, perché considerava impossibile che si tacesse di fronte a certe polemiche. Dall’altra, un’attenzione particolare alle cose concrete, ai fatti, alle azioni con le quali dimostrare - governo, Parlamento e forze politiche - che l’unità del Paese e i suoi simboli sono considerati tutt’oggi un valore da preservare. E c’è appunto una cosa concreta alla quale il Capo dello Stato dedica da settimane la sua attenzione: il programma per le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell’unità d’Italia.

Qualche settimana fa Giorgio Napolitano prese carta e penna e scrisse una lettera al governo per conoscere gli intendimenti e gli impegni dell’esecutivo per la celebrazione del centocinquantenario: è passato del tempo, e attende ancora una risposta. La lettera era riservata, naturalmente, ma il tenore è facile da immaginare, essendo invece nota un’altra missiva che il Presidente inviò negli stessi giorni al Comitato di Torino per le celebrazioni (era il tempo della polemica sollevata da Galli Della Loggia intorno al centocinquantenario dimenticato). Rallegrandosi per il lavoro di quel comitato, Giorgio Napolitano esprimeva rammarico «per altre iniziative delle istituzioni regionali, locali e soprattutto nazionali che, purtroppo, non si riesce ancora a veder definite». Il tempo è passato, siamo ancora a quello. Ora è previsto che nella prossima seduta di governo il ministro Bondi illustrerà il programma delle celebrazioni. «Magari interverrò allora - dice il Presidente - sulla base di quello che verrà o non verrà fuori».

L’attenzione era dunque già alta, e le forti e recenti polemiche non l’hanno certo abbassata. Saranno, magari, solo i soliti fuochi d’artificio estivi dei «lumbard», ma non si sa mai... Ed è per questo che il Presidente tiene a conoscere il programma di iniziative cui pensa il governo: un programma che, nelle aspettative del Capo dello Stato, dovrà rappresentare - per il suo spessore - la migliore risposta a certe recenti polemiche. Insomma, dire che il Capo dello Stato sia preoccupato, probabilmente è improprio: ma raccontarlo sereno forse sarebbe una bugia. «Se ho scritto una lettera è per avere una risposta - annota -. Ormai siamo a fine agosto, la scadenza comincia a non esser lontana e se in autunno non si stringe... A quel punto saremo arrivati alla fine del 2009, e quindi occorrerà fare tutto nel 2010 perché gli eventi possano regolarmente aver luogo l’anno dopo. I tempi sono molto stretti...». La conclusione? Semplice: il Presidente resta in attesa. «Attendo - dice - una risposta ormai improrogabile dal governo, affinché chiarisca i suoi intendimenti e i programmi in vista del nostro anniversario». Una risposta, certo, alle sue preoccupazioni intorno alle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia; ma anche una risposta ai timori di chi vede quell’unità attaccata e derisa ad ogni piè sospinto.

da lastampa.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il Cavaliere vuole trattare con Casini
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2009, 05:12:05 pm
Strategie

Il Cavaliere vuole trattare con Casini

La prospettiva di un incontro tra i due per mettere fine alle ostilità


Silvio Berlusconi non si fida di Pier Ferdinando Casini ed è sentitamente ricambiato: ecco una buona base di partenza per aprire una seria trattativa politica. L’operazione coinvolge ormai da tempo gli stati maggiori dei due partiti, ma è stato il Cavaliere ad avviarla. In prima persona. Alla vigilia delle ferie estive il premier chiamò il leader dell’Udc, che non restò sorpreso per la telefonata bensì per il tono della conversazione.

«Al rientro dalle vacanze dovremo vederci per valutare alcune cose», disse Berlusconi a Casini. Parole che manifestavano l’intenzione di porre fine alle ostilità e di riaprire un dialogo, liberato però dalle promesse fatue di un tempo, dagli scontri ricomposti con sorrisi a denti stretti. Quando il premier e il leader dell’Udc si incontreranno — perché si sono ripromessi di farlo—siederanno uno dinnanzi all’altro, consapevoli delle proprie forze e delle proprie debolezze. Il gesto del Cavaliere è il segno di un’apertura di credito verso l’ex alleato e al contempo la conferma che il disegno del bipartitismo è tramontato: perciò se il Pd avrà come alleati naturali la sinistra e l’Idv, il Pdl vorrebbe avere al fianco l’Udc per bilanciare la Lega, che è il vero problema strategico per Berlusconi.

Gli sherpa si muovono con prudenza e riservatezza: Gianni Letta ha inviato alcuni emissari del premier da Casini; Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello si sono incontrati con i centristi alla fine di luglio. Franco Frattini è della partita. Altero Matteoli si spende per la causa. Ma è chiaro che dietro tutti c’è la regia del premier, deciso al passo. Come sempre, quando il realismo politico dettato dai numeri glielo impone. Perché le Regionali saranno la madre di tutte le elezioni, da quel voto dipenderà lo sviluppo della legislatura, e uno studio dimostra che i centristi saranno decisivi per la vittoria di sette governatori su tredici.

«Tornare insieme si può, l’Udc non è più un pericolo», è la tesi del Cavaliere. Ma un accordo politico che addirittura preveda un ritorno all’antica alleanza è per ora impensabile, controproducente per entrambi. Troppi rischi per il premier, a fronte delle tensioni che potrebbe scatenare nei rapporti con la Lega, e anche per via dell’ostilità ancora forte di una parte del Pdl, contraria a un nuovo patto con l’Udc.

Nemmeno Casini ha interesse in questo momento a una simile intesa. Intanto non si fida, «non mi fido del tutto», ha confidato ad alcuni prelati. Poi vuol capire se la crisi nelle relazioni tra Berlusconi e il mondo cattolico si ricomporrà o si acuirà, così da lucrare consensi. E soprattutto non ha interesse a modificare oggi una strategia che gli ha consentito di crearsi uno spazio politico fra Pdl e Pd, e di consolidare il proprio elettorato.

Per ora l’Udc non si muove. «A Berlusconi non chiediamo parole né tantomeno poltrone», dice infatti Casini: «Noi chiediamo fatti, fatti politici. E la linea che lui ha assunto in queste settimane ci allontana». In surplace, attende segnali chiari dal Cavaliere, che è intenzionato a sottoscrivere un patto sulle Regionali con i centristi «anche senza un accordo complessivo», come ha spiegato l’altro ieri in Consiglio dei ministri. Ma entro l’autunno anche Casini dovrà rompere gli indugi. Perché se è vero che fra un anno sarà l’ago della bilancia nella sfida elettorale tra Pdl e Pd, è altrettanto vero che in base alle sue scelte si capiranno le intenzioni dell’Udc in vista delle Politiche, cioè quali saranno i suoi futuri alleati. Da che parte allora farà pendere il piatto della vittoria Casini? Verso il centrodestra o il centrosinistra?

È la mossa che rivelerà la strategia dell’ex presidente della Camera, che in molti dicono tentato dal giocare la partita del dopo-Berlusconi. Una partita a medio-lungo termine che partirebbe da un graduale riavvicinamento agli ex alleati attraverso intese parlamentari su alcuni temi importanti: dal testamento biologico alla giustizia. Senza dimenticare l’accordo per le Regionali, che — come ha detto il Cavaliere — può essere anche valutato «caso per caso ». Ma non a caso.

E infatti negli ultimi tempi Casini si è fatto più prudente circa un accordo in Puglia con Massimo D’Alema. Complice la crisi politica (e non solo) del centrosinistra nella zona, ha frenato i suoi: «Non faremo i crocerossini». E a Raffaele Fitto, incontrato sotto l’ombrellone, ha aggiunto: «Evitiamo di farci del male». Per evitare di restare ingabbiato in uno schema, tiene però le mani libere nel Lazio, altra regione cruciale nella sfida tra Pdl e Pd, e dove il voto cattolico sarà determinante.

Perciò il premier corteggia i centristi, come solo lui sa fare. E dire che il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa, lo conosce da anni, eppure è rimasto ancora una volta colpito dalle lusinghe del Cavaliere, tanto da averlo confidato a un amico: «Tempo fa mi squilla il telefono. È Berlusconi. Mi dice: "Caro Lorenzo, come stai? Mi è dispiaciuto per l’attacco che hai subito dal Giornale. Per te infatti è stato cambiato il direttore"».

Francesco Verderami
05 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI I fondatori del Pdl separati in casa
Inserito da: Admin - Settembre 08, 2009, 06:59:07 pm
Silvio e Gianfranco

I fondatori del Pdl separati in casa

Temi etici e immigrazione Rapporti interrotti da mesi tra i due «cofondatori»


A Fini non piace il modo in cui Berlusconi gestisce l’azione di governo e il partito. Al premier non piace come il presidente della Camera interpreta il suo ruolo istituzionale. Sono anni che «Silvio» e «Gianfranco» conducono una vita da separati in casa, ognuno a criticare l’altro per i suoi vizi.

Insomma è una storia antica, che ogni tanto torna d’attualità per il ru­mor di piatti. L’editoriale che Feltri ha pubblicato ieri sul Giornale con­tro il «compagno Fini» ha reso ma­nifesto lo scontro tra i «cofondato­ri » del Pdl che nei giorni scorsi si era riacceso, da quando la terza cari­ca dello Stato si era espressa a favo­re del voto amministrativo per gli immigrati e aveva invocato «modi­fiche » al testo della legge sul testa­mento biologico da parte della Ca­mera. Non è un caso se ieri il Cavaliere — smentendo le sue smentite — ha pubblicamente bocciato la linea di Fini su questi due temi, difenden­do il testo votato dal Senato sul te­stamento biologico che il presiden­te della Camera aveva definito «cle­ricale ». In più — per coprire l’offen­siva di Bossi — ha rassicurato il pro­prio elettorato, annunciando che «il centrodestra non cederà mai» sul voto agli immigrati, «un subdo­lo stratagemma comunista». È chia­ro che Berlusconi non si rivolgeva alla nuora, cioè al Pd, ma alla suoce­ra- Fini. E dunque, sarà pur vero — come ha sottolineato con una nota in serata — che non gli è piaciuto l’articolo del direttore del Giornale, ma è altrettanto vero che Berlusco­ni non è disposto a compromessi, e che difenderà ad ogni costo e con ogni mezzo la propria impostazio­ne politica nel governo e nel Pdl. Non è dato sapere se si tratti di una vera e propria resa dei conti con l’ex leader di An, se davvero ci sono delle analogie con il «caso Bof­fo » come sostengono i finiani.

Di certo i rapporti tra palazzo Chigi e Montecitorio sono interrotti da pri­ma dell’estate, tanto che La Russa — ambasciatore nelle relazioni tra «Silvio» e «Gianfranco» — già allo­ra ammetteva di essere «tempora­neamente un disoccupato». Il sorri­so di quei giorni è scomparso ora dal volto del ministro e coordinato­re del Pdl, preoccupato per l’andaz­zo, perché — così ha confidato ad alcuni deputati - «tanti piccoli inci­denti finiscono spesso per creare un grande problema». Berlusconi invece sembra non cu­rarsi di aprire un altro fronte, per di più con Fini. È stanco, «sono stan­co — ha detto — di certe situazio­ni ». E c’è un motivo se nei suoi col­loqui riservati ha messo a raffronto «l’atteggiamento istituzionale» del capo dello Stato con quello del pre­sidente della Camera, se ha rilevato una grande differenza tra il Napoli­tano che si reca nelle zone terremo­tate d’Abruzzo per evidenziare co­me ci sia «fiducia nelle istituzioni», e il titolare di Montecitorio che par­tecipa ai dibattiti pubblici «per fare il controcanto» al governo. Finora il Cavaliere si era limitato a qualche battuta su Fini, che «alla Camera è sempre seguito da sette commessi in guanti bianchi, men­tre a palazzo Chigi io ne ho uno so­lo ». Finora era riuscito a trattener­si: «L’abbiamo eletto lì? Facesse il suo mestiere». Mesi fa, quando non era ancora esploso il «caso Noemi», «Silvio» non aveva dato credito a un racconto su «Gianfranco», che — parlando della corsa al Colle — avrebbe detto: «Se si andasse a vota­re per il Quirinale, chi pensate che avrebbe più voti tra me e Berlusco­ni? ». «Non ci crederei nemmeno se l’avessi ascoltato con le mie orec­chie », aveva tagliato corto il pre­mier. Oggi che tutto è cambiato, oggi che — per dirla con il coordinatore del Pdl Bondi — avverte il clima del «tutti contro uno», oggi il Cavaliere è deciso a chiarire quali sono i rap­porti di forza nel governo e nel par­tito. È la logica «cesarista» e del «pensiero unico» che Fini ha sem­pre osteggiato, ma la sua linea è sempre più minoritaria nel Pdl.

«So­no tutti con me», sostiene Berlusco­ni, che sulle candidature per le Re­gionali vuol parlare da solo con Bos­si, che sull’alleanza con l’Udc vuole trattare da solo con Casini. Con Fini non è restato nulla, nemmeno il «pranzo del martedì», che sarebbe dovuto diventare un appuntamen­to settimanale e che si è tenuto in­vece solo un paio di volte. Il pugno di ferro è il segno che il premier intende giocarsi il tutto per tutto di qui alle elezioni dell’an­no prossimo, consapevole che — superato quell’appuntamento — non ci saranno altri ostacoli fino al­la conclusione della legislatura. La frattura con l’altro «cofondatore» potrebbe però provocare dei proble­mi nel Pdl, una perdita di consensi che il «caso Boffo» — secondo i sondaggi — non ha provocato con l’elettorato cattolico. Il rischio è un effetto straniamento del popolo di centrodestra e una tensione che po­trebbe evidenziarsi in Parlamento. Ma il vero punto è che Berlusco­ni ha colto in questi mesi le prime operazioni di quanti mirano alla sua successione, alla stagione in cui non sarà più ricandidato a palaz­zo Chigi. È una partita lunga e dagli esiti al momento imprevedibili, tut­tavia non c’è dubbio che l’operazio­ne di posizionamento, dentro e fuo­ri il Pdl, sia già iniziato. Finora il premier aveva saputo come controbattere, in certi casi aveva anche usato l’arma dell’iro­nia. All’indomani del malore che lo colse sul palco di un comizio, e che sollevò seri interrogativi sul suo fu­turo in politica, il Cavaliere incro­ciò casualmente Rutelli all’aeropor­to di Ciampino. Siccome era al tele­fono, chiese all’esponente di centro­sinistra di attenderlo «qualche istante»: «Finisco subito», sussurrò mettendo la mano davanti al cellu­lare. Rutelli, desideroso di aver noti­zie sulle sue condizioni di salute, si sedette per aspettarlo. Un paio di minuti dopo vide arrivare Berlusco­ni, a passo spedito e con un largo sorriso sulle labbra: «Scusa France­sco, stavo parlando con Fini. Gli ho detto che per prendere il mio posto dovrà attendere ancora».

Francesco Verderami
08 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Il Cavaliere e il sondaggio su Fini Non andrebbe oltre il 4%
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2009, 11:39:50 pm
Dietro le quinte

 Il Cavaliere e il sondaggio su Fini «Non andrebbe oltre il 4%»

Il capo del governo studia le contromosse


Berlusconi sa che non è finita e non finirà, che i media insisteranno sui festini e le donnine, che le vicende giudiziarie torneranno a lambirlo, che «i miei nemici» — come definisce l’indistinta coalizione di interessi a lui ostile — cercheranno di tenerlo sotto pressione.

Ma la variabile oggi è Fini. Perché se da una parte il Cava­liere è certo che il presidente della Camera continuerà a di­stinguersi - tenendo in fibrilla­zione governo, partito e mag­gioranza - dall’altra non riesce ancora a capire quale sia il vero obiettivo del «cofondatore» del Pdl. Era scontato che il premier lo accusasse di «tradimento», «ingratitudine» e «slealtà» do­po il suo discorso di Gubbio. Così com’era chiaro che l’ex lea­der di An avrebbe pubblicamen­te detto ciò che da tempo spie­gava nei colloqui riservati: e cioè che «Berlusconi per difen­dersi si è consegnato nelle ma­ni di Bossi», che «il Pdl è ridot­to a una sorta di Forza Italia al­largata », che «se spegnessero la luce nella stanza del governo e lì dentro ci fosse Tremonti non si sa cosa gli accadrebbe».

È vero che il tema sollevato da Fini sulla vita interna del nuovo partito è assai sentito, persino il capogruppo Cicchitto - subito dopo il congresso - so­steneva che «d’ora in poi la de­mocrazia telefonica usata da Berlusconi in Forza Italia non potrà più bastare». Ma a Gub­bio Fini si è spinto oltre, criti­cando la politica dell’esecutivo e - secondo il premier - «ali­mentando speculazioni» sul de­licato tema delle inchieste di mafia. I tentativi di rattoppo non hanno nascosto lo sbrego, semmai l’hanno reso più evi­dente. In più Bossi è tornato ad attaccare in modo veemente il presidente della Camera, con il quale - dopo il varo del decreto sicurezza - aveva tentato di stringere un accordo, se è vero che era andato a trovarlo di per­sona a Montecitorio: «Gianfran­co, tienimi fuori dalle tue be­ghe con Silvio. Io non c’entro nulla e non voglio finirci in mezzo». Non è andata così.

E comunque resta senza ri­sposta l’interrogativo del Cava­liere: dove vuole arrivare Fini? Finora sono state valutate due ipotesi. La prima è quella che il premier definisce «la sindrome da Elefantino», riferimento alla lista presentata da Fini alle Eu­ropee del ’99, e con la quale l’al­lora capo di An provò a conqui­stare la leadership del cen­tro- destra. Quell’operazione fal­lì. E fallirebbe anche stavolta, a detta di Berlusconi, che ha com­missionato subito un sondag­gio per rilevare l’appeal elettora­le dell’alleato: «Se si presentas­se con una sua lista e con le sue idee, non andrebbe oltre il 4%». Ma prospettive di terzo polo non ce ne sono, anche Monteze­molo ha voluto mettere a tace­re i boatos. Inoltre Fini non in­tende «ballare da solo», sebbe­ne si senta solo nel Pdl. Tanto che la mattina dell’attacco di Feltri sul Giornale notò che nemmeno Gianni Letta l’aveva chiamato per solidarizzare.

C’è allora l’altra ipotesi: quel­la cioè che Fini immagini un precipitare degli eventi per fat­tori al momento non noti. La sentenza della Consulta sul «lo­do Alfano» è vissuta nel Palaz­zo come una sorta di sentenza sulla legislatura. Però non ba­sta a spiegare tutto. Eppoi «io non me ne andrò mai, mai», ri­pete il Cavaliere, conscio che la sua immagine internazionale è irrimediabilmente rovinata, ma forte del consenso nel Paese. Anche i dirigenti del Pd l’hanno constatato nel primo rilevamen­to riservato che hanno ricevuto da Ipsos dopo la pausa estiva. Nonostante le polemiche e gli scandali, da luglio a settembre Berlusconi ha perso solo un punto nell’indice di fiducia (50,7%), restando davanti a tut­ti gli altri leader, anche loro tut­ti in calo. Di più: il Pdl, in trend positivo da luglio, è arrivato al 38,2%. E la forbice nelle inten­zioni di voto per coalizioni è au­mentato di un punto e mezzo, con il centrodestra oggi al 49,4% e il centrosinistra al 37,9%.

«E allora: cosa devo chiarire con Fini?», s’infuria il Cavalie­re. Forse il premier dovrebbe valutare una terza ipotesi, esa­minata da alcuni dirigenti del Pdl. È un altro scenario, non quello del «Fini contro Berlu­sconi », ma quello del «Fini do­po Berlusconi», magari logora­to dagli attacchi. Ecco la sfida. Ecco la scommessa

Francesco Verderami
12 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it


Titolo: Ha legami con i leader europei da Sarkozy a Cameron. Ma non può bastare
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2009, 12:12:09 pm
Il retroscena

La solitudine del «cofondatore»

In attacco per uscire dall’angolo

Ha legami con i leader europei da Sarkozy a Cameron. Ma non può bastare


Aznar l’ha indicato come «il successore» di Berlusconi, la Pelosi l’ha invitato a Washington, in Israele è atteso per un discorso alla Knesset, ma nel suo partito Fini è confinato alla marginalità.

Colpisce questo fenomeno politico, che fa del presidente della Camera un vero e proprio caso. In lui si toccano gli estremi, anche nei sondaggi, dove l’ex leader di An gode di giudizi positivi elevati che però non si traducono consensi, se è vero che Berlusconi l’ha testato «e da solo non va ol­tre il 4%». Al congresso del Pdl strappò i maggiori applausi, i più convinti, tranne aver dovuto constatare — dopo il battima­ni — che molti l’avevano abbandonato. E non c’è dubbio che l’offensiva contro Berlu­sconi sia figlia dell’isolamento in cui si sen­te relegato dal premier.

È per uscire dall’an­golo che Fini ha deciso di uscire allo scoper­to, perché — sostiene — «i patti non sono stati rispettati», perché essere «cofondato­re» del Pdl significa avere un ruolo, impor­rebbe al Cavaliere di condividere le scelte. Non certo di concordarle solo con Umberto Bossi. Ecco cosa voleva dire Fini quando ha ri­velato una parte della conversazione telefo­nica con il premier: «Lui mi ha detto che non è stato fatto nulla». Non è così secondo il presidente della Camera. Giusto perché il tema delle candidature alle Regionali è di at­tualità, delle scelte passate sul Friuli, l’Abruzzo e la Sardegna, Fini ha saputo dal­le agenzie di stampa. E non accetta di sentir­si dire che «i tuoi erano a conoscenza, caro Gianfranco». Anche perché molti di quei «tuoi» non li considera più suoi da tempo: «Ci sono più berlusconiani in An che in For­za Italia» sussurrò preveggente anni fa.

Non parla più con nessuno (o quasi) dei dirigenti del Pdl. Il premier, che aveva pro­messo di vederlo a pranzo ogni martedì, nemmeno lo chiama. Ed è davvero singola­re per una personalità che intesse relazioni con il mondo delle imprese e con i leader internazionali. Almeno i rapporti con Carlo De Benedetti non glieli potrà contestare, Berlusconi. Perché quando il Cavaliere fu sul punto di mettersi in affari con l’Inge­gnere, per festeggiare la riconciliazione gli regalò un libro: «L’amico ritrovato» di Fred Uhlman. Con tanto di dedica. Certo, parlare ora al presidente del Consiglio dell’editore di Repubblica non è il caso. Però è normale che Fini incontri Montezemolo, discuta con banchieri e finanzieri.

L’anomalia sta nel vuoto che vede attor­no a sé in politica. Segue con interesse l’at­tività della sua fondazione, ha legami con la gran parte dei leader europei, da Sarkozy fino a Cameron, a ognuno dei quali ha scrit­to la prefazione dei loro libri nella traduzio­ne in italiano. Ma non può bastare a Fini, se poi non è profeta nella sua patria. Il Pdl, che nacque come una fusione tra due azien­de. E lui — per quanto avesse la quota di minoranza — voleva e vuole avere una par­te nelle decisioni. È dura se il socio di mag­gioranza si chiama Berlusconi. Ma si è vi­sto cos’è successo a Gubbio. Fini ha impu­gnato il bilancio e contestato la governan­ce. Il Cavaliere dice che «non c’è niente da chiarire», mentre gli uomini di Fini avvisa­no che cinquanta deputati potrebbero farsi gruppo in Parlamento e chiedere di sedere il lunedì alla cena di Arcore accanto al Sena­tùr.

Non è questo però il percorso che l’ex leader di An aveva immaginato. Da quando si è legato alla nuova compa­gna, la sua vita è cambiata: è più riservato, molto casalingo. Frequenta il vice capo­gruppo vicario del Pdl alla Camera, Bocchi­no, ed è stretto a un rapporto di amicizia con la presidente della commissione Giusti­zia di Montecitorio, Giulia Bongiorno. Poi ci sono i neo fedelissimi, come Granata, che ieri — così riporta l’ Unità — ha annun­ciato di aderire «sostanzialmente» alla ma­nifestazione per la libertà di stampa. Ed è sulla «libertà» che Fini sta scrivendo un pamphlet, in coincidenza con l’anniversa­rio della caduta del Muro. La prefazione sa­rà di Berlusconi?

Francesco Verderami
13 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Doppio test per Berlusconi tra Lodo Alfano e Regionali
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2009, 11:54:02 am
Il centrodestra

Doppio test per Berlusconi tra Lodo Alfano e Regionali

Fini: ma l’attesa messianica di quella sentenza è fuori luogo


E dire che Berlusconi voleva sponsorizzare l’operazione di Casini e Rutelli. Si offrì tre mesi fa all’ex leader della Margherita durante la festa della Guardia di finanza. Quando il Cavaliere vide il presidente del Copasir sul palco delle autorità, lo chiamò accanto a sé: «Vieni, Francesco. Mettiti qui, tra me e Gianni Letta».

Rutelli non fece in tempo ad avvicinarsi, che il Cavaliere gli sussurrò all’orecchio: «Per un giovane che deve fare un nuovo partito c’è bisogno di un po’ di pubblicità.
Fa sempre comodo». Accadde tutto in pochi istanti, l’ex capo della Margherita scorse la minaccia dei fotografi e si sco­stò un attimo prima che al suono dell’inno nazionale venisse im­mortalato accanto al premier. Più tardi Berlusconi tornò a proporsi al dirigente del Pd come testimonial, usando l’arma del­l’ironia. «Dovremmo vederci. Lo dico nel tuo interesse. Sai, ho ac­quistato una scultura di tuo non­no Mario: è bellissima. L’ho mes­sa a Villa Certosa. Vieni a trovar­mi. Magari organizziamo anche un bel matrimonio tra l’avvocato Mills e Noemi». E Rutelli, licen­ziandosi: «Se ci incontrassimo al bar del paese, daremmo meno nell’occhio».

Insomma è da tempo che il Ca­valiere avverte il tramestio di Pa­lazzo, e scruta le manovre di chi lavora con l’obiettivo di succeder­gli. Sa di non aver rivali, tranne il tempo che passa. E le battute — come quelle con Rutelli — gli ser­vono per celare un tormento inte­riore che a volte gli fa perdere lu­cidità, e politicamente lo spinge ad arroccarsi con la Lega. Ma il Carroccio ha un costo, e il conto sta per essergli servito con le can­didature alle Regionali. Perché è questo il vero tornan­te della legislatura, ed è inutile prefigurare al momento assetti e alleanze future. L’ipotesi di elezio­ni anticipate l’anno prossimo non regge, né sarà la Consulta sul «lodo Alfano» a dettare i tem­pi e l’agenda politica, se è vero che Fini ritiene «fuori luogo l’at­tesa messianica per quella senten­za».

Saranno le Regionali la vera sfida: se il premier le perderà, le fibrillazioni aumenteranno al punto da minacciare la stabilità del governo; se invece le vincerà, allora non ce ne sarà più per nes­suno. E per vincere Berlusconi fa affidamento sull’asse con Bossi. Ecco spiegata l’ union sacrée che oggi tiene insieme — per mo­tivi diversi — Fini, Casini e Rutel­li. È la battaglia per evitare quella che l’ex capo della Margherita de­finisce «l’Opa della Lega sul Nord». Se il Senatùr ottenesse i candidati governatori per il Pie­monte e il Veneto, e riuscisse poi a conquistare quelle Regioni, non solo metterebbe le basi per garantirsi il primato sull’intero Settentrione, ma avrebbe un po­tere di veto e di controllo anche sul governo nazionale, come mai avuto prima. Ed è su questo tema che il pre­sidente della Camera incalzerà il Cavaliere. Nelle vesti di «con­fondatore » del Pdl gli chiederà «in che modo intende risponde­re alle pretese» di Bossi. Fini non mette certo in discussione l’alleanza, che gli appare però «squilibrata», a causa del «con­flitto d’interessi politico di Ber­lusconi, contemporaneamente capo del governo e capo del par­tito », un duplice ruolo che all’ex leader di An ricorda il «De Mita premier e segretario della Dc» degli anni Ottanta. Il «conflitto d’interessi politi­co » gli serve per sviluppare un ra­gionamento che ruota attorno al nodo del «rapporto privilegiato di Berlusconi con la Lega»: «Oggi questo rapporto da una parte è un’assicurazione sulla vita per il governo, ma dall’altra rischia di essere la pietra tombale del Pdl». E allora, il premier è dispo­sto a mettere a repentaglio il par­tito che ha appena fondato, pur di concedere al Carroccio più di quanto gli spetti, in base ai rap­porti di forza?

Perché «se si vuo­le parlare in termini di quote» — argomento usato per zittirlo nel Pdl — «in termini di azione di governo, di iniziative politi­che », è evidente agli occhi di Fi­ni come la Lega abbia conquista­to spazi che gli sono stati lasciati per evitare tensioni nell’esecuti­vo. Da Berlusconi attende rispo­ste, «Silvio si illude se pensa di eludere questi nodi». Oggi l’obiettivo del presidente della Camera è dunque diverso da quello di Rutelli e Casini, gio­ca dentro il perimetro del centro­destra attuale, mira a contrastare l’avanzata del Carroccio con l’in­tento di rilanciare il Pdl e riequili­brare la coalizione. Difficile capi­re come si chiuderà la partita: ma­gari il Cavaliere sfrutterà la mos­sa del presidente della Camera per chiedere a Bossi di ridimen­sionare le richieste. Il resto sono solo manovre di posizionamen­to. Come dice Rutelli, «si vedrà» se in futuro ci saranno nuovi as­setti. Intanto si notano i primi se­gnali. Quando Fini, alla kermesse dell’Udc, ha parlato della necessi­tà di un «bipolarismo europeo», ha fatto capire che «l’attuale bipo­larismo non è l’unico possibile».

Tutto è fermo, finché c’è Berlu­sconi. E tutto è in movimento in vista del dopo-Berlusconi. Il Ca­valiere resta comunque una varia­bile imponderabile. «Nel 2005— come ricorda Rutelli — lo dava­no per morto e non era vero. Quattro mesi fa lo davano per eterno e non era vero». Prossimo bollettino medico alle Regionali.

Francesco Verderami
14 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Patti tra mafia e pezzi dello Stato? ...
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2009, 05:37:11 pm
«Patti tra mafia e pezzi dello Stato? Nel ’93 Forza Italia non era ancora nata»

Dell’Utri: sdegnato, cercano fantasmi Puntano a me per colpire il Cavaliere


ROMA — «Vogliono colpire me per colpire Silvio Berlusconi, sono la pedina usata per arrivare al presi­dente del Consiglio. È un’operazio­ne evidente, direi quasi smaccata, un rigurgito giudiziario, l’estremo tentativo di abbattere il capo del go­verno. Ma sarà un altro tentativo vano: non ce l’hanno fatta finora, non ci riusciranno nemmeno sta­volta ». Ancora vicende di mafia e di politica, ancora la storia delle stragi tra il ’92 e il ’93, ancora una verità da ricercare, ancora la Sicilia con i suoi pentiti, ancora il nome di Marcello Dell’Utri al centro di nuo­ve inchieste.

Il senatore del Pdl se l’aspettava, «c’era da aspettarselo», ed è «sde­gnato » per quanto sta accadendo. Sebbene si senta «tranquillo con la mia coscienza», teme che la vicen­da possa provocare un contraccol­po sul processo d’appello per mafia che lo coinvolge «e che si sta con­cludendo ». In primo grado è stato condannato a nove anni, e le «novi­tà » che sono emerse «potrebbero influire sulla corte»: «Perciò le pre­sunte rivelazioni, che poi sono in­venzioni allo stato puro, sono un si­luro alle mie coronarie».

Magari anche a quelle del pre­mier, con il quale Dell’Utri ha af­frontato l’argomento questionan­do proprio «di salute»: «Nel senso che abbiamo convenuto sulla ne­cessità di non farci fagocitare da certi eventi, di non somatizzarli. Al­trimenti un risultato il nemico lo raggiunge, quello di farci ammala­re. In fondo si tratta di cose trite e ritrite, accuse identiche furono ipo­tizzate già quindici anni fa e venne­ro archiviate per l’inconsistenza delle prove. Stanno cercando fanta­smi».

Ha ascoltato il discorso pronun­ciato ieri da Gianfranco Fini, il suo riferimento alle nuove inchieste sulle stragi da parte della magistra­tura, l’appello rivolto ai dirigenti del Pdl di «non dare mai l’impres­sione di non avere a cuore la legali­tà e la verità», «e sono completa­mente d’accordo con il presidente della Camera, è giusto — spiega Dell’Utri — che si indaghi per arri­vare alla verità su quegli anni. Si parla di patti tra la mafia e pezzi del­lo Stato? Bene, ma di quale Stato?». Perché questo è il punto, secon­do uno degli uomini più fidati del Cavaliere, «perché nel ’93 Forza Ita­lia non era ancora nata, e Berlusco­ni — che allora era solo un impren­ditore — fino all’ultimo provò a convincere i Popolari di Mino Mar­tinazzoli ad allearsi con la Lega, per non consegnare il Paese ai comuni­sti. Insomma, a quei tempi noi non eravamo in politica, e lo Stato era rappresentato da altri. Nei mesi scorsi ho letto che sono stati tirati in ballo Luciano Violante e Nicola Mancino. Loro c’erano nel ’93. Sia chiaro, con ciò non voglio accusare nessuno, anzi non credo alle illazio­ni che sono state fatte sul conto del­l’ex presidente della Camera e sul­l’attuale presidente del Csm. Piutto­sto dà l’idea di come si procede sul­l’accertamento della verità».

Su Fini, dunque, nessun «cattivo pensiero». Dell’Utri esclude «in mo­do categorico» che le «fibrillazio­ni » nel centrodestra siano legate ai «rigurgiti giudiziari»: «Nel Pdl so­no scosse di assestamento dopo la nascita del nuovo partito. È natura­le, vista la complessità del passag­gio. Tra Fini e Berlusconi si tratta di scosse politiche, dal profilo an­che umano...». Come dire che se lo sono date quando erano alleati e continueranno a darsele da «cofon­datori », che stanno insieme anche se non si sopportano. «Ma fa parte del gioco».

«Tutt’altra storia l’operazione giudiziaria che mira a eliminare il premier, un personaggio geniale che i suoi nemici non possono capi­re nemmeno nei suoi difetti. Ma è inutile che si dannino: Silvio non è abbattibile». «Nemici», ripete sem­pre il senatore, che non concede mai il termine avversari, e vede nel­le inchieste giudiziarie lo strumen­to «ripetutamente usato per scon­figgere » il Cavaliere. Perciò dice di «comprenderlo» quando Berlusco­ni «si sfoga» contro le «toghe politi­cizzate ». E non è affatto stupito dal modo in cui Giorgio Napolitano svolge il suo ruolo istituzionale, in­tervenendo — come ha fatto ieri— per invitare alla «moderazione» il Csm: «Il capo dello Stato si sta com­portando veramente bene. È un gran signore».

Assai diverso il giudizio sui «ne­mici » del premier, catalogati come «quelli che non ci stanno, quelli che lanciano appelli e raccolgono firme contro il presidente del Con­siglio, quelli che nei loro giochi di potere non pensavano mai di ve­dersi la strada intralciata da Berlu­sconi ». La lista è lunga: «Partiti po­­litici, poteri cosiddetti forti e maga­ri occulti, editori, imprenditori, fi­nanzieri... C’è la fila di chi lo vor­rebbe mandare a casa. Si mettano il cuore in pace. Silvio non mollerà mai».

Nemmeno — così anticipa — se il Cavaliere rimanesse esposto alle intemperie giudiziarie per l’abroga­zione del «lodo Alfano» da parte della Corte Costituzionale: «Vedre­mo cosa deciderà la Consulta, ma a prescindere dalla sentenza non ci saranno conseguenze politiche. Berlusconi non passerà la mano, procederà con l’azione di governo. Niente scossoni, niente elezioni an­ticipate. C’è ancora tanto da fare».

Se così davvero fosse, se le previ­sioni del senatore del Pdl si rivelas­sero esatte, la sfida per il dopo-Ber­lusconi somiglierebbe a una lunga volata, «e infatti chi pensasse oggi di essere in prossimità del traguar­do, farebbe meglio a ritirarsi. Il tra­guardo è lontano, siamo solo a me­tà gara, c’è ancora da scalare un gran premio della montagna. Non è giunto il momento dello scatto, quando verrà anche Silvio si prepa­rerà ». Come «si preparerà»? Non è forse questa l’ultima corsa del Cava­liere? «Può darsi», sorride Dell’Utri: «Ma non è detto. Perciò dico che tutti dovrebbero mettersi il cuore in pace».

Francesco Verderami
11 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Fini e l’incontro rifiutato col Cavaliere
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2009, 03:36:24 pm
Tensioni nel pdl

Fini e l’incontro rifiutato col Cavaliere

Il presidente della Camera: «Non vado a Canossa». E Bossi lo chiama


Il paradosso è che Fini parla con Bossi e non con Berlusconi. D'altronde, quando il «cofondatore» del Pdl porta in tribunale il direttore del giornale del fratello dell'altro cofondatore, cosa potrebbero dirsi oggi «Silvio» e «Gianfranco»? Nulla hanno da dirsi, l'ha spiegato l'ex leader di An a Gianni Letta, che tenta di co­struire un ponte tra le macerie di un rapporto ormai logoro, e che ha cercato di convincere Fini ad accettare un «incontro riservato» con il premier. «A parte il fatto che Silvio non rie­sce mai a tenere nulla di riser­vato — è stata la risposta del presidente della Camera — se poi si venisse a sapere che l'’ho incontrato, sembrerebbe che io sia andato a Canossa». Paro­le che confermano come la frattura con il Cavaliere sia an­che personale, segnata da quel­la che Fini definisce l'«aggres­sione» subita dal Giornale.

La querela contro Feltri ha una valenza politica, e infatti l'inquilino di Montecitorio — dopo averla annunciata — ieri l'ha ufficializzata: «Perché un giornalista — questo è il suo ragionamento — ha tutto il di­ritto di esprimere le proprie opinioni, magari di sentirsi co­sì bravo da determinare il di­battito politico. Ci può stare che si abbiano manie di gran­dezza... Insomma, passi per il 'compagno Fini', ma le minac­ce non posso accettarle».

Certo, il «cofondatore» del Pdl è consapevole che bisogne­rà arrivare a una ricomposizio­ne, ma nessuno sa come e quando si risolverà il conflit­to, se il ministro Matteoli deve limitarsi a dire che «ne uscire­mo perché dobbiamo uscir­ne». Tuttavia «per ora dell'in­contro non se ne fa nulla», ha spiegato Fini a Letta, al quale è stato affidato un messaggio per Berlusconi: «Deve capire che faccio sul serio». Chissà se ha espresso le stesse tesi a Ghedini, deputato-avvocato del presidente del Consiglio, se anche a lui Fini ha confer­mato che il «conflitto d’inte­ressi politico» del Cavaliere— al contempo premier e capo del partito — rischia di nuoce­re al neonato Popolo della li­bertà, a vantaggio della Lega.

Di sicuro il modo in cui Ber­lusconi ha replicato ieri sera — evidenziando le «concezio­ni diverse» che lo separano da Fini — testimonia il muro con­tro muro. Però anche il pre­mier ha necessità di bloccare uno stillicidio quotidiano che rischia di nuocergli. E infatti, sebbene fosse visibile l'irrita­zione verso l'alleato — bollato come «professionista della po­litica » — Berlusconi ha offerto delle concessioni sulla demo­crazia interna al partito, si è detto pronto a un «caminetto» con il presidente della Camera per «discutere» e «condivide­re » le decisioni, bilanciando le cene del lunedì con Bossi.

E proprio Bossi, che fino al­l’altro giorno ha picchiato du­ro su Fini, ieri ha avuto un col­loquio telefonico con l’ex lea­der di An. È stato il leghista Co­ta — così raccontavano alcuni dirigenti del Pdl — a far da ponte alla conversazione, è sta­to lui a passare il cellulare al Senatùr. Il capogruppo del Car­roccio alla Camera ha un otti­mo rapporto con l'inquilino di Montecitorio, che durante il di­battito sul decreto anticrisi — mentre presiedeva l'Aula — gli inoltrò un bigliettino di congratulazioni per il suo in­tervento, citando De Gaulle, e distinguendo tra «la politica con la p maiuscola e quella minuscola».

Cota è per Bossi l'ufficiale di collegamento con Fini. Ogni giovedì il leader del Car­roccio chiede informazioni al capogruppo sul colloquio del giorno prima: «Com’è andata con Gianfranco?». Stavolta però ha voluto parlare di per­sona con l'alleato, per dirgli che «un conto sono le que­stioni politiche, altra cosa so­no gli attacchi personali», che al ministro delle Riforme non piacciono, «non mi sono mai piaciute».

La solidarietà personale ri­volta a Fini non ha fatto dun­que velo sulle divergenze che hanno provocato lo scontro tra i due. Sul nodo del diritto di cittadinanza per gli immi­grati, ad esempio, Bossi ha ri­badito che «non fa parte del programma di governo». Più o meno quanto Berlusconi ha ripetuto a Porta a Porta , dicen­do che l’esecutivo «assolve agli impegni assunti con il pro­gramma sottoscritto da tutti». Fini sa di non avere molti mar­gini di manovra su questo te­ma, si è affrettato a spiegare di non avere «nulla contro la Le­ga », e ha fatto capire che il pro­blema è «l’incapacità del Pdl», di imporre una linea, come in­vece fa la Lega. È davvero sin­golare quanto è avvenuto ieri. Perché mentre resta l’incomu­nicabilità con Berlusconi, il presidente della Camera ha parlato con Bossi e si compli­menta con Tremonti per l’ope­ra di mediazione tentata con l’intervista al Corriere.

Ma sono i due «cofondato­ri » che dovranno prima o poi parlarsi. Entrambi ne hanno interesse. Perché è vero che il Cavaliere è in una posizione dominante: lo dimostra come si è conclusa la storia della let­tera con cui i deputati prove­nienti da An hanno chiesto un «patto di consultazione» tra il premier e Fini. Il compromes­so raggiunto è stato un déjà vu dei vecchi riti correntizi, con la ricomparsa dei colon­nelli e la riedizione dell’eterna lotta tra «lealisti finiani» e «berlusconiani di destra». Non ci sono dubbi sul fatto che il premier abbia il control­lo del partito, ma la fronda del presidente della Camera è pericolosa, in Parlamento e nel Paese. Un Pdl rissoso può compromettere la corsa per le Regionali, dove per vincere il Cavaliere sa di dover con­quistare — oltre alla Lombar­dia e al Veneto — il Lazio, la Campania e la Puglia. Senza, sarà sconfitta.

Francesco Verderami
16 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: VERDERAMI I due «poteri» Silvio e Gianfranco hanno bisogno l’uno dell’altro
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2009, 10:35:46 am
 Campagna per le Regionali decisiva: il premier pronto ad abolire la par condicio

Berlusconi-Fini, l’ora del faccia a faccia

I due «poteri» Silvio e Gianfranco hanno bisogno l’uno dell’altro.

Dal Cavaliere la telefonata per vedersi


Sono stati prima alleati e poi cofondatori di un partito. Ma quando Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini si vedranno, sarà un incontro tra poteri che perseguono ormai obiettivi diversi, consapevoli però di dover trovare un’intesa, quantomeno un compromesso. Sarà elettricità pura. Sarà vietato il cortocircuito. Da un paio di giorni il premier e il presidente della Camera avevano capito che non era più il tempo di farsi la faccia feroce, che era giunta l’ora di vedersi.

L’altro ieri Fini ha dato un segna­le, dalle colonne del Messaggero si è detto pronto all’incontro, e a tar­da sera il Cavaliere l’ha chiamato per concordare l’appuntamento. Fuori i secondi, sarà un faccia a faccia senza mediatori. L’intesa do­vranno trovarla da soli, chiedendo e offrendo garanzie che solo loro possono assicurarsi: sulla struttura del partito, sull’azione di governo, sul ruolo delle istituzioni e su alcu­ne riforme. Nessuno potrà gridare scandalizzato al baratto, è la politi­ca con le sue regole e i suoi rappor­ti di forza. Se è vero che Berlusconi ha le chiavi d’accesso su tutte le questio­ni poste da Fini la scorsa settimana, è altrettanto vero che solo «Gian­franco » può aprire a «Silvio» la stra­da per superare delle difficoltà fino­ra insormontabili per il presidente del Consiglio. Nulla di segreto, è già tutto pub­blico. I due ex alleati, che oggi sono due poteri, non hanno mai smesso infatti di lanciarsi dei messaggi. L’ha fatto Fini a Gubbio, quando— dopo aver chiesto una sorta di rifon­dazione del Pdl — in un inciso ha offerto a Berlusconi una delle con­tropartite: «...E per quanto riguarda la riforma dei regolamenti parla­mentari, sono pronto a metterla al­l’ordine del giorno dell’attività del­la Camera...». L’ha fatto Berlusconi a Porta a Porta , quando — dopo aver detto che tra lui e Fini ci sono «due visioni diverse» — ha dato la propria disponibilità a istituziona­lizzare gli incontri con un «caminet­to ». Chiaro, no? Talmente chiaro che il presidente della Camera non se l’è presa per l’epiteto che il pre­mier gli ha rivolto: «Gianfranco è un professionista della politica». «Silvio l’ha detto per difendersi».

I due poteri hanno bisogno l’uno dell’altro in questa fase. L’ex capo della destra si era sentito tagliare «l’erba sotto i piedi» nel Pdl, perciò chiede la consultazione permanen­te tra «cofondatori», la codificazio­ne delle riunioni di partito e dei ver­tici di maggioranza, «che garanti­rebbero peraltro a Berlusconi di proporsi come il baricentro dell’al­leanza con Bossi». Traduzione: c’è da riequilibrare l’assetto interno del Pdl e da ridimensionare il ruolo della Lega, «a cui finora è stato con­cesso più di quanto il suo peso poli­tico le consentirebbe». Per esem­pio, offrire il candidato governato­re al Carroccio in Veneto, vorrebbe dire «sopravvalutare la forza dell’al­leato ». Così com’è impensabile non decidere «insieme» il candida­to governatore nel Lazio. Berlusconi potrebbe convenire, anche perché il tema delle Regiona­li è per lui cruciale.

Il Cavaliere de­ve vincere nel 2010 per evitare che le fibrillazioni mediatiche a cui è si­stematicamente sottoposto diventi­no vere e proprie «scosse» politi­che nel governo. E per vincere, ol­tre alla Lombardia e al Veneto, do­vrà conquistare i più grandi bacini elettorali del Centro-Sud: Lazio, Campania e Puglia. Se così fosse, non ce ne sarebbe più per nessuno, almeno fino al 2013. L’impresa non è semplice. Intan­to perché la legge elettorale, il Tata­rellum, rischia di far disperdere il voto nei rivoli delle liste locali. Ep­poi perché mettere la propria faccia nella campagna elettorale di tante regioni, è più complicato di quan­do in Sardegna Berlusconi si scelse il candidato e lo portò al successo. E allora il premier getterà sul ta­volo della trattativa la riforma del sistema di voto, con l’introduzione dello sbarramento al 4%, e soprat­tutto «almeno la modifica» della par condicio, una legge «illibera­le », che — fosse per lui — andreb­be abolita. Una settimana fa ha sol­levato nuovamente la questio­ne con i dirigenti del Pdl. Tut­ti conoscevano a memoria il ragionamento di Berlusco­ni: «Non è possibile che un partitino dell’1 per cento possa avere in tv lo stesso spazio della pri­ma forza politica in Ita­lia ». In molti gli hanno fatto notare che «non sarà facile» cambiare le norme in pochi mesi. Nessuno immaginava quale sarebbe stata la controreplica del pre­mier: «E se lo facessimo per decreto?».

Il tema della modifi­ca della par condicio è stato messo in agenda da Berlusco­ni, che da giorni tiene nella propria cartellina la dichiarazione con cui il leader del Pd, Franceschini, ha rifiu­tato l’invito di Vespa al Porta a Por­ta delle polemiche: «La mia presen­za sarebbe da intendere come una sorta di par condicio, per coprire l’incredibile scelta della Rai di stra­volgere il palinsesto. Ma io non mi renderò complice di questa opera­zione ». Per il Cavaliere è come se il capo dell’opposizione avesse scon­fessato la legge, sdoganando di fat­to la sua operazione. Se però la pratica non è stata an­cora istruita, è perché c’è prima l’incontro con Fini, «e Berlusconi — sosteneva giorni fa il presiden­te della Camera — deve compren­dere che è anche nel suo interesse se si pone termine a una politica barricadera. Deve capire che il dia­logo può venirgli utile, che può es­sere funzionale anche all’attività del governo in Parlamento». Un ra­gionamento che sembra valere per la riforma dei regolamenti, per la modifica del sistema di voto e ma­gari anche per una nuova par con­dicio. Fuori i secondi: sarà un in­contro tra poteri. Sarà domani o lu­nedì? Francesco Verderami

Francesco Verderami
19 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI ... sondaggi: il 58% dice basta
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2009, 11:02:56 am
Il retroscena

Afghanistan, sul Cavaliere anche la spinta dei sondaggi: il 58% dice basta

Tendenza già nei dati di luglio


ROMA - Fosse solo Bossi a dire «tutti a casa». Il problema per Berlu­sconi è che l’opinione pubblica italia­na chiede a grande maggioranza il rientro del contingente dall’Afghani­stan. E non da oggi. Già a luglio tutti gli istituti demoscopici lo rilevarono, dopo la morte del paracadutista Di Li­sio, saltato su una mina esplosa al pas­saggio di un convoglio militare in una strada a nord-est di Farah. Quei son­daggi avevano trovato conferma la scorsa settimana in un nuovo rileva­mento di Ispo, dal quale risultava che solo il 26% degli italiani restava favore­vole al mantenimento della missione, mentre il 58% chiedeva il ritiro delle truppe.

Si tratta di numeri che — se­condo Mannheimer — «sono destina­ti inevitabilmente a salire dopo la stra­ge di Kabul». Così Berlusconi si trova dinnanzi a un problema politico non semplice, stretto com’è nella morsa del patto sot­toscritto con Obama — al quale aveva promesso un maggior coinvolgimen­to italiano in Afghanistan durante la visita a visita a Washington — e le pulsioni del Paese a cui il leader della Lega dà voce, senza curarsi del linguaggio di­plomatico e dei rapporti internaziona­li. Già a luglio il leader della Lega dis­se «io riporterei i nostri ragazzi a ca­sa », e criticò la missione «che costa tanti soldi». Allora il premier riuscì a far rientrare il caso, spostandolo nel tempo, sottolineando «il contributo dell’Italia» per il pacifico svolgimento delle elezioni che «avvicinano l’Afgha­nistan alla democrazia». Ma già a luglio — attraverso un son­daggio riservato — il premier si era re­so conto quanto fosse mutata la perce­zione dell’opinione pubblica rispetto alla fase iniziale della missione, quan­do l’invio dei militari era considerato dalla maggioranza dei cittadini «un contributo» per restituire la libertà al popolo afghano, vessato dai talebani. Con l’andare del tempo l’intervento umanitario si è trasformato agli occhi degli italiani in un’operazione di guer­ra. Ad aggravare le cose c’erano state le notizie sulla produzione di oppio co­me unica voce dell’economia interna, e sul dilagare del fenomeni di corru­zione negli apparati dello Stato.

Attraverso il report d’inizio estate il Cavaliere aveva voluto ascoltare la vo­ce del Paese: insieme a due cittadini su dieci che si opponevano comun­que «a ogni tipo di guerra», un altro terzo di italiani invocava il rientro dei militari, insieme a un 20% che chiede­va una riduzione del contingente e l’avvio di una exit strategy. Solo il re­stante 25% sosteneva ancora la missio­ne, ma con una ridefinizione delle re­gole di permanenza. Sono dati che au­torevoli dirigenti del Pdl hanno visio­nato, i più recenti. Sono dati che quasi certamente peggioreranno. Dopo le elezioni in Afghanistan, infatti, con le polemiche sui brogli, è assai probabi­le che la «fiducia» nell’esito della spe­dizione internazionale si sia ulterior­mente abbassata rispetto a luglio. E al­lora era già bassa: quasi la metà dei cit­tadini riteneva che l’intervento a Ka­bul non avesse dato risultati e che i soldati italiani non fossero adeguata­mente equipaggiati. L’attentato di ieri, con la morte dei militari, segna — a detta degli analisti — «un salto di qualità» che bisognerà valutare nei test demoscopici: ai costi economici ora si aggiunge il costo al­tissimo di vite umane. La strage di Ka­bul potrebbe essere per l’opinione pubblica una conferma ai convinci­menti di luglio, quando solo un quar­to degli italiani considerava la spedi­zione «una missione di pace», un al­tro 20% era convinta fosse «una mis­sione di guerra» e il 40% riteneva che la spedizione umanitaria si stesse tra­sformando in una operazione bellica.

Gli istituti di ricerca avranno poi mo­do di studiare quali sviluppi abbiano avuto altri fattori, registrati da prece­denti sondaggi: per esempio, l’opinio­ne pubblica nel tempo ha iniziato a non comprendere il senso dell’inter­vento militare. Paradossalmente era più facile capire la presenza in Iraq, dove c’è il petrolio. È vero che sulla presenza delle trup­pe italiane in Afghanistan c’è una so­stanziale convergenza tra maggioran­za e opposizione, ma è altrettanto ve­ro che — superati i giorni del lutto na­zionale — toccherà a chi sta al gover­no, a Berlusconi spiegare al Paese. E il Cavaliere sa che in quel 58% di cittadi­ni che per Ispo sono contrari alla mis­sione, il 48% vota centrodestra. Il pri­mo messaggio inviato ieri dal premier testimonia le difficoltà di tenere insie­me gli impegni internazionali e le di­namiche politiche interne. Ad un Bos­si che vuole si discuta la questione «nel prossimo Consiglio dei mini­stri », si oppone la richiesta del finiano Bocchino di convocare un vertice di maggioranza: sono scintille. Ha gioco facile Bersani nel rilevare «la confusione che regna nel gover­no », se è vero che si è notata anche la divergenza tra il capo della Lega e Ma­roni, per una volta a fianco di La Rus­sa. Il punto è, come ha sottolineato il sottosegretario alla Difesa Crosetto, che «le parole di Bossi aumentano esponenzialmente il pericolo per i no­stri militari». Berlusconi dovrà trova­re la quadratura del cerchio nel Palaz­zo, cercando di parlare anche al Paese. Cosa che lo preoccupa, «perché l’Italia — disse ai tempi della strage di Nassi­riya — è un Paese di mamme».

Francesco Verderami
18 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il Cavaliere e il compromesso obbligato ...
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2009, 08:37:08 am
L'INCONTRO CON FINI - IL RETROSCENA

Il Cavaliere e il compromesso obbligato «Ma rischiamo il rapporto con i cattolici»

Timori sul biotestamento. E sugli immigrati: potremmo perdere consensi tra i nostri elettori


ROMA — Tendenza Silvio. Nono­stante lo scontro con Gianfranco Fi­ni, le tensioni con Umberto Bossi sul­l’Afghanistan, i morsi della crisi eco­nomica sull’occupazione e i rapporti complicati con il mondo cattolico, il Cavaliere continua a salire nei son­daggi riservati che l’opposizione mo­nitora settimanalmente. Perché an­che l’ultimo report di Ipsos , analizza­to dai dirigenti del Pd, ha evidenzia­to un dato tendenziale in ascesa per il premier e il suo partito: nell’indice di fiducia, infatti, Berlusconi guada­gna un altro decimale (oggi è al 51,2%) e il Pdl tre (dal 38 al 38,3%). Ma non è sulle variazioni numeri­che che si soffermano gli analisti, bensì sul trend positivo che da lu­glio non conosce soste. I rilevamenti fanno capire che — in assenza di un’alternativa — l’opinione pubbli­ca continua a puntare sul presidente del Consiglio, se è vero che la Lega subisce una flessione di mezzo pun­to, scende al 10,1%, e non raccoglie il consenso degli elettori di centrode­stra, rimasti contrariati dal duello tra i «cofondatori» del Pdl. Ed è proprio lo scontro con Fini a preoccupare Berlusconi, perché la «fiducia» è un credito da onorare con l’azione di governo, dunque in Parlamento, dove i provvedimenti dell’esecutivo devono trovare il con­senso. Il premier deve quindi disin­nescare il conflitto con il presidente della Camera, con il quale i problemi politici ieri sono stati solo esamina­ti. I due infatti si rivedranno, dopo il viaggio negli Usa del Cavaliere, sicco­me non potevano bastare due ore di colloquio per chiudere la vertenza.

Il faccia a faccia in casa Letta è servito quantomeno per chiarirsi — in alcu­ni frangenti anche a muso duro — e per constatare che non possono fare a meno l’uno dell’altro. Non c’è dub­bio che l’ex leader di An non abbia progetti politici alternativi al Pdl, non ci ha mai pensato: l’ha spiegato a Berlusconi, che pure si fa forte dei sondaggi commissionati da tempo sulle «basse potenzialità» del «brand» finiano. Dall’altra parte il Cavaliere sa che — se non vuole apri­re un fronte pericoloso — deve con­cedere al «cofondatore» un ruolo adeguato nel partito. Ed è chiaro che il presidente della Camera è preoccu­pato di non esporsi: vuole verificare che le promesse verranno mantenu­te. Altrimenti, rischierebbe di qui a breve una cocente sconfitta. Poco importa però se «Silvio» non si fida di «Gianfranco» e vicever­sa, se l’unica intesa è stata quella di non parlarsi più attraverso i media. Entrambi sanno che i problemi resta­no, frutto delle due «visioni diver­se ». Certo, la consultazione perma­nente consentirà di cercare dei com­promessi su questioni spinose. Ma è da vedere se e come si comporrà una mediazione su temi, per esem­pio, come i diritti agli immigrati e il testamento biologico.

Perché Berlu­sconi teme che le posizioni di Fini «da una parte ci facciano perdere consensi nel nostro elettorato, e del­­l’altra mettano a rischio il rapporto con il mondo cattolico», assai in­quieto e critico verso il premier, co­me ha fatto capire ieri il presidente della Cei, Angelo Bagnasco. Allora il consenso nei sondaggi as­sume per il premier un altro signifi­cato, è un debito contratto con l’opi­nione pubblica, da restituire entro la primavera se lo si vuole far fruttare alle Regionali. È vero che il Pd resta per ora accartocciato su se stesso, e sebbene questa settimana guadagni quasi mezzo punto (28,9%), non rie­sce a drenare voti all’Idv, quotato so­pra l’8% malgrado un calo di due de­cimali. Nelle tabelle di Berlusconi i Democratici non vanno oltre il 27%, semmai è su Pier Ferdinando Casini che dovrà fare delle valutazioni: tra i leader, infatti, negli indici di gradi­mento il capo dei centristi è salito al 48,8%, ed è secondo solo al Cavalie­re, che nei suoi report calcola l’Udc al 6,8%. Che fare allora per le Regionali? Anche questo tema è stato trattato ie­ri da Berlusconi e Fini.

Nei giorni scorsi l’ex leader di An — a parte far muro contro le «eccessive pretese» al Nord della Lega — teorizzava che «per rafforzare il Pdl è necessario le­gittimare le strutture territoriali del partito. Non è pensabile che le scelte dei candidati governatori siano frut­to solo di una decisione romana». È un ragionamento da rifare con il pre­mier, che su questo punto — e an­che su altri — proprio non ci sente. Ma è come se tutto fosse sospeso, in attesa di altri eventi. Perché è ve­ro che nel Pdl si avverte un cauto ot­timismo sulla decisione della Con­sulta per il lodo Alfano, ma ad otto­bre la decisione della Corte Costitu­zionale avrà un’influenza sulle scel­te politiche, nel Palazzo. Fini ha già detto che «questo clima di messiani­ca attesa è fuori luogo», tranne ag­giungere poi che «mentre tutti aspet­tano la sentenza, sarà importante co­noscere le motivazioni». E Berlusco­ni — giorni fa — ha cercato di mo­strarsi distaccato: «Se fosse necessa­rio — ha detto — si potrebbe fare un altro lodo. Ma io sono tranquillo perché, anche se andassi a processo, sul caso Mills mi assolverebbe qual­siasi tribunale fatto da giudici non politicizzati e prevenuti contro di me».

Possibile che ieri i «cofondato­ri » abbiano parlato solo del partito?

Francesco Verderami
22 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI «Il bersaglio non era il Pd»
Inserito da: Admin - Ottobre 02, 2009, 11:00:48 pm
Il retroscena

«Il bersaglio non era il Pd»

Le rassicurazioni di Berlusconi

Resta la tensione con il «cofondatore» Fini


ROMA — Qual è il motivo che spinge Berlusconi a usare toni da campagna elettorale permanente? Le Regionali sono ancora troppo distanti per giustificare una simile strategia mediatica, e il premier sa che l'opinione pubblica è stanca delle risse di Palazzo e attende dal governo risposte sui nodi della crisi economica e dell'occupazione. Perciò ha colpito il modo in cui ha affondato il colpo contro l'opposizione alla Festa della libertà.

È vero che il Cavaliere ha sempre tenuto a marcare la distanza, chiudendo finora qualsiasi spiraglio all'ipotesi di dialogo. Ma quel passaggio ambiguo sull'Afghanistan lo ha costretto ieri a rettificare il tiro, a far sapere che «non era il Pd il bersaglio» della sua sortita, così da attutire il contraccolpo dopo l'esternazione irritata del capo dello Stato, con il quale — ovviamente — «i rapporti restano ottimi». Epperò c'è qualcosa che non torna: le battute — reiterate anche domenica — sugli Obama «abbronzati», e le galanterie ostentate alla Gelmini, contraddicono la linea che il premier si era imposto appena la scorsa settimana, quando — per evitare il tormentone sul «gossip» — aveva avvisato i giornalisti: «D'ora in poi parlerò solo dell'azione di governo». Il nervosismo del Cavaliere su quella che definisce «spazzatura» è evidente, e la decisione dell'esecutivo di intervenire sulla Rai dopo la puntata di Annozero, lo testimonia. Se poi nel suo discorso dell'altro ieri Berlusconi non ha fatto cenno alla trasmissione di Santoro c'è un motivo: «Non ne ho parlato per non alimentare la polemica. Farei il gioco di chi mi attacca». Sono troppi i fronti aperti, anche per uno come lui, che ha fatto cambiare i piani di volo del suo aereo per il rientro dagli Stati Uniti pur di incontrare Benedetto XVI a Ciampino, e garantirsi la photo-opportunity con il Papa. E le poche righe che Avvenire ha riservato all'incontro il giorno dopo, sono state — a detta del premier — «più che uno sgarbo a me, una mancanza verso il Santo Padre».

Resta al momento senza risposta l'interrogativo sulle ultime mosse di Berlusconi, così come sembra restare sospesa la politica nella settimana che precede la decisione della Corte costituzionale sul lodo Alfano. Non è dato sapere se sia questo il reale motivo del nervosismo del premier, che ha deciso di tenere un profilo mediatico molto basso sulla vicenda per non darle grande risalto. «Se la Consulta dovesse porre dei rilievi sul lodo — è l'unico concetto che ha espresso — se ne potrebbe varare un altro. Comunque sono sereno. Qualsiasi tribunale non politicizzato, sul caso Mills mi assolverebbe». Allora cos'è che turba il Cavaliere? E perché domenica ha detto che «noi governeremo sempre», dopo aver evocato il '94, che richiama alla memoria il ribaltone? Una cosa è certa: il premier non ha citato Fini alla Festa della libertà, e ieri il presidente della Camera non ha citato Berlusconi alla presentazione di un libro sulla mafia. Ma non è passato inosservato un passaggio del suo intervento, quando ha detto che «chi rappresenta le istituzioni e il popolo sovrano dev'essere come la moglie di Cesare, aldilà di qualsivoglia sospetto». Un messaggio senza destinatario.

A Gubbio era stato più diretto, invitando il Pdl a «non lasciar adito al minimo sospetto» e a «collaborare con i magistrati» nelle inchieste sulle stragi di mafia. Così dicendo, aveva fatto infuriare il premier. È evidente come le «diverse visioni» dei «cofondatori» non siano facilmente componibili e che la convivenza sarà segnata da continue scosse, sebbene Berlusconi resti il dominus del Pdl. Ma «l'unità» nel partito, della quale proprio domenica il Cavaliere si era vantato, non esiste: in Puglia le tensioni che si erano create in estate tra Fitto e Quagliariello sono state sedate da un intervento di Berlusconi; in Sicilia nemmeno Berlusconi è riuscito a metter fine alla guerra tra Alfano, Miccichè e i finiani; in Lombardia i seguaci di La Russa e gli ex forzisti sono venuti quasi alle mani alla Festa della libertà; in Campania è in atto un braccio di ferro tra la Carfagna e il sottosegretario Cosentino che vorrebbe candidarsi a governatore; in Veneto Galan picchia duro sulla Lega per menare sui suoi (ex) amici forzisti. Altro che «unità». Perciò Berlusconi vorrebbe rifondare il Pdl appena fondato, introdurre la regola dell'incompatibilità tra incarichi di governo e di partito per rinnovarne i vertici, chiudere con la stagione del triumvirato, puntare su un coordinatore e un vice con forti deleghe, inserire nuove leve, come Maurizio Lupi. Ma prima deve attendere il responso delle Regionali. E prima ancora altri responsi.

Francesco Verderami
29 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI - Al nervosismo si unisce il senso di smarrimento.
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2009, 11:03:33 am
Le mosse e il caso del ’94

Offensiva sulle escort, Berlusconi sospetta una manovra «anti-nazionale»

Al nervosismo si unisce il senso di smarrimento.

In molti temono il rischio di un conflitto tra le istituzioni e il Paese


Finora i sospetti si erano concentrati so­lo sul presidente della Camera. Ma lunedì Roberto Calderoli ha aggiunto alla lista (nell’intervista al Corriere) anche un «gran visir» del governo. E molti hanno interpretato l’uscita come un attacco esplicito a Gianni Letta. È nota la distanza che separa il Carroccio dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, e sono no­te le divergenze tra il braccio destro del Cavaliere e Giulio Tremonti, che è l’uomo del Pdl più vicino alla Lega. Ma se persino Letta viene infilato nel frullatore, se persino lui viene ad­ditato come un potenziale traditore, vuol dire che Silvio Berlusconi - nel tentativo di fronteggiare l’accer­chiamento mediatico e giudiziario a cui si sente sottoposto - ha perso la presa della sua stessa maggioran­za. Ed è una percezione che attraver­sa l’intero centrodestra, sebbene Umberto Bossi lunedì abbia di nuovo giurato lealtà al premier, dicendosi all’apparenza pronto al voto antici­pato.

Ma al nervosismo si unisce ora il senso di smarrimento, che si propaga nel Palazzo alla vigilia della sentenza sul Lodo Alfano. E in molti temono si concretizzi per la prima volta il rischio di un conflitto tra le istituzioni e il Paese. Perché stavol­ta non è come nel ’94. Allora il Cava­liere, colpito da un avviso di garan­zia, dovette cedere il campo a un centrosinistra che fu in grado di co­struire un’alternativa di governo. Oggi invece il premier è chiamato indirettamente in causa dalla sen­tenza sul Lodo Mondadori, ma l’op­posizione è debole e l’opinione pub­blica in maggioranza è schierata con Berlusconi, che - così dicono i suoi sondaggi - viene visto come «vittima» di un’operazione politi­co- giudiziaria. Anche le analisi demoscopiche commissionate dall’opposizione continuano a rilevare il legame tra il premier e gli italiani, se è vero che il report settimanale di Ipsos per il Pd - all’indomani del contestato scu­do fiscale - fa rimbalzare di quasi due punti la fiducia sull’operato del governo (dal 54,1% al 55,9%) e sul Pdl (dal 51,6% al 53,3%).

Mentre l’ef­fetto Annozero fa calare appena il giudizio sul Cavaliere (dal 52,9% al 52,8%) e le intenzioni di voto sul suo partito (dal 37,8% al 37,5%), con il Pd che comunque scende (dal 29% al 28,8%) al pari dell’Idv (dal­l’ 8,4% all’8,1%). Ecco la faglia. A fronte di un Ber­lusconi indebolito nel Palazzo, c’è un Berlusconi rafforzato dal giudi­zio popolare. Ed ecco il bivio. Si trat­ta di capire come il premier vorrà muoversi: proseguirà fino al termi­ne della «missione quinquennale» - come ha detto lunedì - o proverà ad usare la forza che gli deriva dal consenso? Il quesito potrà scioglier­lo solo dopo il giudizio della Consul­ta sul lodo Alfano. L’idea di «andare avanti» è stata una risposta alla sen­tenza sul Lodo Mondadori che l’ha colto di sorpresa. Berlusconi è ab­battuto e furibondo con quello «stuolo di legali che costano una for­tuna » e che pare abbiano appreso la decisione del tribunale per mail, «mentre De Benedetti da giorni an­dava dicendo in giro che mi avreb­be rovinato». La sentenza ha richia­mato alla sua mente il famoso «non poteva non sapere», e l’idea di ri­spondere all’attacco facendo orga­nizzare una manifestazione di piaz­za potrebbe avere delle controindi­cazioni, evocando il conflitto d’inte­ressi.

Inutile perder tempo dietro le re­criminazioni, sebbene Berlusconi abbia interpretato l’offensiva sulle escort come una «manovra diversi­va» per poi colpirlo negli interessi e nella moralità. Di una cosa il Cavalie­re è certo: si tratta di un’operazione «anti-nazionale». Dietro questo con­cetto si cela sempre più il sospetto che la manovra abbia addentellati oltre confine. E non è un timore re­cente, se - per capire cosa stava succedendogli - avrebbe chiesto aiuto ai servizi di una potenza ami­ca ma non alleata. Si avvicina la decisione della Con­sulta e si avvicina il bivio. Il premier dovrà decidere se resistere a tutti i suoi «oppositori» o provare a usare la forza del consenso popolare. La strada delle elezioni anticipate è pe­rò difficile e pericolosa, perché fuo­ri da Palazzo Chigi Berlusconi po­trebbe non trovar più riparo. A me­no che qualcuno non si sacrifichi in sua vece, e in nome della lealtà al Ca­valiere si intesti un governo come quello di Fanfani dell’87, che si fece sfiduciare pur di portare la sua Dc alle elezioni.

Ma erano altri tempi.

Francesco Verderami

06 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Berlusconi: se non passa la norma toglierò tempo al Paese per difendermi
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2009, 04:10:53 pm
La linea

Berlusconi: se non passa la norma toglierò tempo al Paese per difendermi

Il Cavaliere ai suoi: «Sarei costretto a prepararmi per andare in Tribunale»


ROMA — «Le cose si risolveranno per il meglio», diceva ieri Berlusconi in attesa del calcio di rigore. Come a voler infondere ottimismo nel suo gruppo dirigente ma anche stroncare l'estenuante chiacchiericcio che gli toglieva l'aria, riempiendola di congetture sulla sentenza della Corte Costituzionale. Meglio far due passi per i negozi del centro di Roma, perché «se proprio la Consulta dovesse bocciare il lodo di Angelino — ecco il punto — vorrà dire che sottrarrò del tempo agli impegni istituzionali, per prepararmi al meglio e andare in tribunale a difendermi». Non c'è dubbio che in caso di risultato avverso si presenterebbe così davanti agli italiani, ribadendo che «io non mollo», che «mi sento con la coscienza a posto», che «non ho nulla da temere da una giustizia non politicizzata», e che pertanto il lodo Alfano, «il lodo di Angelino», serviva solo a consentire l'esercizio delle funzioni pubbliche del presidente del Consiglio non era un escamotage per sottrarlo alla legge.

Ieri, in attesa del calcio di rigore, mentre tutti gli uomini del Cavaliere tenevano il fiato sospeso e la mandibola aperta - tranne dispensare sorrisi e sostenere che «il premier è di ottimo umore» - Berlusconi ha fatto le prove generali davanti a ministri e capigruppo, ribadendo ciò che aveva detto lunedì. Andrà avanti, a prescindere dalla scelta dei giudici, perché non vuol darla vinta ai suoi «oppositori» e perché è questo - secondo i suoi sondaggi - che vuol sentirsi dire l'opinione pubblica. È vero che tra le fila del Pdl resta forte il partito del voto, brandito però come un'arma tattica e non come un'autentica strategia politica, ed è altrettanto vero che Berlusconi non avrebbe timore del verdetto popolare, «non ho paura delle elezioni», aveva spiegato l'altra sera ad alcuni imprenditori che erano andati a trovarlo ad Arcore. Ma in quel comunicato scritto due giorni fa per avvisare che «il governo porterà a termine la sua missione quinquennale», c'era il pensiero autentico del Cavaliere e l'approvazione di Confalonieri, il patron di Mediaset, l'amico di una vita, che tempo fa aveva sottolineato come le elezioni sono sempre una scommessa: «Vi ricordate Chirac, che pensava di stravincere e poi fu costretto alla coabitazione con il socialista Jospin?». «Mai mollare», lo ripete sempre Bossi, anche lui sugli spalti ad aspettare l'esito del calcio di rigore. Perciò il colloquio tra il Senatùr e Fini è slittato ancora, perciò di Regionali non si parla nel centrodestra fino alla sentenza della Consulta.

L'attesa però causa distrazioni e fa affiorare il nervosismo nella maggioranza. Certo non ha valenza politica il fatto che ieri il governo sia andato sotto per un voto alla Camera sulla legge per l'infanzia. Ma Berlusconi non sarà stato contento di sapere che l'emendato approvato era stato presentata dai dipietristi. Sicuramente non ha gradito di veder lavati in pubblico i panni sporchi di palazzo Chigi. Perché è vero che con Gianni Letta ci sono stati (e ci sono ancora) motivi di tensione, che il premier e il suo braccio destro in Consiglio dei ministri hanno avuto uno scambio di opinioni molto acceso, «ma Gianni è quello che risolve mille situazioni al giorno», e non è bene in questa fase assistere a una campagna di delegittimazione interna: dà l'idea dello sfaldamento. Invece è l'ora di mostrarsi uniti e ottimisti, il calcio di rigore sta per essere battuto. E dunque «bravo Fini» che l'altro ieri ha respinto l'ipotesi di esecutivi tecnici, sebbene oggi sarà a convegno con Montezemolo. Tanto Berlusconi resta, «io non mollo», e dunque non c'è spazio per un sacrificio come quello di Fanfani, che si fece sfiduciare dalle Camere pur di portare la Dc alle urne. «Solo Schifani fa rima con Fanfani», sorrideva ieri l'ex ministro Landolfi, poco prima che la seconda carica dello Stato dicesse: «Non vedo sbocchi per governi diversi».

In fondo è meglio anche per il Pd, che può smetterla di dividersi su un inesistente «governo del presidente». Così ieri alla Camera Bersani ha potuto parlar d'altro con Casini, e Veltroni ha continuato a magnificare il film di Tornatore, Baarìa, trovandosi per una volta d'accordo con Berlusconi. Bisognava pur passare il tempo in attesa del calcio di rigore.

Francesco Verderami

07 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il patto Fini-Bossi per evitare le urne
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2009, 11:53:35 am
Il retroscena

Il patto Fini-Bossi per evitare le urne

L'ipotesi dell'intervento con procedura d'urgenza sulla riforma penale per ritardare i processi


È accaduto poco prima che la sentenza sul Lodo Alfano provocasse il sisma, prima che d’un colpo il Quirinale, la Consulta e palazzo Chigi finissero inghiottiti nella voragine. E non è un caso se l’incontro tra Fini e Bossi a Montecitorio ha preceduto il terremoto, la loro intesa è servita per mettere in sicurezza il centrodestra, per arginare la controffensiva di Berlusconi e porre un confine invalicabile: il voto anticipato.

Così è nato l’accordo tra il «cofondato­re » del Pdl e il capo del Carroccio, al qua­le Fini ha garantito il proprio benestare per una candidatura leghista in Veneto al­le Regionali, ricevendo in cambio un pat­to di consultazione permanente e la ga­ranzia che «d’ora in poi quando si dovrà discutere lo faremo in tre». E sarà infatti dopo un incontro a tre che verrà ufficia­lizzato il patto sul governatore leghista nel Nord-est.

Ecco la svolta, l’idea di un ponte proiet­tato verso il futuro, la garanzia che l’alle­anza Pdl-Lega resisterà anche al cambio degli uomini e delle stagioni. L’accordo non mira a dimezzare il Cavaliere, per­ché è evidente che il centrodestra sia an­cora oggi a forte trazione berlusconiana. Bossi l’ha sottolineato, dichiarando pub­blicamente la propria fedeltà all’alleato, ma scartando le elezioni anticipate che bloccherebbero l’iter della riforma fede­ralista: «E senza quella riforma scoppia la guerra». Siccome il Senatùr sapeva che la Consulta avrebbe bocciato lo scu­do giudiziario, poco prima che accadesse ha trasformato le Regionali in un «refe­rendum » sul presidente del Consiglio.

Il punto è: come arriverebbe Berlusco­ni a quell’appuntamento? Il Cavaliere sa che — al momento — la strada delle ele­zioni gli è preclusa, per questo non le evo­ca. Ma il logoramento a cui è sottoposto rischia di schiantarlo, di non farlo arriva­re in sella al «referendum» di primavera: la sentenza civile sul lodo Mondadori è un cavallo di Troia che di fatto anticipa la sentenza penale sul caso Mills, e ora che la Consulta ha bocciato il lodo Alfano, il premier è esposto anche al processo sui diritti tv, che potrebbe portare all’interdi­zione dai pubblici uffici. Berlusconi ieri non usava il condizionale nei suoi collo­qui con ministri e dirigenti del Pdl: «Le sentenze contro di me sono già scritte».

Se così fosse sarebbe difficilissimo resi­stere a palazzo Chigi, «già me li vedo quel­li della sinistra che disertano le sedute in Parlamento, chiedendo le mia testa pri­ma di tornare in Aula». Perciò serve un meccanismo legislativo che blocchi quei processi, che li prolunghi nel tempo. I tec­nici sono già all’opera e non si esclude che alcune norme contenute nel ddl di ri­forma del processo penale — fermo al Se­nato — possano essere varate anche con procedura d’urgenza. È la prova-fedeltà che il Cavaliere chiede agli alleati, «serve maggiore unità e massima compattezza» ha detto a Bossi che ieri è andato a trovar­lo alla vigilia del terremoto.

Fini invece gli aveva parlato per telefo­no, intrecciando sentimenti di personale «solidarietà», a ragionamenti politici condivisi con il Senatùr nel colloquio a Montecitorio. «Andiamo avanti», aveva concluso il presidente della Camera: «E mi raccomando, Silvio. Usa toni pacati nel commentare la sentenza». Le ultime parole famose: «Evidentemente — ha commentato Fini dopo l’attacco di Berlu­sconi a Napolitano — ha scelto un’altra strada rispetto a quella che gli avevo con­sigliato » .

Il «cofondatore» del Pdl può essere ri­masto sorpreso, ma fino a un certo pun­to. Doveva ricordare cosa aveva detto il premier alla vigilia: «A sentenza politica risponderò politicamente». E dunque era scontato che il Cavaliere avrebbe in­nescato con fredda lucidità quello che lo stesso Fini definisce un «conflitto istitu­zionale ». Il fatto è che ieri, in un sol col­po, la Corte Costituzionale ha azzoppato il premier ma ha anche colpito il presi­dente della Repubblica, «perché lui — se­condo Berlusconi — aveva promulgato la legge. E quello non è un semplice atto formale».

Il conflitto serve al Cavaliere per chia­mare alla prova di fedeltà gli alleati nel tornante più delicato della storia politica repubblicana. L’Mpa gli ha subito offerto la propria solidarietà, il repubblicano Nu­cara l’aveva anticipato ieri mattino in Au­la alla Camera, prima della sentenza, «a nome del Pri». Ora però Berlusconi pre­senta il conto: è d’accordo ad «andare avanti», come gli chiedono Fini e Bossi, «ma non intendo restare a guardare men­tre cercano di farmi fuori». Perciò chiede di seguirlo, in una battaglia che si prean­nuncia durissima. Ma che rischia di ini­ziare fuori tempo massimo. Berlusconi ne è consapevole: «Abbiamo perso un an­no e mezzo», ha urlato ieri. Un anno e mezzo in cui ha accantonato il progetto di rifondare la giustizia, ha bloccato la legge sulle intercettazioni, e ha accettato «il compromesso» con il Quirinale.

Ecco cosa significava quel «mi sento preso in giro», sibilato ai cronisti. Era Na­politano il bersaglio, ma c’era anche Gianni Letta, l’uomo delle mediazioni con il Colle, il braccio destro delle cui strategie si fidava. Così è chiaro il moti­vo dello scontro con il sottosegretario al­la presidenza del Consiglio, al quale nei giorni scorsi — vedendo approssimarsi la bocciatura del lodo Alfano — si sareb­be rivolto a muso duro: «Tutto mi sarei aspettato, tranne che essere deluso da te».

E allora basta con gli infingimenti, «Napolitano avrebbe dovuto garantire». Siccome non è andata in questo modo, che guerra sia. Ieri pomeriggio nell’ inner circle berlusconiano si ipotizzava la stra­tegia d’attacco con il varo di una leggina: nel caso in cui il Quirinale dovesse riget­tarla, si tornerebbe in Parlamento per un nuovo voto, magari anticipato da una manifestazione di piazza. Erano queste le «armi radioattive» che il Guardasigilli — prodigandosi con il Lodo — sperava non si dovessero mai usare?

Il conflitto era nell’aria, ma c’è una no­vità rispetto al passato, perché stavolta il Cavaliere intende sfruttare la forza del consenso per scagliarla contro il Palazzo delle istituzioni, che è fragile dopo la sen­tenza di ieri. Come se non bastasse, l’op­posizione è debolissima e divisa, e il Pd — in questa battaglia — rischia l’Opa di Di Pietro. Resta da capire se e fino a che punto Bossi e Fini — pur di evitare le ele­zioni — asseconderanno il premier. Per­ché stavolta non si tratterà di mediare sulle candidature alle Regionali o sul pro­gramma di governo. Stavolta l’alleanza avrà un prezzo altissimo. Alla vigilia del­la battaglia decisiva Berlusconi ha inizia­to la conta tra chi starà con lui e chi starà contro di lui. Perché lui rischia tutto.

Francesco Verderami

08 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi e il giorno dei sospetti
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2009, 12:02:35 pm
E ai suoi chiede di abolire la legge sulla par condicio prima delle Regionali

Berlusconi e il giorno dei sospetti: se chiedo le urne mi danno un Dini-bis

Il retroscena: primi dubbi sull'attacco frontale a Napolitano. «Ma Fini ha esagerato»



ROMA — Silvio Berlusconi si sente davvero un Cavaliere dimezzato, perché malgrado go­da di un forte consenso popolare, «se oggi chiedessi le elezioni, invece delle urne avrei in cambio un Dini-bis». E se chiede — come ha fatto ieri — di modificare una legge, «voglio l’abolizione della par condicio prima delle Re­gionali », è costretto a constatare che «in Parla­mento non ci sono più i tempi per modificare la legge in tempo», come gli ha spiegato il vice­capogruppo alla Camera, Italo Bocchino.

Il sen­so d’impotenza che lo tormenta è pari alla con­sapevolezza di aver sbagliato nell’attaccare frontalmente Giorgio Napolitano. Certo fatica a riconoscerlo, e lo ha irritato il modo in cui Fini l’ha bacchettato con una nota, invitando­lo «al suo preciso dovere costituzionale»: «Gianfranco ha esagerato». Però sotto sotto forse conviene con il presidente della Camera, secondo il quale «Silvio non ha tutti i torti a lamentarsi» per la sentenza della Consulta sul lodo Alfano, «ma la reazione è stata eccessiva, perché tirando in ballo il capo dello Stato si è messo dalla parte del torto». Il fatto è che il Cavaliere si sente stretto in una morsa, e c’è tutto il suo disappunto nella frase pronunciata davanti all’ufficio politico del Pdl: «Un premier eletto dal popolo va ri­spettato ».

È come volesse spezzare le catene senza riuscirci. Osserva le mosse degli alleati con sospetto. Non accetta di subire il gioco di chi assiste al suo indebolimento in attesa di spartirsi il patrimonio politico che ha costrui­to. Mai convegno è stato metafora del tempo, come quello che l’Aspen ha organizzato ieri, con casuale coincidenza: «Costruire il dopo e rinnovare la leadership del Paese» era il titolo dell’incontro a porte chiuse, al quale ha parte­cipato anche Gianni Letta, che — racconta l’agenzia Dire — se n’è andato prima delle con­clusioni. «Vado via», ha detto a Giulio Tremon­ti e a Massimo D’Alema: «Devo andare al lavo­ro, altrimenti rischiamo che il dopo arrivi pri­ma » .

È questo movimentismo che spinge Berlu­sconi alla reazione e che ieri mattina l’ha indot­to ad attaccare nuovamente Napolitano dai mi­crofoni del Gr1. Lo scontro istituzionale è solo sopito, non si è concluso, lo intuisce Fini quan­do nei suoi colloqui riservati continua a prono­sticare il prosieguo naturale della legislatura, ma non esclude del tutto soluzioni traumati­che: «Perché a forza di tirar la corda, c’è il ri­schio poi che la corda si spezzi». L’incontro sul Colle delle tre più alte cariche istituzionali testimonia il clima, se è vero che il presidente del Senato — a fronte dell’irrita­zione del capo dello Stato per «le offese ricevu­te » da Berlusconi — ha prima chiesto che al premier venisse riconosciuta un’attenuante «per il suo stato d’animo», poi ha fatto a bran­delli la Consulta per la sentenza sul lodo Alfa­no, per quel richiamo all’articolo 138 della Car­ta, «ché se c’era bisogno di una legge costitu­zionale, avrebbe dovuto eccepirlo già nel 2004». La nota che viene diramata al termine dell’appuntamento, è frutto di un lungo brac­cio di ferro, ed evidenzia punti di vista profon­damente diversi. C’è in un passaggio — chie­sto da Renato Schifani — il riferimento alla «volontà del corpo elettorale»: segna una svol­ta, perché riconosce un mutamento nella Co­stituzione materiale, e non c’è dubbio che si tratti di un punto a favore di Berlusconi. È una scossa di assestamento dopo il terre­moto di mercoledì sera, che ha tenuto l’inquili­no di Montecitorio al telefono fino a notte fon­da, con un Napolitano furibondo e intenziona­to a convocare il vertice con i presidenti delle Camere per il giorno seguente, così da farsi scudo dinnanzi agli attacchi. Da come si è con­cluso l’incontro si capisce che lo sciame sismi­co proseguirà. Perché a Berlusconi non basta, non può bastare, un riconoscimento su un co­municato. Però fatica a dispiegare la forza poli­tica che ha ricevuto dagli elettori e che — a suo dire — s’impantana nelle trattative tra alle­ati e nei «giochi di Palazzo».

Ecco perché spin­ge il coordinatore del Pdl Sandro Bondi a repli­care con durezza alla nota di Fini della mattina­ta: «Il presidente della Camera — sostiene il ministro — appare incapace di comprendere la sostanza dei problemi storici e politici che stiamo vivendo da oltre un decennio». Tradu­zione: Berlusconi dal ’94 è vittima degli attac­chi portati da apparati dello Stato e da pezzi di magistratura militante. Se è vero che per le elezioni oggi non c’è spa­zio, allora per rompere l’assedio e verificare «la lealtà» di Fini, Berlusconi punta a usare la riforma della giustizia che ha tenuto ferma per un anno e mezzo, in nome del «compromes­so » che era stato raggiunto con il Colle. A suo tempo il Cavaliere aveva dovuto frenare il Guardasigilli e smentire se stesso, quando — nei giorni dell’intesa con Umberto Bossi sul fe­deralismo fiscale — aveva detto che «le due riforme marceranno di pari passo». «È ora di muoversi. Vedremo chi ci sta e chi non ci sta». Se così fosse, sarebbe inevitabile una nuova scossa con la magistratura e probabilmente an­che con il Quirinale. Perché magari Berlusconi non attaccherà più Napolitano con i toni del­l’altro ieri, ma vorrà far pesare la forza del con­senso. Difficile dire se ci riuscirà, se gli alleati glielo consentiranno. Una cosa è certa: anche questa legislatura passerà senza riforme condi­vise.

Francesco Verderami

09 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il Cavaliere con Casini.
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2009, 04:23:32 pm
Settegiorni

Il Cavaliere con Casini.

E nel Pdl il 56% dice sì al matrimonio d’interessi

Il leader udc al premier: parliamone dopo il congresso pd


Lo fa per necessità, non per scelta, perché già a suo tempo Berlusconi aveva scelto di rompere con Casini, e dunque se potesse si risparmierebbe l’intesa con i centristi. «Ma per le Regionali l’accordo con l’Udc ci serve», dice il Cavaliere. Ed è per questo che il premier corteg­gia l’ex alleato, gli telefona, e con lui ad­dirittura si sfoga contro quelli che gli stanno attorno in attesa di succedergli, per gli oltraggi di cui si sente vittima da mesi con una «campagna d’odio» che riempie anche le tv di Stato: «Ma l’hai visto Annozero?». Sembra non abbiano mai smesso di stare insieme, se è vero che Casini lo conforta e gli consiglia di calmarsi, «tanto Santoro non sposta vo­ti, Silvio. Come il Tg4 ... ». Poi però, quando si passa a parlar di affari, quando cioè il premier prova a sondare il terreno per un patto elettora­le in vista delle Regionali, il capo del­l’Udc ripete quello che i dirigenti del Pdl si sono sentiti dire dai loro parigrado centristi: «Nessuna alleanza su base na­zionale. Ma localmente si può trovare un accordo. Comunque ne parleremo dopo il congresso del Pd». Entrambi chiudono la conversazione con la certez­za che sia «andata bene».

Così spiega Ca­sini ai suoi, confidando sull’intesa «a macchia di leopardo», così ripete Berlu­sconi all’ufficio politico del Pdl, annun­ciando che «in alcune zone si può anda­re insieme». È un matrimonio d’interessi, sta scrit­to nei sondaggi che entrambi conosco­no, e che garantiscono perciò una di­scussione sgombra da finzioni. Per vin­cere nelle urne in primavera, il Cavalie­re deve conquistare almeno tre regioni del Centro-Sud: Lazio, Campania e Pu­glia, oltre ovviamente al Lombardo-Ve­neto. Insieme alla Sicilia potrebbe infat­ti dire che il centrodestra governa «la stragrande maggioranza degli elettori italiani». È lì, nel Mezzogiorno, che il premier gioca la sua sfida. Ed è lì che l’Udc è determinante. Basta leggere i dati demoscopici, che come segni zodiacali predicono una buona sorte all’alleanza, se si realizzas­se. Intanto il 56% dell’elettorato berlu­sconiano vede con favore un accordo con l’Udc, e gran parte della percentuale si forma al Sud.

Eppoi è soprattutto gra­zie al Sud che i centristi oggi arrivano nei loro sondaggi al 6,8%, un tesoretto che il Cavaliere valuta addirittura oltre il 7%, e che sarebbe determinante per farlo gridare alla vittoria. Ma non è tutto così semplice e per questo non c’è nulla di scontato. Casini costa, politicamente parlando, e il suo prezzo lievita di settimana in settimana, se è vero che nei report riservati ottiene un giudizio positivo dal 50% dell’opinio­ne pubblica, ed è secondo solo a Berlu­sconi, che sta al 52,8%. Questo consen­so — sostiene nelle riunioni di partito — è frutto della mossa di un anno e mezzo fa, «quando scegliendo di andar da soli abbiamo fatto un investimento politico, per essere determinanti nel gio­co del dopo-Berlusconi. Se oggi cedessi­mo alle sue lusinghe, accettando un ac­cordo nazionale con il Pdl, dopo avergli regalato la vittoria alle Regionali ci trat­terebbe come camerieri». Casini è abile e sfuggente, non aspira alla candidatura di un governatore cen­trista appoggiato da destra o da sini­stra, e non solo perché non vuole che qualcuno gli faccia ombra nel partito, ma perché intende tenersi le mani libe­re. Ieri a Torino ha detto che non starà mai «nè con la Lega né con la Bresso», presidente uscente del Pd. Poi a Roma si è smarcato da quanti premevano per una manifestazione contro Berlusconi: «Se ne dovessi fare una, la farei contro Di Pietro». Bacchetta il Cavaliere per i suoi attacchi a Napolitano e «da ami­co », con le mani giunte come ha fatto l’altra sera a Porta a Porta , lo esorta a cambiar registro: «Perché vedi Silvio... Posso darti del tu, vero?».

E dire che appena due settimane pri­ma, nello stesso salotto, si erano manda­ti a farsi benedire: «Auguri», aveva detto liquidatorio il premier, chiudendo la tele­fonata. Invece ne ha fatta un’altra, riser­vata. «Casini mi ha chiesto di aspettare che si tenga il congresso del Pd», ha rife­rito ai dirigenti del Pdl: «Penso che un’in­tesa, per quanto limitata, debba farsi». La pensano così anche i capigruppo par­lamentari Gasparri e Cicchitto, che da un anno e mezzo fa il «pontiere» con l’Udc e ritiene «utile» la ripresa dei rapporti, «da­to che è pure cambiato lo scenario, e si preparano tempi duri in Parlamento». Concordano i vice capogruppo Qua­gliariello e Bocchino, il primo in nome della «casa comune europea», il secon­do per realismo politico: «Se le Regiona­li si profilano come un referendum su di te, Silvio, è opportuno allargare il più possibile l’alleanza. Tenendo però pre­sente che Casini fino al 2012 sceglierà di non scegliere, in attesa di decidere quel che gli fa più comodo». E Fitto, che conosce i democristiani per averli fre­quentati dall’infanzia, proprio su que­sto punto mette in guardia il Cavaliere, gli chiede di chiedere «chiarezza» ai cen­tristi, «non possiamo dar l’immagine che il Pdl dipenda dalle scelte altrui e si faccia dettare i tempi». Chissà il maldipancia del premier a sentire queste parole, perché non c’è dubbio che — se potesse — dell’Udc fa­rebbe a meno, e che condivida in cuor suo la tesi del ministro Ronchi, contra­rio all’accordo per «fedeltà al bipolari­smo », per «coerenza», e per non dare al­la Lega «una campagna elettorale già fat­ta ». «Mi rendo conto delle perplessità di alcuni di voi», ha concluso l’altra sera Berlusconi: «Ma a noi l’accordo con l’Udc serve». E serve anche a Casini.

Francesco Verderami

10 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi-Tremonti e quelle tensioni sui leader futuri
Inserito da: Admin - Ottobre 14, 2009, 10:28:19 pm
IL GOVERNO

Berlusconi-Tremonti e quelle tensioni sui leader futuri

Il caso dopo un invito al convegno Aspen


ROMA - Hanno litigato an­che ieri, «abbiamo litigato» ha confidato Berlusconi dopo il colloquio con Tremonti. E dal modo spazientito in cui il pre­mier ha raccontato la faccenda s’intuisce che la conversazione dev’esser stata accesa, e che an­che ieri il titolare dell’Econo­mia deve aver minacciato le di­missioni: «Giulio minaccia di dimettersi ogni giorno». Ragio­ni politiche e personali s’intrec­ciano nell’ultimo episodio di una saga che sta creando ten­sioni nel governo e nella mag­gioranza, e che rischia di tra­sformarsi in qualsiasi momen­to in scontro aperto. Basta po­co. Basta, per esempio, che non venga disinnescata la mi­na della Banca del Sud, proget­to tremontiano già attaccato in Consiglio dei ministri dalla Pre­stigiacomo e da Fitto, senza che il premier intervenisse. Ma se il solco tra il Cavaliere e Tremonti si va allargando non è tanto per contrasti su un singolo provvedimento o sulla linea di politica economica. C’è qualcosa di più profondo. Il fatto è che Berlusconi non in­tende assistere passivamente alle mosse di quanti vorrebbe­ro raccoglierne l’eredità. In­somma è una questione che non riguarda il presente, ma il futuro.

«Il dopo», per usare il titolo del recente convegno or­ganizzato dall’Aspen, di cui il Professore è presidente. Se è vero che la sentenza della Con­sulta sul Lodo Alfano ha ali­mentato i sospetti del premier, in quel convegno, nella sua let­tera di presentazione, laddove c’era scritto che per «il dopo» va creata «una leadership basa­ta su un consenso non solo im­mediato e mediatico», il Cava­liere ha visto incarnarsi i fanta­smi che lo tormentano. Ed è da allora che non si dà pace. «Leggete, leggete», ha detto Berlusconi a Frattini e Maroni, come cercasse solida­rietà: «Leggete cosa mi tocca sopportare. Come posso accet­tare che si lavori contro di me?». Tremonti non c’era in quel momento a palazzo Chigi, ma è difficile immaginare che non sia venuto a conoscenza dello stato d’animo del Cavalie­re. E comunque ieri ci ha pen­sato il Giornale a informarlo, pubblicando in prima pagina «la lettera della discordia tra Silvio e Giulio». Con tanto di ti­tolo all’interno: «Carta canta». Il colloquio tra il premier e il suo ministro è stato aspro: a fronte di un Berlusconi che so­steneva di non essere stato in­formato anzitempo dell’artico­lo, Tremonti opponeva la tesi del «non potevi non sapere». Sono molte le ragioni che li dividono, sono tanti gli strap­pi che si susseguono, e sono al­cuni dettagli che rendono ma­nifesta la crisi del rapporto. Il Cavaliere combatte contro «il dopo».

E siccome sono già tan­ti i fronti aperti, vuole evitare che se ne aprano di nuovi, che si ritrovi infine circondato per effetto di manovre altrui. Quel­la frase con cui l’altra sera si è rivolto alla Marcegaglia, «mi piacerebbe averti come vice premier», è interpretata nel Pdl come un segnale contro Tremonti e di apertura alla li­nea confindustriale che chiede maggiori aiuti alle imprese. Eppoi certi incontri a due di Berlusconi con autorevolissi­mi banchieri, le relazioni non conflittuali con il governatore di Bankitalia, sono la prova che il premier su questioni strategiche non intende delega­re. C’è poi la politica, l’asse con la Lega che fa muro a difesa di Tremonti, i sondaggi che dan­no il ministro dell’Economia in testa negli indici di gradi­mento insieme a Brunetta e Maroni: di tutte queste implica­zioni il Cavaliere tiene conto, in attesa di trovare una strate­gia che lo tiri fuori dalle sec­che. Ma dalla scorsa settimana ha tirato una riga, per verifica­re chi sta con lui e chi contro. Sono giorni feroci nell’inner circle berlusconiano dopo la sentenza della Consulta. Gian­ni Letta era pronto a dimetter­si, «sono pronto a fare un pas­so indietro», ha commentato il sottosegretario quando ha sen­tito venir meno la fiducia del premier. Eppure, nonostante l’ira, Berlusconi dice di lui: «Gianni è l’unico insostituibi­le ». L’unico.

Francesco Verderami

14 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il nemico in casa a sindrome che dilania il Pd
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2009, 04:45:45 pm
Settegiorni

Il nemico in casa a sindrome che dilania il Pd

Ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice che «il più anti berlusconiano sarà chi manderà a casa Silvio Berlusconi»


Ma se nel Pd non cessa la logica del nemico in casa, l’idea cioè che l’avversario da battere è il compagno di partito, il rischio è «diventare un’involontaria quinta co­lonna del Cavaliere». Un timore che non appartiene solo a Follini. Perché finora la sfida per la segreteria, invece di esaltare la competizione politica e culturale «ha fatto emergere — sono parole del filosofo De Giovanni — uno scontro per bande, una sorta di guerra civile interna. Spe­cie al Sud si avverte una perdita di etica politica: l’avversa­rio è dentro, e viene combattuto con tutti, ma proprio tut­ti i mezzi. Non vedo luce, solo una lotta intestina del vec­chio ceto politico». Così, mentre il premier si appresta a presentare la squadra dei candidati alle Regionali, il Pd resta bloccato fino al 25 ottobre dalla sfida per la segrete­ria, senza aver definito ancora le alleanze.

E le primarie, invece di offrire l’immagine di un partito capace di presentare tesi innovative, hanno mostrato — secondo il sociologo Ricolfi — «timidezza e assenza di progettualità dei candidati». L’opinione è frutto di uno studio che sarà pubblicato a breve: «Dal confronto si nota che non hanno la minima idea di cosa farebbero se fosse­ro al governo. Nei mesi scorsi, giustamente, i Democrati­ci avevano lanciato il tema della riforma degli ammortiz­zatori sociali, ma hanno pensato bene di dividersi». Per il resto il Pd si mostra contraddittorio, «perché — continua Ricolfi — se è giusto criticare lo scudo fiscale, poi non si può tifare per la sanatoria delle badanti. Non esistono sa­natorie buone e cattive». Ecco il motivo per cui definisce «patologica» la condizione di un partito che — come ha scritto Battista sul Corriere — non riesce a essere «polifo­nico », e si scaglia contro la Binetti per le sue posizioni sui temi etici. Sarà perché i dirigenti sono disabituati al con­fronto o perché non ci sono abituati? «Può darsi — com­menta De Giovanni — che qualcosa del vecchio centrali­smo democratico sia rimasto nel Pd. Quella però era una co­sa seria, sebbene fui tra i primi a criticarlo nel Pci».

Insieme alla voglia di epurazione, sono i segni di disaf­fezione al progetto l’altro fatto grave. Chiamparino dice di vivere da «estraneo», Rutelli scrive un libro sul «parti­to mai nato», e Bettini in un saggio sull’«Anno zero» del Pd descrive il passato per azzannare il presente: «Una vol­ta, dopo una sconfitta elettorale, si salvavano i partiti e si cambiava il gruppo dirigente. Oggi per salvare la classe dirigente si cambiano i partiti». L’assenza di tensione ai vertici si riflette anche nella base. Pagnoncelli lo racconta attraverso i suoi sondaggi: «La nascita del Pd — spiega il capo di Ipsos — aveva alimentato una forte aspettativa. Ma dopo la sconfitta elettorale sono riapparsi i vecchi ma­li. Non so se i dirigenti siano consci della distanza che li separa dal loro elettorato, che tuttavia si mostra per ora comprensivo. Attende l’esito delle primarie, ma per il do­po chiede scelte coraggiose: non solo una forte opposizio­ne al governo ma anche un freno alle minoranze interne. Temi etici a parte, vuole che il partito abbia una sola voce sulla politica economica e sociale, sulla legge elettorale, sull’immigrazione».

Sarà così, o la logica del «nemico in casa» continuerà a dilaniare il Pd, chiunque sarà il nuovo segretario? Perché le Regionali sono dietro l’angolo, e una sconfitta va mes­sa nel conto. «In quel caso — sospira Macaluso — penso e spero che non si riapra la questione della leadership. Sarebbe la fine». Polito concorda con Macaluso, ma il di­rettore del Riformista teme il «cupio dissolvi», perché «la conflittualità interna e il sistema correntizio sopravvi­vranno al 25 ottobre. E se il Pd perderà le elezioni si riac­cenderà lo scontro». Serve un patto tra i Democratici, per non venire ricordati come «quinta colonna» del Cavalie­re.

Francesco Verderami

17 ottobre 2009
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da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Fini, gelo su Tremonti e il posto fisso
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2009, 10:21:55 am
Centrodestra / gli scenari

Fini, gelo su Tremonti e il posto fisso

«Il premier? Apprezzo il suo impegno»

Il nodo Regionali: Lega, la doppia candidatura in Veneto e Piemonte crea problemi. «Galan? Caso delicatissimo»


ROMA - Solo alla politica è consentito trovare la qua­dratura del cerchio e Gian­franco Fini vede Silvio Berlu­sconi impegnato nel tentati­vo di farlo quadrare, «cosa non facile» e tuttavia «neces­saria ». Non a caso il presiden­te della Camera apprezza il modo in cui il premier «sta cercando di farsi carico delle richieste di tutti, fortemente intenzionato com’è a tenere insieme l’alleanza». Non è il tempo dei distinguo e dello scontro, semmai quello della collaborazione. E da ciò che il «cofondatore» del Pdl dice nelle sue conversazioni riser­vate, si intuisce che il passag­gio è complicato. Perché sono molti i fronti aperti, a partire dalle tensioni che si concentrano sulla poli­tica economica e sul suo mini­stro. A Fini non è piaciuta la sortita di Giulio Tremonti sul «posto fisso», «forse non si è reso conto degli effetti che avrebbe determinato, e poi ha voluto lo stesso tenere il punto, ridimensionandone comunque la portata». Ma non è quello il problema, quanto le divergenze che no­ta nel governo e nella maggio­ranza. L’ex leader di An rico­nosce che «la linea di conteni­mento della spesa è dettata dal fatto che l’Italia rischia il patatrac. Perciò il ministro non prende per ora in consi­derazione costi aggiuntivi».

Per quanto possa apparire paradossale, la strategia deci­sa da Tremonti incide sul la­voro istituzionale di Fini. L’in­quilino di Montecitorio se n’è reso conto durante un in­contro con i presidenti delle commissioni parlamentari della Camera: «Se il Parlamen­to non ha argomenti da discu­tere, deriva anche dal fatto che i lavori in commissione spesso vengono bloccati dal Bilancio. Basta infatti che un provvedimento preveda una sia pur minima copertura eco­nomica e l’ultima parola spet­ta al governo. E siccome sen­za copertura non va avan­ti... ». Dal suo scranno sente l’eco che arriva dal Tesoro ­dove chiedono di «pazienta­re » in attesa di sapere quali ef­fetti produrrà lo scudo fiscale sul gettito - e al contempo percepisce l’impazienza di Berlusconi, «che sottolinea sempre come la sua sia la poli­tica del fare, e però non rie­sce a fronteggiare tutte le ri­chieste che vengono dai setto­ri produttivi del Paese». L’economista Mario Baldas­sarre gli ha fatto pervenire uno studio sulla «politica inerziale» - così viene defini­ta - di Tremonti, che produr­rebbe una ripresa «troppo lenta» per l’Italia, se è vero che servirebbero sette anni per recuperare la ricchezza perduta con la crisi, che i con­sumi tornerebbero in linea con il 2007 solo nel 2012, che il rapporto debito-pil rientre­rebbe sotto il 3% nel 2015, che intanto la pressione fisca­le resterebbe elevata... «Sarà, ma qual è la ricetta alternati­va?», ha sospirato Fini chiu­dendo il dossier. Gli è chiaro che l’economia resta il tornan­te decisivo, ma rispetto agli anni in cui sedeva al governo è intenzionato a restare un passo indietro.

Da «cofondatore» del Pdl è invece impegnato a trovare una soluzione sulle Regiona­li. Osserva le mosse di Pier Ferdinando Casini, «che da politico avveduto fino al 2012 resterà alla finestra», e scommette che l’Udc «in alcu­ne aree» farà intese con il cen­trodestra. Per il resto, il patto con il Cavaliere e Umberto Bossi regge, solo dopo un in­contro a tre verrà infatti sciol­to il nodo delle candidature. Le scelte più «impegnative» riguardano il Nord. Perché Fi­ni riconosce che nel Setten­trione il Carroccio «ha un for­te consenso popolare», e sa bene che «la Lega è indispen­sabile alla tenuta del gover­no »: «Ma la doppia candidatu­ra in Veneto e Piemonte di esponenti leghisti crea pro­blemi oggettivi». Che poi è quanto aveva già detto a Bos­si due settimane fa: «Umber­to, scegli». A parte il fatto che per ora il Senatùr ha scelto di non sce­gliere, è da vedere cosa farà Berlusconi, se e in che modo cioè il capo del Carroccio riu­scirà eventualmente a strap­pare le due candidature, ma­gari allettando il Cavaliere con una contropartita politi­ca. Nel Pdl c’è comunque da risolvere il «caso Galan». E poco importa stabilire se ieri Fini ha davvero incontrato il governatore veneto o se ha avuto solo un colloquio tele­fonico. Il punto è che i vertici del partito dovranno dare ri­sposte ai quesiti che Galan ha ripetuto al presidente della Camera: «Ho svolto male il mio compito da presidente della Regione? Se non è così, quali sono i motivi per cui do­vrei farmi da parte? E perché devo lasciare io e non Formi­goni?».

Il «cofondatore» parla di un caso «delicatissimo», an­che se non crede che Galan la­scerebbe il partito qualora non fosse più candidato, «penso di no, almeno me lo auguro». Così come si augura che il «caso Campania» ven­ga risolto «con il buonsen­so ». Come per il Lazio, Fini è convinto che «si troverà una soluzione all’interno del parti­to. E sarà indolore se si ragio­nerà con la logica di selezio­nare il nome migliore, e non in base alla provenienza». Non è indifferente dinnanzi alla polemica su Nicola Cosen­tino, sulle ombre giudiziarie che si addensano sul sottose­gretario e che rischiano di mi­narne la candidatura in Cam­pania. «Cosentino è il segreta­rio regionale del Pdl, ed è chiaro che una decisione non può essere presa contro di lui», ha fatto sapere il presi­dente della Camera: «Ma lui deve capire che c’è un proble­ma di opportunità». Come di­re che sarebbe preferibile se Cosentino facesse un passo indietro, «anche se è chiaro che - visto il suo ruolo - an­drà coinvolto nella scelta». Ancora una volta politica e giustizia si incrociano. E so­no giorni feroci di polemiche e veleni. Raccontano che Fini abbia avuto un moto di fasti­dio leggendo sui giornali del­la presunta trattativa tra lo Stato e la mafia, e che dopo aver scorso il decalogo conte­nuto nel «papello», avrebbe commentato: «Manca l’undi­cesima richiesta, il Palermo campione d’Italia... Sono ri­chieste folli, ammesso che sia vero il documento. Non vor­rei si trattasse dell’ennesima bufala». E discutendo di giu­stizia con alcuni interlocuto­ri, il ragionamento è precipi­tato sulle riforme. Ha sorriso quando gli hanno fatto nota­re che - come prima cosa ­Berlusconi vorrebbe riforma­re la par condicio: «Ma se in Parlamento non ci sono nem­meno i tempi tecnici per mo­dificarla, di che parliamo?».

«Invece i tempi per una ri­forma della Carta costituzio­nale ci sono», ha rilanciato il presidente della Camera. Per capire le ragioni dei suoi in­terventi pubblici a favore di un’intesa bipartisan sulla ri­scrittura delle regole, basta sbirciare la bozza del libro «Il futuro della libertà» - edito da Rizzoli - che Fini presente­rà in concomitanza con il ven­tesimo anniversario della ca­duta del Muro di Berlino. È lì che Fini scrive come «una ri­forma 'a colpi di maggioran­za' servirebbe solo a sancire la divisione del Paese e a rin­focolare le vecchie pulsioni al­la faziosità, che sono purtrop­po un passo costante del co­stume italiano e che riemerge frequentemente». Se da «cofondatore» del Pdl sta collaborando con Ber­lusconi sulle questioni di par­tito, da presidente della Ca­mera si oppone all’intransi­genza del Cavaliere sulle rifor­me, perché - sottolinea nel li­bro - «il cambiamento delle regole riguarda tutti, non so­lo una parte. Perché la Costi­tuzione segna il perimetro della casa comune degli italia­ni. Perché è necessario risco­prire il patriottismo costitu­zionale come valore che ce­menta la coesione sociale non meno che quella politi­ca ». Quella che servirebbe, se­condo Fini, «è una grande sta­gione costituente». Roba da quadratura del cerchio.

Francesco Verderami

22 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Quel documento anti-Tesoro sulla scrivania del Cavaliere
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2009, 06:21:45 pm
Quel documento anti-Tesoro sulla scrivania del Cavaliere


Il Cavaliere tende sempre a sdrammatizzare nei passaggi delicati. E se arriva a evocare Dino Grandi per allentare le tensioni con il suo ministro dell’Economia, se sorridendo cita il gerarca fascista — autore dell’ordine del giorno che segnò la fine di Mussolini — vuol dire che stavolta non è come le altre volte, che la lite con Giulio Tremonti è cosa seria.

C’è un motivo se ieri Silvio Berlu­sconi ha disertato il faccia a faccia con il titolare di via XX Settembre, se dalla Russia è volato fino a Milano senza atterrare nella Capitale dov’era atteso per il «chiarimento» con Tre­monti. «Avevo detto che sarei torna­to nella serata di venerdì senza passa­re da Roma. E non cambio program­ma », ha fatto sapere a Gianni Letta, cui è toccato inventarsi la storia del­la nevicata che impediva al jet del premier di decollare. In realtà il Cava­liere voleva evitare che l’incontro sancisse la rottura, perché la battuta scherzosa sul Gran Consiglio del fa­scismo non basta a celare l’irritazione: «Sono stanco della situazione».

Non è dato sapere se davvero abbia confidato il proprio stato d’animo direttamente a Gianfranco Fini, è certo che Letta ne ha parlato con il presidente della Camera, riferendogli lo scontento di Berlusconi. Il dettaglio svela la delicatezza del momento e segnala una novità politica rispetto al 2004, quando Tremonti fu dimissionato sotto la spinta dell’allora leader di An, nonostante il Cavaliere opponesse resistenza. D’altronde il malumore di Berlusconi era già emerso, dopo il burrascoso Consiglio dei ministri sulla Banca del Sud. «Qui non ci vengo più», si era sfogato: «D’ora in avanti lascerò che le riunioni le presieda Gianni». Non ne può più di essere solo il «primus inter pares» nel governo, che sulla linea di politica economica «nemmeno io possa dire nulla altrimenti Giulio minaccia di dimettersi », che «quotidianamente » debba dirimere le controversie tra il superministro e gli altri esponenti dell’esecutivo: «È come se non contassi nulla». Invece il premier vuol contare. La sortita sull’Irap segue imessaggi lanciati a Confindustria e l’apertura sulla riforma della previdenza, invocata dal Governatore di Bankitalia. Raccontano non l’abbia presa bene nei giorni scorsi, quando un dirigente leghista gli ha riferito una battuta di Tremonti: «Se Silvio si fa convincere da Draghi sulle pensioni, dovrà poi convincere Draghi a fare il ministro dell’Economia». Nel frattempo «Silvio» è andato avanti. Da due settimane il documento di politica economica che circolava nel Pdl, e che è rimasto senza paternità, stava sulla scrivania di Berlusconi.

E insieme ad altri appunti, frutto di riunioni riservate, sul suo tavolo c’era anche lo studio di Mario Baldassarri, critico verso la «politica inerziale» di Tremonti, sostenitore del taglio dell’Irap e di altre iniziative, «ma senza aggravio di deficit, perché su questo Giulio ha ragione». «Caro Mario, come stai? Ho letto la tua analisi, è interessante. Ci dobbiamo vedere appena torno dalla Russia ». Clic. Chissà se il ministro dell’Economia sia a conoscenza di questo colloquio, di sicuro sabato scorso non ha gradito la presenza di Claudio Scajola al vertice dei coordinatori e dei capigruppo pdl con il Cavaliere: «Che ci fa lì, quello?». Sia chiaro, Berlusconi non vuole fare a meno di Tremonti, gli chiede però maggior duttilità e collegialità, «non può accentrare tutto»: in Consiglio dei ministri non può presentarsi con le copertine dei provvedimenti su cui chiede voto favorevole a scatola chiusa, «nè può sempre dire "o così o lascio"». Invece non c’è riunione senza scontri, anche ieri in pre-consiglio gli sherpa della Presidenza hanno litigato con i colleghi dell’Economia sul provvedimento taglia-enti che cassa altri 400 milioni. Mentre Mariastella Gelmini si è sentita dire di «ripassare» per i fondi sulla riforma dell’Università, dopo che Tremonti aveva fatto un filtro preventivo persino sui risvolti non economici del disegno di legge.

«Eppoi basta con la storiella che nel governo ci sarebbe un partito della spesa opposto al partito del rigore », si è infuriata Stefania Prestigiacomo: «Semmai si dovrebbe far squadra per il partito della ripresa». Anche perché, dopo l’accordo chiuso da Tremonti con le Regioni, alcuni ministri hanno iniziato a domandarsi: «Da dove provengono quei miliardi? Ci sono quindi dei soldi nelle pieghe del bilancio? E perché tocca a lui decidere dove destinarli?». Come non bastasse, commentando l’intesa, Raffaele Fitto ha accusato Tremonti di aver concesso alle Regioni quanto avrebbe potuto concedere già sei mesi fa. È questo il clima alla vigilia del rendez-vous tra «Silvio» e «Giulio», che chiede al premier di riaffermare la bontà della linea economica e il primato del Tesoro sulle scelte. L’unica concessione del Cavaliere è stata per ora una nota di Sandro Bondi, del Pdl nessuno, nessuno si è mosso in sua difesa. Umberto Bossi, sì, ma è il capo della Lega. La situazione è pesante, Maurizio Gasparri prova a sdrammatizzare, perché «alla fine andrà tutto bene. D’altronde l’anagramma di Tremonti è Tormenti... Lo dico per scherzare, eh?». Vero, ma stavolta è Berlusconi che non scherza.

Francesco Verderami

24 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI «Spiegherò personalmente al Parlamento e al Paese»
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2009, 10:14:57 am
IL PIANO

Il Cavaliere e le 30 bozze per riformare i processi «Tutto alla luce del sole»

Sul tavolo anche due tipi di prescrizione.

«Spiegherò personalmente al Parlamento e al Paese»


La legislatura è appena iniziata eppure sembra già il finale di partita. Perchè è chiaro che le sorti della po­litica sono legate al destino giudizia­rio di Berlusconi, e che una sentenza avversa al Cavaliere avrebbe l’effetto di una mozione di sfiducia su una sta­gione che dura ormai da quindici an­ni. Il premier è consapevole di giocar­si la sfida decisiva e pare abbia capito che per affrontarla non è più tempo di sotterfugi legislativi, di emendamenti dalla paternità incerta presentati di soppiatto in Parlamento. «Stavolta av­verrà tutto alla luce del sole», così ha promesso: «Stavolta me ne farò carico personalmente, lo spiegherò al Parla­mento e al Paese». Sono parole che aveva già usato nei giorni in cui stava per essere varato il lodo Alfano, e chissà se adesso terrà fede all’impegno, se si esporrà metten­do il sigillo politico sul disegno di leg­ge a cui gli sherpa del centrodestra stanno lavorando, e che sarà pronto la prossima settimana.

Di certo a Berlu­sconi serve un’intesa che non può li­mitarsi agli alleati, ma deve coinvolge­re il più possibile istituzioni e pezzi di opposizione. Perciò la trattativa si è protratta nel tempo, per questo il Ca­valiere ha voluto discuterne anche (e non solo) con Casini, che ieri — du­rante l’incontro a palazzo Chigi — gli ha consigliato «con affetto e amicizia» di porre fine al clima di tensione con il Colle, di evitare lo scontro con Napo­litano, che «è controproducente per te e ti allontana anche da me».
Più chia­ro di così. In ballo ci sono due tipi di prescri­zione, lo spostamento di competenze a Roma per i processi che coinvolgo­no parlamentari, norme che hanno ef­fetti sui giudizi tributari. Più di trenta le bozze finora elaborate, alcune pren­dono spunto da proposte di legge del centrosinistra, come quella presenta­ta nella XIV legislatura da Calvi, Ayala, Brutti e Maritati, che è stata modifica­ta dai tecnici della maggioranza fino a trasformare la prescrizione in una ve­ra e propria estinzione dei processi. Ghedini e Bongiorno, in nome e per conto di Berlusconi e Fini si telefona­no con cadenza oraria per aggiornare il testo di legge, avvisare il premier, il presidente della Camera, e anche espo­nenti di spicco dell’opposizione.

In ballo non c’è solo il destino del Cavaliere, anche se è lui a sentirsi «nel centro del mirino», oggetto di una ma­novra concentrica che per la prima volta lo colpisce sul versante economi­co oltre che su quello penale. Fatica a trattenersi dinnanzi alle obiezioni giu­ridiche degli alleati: «I processi miei sono anche processi vostri», ha urlato l’ultima volta. Fini glielo riconosce, «riconosco — dice — che Silvio è vitti­ma di un accanimento giudiziario da quando è entrato in politica», e sta col­laborando per disinnescare un conflit­to che avrebbe effetti devastanti sul si­stema. Chiede però che il delicato pas­saggio legislativo segua un corso pre­ciso, eviti contrasti con il capo dello Stato, non confligga con la Costituzio­ne e abbia un impatto il più limitato possibile sui cittadini.

Le tensioni tra i due alleati sull’argo­mento erano state messe nel conto. Non c’entrano stavolta le diversità ca­ratteriali o le presunte strategie politi­che divergenti.

Il «cofondatore» del Pdl non ha «alcun interesse» a destabi­lizzare Berlusconi, come ieri ha scritto il finiano Gennaro Malgieri su Libero, e poco importa se in fondo si detesta­no. Il presidente della Camera piutto­sto è irritato per i metodi fin qui usati dagli uomini del premier, per la «logi­ca emergenziale» — così la definisce — con cui è stata gestita l’intera vicen­da, perchè già ai tempi del Lodo Alfa­no l’inquilino di Montecitorio invitò Berlusconi a muoversi contemporane­amente con una norma costituziona­le, che intanto sarebbe andata avanti. Invece no, «ed ecco i risultati». Fini, e come lui Bossi, si è affidato a tecnici di fiducia per capire tutti i pas­saggi del ddl a cui sono legate le sorti del Cavaliere e della politica. Certo che gli attacchi del Giornale lo hanno messo di cattivo umore, ma non per questo ieri ha affondato il colpo nel di­scorso pronunciato a Pescara, al pre­mio nazionale intitolato a Borsellino, alludendo ad alcune candidature del Pdl «inopportune» per le Regionali e all’intricata faccenda che ruota attor­no alle infiltrazioni malavitose nel co­mune di Fondi. «Dicono sia diventato di sinistra», ha commentato ironico: «Sarà, ma legalità e giustizia sono te­mi di destra a cui non intendo rinun­ciare ».

Berlusconi sa comunque di poter contare sull’alleato e sull’opposizione «repubblicana» di Casini, che infatti ieri ha ricordato come l’Udc si astenne sul lodo Alfano: «Basta però — ha pre­cisato — che tutto avvenga in Parla­mento e alla luce del sole». Guarda ca­so, proprio quello che il Cavaliere ha promesso. Il resto sono schermaglie tattiche, come la minaccia di elezioni anticipate. Il primo a rendersene con­to è il premier, perchè in caso di con­danna le urne non sarebbero la fonte di una rinnovata giovinezza politica.

Francesco Verderami

07 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Vertice tra i due leader del Pdl: colloquio infuocato.
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2009, 10:12:59 am
Tensione per le frasi del «cofondatore» sul Pdl-caserma

Con Fini il premier evoca la slealtà.

Letta: non ci sono altre soluzioni

Vertice tra i due leader del Pdl: colloquio infuocato.

Interviene il sottosegretario alla Presidenza


ROMA - Era un vertice talmente delicato che Gianni Letta ha dovuto addirittura prepararlo. Perché lunedì il braccio destro del Cavaliere si è recato in gran segreto a Montecitorio per parlare con il presidente della Camera, e sempre lui è do­vuto intervenire martedì nel passaggio più infuocato del colloquio tra Berlusconi e Fini, quando il pre­mier — infuriato per il veto sulla prescrizione breve — è arrivato a incolpare l’alleato di «man­canza di lealtà», minacciando sfracelli in lungo e largo. E poco importa che Fini respingesse gli ad­debiti, siccome il premier covava ancora un forte risentimento per l’intervista televisiva del «co­fondatore», per le sue battute sul Pdl ridotto a una «caserma» retta da un «monarca», per non aver pronunciato «nemmeno uno dei risultati po­sitivi raggiunti dal governo»: «Di che caserma parla, Fini, se regolarmente ci riuniamo e discu­tiamo? E sarei io un monarca? O lui, piuttosto, che ai tempi di An decideva senza consultare nes­suno, mettendo tutti dinanzi al fatto compiuto? E l’opera di ricostruzione in Abruzzo? E il successo della magnifica cordata di Alitalia?».

Non è dato sapere se martedì abbia rinfacciato tut­to ciò al presidente della Camera, di sicuro è sta­to Letta a indurre Berlusconi al compromesso, «perché non c’è altra soluzione». Ed è vero che il Cavaliere vede fantasmi dappertutto, sente i cin­goli della procura di Palermo, «una nuova offen­siva giudiziaria contro di me e gli uomini del mio governo», con il capo della Protezione civile che a stento era riuscito a trattenere nei mesi scorsi, e che ora ha annunciato di voler andare in pensione. L’inquilino di Montecitorio ha riconosciuto a Berlusconi di esser «vittima di un accanimento», ma lo ha esortato ad accettare «l’unico accordo possibile», quello sul processo breve, che gli evi­terà l’affronto dei processi Mills e Mediaset: «Co­sì puoi andare avanti, governare. È anche nel mio interesse che tu sia forte».

Berlusconi non gli crede, ritiene che Fini stia logorando la sua immagine con quelle sortite che «ci fanno perde­re consensi». Epperò «obtorto collo» — espres­sione del presidente della Camera — alla fine ha accettato il patto che verrà oggi presentato come disegno di legge al Senato. Si vedrà se il premier resterà fedele all’intesa o se darà retta ai «falchi», e durante l’iter parlamentare tenterà la forzatura, provando a introdurre la prescrizione breve con un emendamento. È una mossa che Letta gli sconsiglia, e alla qua­le Fini si opporrebbe: «Non è un problema di di­sponibilità personale, ma di fattibilità». C’è un ostacolo «politico», perché verrebbe messo a re­pentaglio l’equilibrio raggiunto riservatamente anche con il Quirinale sul processo breve, e c’è poi un ostacolo «sociale», l’impatto cioè che una simile norma avrebbe sul sistema.

Fini ha porta­to ad esempio il «processo Parmalat», che «con quella norma salterebbe. Immagini cosa acca­drebbe se migliaia di risparmiatori, che hanno perso tutto, si vedessero cancellato il diritto alla giustizia?». «Mi pare che la Bongiorno esageri con questi effetti dirompenti», ha commentato Berlusconi riferendosi alla presidente della com­missione Giustizia della Camera. «Forse è il tuo Ghedini che non li ha calcolati». Letta, come un pompiere, ha spento ogni foco­laio d’incendio nelle due ore di colloquio, e ha convenuto quando Fini ha proposto a Berlusconi un’altra strategia: «Le leggine non ti mettono al riparo dagli attacchi, Silvio. Serve la politica». E allora se il «processo breve» offrirà intanto uno scudo sui casi Mills e Mediaset, la riforma della giustizia potrebbe portare con sé la reintroduzio­ne dell’immunità parlamentare, su cui Casini è già d’accordo, in attesa che la decisione maturi nel Pd. Berlusconi ha ricomposto la giacca e la sua rab­bia, e come accade sempre in questi frangenti ha offerto una battuta per stemperare la tensione: «Caro Gianfranco, ho visto che anche per il tuo libro ti sei messo con la concorrenza», ha detto alludendo al fatto che Fini non ha scelto la Mon­dadori per pubblicare il «Futuro della libertà». Si rivedranno al vertice per le Regionali con Bossi. Il rinvio era necessario, siccome c’è da attendere le decisioni dell’Europa, capire se D’Alema diver­rà mister Pesc, prima di chiudere con le candida­ture. Almeno su questo Letta non ha dovuto me­diare.

Francesco Verderami

11 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Re: Francesco VERDERAMI Lite e parole forti tra Brunetta e Tremonti
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2009, 11:52:43 am
Palazzo Chigi - Dopo la riunione di governo i chiarimenti

Lite e parole forti tra Brunetta e Tremonti

Pressing della Prestigiacomo sui fondi non dati


ROMA — Non c'era bisogno che parlasse, infatti non ha parlato. Ma l'immagine che Berlusconi ha offerto ieri in Consiglio dei ministri — lo sguardo spento, il volto sofferente, un senso di estraniamento durante tutta la riunione — rendeva l'idea del distacco del premier. Il premier aveva lasciato fuori da Palazzo Chigi i timori di quello che considera il «nuovo complotto» ordito contro di lui dalla magistratura, le tensioni familiari che «mi stanno togliendo il sonno», e l'ira verso Fini con cui si è consumato un altro strappo. Era presente, ma era come se non ci fosse, assorto fino a dare l'impressione di essersi assopito, apriva gli occhi solo quando i ministri riempivano la stanza con urla e parole grosse. Le mani sul viso o tra i capelli, solo in un'occasione ha dato voce al proprio fastidio: «Dài, rinviamo. Se c’è un problema si risolve la prossima volta».

Un problema invece andava risolto subito, perché è vero che il Consiglio aveva approvato in pochi secondi l’atteso decreto sulla riduzione delle tasse per fine anno. Il punto era che nell’esecutivo tutti pensavano si trattasse di sgravi per le imprese, del taglio degli acconti sull’Ires e soprattutto sull’Irap, balzello che Berlusconi un mese fa aveva anticipato di voler abolire. Tutto sembrava pronto, il comunicato del governo di martedì aveva preannunciato la decisione. E alcuni ministri ieri giuravano di aver letto bene il provvedimento presentato alla riunione. Invece il taglio ha riguardato l’Ire, la vecchia Irpef.

Ma allora cos’è stato votato in Consiglio? Non è chiaro se si sia trattato solo di un «misunderstandig», e se questo abbia dato origine a una commedia degli equivoci. È certo che dopo il Consiglio sono passate ore prima della nota ufficiale alla stampa. Ed è altrettanto certo che in quel lasso di tempo si è svolto un incontro riservato tra Berlusconi, Letta e Tremonti. E lì che al decreto sarebbe stata data una «registrata», e si sarebbe deciso di tagliare l’imposta sui redditi «per una ragione di giustizia e di equità sociale», come sostiene il titolare dell’Economia. Il quale ha fatto presente al premier le pressioni dei sindacati, «perché Cisl e Uil sono pronte allo sciopero generale se concedessimo sconti fiscali solo alle imprese. Invece con l’Ire ne beneficiano tutti», anche i lavoratori dipendenti che a Natale avranno più soldi in busta paga. Per l’Irap se ne riparlerà chissà quando.

Resta il resto fatto che tutti gli altri ministri avevano inteso diversamente. Chissà, forse hanno frainteso. Ma non è una novità che in Consiglio si parlino lingue diverse, e che per capirsi si ricorra a gesti e parolacce. Come è successo ieri tra Tremonti e Brunetta, che presentava un altro pezzo della riforma sulla Pubblica amministrazione. Il «professor Giulio» non ha esitato a bocciare il «professor Renato»: «Non si fa la semplificazione con una nuova regolamentazione », ha iniziato a ripetere dando sulla voce del collega. Si è scatenato il parapiglia, e per una volta Letta è intervenuto a sostegno di Tremonti. Alla fine, dopo ripetuti colpi sotto la cintura, Brunetta si è alzato e ha teso la mano al ministro dell’Economia, che non ha contraccambiato, anzi: «Non ti avvicinare, altrimenti ti prendo a calci in...».

Con la Prestigiacomo solo i toni sono stati diversi. Perché quando la titolare dell’Ambiente - dopo aver illustrato il progetto da 1.250 milioni per gli interventi a difesa del suolo - ha chiesto cinque milioni per controllare il piano di interventi con tre nuove strutture ministeriali, Tremonti si è messo di traverso: «Cara Stefania, questo modo siciliano che hai di ragionare... ». Apriti cielo, «Stefania» non ci ha visto più: «A me certe battute non le fai». Ed è scoppiata un’altra lite, che nemmeno l’intervento di Letta è riuscito a comporre. Così il decreto, che la Prestigiacomo voleva approvare prima di Natale è stato rinviato. E lei, furibonda ha lasciato il salone del Consiglio: «Me ne vado, sennò gli alzo le mani». Nemmeno Berlusconi ha salutato.

Chissà se il Cavaliere se n’è reso conto. Perché lui c’era,ma era come se non ci fosse.


Francesco Verderami

13 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI «Contro di me un sistema ostile»
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2009, 10:54:22 am
 Berlusconi passa le notti con avvocati ed esperti di finanza

«Contro di me un sistema ostile» Crescono i sospetti del Cavaliere

Rapporti inesistenti con il Colle e il gelo con Fini


Chi è oggi Silvio Berlusconi: il dodicesimo uomo più potente della terra o il premier che in Italia si sente «ingabbiato e accerchiato da un sistema che mi è stato sempre ostile»? È una domanda che si è posto anche il Cava­liere, dopo aver scorso la classifica stilata dalla rivista Forbes sui personaggi più influenti del mondo. E la difficoltà di darsi una risposta ha amplificato in lui la percezione dello sdoppia­mento. Il pessimismo con cui riempie in questi giorni i suoi ragionamenti, tracima nell’umore della cerchia più stretta, riempie di stupore mi­sto a preoccupazione quei ministri che gli sono stati accanto in altre stagioni, altrettanto diffici­li, ammirandone lo spirito combattivo, la capa­cità di parlare al Paese e di farsi scudo con il consenso popolare. Ora che lo scudo giudiziario gli serve per non venire inghiottito dalle sentenze, misura con una dose sempre maggiore di diffidenza i suggerimenti e le promesse. Perché Giorgio Na­politano gli aveva fatto a suo dire «una promes­sa » ai tempi del lodo Alfano, e lo stesso - sostie­ne - aveva fatto Gianfranco Fini la scorsa setti­mana, invitandolo ad accettare la mediazione sulla legge per i processi brevi.

Con il Quirinale i rapporti sono ormai inesistenti, Gianni Letta pare addirittura aver esaurito la funzione di me­diatore, e non c’è dubbio che Berlusconi ormai incontri più spesso Gheddafi del capo dello Sta­to. Con il presidente della Camera è saltata la consuetudine di parlarsi quotidianamente, ri­trovata appena un mese fa.

I rapporti sono con­sumati al punto che l’altro giorno Massimo D’Alema ha chiamato Fini, chiedendogli la cor­tesia di non sponsorizzarlo più in pubblico per non irritare il Cavaliere, che lo sta sostenendo nella corsa all’incarico di ministro degli Esteri europeo. Se il sonno lo sorprende durante il giorno è perché passa le notti insieme ai suoi avvocati ed esperti di finanza, siccome la causa di divor­zio espone l’impero berlusconiano a rischi fino­ra non calcolati. Da quindici anni vive il conflit­to con la giustizia sempre in emergenza, ma sta­volta è un’emergenza diversa che deve fronteg­giare. Questione di mesi. E non c’è dubbio che il disegno di legge approntato dopo un braccio di ferro con Fini gli serviva (e gli serve) per prendere tempo, per guadagnare un altro anno, perché nel centrodestra tutti mettono nel con­to la ghigliottina della Corte Costituzionale se la procura di Milano nel processo Mills impu­gnasse il provvedimento. Lo stesso presidente della Camera teme che il ddl contenga elementi di incostituzionalità. Il problema adesso non è legato alla nuova trattativa che si sta per aprire nella maggioran­za, così da modificare alcune norme del testo appena presentato al Senato. Per certi versi è se­condario anche il contrasto che si è riaperto tra Berlusconi e Fini a causa della Lega, che ha otte­nuto di escludere il reato di clandestinità dai processi brevi, facendo saltare i nervi all’inquili­no di Montecitorio.

Il rischio è che la legge salti prima di veder la luce sulla Gazzetta ufficiale per il veto del Quirinale, la­sciando senza scudo il pre­mier. Ecco il punto. Da due giorni i berlusco­niani danno voce ai sospet­ti di un Cavaliere senza vo­ce, si chiedono maliziosa­mente quale sia stato allora il ruolo del presidente della Camera sul provvedimento nel rapporto con il Colle, e con quali obiettivi. A Mon­tecitorio contemporanea­mente si attende di capire se Berlusconi davvero in­tenda forzare la mano, ma­gari con
l’obiettivo di pro­vocare l’incidente e far pre­cipitare la legislatura. Ma a parte il fatto che la via per le elezioni è impervia, quali costi sarebbe pron­to a pagare il premier per arrivarci? Eppoi il ri­sultato non sarebbe affatto scontato, non a ca­so Fedele Confalonieri - l’amico di «Silvio» da una vita - ogni volta che si affronta
l’argomen­to cita il caso francese di Jacques Chirac, «che andò alle urne certo di vincere e fu costretto poi alla coabitazione con il socialista Lionel Jo­spin».
Tutto vero, ma il tempo stringe e il Cava­liere si sente sempre più solo.

Il modo in cui ieri Pier Ferdinando Casini ha bocciato il ddl sui processi brevi - definito «una porcheria» - e ha proposto in cambio la strada del «lodo» costituzionale, non risolve il problema immediato. Perché in prospettiva l’idea piace ai berlusconiani, più dell’immunità parlamentare, però diverrebbe legge a processi già chiusi per il premier. Ieri il leader dei centri­sti si è sentito al telefono con il Guardasigilli, che aveva dato il proprio nome al «lodo» e do­po la bocciatura della Consulta aveva commen­­tato: «Finiranno per rimpiangerlo». Chissà se anche ad Angelino Alfano, Casini ha spiegato il motivo della sua mossa sul ddl: «È una partita tra Berlusconi e Fini. Se la sbrigassero loro». Un altro indizio che porta Berlusconi a essere pessimista: teme la manovra di accerchiamen­to, e accecato dall’ira si rifiuta di ammettere i propri errori nella partita. Ritiene che tutti vo­gliano riformare la giustizia, «ma dopo». Dopo di lui, il dodicesimo uomo più potente della ter­ra che in Italia si sente «ingabbiato dal siste­ma» .

Francesco Verderami

14 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Elezioni e carta a sorpresa del premier
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2009, 10:41:47 am
Il retroscena

Elezioni e carta a sorpresa del premier

Un emendamento sul processo breve per aprire la crisi


Se persino Gianni Letta arriva a dire che «non si può escludere nulla», allora davvero Berlusconi sta valutando tutte le opzioni, compresa quella del voto anticipato. Obiettivo già difficile da raggiungere e dall’esito tutt’altro che scontato. Ma c’è un motivo se il braccio destro del premier non se la sente di scartare alcuna ipotesi, perché è vero che in passato ha vissuto molti altri momenti drammatici al fianco del Cavaliere, «ma in tanti anni non l’ho mai visto così». L’accerchiamento ha portato Berlu­sconi a isolarsi, tuttavia non c’entra l’umor nero verso Fini, «che ormai si è fatto tutti i programmi televisivi di sini­stra ».

È piuttosto l’assenza di una strate­gia che lo porta a questa scelta mediati­ca, e che rimanda a un solo precedente: la vigilia del predellino. Allora come og­gi stava nell’angolo. Oggi come allora, se resta in silenzio è perché non ha an­cora preso una decisione. L’idea delle urne — suggeritagli da Cossiga e ipotiz­zata da due fedelissimi come Quaglia­riello e Valducci — è nel novero delle possibilità, per quanto remota. A parte l’altolà del presidente della Camera, che ha evocato la scissione del Pdl, sa­rebbe complicato arrivare al voto. Per riuscirci servirebbe una crisi par­lamentare, «un incidente», e non certo sulla Finanziaria ma sulla giustizia. Al momento il nodo che divide la maggio­ranza sul «processo breve» è il reato di immigrazione clandestina. L’intesa ap­pare nell’ordine delle cose. Se però Ber­lusconi decidesse di far precipitare tut­to, la forzatura — secondo i finiani — si verificherebbe con un emendamento su un tema ben più spinoso: la «prescri­zione breve», considerata dal presiden­te della Camera «inaccettabile» e che in­vece ieri Ferrara ha definito sul Foglio un «fondamento del diritto alla dife­sa ». D’altronde è noto che la legge sul «processo breve» lascerebbe ugualmen­te esposto il Cavaliere alle intemperie delle procure.

Il fatto poi che da Fini a Rutelli, passando per Casini, gli giunga l’esortazione ad andare «comunque avanti» anche «in caso di condanna», insospettisce il premier. Perché sareb­be difficile «andare avanti» se a genna­io fosse raggiunto da un avviso di ga­ranzia dalla procura di Palermo, come raccontano insistentemente voci di Pa­lazzo. E guarda caso il «timing» per an­dare alle Politiche il 28 marzo, insieme alle Regionali, scatterebbe proprio tra metà gennaio e gli inizi di febbraio. Il punto è che la decisione di scioglie­re le Camere è «prerogativa del capo dello Stato», co­me a più riprese ha ripetuto l’inqui­lino di Montecito­rio. Un modo per dire che — aperta la crisi di governo — Berlusconi do­vrebbe lasciare il pallino del gioco al Quirinale. Il Ca­valiere correrebbe il rischio? Ed è cer­to che gli alleati lo seguirebbero? La posizione contra­ria del presidente della Camera è no­ta, ma anche Bos­si — il giorno in cui la Consulta bocciò il «lodo Al­fano » — uscì da un colloquio con Fini e disse: «Niente elezioni. Avanti con le riforme». La Lega oggi sarebbe dispo­sta a cambiare posizione? Basterebbero Veneto e Piemonte a compensare la per­dita del federalismo fiscale? È una varia­bile di non poco conto. Allora, sarà pure un bluff quello di Casini, secondo cui «se cade il governo un’altra maggioranza in Parlamento si forma in un minuto». Ed è certo che la prospettiva elettorale atterrisce Pd e Udc, così com’è certo che Fini non si presterà a fare il Dini, perché la sua sto­ria sta dentro l’accusa lanciata contro «i puttani della politica», che consentiva­no al centrosinistra di formare governi diversi da quelli voluti dagli elettori.

Ma le forche caudine della Costituzione potrebbero trasformare l’eventuale pro­getto del premier in una disfatta. Anche ammesso che riuscisse nell’in­tento, è chiaro che al voto si arrivereb­be attraverso un passaggio traumatico, e che Berlusconi non potrebbe ripresen­tarsi agli elettori con la stessa squadra e lo stesso schema di alleanze. Oltre al fat­to che è impossibile valutare quale pe­so avrebbe nelle urne un’ipotetica sen­tenza di condanna per un Cavaliere sen­za «scudo giudiziario», nulla garanti­rebbe il successo al centrodestra. È ve­ro che per ora tutti gli analisti lo prono­sticano, ma ieri proprio la Ghisleri — sondaggista di fiducia di Berlusconi — ha detto che un tale scenario viene valu­tato «a bocce ferme», perché andrà pri­ma capito «cosa faranno Rutelli, l’Udc e la sinistra», ammettendo che «il qua­dro politico potrebbe presentare alcu­ne differenze rispetto al 2008». C’è una grande differenza tra l’imma­gine fissata in un fotogramma e un film di cui non si conosce il finale. Di certo nelle analisi di Euromedia research per il premier sarà stato evidenziato ciò che alcuni ministri sussurrano, e cioè che il centrodestra — con gli stessi voti del 2008 — perderebbe il Senato qualo­ra l’Udc si alleasse al Pd. Come non ba­stasse, lo scontro nella maggioranza sulla giustizia sta producendo danni. I sondaggi che Ipsos ha appena sfornato per i Democratici raccontano che in una settimana il giudizio sull’operato del governo è calato di un punto, al 55,3%. E soprattutto che nelle intenzio­ni di voto per la prima volta si è ridotta la forbice tra il Pdl (sceso al 38,7%) e il Pd (salito oltre quota 31). È un segnale d’allarme per il Cavaliere silenzioso.

Francesco Verderami

17 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il premier: verrebbe voglia di dimettersi
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2009, 04:34:07 pm
IL RETROSCENA

Il premier: verrebbe voglia di dimettersi

Lo sfogo: «Messa quotidianamente alla berlina l’immagine del presidente del Consiglio»



ROMA - «Verrebbe voglia di dimettersi», e ieri mentre lo diceva Berlusconi si svestiva del sorriso con cui aveva appe­na salutato Erdogan per indos­sare una smorfia di disgusto. Era imbarazzato per quei rumo­ri di protesta saliti dalla strada che avevano accompagnato il pranzo a palazzo Chigi con il primo ministro turco, per quel­la voce amplificata dal megafo­no che si era accomodata a tavo­la tra loro, e che lui aveva rico­nosciuto: la voce di Di Pietro. Il «senso di vergogna» che ha confidato di provare era un mi­sto di indignazione per l’ospita­lità violata e per veder «messa quotidianamente alla berlina l’immagine del presidente del Consiglio». In quella scena che il Cavalie­re ha visto rappresentata l’azio­ne di accerchiamento di cui si sente vittima. «Non basta il con­senso popolare», ha commenta­to. È vero che in altre stagioni aveva già sfidato quel sistema ritenuto «ostile». Oggi però è al­le prese con il tornante più diffi­cile della sua carriera politica, imprenditoriale e soprattutto personale. Non ci sono più alle­ati e tanto meno amici, se ha scelto l’isolamento è anche per verificare come agiranno gli av­versari.

Il silenzio del premier è riem­pito dalle parole altrui, e nella maggioranza si assiste a un’esca­lation dello scontro, quasi fosse un’anticipazione di quanto acca­drà «dopo» Berlusconi. Chissà se è anche questo che il premier vuole dimostrare, è certo che da ieri si è superato persino il limi­te del conflitto istituzionale. Per­ché ormai i presidenti delle Ca­mere hanno assunto un ruolo politico: l’ha fatto prima Fini, ora lo fa Schifani, che in aperto ed evidente contrasto con il col­lega di Montecitorio ricorda co­me senza una maggioranza com­patta è necessario tornare al cor­po elettorale. Il nodo era e resta lo scudo giudiziario per il Cavaliere, at­torno a questo nel Pdl si è aper­to un braccio di ferro dalle con­seguenze al momento inimma­ginabili, se il problema non ve­nisse risolto. Ma a forza di gioca­re al rilancio tutti hanno smarri­to il controllo della situazione che ora rischia di diventare in­governabile. Le comunicazioni ai vertici sono interrotte, resta Gianni Letta a far da tramite. E ieri sera il telefono del sot­tosegretario alla presiden­za è squillato di continuo.

Per­ché Berlusconi non poteva non sapere cosa avrebbe detto nel pomeriggio il presidente del Se­nato, un’esternazione che Fini ha interpretato come una sfida. E il titolare della Camera vuole capire cosa intende davvero fa­re il premier: «Se non vuole le elezioni si può aggiustare tutto, altrimenti si sfascia tutto». Ci sarà un motivo se Letta si è affannato a spiegare ai suoi in­terlocutori che «Berlusconi non vuole il voto anticipato», frase però dalla doppia interpre­tazione: non voler andare alle urne potrebbe anche significa­re che il premier ne farebbe a meno, ma che non le esclude. Fosse il braccio destro del Cava­liere a dover decidere, lui le escluderebbe: «Il voto sarebbe un errore. Eppoi c’e il Quirinale che lo impedirebbe». Proprio per questo Fini ritiene quella minaccia un’arma scarica, a me­no che la Lega non si schie­rasse con il premier. Matteo­li, una vita a fare il pompie­re anche dentro An, teme disastri: «La ripresina do­po la crisi economica de­ve indurre tutti al senso di re­sponsabilità. Il voto sarebbe un dramma per il Paese. Così co­me sarebbe drammatico se al premier non fosse consentito di governare. Perciò sulla giusti­zia va trovata una soluzione po­litica ». Manca la voce di Bossi, che ha convocato per venerdì un vertice del partito. Un solo pun­to all’ordine del giorno: «Comu­nicazioni del segretario». Il Car­roccio non mostra le sue carte, e ieri Maroni al Tg1 le ha voluta­mente tenute coperte. «Noi sia­mo impegnati a fare le rifor­me... », ha esordito il ministro dell’Interno, «... ma le riforme che vogliamo, richiedono una maggioranza coesa». Nulla og­gi è più certo dell’incertezza.

Francesco Verderami

18 novembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il Cavaliere e l’assedio «partito dopo il 25 aprile»
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2009, 04:03:24 pm
Ricostruzioni

Il Cavaliere e l’assedio «partito dopo il 25 aprile»

Lo sfogo: ero troppo forte nel Paese e cominciò la macchinazione


C'è un motivo se nel giorno in cui Gaspare Spatuzza lo affilia alla mafia, il premier avvia i preparativi per trascorrere a Onna la notte di Natale. È nell’Abruzzo terremotato che tenterà di riprendersi l’onore, tra le macerie e i segni della ricostruzione, metafora della parabola berlusconiana dal 25 aprile ad oggi. Cos’è rimasto infatti del «partigiano Silvio»? Dov’è finito il Cavaliere che nell’anniversario della Liberazione riceveva in dono il fazzoletto dell’Anpi e nei sondaggi sfiorava il 70% dei consensi?

È in quel periodo che, se­condo il premier, «è partita contro di me la macchinazio­ne »: «Ero troppo forte nel Pae­se », e per la prima volta anche nel Palazzo. Più volte il Cava­liere ha raccontato la sua veri­tà per quanto è accaduto a ca­vallo tra la primavera e l’esta­te scorsa. Non ha mai ammes­so colpe negli scandali sui fe­stini e le donnine, tantomeno nelle vicende giudiziarie che l’hanno di nuovo coinvolto con il caso Mills. Ma non c’è dubbio — come racconta Nan­do Pagnoncelli — che «da quel momento è stato sottopo­sto a una serie di attacchi che nulla hanno a che vedere con l’azione di governo». E scor­rendo i sondaggi come fosse un film, il patron di Ipsos rile­va infatti che «da allora è tut­to sommato stabile l’opinione dei cittadini sull’esecutivo, mentre è calato il gradimento del presidente del Consiglio. Nella memoria collettiva è ri­masto poco del Berlusconi del 25 aprile».

È da vedere se la voce senza volto del mafioso sanguinario avrà dei riflessi sul consenso elettorale, piuttosto sono le ri­cadute politiche, anzitutto quelle internazionali, a tenere in allarme il Cavaliere. Perché ha ragione Francesco Cossiga quando sostiene che «non è importante se Spatuzza ha det­to o meno il vero. Il fatto gra­ve è quel che ha detto, e l’im­patto che provocherà nelle cancellerie di tutto il mondo». Già l’altro ieri, vigilia della de­posizione a Torino del penti­to, l’ Economist chiedeva le di­missioni di Berlusconi. Rac­contano che l’articolo abbia suscitato l’ironia indignata di Fedele Confalonieri, secondo il quale «le analisi di quel gior­nale dall’Italia sono gracili, sebbene la lettura dell’ Econo­mist resti utile per conoscere vocaboli inglesi nuovi».

Ma anche il presidente del Biscione — che difende a spa­da tratta l’amico dalle «accuse folli» di essere il mandante di una strategia stragista — si rende conto del problema. Il primo a rendersene conto è Berlusconi, costretto anche ie­ri a spendere parte del suo tempo e dei suoi averi per di­fendersi. «Il presidente non può rispondere al telefono, è impegnato con gli avvocati». Per ore ha dovuto sopportare il loro bla-bla-bla, «non vedo l’ora che finisca per andare a cena con il mio amico Tarek Ben Ammar». Quanto sia fra­stornato e seccato, lo si intui­sce dalla battuta fatta nei gior­ni scorsi. Quel «me ne andrei a Panama» ricorda tanto la fra­se con cui nel 2004 licenziò gli alleati che chiesero e ottenne­ro la crisi di governo e il Berlu­sconi- bis: «Quasi quasi me ne vado alle Bahamas. E siccome sono una persona educata, vi manderò una cartolina».

A Natale invece sarà a On­na, e nel frattempo continue­rà a inaugurare fiere, tagliare nastri, cercando così di parla­re senza dire nulla a un Paese che comunque è «disorienta­to » per l’ultima accusa rivolta al premier. Il Cavaliere ieri ha valutato anche l’ipotesi di ri­volgersi con un messaggio al­la nazione, ma ha soppesato anche le controindicazioni. Che sono tante: negare collu­sioni con la mafia sarebbe un’ovvietà e avrebbe il valore di una smentita, che in fondo è una notizia data due volte. Il tutto mentre la crisi economi­ca è in atto, e c’è il rischio che l’opinione pubblica lo veda impegnato a risolvere solo i suoi problemi personali. Fu l’immagine di Berlusconi che il Paese percepì tra il 2001 e il 2004, e il Cavaliere non ha di­menticato l’aggressione con il cavalletto a piazza Navona.

Con il ritorno a Onna la not­te di Natale proverà a liberarsi dal fardello che gli pesa, dal probabile «regalo» di un avvi­so di garanzia che certo provo­cherebbe ripercussioni politi­che, anche se si tratterebbe di un atto dovuto. Presentandosi in Abruzzo Berlusconi vorrà rammentare, non solo all’Ita­lia, che quello è il luogo dove portò i Grandi della Terra, e che resta senza dubbio il suo più importante successo da presidente del Consiglio. Tut­tavia è passato molto tempo dal 25 aprile, ed è difficile sa­pere se la ricostruzione delle zone terremotate consentirà al Cavaliere di ricostruire an­che la sua immagine, se mai — come dice Pagnoncelli — «Berlusconi tornerà ad avere quel profilo da statista che si era conquistato anche con il discorso di fiducia alle Came­re, o se resterà invece il leader che divide», l’uomo del muro contro muro, da ieri inseguito da un’accusa «infamante».

Francesco Verderami

05 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il presidente della Camera irrita Berlusconi...
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2010, 02:54:18 pm
Il retroscena

Ma per il premier c'è prima la giustizia

Nuovo fronte con il cofondatore

Il presidente della Camera irrita Berlusconi, la strategia resta opposta.

Bondi: rimuovere macigno della giustizia

   
ROMA - Non devono essersi capiti. E l’ennesima incomprensione rischia di aprire una nuova e pericolosa conflittualità tra Berlusconi e Fini. Perché l’ultima volta che si sono trovati a discuterne, i cofondatori del Pdl hanno convenuto sulla necessità di aprire una «fase costituente» dopo le Regionali, così come ha detto ieri il presidente della Camera e come a più riprese ha annunciato il presidente del Consiglio. Peccato che i due siano divisi sulla strategia da adottare. E il loro ultimo colloquio ha misurato la distanza che li separa. In quell’occasione il presidente della Camera aveva invitato il premier a iniziare la stagione delle riforme dai temi sui quali sarebbe più facile trovare l’intesa con le forze di opposizione: da un clima di confronto - a suo dire - non solo ne trarrebbe beneficio il governo, che avrebbe garantita una navigazione meno perigliosa in Parlamento, ma si aprirebbe anche la strada a un’intesa bipartisan sul nodo più spinoso, la giustizia. Il Cavaliere aveva rigettato la tesi, convinto invece che sulle riforme si debba partire proprio dalla giustizia, e non solo per ristabilire subito i confini costituzionali tra il potere politico e la magistratura, ma anche perché - memore di quanto accaduto in Bicamerale - non si fida delle promesse della sinistra.

Insomma, non devono essersi capiti. O forse ieri Fini ha voluto far capire per tempo a Berlusconi che su questo punto è intenzionato a far valere le proprie ragioni, quando verrà il momento. Ed è vero che da trent’anni la retorica delle riforme riempie i volumi degli atti parlamentari, che ogni legislatura è segnata dai buoni propositi di maggioranza e opposizione, ma - così come in passato - la sola evocazione del tema rischia di compromettere gli equilibri politici. Così è bastato che ieri la terza carica dello Stato auspicasse «subito dopo le Regionali » l’avvio di un confronto sui temi che registrano «larga condivisione», per provocare l’aumento del moto ondoso nel Pdl. Fini ha ripetuto in pubblico quanto aveva detto al premier in privato: «Cominciamo dalla riforma delle Camere, che comporta anche la riduzione del numero dei parlamentari », per passare poi alla revisione dei poteri del presidente del Consiglio. La giustizia in coda. Ecco, proprio l’esatto contrario di quello che vuole fare il Cavaliere. Lo dice senza mezzi termini Bondi, che certo spera dopo le elezioni in un «confronto positivo con il Pd, così come ha sempre desiderato Berlusconi. Ma», appunto, «ma è indispensabile sciogliere subito il nodo della giustizia ». Il fedelissimo del Cavaliere ne fa una questione pregiudiziale, «è fondamentale » avvisa, siccome «il sistema è inchiodato da quasi venti anni su questo problema, a causa di quella parte politicizzata della magistratura che condiziona la politica, provocando uno scontro permanente».

Bondi è il pennino del sismografo berlusconiano, ed è evidente che le parole di Fini abbiano fatto registrare una scossa a palazzo Chigi. È all’inquilino di Montecitorio che il ministro dei Beni culturali infatti si rivolge, quando sottolinea che «se non si togliesse il macigno della giustizia dal sentiero, il rischio sarebbe quello di affidare al vento tutti i buoni propositi, e al contempo di infastidire i cittadini, stanchi di sentir parlare a vuoto di riforme». Bondi espone la linea del premier, irritato per la sortita del presidente della Camera, ma intenzionato a non aprire questo fronte alla vigilia delle urne. Sarà il risultato delle Regionali a dettare di fatto l’agenda di governo e delle riforme, e da unmese i sondaggi segnalano un trend negativo per il Pdl, che nei report riservati di Ipsos è sceso dal 37,8% al 36,4%, a fronte di un’avanzata della Lega ben oltre il 10%, e con il Pd che viene valutato al 29,8%. Perciò Berlusconi preferisce glissare, affidando ad altri il proprio verbo. Non è un caso se dieci giorni fa il Guardasigilli ha annunciato la presentazione della riforma costituzionale della giustizia «al primo Consiglio dei ministri dopo le elezioni». Se il titolare della Farnesina, Frattini, ha rilanciato a ruota il tema del «presidenzialismo » che sembrava accantonato, se ieri un altro «azzurro», Valducci, ne ha fatto cenno replicando a Fini: «Ben vengano le riforme condivise, ma non saremo ostaggio dei veti».

I «cofondatori» del Pdl non devono essersi capiti, o forse ieri il presidente della Camera ha fatto capire quel che il ministro Rotondi rivela candidamente, e cioè che «le agende di Fini e Berlusconi sulle riforme sono inconciliabili. Basti pensare che il primo sulla legge elettorale vorrebbe tornare ai collegi uninominali, mentre il secondo vorrebbe blindare e santificare il modello attuale. La verità è che ognuno canta il proprio spartito, e se si mettessero a farlo in pubblico si rischierebbe di sentire un coro stonato». Non è dato sapere se riusciranno ad accordarsi, è certo che nel Pdl non è il momento di verificarlo, almeno così la pensa La Russa, che si traveste da capo della protezione civile di partito e si adopera per puntellare l’edificio: «Fini è presidente della Camera - minimizza il coordinatore in quota An - e nel suo ruolo istituzionale non poteva che appellarsi alle riforme condivise per far partire il dialogo. Va bene così?». Se va bene a Berlusconi...

Francesco Verderami

23 febbraio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI L’«errore strategico»
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2010, 10:22:58 pm
L’«errore strategico»

Il Pdl: «Un pasticcio che ci costa 3 punti»

Berlusconi addebita il calo nei sondaggi alla dispute interne: «Dovevamo attaccare avversari e giudici»


ROMA - Tre punti persi in una sola settimana. Tanto è costato al Pdl il caos delle liste. Tre punti secchi in meno su scala nazionale, come uno sbrego sul volto di Berlusconi, che ieri si è presentato così ai dirigenti del partito. Perché più dell’inchiesta sugli appalti del G8, più degli strascichi del processo Mills, più delle polemiche con l’opposizione sulle leggi ad personam, «la causa che ci ha fatto precipitare nei sondaggi » è stata la settimana di passione tra Roma e Milano, le disavventure sulle candidature, gli errori, le omissioni, «ma soprattutto il rimbalzo di responsabilità, lo scambio di accuse tra di noi», quell’immagine devastante dell’uno contro l’altro.

Tre punti, «il Pdl dal 40,8% è passato al 37,9%», secondo Berlusconi. Quella ferita è stata rimediata «perché noi non abbiamo difeso, come dovevamo invece fare, i nostri dirigenti locali», mentre c’era da scaricare ogni responsabilità «sui nostri avversari e sulla magistratura che usa ogni mezzo pur di colpirmi». Secondo il premier si è trattato di un errore di strategia comunicativa, «abbiamo fatto passare l’idea che noi, che siamo al governo, non siamo nemmeno capaci di presentare delle liste». Ma è chiaro a Berlusconi che le difficoltà mediatiche sono solo l’aspetto esteriore delle difficoltà politiche, e che non basta - come pure ha fatto - invitare i dirigenti del partito a «centrare d’ora in avanti la campagna elettorale sui buoni risultati di governo».

La decisione di alzare la posta in gioco, chiamando in causa il Quirinale per il pasticciaccio brutto delle liste, è un modo per allentare le tensioni nel Pdl e dare l’immagine di una coalizione che offre una diversa prospettiva della vicenda, non accettando passivamente quello che viene offerto ai propri elettori come «un sopruso». La riunione urgente dell’Ufficio di presidenza del partito, il vertice con la Lega e il colloquio con Napolitano servivano a questo, perché tutti sapevano che l’ipotesi del decreto per un rinvio delle elezioni non era costituzionalmente praticabile, perché era nell’ordine delle cose che nel Lazio la Polverini sarebbe tornata in gioco con il ricorso alla corte d’Appello, in attesa di buone notizie per Formigoni.

Berlusconi doveva però dare l’idea di muoversi, anche agli occhi degli elettori di centrodestra, che secondo i sondaggi mostrano segni di disaffezione e sono tentati dalla logica dell’astensionismo. Certo, ora che il Cavaliere si è esposto al punto da salire al Quirinale, soltanto una soluzione del caso Lombardia e della lista Pdl nel Lazio potrebbe garantirgli un’operazione a saldo positivo. A meno che non decida di sfruttare un eventuale insuccesso nel gioco di Palazzo per alzare il livello dello scontro elettorale e chiamare a raccolta il «popolo» del Pdl, mettendo ancora una volta nel mirino la magistratura. Berlusconi è su questo confine da ieri sera, dopo la visita al capo dello Stato, dal quale si è presentato «aperto a tutte le ipotesi» pur di risolvere il problema. A parte le resistenze di Napolitano, niente affatto convinto da un provvedimento che riapra i termini per la presentazione delle liste e consenta ai candidati pdl del Lazio di mettersi in regola, il problema politico che la vicenda rivela è lo scontro interno al partito, segnato dal duello tra il premier e il presidente della Camera.

Tutto ruota attorno al duello Berlusconi- Fini, «e se possibile bisogna che il rapporto si sani», dice il ministro Matteoli, preoccupato dalla piega degli eventi. Non sono chiari i motivi che hanno provocato una ripresa del conflitto, ma non c’è dubbio che il calo di consensi è stato determinato anche dalla rinnovata ostilità tra i due. Nell’immaginario collettivo degli elettori del Pdl resterà impresso lo scontro tra i «cofondatori » che si è giocato proprio mentre in Lazio e in Lombardia stava per scoppiare il caos delle liste: con Berlusconi da una parte, che lanciava i Promotori delle libertà, quasi un partito parallelo al Pdl; e con Fini dall’altra che - a un mese dal voto - introduceva l’idea di riformare il sistema pensionistico. Tre punti sotto. Ecco il risultato. Senza che nel Pdl si capisca fino a che punto i due vogliano arrivare. Perché il Cavaliere sostiene di non avere «intenzione di salire su un altro predellino», non se lo può permettere, dato che sta al governo.

E perché Fini ripete che «non c’è alternativa al Pdl», a meno che non intenda sconfessare il suo credo di bipolarista. Ma il conflitto resta, e non solo ha generato una lotta senza quartiere sul territorio, rischia di riflettersi sul governo. Il risultato delle Regionali influirà sul restante percorso della legislatura, ma l’impressione nella maggioranza è che - per dirla con il segretario del Pri, Nucara - «il centrodestra abbia la stessa sindrome che afflisse l’Ulivo nel ’97, quando iniziarono a litigare per il potere, pensando che Berlusconi fosse stato definitivamente sconfitto, e che loro avrebbero governato per vent’anni. Non andò così e tutti persero tutto».

Francesco Verderami

05 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Nel partito malumore per la «norma autogol»
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2010, 02:28:47 pm
Dietro le quinte Gianni Letta chiede agli interlocutori di pazientare

Nel partito malumore per la «norma autogol»

Tutte le speranze ora si concentrano sul Consiglio di Stato. Fini: che figura

   
Magari in extremis il Pdl riuscirà a presentare la lista nel Lazio, magari non ci sarà bisogno di ricorrere al rinvio delle elezioni, ma è proprio il ricorso all’appiglio leguleio che sta arrecando gravi danni d’immagine al centrodestra. E che l'immagine del Pdl sia compromessa lo si intuisce dal modo in cui Fini ieri ha accolto la sentenza del Tar: «Che figura». La battuta del presidente della Camera non è solo dettata dalla preoccupazione di veder compromessa in queste condizioni la corsa della Polverini nel Lazio, ma perché sa che la politica segna il proprio fallimento quando degrada ad una disputa tra azzeccagarbugli. Al pari dell'inquilino di Montecitorio anche Berlusconi ne è consapevole, lui che appena qualche giorno fa aveva avvisato lo stato maggiore del Pdl di un calo nei sondaggi, siccome nell'immaginario collettivo era passata l'idea che «non siamo nemmeno in grado di presentare delle liste». Con il decreto confidava di aver chiuso il conto, invece la sentenza del Tar non solo ha riaperto il caso ma soprattutto è stata valutata come una bocciatura dell'esecutivo, che si sarebbe fatto una sorta di «autogol». Così prende corpo un rischio ulteriore e se possibile ancor più devastante, e cioè che l'opinione pubblica si convinca dell'incapacità del governo di varare un decreto che produca effetti.

Poco importa se davvero in mattinata i cofondatori del Pdl fossero ottimisti, e se ieri sera lo scoramento misto a una forte arrabbiatura avessero preso il sopravvento. Al telefono Gianni Letta ha chiesto ai suoi interlocutori di pazientare. Bisognerà intanto capire se il provvedimento — voluto dal premier e controfirmato dal capo dello Stato — sarà in grado di reggere a fronte di un ricorso del Pd contro un'eventuale decisione della corte d'Appello di accogliere la nuova presentazione della lista del Pdl. Ma su questo nessuno fa più affidamento: la bocciatura sembra assicurata. Le speranze — a quanto si dice ben riposte — sono invece affidate al Consiglio di Stato: se annullasse la sentenza del Tar, la Bonino e il Pd non potrebbero presentare ulteriore appello. E il Pdl potrebbe vincere la sfida nel Lazio. Chissà se davvero stanno così le cose, in pochi sono riusciti a seguire Letta nel dedalo del ragionamento, perché nessuno si è mai trovato dinanzi a un simile caos giuridico. Figurarsi gli elettori. Il Cavaliere lo sa. Nei suoi amatissimi sondaggi ha visto crescere in una settimana il senso di disorientamento che i dirigenti locali del Pdl — così come quelli della Lega — hanno verificato sul territorio. La preoccupazione è che di questo passo la flessione nei consensi possa essere superiore ai tre punti finora registrati. Troppo forte lo «scossone» determinato anche nell'opinione pubblica di centrodestra dal braccio di ferro sul decreto, perché l'idea di modificare le regole del gioco a gioco in corso non è stata gradita, ha dato l'idea che ci sia una categoria di «intoccabili» a cui tutto è permesso. Mentre cresce l'aspettativa sull'azione di governo.

Di qui il danno d'immagine per l'esecutivo, dunque per il Cavaliere. Ma anche Fini rischia un contraccolpo, e non solo perché il presidente della Camera è stato «collaborativo» — definizione del premier — nel trovare la soluzione del caos delle liste con il decreto, ma soprattutto perché un'eventuale esclusione del Pdl nel Lazio minerebbe la roccaforte di An, con il rischio in prospettiva di un effetto domino sul Campidoglio, guidato oggi da Alemanno. C'è il futuro in ballo, insieme a un presente poco roseo per via di un incrudimento dei rapporti in Parlamento con i democratici, pronti all'ostruzionismo alla Camera sul decreto salvaliste, e intenzionati a dar battaglia in Senato sul legittimo impedimento caro a Berlusconi. È chiaro che il Pd vuole approfittare del momento. Ma «che figura» per il Pdl se il decreto che ha scatenato tutto non è nemmeno servito a nulla.

Francesco Verderami

09 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.


Titolo: VERDERAMI Manifestazioni, a destra e sinistra la sensazione di un rito stanco
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2010, 11:10:22 am
Gli scenari - Il vecchio rito della piazza

Manifestazioni, a destra e sinistra la sensazione di un rito stanco


Scenderanno in piazza, rassegnati al rito che li accomunerà a distanza di una settimana. A colpire non è solo il senso di smarrimento e di stanchezza che i due schieramenti trasmettono alla vigilia delle rispettive manifestazioni, ma il fatto che nel Pdl come nel Pd non se ne faccia nemmeno mistero. C'è una voglia di sfuggire alla cerimonia che per una volta rompe il solito cliché. A contrapporsi non sono tanto i falchi e le colombe, i moderati e gli estremisti.

Il sentimento di stanchezza per la piazza è diffuso e trasversale, accomuna berlusconiani di provata fede come Mario Valducci ad anti-berlusconiani storici come Rosi Bindi, icona dei movimenti di centrosinistra e che certo non ha preso le distanze dalla manifestazione di oggi contro il Cavaliere. Ma ci sarà un motivo se oggi la presidente del Pd non sarà a Roma perché impegnata in un comizio a Mestre. «Tutti dovrebbero avere un altro impegno dato che siamo in campagna elettorale», afferma Fabrizio Rondolino, portavoce di Massimo D’Alema ai tempi di Palazzo Chigi: «E non sarebbe diserzione ma solo buon senso misto a un pizzico di sano pragmatismo, l’idea cioè che risorse ed energie andrebbero sfruttate in altro modo. La verità è che quanti hanno passione per la politica sono stufi della politica dell’effimero, che non porta voti».

Se è vero che la piazza è sempre stata il luogo dei comizi alla vigilia delle urne, non si capisce perché — in prossimità delle elezioni — i leader abbiano chiesto ai loro dirigenti di partito di interrompere la campagna elettorale per un giorno, per riunirsi e manifestare contro l’avversario, invece di racimolare consensi casa per casa. È la prima volta che tutto ciò accade, e forse ha ragione l’intellettuale di destra Pietrangelo Buttafuoco quando dice che «ormai la politica si divide tra chi ha il dominio dell’etere e chi il dominio del territorio. Perciò, chi campa grazie ai media cerca la piazza, mentre chi lavora sul territorio in piazza c’è sempre, sta nei bar, a conquistarsi gli elettori ». Non a caso Umberto Bossi ha accettato controvoglia l’idea del premier di trascinare tutti a Roma fra una settimana. E se la Lega mostra un profilo istituzionale, quasi di Palazzo, è perché ha l’ansia di amministrare non di protestare, ed è convinta che la piazza, quella di San Giovanni, non porterà voti. Ecco il punto. I cortei conquisteranno di sicuro le aperture dei tg e le prime pagine dei giornali, ma difficilmente la prova di forza muscolare garantirà nuovi consensi. Anzi c’è il rischio che l’opinione pubblica resti confusa dalla sovrapposizione dei messaggi dei due cortei.

Lo s’intuisce dal ragionamento di Alessandra Ghisleri, dei cui sondaggi Berlusconi si fida ciecamente: «Entrambe le manifestazioni — sostiene infatti la responsabile di Euromedia research— sembrano proporsi con gli stessi slogan. Tutti sfileranno "per la difesa della democrazia", "per la libertà", "contro la violazione delle regole"». Ieri Silvio Berlusconi e Antonio Di Pietro hanno persino usato le stesse parole d’ordine: «La nostra non sarà una manifestazione di protesta ma di proposta». A parte la prospettiva di sentire i rappresentanti dei due schieramenti rinfacciarsi le stesse accuse dal palco, e di vedere in televisione i soliti noti, i cittadini sono stanchi di venir precettati dalla «casta». L’interpretazione di questo stato d’animo, ormai diffuso, l’ha rilevato Nando Pagnoncelli nei suoi studi demoscopici: «La stanchezza della piazza che si manifesta adesso persino tra i politici è — secondo il capo di Ipsos — la punta dell’iceberg della stanchezza del Paese verso la politica, contro la quale gli elettori sono pronti a usare l’arma dell’astensionismo nelle urne».

L’idea della piazza mostra insomma le sue rughe, ma non è vero che la partecipazione si è dissolta, semplicemente si è trasferita altrove, sulla rete: i blog sono diventati i muri dove una volta si esprimeva il dissenso con le bombolette spray. Se di riflusso dunque si può parlare, è verso un rito che non entusiasma più nemmeno chi lo organizza. Antonio Scurati, scrittore di sinistra, scorge nella voglia di corteo del Cavaliere «il segno di un suo scendere di grado, perché il luogo della politica berlusconiana è stata storicamente la piazza mediatica. La piazza fisica apparteneva alla sinistra, che lì ha conosciuto la sua apoteosi. Oggi invece in piazza la sinistra ci va per sfinimento, quasi claudicando, per spirito reattivo. E negli anni quello che era un sentiero lastricato di successi si è trasformato in un percorso di estenuazione». Toccherà a tutti, oggi o tra una settimana. In molti parteciperanno controvoglia, stavolta senza farne nemmeno mistero.

Francesco Verderami

13 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI E il Pdl compatto da Bondi a Bocchino «chiama» il Quirinale
Inserito da: Admin - Marzo 17, 2010, 11:53:30 pm
Il retroscena |

Il ministro e coordinatore: Napolitano ha sempre trovato le parole giuste, necessario il suo intervento

E il Pdl compatto da Bondi a Bocchino «chiama» il Quirinale


Ora che l’offensiva del Csm contro il Guardasigilli ha innescato quello che lo stesso Alfano definisce «un conflitto devastante», è chiaro che lo scontro sull’inchiesta di Trani finirà per chiamare in causa il Quirinale. Perché è vero che il premier ha finora evitato di appellarsi al capo dello Stato.

Ma la denuncia di Berlusconi contro le «palesi violazioni» della procura pugliese è (anche) un messaggio indiretto a Napolitano, che del Csm è presidente. Il Colle si ritrova adesso in mezzo al fuoco appiccato dall’organo di autogoverno della magistratura, che ha issato le barricate contro la decisione del ministro della Giustizia di inviare gli ispettori a Trani. Ed era inevitabile che Alfano rispondesse a Mancino, intervenuto a difesa del Csm: «Se qualcuno pensa di intimidirmi e di intimidire gli ispettori - è stata la reazione del rappresentante di governo - si sbaglia».

Alla vigilia delle elezioni si rinnova così l’eterna lotta tra politica e toghe, ed è inevitabile che entri in gioco il Quirinale. Il centrodestra - per una volta compatto - attende di capire quali saranno le mosse del presidente della Repubblica, e auspica un intervento del Quirinale. «Siccome Napolitano ha dimostrato di trovare le parole giuste nei passaggi più difficili - dice il ministro Bondi - anche in questo passaggio sarebbe necessario un suo intervento presso i magistrati».

Il coordinatore del Pdl argomenta la sua tesi senza alcun accento polemico, anzi. L’invito rivolto al Colle è quello di chi si appella all’arbitro, spiegando che «dinnanzi alle anomalie dell’inchiesta di Trani è impensabile assistere silenti agli attacchi del Csm contro il titolare della Giustizia, che inviando gli ispettori ha esercitato le proprie prerogative. Perciò, in nome della Costituzione, il capo dello Stato dovrebbe chiedere spiegazioni. C’è bisogno che si fermi l’ormai chiara azione di guerra di un’ordine di pubblici funzionari contro la politica».

Stavolta non è come le altre volte, l’inchiesta pugliese non viene infatti criticata solo nel merito, ma soprattutto per i metodi adottati dalla procura. «Sono saltate le regole», dice il finiano Bocchino, che salda così le proprie critiche a quelle avanzate dal fedelissimo berlusconiano Bondi, e dà voce alle perplessità manifestate riservatamente dal presidente della Camera. Raccontano che il «cofondatore» del Pdl sia rimasto «assai colpito» dalmodo in cui la procura si è mossa nell’indagine. Fini, che ha pronunciato parole di solidarietà verso il premier, ritiene si tratti di «un’inchiesta sopra le righe », che di giorno in giorno si sta rivelando come «un’aggressione» verso il Cavaliere. È una vicenda che rischia di «minare gli equilibri istituzionali».

Secondo Bocchino quegli equilibri sono addirittura «saltati»: «Ci siamo dimenticati che il pm è arrivato persino a chiedere l’interdizione del premier, che avrebbe segnato la caduta del governo? Siamo in presenza di un’invasione di campo senza precedenti della magistratura, che ha invaso il terreno della politica alla vigilia di un delicato passaggio elettorale. La verità, purtroppo, è che una parte di magistrati politicizzati crede di non aver più nulla da temere, dato che non è stata fatta la riforma della giustizia. Quindi aggredisce. E ancora una volta disattende gli appelli del Quirinale, che si è prodigato affinché si instaurasse un clima più sereno. Perciò sarebbe auspicabile che Napolitano intervenisse adesso. Il presidente della Repubblica, che è anche presidente del Csm, dovrebbe suonare il gong, porre fine al conflitto, e attraverso la sua moral suasion fare in modo che - dopo le elezioni - in Parlamento inizi un confronto bipartisan. Vanno ristabiliti i confini costituzionali tra potere politico e ordine giudiziario».

Su questo punto è evidente una differenza di toni tra il vice capogruppo del Pdl, braccio destro di Fini alla Camera, e il premier, che mira a una «riforma radicale» della giustizia. In tempi non sospetti aveva rilanciato il progetto, e non è un caso se il mese scorso il Guardasigilli aveva annunciato l’intenzione di presentare il disegno di legge «al primo Consiglio dei ministri dopo le Regionali».

Berlusconi intende sfruttare l’occasione anche elettoralmente, ecco il motivo per cui ha invitato ieri sera Alfano ad uscire allo scoperto contro il Csm. L’inchiesta di Trani gli fa gioco: attraverso gli amatissimi sondaggi sa che la maggioranza dell’opinione pubblica considera questa vicenda l’ennesimo atto di una «giustizia ad orologeria». Proprio il concetto che il premier ha usato in televisione, dopo aver letto i report riservati che danno il Pdl in risalita, due punti appena sotto il pari delle Europee.

Il caso di Trani sta provocando (quasi) lo stesso effetto che produsse l’aggressione di Milano del 13 dicembre. Perciò il centrosinistra è in apprensione, perché l’inchiesta ha offerto il destro al Cavaliere in vista della sua manifestazione di sabato, perché il caso influenzerà l’esito del voto, e perché non saprebbe come comportarsi se nello scontro verrà chiamato in causa il Quirinale.

Francesco Verderami

17 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi: Bossi amico non alternativa
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2010, 11:04:58 am
Il Senatùr conferma l’asse: gli farò i complimenti

Il Cavaliere ora punta sul presidenzialismo

Ma dovrà gestire il nodo del rimpasto.

Berlusconi: Bossi amico non alternativa

   
ROMA - «Se la Lega avanza per me è la stessa cosa. Umberto è un amico, non un’alternativa». Eccolo il nocciolo duro della holding di centrodestra, è l’asse Berlusconi-Bossi che esce rafforzato dalle Regionali. E poco importa al premier se il Carroccio stacca il Pdl in Veneto e lo incalza in ogni dove al Nord. La vittoria nel Lazio porta le sue insegne, e le parole del Cavaliere confermano la strategia con la quale si è mosso e intende continuare a muoversi di qui ai prossimi tre anni, e magari anche dopo, «perché la Lega sarà sempre un’alleata affidabile, mai un’avversaria».

Era chiaro ben prima delle Regionali che Berlusconi — assecondando il Senatùr — aveva trasferito una quota del proprio pacchetto politico-azionario sul Carroccio per mettersi al riparo da qualsiasi tentativo di scalata ostile, per quanto altamente improbabile. Il «sì» alle candidature di Zaia e Cota come governatori di Veneto e Piemonte era stato un segnale inequivocabile, una scelta imposta allo stato maggiore del suo stesso partito. Si trattava di una mossa in parte difensiva - dettata dalle difficoltà di governo e dagli attacchi giudiziari e mediatici - e in parte però proiettata già sul futuro. Con il risultato ottenuto nell’arco alpino, Bossi sconfigge l’idea di un «arco costituzionale» che Pd, Udc e un pezzo di Pdl stavano studiando a Roma per sterilizzare in prospettiva il Carroccio.

Ora la Lega sarà determinante per qualsiasi alleanza di governo nazionale. In Veneto addirittura, vista la massa di consensi, potrebbe in teoria decidere se coalizzarsi con il Pdl o con il Pd. E con un alleato così forte anche il premier si sente forte. Quanto sia saldo l’asse tra Berlusconi e Bossi lo si intuisce dal modo in cui il Senatùr ha commentato a caldo la vittoria: «Chiamerò Silvio e gli farò i complimenti per come il suo partito ha retto allo tsunami della Lega». La prudenza, il profilo apparentemente basso e non di sfida verso il Pdl, serviva (e serve) al capo del Carroccio per non suscitare irritazioni nella coalizione, dato che Bossi si propone di andare all’incasso del federalismo fiscale e non vuole incidenti di percorso con i decreti attuativi. Proprio per questo ha offerto immediatamente in cambio la propria disponibilità su una questione cara al Cavaliere: «La riforma della giustizia va fatta subito».

Così il leader leghista fa anche capire che non lascerà mai Berlusconi con il fianco scoperto, qualora dovessero profilarsi nuove «scosse» giudiziarie ai danni del premier. Le parole di Bossi sulla necessità di ristabilire l’antico confine costituzionale tra il potere politico e l’ordine della magistratura sono state accolte con soddisfazione dal Guardasigilli, che discutendone con i suoi collaboratori ha sottolineato come il Senatùr «non mira a destabilizzare»: «Non è come Casini, che avrebbe già chiesto la verifica e un nuovo governo. Bossi — ha commentato Alfano — bada al sodo, vuole che si parta al più presto con le riforme». E proprio sulle riforme il rafforza mento dell’asse con il Senatùr spinge Berlusconi a prefigurare nuovi scenari, che le vittorie in Piemonte e Lazio rendono più concrete di un semplice progetto in fase di studio. Perché il federalismo — nella testa del premier — porta con sé il presidenzialismo, tema rilanciato in campagna elettorale dal Cavaliere, intenzionato a lavorare per una modifica radicale del sistema. Sarebbe il primo passo per avanzare la propria candidatura alla guida di un governo con maggiori poteri, nuova piattaforma di lancio per «completare la rivoluzione liberale».

Si tratta però di un disegno ambizioso quanto complicato, e ancora troppo lontano nel tempo. Nell’immediato invece Berlusconi dovrà gestire una fase di fibrillazione legata all’inevitabile rimpasto. E comunque sulle riforme al Cavaliere non basterà l’appoggio di Bossi, che si ritaglia fin d’ora il ruolo di «arbitro». C’è Fini nello snodo operativo, alla Camera, dove sarà importante la regia dell’inquilino di Montecitorio e dove sarà decisivo il voto di sostegno alle riforme dell’area parlamentare che si richiama all’ex leader di An. Serve dunque un compromesso tra i «cofondatori» e non sarà indolore, sebbene Fini alla vigilia delle elezioni abbia smentito l’ipotesi di un imminente e clamoroso strappo. Il risultato delle Regionali renderà meno conflittuale il negoziato, visto che il Pdl conquista tre governatori al Sud, e Berlusconi può intestarsi di fatto il successo nel Lazio dove emerge da vincitore «senza nemmeno la lista di partito». Dinanzi alla sequenza Fini riconosce che «il governo esce rafforzato dalle urne».

In fondo non è che la conferma delle previsioni fatte il giorno prima del voto, quando il presidente della Camera disse che «in Italia non si ripeterà quanto accaduto in Francia»: né per il dato dell’astensionismo né per gli effetti che il voto avrebbe determinato sull’esecutivo. Il «chiarimento» con Berlusconi sarà soprattutto incentrato sul rafforzamento del partito e sul rapporto con Bossi. Alla luce della flessione del Pdl, Fini considera necessario affrontare le due questioni. Certo non mette in discussione l’alleanza con la Lega, «che è strategica e non solo al Nord», ma non accetta che sia il partito a pagare per l’asse del Cavaliere con il Senatùr. La verità è che il test delle Regionali ha rovesciato i pronostici della vigilia, consegnando una maggioranza di centrodestra che - nonostante le difficoltà — si rafforza al cospetto di un’opposizione divisa e incapace di mostrarsi al momento come vera alternativa. Berlusconi ancora una volta - malgrado un’incerta azione di governo — è riuscito a imporre lo schema dell’«uno contro tutti», del referendum sulla sua persona. «Quando è così, Silvio vince sempre», ha commentato La Russa. Non solo, ieri «Silvio» si è rafforzato, grazie allo «tsunami» leghista. E il premier è contento, perché «Umberto non è un’alternativa, è un amico ». Di più, è la sua assicurazione sulla vita. Costa, ma è efficace.

Francesco Verderami

30 marzo 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI La partita al rialzo
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 03:04:49 pm
La partita al rialzo

Alfano apre al dialogo sulle intercettazioni «Ecco il nuovo testo»

Il ministro: non ci impiccheremo a un aggettivo

Ma la legge va approvata entro giugno


ROMA — Il pugno duro: «Lavoreremo per fare in modo che a giugno il provvedimento sulle intercettazioni sia legge dello Stato». La mano tesa: «E siccome intendiamo verificare la reale disponibilità al confronto dell'opposizione, noi non ci impiccheremo ad un aggettivo». Angelino Alfano dà il via alla «campagna di primavera» del governo. Lo fa sulla giustizia, che da sempre separa centrodestra e centrosinistra come una sorta di «Trentottesimo Parallelo», la linea di confine dove i due schieramenti si combattono quotidianamente. Quando il Guardasigilli dice che l'esecutivo non si impiccherà «su un aggettivo», è perché proprio attorno a un aggettivo ruota lo scontro tra maggioranza e opposizione. Nel testo è scritto che le intercettazioni sono possibili a fronte di «evidenti indizi di colpevolezza». Alfano annuncia che il governo è pronto a modificare se del caso quella parola. «Non consentiremo — dice — di strumentalizzare un nostro intendimento sull'altare di un aggettivo. È troppo importante questa legge, che serve a riaffermare il diritto alla privacy dei cittadini.

È fondamentale che cessi presto l'abuso delle intercettazioni, che finisca un atteggiamento di coccole sulla fuga di notizie tenuto un po' da tutti. Perché finora si è messo nel conto solo il diritto-dovere dei magistrati a portare avanti le indagini, e il diritto di cronaca da parte degli organi di informazione». «Nessuno però si è fatto carico di un altro principio sancito dalla nostra Carta: il principio inviolabile della libertà e della segretezza nelle comunicazioni tra persone». Il ministro spiega che il governo vuol tornare a issare questa «bandiera, l'articolo 15 della Costituzione, senza voler ammainare le altre due, ma tenendole alte allo stesso livello». Perciò «chiederemo l'immediata calendarizzazione al Senato del provvedimento sulle intercettazioni. A due anni esatti dalla presentazione del disegno di legge, non si può aspettare oltre». Alfano ci tiene a chiarire che «l'impianto del testo resta comunque intatto. È chiaro che il tempo di durata delle intercettazioni deve restare limitato e che la pubblicazione di atti riservati deve essere duramente sanzionata». Ma su quell'aggettivo, che è all'origine di tensioni anche nella maggioranza, con l'area finiana che ha presentato degli emendamenti, «si discuterà». È un messaggio che travalica il confronto sul provvedimento, serve anche a rompere la cortina di ferro tra i due poli, «serve a svelenire il clima sulla strada del dialogo per le riforme», sottolinea infatti il ministro della Giustizia, che così si richiama indirettamente ai colloqui avuti con il capo dello Stato, agli inviti rivolti da Napolitano perché si svolgessero «ulteriori riflessioni» sul disegno di legge: «Ecco il motivo per cui siamo pronti a confrontarci fin dal passaggio in commissione al Senato, sul punto che più ha scatenato l'opposizione al testo. Strumentalmente si è detto che, con quel passaggio, volevamo cancellare le intercettazioni. Non è vero. Infatti sulla soluzione siamo aperti al confronto».

È una sorta di «prova del nove» per Alfano, che attende di capire quale sarà la risposta del Pd: «Vogliamo verificare se ne fanno un problema di aggettivi o se si tratta solo di una scusa per consentire che i cittadini siano ancora tenuti sotto scacco di intercettazioni a tappeto. Vogliamo capire, cioè, se da parte loro c'è l'interesse che non venga stracciato un articolo di quella Costituzione, a cui dicono di essere legati». Ecco come il governo vuole mostrare il pugno e tendere la mano, «noi vogliamo far capire all'opposizione che sulle riforme siamo intenzionati a giocare una partita al rialzo. Senza fornire alibi a quella parte della sinistra giustizialista che utilizza il tema delle intercettazioni come pretesto». È evidente che la mossa del Guardasigilli è il frutto di un'intesa della maggioranza, la dimostrazione soprattutto che nel Pdl si vanno attenuando le frizioni tra i «cofondatori», in vista di un accordo complessivo: «La verità — afferma Alfano — è che il successo del centrodestra alle Regionali ha stabilizzato il quadro politico, come ha detto anche il ministro Maroni. In più la nostra vittoria ha portato con sé il rilancio sulla ristrutturazione del sistema. E sono due le riforme che connotano l'identità della coalizione: il federalismo per un verso, la giustizia e il fisco per l'altro. Senza dimenticare il presidenzialismo, sono queste le riforme più care a Bossi e Berlusconi, che anche sul fisco ha aperto il cantiere».

Alfano sa che in Parlamento sono molti «i lavori in corso» che lo riguardano, e non a caso si sofferma sulla propria road map: «Subito dopo le intercettazioni al Senato, sarà la volta della riforma dell'avvocatura e del processo penale», altro provvedimento che ha scatenato un ulteriore conflitto al confine del «Trentottesimo Parallelo». Resta la riforma costituzionale della giustizia, la madre di tutte le leggi che il Guardasigilli si era impegnato a presentare subito dopo le Regionali: «Sarà così, il governo la presenterà, per rendere finalmente pari l'accusa e la difesa nel processo». Si intravede tuttavia il rischio che le scadenze legislative già stabilite allontanino la prospettiva del varo di una riforma così complessa, che avrà bisogno di tempo per essere approvata in Parlamento. Un ulteriore ritardo nella tabella di marcia sarebbe di fatto l'ammissione che il progetto viene abbandonato. Il ministro lo smentisce: «Mille giorni sono un tempo sufficiente per fare tutto. E con gli elettori abbiamo preso l'impegno che tutto sarà fatto». Intanto si parte «subito» con le intercettazioni, in modo che la Camera — dopo il Senato — possa trasformare in legge il provvedimento «entro il mese di giugno». La novità è quella mano tesa all'opposizione, l'intenzione di dialogare che Alfano auspica sia colta: «Da parte nostra c'è la volontà, verificheremo se esiste anche da parte loro. Noi siamo pronti, e determinati a stanare chi mira a operazioni strumentali». Se così fosse l'esecutivo andrebbe avanti «senza esitazioni». Il ministro avvisa che «niente e nessuno riuscirà a intimidirci politicamente», e che dinnanzi all'ipotesi di un referendum abrogativo «noi non avremo paura, perché la gente ha già approvato questa legge due anni fa, nel 2008, quando votò per noi, appoggiando il nostro programma di governo». Pugno duro e mano tesa. Inizia così una difficile trattativa di pace al confine di quel «Trentottesimo Parallelo» chiamato giustizia.

Francesco Verderami

01 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Tra Berlusconi e Fini la pace passa per il presidenzialismo
Inserito da: Admin - Aprile 04, 2010, 11:08:57 am
Strategie

Tra Berlusconi e Fini la pace passa per il presidenzialismo

Nella «Yalta del centrodestra» il Cavaliere vuole per il cofondatore la «delega» sulla forma di governo


Dopo il successo alle Regionali si prepara la «Yalta del centrodestra». Certo, i leader di Pdl e Lega non avranno da spartirsi il mondo - come i vincitori della Seconda Guerra - ma se davvero mirano a «cambiare l’Italia» in mille giorni, devono trovare rapidamente un compromesso sulle riforme, spartendosi le aree di influenza.

Così il Cavaliere si prepara all’incontro con Fini: perché se è vero che il berlusconismo si fonda sulla «rivoluzione » del fisco e della giustizia, e se Bossi punta alla realizzazione del federalismo, resta da capire cosa intende fare l’altro «cofondatore» del Pdl con il presidenzialismo. È la domanda che Berlusconi porrà all’inquilino di Montecitorio, siccome quel sistema è sempre stato un obiettivo della destra, di cui Fini è il naturale azionista di riferimento.

Serve una «Yalta» al premier, è il metodo che ha deciso di adottare per realizzare il suo progetto e soddisfare le aspettative suscitate nel Paese. Il voto lo ha rafforzato, ma la sponda di Fini è necessaria, perciò deve capire se anche l’ex leader di An ha maturato la convinzione che una fase si è chiusa. Sciolto il nodo, chiederà al presidente della Camera di farsi «parte attiva» della stagione riformatrice, invitandolo — se crede— ad innalzare la bandiera del presidenzialismo.

Secondo il Cavaliere, Fini può farlo senza che tutto ciò confligga con il suo ruolo istituzionale e tanto meno con le sue idee.
Anzi, proprio la sua veste attuale e il suo retroterra culturale garantirebbero al presidente della Camera di ritagliarsi uno spazio politico di prima grandezza, e offrirebbero maggiori probabilità di successo nella difficile sfida.

Ecco perché Berlusconi lo vuole «parte attiva», «e Gianfranco — dice Gasparri — dovrà decidere se marcare un territorio che storicamente è della destra. Sono convinto che lo farà. Anche se sorprese un po’ tutti nelle scorse settimane, quando parve prendere le distanze da Berlusconi che aveva rilanciato il tema. Bisogna capire se si trattò di prudenza istituzionale o di freddezza politica». È quanto vuole capire il Cavaliere, che ha messo da parte l’irritazione di quei giorni, ricordata al vertice del Pdl di mercoledì: «Rimasi colpito. Almeno su questo punto non pensavo si distinguesse. Ora spero che condivida il progetto e si impegni in prima persona». Si è mostrato sincero il premier, che certo non cela la propria diversità quasi antropologica da Fini. Ma il suo intento è disinnescare ogni mina di qui in avanti, perciò si propone con spirito ecumenico: «Anche perché ci sarebbe gloria per tutti».

Nella logica di una «Yalta di centrodestra », dopo il colloquio tra i «cofondatori » è previsto l’avvio della fase successiva. Tra fine aprile e inizio maggio saranno i gruppi parlamentari di maggioranza a presentare il progetto di legge di riforma costituzionale, con annessa opzione presidenzialista. Saranno «testi aperti», spiega Cicchitto, dato che l’intento è di aprire il gioco all’opposizione: «Ma ovviamente si andrà oltre la bozza Violante—precisa il capogruppo del Pdl — nel quadro di un sistema bilanciato che contempla anche il federalismo».

Il Cavaliere è pronto. E secondo il «finiano » Bocchino «lo è anche il presidente della Camera. Lui vuole il presidenzialismo, l’otto aprile ne parlerà al convegno organizzato da FareFuturo sul sistema francese». Proprio il modello su cui sta lavorando il ministro leghista Calderoli. Insomma, l’intesa sembrerebbe— sembrerebbe—possibile, se è vero che Bocchino aggiunge: «Berlusconi dovrà far poggiare la trave del nuovo ordinamento costituzionale sui due pilastri cari alla Lega e alla destra». Il confronto con l’opposizione avverrà sul disegno di legge messo in cantiere, e che sarebbe frutto di un’operazione di ingegneria legislativa: il Pdl ha infatti recuperato dai lavori della Bicamerale guidata da D’Alema il testo su presidenzialismo e federalismo, unendolo agli articoli sulla riduzione del numero dei parlamentari e sul superamento del bicameralismo inseriti nella «bozza Violante». «Sono progetti che il centrosinistra ha già votato », dice Bocchino: «Se cambiasse posizione, allora saremmo legittimati ad andare avanti da soli».

Ma prima di muoversi Berlusconi attende che Fini garantisca di farsi «parte attiva». «Questione non irrilevante », a detta di Quagliariello: «Senza l’appoggio sostanziale del presidente della Camera, il progetto si arenerebbe ». Con il suo appoggio, però, muterebbe il rapporto del Pd con Fini. Chissà se è anche questo l’intento del premier. Ora però si tratta di capire quale sarà — se ci sarà — il compromesso tra i «cofondatori», perché più volte l’ex leader di An ha detto di essere «un convinto presidenzialista. Ma presidenzialismo non significa "un uomo solo al comando"...». Serve una «Yalta» a Berlusconi, che è convinto di arrivare allo stesso obiettivo comunque: per legge o per via elettiva. In fondo, con l’attuale Costituzione, già oggi il capo dello Stato assegna l’incarico di presidente del Consiglio, nomina i ministri, scioglie le Camere, sceglie parte dei membri della Corte Costituzionale, è capo delle Forze Armate, presiede il Csm, ne stabilisce l’ordine del giorno...

Francesco Verderami

03 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI E Tremonti vigilerà sui costi delle nuove regole
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2010, 09:30:41 am
Il retroscena | Le tappe della «rivoluzione fiscale»

E Tremonti vigilerà sui costi delle nuove regole

Solo lui può dare il via libera ai decreti attuativi

   
Tra il dire e il fare ci sono di mezzo i conti dello Stato. E se è vero che Berlusconi e Bossi saranno i primattori della nuova stagione politica, toccherà a Tremonti la parte dell’oste. Perché le riforme non saranno a costo zero.

Quale sarà l’impatto del federalismo fiscale sulla finanza pubblica, per esempio, il ministro dell’Economia non l’ha ancora detto. E solo lui può dare il via libera ai decreti attuativi della riforma cara al Senatùr. Così come spetterà a lui dar mostra della propria capacità creativa per trovare le risorse necessarie a realizzare il sogno del Cavaliere, e portare così a compimento entro la fine della legislatura la «rivoluzione fiscale», con un radicale cambio di sistema.

I conti e le riforme: ecco il dilemma, che fa del titolare di via XX settembre il crocevia di ogni progetto, se possibile ancor più decisivo di quanto non lo sia stato finora. Sia chiaro, gli obiettivi di Berlusconi e Bossi sono anche i suoi, su questo non c’è dubbio: l’ha detto. Ma è da tempo che ha scelto un profilo basso, al punto da non replicare persino quando finisce sotto attacco. Un mese fa — durante una riunione sugli incentivi —evitò di duellare con Scajola, che dinnanzi a Berlusconi e Gianni Letta aveva usato parole molto aspre nei suoi riguardi. «Claudio, non ho alcuna intenzione di polemizzare con te», rispose con voce inaspettatamente bassa: «Ti dico solo che di soldi non ce ne sono. Punto e basta». Neppure nei giorni tumultuosi che precedettero le Regionali si espose. All’ultimo vertice del Pdl, mentre il partito ribolliva come una tonnara e i pronostici sul voto preannunciavano il peggio, Matteoli provò a stuzzicarlo: «Allora Giulio, che ne pensi?». «Giulio» si volse, limitandosi a sorridere.

C’è Tremonti dunque allo snodo della sfida sulle riforme. Il resto, per ora, sono solo mosse tattiche, con il Carroccio che ha mostrato abilità e tempismo nel posizionarsi. L’intervista di Maroni al Corriere è la dimostrazione che la Lega potrà anche somigliare alla Dc per la capacità di conquistare consensi al Nord, ma politicamente ricorda il Psi di Craxi: spregiudicata come un Ghino di Tacco, è capace di spiazzare alleati e avversari, e di ritagliarsi un ruolo da protagonista nelle trattative sulla revisione dell’architettura costituzionale dello Stato. L’apertura di Maroni sul semi-presidenzialismo — che piace a un pezzo del Pd se accompagnato da una legge elettorale a doppio turno— e in più la mano tesa ai magistrati sulla giustizia, sono segnali in controtendenza rispetto alla linea fin qui adottata da Berlusconi.

E c’è più di un motivo se il premier ha preferito eclissarsi dopo il voto, se solo una volta— per commentare la vittoria alle Regionali— ha usato la parola «riforme». Intanto perché sa che l’opinione pubblica è allergica a questo termine, dopo averlo sentito pronunciare inutilmente per più di un decennio. Il Cavaliere preferirebbe muoversi in altro modo, concentrandosi su altre questioni per esaltare così il profilo di capo di un «governo del fare». Ma è consapevole di non potersi sottrarre alla sfida, e l’atteggiamento di attesa gli serve per capire come posizionarsi.

Con Fini si è sentito più volte in questi giorni, e non solo per gli auguri di Pasqua, segno di un mutamento di clima nelle relazioni tra «cofondatori», dopo il gelo degli ultimi mesi. I due dovrebbero incontrarsi nei prossimi giorni, forse già domani, comunque prima del viaggio negli Stati Uniti del premier, previsto per la prossima settimana. Il ruolo che avrà il presidente della Camera nella partita delle riforme è dettato dalla sua carica istituzionale, perciò il Cavaliere non potrà esimersi dal coinvolgerlo. Tuttavia, oltre che un interlocutore necessario, l’inquilino di Montecitorio potrebbe diventare una sponda per Berlusconi, perché — spiega il ministro Ronchi — «Fini è funzionale alla costruzione di una linea del Pdl, che non può limitarsi a giocare di rimessa rispetto alla Lega». Resta da capire se e quando il Cavaliere romperà gli indugi e aprirà davvero il gioco sulle riforme, che contempla molte varianti: compresa l’ipotesi di un asse tra Fini e Bossi sul semi-presidenzialismo, che incroci per strada un pezzo del Pd. Si tratta di scenari da verificare. Certo il premier non potrà limitarsi alla tattica: non basta, non può bastare, che i gruppi parlamentari del suo partito presentino un progetto complessivo di riforma costituzionale entro la fine del mese.

Perché ha ragione il coordinatore del Pdl Verdini quando dice che «sarà Berlusconi il regista» dell’operazione, tuttavia «l’alleato leale», cioè il Carroccio, morde il freno, creando fibrillazione nel Pdl per il suo movimentismo, sebbene il Cavaliere si mostri sicuro di gestirlo. Preme a Bossi innescare il meccanismo per completare rapidamente il percorso del federalismo fiscale. E siccome stavolta non si tratta di riforme a costo zero, ecco che torna in scena Tremonti e il suo ruolo. Tra il dire e il fare, ci sono di mezzo i conti (in continua sofferenza) dello Stato.

Francesco Verderami

07 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Il presidenzialismo non piace agli elettori
Inserito da: Admin - Aprile 13, 2010, 06:20:05 pm
Il vero nodo resta la legge elettorale

Il presidenzialismo non piace agli elettori

Pagnoncelli: è il ricordo del fascismo a produrre questa ritrosia.

I sondaggi riservati sul tavolo del Cavaliere


Da giorni Berlusconi guarnisce i suoi colloqui pubblici e privati con la ciliegina del presidenzialismo, e dice di puntarci.

Ma è solo tattica, con cui prova a nascondere l’idiosincrasia verso questioni di ingegneria costituzionale.

Perché al Cavaliere non interessa il colore del gatto, gli importa che il gatto mangi il topo, e cioè che la riforma— semmai dovesse realizzarsi — consegni al governo la capacità di dispiegare la propria politica, e a chi è stato scelto dagli elettori di guidarne il processo. Insomma, al momento opportuno il premier non s’impiccherà al «presidenzialismo», siccome sa anche che il modello non piace agli italiani. Sono anni che li interpella a riguardo, attraverso i suoi amatissimi sondaggi, e i dati non sono sostanzialmente mai mutati. A parte il fatto che l’opinione pubblica non si appassiona alla materia, il punto è che meno di due italiani su dieci sono favorevoli al presidenzialismo, il quaranta percento è contrario, e un terzo accetterebbe il nuovo sistema solo se venissero rafforzati i poteri del Parlamento. Il capo di Ipsos, Pagnoncelli, ritiene che i numeri siano «un retaggio culturale del Paese rispetto al suo passato. E’ il ricordo del fascismo che produce questa ritrosia», la prova che gli italiani— in fondo— non accettano l’idea dell’«uomo solo al comando». Semmai a Berlusconi piace ciò che alla gente piace, «e siccome i cittadini sono interessati alla soluzione dei loro problemi — spiega la Ghisleri, titolare di Euromedia research — desiderano che chi viene eletto governi secondo il programma presentato alle elezioni». La sondaggista di riferimento del Cavaliere, attraverso le proprie analisi, fa capire anche cosa si cela dietro l’affondo «decisionista» con cui il premier da Parma ha messo a soqquadro i palazzi delle istituzioni: «Gli italiani sono stanchi delle lungaggini con cui vengono varate le leggi, e vorrebbero che fosse accorciata la filiera decisionale». Berlusconi raccoglie gli umori del Paese e compara il proprio potere rispetto a quello dei colleghi europei. Invidia, per esempio, le prerogative del governo inglese, la rapidità con cui può varare il «budget», cioè la legge finanziaria, senza estenuanti trattative sotto e sopra il banco, e senza assalti alla diligenza. Eppoi gli fa gola il potere di scioglimento del Parlamento, che è assegnato al primo ministro di Sua Maestà. Perciò prende cappello ogni qualvolta accosta quei modelli all’attuale Costituzione italiana, che «persino sugli aggettivi» concede al Quirinale di porre questioni sulle leggi. Perciò gradirebbe che la nuova Carta fosse scritta in inglese, se proprio non si dovesse scrivere in francese. Il Cavaliere sa che all’opinione pubblica— refrattaria al presidenzialismo — piace invece il «sindaco d’Italia», una formula indistinta, proiezione di un modello che i cittadini sperimentano nella quotidianità, «il meccanismo che funziona meglio— come sottolinea Pagnoncelli — grazie al sistema di voto a doppio turno». E qui si ferma il carro per Berlusconi, che su due punti non accetta compromessi: «l’indicazione diretta del popolo nei confronti della leadership», così la definisce tecnicamente Cicchitto, e la legge elettorale a turno unico. Per il premier va benissimo il «porcellum», e con lui sta (quasi) tutto il Pdl, oltre la Lega.

Ecco qual è il vero nodo, l’ostacolo alla trattativa sulle riforme: la legge elettorale. Infatti, nonostante (quasi) tutti dicano che prima va cercata un’intesa sull’architettura dello Stato, senza un accordo sul meccanismo di voto nemmeno si organizza il tavolo. Lo sa e lo dice Calderoli, che sembra un prete in confessionale per quante confidenze raccoglie nei due schieramenti: «La verità è che tutti parlano di modelli costituzionali, inneggiano alla democrazia compiuta. Poi però badano ai propri interessi, che sono gli interessi di partito». Così fan tutti, a partire da Berlusconi. E se il premier non molla il turno unico, allora — dice Gasparri — «si potrebbe riprodurre il sistema delle Regionali, con un capo dello Stato nel ruolo di garante dell’unità nazionale, vista la svolta federalista». Dal presidenzialismo via via si smotta verso il premierato, e il gioco dell’oca rischia di non aver fine, e di venir alimentato da un altro tormentone: lo scontro tra il Cavaliere e il presidente della Camera. Cicchitto prova a spezzare il meccanismo infernale, incrocia le dita sull’esito del «confronto» tra i «cofondatori» e invita a spostare l’attenzione sulle «questioni economiche e sociali»: «È su questi temi che si gioca la vera partita». Il capogruppo del Pdl non ha tutti i torti. D’altronde, nel 2005, quando Bersani non era ancora segretario del Pd e il Cavaliere invece era sempre a palazzo Chigi, disse che la sfida tra i due schieramenti alle elezioni si sarebbe giocata «sulla ripresa economica»: «Se Berlusconi non la intercetta, vinceremo con un pellegrino qualsiasi. Altrimenti non vinceremo nemmeno candidando la madonna del pellegrino». Allora Prodi se ne ebbe amale, così come i dirigenti del Pdl hanno preso male l’altro ieri le dichiarazioni di Calderoli, che ha candidato il Cavaliere al Quirinale: è parso come il tentativo di aprire con tre anni d’anticipo la corsa alla successione, e non a caso Gasparri ha annunciato che nel 2013 «sarà sempre Silvio il candidato a palazzo Chigi». Certe cose non si dicono, «intanto perché è presto — dice Cicchitto — eppoi perché porta sfiga».

Francesco Verderami

13 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Le ultime: hai comprato gli ex di An e la Lega ti ricatta.
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2010, 09:05:34 am
Il colloquio

Le ultime accuse: hai comprato gli ex di An e la Lega ti ricatta

«Gli parlavo dei problemi e mi rispondeva con le frasi dell’ultimo comizio»

   
«Elezioni anticipate? Ma davvero c’è chi pensa che in Parlamento non ci sarebbero i numeri per formare un altro governo?». Fini non lo pensa, così com’è altrettanto chiaro che non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi del ribaltone.

Dopo una vita passata a condannare quelli che in un discorso alla Camera additò come i «puttani della politica», non sarà certo Fini a fare il voltagabbana. Semmai la constatazione del presidente della Camera è il segno dell’escalation nello scontro con Berlusconi. E dal tono basso della voce s’intuisce lo stato d’animo dell’ex leader di An, un misto di rabbia e di determinazione, l’idea cioè che era inevitabile lo showdown con l’altro «cofondatore » del Pdl, che non fosse possibile andare avanti così, «perché per un anno ho posto i problemi con le buone, e la cosa non ha sortito effetti. Ora vedremo se Berlusconi capirà».

Durante il pranzo pare che il premier non l’abbia capito, se è vero che Fini ritorna con la mente al colloquio e lo racconta con un senso di stupore: «Io gli parlavo delle questioni e lui mi rispondeva con le frasi che aveva usato al comizio di piazza San Giovanni...». E le «questioni » sollevate sono altrettanti nodi politici, esplicitati con crudezza verbale inusitata: «Tu, Silvio, hai abdicato al tuo ruolo. E io sono stato condannato alla marginalizzazione. La Lega ti ricatta. L’economia è in mano a Tremonti. Il 30%, che era la quota di An nel Pdl, è composto da persone che hai comprato».

A Gianni Letta è toccato festeggiare il compleanno in un clima che di festa non aveva nulla, e ha constatato di persona quanto sia profonda la rottura tra i due, per quanto non ancora irreversibile. È in quegli spazi angusti che il braccio destro del Cavaliere lavora per tentare di trovare un compromesso, che Berlusconi però non vuol concedere, sebbene si sia licenziato dall’inquilino di Montecitorio, dicendo: «Diamoci tempo, almeno fino a lunedì». «Io aspetto», commenta l’ex leader di An: «Dipende da come reagirà Berlusconi, quali iniziative vorrà assumere, se si rende conto che i problemi ci sono, che non me li sono inventati. Io aspetto di sapere come pensa di affrontarli e risolverli».

«L’impegno della concertazione », per esempio, non è mai stato mantenuto dal Cavaliere, secondo Fini, che cita l’ultimo episodio, «il più eclatante»: il patto di Arcore sulla «bozza Calderoli» per le riforme, e quel che è accaduto dopo. «Non è pensabile che un ministro della Repubblica salga al Quirinale per presentare un progetto di revisione costituzionale, e che dinnanzi alle mie perplessità Berlusconi risponda: "Cosa vuoi che sia...". Cosa vuoi che sia... Ma dove siamo? Dove siamo? ». Non c’è più nulla che unisca il presidente della Camera e il presidente del Consiglio, tranne la comune appartenenza al partito che insieme hanno fondato. E anche questo punto in comune si va velocemente logorando, se è vero che ieri sera i coordinatori del Pdl hanno fatto quadrato attorno a Berlusconi, ponendo l’ex capo della destra quasi fuori dalla creatura che un anno fa ha tenuto a battesimo, e definendo «incomprensibile» il suo atteggiamento.

«Un partito è un partito se si discute e ci si confronta », è la tesi di Fini: «Un partito non può servire solo a cantare "Meno male che Silvio c’è"». Il punto è che «Silvio» ha vinto le elezioni, ribaltando da solo i pronostici che lo davano per sconfitto. Fini lo sa, lo ha detto all’indomani del voto nei suoi colloqui riservati: «Ha vinto lui. Si è preso sulle spalle anche la Polverini ». E il risultato della Lega al Nord ha contribuito a saldare un asse che fa di Berlusconi e Bossi i titolari della ditta, lasciando il presidente della Camera senza ruolo. Il «tridente », che sinora non c’è mai stato, difficilmente potrebbe nascere oggi.

Per conquistarsi lo spazio Fini è pronto al gesto dirompente, alla nascita dei gruppi parlamentari del «Pdl-Italia». Introduce l’argomento ricordando che «all’Assemblea regionale siciliana esiste il gruppo del Pdl e quello del Pdl-Sicilia. Lì Berlusconi non è intervenuto per risolvere il problema, dando l’impressione che del partito non gli freghi nulla, considerandolo poco più di una corte di laudatores. Perciò aspetto, confido in una svolta, altrimenti—come in Sicilia—anche a Roma nasceranno gruppi parlamentari autonomi, pronti a sostenere lealmente il governo, ma ponendosi degli obiettivi politici».

Evocando la Sicilia, Fini sa di lanciare una dichiarazione di guerra, p e r c h é n e l l ’ i s o l a r e g n a l’ingovernabilità. Dunque il problema non è se davvero il presidente della Camera possa contare su una settantina di parlamentari, con una cinquantina di deputati e venti senatori. Il problema è politico: semmai si dovesse riprodurre a Roma la spaccatura del Pdl siciliano, il premier non sarebbe più leader ma diverrebbe «ostaggio», posto al centro di una tenaglia con la Lega a far da contrappunto ai finiani. Nel gioco al rialzo dell’inquilino di Montecitorio è intervenuto il presidente del Senato, chiedendo piatto: «Quando la maggioranza si divide, la parola torna al corpo elettorale». Ed è evidente quale sia lo scopo: minacciando il ricorso alle urne, si vuole evitare che Fini possa infoltire i propri gruppi, posti al riparo dal voto anticipato.

La verità è che nessuno pensa a ribaltoni e ad elezioni. Non ci pensa il premier, non ci pensa il presidente della Camera e non ci pensa tanto meno Bossi. Anzi, proprio il Senatùr è il più fiero avversario della fine traumatica della legislatura, perché in quel caso sfumerebbe il federalismo fiscale, dato che i decreti attuativi non sono stati ancora varati. Di più. Il giorno in cui la Consulta bocciò il lodo Alfano, Fini e Bossi si incontrarono, sottoscrivendo un comunicato in cui escludevano il ritorno alle urne e proponevano di andare avanti con le riforme. Ecco l’incastro, tutti i leader del centrodestra sono vittime e carnefici dello stallo che si è verificato. Non è dato sapere quanto potrà durare la prova muscolare, né se cesserà e quale sarà l’eventuale compromesso. Anche perché Berlusconi giura di non aver capito cosa vuole Fini, «non l’ho capito», ha confidato al termine del vertice: «Gliel’ho anche chiesto». E lui? «Mi ha risposto che il suo pensiero è noto, che l’ha espresso pubblicamente. Mah...». Possibile che il Cavaliere non l’abbia intuito? Perché Bossi, che pure non partecipava a quel colloquio, l’ha spiegato: «Non sono a pranzo con loro perché sarei il terzo incomodo».

Francesco Verderami

16 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI E Confalonieri consiglia la mano tesa
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2010, 04:38:11 pm
E Confalonieri consiglia la mano tesa

«Non credo che il presidente della Camera sia un autolesionista e voglia tornare a un partito dell’8%»


E’ l’amicizia che lo lega a Silvio Berlusconi, perché da sempre è un’altra Lega che lo attrae, e infatti politicamente si definisce un «cripto-leghista», aggiungendo «cripto» solo per pudore. Perciò in questa «lite familiare» tra i «cofondatori» del Pdl la posizione di Fedele Confalonieri potrebbe essere scontata, visto da che parte gli batte il cuore. Invece no, il patron di Mediaset confida che l’«amico Silvio» tenda la mano al presidente della Camera.

Per quanto la vertenza tra Berlusconi e Gianfranco Fini si sia fatta complicata, il capo del Biscione lascia intravedere quale possa essere l’epilogo, che pure nessuno nel Palazzo dà per scontato. Non è un commento il suo, ma una sorta di racconto, una fessura dalla quale è possibile scorgere la scena. Parla Confalonieri, e mentre parla prendono forma i profili dei due protagonisti, i loro stati d’animo. «Al di là delle insofferenze psicologiche, il premier ha molto buon senso. Perciò sono sicuro che agirà da pater familias, anche con Fini, dato che ha a cuore la famiglia Italia».
Semmai servisse una traduzione, è chiaro cosa intende dire: il Cavaliere è stanco di litigi e polemiche, ma non ha interesse a rompere con l’inquilino di Montecitorio, non gli conviene. E da leader gli offrirà un compromesso per l’intesa, dato che ha vinto le elezioni e ora deve governare. «Di Fini, Silvio deve comprendere le impazienze, le delusioni e le insofferenze», ed è così che Confalonieri offre un’interpretazione psicologica dello scontro, invitando entrambi ad un’assunzione di responsabilità, «perché non si può tornare indietro», è impensabile cioè divorziare appena un anno dopo aver fondato il Pdl: «Così la penso, ma...».

Ma non basta che il Cavaliere tenda la mano, anche l’altro «cofondatore» deve farlo: «Se davvero Fini vuole fare un proprio gruppo in Parlamento, lo faccia. A volte è preferibile contarsi, serve la chiarezza. Però, se ripenso alla Dc, che è stato un grande partito, ricordo che la conta si faceva ai congressi, tra correnti e non tra gruppi separati. Quella era politica. Una cosa sono infatti le correnti, altra roba sono i partitini, che è peggio. Perché è chiaro che un gruppo parlamentare porterebbe, inevitabilmente, alla nascita di un’altra formazione. E io non credo che il presidente della Camera sia un autolesionista che voglia tornare a un partito dell’8%». Se per questo Berlusconi valuta la forza elettorale dell’ex leader di An la metà di quanto gli accrediti Confalonieri. Ma non è il momento delle polemiche, «sarebbe ora di finirla, non vorrei che si combattesse con i fantasmi».

Ecco la frase chiave del suo racconto, l’esortazione a sbarazzarsi dei soliti sospetti: «Basta con queste storie che Berlusconi è un dittatore, Fini un cospiratore e Umberto Bossi un barbaro». Il politico Confalonieri - ché di politico si tratta anche se lo smentisce sempre - torna a vestire i panni dell’elettore che fa l’imprenditore, e attende le «leggi» dal governo: «Non dico riforme perché mi viene l’orticaria ogni volta che sento questa parola. Anche la mia nipotina di nove anni ha capito di cosa si tratta. Allora avanti: c’è da rifare lo Stato? Basta parlarne, si avvii il processo. Ci si provi. Non sarà facile, ma il governo ha questo compito. E sono convinto che sotto la ragionevole spinta riformatrice di Berlusconi ci riuscirà».

Da «cripto-leghista», poi, chiede che il federalismo non resti confinato a un voto (quasi) bipartisan del Parlamento: «Il federalismo è una legge - appunto, legge - indispensabile. E al contrario di quanto scrivono alcuni intellettuali un po’ retrò, sarà una svolta positiva, un bene per l’Italia, che si sta meridionalizzando in tutto. Paradossalmente è più importante per il Sud, infatti i politici locali l’hanno capito. Ed è arrivato il momento di smetterla con la storiella che il federalismo spaccherà il Paese, che Bossi ha in mente questo progetto. Intanto l’Umberto non è più il secessionista della prima ora. È un uomo, un politico diverso. E nessuno mette in dubbio l’unità nazionale, di cui non si può fare a meno».

Secondo Confalonieri non si potrà fare a meno neanche di Berlusconi, «ancora per molto tempo». Perciò derubrica a gioco di Palazzo le voci sull’inizio di una corsa alla successione, lo scenario di una guerra in corso tra Fini, Giulio Tremonti e un «terzo uomo», che sarebbe all’origine del parapiglia: «Silvio non ha successori. Il suo erede - risponde tranciante con una citazione - è nel ventre di una vedova che deve ancora partorire». Se così stanno le cose, «e così stanno», se il Cavaliere è destinato a restare a lungo ancora in sella, tutti dovrebbero darsi una calmata. E Berlusconi dovrebbe accettare il consiglio che spesso «Fidel» gli ha rivolto, e che è il senso di una storia «raccontatami da Indro Montanelli»: «Francisco Franco era solito tenere i dossier più scottanti sulla sua scrivania. Giorno dopo giorno quei dossier aumentavano di numero, e lì restavano impilati. Finché una volta al mese, chiamava il suo uomo di fiducia e gli diceva: "Al fuego"».

Francesco Verderami

17 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Schifani: Fini? Se fa politica deve lasciare la Camera
Inserito da: Admin - Aprile 22, 2010, 09:14:22 am
Il presidente del Senato e la sfida nel Pdl

Schifani: Fini? Se fa politica deve lasciare la Camera

«Per avere le mani libere entri nel governo Il ruolo istituzionale impone dei limiti»


ROMA — «Con Gianfranco Fini mantengo un ottimo rapporto personale e istituzionale», ma non è da presidente del Senato che Renato Schifani si rivolge al presidente della Camera, è da dirigente del Pdl che confuta le tesi del collega di partito, lo mette in guardia dagli effetti che la sua iniziativa potrebbe provocare. «Perché confido ancora che non si apra la strada del correntismo nel Pdl, una deriva che più volte Fini criticò, parlando di "metastasi". Appena un anno fa, al congresso di scioglimento di An, disse infatti che nel nuovo partito non ci sarebbe stata correntocrazia, e all’atto fondativo del Pdl ribadì il concetto. Ora purtroppo registro un’inversione di pensiero da parte sua. Tuttavia attendo, spero non accada. Altrimenti...». Ed è così che Schifani introduce un tema delicatissimo, lo fa ricordando che «nell’ultimo periodo Fini ha assunto posizioni e iniziative politiche. Sarà pure "cofondatore" del Pdl ma è anche presidente della Camera. E dinnanzi alla prospettiva di un sistema correntizio nel partito, non vedrei male l’ipotesi che lasciasse Montecitorio ed entrasse nel governo, per avere mani libere e libertà di azione politica rispetto ai limiti che il ruolo istituzionale impone ». Un nodo che - svestendo i panni di presidente del Senato - avrebbe affrontato oggi in direzione, alla quale però non parteciperà. Schifani nega si tratti di una provocazione ai limiti del conflitto tra cariche dello Stato, «non lo è, lungi da me l’idea. Peraltro Fini sta svolgendo il suo compito con autorevolezza e prestigio. È un ragionamento politico, il mio, svolto in chiave costruttiva e non polemica. Altri hanno fatto polemiche, e anche peggio».

Il presidente del Senato si riferisce alla minaccia dei finiani di far nascere nuovi gruppi parlamentari, «un’opzione da un lato insostenibile, alla luce del risultato elettorale che ha premiato il governo e la maggioranza, e dall’altro incompatibile con gli equilibri del centrodestra. Semmai si fosse realizzato un simile scenario, resto dell’idea che la conseguenza inevitabile sarebbe stata il ritorno alla urne, fatte salve le prerogative del capo dello Stato. Ora l’ipotesi è che si vada verso la nascita di una corrente, che a mio avviso farebbe subire un processo involutivo al Pdl. Perché se il correntismo, legato a schemi da Prima Repubblica, divenisse uno strumento per logorare l’azione di governo, ognuno poi dovrebbe assumersi le proprie responsabilità. Sia chiaro, considero positiva la richiesta di un maggior dibattito all’interno del partito. Ma mi auguro che tutto resti dentro un quadro unitario». A detta di Schifani è lo stesso auspicio di Silvio Berlusconi, «che è contrario al correntismo e non lo condividerà mai. Non appartiene alla sua storia politica, alla storia cioè di chi proviene da Forza Italia. So che dentro An era diverso, e comunque - come in ogni partito democratico - le regole sono chiare: le decisioni - tranne sui temi eticamente sensibili - vengono prese a maggioranza, e tutti devono poi adeguarsi.

Diversamente sarebbe un modo surrettizio di costituire gruppi autonomi senza dichiararlo. Ma gli effetti sarebbero gli stessi: chi lo facesse si porrebbe fuori dal Pdl e il voto anticipato tornerebbe ad essere a mio avviso ineluttabile». La direzione di oggi sarà un tornante per molti aspetti decisivo, «e sono certo che Berlusconi si aprirà al dialogo, l’ha sempre fatto. Vorrei ricordare che sulle candidature per le Regionali ha accettato soluzione diverse dalle sue proposte. Perciò penso che dipenda più da Fini l’esito del confronto, e mi auguro che da una fase acuta, da uno sfogo spontaneo, si ritorni alla politica e si trovino i giusti rimedi».

«Dipende da Fini», secondo Schifani, che non condivide l’analisi dell’ex leader di An. A iniziare dalla tesi secondo la quale Berlusconi l’avrebbe isolato. «Intanto è stato lui a scegliere il ruolo di presidente della Camera, che ingessa politicamente. Altrimenti non si sarebbe verificato questo isolamento, che poi è solo apparente. Quali sono stati gli strappi da parte del premier? Non c’è stata scelta priva dell’assenso di Fini: dai candidati alle Regionali, alle leggi sulla giustizia, al federalismo fiscale, ai provvedimenti finanziari. Sulle future riforme nessuno ha preso decisioni. Anch’io non ho condiviso l’iniziativa del ministro Roberto Calderoli di portare al Quirinale la bozza sul semi-presidenzialismo, ma ci sarà tempo perché Fini sieda al tavolo con Berlusconi e Umberto Bossi per arrivare a una sintesi condivisa anche in Parlamento. Preferibilmente non solo dalla maggioranza». Quanto all’accusa lanciata verso il premier di aver consentito che il Senatùr diventasse il «dominus» della coalizione, «è infondata»: «Se una trazione leghista c’è - dice Schifani - è figlia di un’azione politica e programmatica, frutto dell’azione di governo a Roma e soprattutto sul territorio. Non mi pare che la Lega faccia una politica delle poltrone: ha solo tre ministri su ventitrè. Vogliamo parlare del lavoro di Roberto Maroni al Viminale? Dei risultati ottenuti nell’azione di contrasto alla criminalità organizzata e sull’immigrazione clandestina? Del lavoro di Calderoli, che - tranne lo scivolone sulla bozza di riforme - è stato abile a trovare un compromesso con l’opposizione sul federalismo fiscale? Della capacità di Bossi che - abbandonata l’idea della secessione - è stato capace di costruire una nuova classe dirigente giovane e preparata?».

Così parte un’altra pesante critica all’ex capo della destra, «che parla a nome della destra spendendo posizioni e valori che di destra non sono». Di più: «Penso che proprio le sue posizioni su sicurezza, immigrazione, famiglia, hanno determinato al Nord il passaggio di molti elettori di An verso la Lega. È più che lecito cambiare idea, ma occorre poi fare i conti con le conseguenze di questo cambiamento. Non so quanti dei finiani su questi temi siano d’accordo con Fini». Schifani non lo è, «come non sono d’accordo con la tesi che la trazione leghista stia spaccando il Paese e provocando danni al Sud. Di quale Sud parliamo? Perché io sono stanco di un meridionalismo piagnone, assistenziale e clientelare. La sfida federalista, lo dico da parlamentare del Sud, ci impone una svolta culturale. Il federalismo fiscale dev’essere solidale, e su questo siamo tutti d’accordo. Però basta con l’andazzo, per anni nel Mezzogiorno sono arrivati flussi ingenti di danaro, ma è mancata la qualità della spesa. Mi conforta comunque che stia crescendo una nuova classe dirigente che invertirà questa tendenza. C’è un deficit infrastrutturale, certo, infatti spero che il governo presenti presto un piano straordinario, lo deve fare. Ma è impensabile, per esempio, che ancora oggi si assista a quanto accade in Sicilia, dove la spesa della regione è superiore a quella della Lombardia, che ha quattro milioni di abitanti in più».

Erano i temi che Schifani si era appuntato per l’intervento, se oggi fosse andato in direzione. Con un’annotazione finale, «l’auspicio che prevalga il senso dell’unità, che sia tutelato il patrimonio storico del Pdl, nato in nome del bipolarismo. Mi auguro che Fini collabori a preservare tutto ciò, perché le scelte della politica sono irreversibili. Rammento quando nel 1996 disse no alla nascita del governo Maccanico pur di andare al voto, e il centrodestra senza la Lega venne sconfitto». Per il resto non crede alle dietrologie, all’ipotesi che Fini si muova per avviare la fase post-berlusconiana, «non ci credo. Anche perché da sedici anni se ne parla nel Palazzo, ma non sarà il Palazzo a decidere chi succederà a Berlusconi. Saranno gli elettori. Quando arriverà il momento».

Francesco Verderami

22 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Dopo i fuochi d'artificio l'ora dei «Pontieri»
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2010, 10:31:31 am
Settegiorni

Dopo i fuochi d'artificio l'ora dei «Pontieri»

Pdl, il retroscena


Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini sono alla ricerca del bandolo perduto, non per passione né per volontà, ma per ragioni di reciproca necessità. Ed è vero che di margini non ce ne sono (quasi) più, che si sono consumati anche i «pontieri» oltre le parole.
Eppure c’è un motivo se ieri dinanzi al bivio hanno deciso entrambi di fermarsi. Il Cavaliere sarebbe istintivamente ancora tentato di chiedere la testa e la poltrona del presidente della Camera, «ma non ascoltare chi ti consiglia certe cose », gli ha sussurrato Gianni Letta, frenandone le pulsioni in Consiglio dei ministri: «Non otterresti nulla e romperesti tutto. Non avrebbe senso ». E anche Fini, dopo l’alterco in direzione, ha frenato se stesso e la sua pattuglia: «Basta con gli incendiari adesso. Non avrebbe senso».
Tutti cercano di dare un senso a quel che è accaduto, per primo Umberto Bossi, sebbene la sua intervista alla Padania somigliasse al preavviso della fine. Invece no, il Senatùr - che mai mollerà «l’amico Silvio», non gli conviene - ha voluto a suo modo offrire solidarietà al premier, accompagnandola però con una imprecazione per com’è stata gestita la vertenza: «Non si può avere il presidente della Camera messo di traverso, con il federalismo fiscale esposto al rischio. Non ha senso».

Tutti sono fermi al bivio, perché tutti per la loro parte sono responsabili del clamoroso tonfo, provocato paradossalmente dalla vittoria nelle urne. La Lega infatti si è lasciata prendere dall’ebbrezza del successo: prima si è intestata la mediazione sulle riforme, presentando persino la bozza al Quirinale, poi ha annunciato l’ingresso nelle banche manco le avesse già scalate, e infine ha posto l’ipoteca sulla futura presidenza del Consiglio, da affidare «a un amico» dopo Berlusconi. Fini - che si sentiva già stretto e che dopo il voto aveva dovuto constatare la superiorità del Cavaliere nel raccogliere il consenso - ha capito di esser tagliato fuori e ha provato a sparigliare il gioco, sbagliando tempi e modi. E Berlusconi si è trovato a quel punto nelle pesti, siccome ha vestito in ritardo il ruolo di regista, incombenza che gli spetta da leader della coalizione.
Tutti sono fermi anche perché nessuno ha chiaro quale possa essere l’approdo. Così, dopo i toni melodrammatici di due giorni fa, Berlusconi e Fini hanno avvertito la necessità di retrocedere dal davanzale sul quale - per dirla con Giuliano Ferrara - «hanno fatto la figura delle lavandaie». Ed ecco allora i primi segnali concilianti, con il presidente della Camera che inneggia alla «conquista del bipolarismo» ed elogia l’intenzione del presidente del Consiglio di voler procedere sulle riforme «dialogando con l’opposizione ». Ecco Berlusconi che fa sapere di aver chiamato l’ex capo dello Stato, Carlo Azeglio Ciampi, promettendogli di proseguire in parole e opere la sua missione per festeggiare degnamente i centocinquanta anni dell’unità d’Italia, dopo che l’ex leader di An aveva denunciato il las sismo del governo. Ecco infine Bossi, che si dice pronto alla «mediazione » e convinto che «il governo andrà avanti»: ma quali elezioni?

Nessuno oggi è disposto a fare marcia indietro, sia ben chiaro, ma star fermi serve per vedere come passerà la nottata, se e come decanterà la situazione. È ancora troppo presto per far altro, sebbene tutti sappiano che sarà utile, anzi necessario trovare un modus vivendi, a meno di non voler portare i libri (politici) della coalizione al tribunale del popolo, dichiarare insomma il fallimento della legislatura e consegnarsi poi al responso delle urne. Meglio di no. Anche perché il Cavaliere sa - gliel’hanno detto i suoi amatissimi sondaggi - che la gente è infuriata per l’andazzo. Tuttavia al premier non gli basterà una tregua, non può bastargli.
Nessuno gli leva ancora dalla testa che Fini lavori per lavorarlo ai fianchi. È ancora adirato per «l’insolenza » con cui l’altro «cofondatore » del Pdl ha pronunciato il suo nome in direzione. Ma la rottura totale non ha senso, e non solo perché lo consegnerebbe mani e piedi alla Lega, lo esporrebbe anche in Parlamento sulle leggi che gli sono più care: quelle sulla giustizia, per esempio. Stringe calorosamente la mano al finiano Andrea Ronchi in Consiglio dei ministri, ma vuole garanzie da Fini, perciò si valuteranno i suoi atteggiamenti. In attesa di trasformare la tregua in un nuovo e duraturo patto.

Nessuno può garantirglielo se non il presidente della Camera, che vive «un momento difficile», così ha detto. L’ex leader di An in fondo pensa ciò che alcuni suoi fedelissimi dicono. Ed è dall’altro ieri, appena un’ora dopo la plateale lite, che Roberto Menia dice: «Fini e Berlusconi sono condannati a stare insieme per una pluralità di ragioni». Il presidente della Camera deve spezzare l’isolamento, e non basta (anche se serve) discutere senza scatti d’ira al telefono con un coordinatore berlusconiano del Pdl. Deve togliersi di dosso l’etichetta che si è trovato appiccicato dal dibattito in direzione, l’accusa che in modo sottile gli ha lanciato Angelino Alfano: «Questo è un copione scritto per la sconfitta».

Francesco Verderami

24 aprile 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it


Titolo: Francesco VERDERAMI Ma Fini: sì possibile entro agosto
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2010, 11:13:14 am
Politica e giustizia «Ci siamo fatti del male da soli»

Ma Fini: sì possibile entro agosto

Il confondatore del Pdl: «Testo necessario, ma non è certo il migliore»


Sulle intercettazioni Gianfranco Fini si tura il naso. Sebbene critichi il merito e il metodo con cui si è proceduto con la legge, non pare intenzionato a rompere il compromesso politico con il premier. Al momento non è dato sapere quale sarà l'esito del percorso di riavvicinamento tra i cofondatori del Pdl, è certo però che questa strada, ancora lunga e accidentata, passa dal prologo sulle intercettazioni. Una legge su cui il presidente della Camera continua a esprimere ruvidamente delle perplessità, lasciando al premier la paternità politica della scelta e avvisando dei rischi a cui il provvedimento può comunque ancora andare incontro.

Sull'aereo che lo riportava in Italia da una missione all'estero, ha confidato ieri le proprie riserve ad alcuni suoi interlocutori. Il consuntivo di due anni di discussione parlamentare è «sotto gli occhi di tutti». E ci sarà un motivo se la riforma «viene presentata come una legge liberticida, senza che davvero lo sia», se ha «provocato la sollevazione di tutto il mondo dei media », se «è criticata dai quattro quinti del mondo del diritto», se «ha innescato tensioni nella maggioranza». Nel metodo l’esito non lo convince affatto, «non mi pare sia stato un capolavoro politico, bensì la dimostrazione di come ci si possa far del male da soli». Sia chiaro, Fini ritiene «necessaria» la legge, perché «l’uso distorto» dello strumento investigativo e «l’abuso» mediatico delle intercettazioni «impongono di mettere un freno». Ma è «il metodo pasticciato con cui si è proceduto » che addita: «Si è andati avanti a zig-zag, senza una stella polare. Ho perso il conto delle fiducie che sono state poste dal governo in Parlamento. E il risultato? Un compendio di quanto in politica non si deve fare».

Esaurite le obiezioni sul «metodo», ora che il Senato ha licenziato il provvedimento, per l'inquilino di Montecitorio è più facile esprimersi sul «merito » della legge. Il suo è un giudizio pieno di luci e ombre, perché «non c’è dubbio che il testo sia stato ampiamente migliorato, ma non è certo il miglior testo possibile», eppoi «non è detto che se superasse l’esame della Camera, si concluderebbe» la vicenda. Fini ricorda, in modo notarile, che la riforma dovrà prima passare alla firma del capo dello Stato, poi dovrà superare il vaglio della Consulta, senza dimenticare l’eventualità di un referendum: «Mi auguro che quando si terrà quella consultazione il clima sia diverso rispetto ad oggi. Ma se si respirasse la stessa aria di questi giorni, allora non scommetterei sull’esito». Non è il «compagno Fini» che rileva le difficoltà, quasi ad accanirsi, è il dirigente del Pdl che invita a ragionare sui problemi, sapendo al tempo stesso «come va il mondo» e «cosa vuole» il premier. Ecco lo snodo del suo ragionamento, poggia su una constatazione che sta nelle pieghe del regolamento della Camera: «Se il governo e la maggioranza, alla conferenza dei capigruppo di Montecitorio, dovessero chiedermi di calendarizzare subito la riforma, non potrei non tenerne conto». Ecco la prova che il patto tra cofondatori regge, che la lealtà da parte di Fini non viene messa in discussione. «Ma, onori e oneri», avvisa: «Chi si assumesse questa scelta, se ne assumerebbe poi anche la paternità». Insomma, se Berlusconi mira a far approvare le nuove norme sulle intercettazioni entro l’estate, «dovrà farsene carico politicamente », non potrà «nascondersi dietro il voto di astensione» con il quale il Cavaliere ha preso le distanze dalla legge al vertice del Pdl.

Fini non intende far saltare il compromesso, ma pretende chiarezza da Berlusconi. Poi, da presidente della Camera, si atterrà al suo ruolo: «Il tempo per esaminare il provvedimento e votarlo prima della chiusura estiva c’è. Di sicuro la commissione Giustizia avrà la garanzia di valutare approfonditamente il nuovo testo». «Il tempo c’è», è la frase chiave, sebbene l’ex leader di An inviti il premier a prendere in esame i suoi suggerimenti: «Buon senso vorrebbe che si procedesse in modo diverso. Se sono stati impiegati due anni per discutere la legge, non sarebbe un errore sfruttare un po’ di tempo in più, qualche mese, per ridurre il dissenso che c’è attorno a queste norme. Perché non cambiare prima, quello che palesemente è ancora da cambiare? Si eviterebbe un atteggiamento che considero auto-lesionista, e soprattutto si eviterebbe il rischio di fare la fine di Sisifo». Sono considerazioni che Berlusconi già conosce, così come Fini conosce le intenzioni del Cavaliere, deciso ad accelerare il passo per arrivare al varo della riforma entro l’estate e senza ulteriori ritocchi. Se «così va il mondo», se «così vuole» il premier, l’inquilino di Montecitorio ne prende atto, rinnovando però le obiezioni sull’eventuale ricorso al voto di fiducia. Fini non solo è contrario per principio, aggiunge che la mossa non accelererebbe il percorso della legge ma lo rallenterebbe: «Spero che il governo ci pensi bene prima di farlo. Spero ci pensi non due, ma quattro volte». Per approvare la riforma «il tempo c’è». Tuttavia il presidente della Camera considera «prioritario» l’iter del decreto sulla manovra economica. Perciò i deputati si preparino, «si può lavorare a oltranza, e se del caso si possono sfruttare le prime due settimane di agosto». Quando l’ha detto ai suoi interlocutori, Fini ha sorriso, immaginando come verrà presa la notizia a Montecitorio. Conosce l’andazzo, i banchi vuoti della maggioranza, le votazioni in cui il governo va sotto. Ed è da dirigente del Pdl che esprime la propria amarezza: «Il disinteresse è politicamente più grave del dissenso». Ma questa è un’altra storia, o forse è figlia degli stessi problemi che da cofondatore continua a denunciare.

Francesco Verderami

12 giugno 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_giugno_12/Ci-siamo-fatti-del-male-da-soli-Ma-Fini-si-possibile-entro-agosto-verderami_f5ac4572-75ea-11df-9eaf-00144f02aabe.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il presidente del Senato: è opportuno un confronto diretto
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2010, 06:12:25 pm
Il personaggio -

Il presidente del Senato: è opportuno un confronto diretto

Schifani: i rapporti tra il Cavaliere e Fini? Pace strategica o c’è solo la rottura

«Se non si arrivasse a un’intesa mi aspetterei una mossa a effetto da Berlusconi»

   
ROMA— Sveste i panni del presidente del Senato per indossare quelli dell’ «osservatore», solo così Renato Schifani può addentrarsi nei casi politici più spinosi: parla della manovra economica «fatta di sacrifici che gli italiani hanno compreso», della «svolta positiva» che sta per arrivare sulle intercettazioni, di un possibile riavvicinamento tra Pdl e Udc «legati dalla casa comune del popolarismo europeo e dall’affinità di valori e programmi». Ma soprattutto si sofferma sulla crisi del Pdl, critica il nascente correntismo «che rischia di far implodere il partito». E sul difficile rapporto tra Berlusconi e Fini sostiene che «o si arriva quanto prima a una pace strategica, con un ritorno alle motivazioni dello stare insieme, o sarà rottura traumatica» tra il premier e il presidente della Camera. Schifani va per ordine, constata che «il clima avvelenato» delle scorse settimane ha lasciato il campo a «una situazione meno tesa»: «Berlusconi, tornato dal viaggio all’estero, ha dovuto fare i conti con molti fronti aperti. Il suo "ghe pensi mi" stava a significare che si sarebbe impegnato in prima persona. Il "caso Brancher" aveva determinato un clima di conflittualità eccessiva, anche nel Paese. È intervenuto, ha condiviso le dimissioni del ministro, anzi non escludo che lo abbia spinto al gesto, tanto responsabile quanto opportuno.

Sulla manovra ha smussato la durezza di Tremonti, è andato incontro ad alcune richieste del mondo imprenditoriale, del lavoro e degli enti locali. È vero, resta aperto il fronte delle Regioni, ma è stata offerta ai governatori l’autonomia di stabilire dove attuare i tagli. E mi auguro si ristabilisca presto un rapporto proficuo. Ma la crisi economica imponeva rigore». C’è poi il capitolo intercettazioni, e anche in questo caso Schifani attribuisce a Berlusconi «il cambio di rotta», sia perché si tratta di una legge «delicata» sia perché «non era utile né al premier né al Paese uno scontro con il Quirinale»: «Le ulteriori riflessioni alla Camera sono utili. Mi avevano colpito le parole del procuratore Grasso—magistrato molto competente — sul rischio che alcune norme potessero favorire la mafia. Ho voluto incontrarlo, e ritengo giusto che quelle norme vengano scritte meglio per evitare dubbi interpretativi. Ben vengano quindi nuove modifiche. Perciò penso che siamo alla vigilia di una svolta positiva, che la maggioranza voterà in modo compatto la riforma. Emi auguro che anche l’Udc possa farlo». Resta da capire perché il governo non abbia «cambiato rotta» prima, invece di farlo con le spalle al muro. L’inquilino di Palazzo Madama ribatte che «è preferibile avere una buona legge, sebbene dopo tanti scontri, piuttosto che un vuoto legislativo su una materia così sensibile». Così prepara la stoccata al mondo dei media, che ha scioperato contro un provvedimento ritenuto «liberticida»: «Se non ricordo male, la legge Mastella era ancor più rigorosa sul divieto di pubblicazione. E non mi pare ci fu una tale intensità di proteste. Ora, non vi è dubbio che vada salvaguardato il diritto all’informazione. Però serve il bilanciamento con un altro diritto costituzionale, quello della privacy. E il bilanciamento al momento non c’è».

La riforma delle intercettazioni è stato uno dei temi che ha segnato lo scontro politico tra Berlusconi e Fini. Schifani riveste per un istante i panni del presidente del Senato, gli serve per dire al collega di Montecitorio che «come il magistrato dev’essere terzo nell’applicare la legge e nei suoi comportamenti pubblici, così deve essere e apparire anche il presidente di un ramo del Parlamento». Poi, da «osservatore» e da esponente del Pdl, ritiene che nei rapporto tra cofondatori «sia opportuno un chiarimento diretto, in modo che le eventuali dissonanze vengano chiarite direttamente e non attraverso i dibattiti pubblici. Senza una pace strategica si andrebbe a una rottura traumatica. Conosco Berlusconi: denuncerebbe il tradimento del patto elettorale». A quel punto «nulla andrebbe escluso. Mi aspetterei una mossa da parte del premier dura e ad effetto». Ma le tensioni nel Pdl non si riducono al conflitto tra i cofondatori. Anche nell’area ex forzista è iniziato un duro scontro. Schifani gli dà un nome: «Correntismo ». Accusa che peraltro gli era stata lanciata tempo addietro dal finiano Bocchino, secondo il quale il presidente del Senato è a capo di una componente minoritaria in Sicilia, insieme ad Alfano. «Nessuna corrente», è la replica: «Svolgo il mio ruolo istituzionale e basta. E se qualcuno vuol fare riferimento al mio rapporto con il Guardasigilli, ribadisco che sono legato a lui da un legame di stima e amicizia del quale vado orgoglioso. Per il resto sono fuori dall’attività di partito. Accetto di partecipare ai seminari di Gubbio del Pdl, come alle feste del Pd. Detto questo, sono contro le correnti nel mio partito». Schifani ricorda la sua provenienza, Forza Italia, «che non ha mai avuto una storia correntizia. Eravamo un partito anarchico e monarchico al contempo, perché il dissenso si fermava laddove si riconosceva la leadership di Berlusconi, e nessuno pensava di risolvere i problemi territoriali attrezzandosi in corrente. Non è più così. E Liberamente non può che definirsi una corrente, al di là di quanto sostengono i suoi fondatori». Gli stessi che però dicono di essersi mossi dopo l’assenso del Cavaliere. «Io mi rifaccio alle dichiarazioni pubbliche di Berlusconi, che ha rinnegato le correnti. E c’è un motivo: sebbene in buona fede, oggi la creazione di una o più correnti rischia di far implodere il Pdl». Si spiega Schifani: «Non basta riconoscersi in Berlusconi, se poi si creano le condizioni per disaggregare il partito. L’esperienza infatti insegna che se nasce una corrente, altre ne seguiranno. Il Pdl invece deve impegnarsi per amalgamare l’area forzista con quella proveniente da An e che ha preso le distanze da Fini, anche se la storia di quanti vengono dalla destra è più strutturata. Innestando il correntismo, invece, il processo di fusione in atto sarebbe destinato a rallentare, se non ad arrestarsi».

Dilaniato dal conflitto tra Berlusconi e Fini, diviso ora dallo scontro sulle correnti, il Pdl deve fare i conti anche con la «questione morale», sollevata dal presidente della Camera ed evidenziata dai recenti casi giudiziari. Schifani ammette che «negli ultimi tempi molte inchieste hanno colpito esponenti di rilevo del partito. E tutto ciò non ha aiutato l’immagine del Pdl.Ma la mia cultura garantista mi induce ad attendere l’esito delle inchieste. Ritengo comunque esagerato parlare di questione morale nel Pdl. Ci possono essere singoli casi che hanno turbato l’opinione pubblica e che toccherà alla magistratura verificare». Il carico di tutti questi problemi è sulle spalle del premier, che stretto dalla Lega (e Tremonti) da una parte, e da Fini dall’altra, sembra cercare la sponda dell’Udc per uscire dalla morsa. A modo suo l’«osservatore» Schifani sembra dar credito all’aggancio dei centristi in maggioranza, lo fa con prudenza. Ma lo fa: «L’Udc sta con il Pdl nel Ppe. Su molti temi, quando erano alleati, avevano una visione comune: penso alla politica estera, alla politica economica, a quella per le famiglie. Poi le contrapposizioni, provocate da questioni interne, hanno pregiudicato il cammino comune. Oggi, quello che posso dire è che i due partiti continuano ad avere gli stessi valori, che sui programmi ci sono molte affinità, e che la base elettorale dell’Udc guarda più al centrodestra che al centrosinistra». Ed è osservando cosa accade nel terreno dell’opposizione che Schifani auspica un «cambio di rotta» del Pd, anche in nome delle riforme: «L’antiberlusconismo dell’Idv sta condizionando i Democratici, che invece hanno gli uomini, le intelligenze e il tempo per costruire una credibile alternativa di governo, piena di contenuti. Ritengo indispensabile che il Pd sia un partito forte, perché l’alternanza è la ricchezza di un sistema democratico. E il bipolarismo per noi è strategico, e va salvaguardato».

Francesco Verderami

11 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_luglio_11/verderami_schifani_pace_strategica_54f19c3c-8cbe-11df-bfcf-00144f02aabe.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Fini-Casini, dopo lo strappo torna l'asse Uniti ...
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2010, 10:35:47 am
La strana coppia - Il presidente della Camera: quadro cambiato alla fine della legislatura

Fini-Casini, dopo lo strappo torna l'asse Uniti dal «subgoverno», si allontanarono nel 2008

Ora si telefonano quasi ogni giorno


ROMA — Sei anni fa furono sul punto di ribellarsi, sei anni fa furono tentati di rovesciare Berlusconi colpendolo dritto al cuore del suo potere: quello televisivo. Sei anni fa Fini e Casini discussero se affondare in Parlamento la riforma che più stava a cuore al Cavaliere, e dare così inizio alla sua fine. Chissà quale corso avrebbe preso la storia politica italiana se «Gianfranco» e «Pier» avessero spinto fino alle estreme conseguenze il loro intendimento, coltivato a lungo e maturato segretamente in una serata d'inverno, dopo che Ciampi — da capo dello Stato — aveva rinviato la legge Gasparri alle Camere. Nessuno dei due se la sentì di affossare il provvedimento con un colpo di mano, a scrutinio segreto. Fini, che allora era vice premier, dovette invece dare il via libera alla riforma e potè solo scherzare durante il Consiglio dei ministri che gli toccò presiedere, siccome Berlusconi dovette allontanarsi dal salone di palazzo Chigi insieme a Gianni Letta per una questione di forma, visto l'evidente conflitto d'interessi.

Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini (LaPresse)
Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini (LaPresse)
ILARITÀ - «Ora chiamiamo Silvio e lo avvisiamo che abbiamo bocciato la legge. Gli prenderà un colpo», disse l'ex leader di An suscitando l'ilarità dei colleghi dell'esecutivo. In realtà quella battuta nascondeva un desiderio represso. Sei anni dopo non c'è più il famoso «sub-governo» che tra il 2001 e il 2006 tentò di contrastare l'«asse del Nord» nel centrodestra. Ma nonostante uno strappo che ha segnato i rapporti tra Fini e Casini, i due ultimamente hanno ripreso a dialogare. Si vedono e si aggiornano, quasi ogni giorno, per telefono. A giugno hanno viaggiato in aereo verso Genova. Giovedì scorso, prima di andare a cena da Vespa con Berlusconi, «Pier» è passato a prendere un aperitivo da «Gianfranco». Insieme analizzano la situazione e discutono di un futuro senza il Cavaliere. «Di qui alla fine della legislatura — teorizza ormai da un anno il presidente della Camera — cambierà radicalmente il quadro politico». Ma il futuro non ha la forza di imporsi, almeno non per ora, altrimenti sarebbe già successo. È sempre «Silvio» il capo, è lui che continua a dettare il ritmo degli eventi, malgrado abbia il fiato grosso e in molti pensino che con questo passo non potrà reggere fino al 2013. Non è chiaro se Fini e Casini abbiano questo schema in mente, è certo che hanno smesso di illudersi anni fa, quando Berlusconi li gabbò entrambi, annunciando ad Aznar — in occasioni diverse — che «lui sarà il mio successore».

TURBOLENZE - Naturalmente non se ne fece nulla. E oggi Fini e Casini non solo sanno che il Cavaliere non darà loro il testimone, sono anche consapevoli del rischio che corrono: quello di essere travolti, per motivi diversi, dalla fine di Berlusconi. Ecco perché hanno bisogno di stare insieme, per affrontare la turbolenta stagione del «dopo». Per quanto, a vario titolo, abbiano preso le distanze dal premier, sono comunque legati al suo destino. Alla vigilia del voto nel 2008, era stato proprio l'alleanza con Berlusconi la causa del loro divorzio politico e soprattutto della rottura personale. «E se è vero che in politica può succedere di tutto — spiegò in quei giorni Casini — umanamente non mi sarei mai aspettato certe cose da Gianfranco. Mi sono sentito ferito». Il capo dei centristi non salì sul predellino e per più di un anno rimuginò sugli incontri con Fini, sull'idea di costruire insieme un'alternativa moderata, magari aiutati nel progetto da Montezemolo. Il risentimento fu reciproco e profondo, è stato un vecchio dc come Pisanu a impegnarsi per farli ritrovare. Forse è rimasta un'ombra tra i due, ma è tornata la complicità, segnata da qualche diffidenza e da una naturale rivalità.

STORIA VIRTUALE - Era il 2006, vigilia di elezioni, quando Landolfi — allora ministro uscente delle Comunicazioni — fece un discorsetto al leader di An, davanti a una pizza: «Gianfranco, l'hai capito che il tuo competitore non è Berlusconi ma Casini?». «Mario, lo so. Il problema è che Berlusconi si crede immortale». Sempre Landolfi, pochi mesi fa, è andato a stuzzicare Casini dopo la clamorosa rottura tra il Cavaliere e Fini alla direzione del Pdl: «Pier, si sta per liberare un posto di delfino nell'acquario di Silvio...». «Scuuusa caaaro, cosc'è che sta succedendo?», sorrise il capo dei centristi. Sta succedendo che Fini è pronto a far la guerra a Berlusconi «se tra agosto e settembre» non si arriverà a un'intesa. L'ha comunicato a Cicchitto: «Guarda», ha detto al capogruppo del Pdl aprendosi la giacca e mimando di essere un kamikaze: «Sono imbottito di tritolo. Se salto io, salta anche lui. Dillo a Silvio». Il cofondatore del Pdl è pronto a verificare se il Cavaliere saprà gestire un'eventuale crisi di governo in autunno: «E se per caso si andasse al voto dopo una rottura, ci andremmo separati. Ne farei un punto d'onore». Lavorerebbe cioè per farlo perdere. Al momento però è solo un gioco virtuale, come la storia di un allargamento della maggioranza all'Udc. Berlusconi vorrebbe Casini ma è bloccato dal veto della Lega, che teme per sé e teme anche per le sorti di Tremonti, costretto nel 2004 alle dimissioni da Fini e dai centristi. Casini a sua volta non vuol fare «la parte del figliol prodigo» e chiede a Berlusconi ciò che il Cavaliere non intende dargli: l'apertura formale di una crisi di governo, che si sa come inizia ma non come finisce. «Gianfranco» vorrebbe riunirsi a «Pier», fosse per lui l'intesa sarebbe già fatta, perché - come racconta Follini, che li conosce bene - «c'è una forte affinità politica tra i due e perfino di carattere. È vero che di questi tempi è più facile litigare con i propri simili, ma scommetto che loro eviteranno di farlo. L'interesse reciproco è mettere il sigillo sulla fase che si aprirà dopo Berlusconi». Certo, sarà complicato mettere insieme dei politici abituati ormai a partiti leaderistici, dunque a comandare: è come far convivere più di un gallo nello stesso pollaio. Per il futuro la soluzione sarebbe quella di tornare al passato, allo schema della Dc, dove erano tanti i capi che si contendevano il potere dentro un sistema di regole condivise. Casini - come Fini - a questo pensa: «Dopo Berlusconi il problema si porrà. Sarà questa la strada».

Francesco Verderami

13 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_luglio_13/09_PRIMO%20PIANO_VERDE_7d9de54a-8e36-11df-864f-00144f02aabe.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il vertice Pdl tiene la linea dura
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2010, 11:45:25 am
Il retroscena

I timori del premier sul legittimo impedimento

«Dopo un anno parole senza senso»

Il vertice Pdl tiene la linea dura


ROMA — Si poteva davvero «resettare tutto»? Berlusconi avrebbe mai potuto accettare la mano che Fini gli ha teso in extremis, dopo aver «resistito ad attacchi e critiche»? L’intervista concessa al Foglio dal presidente della Camera ha dapprima colto di sorpresa lo stato maggiore del Pdl, a partire dal Cavaliere, che leggendo il testo ha commentato: «Queste non sono parole di Fini, questa è farina del sacco di Giuliano Ferrara». Poi comunque la mossa dell’ex leader di An è stata giudicata dal premier «tardiva, senza senso e difensiva». Perciò non pare intenzionato a voltarsi indietro, perché a suo modo di vedere l’ex leader di An ha già superato il punto di non ritorno. Un conto erano infatti i contrasti sulle questioni politiche, «lo stillicidio durato un anno», altra cosa è stato il salto di qualità che si è avuto quando l’inquilino di Montecitorio ha sollevato la questione morale, tema che solitamente segna in modo irrimediabile i rapporti politici.

Il Cavaliere l’ha vissuto come un affronto, «perché nessuno può fare il moralista, nè può ergersi a moralizzatore, nemmeno Fini». Ecco cosa divide i cofondatori del Pdl, ecco perché tutto si è complicato, sebbene ieri Gianni Letta abbia tentato di aprire un varco su un sentiero ormai ostruito. È il «giustizialismo» che separa Berlusconi da Fini, siccome — ha detto il Cavaliere in mattinata a un suo ospite — «questo cancro non appartiene al mio dna, né al dna del partito che voglio costruire. Ed èmia intenzione portare a compimento una battaglia per fare dell’Italia una democrazia liberale compiuta, non più prigioniera di una magistratura politicizzata».

Già in quelle ore Fini gli appariva distante, metabolizzato come «un avversario »: «Al contrario di lui non sono un professionista della politica. Potrei andarmene e lasciare le cose come stanno. Se resto è perché penso che non sia più tollerabile la situazione». È stato il preludio alle dichiarazioni pubbliche, all’annuncio che «nei prossimi tre anni libererò l’Italia dall’oppressione giudiziaria, legislativa, burocratica e fiscale». Rilanciando la stagione delle riforme costituzionali, a partire — guarda caso — dalla giustizia, il Cavaliere ha lanciato la sfida a Fini, e non solo a lui. Dietro la «tentazione» di ritirare il provvedimento sulle intercettazioni - «massacrato da tutti gli interventi che non restituiranno il diritto alla privacy agli italiani» - si celava un duro messaggio rivolto al Quirinale.

D’altronde Berlusconi si è convinto che la battaglia in cui le inchieste giudiziarie incrociano settori politici «che stanno dentro il centrodestra» è molto più violenta del passato. La decisione della Consulta di anticipare l’esame del legittimo impedimento è stata per lui la conferma. Come spiega Vizzini, «la Corte è un arbitro, perciò l’accelerazione sorprende. Perché dovrà essere esaminata una legge che ha una durata limitata, ed è il prologo di un intervento costituzionale. Vorrei sbagliarmi, ma se l’arbitro si prepara a fischiare il fuorigioco prima ancora che inizi l’azione, vuol dire che intende mettere intenzionalmente in fuorigioco il giocatore. Cioè Berlusconi».

Il Cavaliere sa che non c’è tempo per attivare lo «scudo» del lodo Alfano costituzionale e sa dunque di essere esposto nei processi a suo carico. Ogni escamotage in sede dibattimentale potrebbe rivelarsi un rischio che non può permettersi. Perciò servirebbe una nuova «legge ponte», a meno di non riesumare il processo breve, l’arma di fine mondo che giace alla Camera. La posta è alta, e in questa posta vanno considerati i pro e i contro dello showdown con Fini. Già ieri pomeriggio esponenti del governo facevano mostra di alcune paginette in cui il premier aveva stilato la road map, che comprendeva l’espulsione dal partito di Fini e dei suoi fedelissimi, oltre il ritiro delle deleghe ai ministri e sottosegretari vicini al presidente della Camera.

L’ex capo di An terrebbe di riserva l’opzione di fondare un nuovo partito, Destra Nazionale, ma intanto ha cercato di sparigliare il gioco. Al vertice del Pdl, riunito in serata dal Cavaliere, c’è chi ha spinto per chiudere subito il conto, chi ha evidenziato che —dopo l’appello di Fini al «patto con gli elettori» — sarebbe un errore espellerlo, «ne faremmo un martire». Così ha preso corpo una nuova soluzione, che poi è la vecchia idea di Berlusconi: accettare la mano destra del cofondatore, «che viene a Canossa», e amputare la sua mano sinistra, attivando «i «provvedimenti» contro i finiani per «incompatibilità». Ecco come il premier isolerebbe il presidente della Camera. Ma quali saranno i «provvedimenti»? Si arriverà all’espulsione? La sfida non è terminata. Mancano ancora delle mosse al finale di partita. La prossima è l’ufficio di presidenza del Pdl di stasera.

Francesco Verderami

29 luglio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_luglio_29/verderami-pdl-linea-dura_c04bcdb0-9ad1-11df-ad9d-00144f02aabe.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Fini resiste: «Berlusconi lancia anatemi, ma non decide lui»
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2010, 09:03:21 am
«Nazione» per i gruppi

Fini resiste: «Berlusconi lancia anatemi, ma non decide lui»

«Scelta maldestra, non mi dimetto: la carica non è nelle sue disponibilità. E parlerò agli italiani»


«Siamo all’anatema», dice Gianfranco Fini, evocando lo strumento che veniva usato per risolvere le controversie teologiche e di potere, quando due Papi erano troppi per guidare una Chiesa. Insomma più che un traditore, il presidente della Camera si sente un eretico al cospetto di Berlusconi, del suo «strano modo di concepire un partito liberale di massa», del metodo «assai maldestro» adottato per disfarsi di quello che il Cavaliere considerava ormai un anti-papa. «Parlerò agli italiani», annuncia Fini, che non ha intenzione di lasciare lo scranno di Montecitorio, come il premier gli ha chiesto, imponendo all'Ufficio di presidenza del Pdl di inserire «due righe» nel documento che ha sancito lo scisma. «Va scritto che se ne deve andare dalla Camera», ha intimato ieri mattina Berlusconi. «Ma presidente, non si può fare», lo ha supplicato Ghedini. Niente da fare. «Dica quel che vuole», ha sorriso Fini: «Non mi dimetto. Questo incarico non è nelle sue disponibilità». Ora che il divorzio si è compiuto, ora che il premier parla di «incompatibilità», per l'ex leader di An «non c'è più possibilità di recuperare alcun tipo di rapporto»: «Quello che si poteva fare l'ho fatto».

L'intervista al Foglio è stato l'ultimo gesto, che non è piaciuto a molti dei suoi, e che il presidente della Camera ha spiegato così: «Dovevo evitare che passassi per quello che vuole rompere. Ora però continuare oltre non avrebbe senso, non si farebbero passi avanti. Bisogna pensare a qualcosa di diverso». Perciò sono in gestazione i gruppi parlamentari autonomi che avranno l'inquilino di Montecitorio come punto di riferimento. E siccome nessuno ci aveva pensato prima, ieri sera è iniziato tra i finiani una sorta di referendum sul nome da dargli: «Italia nazione», «Nazione e libertà». La definizione sarà un dettaglio ma i gruppi saranno per Fini una sorta di linea Maginot, molto consistente se è vero che i futuri componenti sono più di trenta: «Berlusconi ha sbagliato i suoi calcoli. Pensava fossimo in pochi. D'ora in avanti — ha avvisato i suoi — vedrete che tenterà di aggredirci, di accerchiarci e poi lentamente di assorbirci, eliminando quella che considera un'anomalia».

Questa linea Maginot andrà vigilata e rinforzata. Per evitare crepe, in un fronte non del tutto coeso, Fini ha ribadito ciò che il fedele Ronchi aveva pubblicamente anticipato: «Saremo leali al governo». Certo c'è una contraddizione tra lo strappo con il premier e la «fedeltà al centrodestra», ma se il presidente della Camera si appella al «patto stipulato con gli elettori», è perché non può permettersi operazioni trasformistiche, non intende farlo, dato che il bipolarismo resta la sua stella polare: «Infatti non ci sarà nessun ribaltone», sottolinea. La sua forza sta oggi nei numeri del gruppo, che soprattutto alla Camera «sarà decisivo, anzi determinante. E condizionerà l'azione di governo. Si tratta di un segnale molto forte, alla faccia di chi sosteneva che contiamo appena l'1,4%... Ma noi non siamo nè saremo mai dei traditori». Così rispedisce al Cavaliere l'accusa, sebbene debba ancora valutare «le conseguenze politiche» della rottura, quali scenari cioè si apriranno di qui in avanti. Perché tra i finiani c'è chi — come il senatore Augello — ritiene che il premier punti alle elezioni anticipate: «Gianfranco, è a questo che mira Berlusconi. La sua maggiore preoccupazione oggi è bloccare le operazione di Tremonti. Se ha deciso di drammatizzare lo scontro con te, lasciando tutti i nodi politici aggrovigliati, è perché pensa di tagliarli con un colpo d'accetta al momento opportuno. In fondo, attaccandoti così, sa che gli renderai la pariglia. E quindi...».

Fini al voto anticipato non ci crede, almeno non ancora. Molte sono poi le variabili da calcolare, i boatos da verificare. Per esempio l'atteggiamento dell'Udc verso il governo, le voci secondo le quali Berlusconi sarebbe pronto a fare una nuova offerta a Casini già a settembre. E ancora l'ipotesi che — in caso di ritorno alle urne — il Cavaliere offra ai centristi un'alleanza «tra partiti», riconoscendogli l'autonomia decisa nel 2008. Inizia per il presidente della Camera una nuova era, piena di incognite e con un fallimento che peserà anche sulle sue spalle. È da vedere se potrà mai riconciliarsi con il premier, che ancora l'altra sera ha confidato: «Quando si tornerà a votare magari lo riprendo, ma ora lo caccio». L'ex leader di An non mai ha digerito questo atteggiamento, però siccome ognuno è un po' berlusconiano a casa propria, ieri Fini ha avvisato tutti i suoi uomini: «D'ora in avanti se qualcuno dice una parola di troppo, lo caccio».

Francesco Verderami

30 luglio 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_luglio_30/verderami_fini_resiste_7bad0ffe-9b9c-11df-8a43-00144f02aabe.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Cambio di rotta: il Pd si converte al "voto subito"
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2010, 03:59:15 pm
25/8/2010 (7:8)  - CENTROSINISTRA. OPPOSIZIONE AL BIVIO

Cambio di rotta: il Pd si converte al "voto subito"

Cresce la voglia di elezioni il prima possibile, anche senza accordo sul candidato premier

FEDERICO GEREMICCA
ROMA

A volerla prendere così, cioè con una battuta, si potrebbe arrivare a dire, come nell’antico proverbio, «quando troppo e quando niente». Nel senso che, dopo settimane di incertezza di fronte alla decomposizione della maggioranza di governo - e di qualche evidente (e giustificato) timore di elezioni anticipate già in autunno - il Pd ha cominciato a riscaldare i motori e a battere un colpo. Anzi, due. O forse addirittura tre: cioè probabilmente troppi. E troppi, per altro, su una coppia di temi delicatissimi e potenzialmente deflagranti: e cioè la futura candidatura a premier e le alleanze elettorali.

Nel giro di una decina di giorni, infatti, il drappello di aspiranti candidati alle primarie si è assai infoltito. Alle possibili candidature quasi «istituzionali» di due leader di partito come Bersani e Di Pietro, infatti, si sono via via aggiunte (per ora) quelle di Nichi Vendola, di Sergio Chiamparino e - secondo alcuni osservatori - quella non impossibile di Walter Veltroni, tornato ieri a esporre il proprio punto di vista in una lunga e impegnata lettera al Corriere della Sera. Quattro o cinque candidature - a elezioni nient’affatto scontate e a primarie del tutto incerte (se si votasse già a dicembre, sarebbe arduo organizzarle...) - sono probabilmente troppe: e a volerla dire tutta, rischiano di apparire non solo spia di confusione, ma anche possibile premessa di forti tensioni all’interno del campo delle opposizioni.

Né è più chiara la situazione sul fronte delle possibili alleanze elettorali con le quali andare alla sfida con Berlusconi. Qui si fronteggiano, in maniera via via più agguerrita, due linee di fatto contrapposte: potremmo definirle quella della «Santa alleanza» (tutti assieme contro Berlusconi, dai comunisti di Vendola fino ai moderati di Casini) e quella delle origini, la cosiddetta «vocazione maggioritaria» (poche alleanze e solo tra forze programmaticamente omogenee). E’ la linea - quest’ultima - che Walter Veltroni ha riproposto ieri sul Corriere della Sera in maniera molto netta, registrando consensi e dissensi tutto sommato prevedibili. Tutti prevedibili meno, forse, uno: il no di Dario Franceschini, prima vice e poi erede di Veltroni alla guida del Pd, «co-fondatore» con lui di Area Democratica (la minoranza interna del partito) ma ora su posizioni assai diverse in tema di alleanze. Non è questione da poco, come è evidente: ad esso, infatti, sono strettamente legati il tipo di legge elettorale verso il quale spingere e, addirittura, l’assetto maggioritario e bipolare del sistema politico del nostro Paese.

«Resto dell’idea che le uniche alleanze credibili siano quelle fondate su una reale convergenza programmatica e politica», ha scritto Veltroni. E Franceschini ha replicato: «Durante la Resistenza i nostri padri non persero tempo a domandarsi se erano liberali, comunisti, per la monarchia o per la Repubblica, per la legge proporzionale o maggioritaria, ma decisero di iniziare a discuterne dopo la Liberazione». E’ una disputa che rischia di crescere di tono. E di non esser risolta tanto in fretta, visto che chiama in causa non soltanto la capacità del Partito democratico di raggiungere un punto di mediazione al proprio interno, ma anche le opzioni strategiche e la disponibilità ad allearsi delle altre forze dell’opposizione (da Casini a Di Pietro, per finire a Vendola).

Ma che il Pd abbia cominciato a entrare nell’ordine di idee che forse alle elezioni - Bersani volente o nolente - ci si potrebbe arrivare davvero in fretta, è comunque un segno. Per settimane e settimane, infatti, l’ipotesi è stata respinta come il peggiore dei mali possibili. E’ già stato autorevolmente detto e scritto che, di fronte allo sfarinamento della maggioranza di governo, era lecito attendersi dalle opposizioni la richiesta di scioglimento del Parlamento e di nuove elezioni, come accade in larga parte delle altre democrazie europee. E del resto, perché mai temere il voto di fronte alla cupa parabola berlusconiana?

Invece, a torto o a ragione, è proprio questo il sentimento dominante che sembra esser «passato» nell’opinione pubblica a proposito dell’opposizione tutta e del suo maggior partito in particolare, cioè il Pd: timore. Il timore, cioè, che la crisi politica della maggioranza sfociasse in crisi di governo e in elezioni immediate. Da qui, come si è visto e letto, il fiorire di definizioni di ogni genere per governi che impediscano un tale epilogo: dal governo tecnico a quello costituzionale, dal governo di scopo a quello a tempo, per la sola riforma della legge elettorale.

Ipotesi suggestive ma, onestamente, poco credibili e poco praticabili. Ed è il crescere di questa consapevolezza che ha spinto molti esponenti del gruppo dirigente democratico a scendere finalmente in campo. Ora si attende una parola da Pier Luigi Bersani. Ma il tempo stringe. «Quando si è cominciato a parlare di crisi - lamenta il giovane Pippo Civati - avevo proposto ai colleghi di partito di non andare in vacanza. Ma guardando la situazione mi pare che il partito in vacanza ci è andato eccome...». Poco male. Settembre è in arrivo, la danza può ricominciare...

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57912girata.asp


Titolo: Francesco VERDERAMI Il Cavaliere ricorda la sconfitta del '96 e frena l'alleato
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2010, 09:03:20 pm
Centrodestra |

Gli scenari «Gruppo di responsabilità»

L'ultima carta anti-crisi

Il Cavaliere ricorda la sconfitta del '96 e frena l'alleato


«Tenere saldo l’asse con Bossi e costruire l’intesa con Casini». Ecco la strategia di Berlusconi, giocata sul presente con la Lega e proiettata sul futuro anche con l’Udc, non per ottenere il sostegno dei centristi all’attuale governo ma per strutturare un’alleanza che possa risultare vincente se e quando si tornerà alle urne. Non ora, certo. Il Cavaliere ha fatto di tutto per scongiurare le elezioni.

Berlusconi ha spiegato la scelta richiamandosi al «senso di responsabilità che ci impone di fare le riforme, governare il Paese, rassicurare i mercati finanziari dove sono in scadenza titoli di Stato italiani per centinaia di miliardi». In realtà il premier non vuole andare al voto adesso anche perché teme di esporsi ad una crisi al buio, ai rischi connessi di un governo tecnico—per quanto ipotetico — che porterebbe con sé «il tentativo di modificare la legge elettorale». Ma c’è di più: i suoi amatissimi sondaggi rilevano «la contrarietà del Paese alle elezioni anticipate, un crescente astensionismo. E questo per noi non è un buon segno».

Niente urne, dunque. Così si è aperta una faglia nel rapporto con Bossi, che ieri ha minacciato pubblicamente di votare «contro il governo» pur di tornare al corpo elettorale già a novembre. Il Cavaliere ritiene che quella del leader leghista sia «una delle sue solite tirate, per dare un segnale di forza al suo popolo e mobilitarlo», siccome per il fine settimana è prevista la manifestazione dell'ampolla sul Po. In parte Berlusconi dice il vero, d'altronde il capo del Carroccio sa che non è più possibile andare alle urne a novembre. È stato Maroni a spiegarlo l'altra sera al vertice di Arcore: «Per riuscirci, il governo si dovrebbe dimettere entro la prossima settimana. Altrimenti non ci sarebbero i tempi tecnici».

Insomma, Bossi è consapevole che quella data è sfumata, che è costretto a sfruttare solo mediaticamente il 15% di cui lo accreditano oggi i sondaggi: magari se ne servirà per ottenere altro, «la candidatura di un leghista a sindaco di Milano», sussurra andreottianamente un autorevole ministro del Pdl. Sarà, ma c’è dell’altro. Perché il capo del Carroccio aveva fatto più di un pensierino alle elezioni in autunno, al punto che tre giorni fa ha rimproverato il premier di non aver fatto precipitare la crisi a fine luglio, nei giorni dello strappo con il presidente della Camera: «Così saremmo andati al voto a ottobre, prendendo Fini e l’opposizione di sorpresa. E avremmo vinto, Silvio».

«Silvio» però non si è fidato (e non si fida) di tornare così davanti al Paese. È «il mio sesto senso», cioè i sondaggi, che l’hanno trattenuto, facendogli tornare alla memoria come «nel ’96 fui costretto da Fini alle elezioni, mentre io dicevo che avremmo perso. Infatti...». Il Cavaliere non vuole commettere lo stesso errore, perché «è vero che la sinistra non potrà mai battermi», ma è altrettanto vero che al Senato potrebbe non ottenere la maggioranza: «Non è in questo modo che voglio giocarmi la mia ultima partita». Perciò ha fatto resistenza passiva alle pressioni di Bossi: a luglio come adesso. E se in piena estate gli bastò spiegare al Senatùr che non c’erano ancora le «condizioni politiche» per ripresentarsi alle urne, ora ha dovuto escogitare altri stratagemmi.

È stato Berlusconi infatti, dinnanzi alle insistenze del leader del Carroccio, a proporgli di salire al Colle per parlare con il capo dello Stato. Il Senatùr, e con lui i suoi uomini, pensavano che l’appuntamento sarebbe servito per concordare con Napolitano una sorta di road map di fine legislatura, cioè tempi e modi per andare alle elezioni. Peccato che il Cavaliere li abbia spiazzati, annunciando che al Quirinale sarebbe stata sollevata la questione dell’inquilino di Montecitorio e della sua «incompatibilità istituzionale»: «Umberto, sei stato tu a dirmi che Fini può restare nella maggioranza con il suo partito solo se lascia prima la Camera. E con chi ne possiamo parlare se non con il presidente della Repubblica?». Il diversivo ha funzionato, nonostante sia costata al premier una figuraccia e un’ulcera perforante a Gianni Letta. E giusto per evitare sorprese, ha deciso di andare in Parlamento a fine mese, ben oltre il tempo massimo per le elezioni in autunno.

Berlusconi ha bisogno di tempo per sviluppare la strategia che gli impone di non rompere con Bossi e di aprire a Casini. Già sa che l’operazione è ad alto rischio, se poi anche Tremonti si mette di traverso... Il ministro dell’Economia infatti ha un ruolo importante in questa partita, il Cavaliere ritiene che faccia «dieci parti in commedia» e che «aizzi la Lega»: c’è chi nell’inner circle berlusconiano ipotizza addirittura che a «Giulio» il pareggio alle elezioni potrebbe anche star bene, perché sarebbe lui poi il candidato a palazzo Chigi in un governo appoggiato giocoforza dall’opposizione. Cattivi pensieri, che nella corte di «Silvio» fanno presa, ma senza prove. Solo qualche indizio a sostegno della tesi che il titolare di via XX settembre spingerebbe per il voto: nei giorni scorsi, dopo che Napolitano aveva parlato della crisi economica, il superministro ha spiegato che per l’autunno non serve una manovra correttiva. Quasi a dire che un eventuale ritorno alle urne non confliggerebbe con la tenuta dei conti pubblici.

L'unico dato certo è che ieri Bossi ha scatenato il putiferio con la sua esternazione dopo aver parlato con Tremonti. Sarà stato un caso. Ma non è un caso che all’Ufficio di presidenza del Pdl tutti i dirigenti abbiano criticato la sortita del leader leghista, che «ha sbagliato tempi e modi». La linea era stata concordata, manco a dirlo, con Berlusconi. Mentre il Cavaliere annuiva è stato notato il volto rabbuiato del ministro dell’Economia che non ha preso la parola al vertice del partito. Assicurano che non fosse mai accaduto.

Non rompere con Bossi oggi e legare domani con Casini. Così il premier vuole andare avanti, partendo dal voto di fiducia alle Camere, dove confida che «la maggioranza sarà più ampia di prima». Giura Berlusconi che l’obiettivo non verrà raggiunto con una «compravendita » di deputati, ma ritiene che - sulla base del suo discorso - si formerà in Parlamento «un gruppo di responsabilità, pronto a sostenere il governo». Il Cavaliere sa, l’ha detto ieri al vertice del Pdl, che «l’allargamento della maggioranza a Umberto non piace». Ma è questo il suo primo obiettivo: garantirsi una piattaforma di sicurezza con almeno 316 voti a Montecitorio, che rendano ininfluenti quelli del gruppo dell’Fli. Al tempo stesso Berlusconi non ha alcuna intenzione di rompere con i finiani, almeno non ora, anche perché ieri si è aperta una trattativa sullo «scudo giudiziario». Ghedini, sherpa del premier, al termine di un colloquio con un ambasciatore del presidente della Camera ha riferito a Berlusconi sulla bontà del progetto. Bossi, diventato guardingo e sospettoso, ha chiesto garanzie all’alleato: «Fini non dovrà mai diventare la terza gamba della coalizione». E il Cavaliere l’ha promesso, in cambio di una non ostilità della Lega verso l’operazione che mira a costituire quel «gruppo di responsabilità » in Parlamento. È il passaggio obbligato per il presente, in attesa di tornare a lavorare per il futuro, per costruire l’intesa con Casini in vista delle elezioni, se e quando ci saranno. Con Fini fuori dall’alleanza, Berlusconi sa che sarebbe impossibile rivincere al Senato senza i centristi. «E sul fatto che l’Udc arrivi dopo, Bossi è d’accordo», giura il ministro Matteoli. Sarà, intanto il Cavaliere è pronto sul trapezio: lo attende un duplice salto mortale, stavolta senza rete.

Francesco Verderami

09 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Titolo: Francesco VERDERAMI Amarezza e solitudine di Letta il mediatore: «Non so ...
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2010, 05:02:31 pm
Settegiorni - L'ira verso i finiani

Amarezza e solitudine di Letta il mediatore: «Non so quanto resisto»

Letta ritiene «dissennato» il modo in cui si sta muovendo il Cavaliere.

L'affondo contro chi diffonde «false» voci, «ben sapendo che non hanno fondamento»

Settegiorni - L'ira verso i finiani


L'ultimo che cercava di dividerli ha fatto un passo indietro, perché mai Gianni Letta si sarebbe aspettato di finire coinvolto nella rissa tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini. Perciò ha vissuto come un attacco personale l'estrema difesa praticata alcuni giorni fa dal presidente della Camera, che ha consentito ai suoi seguaci di addossare ai servizi segreti la responsabilità di una manovra tesa a screditarlo con l'affaire della casa di Montecarlo. Gianni Letta si è sentito «preso di mira» e «usato strumentalmente», siccome dell'intelligence italiana ha la delega a palazzo Chigi. Né gli è bastata la precisazione di rito il giorno dopo, quella cioè che permette di togliersi dall'imbarazzo, scaricando sui «servizi deviati» ogni responsabilità.

Il suo umore tracimava dalla nota della presidenza del Consiglio, che si era incaricato di scrivere di persona con espressioni che non gli appartengono e con un messaggio in fondo al comunicato, che aveva nell'inquilino di Montecitorio il destinatario: una denuncia di «totale irresponsabilità» verso chi diffonde «false» voci, «ben sapendo che esse non hanno il minimo fondamento». Sta in quel «ben sapendo» il riferimento a Fini, un modo per ricordargli quanto già aveva avuto modo di spiegargli.
Insomma, se i due ex alleati hanno deciso di usare le istituzioni come armi per distruggersi l'un l'altro, sarà pure affar loro. Ciò che il sottosegretario alla Presidenza non accettava (e non accetta) è che il presidente della Camera avesse dimenticato l'impegno profuso dall'«uomo delle eterne mediazioni» per tentare di arrivare, se non a una nuova intesa tra i cofondatori del Pdl, quantomeno a un compromesso, a un «modus vivendi», per evitare il disastro.

«Non consentirò a nessuno di farmi trascinare in questa storia» urlava Letta tra lo stupore di quanti nella sede del governo assistevano alla scena, e che sapevano quanto il braccio destro del Cavaliere fosse contrariato per quel tramestio che sentiva salire da palazzo Grazioli, per quel via vai di personaggi equivoci che avevano (e hanno) accesso alla corte di Berlusconi. Anche Fini conosceva l'opinione di Letta, «ben sapendo» - gli era stato garantito dal sottosegretario - che i servizi non c'entravano nulla con le rivelazioni sulla casa di Montecarlo pubblicate dai giornali.
Ed è vera, non un gioco delle parti, la divergenza di opinioni tra il premier e Letta che ritiene «dissennato» il modo in cui si sta muovendo il Cavaliere, disposto a pagare un prezzo politico altissimo pur di chiudere i conti con il presidente della Camera. Un prezzo così alto da mettersi personalmente a repentaglio. Perché se la strategia di Berlusconi è garantirsi a breve termine uno scudo giudiziario e andare avanti con la legislatura finché sarà possibile, la tattica dello show down con Fini lo danneggia, mette a repentaglio l'esecutivo e non consente di trovare un compromesso sulla giustizia. E non è il solo Letta che si dispera, persino Nicolò Ghedini si è arreso dinanzi alla furia del premier: «È inutile. Berlusconi non ci sente, non ci sente».

La politica ormai non c'entra più, tra ex alleati è diventato un fatto personale. E se il presidente della Camera dice con tono minaccioso che «Silvio non ha ancora visto nulla», il presidente del Consiglio dice con tono divertito «qui si vede tutto», motteggiando su una foto di Fini senza veli. Abituato com'è alle tonache dei cardinali, Letta non ci sta, non ci può stare, allo sventolio delle mutande. Né può sopportare i novelli cortigiani del premier che provano a inventarsi strateghi della politica. Ecco spiegata la battuta con la quale negli ultimi tempi ha accolto i suoi ospiti: «Resisto. Non so fino a quando...». Ecco perché non ha accettato di venir coinvolto nello scontro tra Berlusconi e Fini, perché ha apprezzato le parole usate ieri da Pier Ferdinando Casini, la «sincera fiducia» espressa dal leader dell'Udc verso Letta: «Mi fido di lui e della istituzione dei servizi segreti guidati da Gianni De Gennaro». E nonostante la distanza che li separa, lo scontro che divide i centristi dal premier, il sottosegretario ha voluto chiamare l'ex presidente della Camera per ringraziarlo.

Il punto è che Letta vede ormai un Paese politicamente capovolto, appeso alla conferenza stampa di un ministro di un'isola caraibica, e teme che i duellanti - un tempo alleati - non si rendano conto del rischio a cui si sono esposti. È vero che anche lo scontro tra Chirac e Sarkozy non si limitò alla politica, che in Francia la guerra nel centrodestra arrivò a utilizzare anche la contestazione dei rimborsi chilometrici per le auto di servizio, ma il sottosegretario alla presidenza del Consiglio confida ancora che in Italia non si arrivi al cupio dissolvi. Spera che Berlusconi per una volta lo senta e in Aula la prossima settimana non chieda le dimissioni di Fini da presidente della Camera. Anche se con Fini è calato il gelo.


Francesco Verderami

25 settembre 2010
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Titolo: Francesco VERDERAMI Il colloquio tra Fini e Gianni Letta
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2010, 11:23:19 am
Il caso montecarlo

Le parole sui Servizi, il primo passo per riaprire il dialogo

Il colloquio tra Fini e Gianni Letta

   
ROMA - Sarà per ragioni di realpolitik, per tatticismo o per reciproco interesse personale, ma il dialogo tra Berlusconi e Fini riparte, attraversando una fragile passerella sospesa nel vuoto, che al Guardasigilli Alfano - fedelissimo del premier - richiama alla mente «il ponte sul fiume Kwai»: «E su quel ponte bisognerà muoversi con attenzione, sapendo che dovremo tenere l'equilibrio e che mentre lo attraverseremo si sentiranno i colpi di mortaio». Il dialogo tra (ex) alleati è ripreso dopo il videomessaggio serale di Fini. Anzi, è ripreso prima che il filmato andasse in onda. Tutto è iniziato ieri mattina, quando il presidente della Camera ha avuto un colloquio con Gianni Letta, irritato per gli attacchi agli 007 italiani, mossi in questi giorni dai finiani nel tentativo di difendere l'immagine del loro leader colpita dall'«affaire Montecarlo». Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio riteneva che la terza carica dello Stato non potesse permettersi di attaccare direttamente o indirettamente i servizi segreti, ed è partendo da quel chiarimento che il dissapore ha lasciato spazio al confronto tra i due.

Così Fini ha mosso il primo passo sul «ponte Kwai». E senza fare alcun cenno all'«allarme democratico», ha riconosciuto «la lealtà istituzionale» dell'intelligence, concludendo il suo discorso con quel «fermiamoci pensando al futuro del Paese» indirizzato al presidente del Consiglio. Toccava all'ex leader di An dare un segnale, che Letta ha riferito al Cavaliere, invitato a raccogliere l'appello: «Sarebbe irresponsabile fare altrimenti». Raccontano che Berlusconi non abbia visto il filmato di Fini, d'altronde non ne aveva bisogno dato che il suo braccio destro a palazzo Chigi l'aveva decrittato per lui: il «richiamo» agli interessi nazionali, l'«impegno» a riprendere il confronto, la «volontà» di far proseguire la legislatura, e in più quell'«ammissione di leggerezza» commessa nel «caso della casa» monegasca, erano un messaggio chiaro. Sfrondato il discorso da alcuni passaggi che Letta ha riferito al Cavaliere come «asprezze», mentre altri berlusconiani hanno bollato come «provocazioni», il premier ha accolto il giudizio positivo espresso dal sottosegretario alla Presidenza, e la linea che - insieme all'ala trattativista del Pdl - gli è stata consigliata: si può tornare a discutere, «su basi serie» e per di più da una posizione tattica di forza.

L'analisi infatti è che Fini sia consapevole delle difficoltà in cui si trova per la faccenda di Montecarlo. E se non si è assunto la responsabilità di rompere, bruciando l'ultimo vascello alle sue spalle, è perché teme che l'Fli si sfaldi, che una parte dei suoi gruppi parlamentari - già in fibrillazione e ostile alla linea dura - si dissoci. Sarà tatticismo, realpolitik o interesse personale, di certo il presidente della Camera è salito sul «ponte Kwai». E anche Berlusconi deve farlo, non solo per andare a vedere il gioco dell'ex alleato. Anche il Cavaliere - per quanto detesti Fini e sia ricambiato - ha necessità di irrobustire quella fragile passerella. Il premier non può consentire all'opposizione di sfruttare lo scontro tra «cofondatori», lanciando all'opinione pubblica il messaggio che «quei due perdono tempo a farsi la guerra dimenticando i problemi del Paese», come ha iniziato a fare Casini. Né può prestare il fianco ai leghisti, che proprio su questa falsariga continuano a fagocitare il consenso del Pdl nei sondaggi, rimarcando la litigiosità dell'alleato a fronte della loro operosità. Eppoi Berlusconi deve ricostruire al più presto uno «scudo giudiziario» che lo metta al riparo dalla sentenza della Corte Costituzionale sul legittimo impedimento. Ha bisogno del Fli per disinnescare il timer, altrimenti il lodo Alfano costituzionale rischia di restare bloccato in commissione al Senato. E ormai manca poco al 14 dicembre...

Quel «ponte sul fiume Kwai» serve insomma anche al Cavaliere, che non può né vuole andare subito alle urne. Bossi invece - che mira al voto anticipato - osserva con sospetto l'ultimo tentativo di compromesso, e non a caso ieri sera ha provato a far saltare la passerella attaccando Fini, «che se dice basta al gioco al massacro, significa che si dimette». Saranno tanti i «colpi di mortaio» che attendono quanti vorranno saggiare la solidità del ponte, ma ieri da Bondi a Cicchitto a Gasparri, gli uomini del premier hanno provato a rinforzarne i canapi. Come spiega il vice capogruppo del Pdl al Senato, Quagliariello, «alcune cose dette da Fini continuano a essere inaccettabili, come l'equiparazione tra giudizio etico e giudizio penale, che è come far coincidere la moralità con la questione morale. Ma rispetto al discorso di Mirabello i toni sono completamente cambiati. E l'appello a pensare ai problemi del Paese va accolto». Tutti pronti a salire sul «ponte». Reggerà?

Francesco Verderami

26 settembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_settembre_26/le-parole-sui-servizi-il-primo-passo-per-riaprire-il-dialogo-francesco-verderami_f18c5a26-c93d-11df-9f01-00144f02aabe.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI La strada difficile del «governo d'emergenza»
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2010, 12:33:44 pm
Il retroscena

D'Alema scettico: non è pronto nulla.

E Casini prepara il «Patto per la nazione» con Fini e Rutelli

La strada difficile del «governo d'emergenza»


A Bastia Umbra si è prodotto uno sbrego istituzionale al cospetto del quale impallidisce perfino quello che a suo tempo provocò la marcia su Roma. Gaetano Quagliariello, PdlFli e Udc trattano con il Pd.

Finanziaria e legittimo impedimento gli scogli per il Cavaliere


Chi ha l'asso in mano? Perché il gioco al rilancio sta per finire, e si vedrà se Berlusconi - grazie al sostegno della Lega e di Tremonti - eviterà l'Opa di Fini e di Casini, o se la legislatura sopravviverà a se stessa con un governo tecnico, fantasma che in queste ore viene evocato o temuto da quanti vedono avvicinarsi comunque lo spettro delle elezioni anticipate.

Si può vivere da separati in casa, così hanno fatto per mesi il premier e il presidente della Camera, ma è impossibile restare sotto lo stesso tetto da divorziati. E ieri l'ex leader di An ha sancito lo strappo, sebbene abbia tentato di non assumersi la paternità della crisi, lasciando a Berlusconi la scelta di dimettersi prima di ritirare la delegazione di Fli dal governo. Era chiaro che il Cavaliere avrebbe respinto la proposta avanzatagli da Fini e da Casini: «Quei due pretendono le chiavi di casa, ma io non sono disposto a dargliele». È chiaro che toccherà ai futuristi l'ultima mossa.

Il tema è cosa accadrà dopo. Sarà allora che si vedrà chi ha l'asso in mano. Il premier si mostra sicuro dopo essersi garantito la fedeltà di Bossi e di Tremonti, l'anello debole della sua linea di difesa fino a un mese fa, perché il ministro dell'Economia era considerato il potenziale successore del Cavaliere a palazzo Chigi. Ma Tremonti ha voluto per tempo allontanare da sé ogni sospetto: «È vero che io sarei l'unico a poter guidare un governo tecnico. Ma non intendo vivere il resto dei miei giorni passando per un traditore».

Perciò Berlusconi sostiene di non temere un cambio in corsa, «e se in questa fase la mia irrisolutezza è percepita come debolezza, poco importa. Sto solo recitando una parte». Sarà, ma nel giro stretto dei suoi fedelissimi c'è chi teme che la «permeabilità» dei gruppi parlamentari possa portare a un drammatico smottamento, nel caso in cui si andasse alla prova di forza del voto anticipato per chiudere la partita con Fini. Anche perché il suo rilancio viene interpretato da una parte del Pdl come il gioco di chi può contare sul sostegno di Napolitano.

Ecco quale sarebbe l'asso del leader di Fli, che ieri non solo ha rivelato di avere in mano già una coppia, cioè l'intesa con Casini, ma ha fatto pure intuire il possibile arco di forze politiche e sociali che starebbero nel mazzo per un possibile nuovo governo: oltre a un patto con Udc e Pd per modificare la «vergognosa» legge elettorale, non è un caso se Fini si è attardato a illustrare una sorta di piattaforma programmatica mutuata dall'accordo Confindustria-sindacati «per un nuovo patto sociale».

Ma è un asso ancora ballerino, quello di Fini, se è vero che ancora giorni fa D'Alema spiegava a un compagno di partito che «non c'è nessun governo tecnico all'orizzonte, perché non è pronto nulla». E come D'Alema è scettico anche Casini. Non solo il leader centrista scommette da mesi con i dirigenti del suo partito che «se cade Berlusconi si voterà in primavera», ma si sta attrezzando alla bisogna, e ha già trovato persino il nome per il famoso terzo polo da tenere a battesimo con Fini e Rutelli: «Lo chiameremo Patto per la nazione». Chissà se ha cambiato idea da giovedì, da quando - appena rientrato dagli Stati Uniti - ha avuto un colloquio riservato con il capo dello Stato...
Ma nel Pdl c'è chi ritiene che Fini bluffi, che l'asso non sia nelle sue mani, che il Colle voglia star fuori dal gioco del governo tecnico, a cui in queste ore vengono affibbiati tanti nomi pur di vestirlo di dignità politica: esecutivo di «emergenza nazionale», gabinetto «del presidente», governo di «responsabilità istituzionale», di «maggioranza per le riforme». A parte il fatto che non basta un nome a tramutare una carta in asso. Il gioco prevede che qualcuno chiami il banco.

Potrà apparire surreale, ma da ieri le parti si sono rovesciate: per un presidente della Camera che in modo irrituale apre la strada a una crisi extraparlamentare, c'è un presidente del Consiglio che invoca il rispetto delle regole. Non gli bastano le eventuali dimissioni dal governo dei futuristi, vuole il voto di deputati e senatori: «E non avranno il coraggio di sfiduciarmi».

Il vice capogruppo del Pdl a Palazzo Madama, Quagliariello, anticipa come si andrà a vedere il gioco di Fli: «Se Fini chiedesse ai suoi di lasciare l'esecutivo, Berlusconi li rimpiazzerebbe e verrebbe subito in Parlamento a chiedere la fiducia. Al Senato il voto è scontato. Se la Camera gli votasse contro, non credo che Napolitano si prenderebbe la responsabilità di far nascere un governo tecnico senza il Pdl e la Lega». È un bluff o un rischio calcolato?

E se Berlusconi passasse indenne il voto di fiducia, con l'appoggio esterno di Fli, su quale provvedimento potrebbe cadere?
Sgombrato il campo dalla giustizia, di qui a dicembre restano la Finanziaria e il decreto sullo sviluppo. Tremonti ha già dato la propria disponibilità al confronto con Fli sulla legge di Stabilità, pronto però a piazzare la fiducia se iniziasse l'assalto alla diligenza del partito della spesa: «Non permetterò che passi un solo euro senza copertura».

Giocare l'asso mettendo a repentaglio i conti pubblici è cosa assai rischiosa, a meno di non porre proprio sull'economia le basi di un nuovo governo. Resta da capire chi ha quella carta in mano. Di sicuro nessuno la mostrerà prima di dicembre, quando la Consulta farà il suo gioco sul legittimo impedimento e la Lega si farà i conti sul federalismo.

FRANCESCO VERDERAMI

08 novembre 2010
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Titolo: Francesco VERDERAMI Bossi e Berlusconi: resistere un mese
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2010, 05:59:58 pm
Retroscena - LA LINEA CONTRO IL GOVERNO TECNICO

Bossi e Berlusconi: resistere un mese

Il Senatùr «esploratore» per sondare Fini


ROMA - Di Fini e di Casini non si fidano, «il gatto e la volpe» li chiamano Berlusconi e Bossi.
Perciò è praticamente impossibile che il Cavaliere e il Senatur scendano davvero a compromesso con il presidente della Camera e il leader dei centristi. Ma è utile alla causa mostrarsi oggi disponibili al confronto, serve a scongiurare un'immediata crisi di governo, a prender tempo perché la strategia che hanno stabilito possa risultare vincente. Devono resistere fino a dicembre, è questo il patto che hanno sottoscritto nel reciproco interesse: e non solo perché per quella data Berlusconi attende la sentenza della Consulta sul legittimo impedimento e Bossi conta di ottenere l'ultimo decreto sul federalismo.

Il timing va rispettato soprattutto se «Silvio» e «Umberto» vogliono evitare di soccombere ai loro avversari, dediti a quello che il Guardasigilli Alfano definisce «il gioco di Palazzo, la nascita cioè del cosiddetto governo tecnico, o del presidente, o di transizione, o di scopo, o di responsabilità nazionale. Tanti nomi per evitare che venga usato quello vero: il governo del ribaltone». Per ogni definizione c'è un candidato, Draghi e Monti sono i più citati tra i dirigenti del centrodestra, che ne parlano come a voler esorcizzare l'eventualità, confidando nel ruolo di Napolitano.

Intanto devono resistere Berlusconi e Bossi, che ieri si è inventato il ruolo di «esploratore» alla bisogna, e per sondare Fini ha mandato in avanscoperta Maroni, lo stesso che due settimane fa - al Federale della Lega - aveva indicato ai colleghi di partito la data più probabile delle elezioni nella prossima primavera: «La settimana dopo la pasqua ebraica», che cade nella seconda decade di aprile. È vero che il Senatur era parso frenare sul ricorso alle urne, giorni fa, vigilia della convention dei finiani. «Questo non è il momento di andare al voto. Sarebbe sbagliatissimo», aveva lasciato filtrare in via confidenziale, per poi dire in pubblico: «Berlusconi e Fini si devono vedere». Voleva vedere l'effetto che la mossa avrebbe fatto sul presidente della Camera e anche sul presidente del Consiglio, al quale chiedeva di accelerare i tempi sul federalismo.

Incassate la rassicurazioni sulla riforma che gli sta a cuore, è scontato immaginare che Bossi starà al fianco del Cavaliere, e non accederà alla richiesta di Fini, l'apertura cioè della crisi per arrivare a un Berlusconi bis con l'ingresso dell'Udc nel governo. A parte i rischi che la trattativa porta con sé, è evidente che un simile accordo non potrebbe limitarsi al solo organigramma del nuovo esecutivo e al suo programma, ma conterrebbe le clausole sugli assetti futuri dell'alleanza: dal prossimo candidato premier, al prossimo candidato al Colle. Nel primo caso certamente non sarebbe Berlusconi. Nel secondo caso quasi certamente non sarebbe Berlusconi. Ed è chiaro a chi non starebbe bene un simile patto.

Ecco su cosa hanno davvero rotto il Cavaliere e Fini. E se un'intesa del genere non è stata chiusa in un anno e passa di trattative tra il premier e il presidente della Camera, è pensabile che venga chiusa adesso in una settimana? Per quanto Berlusconi e Bossi abbiano nel loro orizzonte le elezioni, il timing va rispettato, e al momento devono fronteggiare il pressing del presidente della Camera che è pronto a ritirare la delegazione del Fli dal governo se non riceverà subito risposta alla sua proposta. Il premier però non può muoversi, non adesso, sebbene a sua volta minacci di chiedere a Ronchi le dimissioni in una prossima riunione del Consiglio dei ministri. Ma la crisi al momento non va formalizzata in Parlamento, dove Casini dice che «Pisanu si metterà alla testa di un pezzo del Pdl» se il Cavaliere deciderà di andare alle elezioni. In realtà il governo non esiste più, alla Camera non ha maggioranza nelle commissioni. E se la legge di Stabilità non verrà toccata, è perché Napolitano si è pubblicamente premurato di «coprirla», per evitare i gravi riflessi che una bocciatura del provvedimento finanziario provocherebbe sui mercati.

Resistere, resistere, resistere: è questo oggi il motto di Berlusconi e Bossi, in attesa di dicembre. Non è dato sapere come andrà a finire la sfida della crisi, anche se il premier avrebbe rassicurato il capo della Lega su un nutrito gruppo di parlamentari dell'opposizione che al momento opportuno verrebbe in loro soccorso. Ma dopo quello che successe mesi fa, il Senatur a questa sorta di «gladio berlusconiana» crede poco.

Francesco Verderami

09 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
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Titolo: Francesco VERDERAMI Il piano anti Silvio di Fini
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2010, 10:20:56 pm
Gli scenari

Ribaltone mai, prova in Aula

Il piano anti Silvio di Fini

L'obiettivo: un altro governo sostenuto dal centrodestra


ROMA - Ha l'ambizione di porre termine all'era berlusconiana, ma con una sfida a viso aperto non con un colpo a tradimento, perciò Fini non è intenzionato ad appoggiare un ribaltone.
Se il presidente della Camera non riuscirà a piegare il Cavaliere in Parlamento, costringendolo a passar la mano ad un altro premier «sostenuto dal centrodestra», ci proverà allora nelle urne, e al più presto. Il duello sta per iniziare, se è vero - come raccontava ieri Gianni Letta - che Berlusconi torna in Italia «con spirito agguerrito e battagliero», deciso a contrastare quanti vorrebbero disarcionarlo, e pronto a riesumare il discorso con cui nel '95 denunciò «le trame di Palazzo» che lo costrinsero a dimettersi da capo del governo. Si tratterebbe per l'occasione di sostituire solo il nome di Bossi con quello di Fini.


COERENZA - Ma nonostante le accuse di «tradimento» e di «intendenza con il nemico», la magistratura, c'è una coerenza nella linea del capo dei futuristi che una lettura deformata della recente storia politica disconosce. È da quattordici anni infatti che «Gianfranco» è in competizione con «Silvio», è dal '96 che prova a strappargli il primato del centrodestra: fu lui che nel '96 costrinse Berlusconi al voto, mirando al sorpasso di Forza Italia con An; fu lui che giocò la carta dei referendum elettorali e quella dell'Elefantino alle Europee; e sempre lui - «pentito del Pdl» - due anni fa entrò alla Camera dicendo che «la legislatura non finirà com'è iniziata». Ora la contesa si rinnova, e per quanto il conflitto non preveda una riconciliazione, Fini intende muoversi sempre «nel recinto di centrodestra», così ha detto a Bastia Umbra e così ha ripetuto a Bossi. Forzerà la mano, lo sta già facendo, per dar corso al «ricambio generazionale» in questa legislatura. Se però l'impresa non gli riuscisse, se nel Pdl come nella Lega non prevalesse questo tentativo, tanto varrebbe - è suo convincimento - andare subito al voto, da una posizione tattica di forza, sicuramente migliore rispetto al Cavaliere. Perché l'uomo che parlava agli elettori ha smarrito la magia di un tempo, e le urne potrebbero consegnargli un risultato amaro al Senato, costringendolo al passaggio di consegne.


CONTROINDICAZIONI - Ma per «incarnare il moderatismo italiano», per intercettare e non alienarsi quella larga parte di consenso, Fini sa di non poter commettere «un errore storico», quello citato dal pdl Giuliano Cazzola, che ieri ha ricordato come «i comunisti riuscirono a liquidare il craxismo, ma non furono in grado di annettersi i voti socialisti». Ecco perché l'idea della scorciatoia - un governo cioè con una maggioranza risicata e sostenuto solo dal Fli e dalle opposizioni - non lo convince: intanto consegnerebbe la pattuglia dei futuristi ostaggio della sinistra, in virtù dei rapporti di forza in Parlamento, eppoi offrirebbe il fianco a Berlusconi. Sono troppe le controindicazioni, anche rispetto all'ipotesi di un esecutivo che in tre mesi dovrebbe modificare il sistema di voto e portare il Paese alle urne. Il presidente della Camera è stato chiaro, «l'attuale legge è vergognosa, perché toglie ai cittadini il diritto di scegliersi un candidato».


BIPOLARISMO DA DIFENDERE - Ma sarebbe possibile varare una riforma senza il consenso del Pdl e della Lega, senza cioè le forze che hanno vinto le ultime elezioni? E soprattutto, che ne sarebbe del bipolarismo che è stato il tratto distintivo di Fini, e che lui stesso a Bastia Umbra ha definito «un valore»? Riuscirebbe a difenderlo nel gioco delle trattative da quanti vorrebbero seppellirlo insieme alla Seconda Repubblica?
Un conto è la sfida al Cavaliere, «e su questo - ripete il presidente della Camera - non torno indietro». Un conto è smentire la propria storia, le battaglie referendarie e l'idea di un sistema che quelle battaglie si portavano appresso. Per raggiungere l'obiettivo di «andare oltre il berlusconismo», il leader del Fli sta tentando di vincere le resistenze del premier in Parlamento, e come confermava ieri il leghista Calderoli - presente all'incontro di Montecitorio tra Fini e Bossi - «nessuno pensa o ha mai pensato a maggioranze diverse da quella attuale per uscire dalla crisi».


LE URNE - Se il premier invece dovesse insistere, «o me o le elezioni», allora si torni alle urne, cancellando - come ha scritto ieri il Secolo - «l'inaccettabile tentazione di un piazzale Loreto». Il Cavaliere sarà l'avversario da battere e non da abbattere, e nell'impresa Fini si alleerà con Casini e Rutelli, sebbene ancora non sia chiaro il patto: un'alleanza organica o un'intesa tecnica per colpire Berlusconi sul suo tallone d'Achille, cioè al Senato.
Il resto del copione va ancora scritto, la rottura tra gli (ex) alleati sarà ufficializzata lunedì, quando il Fli farà uscire la propria delegazione dal governo. L'ultimo scontro avverrà nelle Aule parlamentari, nei giochi delle mozioni, nelle ultime trattative per anticipare la fine di un'era. Se così non fosse, Fini vuol portare l'ultima sfida a Berlusconi a viso aperto e non con un colpo a tradimento.

Francesco Verderami

13 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_novembre_13/verderami-fini-ribaltone-mai_6a8223d2-eef7-11df-979e-00144f02aabc.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Ma rimane il nodo delle garanzie. Fini: deve fidarsi
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2010, 10:56:28 am
Il premier vorrebbe l'astensione dei futuristi per arrivare al massimo a un rimpasto

Quella bozza d'intesa nelle mani di Letta

Ma rimane il nodo delle garanzie. Fini: deve fidarsi


Non è solo l'ottimismo della volontà che porta Gianni Letta a essere «molto fiducioso» sulla mediazione con il Fli, per evitare quel voto di fiducia del 14 dicembre che - a suo dire - «va scongiurato».
Se il braccio destro del Cavaliere confida in una soluzione a tempo ormai scaduto ci sarà un motivo.

Se per Letta il nodo della vertenza tra Berlusconi e Fini è «sulle garanzie» reciproche, vuol dire che il negoziato si è spinto molto avanti, nonostante i duellanti si mostrino ancora la faccia feroce. E in effetti la bozza d'intesa - di cui è custode il sottosegretario alla presidenza - è già zeppa di appunti: passa da un accordo sulla politica economica, tiene dentro l'approvazione del federalismo fiscale e la riforma del sistema elettorale.

Tutto fatto, dunque? Niente affatto. Perché sull'iter della crisi non c'è intesa. L'ipotesi caldeggiata dal Fli è che il premier presenti in Parlamento il suo programma, recepisca nel corso del dibattito l'apertura dei finiani, e prima del voto di fiducia salga al Colle per dimettersi, in modo che - come diceva ieri Bocchino - «entro 72 ore» riceva il reincarico. Il Cavaliere però non fa mostra di recedere, vuole il voto delle Camere e la «prova di fedeltà» del Fli, «almeno l'astensione», così da passare dopo dal Quirinale e avviare un «rafforzamento del governo». Niente Berlusconi bis, insomma. Al massimo un rimpasto.

D'altronde sulle «garanzie» non c'è convergenza. Letta aveva sondato Fini in tal senso, perché - in caso di dimissioni - ci fosse già una rete di protezione, un documento sottoscritto da i due (ex) alleati che garantisse il percorso della crisi. Ma il presidente della Camera ancora ieri sera resisteva: «La precondizione è che Silvio si dimetta. Per il resto, niente documenti, deve giocare a fidarsi. Altrimenti il 14 si vota. E se non ha i numeri, o riesce ad ottenere le elezioni o si va a un nuovo governo». È chiaro che se Fini facesse oggi un passo indietro, darebbe di sé e del suo gruppo l'immagine dei soldati iracheni che ai tempi di Desert Storm si arrendevano alle troupe televisive. Ed è altrettanto chiaro che nemmeno il premier ci pensava (e ci pensa) a consegnarsi.

Tuttavia Letta continua a essere «fiducioso», e chissà se il suo ottimismo si fonda sulle vistose crepe che appaiono nel Fli, nelle parole pronunciate dal finiano Moffa, secondo cui «non è indispensabile che Berlusconi si dimetta» per dar vita a «un patto che porti l'Italia fuori dalla crisi». Il dirigente futurista da mesi manifesta il suo dissenso interno, al pari di altri sostiene di aver firmato la mozione di sfiducia contro il governo solo come «strumento di pressione negoziale per arrivare a un accordo prima del voto». Ma non è disposto ad andare oltre, non crede all'opzione del terzo polo, e dice apertamente di interpretare «il sentimento di molti» nel gruppo.

Se l'argine del Fli dovesse cedere, se Fini si accertasse in queste ore che non tutti i suoi sono disposti a seguirlo nello show-down con il premier, allora sì che cambierebbe tutto, non solo i numeri alla Camera che il Cavaliere dice già di avere. Muterebbe il quadro politico, obiettivo al quale Berlusconi ha lavorato nelle ultime settimane. «Con l'Udc si è capito che si perde tempo», ha sentenziato due sere fa, dopo che Casini aveva rifiutato un invito a cena organizzata dal capo del governo per il suo compleanno. Il capo dei centristi non sta al gioco, a suo avviso «nemmeno Fini»: «Se poi Gianfranco volesse davvero riformare l'alleanza con Silvio, che sarebbe per lui un suicidio, io comunque non ne farei parte».

Casini puntava (e punta) al superamento del berlusconismo, ha lavorato di sponda con il presidente della Camera perché il premier si dimettesse prima del voto di fiducia e passasse la mano, ma proprio Letta - a cui avrebbe dato il suo sostegno per un nuovo esecutivo - ha criticato la sua tattica: «Pier, state sbagliando tutto. Berlusconi non si dimette. Inutile insistere, lui è irremovibile». Che il premier sia indebolito non c'è dubbio, ma a quanto pare non è imbolsito, se è vero ciò che ha raccontato il leader della Cisl ad un amico, dopo aver incontrato il Cavaliere. «Meno male che lo facevano giù di tono e privo di idee», ha commentato Bonanni al termine di un colloquio al quale ha partecipato anche il presidente di Confindustria, Marcegaglia: «Lui dice di avere i numeri alla Camera».

Bonanni appartiene alla schiera di chi considera «una iattura» le elezioni anticipate, e in tal senso si è adoperato con gran riservatezza. In fondo nemmeno Berlusconi vuole le urne, «se c'è una soluzione sono disponibile, perché per me il voto è solo l'extrema ratio». Ma dell'opzione si è servito (e ancora si serve) come arma difensiva contro gli avversari. E se non ha ceduto alle pressioni per dimettersi è perché «bisognava tenere la posizione per far esplodere le contraddizioni nel Fli, e far saltare sul nascere il terzo polo». La crepa nel gruppo futurista è un indizio che avvalora le confidenze del premier: «Con i finiani il dialogo non si è mai interrotto. Mai».

Passa allora di qui la mediazione di Letta? Di sicuro sulla legge elettorale il negoziato è in fase avanzata. È a Scajola che Berlusconi ha affidato il compito, è lui che ha preso in considerazione le proposte per riformare l'attuale sistema di voto: la soglia al 45% per ottenere il premio di maggioranza alla Camera; l'introduzione del premio calcolato su base nazionale al Senato; il ritorno della preferenza. L'opzione non piace all'ex ministro come al Cavaliere, perché consegnerebbe le coalizioni nelle mani dei partitini, custodi del «voto di utilità marginale».

Piuttosto viene preferito il ritorno al Mattarellum, con una nuova mappa dei collegi elettorali, così da consentire un più stretto rapporto tra elettori ed eletti.
Scajola conferma che la trattativa è in atto: «Modificare il sistema di voto non è un tabù per il premier». Che intanto si è premunito, facendo simulare ogni tipo di riforma e traendo da quei report riservati buoni auspici.

Chissà se la bozza di accordo curata da Letta tornerà utile prima o dopo il voto del 14, se non si arriverà cioè allo scontro in Aula tra Berlusconi e Fini. Difficile. E tuttavia quelle carte tornerebbero comunque utili dopo, perché il Cavaliere è consapevole che - anche se ottenesse la fiducia alla Camera - non potrebbe andare avanti con questo governo. I numeri sarebbero troppo risicati per sopravvivere nella gestione quotidiana del Parlamento. Ma il premier non vuole passare come chi ha accettato il gioco di Palazzo, bensì come chi - dopo aver vinto la sfida dei numeri - è costretto per ragioni di realpolitik a trovare un accordo per guidare il Paese nel bel mezzo della crisi economica: «Il governo di responsabilità nazionale lo faccio io». Oggi sarà una delle tante giornate decisive della crisi, i vertici del Pdl e del Fli si riuniranno per decidere cosa fare. Poi resterà solo la roulette dei numeri alla Camera.

Francesco Verderami

09 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_dicembre_09/fini-intesa-letta-vederami_96f86162-0359-11e0-8ee8-00144f02aabc.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Dopo lo strappo «politico» quello «istituzionale»
Inserito da: Admin - Dicembre 19, 2010, 06:42:01 pm
Il retroscena - Il pressing del mondo berlusconiano

Un piano per spingere il leader di Fli a lasciare la presidenza della Camera

Dopo lo strappo «politico» quello «istituzionale»


Non si era mai visto un premier annunciare una visita al Quirinale per mettere in mora un presidente della Camera. Né si era mai visto un presidente della Camera convocare un'assemblea di partito per chiedere le dimissioni di un premier.

Ecco cosa ha innescato lo scontro tra Berlusconi e Fini, protagonisti di una crisi politica tracimata in una crisi istituzionale, che ha costretto ripetutamente Napolitano a intervenire persino sul calendario dei lavori parlamentari. E c'è un motivo se, ignorando i maldipancia delle opposizioni, il Quirinale impose a suo tempo che il dibattito sulla fiducia si svolgesse dopo l'approvazione della legge di Stabilità, per salvaguardare così i conti pubblici e l'interesse nazionale.
Il fatto è che nel duello con il Cavaliere, il presidente della Camera ha finito per esporre anche il ruolo che ricopre. E ora che il premier ha vinto la sfida con il voto di fiducia, il centrodestra ha accentuato la pressione sull'inquilino di Montecitorio. Senza mai chiederne formalmente le dimissioni, ha iniziato ad appellarsi al «senso di opportunità», e siccome non esistono strumenti parlamentari per sfiduciarlo, starebbe approntando un'iniziativa per indurre Fini al passo indietro. Non è dato sapere quale possa essere lo strumento, è certo che lo «strappo istituzionale» resta uno dei fattori della crisi. E sarà destinato ancora a pesare.

Perché con le sue mosse da leader di partito, Fini ha rotto «la prassi», così scriveva Giuliano Ferrara ieri sul Foglio, invocando l'intervento del presidente della Repubblica, la sua capacità di persuasione «privata e pubblica» presso la terza carica dello Stato, in modo da rendere «indisponibile la presidenza della Camera per giochi politici hard core». In realtà Napolitano è già intervenuto, in forma «privata» e anche «pubblica».

Accadde il tre dicembre, quando Fini - nei panni di capo del Fli - disse che le elezioni sarebbero state scongiurate anche se Berlusconi fosse caduto: «Il capo dello Stato sa cosa fare, di più non posso dire». Con una nota non ufficiale, qualche ora dopo, il Colle sottolineò che nessuna presa di posizione politica, di qualsiasi parte, poteva oscurare le prerogative di esclusiva competenza del presidente della Repubblica. Ma quella sera, rivolgendosi al Quirinale con un greve «noi ce ne freghiamo», il coordinatore del Pdl Verdini spostò interamente su di sé i riflettori.

Dall'inizio il doppio ruolo di Fini è parso a Napolitano «una novazione» istituzionale, sebbene abbia tenuto a difenderne la figura dagli attacchi scomposti del Pdl. Ma nell'escalation del conflitto con Berlusconi, lo stesso Casini ha avuto modo di confidare le proprie perplessità su alcune sortite dell'inquilino di Montecitorio: specie alla vigilia del voto di fiducia, quando - nel corso di un'intervista tv - anticipò che il Fli avrebbe «comunque» votato contro il premier, «a prescindere» dal discorso che si apprestava a fare davanti alle Camere. Così, paradossalmente, Fini aveva colpito se stesso, il ruolo di custode solenne del confronto nelle Aule parlamentari.
Dopo averlo battuto, il centrodestra pare abbia intenzione di chiudere il conto con l'ex alleato. Nelle argomentazioni - che sono giunte anche al Quirinale - viene fatto notare come si sia creato a Montecitorio un «pericoloso precedente» da sanare per evitare che il successore di Fini possa avvalersi della «novazione» istituzionale.

C'è anche questo nodo nel complesso negoziato in corso tra la maggioranza e il leader centrista, Casini, interessato a usare il mese e mezzo di tregua con il Cavaliere per evitare le elezioni anticipate. Ogni possibile elemento di conflitto va depotenziato, con beneficio reciproco per le parti. Così la mozione di sfiducia contro il ministro Bondi, già posticipata, potrebbe non avere impatto sul governo al momento del voto grazie a un atteggiamento di «responsabilità» del terzo polo. E nel frattempo la maggioranza al Senato potrebbe accettare la delibera della Camera sull'interpretazione della legge elettorale europea, dando il via libera all'udc Trematerra per il seggio a Strasburgo. Non solo. Un clima rasserenato, senza più la presidenza della Camera al centro del conflitto, potrebbe consentire di discutere sulle norme da adottare nel caso in cui la Consulta a gennaio dovesse bocciare la costituzionalità del legittimo impedimento, legge che fu ideata proprio dai centristi. Ma la tregua regge su fondamenta instabili. Dovessero cedere, il presidente della Camera tornerebbe nel mirino della maggioranza. A quel punto, a fine gennaio, con le elezioni ormai certe, Fini potrebbe lasciare Montecitorio: magari a Milano, proprio nel giorno in cui Futuro e libertà diventerà ufficialmente un partito.

Francesco Verderami

18 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_dicembre_18/fini-piano-pressing-berlusconi_d1342c22-0a6f-11e0-b99d-00144f02aabc.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Telefonata a Casini, la mossa del premier
Inserito da: Admin - Dicembre 23, 2010, 05:39:53 pm
Dietro le quinte Il Carroccio cerca di far saltare i giochi e guarda al voto anticipato

Telefonata a Casini, la mossa del premier

L'obiettivo: separare l'Udc da Fli. La risposta del leader centrista: ne riparliamo a gennaio


A Bossi il presepe non gli piace, la storia di Casini vestito da re magio non lo convince affatto. Ma se il capo del Carroccio lascia a Berlusconi l'ultima parola è perché sa che «Silvio si sta giocando la partita della vita».

E Berlusconi ha bisogno di tempo per capire se il tempo gioca a suo favore o a favore dei suoi avversari, se l'idea cioè di andare avanti con il governo finirà per rafforzarlo o invece consentirà agli altri di strutturarsi e di batterlo prima nel Palazzo e dopo nelle urne. E' questo il dilemma del premier: intuire a chi giova la prosecuzione della legislatura, e scegliere una strada o l'altra del bivio dinnanzi al quale si trova, conscio che un errore gli sarebbe fatale.

Bossi è convinto che il voto di fiducia sia servito solo per impedire che un altro premier possa gestire le elezioni. Nulla più.
Per il resto, i numeri alla Camera impediscono qualsiasi agibilità politica a Pdl e Lega, anzi li ingabbiano nella logica dei «governi di minoranza», garantendo a Casini la golden share: perché con l'offensiva del dialogo il capo dei centristi da un lato rende complicata la strada delle urne, e dall'altro rafforza la sua leadership nel terzo polo, in vista - magari - di un'alleanza elettorale con il Pd. Questo è il convincimento di Berlusconi, che D'Alema abbia offerto a Casini Palazzo Chigi prenotandosi il Quirinale, secondo lo schema caro all'ex segretario dei Ds: l'accordo Dc-Pci.

L'offensiva della Lega contro Fini è un modo per far saltare il gioco. Già la scorsa settimana il capogruppo del Carroccio Reguzzoni aveva anticipato agli alleati del Pdl che avrebbe chiesto un dibattito in Aula sul «ruolo e l'imparzialità» del presidente della Camera. Dopo che l'inquilino di Montecitorio ha ribadito pubblicamente di non volersi dimettere, la Lega ha reagito per non dare l'idea del silenzio assenso, per tenere sotto pressione il leader del Fli, schiacciarne l'immagine sulle forze di opposizione, e soprattutto verificare le reali intenzioni di Casini.

Ieri sera, dopo il vertice con Bossi, il premier ha contattato il capo dei centristi per saggiarne il polso. L'obiettivo del Cavaliere è chiaro: portare a compimento la «caccia grossa» tra i futuristi - affidata all'ex finiano Moffa - e dopo aver ingrossato le file della maggioranza, premere sull'Udc, separarla da Fini e farla rientrare a pieno titolo nel centrodestra, minacciando altrimenti le elezioni. È vero che Casini non vuol correre il rischio, ma c'è un motivo se al telefono è stato evasivo: «Ne riparliamo a gennaio, Silvio. C'è tempo».

È il tempo che serve a Berlusconi per capire se il tempo gioca a suo favore o contro. Se non ha ancora deciso è perché non ha ancora calcolato benefici e rischi. Nella sua mente aleggia infatti il fantasma della trappola, il sospetto che Fini abbia stretto un'intesa con i magistrati per impedire al Parlamento di varare norme simili al legittimo impedimento, qualora la Consulta bocciasse l'attuale legge: se così fosse il processo sul caso Mills potrebbe arrivare a sentenza nel giro di tre mesi, con effetti devastanti sul quadro politico.

Il tempo è decisivo in questa sfida, come il copione che ogni protagonista deve tenere. Al premier è stato chiesto di non esporsi su Fini, nel gioco delle parti tocca alla Lega muovere contro il presidente della Camera, lasciando che dalla corte berlusconiana filtri l'irritazione del Cavaliere per la mossa del Carroccio, così da non mettere a rischio l'operazione «caccia grossa» nel Fli.

È vero che il capogruppo del Pdl Cicchitto aveva inizialmente espresso delle perplessità sull'iniziativa del Carroccio, ma è altrettanto vero che Berlusconi vuole la testa dell'ex alleato, e intende tenerlo sotto pressione in attesa di un suo passo falso. Cosa che dall'altra parte della trincea preoccupa Casini, in vista del congresso fondativo del Fli: «Gianfranco - ha confidato - deve stare attento a come si muove, perché quando ero presidente della Camera non è che fossi estraneo alle scelte del partito e del governo, ma lasciavo che a occuparsene fosse Follini», allora segretario dell'Udc.

A gennaio Berlusconi dovrà sciogliere la riserva, per allora dovrà aver deciso se stipulare la pace o muovere guerra. Intanto ammassa truppe alla frontiera, asseconda silenziosamente la costruzione di piccoli e grandi gruppi - da Forza Sud di Miccichè al Pid di Romano - su cui fare affidamento nel caso di elezioni, per tentare di conquistare la maggioranza anche al Senato. Ha bisogno di tempo il Cavaliere. Peccato che nel frattempo gli siano scoppiate nel partito le peggiori grane, dal «caso Prestigiacomo», all'attacco di Brunetta contro «il tremontismo che non basta più». Perciò ieri sera era furente. Ma se alla vigilia dello scontro decisivo un condottiero perde il controllo del proprio esercito, di chi è la colpa?

Francesco Verderami

23 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_dicembre_23/verderami_telefonata-casini-mossa-premier_420e6678-0e5e-11e0-bf2d-00144f02aabc.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI l Cavaliere in affanno regge nei sondaggi
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2011, 05:47:32 pm
CASO RUBY E GRADIMENTO

Il Cavaliere in affanno regge nei sondaggi

I «sismografi» degli istituti hanno registrato più variazioni per la vicenda Mirafiori


Ammonito dalla Chiesa, bacchettato dal Quirinale, pressato dal Parlamento, criticato dal Csm e inseguito dalla Procura di Milano, Silvio Berlusconi appare ancora una volta circondato. Ma ci sarà un motivo se il Cavaliere — isolato nel Palazzo — non sembra perdere consensi nel Paese, se tra i cittadini «la rivolta non scatta», come riconosceva ieri in prima pagina il quotidiano del Pd, Europa.

Perché non c’è dubbio che il «caso Ruby» abbia esposto il premier alla berlina mediatica oltre che ai rischi giudiziari, e che «tutti sono contro Berlusconi, manca solo l’Onu», come con un paradosso sarcastico annotava la Jena sulla Stampa. Ma prima o poi bisognerà capire il motivo per cui «l’elettorato si mostra del tutto impermeabile » alla vicenda. I dati Ipsos che il professor Paolo Natale pubblica su Europa, testimoniano infatti che sebbene «oltre il 70% dell’opinione pubblica» non consideri il Cavaliere vittima di una persecuzione giudiziaria e ne «censuri» il comportamento, non intende poi «punirlo». Lo scandalo insomma «non fa presa sul livello di fiducia che il governo e la maggioranza hanno da parte degli italiani». Gli elettori sono «disposti a sostenere ancora » il Cavaliere: un atteggiamento che — secondo il docente alla Statale di Milano—è dovuto alla «mancanza di una credibile alternativa».

Mai come in questi giorni gli istituti di ricerca concordano sul fatto che il trend politico resta inalterato, che il caso giudiziario in cui è coinvolto il premier non ha provocato variazioni nelle intenzioni di voto e negli indici di fiducia. Ed è vero che le rivelazioni sulle notti hard di Berlusconi hanno destato sconcerto soprattutto nell’elettorato cattolico. Ma come il premier ha potuto riscontrare nei suoi amatissimi sondaggi, se le critiche più severe gli giungono proprio dai cattolici praticanti e dalle donne, sono proprio queste due fasce elettorali a garantirgli ancora il consenso più stabile. È un paradosso a cui si aggiunge un altro paradosso, perché il 2% degli italiani esprime «invidia» verso il Cavaliere.

E certo nel Palazzo Berlusconi è in grave difficolta, la sua situazione si è fatta assai delicata. Ma fuori dal Palazzo la realtà che i numeri riflettono sembra diversa, e non per un diverso approccio ai temi etici o agli stili di vita. Semmai—come spiega Nando Pagnoncelli — «dopo vent’anni viene al pettine il nodo del rapporto tra potere e cittadini, che ormai sovrappongono totalmente il concetto di politica con il concetto di governo. Rispetto al passato— traduce il capo di Ipsos—l’orientamento che guida l’opinione pubblica non è più l’idealismo di partito ma il pragmatismo dell’amministrazione. E infatti il premier non paga dazio sulle ultime vicende, rischierebbe però di pagare anche queste se in futuro si aggravassero i problemi della crisi economica».

Non è un caso che i sondaggisti abbiano visto oscillare il pennino dei loro sismografi durante la vertenza di Mirafiori. In quei giorni lo scontro tra la Fiat e la Fiom ha provocato un sensibile calo di consensi per il Pd, registrato da tutti gli istituti demoscopici: si è trattato di un travaso di circa due punti, a favore di Nichi Vendola. «Sono questi i problemi che stanno a cuore dei cittadini », secondo Alessandra Ghisleri di Euromedia research: «È su questi temi che si confrontano i lavoratori, divisi tra l’affermazione di alcuni diritti e il desiderio di avere un maggior benessere economico».

Così il «caso Ruby» sembra (per ora) non avere impatto sul premier e sul governo. E il fatto che la «rivolta non scatta» è forse dovuto anche da un altro aspetto, citato nell’articolo di Natale, che ha evocato la stagione di Tangentopoli. L’idea è che sia svanito anche il mito della rivoluzione giudiziaria e della catarsi nazionale che avrebbe portato al cambiamento. Ce n’è riscontro nei sondaggi, lo rileva Pagnoncelli, quando racconta che «ai tempi di Mani pulite i magistrati erano visti come dei Robin Hood. Negli anni però l’indice di fiducia verso la magistratura è sensibilmente calato».

Oggi l’attenzione dei cittadini è concentrata sulla gestione del governo, e l’opinione pubblica non è solo disillusa dalla stagione delle toghe. Anche il sogno berlusconiano è finito, il premier ha avuto modo di constatarlo nei numeri riservati di cui è in possesso. La mancanza di alternativa lo rende però inattaccabile, sebbene non si capisca per quanto tempo ancora.

A destare qualche preoccupazione, per esempio, sono stati i dati recentemente pubblicati dal Sole 24 Ore sulla grande distribuzione: per la prima volta dopo trent’anni i supermercati hanno subìto infatti una flessione nelle vendite dell’1,6%. Un campanello d’allarme per uno come il Cavaliere, che spesso fa visita ai centri commerciali come testimonial subliminale del consumo. Ecco perché aminacciare il consenso di Berlusconi non è (per ora) il «caso Ruby».

Francesco Verderami

22 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/11_gennaio_22/verderami-cavaliere-in-affanno-regge-sondaggi_eaecaa9a-25ef-11e0-8bad-00144f02aabc.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI La partita finale per evitare le elezioni
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2011, 06:04:52 pm
GLI SCENARI

La partita finale per evitare le elezioni

Il governo regge ancora.

Ma spuntano voci di un patto premier-Bossi sul voto a maggio


ROMA — Rivelazione o disinformazione? Strategia o tatticismo? Insomma cosa c’è di vero nella confidenza fatta dal leghista Maroni al democratico Castagnetti, che ieri sera ha raccontato il contenuto del colloquio ad alcuni colleghi di partito? «Guardate che Berlusconi e Bossi si sono messi d’accordo per andare alle elezioni a maggio» , così ha esordito Castagnetti. Che per superare lo scetticismo e le perplessità di quanti lo stavano ad ascoltare ha citato la sua fonte: «Me l’ha detto il ministro dell’Interno» .

Silenzio gelido. «Se vi dico che me l’ha detto Maroni, potete crederci. Vogliono andare al voto in primavera. Il loro problema è trovare il modo per provocare la crisi e arrivare alle urne» . Questa storia per molti versi non torna, e tuttavia descrive il clima del Palazzo, dove tutti sono in attesa di un evento, di qualcosa che spezzi i fragili equilibri politici di una legislatura data già tante volte morta. Ancora l’altra sera sembrava dovesse celebrarsi il de profundis, dato che sulla riforma cara alla Lega la maggioranza non aveva i numeri nella Bicameralina per il federalismo fiscale. E quando ieri in commissione Bossi ha dovuto subire l’onta del pareggio, a un passo dal baratro ha chiesto e ottenuto da Berlusconi la prova fedeltà: «A me delle questioni interpretative frega niente, qui c’è una questione politica. E questo è il momento di vedere se abbiamo le palle» . Il Senatur non ha dovuto spiegare quale fosse la subordinata, il Cavaliere si è detto subito d’accordo nel forzare procedure e tempi per varare il decreto attuativo con un Consiglio dei ministri straordinario. E poco importa se Gianni Letta avesse chiesto tempo per negoziare con il Quirinale: «Non si rallenta, si va avanti» , ha tagliato corto il premier. In ballo c’era l’alleanza con la Lega e la legislatura, e sebbene i primi contatti con il Colle non promettessero nulla di buono, Berlusconi contava sul fatto che Napolitano— piuttosto di firmare il decreto di scioglimento delle Camere — avrebbe accettato di firmare il decreto sul federalismo. Magari facendolo precedere da un tira e molla, «ma vedrete che non ci dirà di no. Anche perché non deve promulgarlo, deve solo emanarlo».

Sta nelle pieghe delle forme giuridiche la sostanza politica. Così Berlusconi sembra smentire la voglia di urne, nonostante siano gli stessi suoi alleati a dubitarne: «Non ti dico che non dici la verità, presidente. Ti dico che non ti credo» , ha detto giorni fa al Cavaliere il segretario del Pri, Nucara. Eppure anche le opposizioni dopo il voto con cui l’Aula di Montecitorio ha rimandato alla Procura di Milano gli atti dell’inchiesta sul caso Ruby, ritengono che le elezioni — se non scongiurate — si siano quantomeno allontanate. «Tireranno a campare» , ha commentato Casini. «Significa che avremo il tempo per costruire il nuovo polo» , ha aggiunto Rutelli. Per quanto possa apparire paradossale, proprio nel momento di maggiore difficoltà, Berlusconi vede infatti allargarsi alla Camera la propria maggioranza, e in Consiglio dei ministri in molti si sono felicitati con il premier, secondo il quale «a Montecitorio siamo già 320» . Sotto questo aspetto, insomma, per il Cavaliere il peggio è ormai alle spalle: la tenuta in Parlamento pare assicurata dai nuovi arrivi. «E più avanti si andrà — pronostica Frattini— più deputati verranno con noi» . Nell’area del terzo polo si avvertono in effetti sinistri scricchiolii, ed è lì che Berlusconi può ancora attrarre a sé qualche deputato. Ma allora cos’è che rende instabile un quadro politico che pare stabilizzarsi? Perché l’ipotesi di una crisi a breve continua ad aleggiare nel Palazzo? Con una battuta il democratico Fioroni lascia intuire quale possa essere il punto di rottura: «A me non piacciono le spallate» .

È chiara l’allusione a una possibile «spallata» giudiziaria che cambierebbe radicalmente la situazione. Non a caso un dirigente del Pdl che ha partecipato al vertice di ieri tra Berlusconi e Bossi, sostiene che il premier è determinato a governare, e tuttavia un conto è lo stato delle cose oggi, «altra cosa la valutazione della contingenza politica» . La «contingenza politica» è un’eventuale onda d’urto giudiziaria. Resta da capire se l’appello per un nuovo clima nel rapporto tra istituzioni, lanciato da Napolitano, sarà una rete sufficientemente forte per reggere. Perché forse è vero che il Cavaliere vuole andare avanti, ma sente il «rumore dei nemici» che lo minacciano, con Ruby e anche con il pentito Spatuzza. Le elezioni a maggio sono escluse. Forse...

Francesco Verderami

04 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it/politica/11_febbraio_04


Titolo: Francesco VERDERAMI Tenta la carta dell'«improcedibilità»
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2011, 11:59:03 am
Tenta la carta dell'«improcedibilità»

Il Cavaliere e l’incognita elezioni. Voto alla Camera per frenare il processo

Fiducia nell’alleanza con Bossi. Voci su nuove inchieste con effetti bipartisan

Tenta la carta dell'«improcedibilità»


ROMA - Subìto lo scacco, Berlusconi tenta di rifugiarsi nello stallo per evitare il matto. Perché solo ritardando lo show down giudiziario il premier potrà sperare di rilanciarsi sul fronte politico. Così l’idea di organizzare una manifestazione a sostegno del governo, e al tempo stesso procedere a un rimpasto nell’esecutivo, è legata all’estremo tentativo di bloccare il processo sul «caso Ruby», giocando alla Camera la mossa sull’«improcedibilità», l’ultima che gli è rimasta. Deve evitare una sentenza, il Cavaliere, che sancirebbe la sua fine, e confida di riuscirci, spostando di almeno un anno la resa dei conti con la procura di Milano.

È una battaglia politica che si gioca nelle pieghe delle norme giuridiche, ed è sfruttando la sentenza di ieri del gip che il premier conta di passare attraverso un delicato voto segreto a Montecitorio, facendosi scudo dell’articolo 96 della Costituzione, eccependo un «difetto di competenza» del tribunale di Milano portando a sostegno della tesi alcuni precedenti. E lasciando che sia poi la Consulta a dirimere la questione. Sembrano cavilli, in realtà sono cavalli di frisia in un conflitto che consegnerà Berlusconi vincitore o vinto. Serve tempo al Cavaliere, che posto dinnanzi al bivio vuole evitare la strada elettorale e imboccare quella parlamentare, conscio che altrimenti nelle urne rischierebbe di trovarsi davanti un fronte eterogeneo eppure forte, che andrebbe da Vendola a Fini passando per Bersani, e che - ne è sicuro - avrebbe in Casini «il nuovo Prodi». «La sinistra non è più l’armata Brancaleone finora conosciuta», ammette il ministro Matteoli: «L’antiberlusconismo è tornato a essere il loro collante, e accomuna oggi anche i leader del terzo polo».

Gli ultimi sondaggi hanno certificato a Berlusconi che un conto sarebbe sfidare il centrosinistra (su cui resta in vantaggio), altra cosa sarebbe sconfiggere questo tipo di schieramento avverso. Ma resistere a Palazzo Chigi non basta, non può bastare. Il premier deve trovare il modo di dare una «frustata» al suo governo per rinvigorire anche la propria immagine, gravemente segnata a livello internazionale, e logorata nel Paese dalle storie di donnine e festini in cui è coinvolto. Epperò un Berlusconi bis, un’autentica rifondazione del governo, non può permetterselo: l’apertura formale di una crisi nelle attuali condizioni non avrebbe nulla di pilotato, avverrebbe al buio. Con tutti le incognite che l’operazione porterebbe con sé. Come non bastasse, un valzer di poltrone potrebbe far saltare i fragili equilibri nello stesso Pdl. Il Cavaliere può insomma solo allargare l’esecutivo, assegnare gli incarichi lasciati dai finiani, magari chiedere ad alcuni fedelissimi di fare un passo indietro per garantirgli maggiore manovrabilità.

Su questo è impegnato, e - pare - con successo. Perché, per quanto sia paradossale, il premier sotto scacco sembra in grado di allargare la propria maggioranza, complice la grave crisi che sta minando il Fli. Il gruppo futurista a Palazzo Madama è in rivolta contro l’organigramma del partito deciso da Fini, e il fatto che ieri sera il senatore Menardi fosse a colloquio da Berlusconi fa capire quale possa essere l’esito. Anche a Montecitorio il Cavaliere prevede di rinforzarsi e arrivare a «quota 320», e la contabilità politica ha valore quanto la «lealtà e solidarietà» che Bossi gli ha manifestato già prima del vertice notturno a Palazzo Grazioli. Il premier deve allargare la maggioranza in Aula per riconquistare la maggioranza nelle commissioni, dove invece — com’è accaduto ieri alla Bilancio — il centrodestra è diventato minoranza.

Quanto alla Lega, è certo della fedeltà del Senatur, che sa come gestire le tensioni all’interno del gruppo dirigente e ha ancora presa sulla base, per quanto scalpitante. Il federalismo fiscale è l’obiettivo di Bossi, ma non di solo federalismo vive la Lega e il Cavaliere dovrà politicamente ricompensarla. Ma non c’è dubbio che, fra i tanti fronti aperti, il più pericoloso per il premier resta quello giudiziario, che sta avendo effetto sull’umore dei parlamentari del Pdl. Ieri alla Camera lo sconforto dei deputati berlusconiani era superiore a quello testato tra gli elettori berlusconiani, sebbene gli ultimi report riservati abbiano confermato al Cavaliere quanto già immaginava. Più del calo nell’indice di fiducia a destare preoccupazione è il trend negativo che da alcune settimane non si arresta. Non è un crollo, è un lento logoramento del consenso, attratto dall’area del «non voto», una sorta di buco nero che — a seconda degli istituti di ricerca— va dal 32 al 45%.

Le difficoltà di Berlusconi eccitano gli animi nell’opposizione, dove già si disegnano nuovi organigrammi, compreso il prossimo inquilino al Quirinale. Diceva ieri in Transatlantico il centrista Lusetti: «Il futuro presidente della Repubblica sarà Prodi. Scommettiamo?». E il capogruppo del Pd Franceschini, con un silenzio-assenso, alzava il pollice prima di stringergli la mano. Ma a poca distanza si avvertiva un refolo di vento giudiziario, boatos che preannunciano nuove e clamorose inchieste, da Napoli e dalla Puglia, per vicende assai diverse in cui il Cavaliere non sarebbe coinvolto e che colpirebbero in modo bipartisan la nomenklatura della Seconda Repubblica. Altro che scontro finale. Con le toghe è uno scontro senza fine.

Francesco Verderami

16 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi: dal Colle nessun ultimatum
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2011, 06:11:05 pm
Settegiorni | Il colloquio

Berlusconi: dal Colle nessun ultimatum

«Il presidente della Repubblica non si sarebbe mai permesso di minacciare lo scioglimento delle Camere»

«Si va avanti con la legislatura fino al 2013», e così dicendo Berlusconi sembra smentire Napolitano ed entrare in rotta di collisione con il Quirinale.

Se non fosse che il premier si incarica di smentire le intenzioni attribuite al capo dello Stato, «perché il presidente della Repubblica non si sarebbe mai permesso di minacciare lo scioglimento delle Camere. Piuttosto Napolitano si è mosso pienamente in armonia con i poteri che la Costituzione gli assegna». Sta in questo gioco di parole lo spazio entro cui si muove il Cavaliere per depotenziare il rito delle consultazioni dei capigruppo al Quirinale, che da sempre evoca una situazione di crisi.

Per Berlusconi infatti «non c'è alcuna crisi all'orizzonte», e non solo perché «il governo può contare su una maggioranza solida» ma anche perché «non è in discussione la funzionalità delle Camere». Il presidente del Consiglio fa riferimento al «dettagliato resoconto» ricevuto dai capigruppo del Pdl che sono saliti giovedì al Colle, «e l'intervento di Napolitano è stato contenuto, felpato. Certo preoccupato per quel che è accaduto a Montecitorio. Ma non ha rivolto nessun ultimatum, è stato invece premuroso e pieno di sollecitazioni, affinché in Parlamento si possa creare una migliore atmosfera politica».

«Non solo, il presidente della Repubblica è stato sollecito e generoso di consigli perché ci sia un normale svolgimento dell'attività delle Camere». «Sollecito», appunto. Particolare che Berlusconi non può celare e nemmeno derubricare, così come deve convenire sugli «effetti negativi» determinati dal clima di rissa, quella che definisce «una contrapposizione accesa», determinata «da contrasti personali, dalle diaspore che ci sono succedute» nei vari partiti: «Parlamentari che prima stavano insieme si sono poi separati. Penso alla rottura tra noi e il Fli, a quella che è capitata anche nell'Udc...».

Ma tutto ciò non può giustificare gli episodi che hanno gettato discredito sul Parlamento. «Eccesso chiama eccesso. E questo è un male», riconosce il premier riferendosi all'alterco che mercoledì ha visto protagonista il ministro La Russa nell'Aula di Montecitorio: «Ma non era mai accaduto che dei manifestanti arrivassero fin sulla porta della Camera, suscitando poi reazioni che comunque sono andate al di là della norma». E che si sono ripetute il giorno dopo nello stesso emiciclo.

Il Cavaliere non pronuncia mai il nome di Fini, tuttavia critica la sua gestione dei lavori d'Aula: «Non capisco come si possa accettare una simile situazione. Avevamo interrotto la riunione del governo per consentire ai ministri di andare a votare il processo verbale alla Camera. Chi è in Aula ha il diritto di esercitare il proprio voto. Così finora era stato assicurato. E i ministri erano in Aula quando era stata aperta la votazione. Ma proprio mentre stavano per inserire la loro scheda, la votazione è stata chiusa. E se persino una persona mite come il ministro della Giustizia Alfano ha avuto un moto di stizza...».

La ricostruzione puntigliosa degli eventi serve a Berlusconi per scaricare sul presidente della Camera il malfunzionamento di quel ramo del Parlamento, per richiamare indirettamente l'attenzione del Colle sull'imparzialità della terza carica dello Stato, e per confutare la tesi secondo cui è colpa della maggioranza se quell'organismo non è più funzionale. Di più, il premier rivendica il «diritto» della maggioranza a proporre disegni di legge, e annuncia che la prossima settimana verrà chiesto a Montecitorio il voto sul «processo breve»: «Noi lo chiamiamo processo europeo, perché è un provvedimento che ci chiede l'Unione e che siamo obbligati a tradurre in legge». Un «obbligo» che consentirebbe al Cavaliere di evitare la sentenza del processo Mills: «A parte il fatto che quel processo è una farsa - sorride Berlusconi - visto il centinaio di provvedimenti a mio carico, non c'è norma in materia di giustizia che non mi coinvolga».

L'approvazione del processo «breve» o «europeo» è comunque decisiva per le sorti del Cavaliere, del governo e della legislatura. Si capisce dunque la determinazione del premier sul provvedimento. Non è chiaro invece come possa pensare di arrivare al 2013, se la maggioranza non riesce nemmeno a garantire i voti per il processo verbale. «Invece sono convinto del contrario», ribatte Berlusconi: «E sono certo che andrà tutto benissimo, perché saremo pure numericamente di meno, ma siamo più coesi. E abbiamo intenzione di rendere fruttuosi i prossimi due anni, incardinando in Parlamento la riforma della giustizia, la revisione dell'architettura dello Stato, e a breve anche la riforma del sistema tributario, alla quale stiamo lavorando».

Così il Cavaliere invia un altro messaggio al Colle, e motiva la volontà del governo di andare avanti. Eppure sono evidenti le difficoltà nella maggioranza e persino nel Pdl, «tensioni» che il premier definisce «comprensibili dopo tre anni di legislatura»: «In passato i governi duravano in media sedici mesi e c'era sempre una turnazione tra ministri. Perciò capisco... Ci sono aspettative che finora non hanno trovato esito positivo. Ed è chiaro che non si potranno accontentare tutti». È ai fedelissimi in sofferenza che si rivolge quando racconta che «alcuni si vedono passare davanti i nuovi arrivati», i Responsabili: «Ma sono loro che hanno garantito al governo una maggioranza in Parlamento e che in futuro ci consentiranno di varare le riforme».

Se così stanno le cose, per quanto tempo i berlusconiani resteranno responsabili? Berlusconi dice di non essere «preoccupato, non lo sono affatto», nemmeno degli avvertimenti di Scajola: «Claudio è leale e mi vuole bene. Sta cercando di tornare a svolgere un ruolo nel partito o in Parlamento, si vedrà. Stiamo considerando varie ipotesi». Il Cavaliere ha bisogno di stabilità e per ottenerla non si cura nemmeno di smentire l'immagine di un partito dove si fa a gara per posizionarsi in vista del «dopo», in attesa di contendersi un pezzo di eredità. Ma è chiaro a chi vorrà affidare il testimone: «Poco a poco si stanno facendo strada giovani personalità, di valore. Mi sembra ce ne siano. Nomi? Non ne faccio. Tanto per ora ci sono io». E chissà per quanto ancora. Vecchia storia...

Francesco Verderami

02 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_aprile_02/


Titolo: VERDERAMI Tremonti e i sospetti anti-Berlusconi: Il complotto? È inesistente
Inserito da: Admin - Aprile 12, 2011, 06:38:00 pm
LA MAGGIORANZA

Tremonti e i sospetti anti-Berlusconi: «Il complotto? È inesistente»

Il titolare dell'Economia: «Il Cavaliere vuole durare e senza di lui non c'è il Pdl»

ROMA - Non c'è rovescio politico o ribaltone economico in cui non venga chiamato in causa e additato come regista occulto di un complotto, ovviamente contro Berlusconi. E visto che vive ormai da tempo la condizione di indiziato, con ironia Tremonti anche stavolta smonta gli indizi a suo carico. Perché per uno che viene da un vertice a Pechino e sta per andare a un altro a Washington «non c'è tempo per organizzare un complotto».

È una battuta di cui il titolare dell'Economia si è servito in questi giorni per smontare la tesi di una nuova fase difficile nelle relazioni con il premier, sebbene il rapporto tra i due si regga da sempre su equilibri fragili. Ma accreditare l'idea che abbia tenuto il Cavaliere all'oscuro del cambio ai vertici di Generali non regge, se è vero che Gianni Letta da un mese sarebbe stato a conoscenza delle difficoltà crescenti di Geronzi. Di conseguenza non regge l'ipotesi di un'imminente macchinazione politica che la svolta di Trieste si porterebbe appresso.

Certo, l'indiziato resta tale agli occhi dei suoi avversari, che sono poi i suoi stessi colleghi di governo e di partito. Tuttavia ci sarà un motivo se Tremonti sfugge al gioco dei palazzi (quelli romani), e resta un passo indietro sostenendo di avere «difficoltà a capire il momento politico, complicato da decifrare». Potrà destare sospetto anche la più semplice delle considerazioni, e cioè che non vede una crisi dell'esecutivo all'orizzonte: «E chi la provocherebbe, se non c'è nemmeno l'opposizione?». Di una cosa è convinto, il premier «vuole durare». E se il Cavaliere non ha intenzione di passar la mano, a fronte della debolezza dello schieramento avverso, non c'è chi potrebbe intestarsi un clamoroso colpo di mano.

Tutto perciò resta com'è, nonostante il caos che regna nel Pdl, e che sembra da un momento all'altro far implodere tutto. «Fibrillazioni del nulla», così le derubrica Tremonti, convinto che se c'è Berlusconi non c'è il partito, e se non ci fosse più Berlusconi non ci sarebbe più il partito: «Non c'è eredità da dividersi», lo ripete ormai da anni. E ora inizia a credere che nemmeno con una squadra si potrà gestire il dopo, quando sarà.

Ecco il motivo per cui annota con algido distacco i conversari dei ministri suoi colleghi di partito, che in nome della realpolitik il Cavaliere sarebbe pronto a sconfessare se ce ne fosse la necessità. Pare l'abbia già fatto, confidando a Tremonti la propria irritazione. Il titolare di via XX settembre ne ha preso atto, dire che ci abbia creduto è esagerato. Anche perché sa che non si è trattato di una sola cena, e che da tempo gli incontri conviviali vanno avanti: all'ultimo, per esempio, c'era la Carfagna (assente la volta precedente) e non Galan (presente la settimana scorsa).

L'antitremontismo che ha innervato quelle discussioni non lo fa scomporre, almeno non ha fatto mostra di turbarsi quando ha raccontato che «quanto dicono di me non mi tocca. Io rispondo solo delle cose che faccio. E quando faccio qualcosa, prima mi preparo, poi espongo le mie idee e le difendo pubblicamente». Un messaggio rivolto a chi - in vista della manovra economica - attende di capire se «Giulio sarà dalla nostra parte», o se bisognerà difendersi da nuovi tagli ai bilanci dei dicasteri, che «impediscono qualsiasi azione politica».

La seconda opzione è la più probabile. Ecco cosa provoca «alcune fibrillazioni», secondo Verdini. L'ammissione del coordinatore del Pdl testimonia le tensioni interne, che difficilmente possono essere ridotte a «una questione di famiglia». E comunque, se voleranno i piatti, «Giulio» ha già pronto lo scudo per proteggersi: la firma di Berlusconi agli accordi sottoscritti in Europa. Traduzione: se qualcuno ha da porre obiezioni, si rivolga al premier.

E il Cavaliere non sembra per ora in grado di alzare la voce. Nelle ultime settimane ha provato a farlo, rilanciando sulla riforma fiscale. Ma il titolare dell'Economia avvisa che «la riforma non può significare la riduzione delle tasse. Non esiste, e Berlusconi lo sa». Né ha fondamento la storia che il premier volesse il progetto sulla propria scrivania prima delle Amministrative. A parte il fatto che le commissioni di studio istituite al Tesoro termineranno i loro lavori solo a fine maggio, la revisione del sistema tributario - secondo Tremonti - «non può essere piegata ai giochi elettorali. Anche perché, se la sbagli, poi le elezioni le perdi. Pure questo Berlusconi sa». Il punto è che il Cavaliere non sa nemmeno quando la legge delega per la riforma sarà presentata in Consiglio dei ministri. «Ci vuole tempo», dice Tremonti: «Negli anni Sessanta per cambiare il fisco ci misero sei anni». Sei anni? E Berlusconi?

Francesco Verderami

12 aprile 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_aprile_12/


Titolo: Francesco VERDERAMI - Il Cavaliere e il gelo con «Giulio»
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 12:37:10 pm
IL RETROSCENA

Il Cavaliere e il gelo con «Giulio»

Il sospetto: sta prendendo tempo

La linea di Tremonti: la riforma la faremo, ma non sarà certo una passeggiata


ROMA— Vivono ormai da separati in casa, e Berlusconi non si cura più nemmeno di celare l’umor nero verso Tremonti: «La via per la ripresa è quella che ha indicato Draghi» diceva ieri il premier furibondo. Peccato per lui che Draghi non sia il suo ministro dell’Economia e che Tremonti viva le citazioni del governatore di Bankitalia come una sorta di mozione di sfiducia. Non è quindi un caso se nella tarda serata il premier sia dovuto ricorrere a una nota ufficiale per evitare un clamoroso divorzio con il titolare di via XX Settembre. Ma è evidente che la situazione sia diventata insostenibile, che le posizioni siano ormai quasi inconciliabili, specie adesso che il Cavaliere ha bisogno della riforma del fisco, definita «prioritaria», per rilanciarsi e rilanciare il proprio governo.

Quanto sia logoro il rapporto tra i due l’hanno potuto constatare ieri gli invitati alla festa della Repubblica, nei giardini del Quirinale, dove Berlusconi e Tremonti si sono ostentatamente ignorati. E sarà pur vero che il superministro ha promesso la riforma, ma la preoccupazione del premier è che «Giulio» vesta di qui in avanti i panni dell’imperatore Fabio Massimo, che si metta a fare il Temporeggiatore, che prenda cioè tempo così da allentare la pressione. D’altronde agli interlocutori che riservatamente gli chiedono conto dello stato dell’arte, Tremonti offre sì assicurazione sulla volontà di portare a termine il progetto, «la riforma la faremo», ma aggiunge che «non sarà certo una passeggiata», che «il problema è trovare le risorse per finanziarla», che ha in mente «varie opzioni», ma che «al momento» non c’è la soluzione. Lo scontro è nelle cose: perché Berlusconi sostiene che al ministro dell’Economia «non spetta decidere ma proporre». Giusto. Il problema è, appunto, che manca «al momento» la proposta. Se e quando arriverà, non è poi detto che l’iter sarà rapido, perché Tremonti— temono i fedelissimi del Cavaliere— potrà dilatare a proprio piacimento i tempi per scrivere la legge delega, e — dopo l’approvazione delle Camere — potrà dettare sempre lui il timing per redigere i decreti legislativi.

L’idea che le sue sorti personali e quelle del suo governo siano nelle mani del ministro dell’Economia, che tutto passi insomma per Tremonti, aveva indotto ieri il premier a reagire pubblicamente. Berlusconi confida di avere stavolta l’appoggio della Lega, dove Maroni ha dato voce al malcontento per la gestione della linea di politica economica che avrebbe inciso sul risultato elettorale. Quando il ministro dell’Interno ha spiegato che «non è Tremonti sotto attacco ma l’intera maggioranza», non ha fatto che rinnovare le critiche del suo partito, riflettendo gli umori della base, dei piccoli imprenditori che stavolta non hanno votato per il Carroccio in segno di protesta per le «vessazioni» subite da Equitalia e dall’Inps. Un malumore che si è avvertito ieri in Consiglio dei ministri tra i rappresentanti leghisti quando si è trattato di rinnovare i vertici dell’Agenzia delle entrate, additata come «la struttura che ci ha fatto perdere alle Amministrative».

Ma le esigenze di Berlusconi non collimano del tutto con quelle di Bossi, ed è in questo spazio che trova riparo Tremonti. Almeno per ora. Il superministro è nervosissimo, avverte l’assedio di Berlusconi e del mondo delle imprese, che usano la ricetta di Draghi— diminuzione del carico fiscale e tagli selettivi di bilancio— per indurlo a cedere. Perciò Tremonti reagisce ogni qualvolta sente citare il Governatore e ricorda che l’esecutivo è atteso a una manovra da 40 miliardi per tenersi in linea con i dettami dell’Europa sui conti pubblici. Una manovra che si preannuncia «impopolare», come lo stesso ministro dell’Economia ha spiegato a colleghi di governo del Pdl e della Lega. Ecco il motivo per cui Bossi si interroga su cosa fare, perché ripresentarsi dinnanzi al Paese con un simile provvedimento dopo la sconfitta elettorale non lo convince. Sta in queste contraddizioni il rischio per la tenuta del governo, le tensioni che attraversano la maggioranza: da una parte c’è il pressing di Berlusconi che vuole a tutti i costi la riforma tributaria, dall’altra c’è la volontà di Tremonti di onorare gli impegni sul bilancio dello Stato.

Così l’esecutivo rischia lo stallo, anzi il conflitto. Perché i fedelissimi del Cavaliere nell’esecutivo sostengono che si tratti di un falso problema e guardano con sospetto gli atteggiamenti di Tremonti. «I governi hanno ragione di esistere se governano» attacca Brunetta: «E senza le riforme un governo va in crisi. Ma in questa situazione, le ipotesi di esecutivi tecnici o di elezioni anticipate sono solo mosse avventuriste» . «La verità— prosegue il titolare della Pubblica amministrazione — è che per curare l’economia italiana non possono bastare gli antibiotici, cioè i tagli, che servono all’opera di risanamento per bloccare l’infezione del debito. Al Paese è necessario dare anche le vitamine, cioè le misure per lo sviluppo, necessarie per garantire la crescita. Lo dice anche Draghi» . E ci risiamo...

Francesco Verderami

01 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_giugno_01/


Titolo: Francesco VERDERAMI La linea (dura) di Tremonti
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2011, 12:09:06 pm
   
Il retroscena

La linea (dura) di Tremonti

Lite per le tasse con il Cavaliere

Scontro al telefono con il premier: basta parlare di riforma fiscale, aspettative deluse e si perde consenso


I sogni per Berlusconi tremontano all'alba. Perché lunedì sera, dopo il vertice di Arcore, il premier si era presentato raggiante alla festa dell'Arma. «Finalmente l'abbiamo stretto», aveva sussurrato ad alcuni ministri incrociati a piazza di Siena: «Vedrete che stavolta riusciremo a farla».
Il Cavaliere non aveva avuto bisogno di specificare a chi si riferisse e a che cosa: era chiara l'allusione a Tremonti e alla riforma del Fisco.

Il fatto che Bossi si fosse inserito nell'alterco tra lui e il titolare dell'Economia, senza però prenderne le difese, aveva rincuorato Berlusconi. «Giulio, qui nessuno vuole rompere. Però fatti venire un'idea». Ma già martedì mattina per il premier le cose si erano nuovamente complicate. Sul tavolo Tremonti, dopo aver battuto i pugni, aveva sbattuto anche una pila di carte alta così, per far capire che è «impensabile» intervenire sul fronte delle tasse. Un concetto che in nottata - all'incontro da Berlusconi con Bossi e Calderoli - aveva ribadito, dando origine all'ennesima rissa verbale con il Cavaliere.

E pensare che l'appuntamento a tarda ora era stato preso per placare l'ira del Senatùr, almeno così aveva anticipato il ministro della Semplificazione al capo del governo: «Silvio, guarda che sulla storia del trasferimento dei ministeri al Nord, Umberto si è arrabbiato. Si sente preso in giro da te». Poco importa se davvero a Bossi interessasse la questione. Una volta appianata, Berlusconi e Tremonti hanno ripreso a litigare sulla revisione del sistema tributario.

E non è finita lì. Il terzo atto è andato in scena ieri mattina, quando il ministro dell'Economia ha chiamato al telefono il premier, e gli ha parlato con toni (quasi) ultimativi: «Non devi più parlare di riforma fiscale, così si creano aspettative. Poi le aspettative vengono deluse e si perde consenso. In questa situazione, meglio sarebbe andare alle elezioni». «In questa situazione, se andiamo alle elezioni le perdiamo», ha urlato Berlusconi in viva voce: «Bisogna prima intervenire sulle tasse».
Raccontano di aver visto il Cavaliere digrignare i denti, mentre dall'altro capo si sentiva ripetere da Tremonti che un minor gettito sul fronte delle entrate, «perché di questo si tratterebbe», manderebbe il Paese gambe all'aria sui mercati: «Bisogna tagliare, invece. Per esempio, l'Ice...». Il premier per un attimo ha pensato all'Ici. «No, no, l'Ice, i fondi per l'Istituto del commercio estero. Sono un sacco di soldi». «E le province allora? E tutti i finanziamenti inutili?».

Un prolungato dialogo tra sordi, concluso da un commento del Cavaliere che il ministro dell'Economia non ha sentito: «Non so come faccio ancora a sopportarlo». In realtà i due non fanno ormai più nulla per celare il grande freddo, alimentato da battute del titolare di via XX settembre (non si sa quanto veritiere) riferite a Berlusconi, che a sua volta provvede a divulgarle. L'ultima risale alla scorsa settimana e narra di un colloquio tra Tremonti e «un comune amico», così l'ha definito il Cavaliere. «Giulio, ma davvero sei caduto in disgrazia con Silvio?». E «Giulio», di rimando: «Veramente è Silvio che è caduto in disgrazia presso di me».

Quanto ancora possa durare questo rapporto non si sa, come non si sa quanto possa reggere ancora il governo in queste condizioni. Perché Berlusconi è consapevole del logoramento, preoccupato per le crepe nella maggioranza, timoroso persino dei numeri alla Camera per la fiducia. E osserva guardingo le mosse di Tremonti, che ieri è stato ricevuto da Napolitano, a cui ha illustrato le linee guida della manovra triennale, così da mettere al riparo i conti pubblici e al tempo stesso cercar riparo sotto l'ala protettiva del Colle.

Il capo dello Stato formalmente resta un passo indietro, ma segue le vicissitudini della maggioranza e ne è informato. Doveva sapere qualcosa del vertice di Arcore, e dello scontro che c'era stato, se la sera stessa - incontrando Maroni alla festa dei Carabinieri - si è rivolto al ministro dell'Interno con una battuta: «Non vedo ferite...». Maroni però è convinto che l'opinione pubblica possa nel prossimo futuro «ferire» politicamente la maggioranza, più di quanto non abbia già fatto alle Amministrative: «Se andiamo dietro la linea di Tremonti - ha sussurrato a un collega di governo - andremo presto tutti quanti a fondo. E nel Paese ci prenderanno a calci nel sedere».
Anche Bossi se n'è convinto, anche lui - al pari del Cavaliere - crede che l'emorragia di consensi sia avvenuta soprattutto a causa della linea di politica economica. Ed è vero che il Senatùr intende tenere saldo il legame con il superministro, era sincero quando gliel'ha detto mentre era in corso la zuffa con Berlusconi: «Giulio, qui nessuno vuole rompere. Però fatti venire un'idea». «L'idea» dovrà arrivare immancabilmente prima dell'appuntamento di Pontida, è questa la dead-line imposta dal capo del Carroccio, che vuole (anzi deve) dare risposte al «popolo padano», per invertire la linea di tendenza del partito.

In questo confida Berlusconi, certo terrorizzato per quanto potrebbe accadere sulla spianata sacra alla Lega, ma al contempo fiducioso che la pressione dell'alleato possa aiutarlo nell'assedio a Tremonti e fare infine breccia. Bisogna trovare al più presto «l'idea», e per quanto possa apparire paradossale ora è il Cavaliere a dire che «la politica degli annunci non basta più per rilanciare il governo. Servono misure che incidano». Altrimenti, sa che il suo destino - già compromesso - potrebbe essere segnato: «A forza di risanare solo i conti, facciamo la cura dimagrante al Paese e anche ai nostri voti».

Berlusconi contro Tremonti, il sogno contro la realtà, la riforma del fisco per il rilancio dell'economia contro la manovra europea per il risanamento del bilancio dello Stato: dove possa trovarsi un punto di compromesso non si sa, e non è detto che si trovi. Per ora è muro contro muro, e il Cavaliere spera di abbattere quello del suo superministro: «Bisogna lavorare per piegare le sue resistenze. Mi sono rotto le scatole». Fuori i secondi. Anche Gianni Letta è stato visto scendere precipitosamente dal ring.

Francesco Verderami

09 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_giugno_09/


Titolo: Francesco VERDERAMI Governo al rimpasto
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2011, 04:15:08 pm
E tornano le voci di dimissioni di Tremonti

Governo al rimpasto

L'idea del Cavaliere

Il presidente del Consiglio vuole rafforzare l'esecutivo: il mio orizzonte era e resta il 2013


MILANO - Non basta porre al riparo l'economia italiana perché il governo possa sentirsi al riparo da un logoramento già in atto.
Perciò, dopo la manovra sui conti pubblici, Berlusconi dovrà procedere alle manovre per il riassetto dell'esecutivo.

All'emergenza dei mercati si affianca infatti l'emergenza di una compagine ministeriale da ristrutturare, se davvero il centrodestra vuole completare la legislatura senza inciampi, senza essere cioè costretto a passare la mano. L'idea è che il Cavaliere attenda l'autunno per un rimpasto, così da realizzare il suo obiettivo, siccome ripete sempre che «il mio orizzonte era e resta il 2013». E tuttavia già lo attende una prova che si è resa inevitabile dopo l'elezione di Alfano alla segreteria del Pdl: la nomina di un nuovo Guardasigilli. A Mirabello, venerdì scorso, il ministro della Giustizia aveva annunciato che si sarebbe dimesso entro questa settimana. Così sarà: con ogni probabilità venerdì prossimo lascerà l'incarico per dedicarsi esclusivamente al partito.

A Berlusconi serve un sostituto, quindi, e serve subito. Ma soprattutto gli serve un nome su cui poter incrociare il gradimento del capo dello Stato, che - guarda caso - ha accorciato la visita programmata in Croazia. Venerdì, invece di recarsi a Pola, Napolitano tornerà infatti a Roma «per impegni riconducibili alla manovra e alla complessiva situazione che ne deriva». Il lessico quirinalizio lascia intuire che il presidente della Repubblica rientrerà in Italia non solo per la firma del decreto economico.

E chissà se il capo dello Stato, sull'aereo che lo riporterà nella Capitale, siederà accanto a chi di lì a poco sarà il prossimo Guardasigilli. Chissà se chi lo avrà accompagnato nel viaggio cambierà nel giro di poche ore incarico: l'attuale ministro degli Esteri. È su Frattini che le voci si sono fatte insistenti, è lui il più accreditato e probabile successore di Alfano alla Giustizia. Dopo un mese la rosa dei nomi ha perso (quasi) tutti i petali: constatata l'indisponibilità di Cicchitto a lasciare la guida del gruppo Pdl alla Camera, messa agli atti la volontà di Lupi di restare alla vice presidenza di Montecitorio, si è tornati su Frattini, che pure era stato in precedenza contattato e aveva declinato l'offerta. Ora però Berlusconi sarebbe tornato a premere, chiedendo «un sacrificio» al titolare della Farnesina, che si trincera dietro un «no comment».

Se così fosse, risolto il problema del Guardasigilli si porrebbe però subito il problema del sostituto di Frattini. E qui si entra nel campo delle ipotesi, siccome le variabili sono numerose. Non c'è dubbio che Berlusconi avrebbe un po' di tempo per trovare un nome gradito al Colle. Al contrario della Giustizia, infatti, il premier potrebbe assumere l'interim della Farnesina. A meno che le voci di Palazzo non trovino poi clamorosa conferma, e davvero Tremonti lasci il dicastero dell'Economia appena il Parlamento avrà dato via libera alla manovra. Da giorni se ne parla nei pissi pissi del Transatlantico, anche se l'inquilino di via XX settembre aveva smentito proprio al Corriere l'intenzione di dimettersi.
È vero che nell'ultima settimana le cose sono precipitate, che nel frattempo i contrasti con il Cavaliere hanno toccato l'acme, che le vicende giudiziarie legate al «caso Milanese» - come testimoniavano ieri quanti lo hanno incontrato - lo hanno provato, e che le speculazioni finanziarie hanno intaccato l'immagine di chi era considerato uno «scudo» per l'Italia sui mercati. Ma se così fosse, se davvero Tremonti si dimettesse, accetterebbe poi di trasferirsi alla Farnesina?

È certo che «il rapporto fiduciario con Berlusconi si è rotto»: i ministri più vicini al Cavaliere non ne fanno più mistero. Così com'è vero che il premier in queste settimane ha svolto un sondaggio a Bruxelles per verificare l'impatto nell'Unione di un cambio della guardia all'Economia. Fonti qualificate del governo raccontano che nel colloquio avuto con il capo dell'eurogruppo Juncker, Berlusconi abbia affrontato l'argomento, parlandone come di una «ipotesi», e abbia accennato a un «autorevolissimo economista» come possibile sostituto di Tremonti. Ma senza fare nomi.
Un simile cambio della guardia, però, non potrebbe essere derubricato a semplice rimpasto, si tratterebbe infatti di una autentica rifondazione dell'esecutivo, che avrebbe bisogno di un nuovo battesimo parlamentare: si tratterebbe di un Berlusconi-bis. E il Cavaliere non sembra avere oggi la forza per procedere a un'operazione del genere, nonostante circolino voci sulla sua volontà di «valorizzare» alcuni ministri, come Sacconi, e di spostarne altri, come Brunetta. Senza dimenticare che resta da assegnare l'incarico delle Politiche comunitarie, lasciata vacante da Ronchi.

Insomma, dopo aver portato a casa la manovra economica, servirà del tempo al premier per prepararsi politicamente alle manovre di governo. Perciò, nell'eventualità, l'appuntamento è spostato per l'autunno, quando anche le inchieste giudiziarie potrebbero avere un ruolo nelle scelte. Ma nella Lega c'è chi - come Maroni - ritiene che il rilancio non possa limitarsi a un valzer delle poltrone, bensì passi attraverso l'azione di governo. Iniziando ad esempio dall'approvazione della legge delega per la riforma del fisco già prima della pausa estiva, come Bossi ha chiesto a Pontida.

L'autunno sarà caldo per il Cavaliere, malgrado anche stavolta abbia passato indenne l'«ora x» che prevedeva in prossimità della manovra economica una manovra di Palazzo per disarcionarlo: a parte i nomi dei possibili successori, mancano i numeri e le condizioni politiche in Parlamento. Perciò anche ieri il premier si è fatto forte, ribadendo la compattezza e la coesione della sua maggioranza. È stata la risposta a chi voleva spodestarlo. Ma senza un rilancio dell'esecutivo, Berlusconi rischia di trasformarsi in Pirro.

Francesco Verderami

13 luglio 2011 07:19© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_luglio_13/governo-rimpasto-idea-berlusconi-verderami_297ab4cc-ad0f-11e0-83b2-951b61194bdf.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Silvio e Giulio al duello finale
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2011, 11:36:34 am
Settegiorni

Silvio e Giulio al duello finale

La frattura tra Berlusconi e Tremonti è di visione strategica, collegata alla linea economica

C' è il capo d'azienda Berlusconi Silvio che si vanta di non aver mai licenziato nemmeno uno dei suoi cinquantamila e passa dipendenti. E c'è il capo di governo Silvio Berlusconi che se potesse avrebbe già licenziato il titolare dell'Economia, ma si lamenta di non poterlo fare, «perché non ho il potere di revoca, dovrei chiedere le dimissioni di tutti i ministri per riuscirci. E figurarsi se in un momento come questo...» .

Non è più una questione di rapporti personali, non è più nemmeno un problema di contesa per la leadership. La frattura tra Berlusconi e Tremonti è di visione strategica, collegata alla linea economica. È come se militassero in coalizioni contrapposte, «perché non esiste - si lamenta il Cavaliere - che in questi anni Giulio sia passato per il capo del partito del rigore e io per il capo del partito della spesa. Io sono il capo del partito della crescita». Perché «a forza solo di tagli», è la sua tesi, si finisce per «ammazzare il Paese».

Di screzi e battute dissacranti tra i due c'è una vasta antologia, pari solo a quella tra il premier e il presidente della Camera. Negli anni, Tremonti ha paragonato Berlusconi a un «nonnetto», e Berlusconi ha visto in Tremonti un «cospiratore». Ora invece c'è solo spazio per elogi e lodi: il titolare di Via XX Settembre sottolinea infatti come «Silvio sia l'unico capace di raccogliere ancora consensi», mentre il Cavaliere vede nel suo ministro «un tecnico con capacità fuori dall'ordinario». Ma è proprio questo reciproco riconoscimento delle doti altrui che fa capire come la storia sia davvero arrivata al capolinea.

Sul resto il disaccordo è totale, e gli interventi sul decreto hanno reso incolmabile la distanza. L'ultima querelle è figlia del diverbio sull'aumento dell'Iva. «L'avessimo fatta subito, saremmo stati tranquilli», impreca sottovoce Berlusconi, che ha visto convalidata la sua tesi dopo la difficile giornata di ieri, segnata dalle critiche di Bruxelles sui contenuti della manovra, e dall'impennata dello spread tra i Btp italiani e i Bund tedeschi. «Con l'Iva - secondo il premier - avremmo dato un segnale chiaro ai mercati e all'Europa», senza peraltro avere problemi con gli altri Paesi dell'area dell'Euro, «visto che la Germania, per esempio, ha un'imposta più alta».

Ed è vero che ieri il ministro dell'Economia si è affannato a spiegare agli uomini della commissione e ad alcune cancellerie la bontà della manovra e la validità dei suoi obiettivi, ma anche in questo caso Berlusconi ritiene che vada smentita «la storiella in base alla quale Giulio conterebbe più di me in Europa. È il contrario». A parte il fatto che all'estero c'è un deficit di credibilità dell'intero sistema politico, non c'è dubbio che l'uomo dei «conti in ordine» qualche colpo ultimamente l'abbia perso. Fino a qualche mese fa Tremonti era in cima alle simpatie del Paese, corteggiato dall'opposizione, indicato come possibile presidente del Consiglio, primo nella classifica dei ministri con un indice di gradimento oltre il 50% che faceva ingelosire il premier. Se in men che non si dica è precipitato di circa venti punti, c'è un motivo. A danneggiarlo nei sondaggi pare sia stato il modo in cui la crisi economica si è di colpo avvitata, costringendo così il governo a intervenire per fronteggiare l'emergenza.

Per questo Tremonti è finito nel mirino della pubblica opinione. Più che per il «caso Milanese», che pende comunque come una spada di Damocle sul capo del ministro e rischia di azzopparlo definitivamente se la Camera accogliesse la richiesta d'arresto per il suo ex consigliere politico. Anche se nel Pdl si chiedono quanto a lungo potrebbe resistere Tremonti a fronte di nuove rivelazioni provenienti dall'inchiesta giudiziaria, non è così che Berlusconi vorrebbe sciogliere il rapporto con il titolare di Via XX Settembre.

Eppoi «non è il momento», prima è necessario che si fermi o quantomeno rallenti l'ottovolante della crisi, prima serve che il governo porti a compimento la manovra. Poi, semmai il Cavaliere fosse ancora in sella, si renderebbe necessario discutere con la Lega un piano che consenta al centrodestra di rilanciarsi in vista delle elezioni. E siccome serviranno quasi certamente altri interventi, ci sarà un nodo da sciogliere: chi gestirà l'economia?

«Non possiamo affidare una nuova manovra a chi finora le ha sbagliate tutte», hanno sussurrato alcuni esponenti di governo all'orecchio del premier. E non c'entrano gli ultimi tagli ai dicasteri che hanno mandato su tutte le furie ministri come Maroni, La Russa e la Gelmini. Il nodo è politico, ed è stato posto pubblicamente dal responsabile del Viminale, secondo cui «l'Economia va spacchettata, perché non possiamo avere due presidenti del Consiglio». Quel messaggio è stato colto da Berlusconi, che - grazie anche ad Alfano - ha riaperto un canale di dialogo con Maroni...

Francesco Verderami

03 settembre 2011 09:00© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_03/silvio-e-giulio-al-duello-finale-francesco-verderami_eb0be96a-d5f7-11e0-a2ab-ce11126458a9.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Passerà la mano, ma non ora.
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2011, 05:59:24 pm
Settegiorni

Berlusconi, le voci e i timori sul "colpo finale" dei magistrati

Il retroscena

Passerà la mano, ma non ora.

Perché non intende sottomettersi ai «diktat» della politica e delle procure, «che dal '94 sono all'opera per togliermi di mezzo».

Ma dopo diciassette anni di conflitto con la magistratura, Berlusconi teme ciò che in pubblico dice di non temere affatto. E l'immagine che consegna ai fedelissimi è quella di un uomo provato da una lunga guerra di trincea.

I segni degli scontri risaltano sul volto del Cavaliere e ne minano la voce, che trasmette l'inquietudine di chi mette nel conto un'ipotesi estrema, un evento che cambierebbe il corso della storia politica italiana e marchierebbe quella personale di Berlusconi. I suoi uomini non osano nemmeno pensare ciò che il premier - abbandonato su un divano - arriva invece a dire, come a voler esorcizzare un traumatico finale di partita.

Il timore di un provvedimento restrittivo della libertà personale lo accompagna da giorni e non lo abbandonerà fino all'appuntamento di martedì con i magistrati napoletani, titolari al momento dell'inchiesta sul «caso Tarantini», una faccenda di presunti ricatti che ruota attorno all'ennesima storia di festini e di donnine in cui è coinvolto il Cavaliere. Nel modo in cui protesta la «libertà di fare ciò che voglio nella mia sfera privata», nel modo in cui rivendica «un diritto che andrebbe tutelato», si avverte come Berlusconi sia consapevole del danno che si è arrecato lasciandosi andare a «certe leggerezze», che non sono contemplate tra i suoi «fioretti» e che però nulla hanno a che vedere con «i reati».

All'esame di coscienza prevale tuttavia l'indignazione verso il sistema giudiziario, un potere che secondo il premier si fa gioco di ogni altro potere, e che nella fattispecie dell'inchiesta ha disseminato una tale serie di indizi da rendere manifesto - a suo giudizio - «l'intento politico e persecutorio». Del «caso Tarantini» Berlusconi contesta infatti la competenza della Procura di Napoli, le procedure usate dagli inquirenti e anche - anzi soprattutto - le modalità dell'interrogatorio a cui si dovrà sottoporre.

Perché passi che «Napoli non c'entra nulla» con reati che si sarebbero consumati tra Roma e Bari. Passi che «se io sono vittima di un'estorsione, vengo interpellato per capire se così stanno le cose, e non si arrestano le persone per fare trapelare le intercettazioni sul mio conto». Ma è il rendez-vous di martedì che - agli occhi del Cavaliere - rappresenta la vera insidia, e che gli fa capire come i magistrati abbiano studiato l'ultimo affondo nei suoi confronti. È nel faccia a faccia con i pubblici ministeri, da persona informata dei fatti, che Berlusconi intravvede la prova di come stiano preparandosi a infliggergli «il colpo di grazia».

Senza l'assistenza di un legale, solo davanti all'emblematico e storico «nemico», il premier scorge la minaccia, la contestazione della ricostruzione dei fatti, l'accusa di falsa testimonianza, e il conseguente e clamoroso provvedimento. Se così fosse, il fantasma che lo insegue dal '94 si farebbe carne. Se così fosse, per il Cavaliere sarebbe «un colpo di Stato». Non è dato sapere se abbia esplicitato i propri timori per alleggerirsi da un presentimento che lo opprime. Oppure se si sia mosso da abile regista della comunicazione per bloccare anzitempo una simile conclusione dell'interrogatorio.

Di sicuro il palazzo della politica ne è stato messo a parte, avversari e alleati sanno dell'ansia di Berlusconi. Tra i primi c'è chi gli ha proposto maldestramente uno «scambio», che al Cavaliere è parso «un ricatto». Tra i secondi c'è chi si defila per celare il proprio imbarazzo, sebbene i giudizi severi sui costumi di Berlusconi non cancellino i giudizi altrettanto severi sui metodi di certe procure.
Nel Pdl invece la solidarietà pubblica verso il premier è stata accompagnata da un senso di stordimento e di incredulità che in privato è tracimata fino a diventare rabbia. Perché davvero stavolta il Cavaliere «non poteva non sapere» che sarebbe stato intercettato, e l'imprudenza è arrivata così a sconfinare nell'impudenza. Per un Gianni Letta provato e senza più parole, c'è un partito preoccupato per le proprie sorti politiche, che inevitabilmente coincidono con quelle di Berlusconi.
Ma al destino del Cavaliere è accomunata un'intera classe dirigente: «Quando crollerà lui - disse Casini in tempi non sospetti - c'è il rischio che sotto le macerie ci si finisca tutti». Ecco perché tutti stanno con il fiato sospeso. Dopo diciassette anni di conflitto, Berlusconi si prepara alla sfida finale con la magistratura. Almeno, così sembra...

Francesco Verderami

10 settembre 2011 12:03© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_10/verderami-magistrati-berlusconi_885c2236-db78-11e0-b2c4-3586dc7a9584.shtml


Titolo: VERDERAMI - Il Pdl e il dubbio che cresce: c'è un problema di credibilità...
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2011, 11:57:20 am
Il retroscena

Il Pdl e il dubbio che cresce: c'è un problema di credibilità

La linea è «resistere». Ma la sortita di Pecorella segnala le prime crepe

ROMA - Finché a schierarsi contro Berlusconi sono stati l'establishment politico, le Procure e quella sorta di complesso finanziario-industriale che va sotto il nome di poteri forti, il centrodestra si è vantato di esser sempre riuscito a rompere l'assedio. Ma ora che contro Berlusconi è entrato in campo Berlusconi, tutto si è fatto maledettamente complicato. Perché è vero che l'eventuale declassamento del rating per l'Italia preoccupa più delle inchieste giudiziarie, ma è altrettanto vero che per il gruppo dirigente del Pdl e della Lega è diventato difficile difendere in pubblico lo stile di vita privato del Cavaliere e le sue frequentazioni.

Certo non è in questo modo che cadrà il premier, capace di sovvertire le leggi della fisica in politica e di rafforzarsi in Parlamento con nuovi arrivi, proprio nel momento di maggior debolezza. Ma la navigazione a vista cui il governo e la coalizione sono costretti permette così solo di sopravvivere, non di ipotecare il futuro puntando alla vittoria nelle urne. Perciò nel Pdl si affannano a cercare di invertire la tendenza, e il vertice di partito tenuto ieri senza Berlusconi è stato il tentativo - come dice il capogruppo Gasparri - di «costruire il futuro viste le difficoltà del presente».

Non c'è dubbio che tutti siano solidali con il premier, vittima di un'«offensiva giudiziaria perpetrata con ogni mezzo», però le carte delle inchieste consegnano un Berlusconi che scredita Berlusconi. Sarà pure «il reale obiettivo delle indagini», come sostengono i fedelissimi del Cavaliere, ma tutto ciò sta determinando un problema di «credibilità» per l'esecutivo e la maggioranza, perché impedisce al centrodestra di intestarsi i risultati dell'azione politica e di governo: ad esempio il varo della manovra economica. E di questo ai vertici del Pdl sono tutti consapevoli.

Lo stato dell'arte e la prospettiva di una débâcle elettorale accrescono lo sconcerto e il malcontento, che covano da tempo nella maggioranza. Non sono una novità le critiche verso Berlusconi di Salvini, leghista di rito maroniano, secondo cui il Cavaliere «ha esaurito il suo mandato, la voglia, la possibilità e la forza». I ripetuti affondi, l'ha spiegato ieri il sindaco di Verona Tosi - altro dirigente leghista vicino al titolare del Viminale - «non sono delle critiche all'alleanza, quindi al Pdl, ma a qualche scelta del premier». Traduzione: la coalizione sopravvivrebbe al Cavaliere.

Va messa quindi nel conto la possibilità che l'area della Lega fedele al ministro dell'Interno possa sfruttare il «caso Milanese» per sparigliare i giochi, utilizzando l'eventuale voto segreto alla Camera per la richiesta di arresto dell'ex consigliere politico di Tremonti. Ed è in questo filone che viene inserito il fantomatico progetto di sostituire in corsa Berlusconi con Alfano a palazzo Chigi, operazione che sarebbe coltivata dal leader dell'Udc Casini, dal dirigente cattolico del Pd Fioroni e dal segretario della Cisl Bonanni, con la complicità proprio di Maroni. Un'ipotesi a cui il coordinatore del Pdl Verdini non dà credito e che interpreta come «l'ennesimo tentativo di golpe, in tono minore, dopo quello fallito il 14 dicembre».

In effetti ancora ieri, Alfano e i vertici del partito hanno concordato sulla necessità di arrivare fino al 2013 con Berlusconi alla guida del governo, sapendo che allora il Cavaliere passerà la mano. La parola d'ordine dunque è «resistere», per evitare di offrire a Casini la possibilità di accaparrarsi pezzi del Pdl e della coalizione che, in caso di crisi dell'esecutivo, salterebbero. L'obiettivo è semmai quello di rafforzarsi sul territorio con i congressi, e al tempo stesso di aprire una trattativa con il capo dell'Udc, così da giungere in vista delle urne a un'intesa, ma da una posizione di forza e non di debolezza. Il terreno per coltivare l'accordo sarebbe stato trovato: il quoziente familiare sul versante economico e la legge elettorale sul versante politico.

Paradossalmente, proprio ciò che arrecava (e arreca ancora) fastidio al Cavaliere, cioè il partito, si è trasformato in un indispensabile strumento di difesa, l'ultimo che gli è rimasto insieme ai numeri in Parlamento. Ma il Berlusconi che scredita Berlusconi sta arrecando danni a Berlusconi. Al punto che un parlamentare finora legatissimo al premier, come il suo ex legale di fiducia, Pecorella, si è convinto che «in questa fase di emergenza» serva «un nuovo governo, di larghe intese, anche senza Berlusconi». Nel Pdl non è l'unico a pensarlo. Il malumore si manifesta in vari modi: è stato notato, per esempio, come mercoledì gli scaioliani abbiano votato tutti insieme la fiducia sulla manovra solo alla seconda «chiama». Riti da Prima Repubblica che si rinnovano nel finale della Seconda. Anche se non è così che cadrà il Cavaliere.

Francesco Verderami

16 settembre 2011 09:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_16/verderami_dubbio_cresce_adb019da-e027-11e0-aaa7-146d82aec0f3.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Letta media: se cade lui, cade il governo (cada pure!)
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2011, 11:42:18 am
IL RETROSCENA

La cabina di regia anti-Tremonti

Letta media: se cade lui, cade il governo

Prima di partire per gli Stati Uniti, Tremonti ha tolto tutte le carte dalla scrivania del ministero. Berlusconi vorrebbe che svuotasse anche i cassetti e togliesse il disturbo dal governo. Il titolare dell'Economia è però convinto di restare, non solo perché non si dimetterà ma anche perché «non hanno strumenti per cacciarmi». In realtà, il Cavaliere aveva pensato addirittura a una mozione di sfiducia individuale pur di chiudere il rapporto, e c'è voluto del tempo prima che Gianni Letta lo riportasse alla ragione.

«Silvio, non hai capito che se cade Giulio, cade anche il governo?». «Gianni, non hai capito che quello vuol far precipitare tutto». «Ho capito, ma un conto è se fossi tu a provocare lo scontro, altra cosa è se lui si dimettesse». Così è nata l'idea del direttorio a Palazzo Chigi, una task force economica sotto l'egida di Letta da contrapporre al titolare di via XX settembre. Più che spacchettarlo - come voleva Maroni - si pensa almeno a impacchettare Tremonti, a svuotarne i poteri, costringendolo alla collegialità, alla mediazione su ogni provvedimento, fino a metterlo in minoranza nelle riunioni del Consiglio dei ministri. «E vedremo quanto a lungo resisterà».

L'operazione tuttavia non è facile, e in più è Berlusconi ad avere fretta, perché deve dare un segnale al Paese sul versante economico prima di muovere guerra alla magistratura sul fronte giudiziario. Perciò il premier era deciso a sostituire subito Tremonti con Grilli, riproponendo il copione di sei anni fa: anche allora infatti era stato un direttore generale del Tesoro (Siniscalco) a subentrare al «genio». L'idea del cambio in corsa resta, ma per il momento il Cavaliere ha dovuto ripiegare su una struttura, il direttorio, tutta da costruire e che evoca la famosa «cabina di regia» chiesta nel 2002 da Fini proprio per contenere lo strapotere del superministro: fu quello il primo passo verso il «dimissionamento» di Tremonti.

Rispetto ad allora però Tremonti non ci pensa nemmeno a fare un passo indietro, e per quanto indebolito politicamente, si dice pronto ad affidare a Berlusconi la regia: «Si assuma lui la responsabilità di stabilire i tagli ai ministeri, i tagli alle pensioni. Faccia lui, insieme a Letta». Più che un segno di disponibilità sembra una sfida, a difesa delle proprie idee che - a suo modo di vedere - erano vincenti. L'uomo del «rigore» respinge infatti la tesi di aver «sbagliato quattro manovre», come gli contestano i suoi accusatori nel governo e nella maggioranza: «La verità è che fino a quando ho gestito io la situazione, lo spread tra i Btp e i Bund tedeschi era molto basso. Poi...».
E qui comincia l'arringa difensiva di Tremonti, una storia che parte dalla sconfitta alle Amministrative, «quando Berlusconi non accettò l'idea che il risultato fosse stato causato dal bunga-bunga e non dalla linea di politica economica». In quel periodo il Cavaliere provò a rilanciarsi parlando di riforma del Fisco e di un possibile taglio delle tasse, «e da quel momento i mercati iniziarono a punirci». Fino ai giorni drammatici di agosto, quando il governo si trovò costretto alla manovra d'emergenza e il premier - secondo Tremonti - «provò a fare di testa sua».

In effetti fu del Cavaliere l'idea di chiamare il presidente della Bce per avere idee alternative a quelle del superministro, «e se chiamò Trichet, lo fece perché con lui poteva parlare in francese», sottolinea con una punta d'agro: «Ma la famosa lettera l'hanno scritta a Roma, mica a Francoforte. Figurarsi se lì gli veniva in mente l'abolizione delle Province, per esempio...». È a Draghi che allude Tremonti, all'«agente tedesco che fa gli interessi di Berlino», come una volta ha definito il governatore uscente di Bankitalia: «E quando Berlusconi ricevette la lettera si mise ad urlare dalla rabbia, perché aveva capito di esser stato ingannato».

Insomma, l'imputato scarica ogni responsabilità sul suo accusatore: sarebbe stato il Cavaliere a «organizzarsi da solo la trappola in cui poi è caduto». Così Tremonti si discolpa, e aspetta di conoscere le mosse del nuovo direttorio, vuole capire quale sarà il piano per la crescita. Perché di soldi non ce ne sono, «a meno che non si intenda contravvenire al patto del pareggio di bilancio per il 2013», né si può procedere con le dismissioni: «Lo Stato non può svendere gioielli di famiglia come l'Eni o l'Enel ora che le azioni in Borsa sono così basse». Resta l'altra strada, quella di operare «a costo zero, procedendo con le liberalizzazioni. Ma il Pdl lo accetterebbe? Perché ogni volta che ci ho provato, gli interessi corporativi hanno trovato udienza da Berlusconi...». Se c'è una cosa che manda in bestia i dirigenti del Pdl è l'aura di infallibilità che si è creata attorno a Tremonti. «Non passa riunione in cui non dica di aver previsto tutto», si lamentava tempo fa Verdini durante una riunione di partito: «E quanto ce l'ha tirata con la storia del suo libro, in cui sosteneva di aver previsto la crisi mondiale. Io l'ho letto quel libro. C'è scritto che la crisi sarebbe partita dalla Cina. Invece è scoppiata negli Stati Uniti...». Ecco qual è il livello delle relazioni. E non c'è dubbio che la situazione sia davvero imbarazzante.

Berlusconi e Tremonti continuano a non parlarsi, ma se le mandano a dire, come fossero acerrimi avversari. «Mai però ho parlato male di lui all'estero», sottolinea il superministro: «Non fosse altro perché avrei indebolito la mia posizione negoziale». Così dicendo sembrerebbe aprirsi uno spiraglio, ma è solo un abbaglio: «Io non ho mai parlato male di Berlusconi. Altra cosa è che di lui parlino male all'estero...».

L'incompatibilità è caratteriale oltre che politica. A tenerli insieme è solo il reciproco (e contrapposto) interesse alla sopravvivenza. Eppoi c'è Bossi. È lui che può decidere le sorti della contesa. Il Senatur sta facendo molto per il Cavaliere, «andremo avanti insieme, Silvio, fino in fondo», ma resta amico di Tremonti, «a lui gli voglio bene». È l'ultimo rimasto però nella Lega, insieme a Calderoli: oltre Maroni, anche nel «cerchio magico» monta l'ostilità verso il superministro, convinto però che sia tutta tattica e che «Umberto tra qualche mese saluterà Berlusconi e porterà tutti al voto l'anno prossimo».

Francesco Verderami

24 settembre 2011 09:18© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_24/cabina-regia-tremonti-verderami_ea718142-e66c-11e0-93fc-4b486954fe5e.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Le tensioni sulla nomina per Bankitalia
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2011, 09:57:03 am
Il match settimanale tra Berlusconi e Tremonti se l'è aggiudicato il ministro dell'Economia

Le tensioni sulla nomina per Bankitalia

L'attenzione del Quirinale per salvaguardare l'indipendenza dell'autorità


ROMA - Lo scontro tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti ha ormai travalicato il perimetro politico, invadendo i confini istituzionali: è ormai evidente infatti che nella contesa tra il presidente del Consiglio e il titolare dell'Economia c'è anche la nomina del nuovo Governatore di Bankitalia. Così una pericolosa mano di Risiko a Palazzo Chigi si è trasformata in un rischioso giro di Monopoli che coinvolge Palazzo Koch. Non è un caso infatti se il dossier sul successore di Mario Draghi è stato oggetto del colloquio tra il Cavaliere e il superministro, se Berlusconi - pur di garantirsi una tregua - per la guida dell'Istituto di via Nazionale ha riaperto uno spiraglio alla candidatura di Vittorio Grilli, sostenuto da Tremonti.

Nulla è stato ancora deciso, «ne parleremo in Consiglio dei ministri», ha detto il premier al responsabile dell'Economia. Ma già in Italia rimbalzano le voci provenienti dall'Europa, e accreditano l'ipotesi che il direttore generale del Tesoro sia in corsa, al punto che tanto il presidente dell'Ue Herman Van Rompuy quanto il presidente della Commissione Josè Barroso sarebbero stati informalmente avvisati. Eppure una settimana fa, dopo l'incontro al Quirinale tra il capo dello Stato e il capo del Governo, sembrava fatta per la «promozione» di Fabrizio Saccomanni, attuale direttore generale di Bankitalia, che resta comunque accreditato.

In realtà il saliscendi nel borsino di Palazzo Koch è solo un espediente tattico del Cavaliere, un modo per prendere tempo in attesa della scelta definitiva. Non c'è dubbio infatti che questo passaggio garantisca ancora a Berlusconi un peso politico, la possibilità cioè di avere una interlocuzione istituzionale e di fissare una linea di politica economica. Il problema è che lo stallo politico nel governo finisce per riflettersi sulle cariche istituzionali. E se il Colle non si è intromesso, né intende farlo, nelle questioni interne all'esecutivo e alla maggioranza, non accetta però che la nomina del nuovo Governatore venga politicizzata. E vuole sottrarla all'immagine di una transazione politica.
A giugno Giorgio Napolitano si era mosso pubblicamente, auspicando che il passaggio fosse gestito seguendo le «regole procedurali», «senza forzature politiche e contrapposizioni personali», per tenere Palazzo Koch e il futuro presidente della Bce «al riparo da laceranti dispute». Di più, il capo dello Stato si era mosso anche riservatamente, inviando una lettera personale a Berlusconi, sottolineando che è «prerogativa esclusiva» del premier indicare il nome del candidato da proporre al Consiglio superiore della Banca d'Italia, e che solo dopo - previa concertazione con il Quirinale - tocca al governo la ratifica.

S'intuisce perciò l'irritazione del Colle in queste ore, dato che il presidente della Repubblica attende da quattro mesi la valutazione del Cavaliere, e che a novembre Draghi si insedierà alla Bce. Il tempo passa. La logica del rinvio e l'irritualità nelle procedure allarmano sia il capo dello Stato sia Bankitalia, e al contempo disorientano e sconcertano le istituzioni europee. Segnali in tal senso arrivano da Bruxelles e da Francoforte. Per questo Napolitano aveva richiamato sulla nomina a un «clima di discrezione», che invece lascia il posto a un evidente conflitto all'interno del governo tra il premier e il titolare dell'Economia: una impropria mediazione che mette a repentaglio l'indipendenza dell'Istituto di via Nazionale, lesiona il prestigio della carica e di chi finora l'ha occupata, e offre ai mercati un'immagine negativa delle istituzioni nazionali.

Nonostante le preoccupazioni del Colle e le pressioni perché si operi al più presto, non sembra però arrestarsi il braccio di ferro nel governo. E Tremonti non si arrende all'idea che Saccomanni succeda a Draghi. A suo giudizio, Grilli a Bankitalia sarebbe «la migliore soluzione per il Paese e per il governo»: sarebbe «un argine alla tecnocrazia europea». La scorsa settimana si è speso perché Berlusconi non chiudesse il dossier, dando il via libera alla «soluzione interna», cioè alla nomina dell'attuale direttore generale di Palazzo Koch. Un'estenuante trattativa tra il premier e il ministro dell'Economia aveva portato alla «fumata nera», tanto che il Cavaliere - salendo in serata al Quirinale - non si era sbilanciato sul nome del nuovo Governatore. Raccontano che Gianni Letta fosse furibondo: «Siamo ormai alla circonvenzione», aveva commentato. Tuttavia Saccomanni restava e resta in pole position.

Ora che il giro di Monopoli sta diventando il gioco dell'oca, ora che il nome di Grilli torna alla ribalta, nessuno però nel Pdl scommette che Berlusconi compia l'ultimo passaggio e acceda alla richiesta di Tremonti, siccome «non ha alcuna intenzione di mettersi contro il presidente della Repubblica e il futuro presidente della Banca centrale europea». Piuttosto il Cavaliere ha bisogno di tempo, «una decina di giorni» prima di sciogliere la riserva. Non è dato sapere se ieri ne abbia informato il Quirinale, è certo che - per quanto sia supportato in questa partita da Umberto Bossi - il ministro dell'Economia difficilmente la spunterà: è nel mirino del premier.

La tregua di queste ore appare fragile e non sarà facile cancellare i segni dello scontro tra i duellanti. L'attacco portato la scorsa settimana dal Cavaliere al titolare di via XX settembre non è stato casuale, e il suo giudizio sul superministro resta scolpito in una battuta fatta al vertice del Pdl dopo il voto alla Camera su Milanese, al quale Tremonti non ha partecipato. Quando il premier è entrato nella sala della riunione e ha visto i dirigenti del partito sedersi, ha sibilato: «Lasciate un posto libero. Pare che Giulio stia tornando...».

Francesco Verderami

28 settembre 2011 07:48© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_settembre_28/verderami-bankitalia-tensioni_e90b9634-e992-11e0-ac11-802520ded4a5.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Ancora scontro su Bankitalia
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2011, 11:03:19 am
Il retroscena

Ancora scontro su Bankitalia

Berlusconi-Tremonti, tregua già in bilico

L'allarme nel Pdl: se cede a Giulio sul Governatore, il cavaliere firma la sua definitiva Caporetto


Prima di capire chi sarà il governatore di Bankitalia, c'è da capire chi è il presidente del Consiglio. Perché il braccio di ferro tra Berlusconi e Tremonti sul successore di Draghi segnala come lo scontro tra i due non sia cessato, e che - nonostante l'appello di Napolitano a tenere l'Istituto di via Nazionale fuori dalla disputa politica - attorno al nome del prossimo inquilino di Palazzo Koch si sta giocando l'ultima partita tra il Cavaliere e il superministro.
Il danno che si sta arrecando al prestigio di Palazzo Koch non è tanto causato dalle divergenze sulla scelta, quanto dal modo in cui il premier e il responsabile dell'Economia si stanno muovendo. Talmente plateale è il duello, infatti, da aver costretto Bankitalia a uscire allo scoperto per difendere la propria autonomia. Anche su questo si è soffermato Draghi durante l'incontro con Berlusconi a palazzo Chigi. E dinnanzi alle preoccupazioni espresse dal futuro presidente della Bce, il premier avrebbe inteso dare un segnale, anticipando la volontà di sciogliere presto - forse già oggi - le proprie riserve a favore di Saccomanni, attuale direttore generale della Banca d'Italia, definito «persona preparata, seria e posata».

Così si porrebbe fine alla disputa tra Berlusconi e Tremonti, che tuttavia non demorde e continua a sostenere la candidatura a via Nazionale del direttore generale del Tesoro, Grilli. Nel corso della cena a casa del Cavaliere, l'altra sera, il suo pressing sembrava avesse fatto breccia sul premier. Pur di riuscire nell'intento il superministro si era portato appresso Bossi e quasi tutto lo stato maggiore della Lega, mettendo di fatto in minoranza il segretario del Pdl Alfano e costringendo al silenzio Gianni Letta.
«C'è una qualche opposizione al nome di Grilli», aveva esordito a tavola Berlusconi. «Non ne vedo le ragioni», aveva replicato Tremonti. «Giulio, cerca di capire. Dobbiamo pensare ai mercati». «E perché mai i mercati dovrebbero prenderla meglio se ci fosse Saccomanni e non Grilli alla Banca d'Italia?». «Alla fine della cena - raccontava ieri il ministro della Lega, Calderoli - per Grilli era praticamente fatta. Poi...».

Poi è partita la controffensiva nel Pdl. Dalle più alte cariche fino all'ultimo parlamentare, passando dai ministri e dai dirigenti di partito, si è scatenata un'autentica rivolta. Quando Bossi ha dato pubblicamente il suo sostegno al nome di Grilli, una sorta di cordone sanitario è stato steso attorno a Berlusconi. E (quasi) tutti ripetevano lo stesso concetto: «Se Silvio cede a Tremonti sul Governatore, sarà la sua definitiva Caporetto».

In quel momento è parsa visibile la frattura insanabile tra il Pdl e il titolare di via XX settembre, frattura che oggi dovrebbe essere sancita da un vertice, dove (informalmente) verrà dato sostegno alla scelta di Berlusconi. Ma ieri, in quel frangente, la partita su palazzo Koch non era ancora chiusa, e nelle pieghe di un governo in difficoltà fiorivano le tesi più disparate, dall'idea di un «terzo uomo» con cui superare lo stallo tra Saccomanni e Grilli, all'ipotesi irrealistica che Berlusconi proponesse entrambi i nomi al Consiglio superiore della Banca d'Italia.

E nella battaglia non era coinvolta solo la politica, se è vero che a favore del direttore generale del Tesoro si sarebbe mossa la finanza internazionale, comprese alcune importanti società di rating. Così come si sarebbe mosso il Vaticano, promotore di una discreta (e insistente) attività di sponsorizzazione a favore di Anna Maria Tarantola, membro cattolico del direttorio di Bankitalia.

Il faccia a faccia tra Berlusconi e Draghi ha rimesso ordine alla vicenda, diventata ormai imbarazzante per le istituzioni. Il successivo colloquio avuto dal Cavaliere con Tremonti non ha però quietato il superministro, durissimo nel commentare la scelta di Saccomanni e soprattutto l'attivismo del futuro presidente della Bce: «Non è pensabile che Draghi faccia il giro delle sette chiese per imporre il nome del suo successore. Cedere ai suoi voleri è follia». Secondo Tremonti, Grilli sarebbe il Governatore che «serve al Paese» per «fronteggiare gli euroburocrati» e per non darla vinta al «nemico» che nei suoi ragionamenti ha le sembianze di Draghi, «l'agente tedesco».

Parole pesanti in un clima pesante nel governo, con i ministri sul piede di guerra con il titolare dell'Economia ma anche con Berlusconi. Perché se è vero che Tremonti sembra sul punto di perdere il duello su Bankitalia, è altrettanto vero che ieri l'inquilino di via XX settembre ha presentato al premier il decreto con i tagli ai dicasteri, costringendolo a firmare. Altro che cabina di regia, altro che collegialità: si tratta di un provvedimento «chiavi in mano» sul quale i colleghi di Tremonti non hanno potuto mettere il becco. Prendere o lasciare. E il Cavaliere ha dovuto prendere. I responsabili di quasi tutti i dicasteri, sbigottiti, sono saliti subito sulle barricate.

È tale lo scompiglio che il Consiglio dei ministri non è stato ancora convocato. Gianni Letta sta cercando di porre riparo allo sbrego, sebbene lui stesso sia irritato con il Cavaliere, perché costretto ieri mattina a partecipare al tavolo delle infrastrutture organizzato all'Economia, «mentre si sarebbe dovuto tenere a palazzo Chigi». Questa sarebbe la «tregua operosa», come la definisce Tremonti, che osservando il gran da fare dei colleghi sul decreto per lo sviluppo ha commentato: «Stanno facendo solo casino».

Francesco Verderami

29 settembre 2011 15:27© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/11_settembre_29/berlusconi-tremonti-la-tregua-gia-in-bilico_b468e486-ea69-11e0-ae06-4da866778017.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI La mossa di Casini: alle urne così
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2011, 09:52:00 pm
Settegiorni

La mossa di Casini: alle urne così

Il "corteggiamento" alla Marcegaglia


A lle urne, e senza cambiare la legge elettorale: non è Silvio Berlusconi a dirlo, è Pier Ferdinando Casini ad auspicarlo. Perché il leader dell'Udc non crede fino in fondo alle manovre in corso nel centrodestra per spodestare il Cavaliere, teme piuttosto un pasticciaccio brutto sul sistema di voto, un «porcellissimum» con cui Pdl e Pd farebbero fuori il Terzo polo.

Se così stanno le cose, meglio pararsi il fianco e puntare alle elezioni nel 2012. Nell'Udc già si scommette sulla data: il 15 e 16 di aprile. Non è dato sapere su cosa riponga tanta sicurezza Casini, se abbia preso per buone le confidenze di Giulio Tremonti, secondo cui «il governo non potrà arrivare al 2013, viste le scelte economiche impopolari e pesanti» che ha dovuto fare. Di certo il capo dei centristi si sta attrezzando già per la bisogna, siccome è scettico sulla possibilità che si arrivi a un cambio di governo nel finale della legislatura.

A suo modo di vedere, infatti, «non ci sono le condizioni politiche» per realizzarlo. E tuttavia attende che si consumi l'ultima possibilità, affidata a due «vecchi amici» che militano nel fronte berlusconiano. Beppe Pisanu e Claudio Scajola hanno dna democristiano come il suo, ma ciò non basta a rassicurarlo: «Avranno i numeri e la forza di staccarsi dal Pdl e di costituire gruppi parlamentari autonomi? E soprattutto saranno pronti a votare la sfiducia al governo? Perché questo dovranno fare, altrimenti il premier non si dimetterà per un incidente di percorso».

Sono domande che restano per ora appese, ma per le quali Casini attende risposta a stretto giro, «entro una settimana, dieci giorni al massimo», ha spiegato ai suoi interlocutori. Evocando le elezioni anticipate, il capo dei centristi prova a esercitare una pressione sugli «indignados» del centrodestra, e cerca di capire se è sincera la loro volontà di porre fine alla stagione del Cavaliere o se è un escamotage per concludere una trattativa interna al Pdl, garantendosi posti e ruoli nel partito: «E fino a prova contraria...».

I dubbi di Casini sono gli stessi di Francesco Rutelli e Gianfranco Fini, secondo cui «non accadrà purtroppo nulla». Mai dire mai in politica. Però è sempre meglio non farsi trovare impreparati. E il leader dell'Udc si sta muovendo come fosse già in campagna elettorale, punta sull'attuale sistema di voto, dopo che Silvio Berlusconi «non ha accettato la nostra proposta», togliere cioè il premio di maggioranza e introdurre le preferenze: «Se fosse stato intelligente...». Questione di punti di vista.

E comunque, piuttosto di ritrovarsi con un «porcellissimum» che spazzerebbe via il terzo polo nelle urne, è preferibile il «porcellum», con cui scegliersi candidati fedelissimi e puntare a conquistare al Senato i seggi necessari per essere determinanti nella formazione di qualsiasi maggioranza di governo. I sondaggi in tal senso sono al momento confortanti: la coalizione di Casini viene quotata appena sotto il 13%. D'altronde con Berlusconi a palazzo Chigi non c'è possibilità che il terzo polo si allei con il Pdl, ma nemmeno con il Pd. Anche i sondaggi sconsigliano al capo dei centristi un abbraccio con i Democrat: secondo i test che ha commissionato, finirebbe addirittura per perdere dal Cavaliere.

«Meglio soli», dunque. Anzi, meglio scegliersi la compagnia. E da tempo il capo dei centristi corteggia Emma Marcegaglia, nella speranza che - lasciata Confindustria - accetti di essere lei la leader del terzo polo alle urne. È vero che i test sono favorevoli a Casini, insieme a Di Pietro «il leader più apprezzato», come sostiene l'ultimo report dell'Osservatorio politico nazionale: è lui infatti a trainare il terzo polo che «continua a soffrire l'effetto Fini».

La candidatura della presidente uscente degli industriali sarebbe però un modo per dirimere la questione del candidato premier con i leader di Fli e dell'Api, e consentirebbe a Casini di non compromettersi troppo nella competizione elettorale. È preferibile mantenere un profilo istituzionale per chi vuole in prospettiva gareggiare per la presidenza della Camera, e poi per quella della Repubblica...

Casini è così convinto dell'idea da aver fatto testare la Marcegaglia, e secondo alcuni istituti di ricerca una donna imprenditrice sarebbe una novità che raccoglierebbe voti dal serbatoio degli indecisi e drenerebbe consensi dagli schieramenti avversari. In più sarebbe una candidatura ideale «in funzione anti montezemoliana», si è detto nelle riunioni riservate del terzo polo, dove sono stati analizzati anche dei sondaggi sull'attuale presidente della Ferrari, che «in questa fase di nuovismo» incontra «i favori dell'opinione pubblica», e vanta - secondo la Lorien Consulting - il 26,9% dei giudizi positivi. Appena quattro punti in meno di Casini.

In campagna elettorale non bisogna lasciare nulla al caso e il leader dell'Udc si sente già in competizione, al punto che starebbero decidendo anche le candidature, e il presidente della Camera avrebbe deciso di optare per il Senato. Formalmente Casini aspetta di sapere come si concluderà l'operazione frondista nel Pdl. In cuor suo però ha deciso: preferisce le urne l'anno prossimo e con questa legge elettorale, avendo in tal caso chiara la strategia dopo il voto. Vuol costringere all'accordo di governo il centrosinistra e provare a disarticolare il centrodestra, con il Pdl in rotta e orfano del Cavaliere. Lo schema è semplice in questo quadro politico bloccato: se cambiasse il governo, invece, cambierebbe lo scenario. E Casini vuole giocarsi la partita in proprio, piuttosto che condividerla con altri, fossero anche dei «vecchi amici».

Francesco Verderami

08 ottobre 2011 16:16© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_08/la-mossa-di-casini_d85b25dc-f178-11e0-8be4-a71b6e0dfe47.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Un incidente. Con complotto
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 10:19:09 pm
La maggioranza: gli scenari

Un incidente. Con complotto

E il Cavaliere: alle urne nel 2012

La «road map»: caduta a gennaio e elezioni anticipate in primavera


ROMA - Come una stella che si trasforma in buco nero, Berlusconi si rende conto di aver inghiottito ormai anche se stesso.
Perciò dà per scontate le elezioni anticipate: «Si voterà l'anno prossimo», pronosticava infatti prima che alla Camera succedesse il patatrac. Non è il voto sul rendiconto dello Stato che decreterà la crisi di governo, nonostante il groviglio giuridico sul disegno di legge bocciato rischi di diventare un nodo scorsoio per l'esecutivo. Il punto è che il clamoroso tonfo del centrodestra a Montecitorio ha fatto scattare un'ora x a cui tutti giungono impreparati: lealisti e frondisti, maggioranza e opposizione. E ha ragione quindi il coordinatore del Pdl Verdini, quando sostiene che «a buttar giù Berlusconi non saranno né Pisanu né Scajola, ma la legge del caos», suprema ordinatrice di un sistema dove regna il disordine.

Visto che così stanno le cose, ogni teoria sul disarmante fallimento di ieri del governo può essere considerata valida. Si è trattato di un complotto, anzi di un incidente. Eppure una settimana fa l'ex capogruppo dei Responsabili, Sardelli, aveva inviato al Cavaliere una mail con la quale lo avvisava testualmente: «Presidente, attento che la prossima settimana andremo sotto. Ti consiglio di cambiare tattica, e di passare dal catenaccio al possesso palla». E ancora qualche minuto prima del fatidico voto, era squillato il cellulare di Scajola: «Claudio affrettati, anche il capo sta arrivando in Aula». «Il capo» c'era ad assistere alla propria sconfitta, Scajola è arrivato qualche minuto dopo.

Siccome sospetti e liste di proscrizione accompagnano ogni disfatta, nell'elenco di Berlusconi sono finiti anche Bossi e Tremonti, che tuttavia persino Crosetto - suo acerrimo censore nel Pdl - per una volta ha teso a discolpare: «Non ha fatto in tempo a votare, stavolta non c'entra nulla. Non è per questo che se ne dovrebbe andare». Il paradosso è che Tremonti e Scajola, uniti nell'assenza, sono divisi su tutto il resto. Tanto che - nel corso del rendez-vous con Berlusconi a palazzo Grazioli - tra le varie richieste l'ex titolare dello Sviluppo economico avrebbe inserito anche la testa del superministro. Potesse, il Cavaliere lo avrebbe già accontentato.

Complotto, o peggio ancora incidente di percorso, il voto di Montecitorio è comunque il segno di una legislatura ormai morente, e la fiducia a cui intende ricorrere il Cavaliere appare come un pietoso lenzuolo per coprire la realtà dei fatti. Ma potrebbe trasformarsi in un rischio, che a quel punto certificherebbe la fine del governo. Verdini finora ha sempre azzeccato i numeri, è stato lui d'altronde ad assicurare a Berlusconi la fiducia il 14 dicembre, e anche stavolta è convinto che il premier supererà la prova: «Alla Camera prenderemo 322 voti. Facciamo 320, non di meno».

Sarà, ma il Pdl deve fare attenzione al malcontento che è montato nella Lega e che Bossi fatica a gestire. Le avvisaglie di una rivolta si scorgevano ieri tra i deputati veneti, stanchi di appoggiare l'esecutivo. A calmare le acque ci ha pensato Maroni, secondo cui la fiducia accompagnerebbe «un programma aggiornato di fine legislatura», dall'orizzonte dunque limitato: gennaio 2012. Insomma, «si voterà l'anno prossimo» come lo stesso Berlusconi aveva detto l'altro ieri. Un'opzione che trova favorevoli i leader delle maggiori forze di opposizione, a partire da Bersani e Casini.

Ma per arrivare a gennaio il Cavaliere dovrà intanto risolvere il rebus della legge bocciata ieri alla Camera e che in qualche modo va approvata. È probabile che l'esecutivo, per superare l'ostacolo prodottosi dal voto di Montecitorio tenterà di passare attraverso il Senato, alla fine di una disputa che si preannuncia durissima e che sarà giocata in punta di Costituzione e di precedenti.

Rien ne va plus. Non sembrano esserci più margini politici per altre soluzioni di governo in Parlamento. Non c'è più spazio nemmeno per l'approvazione di provvedimenti come la riforma sulle intercettazioni, che Berlusconi aveva ripreso a brandire come una bandiera. In realtà sono altre le norme a cui tiene maggiormente: per esempio quelle inserite nel ddl sulla «prescrizione breve», che sono all'esame del Senato, e che in due settimane - se venissero approvate - consentirebbero al premier di evitare la sentenza di primo grado sul «caso Mills».

È una corsa contro il tempo con il tempo che per il governo è già scaduto. L'orizzonte del 2013 era svanito già prima del voto di ieri, il Cavaliere se n'era reso conto, e poco importa se le sue recriminazioni ora si concentrano anche su Bossi. Resta da capire quali saranno le ripercussioni in un Pdl che ora sarà chiamato a scelte difficilissime: lo scontro è iniziato e passerà dalle primarie. D'altronde nessuno tra i maggiorenti del partito ha più intenzione di attendere che il premier ufficializzi il passo indietro. Il dopo-Berlusconi è praticamente iniziato.

Francesco Verderami

12 ottobre 2011 07:33© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_12/un-incidente-con-complotto-e-il-cavaliere-alle-urne-nel-2012_cc19b1d6-f492-11e0-a9a5-9e683f522ea7.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il premier: pronto a reagire con durezza
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2011, 06:10:20 pm
Settegiorni

Il premier: pronto a reagire con durezza

Un'eventuale «aggressione politica personale» diventerà una «difesa degli interessi nazionali»


È pronto a trasformare un'eventuale «aggressione politica personale» in una «difesa degli interessi nazionali», così il premier si prepara al vertice europeo. L'ansia della vigilia attanaglia Berlusconi, consapevole che è complicato rompere l'accerchiamento quando non si hanno armi, quando cioè un governo non dispone dei fondi necessari per predisporre un piano di sviluppo degno di tale nome. Ma il Cavaliere non intende cedere alle pressioni che vengono da Roma e da Bruxelles, non si presenterà da imputato politico dinnanzi ai partner europei. Insomma, non accetterà di fare da capro espiatorio, da vittima sacrificale su cui «scaricare i dissidi franco-tedeschi sulla gestione della crisi».

E semmai la Merkel e Sarkozy dovessero tentare l'affondo, il premier si dice «pronto e determinato a reagire in maniera dura»: «Non devono spiegare a me come fare. Ho creato dal nulla un'azienda con decine di migliaia di dipendenti», si impunta come per farsi forza. Per una volta Gianni Letta annuisce e non ammonisce, siccome il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sa che passa da Bruxelles la linea del Piave dell'esecutivo, e che non c'è un unico colpevole per la situazione in cui versa l'economia dell'Unione.

Scagli il primo bilancio chi è senza peccato. Certo, il peccato originale dell'Italia è il debito pubblico che rischia di inghiottirla, «un mostro che - prosegue Berlusconi - abbiamo ereditato dal passato, dalle maggioranze delle ammucchiate», giusto per ricordarlo a quanti auspicano un governo di grande coalizione «o di responsabilità nazionale, come lo chiamano oggi»: «E comunque, per quanto il nostro debito sia elevato, siamo sempre riusciti a onorarlo. E continueremo a farlo».

Perché non solo «l'Italia non è la Grecia», «la verità - quella che racconta il Cavaliere - è che finora abbiamo fatto fronte a tutte le richieste, e in poco tempo, anche davanti alle emergenze. Tutto ciò che era possibile fare, questo governo l'ha fatto: abbiamo i fondamentali in ordine, saremo il primo Paese che arriverà al pareggio di bilancio, i dati economici smentiscono le tesi decliniste».
All'irritazione per le pressioni di Confindustria, si è aggiunta ieri per il premier una forte arrabbiatura dovuta alla frustata dell'Unione Europea, che con linguaggio spiccio e poco diplomatico ha chiesto al governo «nuove e urgenti misure per la crescita». Più che un biglietto d'invito al vertice di Bruxelles, è parso un avviso di mora verso un socio di club inadempiente. Non che Berlusconi sia stato colto di sorpresa, dopo certe «singolari telefonate» ricevute da alcune cancellerie europee. Con la Merkel, per esempio, in questi giorni ha avuto almeno due colloqui. Perciò è falso - almeno così sostiene il premier - che si sia contrariato per la conversazione tra il capo del governo tedesco e Napolitano.

Il punto è un altro, è il gioco politico che si muove attorno al capezzale dell'Europa. «In giro per le capitali è tutto un pianto», racconta il titolare delle Infrastrutture, Matteoli: «C'è una gara ad autoconsolarsi. I tedeschi dicono che i francesi stanno messi peggio. I francesi dicono che stanno messi peggio gli italiani. Noi italiani diciamo che stanno messi peggio gli spagnoli... E così via, fino alla Grecia». Ma il gioco dello «scaricabarile» di Germania e Francia sull'Italia, per Berlusconi è inaccettabile. Di questo ha discusso con i suoi ministri, mentre esaminava il decreto sviluppo. E sottolineando la propria «esperienza» di vertici europei, «dove sono il più anziano tra i partecipanti», ha ricordato quando accanto a lui «c'erano personaggi come Kohl e Mitterrand». È stato un modo per innescare il paragone con i loro successori, tra chi «gira l'Europa quasi fosse il presidente del Consiglio dell'Unione», e chi vorrebbe trasformare il proprio Paese da «locomotiva economica» a «guida politica» dell'Ue.

Tutti comunque nel Vecchio Continente (e anche nel Nuovo) sono accomunati dalle stesse difficoltà, dal rischio concreto di scontare la crisi nelle urne. In questo c'è un filo rosso che lega Berlusconi a Sarkozy e Merkel, sebbene il premier si senta da qualche giorno un po' sollevato: non si sa come, il Pdl è rimbalzato nei sondaggi, mentre il Pd è calato. Lo dicono anche i test commissionati da Bersani. E per chi sta a capo di un governo boccheggiante, ogni decimale in più è ben accetto. Ma servirebbe altro per rilanciarsi nel Paese, per esempio un po' di soldi da iniettare nel circuito economico. Invece il decreto sviluppo sarà figlio del «costo zero», e Berlusconi non vede «un'idea forte» con cui riacchiappare la pubblica opinione. «Certo lo sviluppo non si lo può fare per decreto», il Cavaliere lo rimarca: «In una fase come questa, i governi non possono far crescere l'economia più di tanto. Obama ci ha messo dei mesi per varare un piano che alla fine si è rivelato insoddisfacente».

Però qualcosa vorrebbe farla il Cavaliere, quei fondi sarebbero un'arma con cui rompere l'assedio di Roma e di Bruxelles. Invece è accerchiato anche da Tremonti, che gli dice sempre e solo «no», che gli rammenta - prendendone le distanze - l'ultima manovra e «come avete pasticciato». Il ministro dell'Economia ha preso l'impegno di lavorare a un accordo con la Svizzera sui capitali italiani depositati nelle banche elvetiche, e che potrebbero fruttare 25 miliardi: «Ma ti avviso Silvio, ci vorrà tempo». E «Silvio», che di tempo non ne ha, deve recuperare subito altri 4 miliardi per coprire le misure varate nell'estate, e deve scegliere se prelevarli dalle agevolazioni fiscali o dai fondi per il sociale: «Il sociale no, non si tocca». È tutto un colpo di forbice, il resto sono idee che a breve termine appaiono irrealizzabili. La sburocratizzazione non fa sognare gli italiani e nemmeno il Cavaliere, che avverte l'assedio a Roma come a Bruxelles, e vorrebbe avere al proprio fianco gente fidata: «Ma da presidente del Consiglio non ho nemmeno il potere di cambiare un ministro. Se volessi sostituire, facciamo un nome a caso, Tremonti, non potrei farlo».

Francesco Verderami

22 ottobre 2011 09:17© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_22/verderami-premier-pronto-a-reagire_a18730f8-fc79-11e0-92e3-d0ce15270601.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Altolà di Silvio all'amico Umberto: stavolta non c'è ...
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 04:42:09 pm
Il retroscena

Altolà di Silvio all'amico Umberto: stavolta non c'è un «piano B»

Il Senatur conscio dei rischi: «Evitiamo troppi danni».

Con la crisi, via 80 tra deputati e senatori pdl


ROMA - «Stavolta non abbiamo un piano B» dice Berlusconi. La verità è che nessuno ha un «piano B», non solo il premier e il centrodestra. Perché in questa fase la caduta del governo - per quanto auspicata dalle opposizioni - spiazzerebbe tutte le forze politiche, presentando il conto a un Parlamento dove al momento non esiste una maggioranza numerica e politica in grado di varare provvedimenti economici draconiani. Per quanto si susseguano le suggestioni e i nomi su possibili alternative al Cavaliere, l'unica cosa certa è che una crisi farebbe coriandoli degli attuali partiti, a iniziare dal Pdl, dove si paventa un'emorragia di cinquanta deputati e trenta senatori.

Ecco lo scenario che lunedì si parava davanti al capo del governo e al suo alleato Bossi: divisi sulle misure da adottare per scongiurare la disfatta, hanno consumato un Consiglio dei ministri straordinario senza trovare l'intesa, malgrado entrambi sappiano che una rottura li separerebbe irrimediabilmente anche alle elezioni. Per questo motivo alla riunione di governo il Senatur aveva evocato la «saggezza» per «evitare di farci troppi danni». E il danno irreparabile sarebbe una mancata intesa sulle riforme strutturali.

Ma quali?
Maroni lunedì mattina aveva lavorato per smantellare le barricate issate da quanti nella Lega si oppongono al progetto di revisione del sistema pensionistico chiesto dal Cavaliere. Convinto da tempo che Berlusconi debba fare «un passo di lato» per agevolare il ricambio generazionale nel centrodestra e consentire il rilancio dell'alleanza, riteneva tuttavia che non fosse questo il momento, bensì gennaio.

Una delle possibili soluzioni nella trattativa sulla previdenza porta il suo nome. È sua infatti la riforma - varata quando era ministro del Welfare - su cui il Carroccio era parso disponibile a trattare: quello «scalone» che il governo Prodi aveva abolito quattro anni fa. La prospettiva che il piano fosse considerato insufficiente dall'Europa, ha indotto però il titolare dell'Interno a sparigliare, chiedendo a Berlusconi di spostare dalle pensioni alla pubblica amministrazione l'attenzione del governo, per risanare le casse dello Stato.

Il gioco si è così fatto pesante, fino a evocare la crisi dell'esecutivo. Certo, tocca a Bossi l'ultima parola, «tocca a te decidere Umberto», ha detto il premier al capo leghista. Nelle sue mani non ci sono solo le sorti di Berlusconi, ma dell'alleanza così come finora è stata. In caso di divorzio non resterebbe più nulla. O dentro o fuori, stavolta non ci sono alternative, «stavolta - come ha spiegato il Cavaliere - non abbiamo un piano B».

La trattativa che il Senatur ha definito «uno slalom tra i paletti», nel quale servono le doti di «quel maestro di sci che è Tremonti», si è complicata. Manca quell'unità di intenti chiesta da Gianni Letta in Consiglio dei ministri: dinanzi all'«amara medicina» da ingoiare, a fronte di «provvedimenti impopolari» da adottare, «siamo chiamati alla coerenza. Per fare certe cose bisogna essere tutti d'accordo su tutto. O dovremo essere conseguenti nelle scelte». Anche per evitare che al premier «venga addossata la crisi dell'euro, responsabilità che non è sua».

L'obiettivo era impedire che a Bruxelles Berlusconi venisse posto di nuovo al banco degli imputati, sebbene «il vero banco di prova - come sostiene Frattini - non siano la Merkel e Sarkozy e nemmeno la Commissione europea, ma i mercati». Una bocciatura del progetto di risanamento e sviluppo da parte dal circuito finanziario internazionale, equivarrebbe a una mozione di sfiducia al governo. Perciò il Cavaliere ha premuto tutto il giorno affinché Bossi aprisse alla mediazione sulla previdenza.

Il punto però non è tecnico ma politico. E quando ieri mattina Maroni ha avvisato che «sulla previdenza abbiamo già dato», il motivo era chiaro: voleva pungolare Berlusconi a non accettare passivamente i «diktat» dei partner europei. Secondo il titolare del Viminale bisognava rispondere «a muso duro» a Sarkozy, perciò è rimasto soddisfatto dalla nota con cui nel pomeriggio il presidente del Consiglio ha ricordato alle cancellerie di Parigi (ma anche di Berlino) che l'Italia «non accetta lezioni da nessuno».

Ma dinnanzi alle insistenze del Cavaliere sulla necessità di varare un intervento radicale in materia di previdenza, Maroni ha rammentato che «l'abbiamo già fatto»: «Questa estate la nostra riforma è stata certificata anche dall'Europa. Non è che adesso non va più bene, solo perché Sarkozy deve salvare settantadue banche francesi esposte ai titoli tossici».

Il fatto è che, nel gioco dello «scaricabarile» a Bruxelles, il premier italiano è più debole, e per la prima volta senza «un piano B». Resta da capire chi ne abbia uno alternativo, nella maggioranza come nell'opposizione. Se la crisi economica sfociasse in crisi politica, il conto sarebbe salato per tutti.

Francesco Verderami

25 ottobre 2011 09:05© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/economia/11_ottobre_25/verderami-berlusconi-bossi_2df3fbfc-fec8-11e0-b55a-a662e85c9dff.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Gli alleati frenano: nessuno romperà
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2011, 05:09:59 pm
gli scenari

Gli alleati frenano: nessuno romperà

Ma il governo resta appeso a un filo

Morsa Ue, inchieste, numeri in bilico.

Matteoli: un miracolo se rimaniamo in piedi


ROMA - L'unica cosa che fa sorridere Berlusconi in queste ore convulse è quando gli raccontano di un governo prossimo venturo, con un altro presidente del Consiglio a Palazzo Chigi. Perché nessuno dei maggiorenti di centrodestra ha interesse a una crisi di governo, quantomeno non adesso. Non ce l'ha Bossi, che ha spiegato al premier come non ci sia «nessuna volontà di tradire il nostro rapporto e la nostra alleanza». E nemmeno Maroni, che l'altro ieri - al termine del Consiglio dei ministri - ha detto a Frattini quanto poi ha ripetuto ieri in Transatlantico ai leader delle opposizioni: «Non rompo con Silvio e figurarsi se rompo con Umberto».

Eppure è vero che il governo è appeso a un filo, «se resta in piedi sarà un miracolo», ammette Matteoli. Troppe pressioni e tutte insieme, l'accerchiamento di Bruxelles che appare più minaccioso della tenaglia romana, la questione giudiziaria che insegue il Cavaliere, la difficile sopravvivenza in Parlamento che costringe alla presenza i ministri ad ogni votazione della Camera. «Come riusciamo a resistere è un mistero», prosegue il titolare delle Infrastrutture: «Non ci sono precedenti a memoria di storia repubblicana». E nella sua ricostruzione degli eventi, Matteoli rivela che l'altra sera «il governo era praticamente morto».

Ci sarà un motivo se l'indomani Casini ha rincuorato i suoi deputati: «Ragazzi non temete, Berlusconi si salva anche stavolta». E la battuta era accompagnata da un sospiro di sollievo. Se il Cavaliere è ancora in vita, non è solo perché l'opposizione intende lasciare al centrodestra il «lavoro sporco» sul risanamento dei conti pubblici. Ma anche perché (quasi) tutti i dirigenti della maggioranza vogliono arrivare fino in fondo alla legislatura per gestire la fase elettorale. E (quasi) tutti la pensano come Maroni, che vive come una minaccia la crisi di governo prima di gennaio: un altro esecutivo porterebbe in dote una nuova legge elettorale, magari ostile alla Lega, se non anche al Pdl.

Insomma, non è all'ordine del giorno la prospettiva di una staffetta a Palazzo Chigi, «non ci sarà un altro premier del nostro partito in questa legislatura», ha avvisato Alfano a «Porta a Porta», spazzando via così le ipotesi di un governo guidato da Gianni Letta o dal presidente del Senato, Schifani. Qualche probabilità in più l'avrebbe un gabinetto tecnico, «e l'ipotesi Monti - secondo Matteoli - in questi ultimi tempi ha camminato più di quanto noi pensassimo. Se penso ai rapporti di Sarkozy con Fini, e al rinnovato interventismo del presidente della Camera...». Ma «l'ipotesi» resta sullo sfondo, come un promemoria per quanti nel centrodestra non avvertissero qual è il pericolo.

Perciò un'intesa tra Berlusconi e Bossi appare inevitabile prima della difficilissima missione europea del premier. Non c'è dubbio che il nodo della previdenza ha rischiato e rischia di strangolare il governo, e l'ultimo scontro tra i due alleati è ruotato attorno a un passaggio della lettera che il Cavaliere presenterà oggi ai partner dell'Unione, laddove si prospetta un «riassorbimento delle pensioni di anzianità». Il Senatur l'ha interpretato come un cavallo di Troia che avrebbe finito per colpire l'elettorato leghista. Un accordo sulle pensioni di vecchiaia restava più facile. Il Carroccio ha però chiesto e ottenuto che nel documento del governo fossero inserite restrizioni anche nel comparto pubblico, con una revisione del rapporto di turn over dei dipendenti statali e la possibilità che il personale venga messo in «mobilità».

Resta da capire se le misure approntate basteranno all'Unione, questo è il punto. E in molti temono che non basteranno. «Ma tu devi andare in Europa alzando la voce, Silvio», gli hanno ripetuto in coro Bossi e i ministri del Pdl, non si sa quanto convinti. La preoccupazione è concentrata soprattutto sulla risposta dei mercati al piano di risanamento e di rilancio. D'altronde, l'idea che il governo possa ricavare dalla vendita del patrimonio pubblico cinque miliardi l'anno per il prossimo triennio, non la beve neppure Berlusconi: «Chi mai potrebbe comprarsi gli immobili dello Stato? Magari io potrei permettermi l'acquisto di Palazzo Chigi».

Pur senza acquistarlo, a Palazzo Chigi il Cavaliere intende restarci per festeggiare il capodanno del 2012. Al traguardo del 2013, ormai, non ci crede: «Speriamo - aveva detto la scorsa settimana a un esponente del governo - ma la situazione è complessa». In questo contesto va inquadrato il «pessimismo» espresso ieri da Bossi, ovviamente contrario a governi tecnici, e proiettato semmai sulla scadenza della legislatura. Perché - a meno di una crisi a breve - è sulle prospettive future che i giochi sono aperti. E ai vertici della Lega resta minoritaria la pulsione di rompere con il Pdl.

Semmai c'è chi - come Maroni - ha in mente la costruzione di «un nuovo centrodestra»: l'asse con Alfano si corrobora oggi di un rapporto stretto nel governo con Sacconi. Non è un caso se il libro scritto dal ministro del Welfare, Ai liberi e forti , è stato definito dal titolare dell'Interno «un nuovo manifesto dell'alleanza». E il «ticket» per Palazzo Chigi con il segretario del Pdl pare visto in prospettiva positivamente anche dal Cavaliere. È questo il disegno che passa da un ritrovato accordo con i centristi di Casini, e punta alla riconquista di Palazzo Chigi, con l'obiettivo - per Maroni - di diventare vicepremier e di guidare la Farnesina: si tratterebbe di una novità politica, perché un leghista si assumerebbe il compito di rappresentare l'Italia all'estero.

«È giunto il momento dell'evoluzione», secondo il dirigente del Carroccio, in vista «tra non molto» di una «fase nuova, e di una rinnovata alleanza». Ma perché il processo si compia e possa misurarsi alle urne, è necessario che Berlusconi regga almeno «fino a gennaio». Sono solo due mesi. In queste condizioni sono un'eternità.

Francesco Verderami

26 ottobre 2011 08:16© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_26/governo-appeso-a-un-filo-verderami_86dddbf2-ff90-11e0-9c44-5417ae399559.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI «Silvio era accerchiato, si è ripreso»
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2011, 07:11:20 pm
«C'è stato un periodo in cui era stordito, l'accerchiamento mirava a tramortirlo»

Confalonieri e la nuova metamorfosi «Silvio era accerchiato, si è ripreso»

Il presidente di Mediaset: «Berlusconi dice cose che pensano tutti, lui non è un ipocrita»


Dice Confalonieri che «Berlusconi è tornato ad essere Berlusconi». E si vede. Così com'è capace di risollevarsi quando ormai tutti lo danno per spacciato, il Cavaliere sa anche rendersi protagonista di stecche proverbiali.

L'ultima di Berlusconi è sull'euro, «moneta strana che non ha convinto nessuno». «Una cosa che pensano tutti», lo difende Confalonieri: «Solo che lui lo dice, perché non è ipocrita. O forse perché non ha la qualità dell'ipocrisia, che in politica passa per essere una dote». E non c'è dubbio che il premier con la sua battuta abbia toccato le corde di chi — per citare il patron di Mediaset — «dai tempi del cambio della lira ha sempre storto il naso». «Comunque non voleva attaccare l'Unione. Anzi, più volte ha detto che il problema della moneta unica è l'assenza di unità politica dell'Europa. Perciò il suo concetto va interpretato come un appello a costruire un'istituzione sovranazionale più forte. Altrimenti avremo sempre la Germania, la Francia, l'Italia... E la Grecia».

Ora che «Berlusconi è tornato a essere Berlusconi», l'amico di una vita si sente sollevato, perché c'è stata una fase durante la quale ha temuto, «un periodo in cui Silvio era stordito, accerchiato com'era da un'operazione politica, mediatica, economica e giudiziaria concertata, che mirava a tramortirlo. Sia chiaro, lui ci aveva messo del suo nel prestare il fianco. Ma ora si è ripreso, anche fisicamente».

Confalonieri smentisce di avere avuto un ruolo, sebbene l'abbiano sentito rincuorare e spronare lo stesso Gianni Letta. E smentisce che ci siano i suoi suggerimenti dietro la «campagna d'Europa», che sarà subito trasferita in Parlamento per rafforzare il governo: «È come nell'atto conclusivo di un film di cappa e spada, quando arriva la scena finale del duello. È il terzo tempo, e sarà un bel finale». A patto che Berlusconi «non si distragga», perché dovrà «sapersi destreggiare tra mille difficoltà», incrociando la lama con «corporazioni, sindacati, avversari e anche alleati». Se ci riuscirà, «avrà sfatato il mito dell'Italia ingovernabile» e «smentito i suoi oppositori», che gli chiedono di fare un passo indietro per mettere in ordine il Paese: «Davvero si può credere che un altro governo guidato da un Monti, un Tremonti o un Casini riuscirebbe a mantenere gli impegni assunti con l'Europa? E con l'appoggio di chi: della sinistra? Ma andiamo...».

Così dicendo, Confalonieri rovescia il ragionamento, fino a saggiare il polso di «quanti hanno invocato un esecutivo di responsabilità nazionale per varare le riforme»: «Visto che Berlusconi si appresta a presentarle in Parlamento, sono disposti a collaborare perché diventino leggi dello Stato?». Non cita Casini, ma è al leader dell'Udc che si riferisce, ed è a Bersani che fa cenno quando parla della «necessità di rendere competitivo il mercato del lavoro»: «Cosa farebbero i riformisti se si trovassero a votare delle norme ispirate da un giuslavorista come il professor Ichino?».

È questa la sfida, secondo il presidente del Biscione, «e la politica deve fare attenzione, perché gli italiani sanno capire se dietro certe formulette si cela solo l'intento di scardinare la cassaforte elettorale del premier». Confalonieri sostiene che non ci riuscirebbero, e non perché pensi che Berlusconi possa rivincere le elezioni. Anzi, «Fidel» fa capire chiaramente che per «Silvio» questo è l'ultimo giro, il «bel finale». Il punto è un altro: «Quanti mirano oggi a far cadere il Cavaliere, non capiscono che la sua uscita di scena sarà anche la loro fine. Siamo vicini al salto generazionale. Il futuro non sarà dei cinquanta-sessantenni. La prossima, sarà la stagione degli Alfano e dei Renzi, di quelli che vanno su Youtube e usano l'iPhone». Ed è un messaggio che il capo di Mediaset rivolge anche al centrodestra e in specie al Pdl, dove «c'è sempre qualcuno che scarica sul premier la propria acidità di stomaco».

È vago quando si tratta di fissare la scadenza della legislatura — «dipenderà dall'evolversi della situazione politica e dalla crisi» — ma è convinto che «Bossi non farà cadere Berlusconi, perché tra loro c'è un rapporto viscerale. Umberto è un grande politico, a cui tocca una difficile politica di confine, tra le esigenze del territorio a cui è legato e il dovere di governare a Roma». Semmai lo stupisce l'atteggiamento di Tremonti, diventato «un caso psicologico più che politico»: saranno le aspirazioni frustrate, le ambizioni malriposte, resta il fatto che Confalonieri è sorpreso, «davvero mi sorprende come una persona di valore faccia resistenza a una gestione concertata».

E non è un caso se, in questo tornante drammatico per il Paese prima ancora che per il governo, il patron del Biscione elogi Draghi, con cui «in passato ho scambiato qualche buon libro di letteratura inglese, di cui lui è ottimo conoscitore». Il presidente della Bce «non godrà delle simpatie di Tremonti ma dimostra come l'Italia abbia uomini di valore nei posti chiave, capaci di decrittare i giochi di potere e di tenerli separati dai problemi da risolvere. Ha fatto quindi benissimo il premier a sostenere la sua candidatura, così come fece bene a sostenere la candidatura di Prodi alla guida della Commissione europea, e prima ancora a indicare il professor Monti e la Bonino come commissari». «Ha fatto anche questo, il tanto deprecato Berlusconi. Gli unici a non accorgersene sono i collaboratori italiani dei giornali di lingua inglese, le quinte colonne del disfattismo nostrano che ritraggono il presidente del Consiglio nei panni di un buffone». In verità anche Sarkozy ha sorriso del Cavaliere: «Ma lui è il presidente della Repubblica francese e non ho titolo per parlarne. Me lo ricordo però quando, da ministro di Chirac, venne in Sardegna per chiedere a Berlusconi come fare per vincere le elezioni...».

Francesco Verderami

29 ottobre 2011 08:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_ottobre_29/confalonieri-berlusconi-torna-ad-essere-berlusconi_724c57ae-01f7-11e1-b822-152c7b3c1360.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI E spunta un «piano B» «Pericoloso votare subito»
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2011, 11:21:19 am
Il governo - Gli scenari

E spunta un «piano B» «Pericoloso votare subito»

I timori di Frattini: rischiamo una sconfitta disastrosa


Come l’Italia, anche Silvio Berlusconi è in amministrazione controllata. Al pari del bilancio pubblico, il Cavaliere ha ormai un grave problema di contabilità in Parlamento. Ma non è più (soltanto) una questione di numeri, bensì di tenuta politica della maggioranza e soprattutto del Pdl. Perché se il governo dovesse andare in crisi, non c’è intesa sul voto anticipato.

Tanti passaggi istituzionali dovranno consumarsi prima che il centrodestra arrivi all’ultimo svincolo e decida se imboccare o meno la strada delle urne. È vero che Berlusconi sta facendo di tutto per garantirsi ancora la maggioranza alla Camera, e conta di recuperare «quelli che se ne vanno»: «Anche perché — dice — dove vanno?». In più il commissariamento economico dell’Italia deciso al vertice del G20, gli offre — per quanto possa apparire paradossale — una sorta di scudo politico, una protezione a tempo dall’offensiva degli avversari in Parlamento: c’è da votare la legge di stabilità «nell’interesse nazionale» e sarebbe «da irresponsabili » bocciarla.

Si tratta tuttavia di una linea Maginot già sgretolata, picconata dai documenti di quanti—nel suo stesso schieramento —chiedono al Cavaliere un «passo avanti», un «passo indietro», un «passo di lato», un passo insomma che lo porti a lasciare la guida del governo. Perciò non basta quello scudo, quindi nel Pdl si scruta con preoccupazione l’orizzonte e si ragiona ormai da tempo sulle prospettive future. Per quanto solo pochi giorni fa l’ufficio di presidenza del partito, all’unanimità, abbia dato mandato al segretario Angelino Alfano di tracciare una riga netta nel colloquio con Giorgio Napolitano, l’idea delle urne non convince.

«In caso di crisi bisogna evitare le opzioni estremiste che puntano allo scontro elettorale», ha spiegato Franco Frattini nel corso di una riunione riservata. La tesi del ministro degli Esteri è che «serve una rivisitazione della maggioranza. Serve per costruire una coalizione dei moderati che, prima nelle Camere poi nel 2013 al voto, risulti vincente nel Paese ». Le elezioni immediate invece segnerebbero — a suo dire—«una sconfitta disastrosa di tutto questo fronte: del nostro partito e anche dell’Udc. Saremmo responsabili di aver consegnato l’Italia non a un centrosinistra riformista ma a una sinistra radicaleggiante e giustizialista. Com’è accaduto alle Amministrative di Napoli». Il titolare della Farnesina —e come lui altri dirigenti di primo piano del Pdl—ritiene che se si arrivasse alla crisi di governo servirebbe con il Cavaliere «una chiarezza pari alla nostra lealtà nei suoi riguardi ».

Il fronte berlusconiano si mostra così segnato da una profonda crepa sulla strategia da adottare, e dietro Frattini sono in tanti a puntare su un «piano B» che non si riduca alla corsa verso le urne, ma si produca in un tentativo di agganciare in corsa l’Udc nella fase finale della legislatura, «garantendo alla nuova generazione di crescere per presentarsi poi al giudizio del Paese». Anche perché — si aggiunge a sostegno della tesi —nel caso si optasse per le elezioni, ci sarebbe il rischio «più che concreto » di uno smottamento nei gruppi di Camera e Senato: il fuggi-fuggi sarebbe l’effetto della proiezione del voto in caso di sconfitta, che annuncia una perdita di un centinaio di seggi parlamentari.

A Berlusconi toccherebbe quindi gestire il passaggio di consegne a palazzo Chigi, e appena qualcuno in questi giorni ha provato a sondare Gianni Letta, il sottosegretario alla Presidenza si è schermito: «È un’ipotesi che non prendo in considerazione ». «Per carità, per carità...». Sarà, ma non ha detto chiaro e tondo «no». Di sicuro non lo farebbe mai senza l’imprimatur del Cavaliere, che da quell’orecchio sembra non sentirci. «Per ora non se ne parla», e quel «per ora», per ora, vuol dire tutto e niente: c’è da tenere a bada Umberto Bossi, innanzitutto, e c’è da non offrire spazi alle incursioni di Pier Ferdinando Casini.

L’azione dei centristi si muove in questa fase su due piani: per un verso l’Udc mira a sottrarre parlamentari al Pdl, per un altro lancia segnali a Berlusconi. L’ultimo, offerto dal segretario Lorenzo Cesa a un emissario, è che «saremmo pronti a far passare la legge di stabilità senza problemi se Silvio preannunciasse le sue dimissioni alle Camere». Sarebbe il primo passo per poi dare il via a un governo di responsabilità nazionale «senza l’Idv». E il patto si estenderebbe anche ad alcuni provvedimenti sulla giustizia che ancora non sono diventati legge. Ma il governo di responsabilità nazionale è considerato da Alfano «niente più di uno spot elettorale», un modo per Casini di irretire quanti più deputati possibili del Pdl «prima di dare inizio alla mattanza» nelle liste, dove per loro non ci sarebbe comunque posto. Il braccio destro del Cavaliere si è convinto che il capo dei centristi punti ad affondare Berlusconi per poi andare alle urne «usando questa legge elettorale». E tuttavia gli sono chiare le difficoltà del premier e del suo esecutivo, accerchiato e con le ore che sembrano ormai contate.

Il fallimento di chi guida il governo, sta dentro il fallimento nella gestione dei rapporti del presidente del Consiglio con la sua coalizione e soprattutto con il suo ministro dell’Economia. L’atto conclusivo è stato il mancato varo del decreto, nel momento in cui Berlusconi ha chiamato al telefono Napolitano per annunciarglielo, proprio mentre Giulio Tremonti stava seduto davanti al presidente della Repubblica e scuoteva la testa in segno di dissenso. Altro che correre dietro gli «indisponibili », Bossi ha visto in quella scena la fine di una storia, e affrontando Tremonti gli ha gridato: «Che c... sei andato a raccontare per farci fallire tutti?».

Francesco Verderami

05 novembre 2011 07:19© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/politica/11_novembre_05/verderami-spunta-un-piano-b_2587e82a-0774-11e1-8b90-2b9023f4624f.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Scajola: «Non si può andare avanti»
Inserito da: Admin - Novembre 06, 2011, 10:59:00 pm
La crisi le scelte
 
Il Cavaliere pensa a «misure choc»
 
Tra le ipotesi, patrimoniale e prelievo forzoso
 
Scajola: «Non si può andare avanti»

 ROMA - L'unica certezza di Berlusconi è che «al Quirinale non c'è un capo dello Stato intento a ordire trappole». Tuttavia la fiducia che ancora gli accorda Napolitano è a tempo, e di tempo il Cavaliere non ne ha più. Indebolito dalle piazze finanziarie internazionali, accerchiato dalle manovre nei palazzi romani, e senza un accordo nel vertice d'emergenza convocato in serata, il premier ha trascorso la giornata meditando il varo di «misure choc» per salvare il Paese e il suo governo, entrambi a rischio default. Non c'è dubbio che gli «interventi straordinari» sui quali sta ragionando «mi fanno venire l'orticaria solo a pronunciarli». Dalla patrimoniale al prelievo forzoso, da un piano di dismissioni doloroso fino a una lunga teoria di condoni, Berlusconi valuta i provvedimenti da porre come sacchetti di sabbia sull'argine del fiume che ha già iniziato a tracimare.
 
«Mi hanno detto di fare come Amato», spiega il Cavaliere, che evoca così un'altra stagione economica drammatica, quella del '92, e le misure draconiane che vennero allora adottate per salvare la lira: guarda caso una patrimoniale sulla casa, un prelievo sui conti correnti e i depositi bancari, il blocco per un anno dei contratti del pubblico impiego e il blocco delle pensioni di anzianità. Tanto basta per far spuntare sul volto del premier una smorfia di disgusto mista a disappunto, perché ognuno di questi provvedimenti sarebbe «contrario ai miei capisaldi», al credo che ha divulgato per venti anni e che in parte ha già dovuto abbandonare con la manovra estiva.
 
Mentre i Btp continuano a cedere terreno sui listini, Berlusconi spiega alla Merkel che «farò quanto è necessario per difendere fino in fondo la credibilità dell'Italia», e con essa anche ciò che resta della sua credibilità nel consesso mondiale. Nel corso del colloquio il premier ribadisce che «il mio governo intende rispettare gli impegni», ma intanto si chiede e chiede «cosa posso fare più di quanto ho fatto». La risposta della cancelliera tedesca non si fa attendere, è un suggerimento che somiglia tanto a una perentoria richiesta: far validare intanto da un voto del Parlamento le linee guida del piano di risanamento presentato in Europa, una sorta di imprimatur preventivo in attesa dell'approvazione dei provvedimenti. La piena ha superato ampiamente i livelli di guardia quando Berlusconi accenna a Napolitano le «misure choc», prospettate ancora come ipotesi, segno della confusione che regna nella maggioranza e che viene indirettamente confermata dall'assenza di Bossi al vertice serale di Palazzo Chigi. E se è vero che la conversazione con il presidente della Repubblica convince il premier che «al Quirinale non si ordiscono trappole», è altrettanto vero che il Colle è risoluto nel chiedere atti di governo che tolgano l'Italia dal mirino della speculazione finanziaria. Il punto però non è stabilire quale sia il mezzo con cui varare i provvedimenti, poco importa se si tratti di decreti e di emendamenti da inserire nella legge di Stabilità: il nodo è il contenuto.
 
La maggioranza perde un altro pezzo: Antonione
 Ed è su questo che scoppia l'ennesimo scontro tra Berlusconi e Tremonti, considerato dal premier non più solo un «problema politico», ma un «fattore» dell'attacco speculativo all'Italia per via dell'atteggiamento assunto in questa fase: «Se un ministro dell'Economia si mostra scettico sulle misure che vengono adottate, che segnale trasmette ai mercati»? L'accusa che Berlusconi rivolge all'inquilino di via XX settembre di «tradimento». Per tutta risposta anche ieri sera, al culmine dell'ennesimo alterco al vertice, Tremonti ha invitato il Cavaliere a fare «un passo indietro», in nome «dell'interesse nazionale», delle «aste dei titoli di Stato sul mercato».
 
Ma il premier non ha intenzione di dimettersi, e ieri mattina aveva studiato una road map per resistere a Palazzo Chigi. Sul fronte istituzionale era (e al momento resta) sua intenzione convocare un Consiglio dei ministri con cui varare una prima parte di misure da presentare già ai partner internazionali del G20. Epperò sarà difficile realizzare questa parte del piano, visto che ieri sera non era stato ancora raggiunto un accordo. Sul fronte politico resta convocato l'Ufficio di presidenza del Pdl, pronto a chiedere - con un documento - che «tutte le decisioni in materia economica vengano accentrate a Palazzo Chigi». È un modo per mettere in mora Tremonti, e al tempo stesso per tenere saldo l'asse con la Lega, dato che «le misure - questo sarà scritto nella risoluzione del partito - dovranno essere coerenti con il piano preparato per l'Europa», quella sorta di programma di governo di fine legislatura firmato da Bossi, e che pertanto dovrebbe vincolare il Carroccio. Dovrebbe, visto che il Senatur con la sua assenza pare volersi tenere le mani libere. Ma non è questo il pericolo maggiore per Berlusconi, sono piuttosto le crepe nelle file parlamentari a destare allarme, l'ipotesi - fondata - che altri deputati lascino la maggioranza e lascino di conseguenza il governo senza fiducia a Montecitorio.
 
Per questo nella sua road map il Cavaliere ha previsto di presentarsi davanti alle Camere dopo il G20, non prima, come gli hanno chiesto ieri i leader del terzo polo. È evidente il motivo: il premier ha intuito il rischio dell'agguato e non intende andare al vertice di Cannes da «dimissionato». Dopo, invece, potrebbe farsi scudo dei provvedimenti per sfidare il Parlamento ad accettare il piano di risanamento «nell'interesse del Paese» o staccare la spina all'esecutivo. A quel punto - come spiegava in questi giorni il segretario del Pdl Alfano - «tutti dovranno sapere che dopo il governo Berlusconi non potrà esserci il governo dei congiurati, ma solo il voto anticipato».
 
Francesco Verderami

02 novembre 2011 17:17© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - http://www.corriere.it/economia/11_novembre_02/il-cavaliere-pensa-a-misure-choc-francesco-verderami_cb893d9e-0523-11e1-bcb9-6319b650d0c8.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Partiti e riforme - L'ultima speranza
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2011, 11:29:04 am
Settegiorni

Partiti e riforme - L'ultima speranza

Alfano Bersani e Casini decisi ad aprire un tavolo per una complessa ristrutturazione del sistema

Alfano, Bersani e Casini sono l'acronimo della «maggioranza», l'Abc della politica nell'era dei tecnici, e solo trovando un'intesa sulle riforme istituzionali segneranno il riscatto dei partiti.

Perciò i leader di Pdl, Pd e Terzo polo hanno intensificato i loro contatti, e con ogni probabilità si vedranno la prossima settimana: devono iniziare a discutere su un «progetto quadro» per una complessiva ristrutturazione del sistema, che dalla riforma del bicameralismo e dei regolamenti parlamentari arrivi fino al varo di una nuova legge elettorale. Solo così le forze politiche potranno tornare a legittimarsi agli occhi della pubblica opinione, altrimenti - come sostiene Bersani - «sarebbe difficile per i cittadini capire che i sacrifici producono cambiamenti». E per i partiti (tutti) sarebbe il game over.

Lo schema è chiaro al nuovo acronimo della politica, persino il percorso è per certi versi delineato. Il Senato dovrebbe occuparsi inizialmente della riforma delle Camere e della riduzione del numero dei parlamentari, mentre Montecitorio dovrebbe lavorare sulla revisione dei regolamenti. Della legge elettorale si discuterebbe solo dopo il verdetto della Corte Costituzionale sui referendum, sebbene - al pari di Bersani e Casini - anche Berlusconi sia ormai convinto che «la Consulta li boccerà». Il patto di «maggioranza» sulla revisione del Bicameralismo garantirebbe la blindatura della riforma, perché l'approvazione con i due terzi dei voti in Parlamento eviterebbe anche i referendum.

Ma serve un'intesa, serve che dalle parole si passi agli atti, così da sconfessare la tesi del «noi e voi» che fino a ieri Monti aveva applicato nei confronti dei partiti, e che alla lunga ha provocato una reazione unanime della «maggioranza». Dopo due settimane di passione, iniziate con la querelle sul taglio degli stipendi dei parlamentari e conclusa con la polemica sulle mancate liberalizzazioni, le forze politiche si sono ribellate all'andazzo. Dal Pdl al Pd, passando per il Terzo polo, tutti hanno puntato l'indice contro quella norma che era stata inserita nel decreto economico sulla decurtazione degli emolumenti di deputati e senatori. «Sapevano che era una misura inammissibile, che non era prerogativa del governo presentarla, ma l'hanno lasciata apposta», diceva ieri il democratico Gentiloni.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Catricalà ha provato a derubricare l'incidente, riconoscendo che si è trattato di una «stupidaggine». E sarà pur vero che inizialmente quella parte del decreto era stata scritta in modo differente, che sarebbe stato il ministro Patroni Griffi a modificarla. Ma a stupire tutta la «maggioranza» è stato il fatto che il Quirinale - sempre rigoroso sui testi legislativi - non è intervenuto subito per far cancellare quella misura prima che approdasse in Parlamento. «Non se ne saranno accorti», ha commentato prudente il centrista Rao, mentre l'evento ha indotto l'ex titolare della Difesa La Russa a gridare al «miracolo», ricordando come «si faticava ai nostri tempi». Sta di fatto che la norma, poi cambiata, ha suscitato indignazione nel Palazzo, non sul merito ma per il metodo. Si è trattato, a detta del leader radicale Pannella, di un «attacco al parlamentarismo, senza che si sia voluto sciogliere il nodo del finanziamento pubblico ai partiti».

L'idea di dover appoggiare un governo che con la sua mossa aveva vellicato le pulsioni dell'anti-politica non è andata giù ad Alfano, Bersani e Casini. E quando è scoppiata la polemica sulle mancate liberalizzazioni, è partita la controffensiva. Il capogruppo del Pd, Franceschini, è andato da Catricalà per avvisarlo che la misura era colma, «perché non è vera questa storia che ci saremmo opposti noi. Non è stato il Parlamento a bloccare le liberalizzazioni delle autostrade, quella parte è stata depennata con la biro del ministro Passera». Ecco cosa ha spinto l'esponente democratico a chiedere a Monti di non distinguere più tra «noi e voi», come se le cose buone fossero quelle del governo, mentre quelle cattive venissero dal sacco della politica. E Bersani, prima di intervenire in Aula, si è levato un sassolino dalla scarpa con il premier: era a lui che alludeva, infatti, quando ha definito «barocchi» gli accordi sul patto fiscale siglati in Europa che «non rassicurano i mercati».

L'umore era simile a quello di Alfano e Casini, che incontrando il capo del governo a Montecitorio lo hanno esortato a migliorare le relazioni preventive sui provvedimenti con le forze di «maggioranza». E Monti deve aver inteso il messaggio se ha dedicato buona parte del suo intervento per ringraziare del «lavoro prezioso» i gruppi parlamentari ed avvisarli che le liberalizzazioni le «faremo insieme». Il punto è che i politici sapevano - dando la fiducia ai tecnici - che avrebbero dovuto cantare e portare la croce, per espiare colpe ed errori del passato. Epperò non erano nè sono disposti a farsi dileggiare e delegittimare.

Toccherà all'acronimo della nuova maggioranza lavorare all'intesa per il riscatto. Certo non sarà facile superare le resistenze trasversali di chi - al Senato - è contrario a cambiare il sistema del bicameralismo perfetto. Così come non sarà facile trovare un accordo sulla nuova legge elettorale. Perciò Alfano, Bersani e Casini sono pronti ad incontrarsi per tentare una mediazione che al dunque porti al tavolo anche la Lega e l'Idv. Serve un compromesso, e serve che dalle parole si passi agli atti parlamentari. È l'abc della politica.

Francesco Verderami

17 dicembre 2011 | 8:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/11_dicembre_17/alfano-bersani-casini-stretegie-verderami_a23f2f26-287c-11e1-b2e0-62df0bde9a01.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il testo sull’Europa riscritto tre volte
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2012, 12:15:32 pm
SETTEGIORNI

Il testo sull’Europa riscritto tre volte

Non stanno scrivendo una mozione parlamentare, stanno costruendo uno scudo per il governo in vista del vertice europeo di fine mese.
Perciò il ministro Moavero vigila sui partiti di «maggioranza» come fosse un ingegnere che bada ai calcoli di un progetto. E c’è un motivo se le forze che reggono l’esecutivo sono già alla terza bozza, se il responsabile dei Rapporti con l’Unione europea continua a chiedere correzioni al testo che i partiti vorrebbero inzeppare di pretese: «Non possiamo presentarci con richieste troppo stringenti», ha spiegato Moavero nei colloqui riservati di questi giorni. E non tanto perché le «richieste stringenti» — se non fossero conseguite—esporrebbero politicamente Monti, ma perché «potrebbero essere interpretate dai partner europei come un tentativo di voler diluire gli impegni presi sul fronte del rigore».

È un’impressione che l’Italia non si può permettere, «se vogliamo raggiungere l’obiettivo» in una trattativa che per il governo si preannuncia comunque «difficile». Siccome sarà sul debito pubblico che si concentrerà il braccio di ferro al tavolo europeo, Moavero ha illustrato il progetto del premier, quali saranno cioè «le richieste irrinunciabili» che verranno avanzate al vertice del 30 gennaio: avviare il piano di rientro dal debito a partire dal 2014 e non dal 2013, fare in modo che il piano sia condizionato al ciclo economico, e ottenere che nel computo dei conti vengano inseriti il sistema previdenziale e il risparmio interno, su cui l’Italia può vantare buoni numeri. Ecco su cosa verrà misurata la forza del governo italiano, «altro non potete chiedere, perché non potremmo comunque ottenerlo ».

Così la mozione andrà modellata seguendo quel disegno e quei calcoli, sebbene Pdl e Pd—come testimonia l’ex ministro Frattini — siano «sempre più desiderosi di risposte ambiziose da parte del governo, che invece frena e invita a non chiedere troppo». Ma è chiaro perché un euro-tecnocrate come Moavero, vero braccio destro di Monti, continua a marcare dei limiti, conscio di non poterli valicare. E la timidezza con cui si propone ai suoi interlocutori non gli ha fatto velo in questi giorni, quando più volte ha posto l’altolà agli emissari dei partiti di «maggioranza ».

A suo modo di vedere, infatti, il testo della mozione che verrà discussa la prossima settimana dalle Camere dovrà rispettare certi calcoli, dato che al cospetto dell’Unione ha un valore non inferiore al testo del decreto sulle liberalizzazioni. Ogni passaggio d’altronde sarà decisivo in vista del summit europeo, di cui nessuno sa anticipare l’esito. «Si cammina sulle uova», riconosce il segretario del Pd, Bersani: «Incrociamo le dita. I vertici possono essere risolutori o provocare danni gravi. E non c’è dubbio che a Bruxelles ci giocheremo tutto». Lo ha spiegato il premier ai leader di partito, invitati lunedì scorso a pranzo a Palazzo Chigi. Lo ha confidato Casini allo stato maggiore del suo partito, dopo l’incontro: «Monti era molto preoccupato ».

Il capo del governo lavora affinché — così ha detto ai suoi ospiti—«la Germania si convinca delle ragioni della solidarietà europea». «Ma i segnali che arrivano da Berlino non sono buoni », sospira Bersani. Il problema resta lo spread, e tutti tifano perché cali. «La sua diminuzione — ha commentato Monti al pranzo — è condizione essenziale per evitare il rischio che i nostri sforzi siano resi vani ». In questi giorni il segretario dei democratici ha avuto modo di guardare in faccia lo spread e di parlargli, «ha il volto di un quarantenne che muove come niente quindici miliardi per un fondo di investimento, che a bassa voce ti spiega le ragioni delle sue scelte finanziarie, scommettendo che la Germania non darà una mano in Europa. E pertanto mette i soldi del suo fondo al sicuro. Perciò — conclude Bersani — è chiaro che se in Europa non ci si metterà d’accordo, se non verranno messe subito risorse sul fondo salva Stati, avremo addosso la pressione dei mercati».

Il pericolo è di venir travolti «da un’ondata speculativa che potrebbe tramortirci», riconosce Casini. Di qui la strada obbligata della «maggioranza», costretta a seguire le indicazioni dell’«ingegner» Moavero. E tra i partiti, secondo il segretario del Pdl Alfano, «c’è una comprensione reciproca». Buttiglione, che per l’Udc segue la trattativa sulla mozione, dice che «non si può fare altrimenti», e aggiunge che «l’Italia deve proporsi ai partner europei con un atteggiamento serio, quasi noioso come Monti, ma affidabile». L’esponente centrista si dice «fiducioso »: «Il premier sta facendo bene. E, in silenzio, sta facendo bene anche Draghi». Buttiglione si riferisce a quel «marchingegno» che è stato escogitato a Francoforte e che «in cambio di misure di rigore sta difendendo per ora il nostro Paese dalla speculazione», garantendo il finanziamento delle banche: «Ma sappiamo che si tratta solo di un freno a mano di emergenza».

Il testo della mozione dovrebbe esser pronto per lunedì sera, quando Alfano sarà a Berlino insieme a Frattini: l’ex titolare della Farnesina gli aprirà le porte della fondazione Adenauer, dove la Merkel terrà un discorso. Per il segretario del Pdl sarà l’occasione di stringere la mano al cancelliere tedesco, in attesa di incontrare il giorno dopo il capo della Cdu. A Roma intanto si chiuderà l’accordo a cui lavora Moavero, e non c’è dubbio che Berlusconi darà il proprio assenso. Al di là delle minacce, il Cavaliere non ha margini di manovra né intende far saltare il banco della legislatura. Eppoi, come racconta Monti, «io e lui ci sentiamo e ci vediamo spesso»...

Francesco Verderami

21 gennaio 2012 | 7:40© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_gennaio_21/il-testo-sull-europa-riscritto-tre-volte-francesco-verderami_2e1a3e76-43fa-11e1-8141-fee37ca7fb8c.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Le insidie dei partiti e in Aula il rischio pantano
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2012, 03:14:40 pm
Nuova fase

Le insidie dei partiti e in Aula il rischio pantano

Il premier che finora ha dettato il passo al Parlamento, ora potrebbe diventarne ostaggio


Non è vero che solo i bambini possono meravigliarsi. Ieri, per esempio, anche Monti si è meravigliato, è rimasto colpito dal linguaggio adottato da Bersani e da D’Alema: «Non mi sarei mai aspettato certi toni».

Ed è vero che si fa sempre in tempo ad imparare, ma il premier non immaginava tanta virulenza verbale da parte dei maggiorenti del Pd, sebbene fosse consapevole che il tema del lavoro è materiale incandescente, che dietro un numero — l’articolo 18 — ci sono persone in carne e ossa, e che la riforma da lui voluta tocca la storia e la ragione sociale di quel partito.

Epperò i limiti di una sobria dialettica politica sono stati superati, se riservatamente il segretario dei Democratici ha sentito il bisogno di chiarirsi con il premier. E in pubblico, dopo aver detto che «non si può mettere a tacere il Parlamento in nome dei mercati », ha poi spiegato che «noi immaginiamo un’alternativa alla destra populista, non a Monti». Ma l’ago della retorica non ricuce lo strappo.

Il punto tuttavia non è se oggi il Professore—manco fosse la torre di Pisa del Palazzo — ora pende a destra, se con la loro offensiva i Democrat lo hanno regalato agli avversari. Anche perché nel Pdl ieri è montata la protesta contro il premier, reo di non aver scelto per la riforma del lavoro la procedura d’urgenza, ma l’andamento lento del disegno di legge. Tutti sono rimasti colpiti dal fatto che il governo abbia adottato due pesi e due misure, rispetto all’utilizzo dei decreti per le liberalizzazioni e le semplificazioni.

È proprio l’uso reiterato di questo strumento che Napolitano ha opposto a Monti per sconsigliargli di adoperarlo anche sul tema del lavoro: «Non è possibile andare avanti solo con questa procedura». Una motivazione che il Quirinale ha ripetuto ad alte cariche istituzionali e rappresentanti di partito. Chissà se anche in questo caso il premier si è meravigliato, se è vera la sua «delusione» verso il Colle, come racconta un autorevole esponente del governo.

Di sicuro nei colloqui intercorsi ieri sera tra i dirigenti del Pdl con il loro segretario Alfano, tutti hanno convenuto che la mossa del capo dello Stato è stata una «copertura politica» offerta al Pd in vista delle Amministrative. D’un tratto la baraonda che fino a ieri regnava tra i Democratici si è spostata tra i berlusconiani. Il tramestio è destinato a proseguire anche nel rapporto con gli alleati- avversari del Pd, ed è evidente che lo scontro non giova al premier e al suo governo.

Monti, che finora aveva dettato il passo al Parlamento, ora rischia di diventarne ostaggio, di restarne prigioniero. Ripiegando sul disegno di legge, finisce infatti per infilarsi nel pantano dei regolamenti di Camera e Senato, nel ginepraio delle procedure, nei possibili agguati dei voti in commissione, nelle estenuanti trattative in cui potrebbero infilarsi altre trattative: perché non solo di lavoro si discute in Parlamento, ma anche di Rai e di giustizia...

Il Professore avrebbe volentieri optato per il decreto, ma senza la copertura del Colle non poteva forzare la mano. È vero che per questa riforma il governo chiederà la «corsia preferenziale » nei due rami delle Camere, e in tal senso Monti avrebbe ricevuto garanzie da Bersani. Peccato però che il segretario del Pd non ne abbia offerte sull’articolo 18.

Così il vecchio metodo della concertazione, che il premier aveva messo fuori dalla porta nelle trattative con le parti sociali, rientra prepotentemente dalla finestra in Parlamento. E se i Democratici possono contare sulla Lega per far saltare la nuova formulazione della norma sui licenziamenti, il Pdl ha i numeri per ripristinare una forte flessibilità in entrata. In questo caso del progetto di modernizzazione del mercato del lavoro non resterebbe nulla.

Di necessità virtù, il Professore cercherà di sfruttare a proprio vantaggio il tempo: se ne servirà per far raffreddare il clima politico e sociale, per far comprendere meglio la riforma e levigare le asprezze sull’articolo 18. Intanto confida che il disegno di legge venga interpretato a livello internazionale come un messaggio rassicurante, la garanzia che questo è lo schema su cui si muove il governo. È da vedere però se questo schema reggerà in Parlamento, o se per evitare correzioni di rotta il premier giocherà la carta della fiducia, che già aveva messo nel conto.

Il problema politico e d’immagine è comunque evidente. E se Monti è rimasto meravigliato per le sortite dei dirigenti del Pd, non si è stupito per quel che è accaduto sui mercati: «Le incertezze degli ultimi giorni si sono riflesse sullo spread, che è tornato a salire», ha ammonito. La speranza è che sia solo un avvertimento, ma sarà complicato dare garanzie sui tempi di approvazione della riforma. Chissà se davvero le nuove norme sul lavoro saranno legge prima dell’estate. La sortita di ieri del presidente del Senato non era altro che un auspicio, un modo per esorcizzare il timore dell’empasse.

Nonostante la richiesta della corsia preferenziale, agenda alla mano, il governo è consapevole che sarà difficile, se non impossibile, centrare l’obiettivo: intanto perché le Camere chiuderanno un paio di settimane per le vacanze di Pasqua e le elezioni amministrative. Contando poi i decreti, che hanno la precedenza, non c’è spazio per chiudere entro luglio. E siccome alla ripresa di settembre c’è l’appuntamento con la sessione di bilancio...

Ecco il pasticciaccio brutto che mette all’angolo Monti. La «strana maggioranza», che era la sua forza, ora rischia di trasformarsi nella sua debolezza. E quella foto che mostrava a Palazzo Chigi l’ABC della politica sbiadisce in mano a Casini. Perché con Bersani in affanno e Alfano in difficoltà, salta anche lo schema di gioco del leader centrista. Ma di questo nessuno si meraviglia.

Francesco Verderami

24 marzo 2012 | 7:31© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_marzo_24/le-insidie-dei-partiti-francesco-verderami_605829a0-757a-11e1-88c1-0f83f37f268b.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il premier non intende fare passi indietro sulla riforma
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2012, 05:03:03 pm
L'Intervento dal Giappone

Tensioni tra Monti e i partiti: ora il Professore pensa alla fiducia

Il premier non intende fare passi indietro sulla riforma


Il primo gancio l'avevano assorbito, anche se dopo la citazione andreottiana i leader della «strana maggioranza» si erano interrogati sulle reali intenzioni di Monti. E durante il vertice per le riforme, l'altro ieri, erano nate due scuole di pensiero.
C'era chi sosteneva che il premier avesse voluto mandare un avvertimento ai partiti, che avesse voluto cioè solo spronarli per farli riallineare alla linea del governo. E c'era invece chi riteneva che il Professore - con l'approssimarsi della fase economica più difficile per gli italiani - avesse iniziato a scaricare le tensioni sulle forze politiche. Tutti comunque immaginavano che Monti non sarebbe andato oltre, nessuno pensava all'uno-due. Perciò l'uppercut di ieri li ha colti di sorpresa.


Ma c'è un motivo se l'Abc della politica ha reagito in modo diverso all'affondo del premier contro i partiti, se l'ex ministro Brunetta - incontrando Alfano - l'ha consigliato a tenere il Pdl fuori dal ring della polemica: «Tanto Monti non ce l'ha con noi ma con il Pd». È il provvedimento sul mercato del lavoro al centro dello scontro, e il Professore - che si è sentito politicamente e istituzionalmente «abbandonato» - non intende cedere né fare passi indietro rispetto all'impianto della riforma.
E poco importa se le tensioni provocate hanno incrinato anche i rapporti con il Colle. Il premier ne fa una questione di principio e una di merito. Intanto non accetta di esser stato chiamato a far «l'aggiustatore» per poi essere scaricato alla bisogna. L'idea poi di venir additato come una sorta di dittatore al soldo dei mercati e di mancare di rispetto alle prerogative del Parlamento, lo rende meno sobrio anche nel linguaggio. È pronto infatti alla mediazione sull'articolo 18, nel senso che è pronto a discutere una diversa formulazione della norma, ed è disposto - come è successo già per altri provvedimenti - ad accettare una «soluzione alternativa che sia confacente». Se così non fosse, però, presenterebbe il testo redatto dal governo, lo sigillerebbe con il voto di fiducia, e a quel punto «ognuno ne trarrebbe le conseguenze».


Il progetto è chiaro, e per Monti anche obbligato. Il fatto è che il suo percorso entra in rotta di collisione con il Pd, dove il profilo del Professore inizia ad assomigliare a quello del Cavaliere, e non perché il premier cita i sondaggi per tenersi a debita distanza dal giudizio che i cittadini hanno nei riguardi dei partiti. Bersani non intende cedere perché altrimenti vedrebbe minacciati gli «interessi della ditta». Ed è in quel nome che non desiste, anzi rilancia: nelle parole del presidente del Consiglio scorge una «minaccia», «così si aprono dei varchi pericolosi all'anti-politica».


Di pensierini andreottiani ne fanno anche al quartier generale dei Democrat, dove c'è chi immagina addirittura una manovra internazionale tesa a impedire che il Pd possa andare a palazzo Chigi. Non è dato sapere se il segretario condivida questa analisi, è certo che Bersani non accetta di fare il cireneo e di venire anche flagellato: «Ci è stato detto che l'emergenza economica imponeva di non disturbare più di tanto il manovratore. Ma poi la gente ferma me per strada...».


Ed è questo il punto. Dopo quattro mesi di governo, i provvedimenti lacrime e sangue varati da Monti iniziano ad impattare sul Paese: in questi giorni l'addizionale regionale Irpef sta alleggerendo le buste paga dei lavoratori; prima dell'estate l'Imu appesantirà le dichiarazioni dei redditi dei possessori di case; in autunno il secondo aumento dell'Iva farà galoppare ancor di più i prezzi... Il rischio per i partiti è che si realizzi la profezia di Bossi, quel «finché la gente non s'incazza» che è vissuto come un incubo da chi oggi sostiene l'esecutivo tecnico. Il rischio aggiuntivo per Bersani è che «l'opinione pubblica possa iniziare a pensare come si stava bene prima», cioè con Berlusconi...


Così nella «strana maggioranza» è iniziata una manovra degna di un equilibrista: stare con il Professore e tenersene però a distanza, appoggiare il governo senza tuttavia assecondarlo. Il gioco si è disvelato al crocevia della riforma sul mercato del lavoro ed è così che gli equilibri sono saltati. Persino Casini - che si era sempre schierato dalla parte del premier «senza se e senza ma» - nei giorni dello scontro tra palazzo Chigi e i sindacati si è defilato, prima dicendo che «ad una nuova legge noi preferiamo un buon accordo», poi avvisando che «il Parlamento non sarà un passacarte». E ieri, dopo le parole pronunciate da Monti in Estremo Oriente, ha criticato il linguaggio del Professore, definendolo un «errore di comunicazione».


Non si era mai visto in effetti un capo di governo che attacca così la propria maggioranza, per quanto «strana». Il fallo di reazione è stato commesso da chi si è reso conto di non avere più nemmeno la totale copertura del Colle. Il problema è che anche Napolitano ora ha pochi margini di manovra, dato che il Quirinale si è trasformato a sua volta in un parafulmini. Nel braccio di ferro tra il premier e il Pd, viene lambita infatti anche la figura del capo dello Stato, che ieri aveva invitato a rinviare il giudizio sulla riforma del mercato del lavoro «quando sarà presentato il testo». Bersani invece il giudizio l'ha dato, eccome, ravvisando «elementi di incostituzionalità» nel provvedimento. Il leader democratico ha ripreso la tesi sostenuta in Consiglio dei ministri dal titolare della Salute, Balduzzi, e definita dal Pdl «un'interpretazione sovietica del diritto».


Si attende il rientro di Monti per cercare un compromesso tra le ragioni dei tecnici e quelle dei politici. Nel frattempo ieri lo spread è risalito a quota 327.

Francesco Verderami

29 marzo 2012 | 8:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_marzo_29/Monti-pensa-alla-fiducia-verderami_d5bb7fbc-795d-11e1-a69d-1adb0cf51649.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI L'idea del Cavaliere: grande coalizione con Monti
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2012, 03:49:09 pm
Settegiorni

I test sul nuovo nome con la parola «Italia»

L'idea del Cavaliere: grande coalizione con Monti


Da tempo aveva deciso di cambiar tutto dopo le amministrative: «Serve una nuova formazione per riunire i moderati italiani», dice infatti Berlusconi, che dà l'addio al Pdl. «Non va».
E non solo perché l'acronimo non gli è mai piaciuto, ma perché non gli piace la struttura ingessata del partito.

La «cosa» che ha in mente dovrà infatti avere la forma di un «movimento». Così il Cavaliere intende traghettarsi nella Terza Repubblica, dove non sarà più un vincente, ma dove
vuol stare tra i vincenti.

«Non si può andare in pensione», sospira Berlusconi, che in realtà di andarci non ha alcuna intenzione, e aveva preso a studiare il nuovo progetto appena lasciato palazzo Chigi.
Di quei giorni tumultuosi racconta il percorso, l'intesa assunta al Quirinale «con l'impegno del Pd a votare provvedimenti che, con me al governo, non avrebbe mai votato».
E tra gli impegni c'è un accordo sulle riforme, da quella costituzionale a quella del sistema elettorale: «Noi preferivamo il modello spagnolo, ma anche il tedesco ci va bene.
A condizione che lo sbarramento sia posto almeno al 6%, altrimenti chiunque deve governare sarebbe ostaggio dei piccoli partiti». Cita il patto perché vorrebbe fosse onorato, siccome davvero è interessato a modificare il meccanismo di voto.

In quel caso, e se le urne lo rendessero necessario, il Cavaliere sarebbe disposto a una nuova «grande intesa» con i Democratici, «allora si potrebbe fare la grande coalizione con Monti» alla guida del governo. Il messaggio che Berlusconi manda al Pd, è un modo per creare un ponte diretto con gli avversari di un tempo e senza più la mediazione dei centristi.
Ed è un modo per rinnovare la fiducia al presidente del Consiglio, definito «persona seria e competente, che sa ascoltare, e che non solo è preparata ma è anche molto brava nella comunicazione, perché sa soffocare il tono di professore che ogni tanto prende il sopravvento».

L'unico appunto è sulla «operatività politica», forse retaggio dei malumori che hanno portato all'annullamento del pranzo di giovedì, e che sono stati determinati dalle mosse di alcuni suoi ministri. Il Cavaliere fa i nomi di Passera per il nodo delle frequenze tv e della Severino per certe norme in tema di giustizia. Non per questo l'appoggio al governo dei tecnici verrà meno, «Monti deve arrivare fino alla fine» della legislatura.

Ma dal Professore si aspetta un cambiamento di passo in sede europea per cercare una soluzione al problema della crescita. L'appiattimento sulla linea tedesca non gli piace, e si capisce da come ricorda i vertici internazionali ai quali ha partecipato, e dove «io insieme a Zapatero ed altri facevamo argine alla Merkel». Dalla crisi, secondo Berlusconi, si esce solo superando «l'impostazione» economica della Germania, «altrimenti sarà il disastro, perché si è innescata una spirale di recessione che sta mettendo in ginocchio l'Europa.
E l'Europa è in grado di sopportare un po' di inflazione in più».

Passato, presente e futuro s'intrecciano insieme a possibili maggioranze di governo dopo il voto e nascita della nuova casa dei moderati, il cui nome è ancora riservato.
Eppure si dice che abbia fatto testare «Nuova Italia», nostalgia canaglia... «Ma no, a Forza Italia non si può tornare», giura Berlusconi, sebbene nei mesi tormentati che precedettero la crisi del suo governo più volte si lasciò andare: «Ah, avessimo ancora il vecchio movimento». Il nuovo si dovrà dotare di una classe dirigente «credibile», fatta di persone «competenti e giovani, massimo cinquantenni», a cui affiancare «un gruppo di saggi».
Il nuovo soprattutto non sarà un partito, soltanto la parola gli provoca l'orticaria, la stessa reazione che provoca oggi nella pubblica opinione: «La fiducia degli italiani nei partiti è scesa al 2%». Nell'elettorato, invece, l'evocazione delle origini farebbe ancora breccia. Gliel'ha fatto notare la scorsa settimana un suo deputato, Moles, che gli ha portato un sondaggio da cui emerge come il 74% di quanti nel 2009 hanno votato per il Pdl sarebbe favorevole alla ricostituzione di un movimento che riprenda lo spirito del '94.
Ma il dato più sorprendente è che sarebbe favorevole il 40% della totalità degli elettori. E a Moles - che su questa linea si voleva dar subito da fare - Berlusconi aveva detto di aspettare, «dobbiamo fare le cose in grande».

Ieri ad Alfano è toccato il preannuncio dell'annuncio, per far capire che il Pdl non sta fermo davanti alle manovre di Pisanu e del Terzo polo, «dove Casini - spiegano i berlusconiani - cerca di liberarsi di Fini e di Rutelli, con cui litiga ogni giorno». Il giovane segretario non poteva che assecondare la mossa del Cavaliere, secondo il quale ad «Angelino» mancherà pur qualcosa ancora per fare il leader, forse l'esperienza. E tuttavia è l'unico del quale davvero si fida: «Quando si trattò di decidere sulla nascita del governo Monti, ci pensai due giorni prima di dire sì. E in quei due giorni parlai delle cose riservate solo con Alfano».

Dopo le Amministrative si cambia: «Serve una nuova formazione per riunire i moderati italiani». Non sarà un altro predellino, comunque non sarà il Cavaliere a guidare il movimento né a candidarsi al governo. Avanti un altro, «anche se io non vedo un altro Berlusconi», dice Berlusconi.

Francesco Verderami

21 aprile 2012 | 8:45© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_aprile_21/berlusconi-idea-grande-coalizione-monti_1383cb76-8b72-11e1-bdb0-bf9acf202da2.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI E la grande coalizione tenta i leader
Inserito da: Admin - Luglio 08, 2012, 10:19:48 am
Settegiorni

E la grande coalizione tenta i leader

Trattative avanzate sulla legge elettorale

Pd e Pdl restano divisi sul nodo del premio di maggioranza. Berlusconi punta a un ruolo determinante


Se si fa, non si dice. Perciò è scontato che nel Pdl e (soprattutto) nel Pd venga fermamente smentita l'ipotesi di lavorare a una grande coalizione per il 2013. D'altronde non avrebbe senso parlarne prima delle elezioni, sarebbe come invalidare anzitempo la partita.

Ma la prospettiva che il montismo succeda a Mario Monti non è sfumata, anzi. Più va avanti l'esperienza del governo tecnico, più aumentano le probabilità che la «strana maggioranza» possa ricostituirsi in Parlamento dopo la contesa nelle urne. Al momento non ci sono prove ma solo indizi, ed è attraverso l'analisi delle trattative sulla legge elettorale che si possono raccogliere degli elementi. Ecco perché è importante la mediazione in corso tra Pdl, Pd e Udc sulla riforma del sistema di voto: la tattica che stanno adottando disvela infatti dettagli sulla loro strategia politica.

Lo stallo di questi giorni non inganni, è tipico di una vertenza che sta arrivando a conclusione, tanto che gli sherpa impegneranno il weekend per lavorarci sopra. Altrimenti i leader dei tre partiti non si direbbero convinti di poter raggiungere un'intesa già la prossima settimana, Alfano non la metterebbe in conto, Bersani non sosterrebbe che «ormai dovremmo esserci», e Cesa non si farebbe scappare di essere «molto ottimista». Non c'è dubbio che i nodi ancora da sciogliere sono determinanti per disegnare il futuro sistema politico, ed è proprio dietro quei nodi che si può scorgere l'ombra della grande coalizione.

Il braccio di ferro sul premio di maggioranza ne è l'emblema. C'è un motivo se il Pd preferirebbe assegnarlo alla coalizione vincente, mentre Pdl e Udc vorrebbero affidarlo al partito vincente. Ed è chiaro come mai Bersani spinga per un premio comunque alto (15%), mentre Alfano e Casini puntino a tenerlo basso (10%). «Il 15% per noi è inaccettabile, Pier Luigi», ha detto il segretario del Pdl al capo dei democrat durante il loro ultimo colloquio. «Abbassando la soglia, si prefigura l'instabilità», è stata la risposta: «E tu, Angelino, dovresti convenire che sarebbe meglio puntare sulle coalizioni e non sui partiti. Perché se non si organizzano i due campi in contesa e andiamo in ordine sparso, Grillo potrebbe spazzarci via tutti».

Ecco spiegata l'importanza della discussione «tecnica» sul premio di maggioranza, che disegna gli scenari «politici» del dopo-voto e lascia intuire il cambio di strategia in corsa del Pdl. A dire il vero non è la prima volta che Bersani - dopo aver incontrato Alfano - ha pensato di aver chiuso il patto, rimesso poi in discussione da un vertice a palazzo Grazioli. L'opzione delle preferenze, per esempio, sembrava ormai abbandonata. E invece il Pdl ha preso a spalleggiare l'Udc, convinto - come ha spiegato Casini - che «i candidati nei collegi danno l'idea di persone paracadutate sul territorio, mentre le preferenze consentono di contrastare meglio il grillismo». «Con le preferenze - ha obiettato Bersani - aumenterebbero le spese elettorali, si aprirebbe un varco pericoloso, ci sarebbe il rischio del malaffare e ci ritroveremmo con le inchieste della magistratura».

Ma il cuore della trattativa è il premio di maggioranza. È da lì che si intuisce come il «montismo berlusconiano» abbia preso piede. Altro che elezioni anticipate, il Cavaliere vuole mantenere un ruolo determinante in un sistema dove nessuno prenda il sopravvento. E la grande coalizione è lo strumento idoneo all'occorrenza. Di più, è Monti il suo asso nella manica nonostante le tensioni del Pdl con il governo. Il rapporto riservato e preferenziale tra l'attuale premier e il suo predecessore sfugge ai riflettori e alle dinamiche di Palazzo. E Berlusconi sarebbe pronto a sconfessare anche se stesso pur di non uscire dal centro del ring. Come ricorda il segretario del Pri, Nucara, «fu Berlusconi a indicare Monti come commissario europeo, a proporlo come governatore di Bankitalia, a tentarlo con il ministero dell'Economia, e soprattutto a lanciarlo come candidato al Quirinale prima che ci arrivasse Napolitano».
Puntando su Monti, inchioderebbe Casini e manderebbe gambe all'aria ogni manovra fin qui ipotizzata.

La grande coalizione insomma è più di una suggestione. Ma per farla non bisogna dirla, e se del caso è necessario smentirla. Perciò il Cavaliere fece finta di prendere le distanze dal progetto «Tutti per l'Italia» che Giuliano Ferrara lanciò mesi fa sul Foglio . Era troppo presto. E ora che sul Giornale Vittorio Feltri evoca Indro Montanelli per scrivere che sarebbe meglio «turarsi il naso» e guidare «tutti insieme» il Paese, ecco comparire un altro indizio.

Perché non c'è dubbio che il fondatore del Pdl sia tornato a dettare l'agenda del partito, bloccando le primarie, facendo mostra di essere un allenatore che si allena per rientrare in campo. «Io rappresento tutte le anime del partito», ha detto l'altra sera davanti al suo gruppo dirigente.

E la storia che una svolta grancoalizionista possa indurre l'area degli ex An ad abbandonare il Pdl, non sta in piedi. Ci pensa La Russa a far giustizia delle voci circolate negli ultimi tempi: «Nessun tipo di riforma del sistema di voto su cui stiamo discutendo presuppone di per sé la grande coalizione. Certo, sarebbe per me e per molti di noi inaccettabile precostituire o addirittura dichiarare la grande coalizione come obiettivo. Se invece questa formula di governo venisse imposta per effetto del risultato elettorale, sarebbe un'altra cosa». Più chiaro di così.

Il «montismo berlusconiano» è ben incardinato nel centrodestra, il presidente del Senato Schifani non manca occasione nei suoi colloqui di ripetere che «l'emergenza dettata dalla crisi non cesserà purtroppo il giorno dopo le elezioni». L'idea della grande coalizione nel Pdl si alimenta anche dei segnali che giungono dal campo avverso. Pare che Berlusconi abbia letto più volte l'intervista rilasciata al Corriere da D'Alema e abbia avuto la sensazione che contenesse un messaggio subliminale.

Francesco Verderami

7 luglio 2012 | 8:22© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_luglio_07/grande-coalizione-tentazione-politica-legge-elettorale_ef0c944a-c7f7-11e1-9d90-c5d49ff3a387.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI L'intervista al segretario del PDL
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2012, 10:19:55 am
L'intervista al segretario del PDL

«Ticket? Meglio una donna»

Parla Alfano: «Berlusconi è il candidato più forte. Io alla guida del partito»


ROMA - La premessa è d'obbligo, visti i colpi di scena a cui ha abituato la politica italiana: è sicuro che il Cavaliere scenderà nuovamente in campo e non ci ripenserà? Alfano non mostra incertezze, «non siamo nella fase dei ripensamenti ma in quella dei ragionamenti. Berlusconi non ha ufficializzato la candidatura, ma noi glielo stiamo chiedendo e sono certo che lo farà. E chi ci ha guidato in tante battaglie, ci guiderà anche in questa». Già da tempo il fondatore del Pdl aveva affrontato la questione con il segretario del partito, «e c'è un motivo - racconta Alfano - che ha portato a questa decisione. È la legittima domanda di avere un giudizio popolare sugli anni più difficili della storia repubblicana. Gli anni bui della crisi economica, ingiustamente attribuita a Berlusconi. Gli anni dell'aggressione moralista tramutata in processo penale. Gli anni dei tranelli nel Pdl, dove il cofondatore ha organizzato l'opposizione interna. Alla fine di un quinquennio così controverso è giusto che il protagonista di questa storia chieda al popolo un nuovo giudizio e un nuovo mandato».

La sua versione assolutoria della caduta di Berlusconi non coincide con quella dei vostri elettori, che si sono sentiti traditi per il fallimento politico nella gestione della più grande maggioranza parlamentare della storia repubblicana.
«Alla domanda risponderanno gli elettori nelle urne. Certo in tre anni sono stati commessi errori, ma non credo che evitandoli l'epilogo sarebbe cambiato. Ci sarà però un motivo se chi è stato all'opposizione del nostro governo, e risulta ora in testa nei sondaggi, ha meno voti di quanti ne prese nel 2008».

Ma se uno come Berlusconi, che aveva annunciato di voler fare «l'allenatore», decide poi di scendere in campo, vuol dire che non è soddisfatto di come gioca la sua squadra.
«Quei giocatori saranno accanto a lui nella partita. Quanto alla ragione della sua nuova discesa in campo, è dettata dal fatto che Berlusconi ancor oggi è il più forte candidato del Pdl e che quanto accaduto nell'ultimo anno necessita, giustifica, pretende un giudizio popolare. Il fatto di aver cercato questo giudizio dopo aver sostenuto il governo Monti, e non prima, con rancore vendicativo e un'affannosa ricerca di rivalsa, avrà un peso importante e positivo».

Sta di fatto che, dopo aver lanciato il più giovane segretario di partito e dopo aver dato l'assenso alle primarie, invece di Alfano, sulla scena torna il Cavaliere.
«Berlusconi non è mai uscito di scena. E lo schema che si prefigura oggi è esattamente quello della foto scattata il primo luglio di un anno fa, nel giorno della mia elezione a segretario del Pdl: Berlusconi presidente del Consiglio e io alla guida del partito. È solo nella prospettiva di rafforzare il Pdl che ho sempre lavorato».

Veramente si parlava di lei come candidato premier. Ora spunta l'ipotesi del ticket con il Cavaliere.
«Berlusconi non ha bisogno di ticket, ha sempre vinto senza accompagnatori. Per quanto mi riguarda, se volesse farsi affiancare da qualcuno, gli consiglierei una protagonista femminile del nostro partito. Ne ho in mente più di una da suggerirgli».

Lo sa che i suoi avversari - dentro e fuori il Pdl - parlano di un suo ridimensionamento se non di un suo dimissionamento. Le rimproverano di non aver avuto il cinismo necessario per contrapporsi a Berlusconi.
«Se non ho il cinismo necessario alla politica, è colpa della politica che ne chiede troppo, e non mia che non ne ho. Comunque, è tutto messo in conto. Le leadership si costruiscono nel tempo e si forgiano nelle difficoltà».

Difficoltà in cui l'ha messa anche Berlusconi. La battuta sulla mancanza del «quid», per esempio...
«A tutti gli uomini di questa terra manca un quid. La perfezione appartiene agli dei».

... E poi il lavorio ai fianchi, i boatos sulle liste civiche, lo spacchettamento del Pdl, le voci sulle candidature di Montezemolo e Passera alla guida del centrodestra, l'idea del Cav aliere di farle da ministro dell'Economia...
«Ma non è stato Berlusconi a mettermi in difficoltà. In questa fase storica di profondi sconvolgimenti non si può pretendere di tenere la posateria in ordine su una barca che fronteggia una tempesta. C'è sempre qualcosa in disordine, l'importante è la rotta. E noi la rotta l'abbiamo tenuta. Eppoi, ricordo quando da ragazzo - alla prima lezione nautica - mi insegnarono come navigare controvento. Ecco, questo è tempo di bolina».

Nel partito avete valutato i pro e i contro della candidatura di Berlusconi?
«I contro? E quali sarebbero?».

Che gli elettori interpretino questa mossa come una sorta di «operazione nostalgia», con il Cavaliere nei panni di Eltsin che cerca di tornare al potere.
«Berlusconi è ammesso di diritto alla sfida successiva come detentore del titolo, per aver vinto le ultime elezioni».

Intanto, addio al rinnovamento.
«Il rinnovamento è già in atto a livello nazionale e locale. Se poi, nella nuova legge elettorale, ci fossero le preferenze, spetterebbe ai cittadini l'ultima parola».

Dall'Udc al Pd, l'annuncio è stato accolto da battute sarcastiche e duri commenti.
«Dopo diciotto anni ci siamo abituati. Eppoi, quanti capelli grigi, quante lucine fioche stavano dietro quei commenti. La gerontocrazia che parla del nuovo...».

Non sarà Berlusconi il «nuovo»...
«È di sicuro il leader politico italiano da meno anni presente nelle istituzioni. Consiglio un po' di serietà perché questo argomento è sconveniente per tutti gli altri».

Di Pietro sostiene che, se il Cavaliere si ricandida, sarà perché ha interessi personali da difendere.
«Berlusconi ha difeso l'interesse nazionale quando ha lasciato Palazzo Chigi, sostenendo il governo Monti».

Maroni si è chiesto se «il presidente del Milan» è sceso in campo «a San Siro».
«Con il segretario della Lega a tempo debito faremo un discorso serio che riguarderà il futuro del Paese e del Nord».

Il presidente di Confindustria Squinzi, appresa la notizia, ha chiesto di parlare della tappa del Tour de France.
«Da segretario del Pdl sono certo che - quando sarà chiamato a scegliere - il mondo delle imprese ricorderà come abbiamo difeso le sue buone ragioni in Parlamento. E accoglierà positivamente il nostro programma di governo».

E il vostro programma sarà in continuità o in contrapposizione con la linea di politica economica di Monti?
«Sulle tasse e gli eccessi di Equitalia, sarà in dissenso. Sui tagli agli sprechi e gli impegni assunti in Europa, sarà in continuità».

Pensa che Monti avrà ancora un ruolo politico attivo dopo le elezioni?
«È senatore a vita. E non ha la tendenza a diventare patrimonio di una parte».

E se dal risultato elettorale dovesse emergere un verdetto di parità, sareste disponibili alla grande coalizione?
«A una squadra che sta per disputare una partita, e che punta a vincere nei tempi regolamentari, non si chiede come affronterà i supplementari».

Francesco Verderami

12 luglio 2012 | 15:56© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_luglio_12/berlusconi-dipietro-alfano-verderami_d6262cce-cc26-11e1-b65b-6f476fc4c4c1.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI. - SILVIO studia i loghi dei partiti nazionalisti europ
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2012, 10:21:35 am
Retroscena - E studia i loghi dei partiti nazionalisti europei

Berlusconi, nuovo simbolo: l'aquilone tricolore

Intervista alla «Bild» sui temi dell'euro


ROMA - L'unica panchina sulla quale Berlusconi si vede seduto è quella del Milan. Ecco perché il Cavaliere faticava a immaginarsi ai giardinetti e da mesi scalpitava per rimettere gli scarpini della politica. Al punto che - ben prima di anticipare ad Alfano i suoi propositi - aveva già approntato il simbolo con cui accompagnarsi per il suo ritorno in campo: l'ultima idea è un aquilone tricolore che continua a testare senza sosta, che mostra agli ospiti chiedendone il parere, e che nell'immaginario collettivo dovrebbe trasmettere quel senso di ottimismo necessario a favorire la rinascita del Paese. La campagna elettorale vorrebbe giocarla facendo leva su uno spirito fortemente patriottico, che lo avrebbe indotto a prendere in esame anche alcuni simboli di partiti nazionalisti europei.

Epperò sul ritorno di Berlusconi ci sono delle cose che non tornano. Non si è mai visto infatti un partito ancora senza nome ma con il simbolo, e soprattutto non si è mai visto un candidato che ancora non si candida, che ieri continuava a dare segni di incertezza davanti al vertice del Pdl, che si mostrava insofferente per gli «attacchi ingenerosi» letti sulla stampa, e che prendeva tempo per ufficializzare la sfida. È vero che l'incertezza sulla riforma della legge elettorale impedisce di definire le strategie, tuttavia è impensabile tenere il partito nell'incertezza, che accentuerebbe il marasma e delegittimerebbe ulteriormente la classe dirigente.

Ecco il motivo per cui Cicchitto si è affrettato a ribadire che «Berlusconi sarà il nostro candidato premier». Resta poi da stabilire la linea che il nuovo partito senza nome ma con il simbolo vorrà assumere, quel solco programmatico che servirà a evitare il rischio di pericolose oscillazioni tra un'istintiva «deriva grillina» del Cavaliere e il più istituzionale profilo del «montismo berlusconiano».

Sui temi di politica economica il fondatore del Pdl sembra avere le idee abbastanza chiare. Le ha riversate in un'intervista alla Bild , nella quale ha parlato di euro e di Europa, spiegando che dall'avvento della moneta unica «è stata Berlino a trarre beneficio», e che «è ora di cambiare i meccanismi» così da garantire un ritorno alla prosperità per tutti i Paesi dell'Unione. Berlusconi ha respinto l'accusa di parteggiare per la reintroduzione delle divise nazionali: «Si parla più in Germania di un ritorno al marco che in Italia di un ritorno alla lira». E comunque si tratterebbe di una «soluzione molto difficile» che «segnerebbe la fine dell'Unione».

L'intervista al maggior giornale popolare tedesco è un segnale importante, sia per i contenuti «europeisti» sia perché dimostra come il Cavaliere tenti di riaccreditarsi a livello internazionale. È questa la scommessa più difficile, lo si è capito due giorni fa dall'eloquente «no comment» del portavoce della Merkel alla notizia di un ritorno in campo di Berlusconi. «Il Pdl ha solide relazioni con tutti i grandi partiti moderati europei e dell'Occidente», dice Alfano come a derubricare la portata del messaggio in codice tedesco. Intanto il Cavaliere fa le prove dell'aquilone.

Francesco Verderami

13 luglio 2012 | 7:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_luglio_13/pdl-nuovo-simbolo_fb883976-cca8-11e1-a3bf-e53ef061f69e.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il timore per agosto: un attacco speculativo
Inserito da: Admin - Luglio 14, 2012, 03:53:58 pm
RETROSCENA - CRISI ECONOMICA E LE MOSSE DEL GOVERNO

Il timore per agosto: un attacco speculativo

A questo si riferiva Monti quando parlava di «percorso di guerra» per l'Italia

La bocciatura di Moody's sarà pure stata «una disgrazia», ma è un'eventuale bocciatura dei mercati ad agosto che Monti teme e purtroppo non può escludere. Ecco a cosa si riferiva quando ha parlato del «percorso di guerra». Ecco cosa ha detto ai leader della «strana maggioranza».


Il premier mette nel conto l'ipotesi che all'ombra del «generale agosto» si scateni una nuova tempesta finanziaria, un'offensiva speculativa internazionale che prenda nel mirino l'Italia a mo' di bersaglio grosso. E sebbene il professore auspichi di sbagliarsi, avverte il rischio che fra qualche settimana possa ripetersi quanto è accaduto giusto un anno fa, quando a palazzo Chigi c'era Berlusconi e lo spread tra i Btp italiani e i Bund tedeschi raggiunse «quota 570». Il governo ha approntato ogni misura per cautelarsi rispetto a una possibile emergenza, e la nomina di Grilli a titolare dell'Economia va letta anche in questo quadro, così da avere un ministro con pieni poteri e sempre in campo sul fronte Ecofin.

È vero che agosto è da sempre considerato il mese più pericoloso per le turbolenze sui mercati, ciclicamente scossi come fossero investiti dai monsoni, ma non c'è dubbio che Monti confidasse in un clima diverso. E invece - come spiega Bersani - c'è «nervosismo e preoccupazione»: «Il fatto che l'Italia faccia ogni sforzo e non le venga mai riconosciuto - dice il segretario del Pd - segnala qualcosa di poco chiaro, l'intenzione di attaccare l'euro usando il nostro Paese come leva per scardinare il sistema».

Trovandosi sulla linea del fuoco, Monti ha voluto mettere al corrente della situazione le forze che sorreggono il governo, ed ha affrontato il tema anche con il segretario del Pdl Alfano durante un incontro riservato avvenuto mercoledì sera. Il premier si è raccomandato con i partiti della «strana maggioranza» affinché tengano unito il quadro politico. La «frustrazione», a cui il professore ha accennato in pubblico, è uno stato d'animo che accomuna tutti i suoi partner europei, «è come se un medico - racconta un autorevole esponente dell'esecutivo - sperimentasse tutte le cure possibili ma non riuscisse a guarire un malato».

Una cura secondo Berlusconi ci sarebbe, se si trasformasse la Bce in prestatrice di ultima istanza, rompendo il muro eretto dalla Merkel che «invece ha in mente un'Europa germanizzata». Chissà se ha ripetuto questi concetti a Monti tre giorni fa, quando il premier l'ha chiamato per spiegare il senso della sua battuta sul famoso vertice di Cannes, per chiarire che quella frase sull'«umiliazione» subita dal Cavaliere al G20 non voleva esser un attacco nei suoi confronti. Il colloquio - secondo fonti del governo - è stato «cordiale», perché c'è «un humus sintonico» tra i due. Ed è un'ulteriore dimostrazione del fatto che i contatti tra l'ex presidente del Consiglio e il suo successore sono costanti e per nulla occasionali.

A rimarcare la solidarietà al professore, ieri Berlusconi ha fatto intervenire il suo portavoce, Bonaiuti, per criticare la «pesante decisione» di Moody's che - guarda caso - ha sottolineato come il downgrade «potrebbe aprire la strada alla speculazione finanziaria in agosto, quando i mercati sono più influenzabili». È il segno che il Cavaliere intende procedere sulla linea del «montismo berlusconiano», che impedisce a Pd e Udc di isolarlo dai giochi futuri. E sebbene sia convinto, «perché i fatti lo dimostrano», che «la politica del rigore non paghi», ha dismesso la logica «grillina», riconoscendo che «per ora il binario è obbligato».

Altra cosa è se Berlusconi auspichi che Monti succeda a Monti: il fondatore del Pdl attenderà l'evolversi del quadro politico ed economico prima di esprimersi. Di certo l'idea della grande coalizione resta nel novero delle opzioni, perché - come gli ha detto il suo amico, Fedele Confalonieri - «in un tempo di guerra economica servirebbe una stagione di pace politica». E se le cose dovessero andare per un certo verso, il Cavaliere non si farebbe sfuggire l'occasione di ricordare che «fui io il primo a proporre le larghe intese», dopo le elezioni vinte d'un soffio da Prodi nel 2006. Era un'altra Italia. C'è sempre Berlusconi.

Francesco Verderami

14 luglio 2012 | 8:53© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/economia/12_luglio_14/timore-attacco-speculativo-agosto-verderami_3cd90a34-cd73-11e1-bc80-9c2657984b85.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Quel tifo dall'estero per Monti
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2012, 03:25:17 pm
Settegiorni / Lo scenario di un altro incarico e i messaggi Usa alla maggioranza

Quel tifo dall'estero per Monti

Obama apprezza l'azione del premier e quasi ogni settimana i due si sentono.

E Putin spera nella «stabilità politica»

Come cambiano le cose e in poco tempo. Se fino a qualche mese fa Stati Uniti e Russia avevano opinioni divergenti sulla situazione politica italiana, ora Obama e Putin convergono nelle loro posizioni, e auspicano che l'esperienza Monti non si esaurisca con la fine della legislatura. Certo, non è una novità che le relazioni tra la Casa Bianca e Palazzo Chigi attraversino una fase molto positiva.

La crisi economica ha imposto a Washington di spostare l'attenzione dall'area del Pacifico verso l'Europa, riaprendo la rotta atlantica che per anni era stata quasi del tutto abbandonata, e che veniva solcata soprattutto per questioni militari. Il punto è che - a causa dell'emergenza - il ritrovato interesse per il Vecchio Continente ha prodotto anche importanti modifiche nei rapporti con le cancellerie dell'Unione.

Per Obama oggi Monti è un interlocutore importante, tanto da aver spinto l'amministrazione statunitense a rivoluzionare il tradizionale modello di relazioni bilaterali, introducendo un sistema inedito per i due Paesi. È tramite il premier italiano che il presidente americano cerca di capire lo stato dell'arte nell'area dell'euro, esortando il suo interlocutore a proseguire nell'azione politica che sta producendo al tavolo dell'Unione, apprezzandone la linea, compiacendosi anche per la cura che il suo governo pone - per esempio - rispetto a una maggiore integrazione del commercio transatlantico. Non è questione di reciproca simpatia, ovviamente, c'è sempre un interesse alla base di questi rapporti. Ma è evidente la novità segnata dall'inusuale frequenza dei contatti tra i due, che di norma si sentono al telefono con cadenza quasi settimanale. E nei momenti critici, che di questi tempi sono frequenti, la linea viene usata anche più spesso. Sarà perché fin dall'inizio Obama ha salutato la nomina di Monti alla guida del governo con toni entusiastici, sarà perché lo considera un «protagonista attivo» dell'Unione, fatto sta che l'inquilino della Casa Bianca fa il «tifo» per il professore.

È vero che il vocabolario diplomatico non contempla la parola «tifo», però è questo il messaggio che i vertici dei partiti della «strana maggioranza» hanno recepito dopo una serie di incontri riservati con emissari dell'amministrazione americana. Il linguaggio adottato dagli ambasciatori sarà stato consono al tipo di colloqui, attento a non calpestare le regole delle relazioni internazionali, a non dare l'idea di ingerirsi negli affari italiani, però il sostegno a Monti e l'auspicio che il premier non traslochi da palazzo Chigi nel 2013 è parso a tutti inequivocabile.

Di sicuro non sarà stata una sorpresa per i dirigenti politici italiani ascoltare quei ragionamenti. Più sorprendente, per lo stesso Monti, sarà stato ascoltare le parole di incoraggiamento che gli sono giunte da Putin nel corso del loro recente incontro a Sochi. Il presidente russo, a più riprese, ha sottolineato come la «stabilità politica» sia importante per favorire la stabilità economica internazionale e anche le relazioni commerciali, spingendosi fin dove si era spinto in passato solo per l'«amico Silvio». Così sono cambiate le cose e in pochi mesi: nelle valutazioni sull'Italia - un tempo divergenti - Stati Uniti e Russia finiscono ora per trovare un punto di sintonia.

È molto pericoloso monetizzare la democrazia, trasformarla in merce di scambio sui mercati finanziari, darle un valore come fosse una valuta. E mettere le mutande alle elezioni, determinare l'esito del risultato prima della sfida, sarebbe come tentare di imbrigliare la storia. Infatti il premier non fa che ripetere di esser pronto a lasciare l'incarico appena terminerà il suo mandato. «Ci tiene a far sapere che non si impegnerà», ha spiegato Casini l'altro giorno a un dirigente dell'Udc. Stesso messaggio è stato destinato alle altre forze che appoggiano il governo.

Ma ci sarà un motivo se i partiti della «strana maggioranza» discutono e si dividono sul «Monti dopo Monti», se il tema terrà banco anche la settimana prossima che il premier trascorrerà tra Madrid, Parigi ed Helsinki, se la questione si riproporrà con più vigore con l'approssimarsi delle urne, se si preparano appelli perché questa esperienza prosegua anche dopo le elezioni.

È evidente che il professore rimarrà un passo indietro rispetto al dibattito pubblico in atto, ossequioso della politica a cui spetta l'ultima parola. E se il suo lavoro verrà riconosciuto positivamente, starà ai partiti chiamarlo nel caso per rinnovargli la fiducia, dopo la sfida elettorale. Intanto dagli spalti, dentro e fuori i confini nazionali, c'è chi tifa per lui.

Francesco Verderami

28 luglio 2012 | 9:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_luglio_28/tifo-estero-per-monti_bbd81084-d875-11e1-8473-092e303a3cd5.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI E la crisi dell'isola «trascina» il voto nazionale
Inserito da: Admin - Agosto 03, 2012, 07:22:26 am
Il retroscena Lombardo e l'ipotesi di giocare d'anticipo decidendo di andare alle urne già a settembre

E la crisi dell'isola «trascina» il voto nazionale

Partiti in difficoltà: la modifica del Porcellum potrebbe consentire di unire le due elezioni


ROMA - Le elezioni anticipate siciliane potrebbero essere un anticipo delle elezioni politiche nazionali, potrebbero dare cioè una plastica rappresentazione dello stato disastroso in cui versano i partiti. Perciò - pur di rimandare il voto sull'Isola - le forze della «strana maggioranza» sono pronte a tutto, anche ad anticipare il voto sul «continente». Ragioni diverse e interessi convergenti, uniscono Pdl, Pd e Udc a Idv e Sel, siccome tutti sono timorosi di specchiarsi subito nelle urne sicule dopo quanto è successo con le urne di Palermo.

Potrà sembrare paradossale, ma un filo rosso tiene insieme il rinnovo dell'Assemblea siciliana, la riforma della legge elettorale e l'ipotesi non ancora tramontata di anticipare in autunno il voto per il Parlamento. L'idea di cambiare il Porcellum per indire le elezioni nazionali in novembre potrebbe consentire infatti di unire i due appuntamenti. Ma l'accorpamento non è facile, servirebbe una norma - magari da infilare nella Finanziaria - per evitare un conflitto con le prerogative costituzionali siciliane.

A Roma però dovranno fare i conti con Palermo, dove il dimissionario Lombardo potrebbe a sua volta giocar d'anticipo, indicendo il voto non più a fine ottobre ma agli inizi di settembre, e garantendosi così due risultati: intanto si vendicherebbe di antichi alleati e avversari, sapendo che li coglierebbe impreparati; eppoi allontanerebbe da sé il problema che già s'intravvede all'orizzonte, visto che nelle casse regionali le risorse scarseggiano e a breve potrebbero essere a rischio gli stipendi dei lavoratori precari.

Il voto in Sicilia è un rompicapo politico e giuridico di prima grandezza, una faccenda davvero complicata, e in cui - a vario titolo - sono coinvolti anche il Quirinale e Palazzo Chigi. La sfida si è iniziata a giocare tra le pieghe del contenzioso economico che ha visto contrapporsi il governo nazionale a quello locale, con i partiti che in quei giorni incitavano Monti al «redde rationem» con Lombardo. E se ora le forze della «strana maggioranza» (e quelle di opposizione) temono il voto siciliano c'è un motivo: a parole giurano di esser pronti alla competizione nel giro di un paio di settimane. Ma non è vero.

Il Pdl è prossimo ormai all'implosione. Ad accelerare il processo ci sta pensando il leader di Grande Sud, Micciché, ostile ad Alfano, che ai tempi delle Comunali di Palermo ha strappato al Cavaliere la «promessa» di appoggiarlo nella corsa a governatore e ora chiede che i patti siano mantenuti. Al suo fianco si è schierata l'ex ministro Prestigiacomo, mentre un altro berlusconiano ha annunciato di «scendere in campo»: è il capogruppo all'Assemblea, Leontini, un piede fuori dal partito, che vanta il sostegno del Pid di Romano, un tempo amico di «Angelino». E proprio ad «Angelino» la corte di cui si circonda Sua Emittenza non fa mancare la propria solidarietà: tal Volpe Pasini - che nonostante le smentite millanta di essere consigliere di Berlusconi - ha detto che «Silvio per la Sicilia pensa ad Alfano». Un sorso di cicuta. Intanto, ai blocchi di partenza, si scaldano anche il coordinatore regionale Castiglione, il presidente uscente dell'Ars Cascio e il «destro» catanese Musumeci, che ha una buona immagine e i migliori sondaggi.

A sinistra non stanno certo meglio. Nella caserma del Pd, ai minimi storici nell'Isola, l'eurodeputato Crocetta ha annunciato il «rompete le righe», autocandidandosi, nonostante il partito non lo abbia autorizzato. Non è una finta, «non mi ritirerò», ha confidato giorni fa l'ex sindaco di Gela: «Alla peggio, farò eleggere con me una decina di deputati regionali». Bersani ne sarà lieto. In lizza per la poltrona di governatore si annunciano pure Sonia Alfano, che dopo il divorzio con l'Idv corteggia Grillo, e Fava, che profittando del divorzio dalla Alfano ci sta provando con Di Pietro. E mentre la Sicilia brucia a Roma i vertici del Pd discutono, tentano di indurre all'alleanza l'Udc con un candidato di antica speme, Bernardo Mattarella, figlio di Piersanti.

Anche Casini però è nei guai. Nei mesi scorsi il leader dei centristi aveva confidato al segretario del Pdl le sue mosse: «Quello che farò in Sicilia, farò anche a livello nazionale». Ma il voto in autunno nell'Isola sconvolgerebbe i suoi piani, perché un accordo regionale con il Pd scoprirebbe anzitempo il suo gioco nazionale, l'idea di accordarsi dopo le urne con Bersani, l'obiettivo della presidenza del Senato per la successiva corsa al Colle... Per non parlare degli inevitabili contraccolpi a livello elettorale. E allora contrordine, «potremmo andare anche da soli», diceva ieri il segretario siciliano D'Alia. «Servirebbero le larghe intese anche a Palermo», aggiungeva a tono il segretario nazionale Cesa.

L'Isola fa più paura del continente, ecco perché tutti i partiti vorrebbero evitare che in Sicilia si giocasse l'anticipo del campionato nazionale. Anche perché quella è la terra di tanti esperimenti, compreso quello «milazzista» che mise insieme fascisti, comunisti e democristiani. Leoluca Orlando ha iniziato a ripassare qualche pagina di quella storia, magari per trovare ispirazione e vendicarsi (con un accordo eterodosso) di chi a sinistra provò a farlo incespicare nella sfida per il comune di Palermo. Ma sì, i partiti sono pronti. Quasi...

Francesco Verderami

2 agosto 2012 | 7:51© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_agosto_02/verderami-e-la-crisi-dell-isola_f70686d0-dc63-11e1-8f5d-f5976b2b4869.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI E il voto diventa un referendum sull'Europa
Inserito da: Admin - Agosto 16, 2012, 07:16:11 pm
Le istituzioni guardano con preoccupazione a quello che è accaduto in Grecia

E il voto diventa un referendum sull'Europa

I partiti costretti auna posizione netta in vista delle elezioni

Di FRANCESCO VERDERAMI


Come definire il dibattito che ha impegnato venerdì il governo? Come catalogare il quesito attorno al quale si è discusso, a proposito della Consulta tedesca che a settembre dovrà esprimersi sulla legittimità costituzionale del fiscal compact e dello scudo anti-spread?

«La sentenza della Corte tedesca — si sono chiesti i ministri italiani — lascerà impregiudicata la libertà del Parlamento di Berlino?». Qual era il tema al centro del confronto? Si discuteva di economia o di democrazia?

L’Europa — all’affannosa ricerca di una «terza via» tra il modello federale americano e l’unione tra Stati —è sempre più un sistema integrato per via della moneta, ma al momento non sembra avere né gli strumenti istituzionali né la generosità politica per uscire dal vicolo. Così l’Italia rischia di pagarne le conseguenze, rischia di subire — come spiega l’ex ministro Sacconi—«una limitazione della propria sovranità, e non solo per un’eventuale dipendenza da ulteriori vincoli». Dopo Madrid toccherà a Roma approssimarsi alla richiesta di aiuti per sfuggire alla morsa dello spread, e il «programma» di salvataggio finanziario metterebbe in mora i progetti politici dei partiti in vista delle elezioni.

È un pericolo di cui c’è consapevolezza nel Palazzo e che il presidente del Senato scorge all’orizzonte: quello cioè di una «democrazia pre-commissariata », di un futuro governo «con margini di autonomia ridotti». Tutto ciò, «nonostante il lavoro svolto da Monti», «malgrado il senso di responsabilità» mostrato dalle forze della «strana maggioranza», i provvedimenti «dolorosissimi che sono stati condivisi» e che hanno finito per gravare sui cittadini. Il punto è proprio questo: come lo spiegheranno i partiti che hanno appoggiato il professore, quando si confronteranno con le urne? È ben chiaro a Schifani il rischio di una «reazione diffusa », di un «rigetto dell’Unione» che potrebbe sfociare in «un voto anti- sistema».

Le consultazioni — che dovrebbero servire a rinnovare il Parlamento — potrebbero insomma trasformarsi in un referendum pro o contro l’Europa, se il governo invocasse lo scudo. In quel caso, per arginare l’offensiva in campagna elettorale, a Pdl Pd e Udc non basterebbe sostenere che «anche a noi questa Europa non piace», che «l’Europa è un’incompiuta », perché si esporrebbero all’accusa (semplicistica quanto efficace) di non aver operato per cambiarla. A meno che — com’è già accaduto in Francia — i partiti non adottassero la strategia di Hollande, che ha chiesto un giudizio ai cittadini sul rapporto di Sarkozy con la Merkel, vincendo la sfida. Ma sempre di referendum si tratterebbe, pro o contro l’Europa.

L’Italia che si appresta a diventare un laboratorio, è però al «caso greco » che guarda con preoccupazione, visto lo stato in cui versa la politica. Non a caso, per scongiurare l’evenienza, tra i democratici c’è chi teorizza il voto anticipato, così da lasciare al nuovo governo e non a Monti «il compito di negoziare le condizioni per gli aiuti». Ma il timing non sembra più favorire questa soluzione, che dal centrodestra viene peraltro scartata. E il capogruppo del Pdl alla Camera Cicchitto, arriva fino all’estremo, al «paradosso democratico»: «Visto come stanno le cose, le elezioni non andrebbero anticipate di cinque mesi ma posticipate di cinque anni». Se non è l’evocazione della Grande Coalizione, ci si avvicina, è un sentimento trasversale nei due schieramenti.

Un’opzione che Bersani rifiuta, al termine di una serie di messaggi pubblici e di ragionamenti svolti nelle riunioni di partito e nei colloqui con il governo. Quando, due settimane fa, il capo dei Democrat si è chiesto e ha chiesto «dov’è lo scudo? », voleva denunciare la fragilità dell’intesa realizzata al vertice europeo di fine giugno, quando sembrò che gli aiuti potessero arrivare per i Paesi «con i conti in ordine» senza dover passare per il «programma». Un «programma» che — secondo Bersani — dovrebbe essere «condiviso » dai partner europei, visto che «oltre 200 punti di spread sono da addebitare agli attacchi speculativi contro l’euro e non possono essere scaricati solo sull’Italia». E comunque, «se ci fossero impegni condivisi e mutuali in Europa, un centro-sinistra di governo sarebbe in grado di rispettarli».

È un segnale di garanzia e di continuità rispetto all’agenda Monti che il candidato del Pd a palazzo Chigi lancia alle istituzioni internazionali e ai mercati. Ma quale sarebbe la reazione del centrosinistra se — tra i punti di negoziazione — oltre a un ampliamento del processo di liberalizzazioni e a un maggior controllo sugli enti locali con drastica riduzione della spesa, venisse riproposto il nodo del mercato del lavoro e fosse richiesta una legislazione «più aperta »? La modifica dell’articolo 18 è uno dei punti inseriti in un dossier del Fondo monetario internazionale sull’Italia, è l’incubo ricorrente nelle ultime notti per alcuni dirigenti del Pd. È chiaro che un governo di centrosinistra non toccherebbe quella norma. Il problema è se, per garantire lo «scudo», all’Italia venisse chiesto di modificarla. Sarebbe un tema di economia o di democrazia?

4 agosto 2012 | 7:57

DA http://www.corriere.it/politica/12_agosto_04/voto-diventa-referendum-verderami_db855098-ddf4-11e1-9fa2-bd6cbdd1a02d.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Casini e Montezemolo contro La crisi nata in due weekend
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2012, 10:22:59 pm
Il primo accusa il manager di essere «indeciso», l'altro lo chiama «tattico»

Casini e Montezemolo contro La crisi nata in due weekend

Dal fine settimana con le famiglie alla rottura


ROMA - Li unisce la simpatia umana, li divide la diffidenza politica. Ecco perché le strade di Casini e Montezemolo si sono separate: le affinità non sono bastate a colmare le differenze. E sebbene Pier parli di Luca come di «un amico», e Luca a sua volta definisca Pier «una persona perbene», le divergenze sono tali da esser diventate fonte di litigio. Tanto che, dopo aver passato insieme alle rispettive famiglie il penultimo fine settimana, ora i due hanno interrotto i rapporti. Colpa dell'ultimo weekend, della festa dell'Udc, evento a cui Casini aveva invitato Montezemolo, che a sua volta aveva promesso in sua rappresentanza la presenza di Nicola Rossi.
Non solo l'esponente di ItaliaFutura non si è presentato all'appuntamento, ma il giorno dopo l'associazione montezemoliana ha definito una kermesse da «fritto misto» quella manifestazione, dove ministri tecnici e rappresentanti del mondo del lavoro e delle imprese si erano mischiati alla nomenklatura dell'Udc. Da allora la linea telefonica tra Pier e Luca è interrotta. Il presidente della Ferrari, che condivide i contenuti di quella nota, riconosce che i toni erano forse un po' eccessivi, mentre al capo dei centristi quei toni sono parsi tanto sgarbati e basta.

Ma la distanza sta nella sostanza, più che nella forma, se è vero che nel penultimo fine settimana Pier e Luca avevano avuto una conversazione molto franca. Le posizioni erano rimaste quelle dell'estate, quando Casini - invitando Montezemolo ad accompagnarlo nella costruzione di un nuovo polo - lo aveva pungolato: «Se qualcuno crede di aver qualcosa da dare al Paese, lo faccia senza tatticismi. Non c'è spazio per chi pensa a se stesso». E Montezemolo, non credendo in quel progetto, aveva commentato assai piccato: «Non si può dire di voler costruire qualcosa di nuovo, dando una mano di vernice alle pareti di una vecchia casa».

I punti di vista non sono cambiati. Il capo del Cavallino ha esortato (ed esorta ancora) il capo dei centristi a tagliare i ponti con il passato, a sciogliere l'Udc in un contenitore nuovo e a rinnovare la classe dirigente. L'altro, che ha già tolto il proprio nome dal simbolo, non ci pensa affatto a cancellare quel simbolo e confida piuttosto di ingrandire casa: da una parte con l'appoggio di settori del mondo del lavoro, che portano in dote la loro piccola «rete», dall'altra con l'ingresso in squadra di Marcegaglia e Passera, che potrebbero intercettare il voto di opinione. E dopo la lite con Luca, Pier ha iniziato a corteggiare alcuni esponenti di ItaliaFutura, avvertendoli che «adesso è il momento di fare il grande salto».

In realtà il gruppo dirigente di ItaliaFutura aspetta di sapere se e quando Montezemolo farà «il grande salto». Il presidente della Ferrari scioglierà la riserva solo a fine ottobre, siccome - a suo giudizio - il quadro politico è ancora troppo in movimento e c'è il test elettorale siciliano che può far mutare il corso degli eventi, influenzare persino Berlusconi nelle scelte. Perché una vittoria del centrodestra nell'Isola (e la sconfitta dell'asse Bersani-Casini) potrebbe indurre il Cavaliere a rilanciare l'offerta di un patto tra moderati e a non ricandidarsi: un colpo di scena che Luca (al contrario di Pier) non esclude.

Di sicuro Montezemolo non ha interesse al gioco dei centristi, considera contraddittorie certe scelte, non capisce come Passera possa ritrovarsi assieme a Bonanni, ha trovato priva di bon ton istituzionale l'idea della Marcegaglia di andare alla festa dei centristi, se non altro perché fino a poco tempo guidava ancora Confindustria. E rigetta l'accusa di pensare solo a sé e a Palazzo Chigi. Più che ai sondaggi che lo mettono in cima alla lista nazionale per popolarità, studia i report in cui è spiegato che oltre il trenta per cento degli elettori è in attesa di una nuova offerta politica «non inquinata» dalla vecchia nomenklatura: un bacino immenso.

Certo, prima o poi bisognerà capire cosa sia nuovo e cosa vecchio, far chiarezza su quale sia la differenza in Italia tra partiti a trazione lideristica e partiti a gestione proprietaria, quanto sia fondata la tesi di Montezemolo, secondo cui «in politica oggi c'è chi preferisce detenere il 100% di una piccola azienda piuttosto che avere il 60% di una grande impresa». Questione di punti di vista. Quelli di Pier e Luca sono diversi. Il primo dice che Luca è un «indeciso», il secondo parla di Pier come di un «tattico», che un giorno sta con Bersani e l'altro ammicca a Renzi, mentre cerca l'intesa con il Pdl sulla legge elettorale. E se Casini annuncia che «Monti è il nostro candidato», Montezemolo lo addita come un alibi usato per non scegliere.

D'altronde uno è alla testa di un partito, l'altro è il fondatore di un'associazione che vanta ormai quasi sessantamila iscritti. Casini ha deciso di non candidarsi a Palazzo Chigi, Montezemolo non ha ancora deciso se candidarsi, ma resta comunque interessato alla costruzione di un rassemblement moderato che sappia confrontarsi con il centrosinistra, e ritiene che per costruire un simile schieramento, e farlo diventare grande, sia inevitabile interloquire con l'area berlusconiana.

Francesco Verderami

14 settembre 2012 | 10:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_settembre_14/casini-montezemolo-rottura-verderami_a48fc3f4-fe40-11e1-82d3-7cd1971272b9.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Nel simbolo sarà scritto «centrodestra italiano»
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2012, 11:13:57 am
Nel simbolo sarà scritto «centrodestra italiano»

Il piano del Pdl: azzerare tutte le cariche

Assemblea straordinaria il 2 dicembre, in parallelo al secondo turno delle primarie del Pd

«Reset» è lo slogan attorno a cui Alfano - nei «giorni cupi» seguiti allo scandalo laziale - ha costruito una proposta, presentata al Cavaliere. E Berlusconi l'ha fatta propria. Così si è avviata la macchina organizzativa per un progetto in dieci punti che si compirà con la convention da indire tra due mesi. Sarà la direzione a ufficializzare l'evento, un vero e proprio congresso con poteri costitutivi. Sarà l'omega e l'alfa di ciò che resta del Pdl e di ciò che punta a essere il futuro «centrodestra italiano».
È difficile prevedere oggi se la «rifondazione» - come la definisce Alfano - porterà a una resurrezione politica. Ma se è vero che l'uomo del predellino non vuole rimanere sepolto sotto quelle stesse macerie su cui era salito da vincitore nel '94, se è vero che vuole sfuggire alla nemesi e non vuole essere additato come un «professionista della politica», se intende allontanare da sé l'immagine di leader di un partito ridotto al gioco delle correnti e attraversato da faide di potere, allora non esistono scorciatoie. Per questi motivi, tra mille titubanze, ha dato il benestare all'operazione che darà origine a una profonda trasformazione del modello partito e insieme della struttura.

La riorganizzazione si porterà appresso l'azzeramento degli organismi dirigenti, perché non basterebbe cambiare solo nome e simbolo, e perché nelle condizioni in cui versa il Pdl - come ha avuto modo di spiegare il segretario - «nessuno può pensare di far resistenza. Si resiste se c'è qualcosa da conservare, qui invece c'è da ricostruire». Perciò bisogna «resettare». Il nuovo inizio ricorderebbe per certi versi il vecchio inizio, quello di Forza Italia, un partito simile a quelli americani, leggero e al tempo stesso pronto ad agire in profondità sul territorio con l'approssimarsi delle campagne elettorali. Un partito capace magari di federare pezzi di società civile, di chiamare a raccolta esponenti del mondo imprenditoriale come l'ex presidente di Confindustria D'Amato, che secondo il Cavaliere sarebbe «interessato» al disegno.

Toccherà a Berlusconi tenere a battesimo il «centrodestra italiano», anticipando l'appuntamento del Pdl con una kermesse in cui - da one man band - annuncerà il progetto. Se quella sarà l'occasione per sciogliere anche la riserva sulla sua candidatura, si vedrà. È certo che sarà lui a premere il tasto del «reset». I sondaggi d'altronde illustrano con chiarezza la situazione in cui versa il partito fondato dal Cavaliere. Il problema non è (soltanto) dettato dal fixing settimanale, con una forbice tra il 15% e il 19% dei consensi. A destare maggior preoccupazione è il progressivo restringimento del «bacino potenziale» degli elettori, che in meno di un mese si è ridotto di tre punti, toccando il minimo storico del 21%.

Gli scandali incidono, non c'è dubbio, ma è l'inazione che sta portando alla consunzione. Le analisi demoscopiche raccontano come l'elettorato di centrodestra auspichi che Berlusconi non si tiri indietro, ma promuova contemporaneamente un processo di rinnovamento. Il fatto che Alfano sia davanti al Cavaliere nei sondaggi lo testimonia. Non è facile passar la mano tenendo la mano, ma è lì lo snodo. Anche perché nell'altra metà campo è in atto un movimentismo che secondo i dirigenti del Pdl sta giovando ai Democratici. È vero che con le primarie rischiano di farsi male, ma l'azione di Bersani sulla sinistra e quella di Renzi sull'area di centro stanno ampliando lo spettro dei consensi potenziali, superiori oggi al 35%.

Non è quindi un caso se l'Assemblea straordinaria sarà convocata per il 2 dicembre: è la data in cui il centrosinistra dovrebbe tenere il ballottaggio delle primarie. Quella domenica la convention consentirà al Pdl di non dover essere spettatore silenzioso di una partita giocata da altri. Sarà insomma un modo per tener botta al Pd. Il primo passo verso la sfida elettorale, da affrontare sul programma. Da tempo si coltiva l'idea di una Conferenza sull'economia, dove illustrare in modo organico il pacchetto di proposte già presentate in Parlamento (dal progetto per la riduzione del debito, alla compensazione tra crediti e debiti, all'Iva di cassa), e dove annunciare altre misure in materia fiscale che mirino alla riduzione delle tasse.
Il resto, le ipotesi di ingegneria politica, gli innesti di piccole sigle affidate ad agguerrite pasionarie, o la scomposizione di ciò che resta del Pdl, sarebbero trucchi circensi per un partito già in ginocchio. Anche l'opzione dello spacchettamento tra ex forzisti ed ex aennini sembra accantonata, e Berlusconi si incarica di recuperare al partito l'ex ministro Prestigiacomo. In attesa magari di ricomporre la frattura persino con Miccichè, dopo il voto in Sicilia.

Siamo al «reset» del Pdl, che serve per dar vita al «centrodestra italiano». Un nome e un simbolo sotto cui il Cavaliere pensa ancora di accogliere gli altri pezzi del mondo moderato: «Io sono pronto a candidarmi, ma dato che vengo vissuto come un elemento divisivo, sono pronto a farmi da parte pur di fare spazio». È tattica. E siccome il federatore non c'è, nessuno più crede a questa favola di Berlusconi, che dietro il suo attendismo sulla propria candidatura e i ripetuti ripensamenti sulla legge elettorale nasconde forse un altro progetto...

Francesco Verderami

5 ottobre 2012 | 20:41© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_05/piano-pdl-azzerare_57dbd1c2-0eaa-11e2-8205-e823db4485d4.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI L'arma (segreta) di Berlusconi: ripartire con la lista ...
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2012, 04:08:41 pm
Settegiorni

L'arma (segreta) di Berlusconi: ripartire con la lista «L'Italia che lavora»

Ma i primi sondaggi la collocano al 4-5 per cento


Credeva di aver trovato la soluzione, «ho trovato un coniglio nel cilindro», diceva Berlusconi, convinto di poter rovesciare le sorti avverse mettendosi alla testa di imprenditori, di giovani e persino di intellettuali: «L'Italia che lavora, così si chiamerà la mia lista». Perciò voleva far saltare l'intesa sulla riforma della legge elettorale, in modo da scegliere chi nominare in Parlamento, per questo aveva affidato ad alcune fedelissime deputate il compito di costituire un gruppo alla Camera.

L'avanguardia berlusconiana in Parlamento non avrebbe avuto solo il compito di testimoniare la nascita del progetto, sarebbe servita anche a evitare - grazie proprio alle norme del Porcellum - la macchinosa raccolta di firme in giro per l'Italia per la presentazione della lista. Il Cavaliere pensava davvero di aver risolto così ogni problema e di poter tornare a vincere, ricostruendo il fronte con la Lega e lasciando al Pdl gli oneri passivi insieme all'apparato. Era convinto che, trasformando il partito di cui è fondatore in una bad company, si sarebbe liberato dai debiti di una stagione fallimentare culminata con la caduta del suo governo.

Ma l'eugenetica non può essere applicata alla politica, non basta una lista dell'«Italia che lavora» per competere con le novità di Renzi e Grillo. Ancor più banalmente, non è cambiando l'ordine (e il nome) degli addendi che può cambiare la somma dei voti nelle urne. Anzi, è una regola che certe operazioni abbiano un saldo negativo. Anche perché i debiti finiscono comunque per ricadere sul leader e lo inseguono.

L'aveva avvisato per tempo Gianni Letta, «guarda Silvio che così non prenderesti più del 15%». E i sondaggi hanno dato ragione all'antico consigliere di Berlusconi, siccome la lista non raccoglierebbe più del 4-6%, e sarebbe superata persino dal Pdl, quotato in caso di spacchettamento tra l'8 e il 10%. Sono numeri che raccontano il paradosso di un Cavaliere che rottamerebbe il Cavaliere, condannandosi all'irrilevanza politica, «a una triste uscita di scena», come dice Matteoli. Di più: quei numeri evidenziano come il Pdl riuscirebbe a sopravvivere al suo leader, che continua a marcare la distanza dal suo partito.

Per questo motivo il gruppo dirigente ha deciso di sfruttare l'intervista della Santanchè al Foglio come casus belli: per quanto i rapporti tra Alfano e Berlusconi siano tesi, l'offensiva non va infatti interpretata come un gesto ostile verso il Cavaliere, semmai come un appello a rompere gli indugi, per farsi interprete e protagonista del rilancio del Pdl. «Bisogna portarlo a ragionare, senza mai rompere», spiegava sere fa Verdini nel corso di una riunione. Nessuno lavora a un 25 luglio, tuttavia c'è una bella differenza tra l'idea di «rottamare» e quella di «resettare» il Pdl.

Il fatto è che il capo per ora non ci sente e continua a cercare ispirazione nei colloqui con persone estranee alla politica. Nei giorni scorsi gli sono brillati gli occhi quando un imprenditore suo ospite lo ha esortato a un «grande gesto»: «Berlusconi deve fare Berlusconi». «E come?», gli ha chiesto il Cavaliere. «Tu devi denunciare il patto che ha portato alla nascita del governo Monti, dire che sei stato costretto ad appoggiarlo». «Ma così perderei le elezioni». «Sì, ma saresti coerente». Avanti un altro. Perché c'è sempre qualcuno che è pronto a vellicarne l'ego, perciò l'ex premier non si cura dei suggerimenti di chi lo segue da decenni. Gianni Letta più volte lo ha esortato a fare i conti con la cruda realtà, una settimana fa lo ha invitato a prendere per esempio in considerazione l'ipotesi di puntare sull'ex sindaco di Milano Albertini come candidato a Palazzo Chigi: sarebbe un modo per sfidare i centristi di Casini. Niente.

E siccome Berlusconi non ha bloccato l'opera di demolizione del Pdl da parte dei suoi fedelissimi, Alfano ha deciso di reagire. Perché era ormai chiaro il disegno: se è vero che il voto siciliano rappresenta un test politico, com'è possibile che il partito venga screditato dai suoi stessi dirigenti mentre è in corso la campagna elettorale? L'obiettivo era (e resta) quello di scaricare sul segretario la responsabilità dell'eventuale sconfitta, per chiederne poi la testa.

Si vedrà se il candidato del centrodestra Musumeci riuscirà a battere anche quanti dovrebbero stargli al fianco nella sfida con Crocetta. Intanto è stata preparata la contromossa, di cui peraltro Berlusconi è a conoscenza. È il progetto che Alfano aveva già presentato al Cavaliere, un po' modificato. Il segretario è pronto a varare il programma del partito, le nuove regole e una nuova squadra, nel segno di un «profondo ricambio». Non ha ancora deciso se muovere il passo già prima del voto in Sicilia, per giocare d'anticipo, ma la road map - concordata con il resto del gruppo dirigente - porterà il Pdl alla convention del 2 dicembre, quando si discuterà anche il cambio del nome e del simbolo.

«Il partito non si scioglie», su questo Alfano è stato chiaro con Casini, che mira a un patto solo con una parte del Pdl, depurata dagli ex An. Un'opzione scartata da Alfano, che ha fissato i confini della sua forza politica, «ancorata all'europeismo e al Ppe» e che non accetta «analisi del sangue». In attesa del risultato in Sicilia, sono a sua volta evidenti le difficoltà del progetto centrista, incapace di sfondare elettoralmente e ora colpito dal «caso Montecarlo» in cui è coinvolto Fini. Il leader di Fli si è rattristato per il modo in cui Casini lo ha invitato a dimettersi da presidente della Camera. È un ulteriore segno dello sgretolamento di un'area che un tempo fu maggioranza nel Paese.

Difficile immaginare una ricomposizione nel rassemblement dei moderati, è certo che il Pdl vuole giocarsi la partita della sopravvivenza. Con o senza Berlusconi, questo è il rebus tuttora irrisolto. Ma se il Cavaliere non ha ancora dato il via al suo progetto, c'è un motivo: all'operazione «Italia che lavora» manca il quid.

Francesco Verderami

20 ottobre 2012 | 14:30© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_20/italia-che-lavora-berlusconi-piani-verderami_4eac5bc6-1a99-11e2-a470-3b372467b052.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il progetto: Monti bis e partito ad Alfano
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2012, 09:25:25 am
Il retroscena / l'accelerazione per tutelare il centrodestra alla vigilia del voto in Sicilia

Il progetto: Monti bis e partito ad Alfano

Messaggio di Silvio Berlusconi al Professore: «Non rinuncio all'idea che guidi i moderati»


ROMA - Per non mettere all'incanto la sua storia, Berlusconi doveva passar la mano tenendo la mano ai suoi eredi.

Non era facile per un uomo che negli ultimi venti anni ha scritto la storia del Paese e del Palazzo. Ma dopo un lungo e tormentato pensamento, mentre intorno a sé vedeva aggirarsi schiere di pretendenti che lo adulavano per accaparrarsi brandelli del suo patrimonio politico, Berlusconi ha scelto. È a Monti che ha deciso di affidare il lascito più importante, è sul Professore che punta il Cavaliere, «perché io non rinuncio all'idea di vederti a capo di uno schieramento dei moderati», gli aveva ripetuto l'altra sera a Palazzo Chigi, tra i contorcimenti di chi cercava un appiglio a cui aggrappare certezze che non aveva: «Insisto. E non ti chiedo di rispondermi subito, ma a questa idea non rinuncio».

In questo gesto c'era un'analogia con il '94, quando Berlusconi - prima di scendere in campo - si recò da Martinazzoli per invitarlo a «unire i moderati» e impedire la vittoria della sinistra. Ma rispetto ad allora il Cavaliere ha offerto la successione a Monti nel campo che nel frattempo aveva conquistato, non in quello dei tecnici. Raccontano che il premier abbia compreso e invece di lasciar cadere il discorso abbia voluto rispondergli. A suo modo, però, spiegando che l'Italia ha bisogno di un programma di «riforme radicali in senso liberale», prospettando un progetto che per realizzarsi necessita di un «vasto appoggio», facendo insomma capire al Cavaliere che una sua nuova discesa in campo avrebbe ostacolato l'aggregazione delle forze necessarie al disegno.

I dubbi avevano accompagnato Berlusconi per tutta la nottata e anche la mattina dopo, fino all'appuntamento con Alfano che non era più rinviabile. In quel colloquio interminabile non c'erano solo in gioco le scelte politiche ma anche «il legame di affetto e di lealtà» che per il segretario del Pdl sovrintende ogni altro aspetto nel rapporto con il Cavaliere. Una decisione era tuttavia necessaria prima del voto in Sicilia, per mettere il partito al riparo dai rischi di implosione in caso di sconfitta. Ed è vero che Alfano era pronto a dire no all'idea di spacchettare il Pdl, che lì sarebbe rimasto, che lo avrebbe annunciato nelle prossime ore. E l'ha detto, convinto di non aver altra strada, confortato anche da un suggerimento che indirettamente gli era giunto dal cardinal Ruini: «È sempre un errore sciogliere un partito».

L'intento di Alfano non era quello di sfidare Berlusconi, semmai di esortarlo a guidare il rinnovamento. Il pericolo che la riunione finisse con un nulla di fatto, era pari a quello che il segretario del partito annunciasse le primarie dello «strappo». Ed è stato allora che Berlusconi ha definitivamente deciso a chi affidare l'altra parte dell'asse ereditario, e ha ragione il centrista Lusetti quando sostiene che «così come nel '94, la decisione del Cavaliere di non candidarsi cambia radicalmente lo scenario politico». Lo cambia nel Pdl, perché è Berlusconi a intestarsi le primarie a cui parteciperanno persone a lui vicine. Perché è la successione democratica all'interno di un partito carismatico, che non passa per un parricidio né per un infanticidio.

Il Pdl, o come si chiamerà in futuro, sarà un pezzo del nuovo centrodestra. E già l'impianto delle primarie dovrà essere nuovo, sicuramente diverso da quello del Pd. Ecco cosa voleva dire Berlusconi parlando di consultazioni «aperte»: niente vincoli, niente regole capestro, perché il vero obiettivo è «riavviare il rapporto con gli elettori, non asfissiare il confronto tra i competitori». Non c'è dubbio che la citazione di Alfano nella nota in cui annuncia la sua decisione di non ricandidarsi a Palazzo Chigi, sia un modo per riconoscere il ruolo al segretario del partito. Ma la corsa del 16 dicembre sarà libera e senza preclusioni né vantaggi iniziali per nessuno. Così come d'ora in poi finirà la corsa a inseguimento del Pdl verso le altre forze politiche che fanno parte del campo moderato.

Il partito resta compatto e tutti tirano un sospiro di sollievo, a partire da Schifani che era andato in tv per evidenziare «l'avvitamento» del Pdl e attendeva al pari degli altri quel segnale positivo che è arrivato. Ora il voto in Sicilia fa meno paura: una sconfitta non cambierà l'agenda del Pdl, un successo gli darà maggiore slancio. Ad Alfano, in attesa del voto delle primarie, toccherà iniziare il «reset». Dopo, se riuscisse a vincere, non potrà restare a gestire con il bilancino gli equilibri di partito, ma dovrà assumere il ruolo di interlocutore dell'establishment, acconciarsi alle trattative per la sfida elettorale, uscendo dal perimetro in cui si è trovato confinato.
Perché Berlusconi vuole vincere, «io voglio vincere» ha detto al segretario del partito. Ed è evidente che la sua mossa ha spiazzato tutti, a partire da Casini. Così com'è evidente che il segnale era rivolto ad altri interlocutori, a partire da Montezemolo. Ma è su Monti che Berlusconi confida per veder risarcita la sua scelta. Il Professore è «la continuità», Monti è il rappresentante di quella parte di Paese che «non ha mai voluto partecipare alla caccia alle streghe», di quel pezzo di poteri forti che non lo ha «demonizzato». E siccome il Cavaliere non vuole veder disperso il patrimonio politico costruito in diciotto anni, a lui si affida dinnanzi «al pericolo serio», che nel '94 erano i Progressisti e oggi ai suoi occhi sono i Democratici.

Il resto è tutto in costruzione, è un cantiere che nemmeno è stato aperto. Sulla legge elettorale, per esempio, si vedrà se Berlusconi continuerà a puntare i piedi per tenersi il Porcellum o aprirà seriamente alla trattativa per un nuovo sistema. Ma è chiaro che, facendo un passo indietro, il Cavaliere ha in realtà fatto un passo avanti nel campo moderato. Come nel gioco degli scacchi, non si è posto su una casella ma la controlla da un'altra posizione. In fondo era una mossa obbligata, così l'avvertiva, specie dopo che Veltroni e soprattutto D'Alema avevano annunciato di non ricandidarsi per un seggio in Parlamento. Una scelta che l'aveva colpito e che è stata tra i motivi della sua decisione.

Le ore convulse e interminabili che hanno sancito il passaggio di consegne sono state vissute con diversi stati d'animo nel Pdl. In molti sono stati presi alla sprovvista, soprattutto quanti speravano che Berlusconi rilanciasse e facesse saltare il partito. Ma il colloquio con Alfano dimostra quale sia il legame tra i due, e testimonia al tempo stesso la crudezza della politica, con le sue ferree regole: «Presidente, è l'ora, dobbiamo scegliere». E il «presidente» ha scelto.

Francesco Verderami

25 ottobre 2012 | 9:37© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_25/verderami-progetto-monti-bis-partito-alfano_30886db0-1e63-11e2-83ec-606b68a0023b.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Nel messaggio una «offerta» al Pd: urne a febbraio
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2012, 10:38:21 am
Il retroscena Il mantenimento del Porcellum tornerebbe utile all'ex presidente del Consiglio e a Bersani per bipolarizzare il voto e indirizzarlo

Nel messaggio una «offerta» al Pd: urne a febbraio

Assist / 1 Berlusconi ha fornito due assist ai rivali. Il primo è sgombrare il campo dall'ipotesi del Monti bis

Assist / 2 Il secondo assist consiste nel contributo a fermare l'operazione di aggregazione del centro


ROMA - Non è stato solo uno sfogo. «Ma quale sfogo», ha detto ieri il centrista Carra a un collega di partito. Carra ne ha viste tante, fin dai tempi della Dc, perché gli potesse sfuggire il senso del messaggio lanciato dal Cavaliere: «Prepariamoci a votare a febbraio». Ecco, il messaggio è stato recepito nel Palazzo, che ha interpretato la mossa di Berlusconi come una chiara offerta al Pd: chiusura anticipata della legislatura, voto a febbraio con il Porcellum e accorpamento delle elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia.
Uno scenario drammatico per il Pdl in fase di ricostruzione e non preventivato dalla galassia centrista in via di formazione. Ma che è allettante per Bersani, a cui viene proposto un patto che il segretario democrat non deve nemmeno sottoscrivere, anzi può respingere con toni formalmente sprezzanti e ostili. «Il patto non c'è e non ci sarà», dice infatti il pd Latorre: «Certo, quanto ha detto Berlusconi è un macigno sulla strada della prosecuzione della legislatura». Tutto come da copione. Anche perché, rientrando in scena a affondando il colpo contro il premier, il Cavaliere azzoppato fornisce due assist allo schieramento avverso: sgombra il campo dall'ipotesi del Monti bis dopo il voto, che fino ad oggi era il vero ostacolo per Bersani sulla via di palazzo Chigi, e garantisce al Pd un «nemico» contro cui impostare la campagna elettorale.
Essendo un interesse reciproco, anche Berlusconi ne avrebbe un tornaconto, siccome il mantenimento del Porcellum tornerebbe utile per bipolarizzare il voto e per indirizzarlo: non è stato casuale l'attacco ai partitini e quell'endorsement per le forze maggiori. Di più. L'idea di anticipare le urne sarebbe interesse comune del Cavaliere e di Bersani, perché non darebbe il tempo di organizzarsi a quell'area di centro ancora in fase embrionale e che sta muovendo i primi passi. D'altronde, l'idea di assistere inermi, fino ad aprile, al gioco di chi la mattina fa il ministro tecnico con il sostegno di Pdl e Pd e di pomeriggio va a raccogliere voti per il proprio movimento, non garba nè all'ex premier nè a chi vorrebbe diventarlo. «Fossi Bersani - chiosa Carra - dentro di me ringrazierei Berlusconi».
Maroni lo fa pubblicamente, e il segretario della Lega ha molte ragioni per farlo. Più il Cavaliere prende le distanze da Monti più si riavvicina al Carroccio. E non c'è dubbio che Berlusconi - subìto il rifiuto di Casini - sia tornato a stringere un legame con l'ex alleato. Maroni non ne ha fatto mistero con i dirigenti del suo partito: «A parte il fatto che l'Udc è in caduta libera nei sondaggi, e che il resto di quella compagnia è composto da un'elite senza voti, con chi dovrebbe stare il Pdl? Quelli porterebbero i salotti, noi porteremmo i nostri asset. E se il Pdl non vuol ridursi a partitino del Sud...».
Sarà stato solo uno sfogo, quello del Cavaliere, e non c'è dubbio che la sua mossa ha il segno della disperazione, ma può ancora produrre effetti sugli assetti politici futuri. E poco importa a Berlusconi se sulla traiettoria di fuoco si ritrova il suo gruppo dirigente, se le primarie (con questo scenario) finirebbero per saltare, se il partito potrebbe spaccarsi con l'ipotesi nemmeno tanto remota di altre liste in campo. L'operazione barricadera è chiara, come il segnale al Pd.
Restano una variabile e un'incognita. La variabile è il passaggio parlamentare per aprire la crisi di governo. Nel Pd ritengono che Berlusconi non la aprirebbe sull'anticorruzione, sarebbe impopolare: è la legge di Stabilità semmai che ha messo nel mirino, è sull'ennesima stretta fiscale che potrebbe forzare la mano anche per cercare di riconquistare i suoi elettori delusi e che nei sondaggi «per l'85% sono contrari a Monti». Il democratico Latorre avvisa che la legge di Stabilità va approvata perché è «l'ultimo passaggio su cui l'Italia si gioca la credibilità internazionale». E proprio su quell'«ultimo passaggio» il Cavaliere potrebbe chiudere la partita, votando il provvedimento «per senso di responsabilità» ma chiedendo in cambio che il governo, un minuto dopo, rassegni il mandato. C'è poi l'incognita: quale sarebbe la reazione del Colle davanti all'ipotesi che si torni a votare con il Porcellum? La preoccupazione corre sul filo del telefono tra Napolitano e Monti.

Francesco Verderami

28 ottobre 2012 | 7:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_ottobre_28/berlusconi-messaggio-pd-voto-a-febbraio-porcellum_d982ca58-20cc-11e2-89f5-89e01e31e2ac.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI - L'intesa (di fatto) sul Porcellum
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2012, 04:13:17 pm
Settegiorni

L'intesa (di fatto) sul Porcellum


Prima si dovrà consumare il rito, e quando sarà certificato ciò che oggi è già evidente, quando verrà formalmente sancito il fallimento della trattativa, solo allora - a un passo dalle urne - si aprirà la vera trattativa per tentare di modificare il Porcellum. Ma su un unico articolo: quello che riguarda il premio di maggioranza. Lo stralcio della riforma della legge elettorale sarà l'epilogo di una inconcludente mediazione che si è protratta per mesi tra incontri riservati e pubblici dibattiti, proclami di imminenti accordi e minacciosi richiami istituzionali.

Per salvare la riforma bisognerà dunque cancellarla e concentrarsi sul nodo attorno al quale fin dall'inizio si è ingarbugliata tutta la faccenda. È il premio di maggioranza, è quello il sancta sanctorum del Porcellum, che il capo dello Stato chiede venga modificato per uniformarlo alle indicazioni della Corte Costituzionale.

È vero che la disputa accademica e politica in questi anni si è incentrata sulle deprecate liste bloccate, che hanno partorito parlamenti di nominati. Ma il cuore del sistema elettorale è l'altro, che garantisce a una coalizione vincente con qualsiasi risultato di ottenere la maggioranza assoluta alla Camera. Va introdotta una soglia minima per accedere al premio, ecco il punto. E lo stralcio della riforma serve per impedire l'agguato delle votazioni a scrutinio segreto che si prepara a Montecitorio, e che affosserebbe definitivamente un provvedimento già delegittimato.

Così i testi, su cui ancora per settimane si cimenteranno la Commissione e l'Aula del Senato, le norme e gli emendamenti che verranno presentati, discussi e poi votati, diventeranno politicamente carta straccia, resoconti di defatiganti lavori parlamentari destinati all'oblio. Ma siccome è chiaro che l'intesa è di non trovar l'intesa, siccome il tempo è usato per far passare il tempo, siccome è impensabile procedere per decreto, anche al Quirinale si sono ormai convinti che ci sia un unico modo per eliminare l'alibi dei veti incrociati, dietro cui si cela il patto per il mantenimento dello status quo.

Non è chiaro se l'operazione dello stralcio sarà l'effetto dirompente di un messaggio alle Camere di Napolitano, o se i partiti si adopereranno anzitempo per evitare un conflitto istituzionale senza precedenti. È certo che la soluzione è stata discussa dai vertici istituzionali, e rappresenta l'extrema ratio per uscire dallo stallo di una riforma che - prima ancora di essere esaminata dal Senato - è stata di fatto disconosciuta da Berlusconi. È vero che il Cavaliere - sconfessando i suoi stessi sherpa - si è scagliato solo contro le preferenze.
Ma ha posto una pietra tombale sulla legge.

E non c'è dubbio che l'ex premier sia ostile verso quel meccanismo di selezione, ma era e resta un altro il suo obiettivo: «Bisogna abolire per intero il premio di maggioranza», ha chiesto agli sbigottiti dirigenti del Pdl che si occupano del provvedimento. Il leader che ha incarnato in Italia il bipolarismo, vorrebbe insomma un ritorno al proporzionale puro, che con le liste bloccate avrebbe però un sapore sovietico. Dall'altra parte è Bersani che, senza esporsi, difende ora il premio di maggioranza del Porcellum. E muro contro muro non se ne esce.

Schifani, consapevole di dover gestire l'iter di una riforma su cui non c'è passione e non c'è intesa, farà quanto è in suo dovere da presidente del Senato, «mi assumerò - ha detto ai suoi interlocutori - la responsabilità di portare il testo in Aula, con o senza relatore». Il problema politico verrà dopo, quando cioè verrà formalizzata l'impossibilità di andare avanti. A quel punto chi si assumerà il compito di proporre lo stralcio? Sarà una richiesta dei partiti tramite i gruppi parlamentari o un'iniziativa di stampo istituzionale?

È ancora presto per capirlo, visto che il rito deve ancora consumarsi. Di sicuro, fallita la maxi-trattativa, è già in corso la mini-trattativa che muove dall'idea del senatore centrista D'Alia: assegnare il premio di maggioranza a una coalizione che ha superato il 40%, e se ciò non dovesse verificarsi, garantire un mini-bonus di seggi al partito che ha ottenuto il maggior numero di voti. Bersani nicchia per ora, ma sa che si prepara la tagliola dello stralcio, e che Napolitano è pronto a dire in pubblico quanto gli ha già detto in privato.

Certo, non mancano argomenti ai difensori del Porcellum per sottolineare quali siano le controindicazioni. Dato il quadro politico frammentato, sarà difficile oltrepassare la soglia del 40% per ottenere il premio di maggioranza. E un modello elettorale che predetermina il risultato elettorale rischia di produrre un aumento dell'astensionismo e del voto di protesta. Traduzione: con questo tipo di modifica sarebbe pressoché scontato un Monti-bis nella prossima legislatura. Con la schiettezza che tutti gli riconoscono, l'altro giorno il segretario dell'Udc Cesa non ha usato perifrasi con un dirigente del Pd per confutare questo ragionamento: «Lo volete capire o no che dopo il voto, con Grillo al 20%, ci saranno i numeri solo per fare un governo di larghe intese?».

Lo stralcio si avvicina, a passi lenti. Dato che senza una riforma, per quanto mini, il capo dello Stato non indirà le elezioni nazionali, i partiti si prenderanno ancora un po' di tempo. Vorranno vedere prima i risultati delle elezioni regionali. Incrociando le dita.

Francesco Verderami

3 novembre 2012 | 8:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/12_novembre_03/l-intesa-di-fatto-sul-porcellum-francesco-verderami_8c041456-2583-11e2-a01c-141eb51207fd.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI I segreti del patto tra Bersani e Renzi
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2013, 11:39:14 am
Il retroscena

I segreti del patto tra Bersani e Renzi

Il Pd ha cambiato pelle, è diventato - per usare le parole del sindaco di Firenze - «un partito all'americana»


L'intesa tra Bersani e Renzi non è (solo) un'operazione di immagine e di potere, e non è (solo) una mossa mediatica in vista della campagna elettorale. Da ieri il Pd ha cambiato pelle, è diventato - per usare le parole del sindaco di Firenze - «un partito all'americana», dove «il timone è nelle mani di Pier Luigi, mentre io darò una mano». È il suggello della sfida alle primarie, un punto di partenza e anche di arrivo, perché chi è uscito sconfitto dalla sfida per la premiership accetta di collaborare con il candidato per Palazzo Chigi.

Ma al tempo stesso il patto pone fine «alle vecchie saghe», alla stagione dei complotti che hanno dilaniato in passato il centrosinistra. «Mettermi contro Bersani sarebbe ridicolo», spiega Renzi. E non è (solo) per una questione di «credibilità e di lealtà» che si pone al fianco del segretario. C'è una evidente convergenza di interessi tra i due, tra chi cioè si gioca le proprie carte nei prossimi mesi e chi mira ad avere le stesse chance nei prossimi anni.

Perciò Bersani ha invitato l'altro ieri a colazione il «rottamatore», che si è detto pronto a pagare il conto, «a patto che tu mi spieghi la metafora del tacchino sopra il tetto», pronunciata dal segretario del Pd durante il confronto in tv per le primarie. Davvero Renzi stenta a comprendere «il bersanese», tanto che più volte - durante la conversazione - ha dovuto interrompere l'interlocutore: «Aspetta Pier Luigi, scusami. Questa non l'ho capita».

Epperò su un punto i due si sono subito intesi, quando il leader dei democratici ha chiesto al sindaco di Firenze di mobilitarsi: «Lo devi fare nell'interesse della ditta». La parola «ditta» ha sempre fatto storcere il naso a Renzi, e non solo per una questione semantica. Tuttavia il messaggio era comprensibile. A Bersani serve «un argine al montismo» - così ha detto - in campagna elettorale, e l'ex sfidante - che alle primarie ha incarnato la novità - è attrezzato alla guerra di frontiera: «Matteo, fatti sentire sui temi dell'innovazione».

Renzi ha accettato, andrà in tv e nelle piazze, pronto a riproporre alcuni punti del programma con cui lanciò la sfida per palazzo Chigi al segretario: «Anche perché certe cose che Monti ha inserito nel suo documento, le ha riprese dal mio. E non erano di Ichino...». Il passaggio del giuslavorista democratico nelle file del premier uscente è stato al centro di commenti poco lusinghieri durante il pranzo, ed è proprio a Ichino che Renzi avrebbe più tardi indirizzato pubblicamente una frecciata, sostenendo che «c'è troppa gente abituata a scappare con il pallone quando perde. Io no».

Ma quando il professore se n'è andato con il Professore, Bersani ha intuito il progetto politico e mediatico che si celava dietro l'operazione, il tentativo di relegarlo nel recinto di un vetero-laburismo condannato all'attrazione fatale con la sinistra estrema, l'idea di dare in Italia e all'estero l'immagine di una coalizione e di un candidato premier «unfit» per palazzo Chigi. Il «rottamatore» serve proprio a rompere quello schema, e lui sa che la sua funzione sarà quella di «strappare voti nel campo avverso», cercando di drenarli «a Monti e a Berlusconi»: «Perché così si vince».

Con Renzi in campo il segretario del Pd lancia un messaggio al premier che mira a «silenziare le estreme», prefigurando quasi una spaccatura del fronte democratico dopo le elezioni. Con il patto di ieri, invece, un partito «all'americana» è un partito che non si rompe, è un modo - secondo Bersani - per far capire che «non c'è e non ci sarà nessuna ipotesi di scissione nel nostro schieramento, tantomeno nel nostro partito». Una tesi ribadita dal sindaco di Firenze, che giura di non volere incarichi nè di fare il capocorrente, e che tuttavia ha garantito sulla lealtà dei suoi parlamentari: «Saranno più bersaniani di Bersani».

Certo, se da una parte l'intesa di ieri consente di consolidare quel patrimonio accumulato con le primarie, dall'altra c'è il rischio che i messaggi renziani finiscano per alimentare tensioni con l'ala «sinistra» del Pd. «Ma io non silenzierò nessuno», avvisa Bersani. Che rivolgendosi a Monti, aggiunge: «A un leader non spetta tacitare, tocca svolgere un ruolo di sintesi». C'è dunque un motivo se ieri il leader del Pd era soddisfatto, se l'accordo sui numeri con Renzi è stato raggiunto in poco tempo. Il segretario inserirà una ventina di candidati nel listino, che si aggiungeranno agli altri cinquanta usciti vincenti dalle recenti parlamentarie.

E discutendo di liste a tavola i due erano convinti che «sul piano del rinnovamento daremo lezioni a tutti»: «Quando saranno note le liste collegate a Monti, si vedrà quali sono le più nuove tra le loro e le nostre». Il patto di ieri chiude il cerchio nei Democratici e dà il via alla campagna elettorale, durante la quale Bersani vestirà i panni del pompiere: non vuole giochi pirotecnici nè intende andare allo scontro diretto con il Professore, «a meno che non sia lui a trascinarmi». Lascerà a suoi il compito di lavorarlo ai fianchi, com'è accaduto anche ieri, con il governatore della Toscana Rossi che ha spiegato come il premier uscente «rischi di trasformarsi in un politico mediocre».

Il segretario-candidato agirà invece «solo di rimessa». Tanto ha capito chi sia stato a suggerire a Monti di aprire un fronte offensivo con il Pd: «È farina del sacco di Casini». E sorride ricordando l'ammonimento del leader Udc, secondo cui «Pierluigi» non andrà a palazzo Chigi se non riuscirà ad avere la maggioranza anche al Senato: «Questo è la solita, vecchia teoria politica di Pier Ferdinando. Comanda chi ha meno voti...».

Non c'è dubbio che alle prossime elezioni sia in gioco il bipolarismo, che Bersani vuole «salvaguardare». Perciò incalzerà il Professore quotidianamente, invitandolo a spiegare con chi si schiererà «in Italia e in Europa», e chiedendo «rispetto» per il Pd, «perché non può scoprire oggi i nostri difetti dopo essere stato appoggiato per un anno a palazzo Chigi». Comunque non intende pregiudicare «gli eventuali rapporti futuri», ha spiegato ai suoi, come a segnare il destino di Monti e della sua avventura. Certo, avrebbe preferito che il Professore rimanesse super partes, e con Renzi si è soffermato sulla scelta del premier di entrare in campo: avesse federato l'intero centrodestra sarebbe stato assai insidioso, mettendosi a capeggiare l'area centrista sarà funzionale al Pd. In ogni caso entrambi hanno convenuto che «sta dilapidando un patrimonio».

Ma è soprattutto del Pd che i due ex sfidanti hanno parlato. Ed è un segno dei tempi se un emiliano e un toscano hanno cambiato il volto di un partito a tra(di)zione post-comunista, dove era sempre toccato ai romani la cabina di comando. Resta il problema di Renzi, che spesso fatica a capire il «bersanese». La storia del «tacchino sul tetto», per esempio: il segretario del Pd ha ammesso di aver sbagliato a citare la metafora, «perché non mi volevo riferire a un tacchino ma a un piccione». «Si vabbè, Pier Luigi. Ma che vuol dire?».

Francesco Verderami

4 gennaio 2013 | 8:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_04/i-segreti-del-patto-tra-bersani-e-renzi-francesco-verderami_85557f60-5638-11e2-9534-ad350c7cbb97.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI I centristi vero ago della bilancia.
Inserito da: Admin - Gennaio 16, 2013, 04:14:33 pm
I nuovi sondaggi: ma le analisi degli istituti di ricerca divergono

I centristi vero ago della bilancia. L'area stimata dall'11 al 15 per cento

La soglia magica che insegue il Centro. Berlusconi avrebbe guadagnato il 2,6% dalla performance con Santoro

Tra i due litiganti è il terzo che decide (e si gioca) tutto alle elezioni, è sul risultato di Monti che sono infatti concentrate le attenzioni di Berlusconi e Bersani, convinti - numeri alla mano - che il Professore sarà determinante nella prossima legislatura soltanto se supererà la soglia del 15 per cento.


Il derby d'Italia sarà pur tornato a farsi appassionante, ora che il Cavaliere - dopo l'exploit televisivo da Santoro - ha guadagnato in un solo colpo il 2,6% nei sondaggi.
E mentre il fondatore del Pdl fa mostra di credere in un'improbabile rimonta, il leader del Pd si mostra determinato a consolidare il vantaggio sul rivale.

Ma la sfida tra le due coalizioni non esaurisce la contesa per il governo del Paese, ora che l'(ex) arbitro è entrato in campo. Già non è facile districarsi tra i numeri dei rilevamenti demoscopici, che - com'era accaduto nel 2006 - divergono a seconda degli istituti di ricerca. Perché se è vero che ieri il sondaggio di Emg (commissionato dal tg de La7) evidenziava uno scarto di nove punti e mezzo tra centrosinistra e centrodestra, è altrettanto vero che l'ultimo report di Euromedia research (in possesso di Berlusconi) riduce la forbice a soli quattro punti e mezzo.

A parte la macroscopica differenza tra i due test, comunque questi numeri non basterebbero a prefigurare il vincitore delle prossime elezioni, dato che sul risultato finale pesa l'incognita del Senato, dove i dati nazionali andranno disaggregati su base regionale per l'assegnazione dei relativi premi di maggioranza. E non c'è dubbio che la governabilità dipenderà dalla composizione di palazzo Madama, è chiaro che l'obiettivo minimo del Cavaliere è conquistare la Sicilia e il Lombardo-Veneto per impedire al segretario del Pd di avere la maggioranza nei due rami del Parlamento.

Ma il vero snodo elettorale e politico passa dalla performance della coalizione guidata da Monti, che non sembra in grado di vincere il derby e tuttavia potrebbe ritagliarsi un pezzo di scudetto la sera del 24 febbraio, qualora ottenesse il 15% dei consensi. Lo sanno Berlusconi e Bersani, lo dicono gli stessi alleati del Professore: sopra «quota 15», Monti avrebbe la possibilità di condizionare se non addirittura determinare gli equilibri di governo; sotto «quota 15» si ritaglierebbe invece un ruolo minore, di interdizione, rischiando addirittura la marginalità.

Ecco spiegato il motivo per cui i leader di centrodestra e centrosinistra sono così interessati ai rilevamenti sull'area di centro. Ma i dati dei rilevamenti non sono omogenei.
C'è una netta discrepanza, per esempio, tra l'ultimo sondaggio di Euromedia e quello di Ipsos: mentre l'agenzia della Ghisleri alla Camera quota la coalizione di Monti all'11% (6% Scelta civica, 4% Udc, 1% Fli), la società di Pagnoncelli accredita quasi sei punti in più al «partito» del Professore. Al Senato invece Euromedia attribuisce alla lista unica montiana un dato più alto (12-15%) rispetto all'ultimo rilevamento di Ipsos (11-12%).
Sono numeri che fanno fluttuare Monti tra la zona scudetto e la zona retrocessione, e che inducono Berlusconi a sperare di essere determinante al Senato per la maggioranza di governo.

Basta un niente d'altronde per ribaltare il risultato. Ecco perché il Cavaliere è arrivato perfino a commissionare un focus sulle candidature del Professore, dal quale risulta che l'elettorato montiano non ha gradito l'inserimento in lista di personaggi come l'olimpionica Vezzali e la cantante Minetti. Ieri però - analizzando gli ultimi dati - non ha potuto fare a meno di riscontrare un «piccolo salto in avanti» del premier. Perciò, al vertice di partito, ha sottolineato la necessità di fare molta attenzione ai candidati: «Siamo al 23,4%.
E se non faremo errori nella composizione delle liste arriveremo di sicuro al 25%. Lo scarto dal Pd è di un milione e ottocentomila voti. Questo dato non ci deve spaventare, si può recuperare, perché si tratta di elettori che erano già nostri». È stato un modo per lasciare intuire ai dirigenti locali ciò che aveva anticipato ai dirigenti nazionali: «Nelle regioni in bilico deciderò tutto io. Non voglio candidati che portano il volto della sconfitta».

Berlusconi vuole depotenziare il terzo incomodo, assorbendo quella fascia di «ex votanti del Pdl» che oggi sono annoverati tra i «delusi». E non è detto che la nuova stagione dei processi sia nociva alla rimonta, visto che il leader del Pdl punta a bipolarizzare il voto gridando all'accanimento giudiziario. E per studiare meglio l'area degli astensionisti ha preso in esame una ricerca sulla proiezione del dato di affluenza, che al momento si aggira tra il 70-71%, ben al di sotto quindi della media elettorale, calcolata tra il 79-83%. È lì - secondo il capo del centrodestra - che vanno recuperati i consensi, per la maggior parte considerati ex berlusconiani. Ma non solo lì.

I report sul movimento di Grillo segnalano non solo un arretramento di M5S ma anche una certa «volatilità» in quanti ancora oggi dicono di voler votare per quella forza.
Ecco il motivo del lavorio ai fianchi, speculare a quello del segretario del Pd, che sta cercando di prosciugare quanto più possibile il fronte sinistro di Ingroia, in nome del «voto utile».

Così i due litiganti mirano a fare il pieno, con una differenza di non poco conto: Berlusconi punta a rendere irrilevante Monti, Bersani lavora per ridimensionarlo. Altrimenti al Senato rischia di dover scendere a patti con il Cavaliere.

Francesco Verderami

15 gennaio 2013 | 7:58© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_gennaio_15/la-soglia-magica-che-insegue-il-centro-francesco-verderami_5226b8d0-5ede-11e2-8d79-cb6cdb3edff8.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il futuro esecutivo sarà ispirato al modello sinistra-centro
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2013, 11:45:06 pm
Il retroscena: Il futuro esecutivo sarà ispirato al modello sinistra-centro

E per Monti spunta l'ipotesi Senato

L'accordo sembra inevitabile: già occupate le caselle di Economia ed Esteri. Casini orientato a trattare sulla Difesa


Il pressing delle cancellerie internazionali, le preoccupazioni per l'andamento dello spread e anche i timori di un sorpasso del Cavaliere sono solo alibi, espedienti da campagna elettorale dietro cui Bersani e Monti devono celare l'inevitabile intesa dopo il voto. Un'intesa necessitata. Ed è vero quanto sostiene il Professore, e cioè che «non c'è oggi nessun accordo tra noi e il Pd», così come è vero che il leader democratico a Berlino non ha detto nessuna novità, ma ha solo ribadito le aperture di credito che avanza ormai da un mese ai centristi. Il punto è che i due, all'indomani delle elezioni, saranno costretti a un patto dettato da ragioni politiche e numeriche, se è vero che - fuori da questo schema - non si intravvedono in prospettiva altre maggioranze in Parlamento.

I giochi però non sono fatti, almeno non del tutto. Perché le urne incideranno sugli equilibri e gli assetti di governo, serviranno a stabilire i rapporti di forza tra le coalizioni. Un conto è se il segretario del Pd sarà obbligato all'alleanza con Monti per non essere riuscito a ottenere l'autosufficienza al Senato, altra cosa è se - pur avendo i numeri - proporrà al Professore un patto di programma. Un punto comunque è chiaro fin da ora: si tratterà di un governo di sinistra-centro, dove il primato spetterà ai Democratici. È un fattore determinante, che segnerà la rotta nelle trattative per la formazione del futuro esecutivo.

Nei due schieramenti hanno ben presente quale sarà lo schema, non a caso già se ne discute. A Monti, Bersani offrirà «la prima scelta», avvertendo che alcune opzioni saranno precluse. Il ministero dell'Economia, per esempio. C'è un motivo se il segretario del Pd nelle scorse settimane ha avvisato che «o c'è un rapporto fiduciario con il titolare di quel dicastero o è meglio spacchettare»: se approdasse a palazzo Chigi, Bersani non potrebbe far passare l'idea in Italia e all'estero di esser stato posto sotto tutela, quasi commissariato. Di sicuro non accetterebbe una presenza così ingombrante, con il rischio di riproporre il dualismo che caratterizzò la stagione di Berlusconi e Tremonti.

Il veto preventivo di Vendola, «Monti potrà essere il ministro dell'Economia per Berlusconi», tornerà utile al Pd all'atto delle trattative, quando anche un'altra casella verrà data per «occupata»: quella degli Esteri, con D'Alema. Sugli asset più importanti dell'esecutivo i Democratici non sono intenzionati a cedere. Così, sebbene ieri il Professore abbia detto di non escludere la sua presenza «in un governo riformista», è poco probabile che l'ipotesi si concretizzerà. Almeno, questa è la previsione di molti autorevoli esponenti del Pd e dello stesso Casini, che nei suoi conversari riservati ha ammesso di vedere «Monti proiettato verso la presidenza del Senato». E siccome al capo della sua coalizione spetta la «prima scelta», il leader dell'Udc già medita se sia opportuno puntare a un incarico di governo «come la Difesa».

Un simile scenario inevitabilmente si proietterebbe anche sui rapporti della maggioranza con l'opposizione, cioè con il Pdl, che chiederebbe la presidenza di un ramo del Parlamento, ben sapendo che dal '94 ad oggi la coalizione vincente ha sempre tenuto per sé quelle cariche. Di più, qualora Monti il 15 marzo dovesse occupare lo scranno più alto di palazzo Madama, a un mese dalla corsa per il Quirinale si proporrebbe come potenziale candidato alla successione di Napolitano. Insomma, «l'intesa necessitata» non sarà stata ancora sottoscritta, ma c'è un motivo se già i protagonisti si preparano all'evento e studiano le varie opzioni.

Resta un dettaglio, il risultato delle urne, che assegnerà la forza contrattuale nelle trattative. E su questo punto regna l'incertezza. Perché nel Pd non sanno ancora se conquisteranno «157 o 138 seggi al Senato», che è come passare dal giorno alla notte. E lo stesso discorso viene fatto per i numeri di Monti che «ballano tra il 9 e il 14%». Casini - come a volersi levare un sassolino dalle scarpe - ieri è stato tagliente con il Professore: «L'Udc darà il suo contributo all'alleanza, ma tra il 10 e il 14% c'è una fondamentale differenza...».

Per i Democratici questo segnale rafforza la tesi sulla gracilità del rassemblement montiano, sostenuta tempo fa da Bersani: «Più che una coalizione sembra un taxi». E i dubbi nel Pd si estendono allo stesso Monti, ai suoi reali propositi personali: vorrà restare in Italia o mira a incarichi europei? In quel caso che ne sarebbe dell'area centrista? In più, le iniziative mediatiche del Professore stanno irritando Bersani, perché quelle battute abrasive verso il Pd a cui seguono repentini ammiccamenti, «finiscono per fare il gioco di Berlusconi». Anche ieri Monti ha applicato lo stesso schema, ma provando a creare un cuneo tra i Democratici e Vendola ha innescato la reazione di D'Alema: «I partiti piccoli devono farsi notare».

Il fatto è che il Professore sta cercando di rilanciarsi nei sondaggi, siccome al Senato il futuro «governo di programma» - a dir poco eterogeneo - avrebbe bisogno almeno di trenta seggi di maggioranza per poter applicare lo schema delle «geometrie variabili», e garantirsi così eventuali voti distinti delle due estreme. L'impresa non è semplice. Come non bastasse, il Monti premier è atteso a una prova molto delicata: il vertice europeo sul bilancio dell'Unione. Non è solo Berlusconi che lo attende al varco, per denunciare «la resa alla Merkel del governo».
Lo stesso Bersani è pronto ad affondare il colpo contro il futuro alleato. Anche a Bruxelles si fa campagna elettorale.

Francesco Verderami

7 febbraio 2013 | 8:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/monti-centrosinistra-ipotesi-presidente-senato_2dda6ed6-70ef-11e2-9be5-7db8936d7164.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Elezioni anticipate o larghe intese
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2013, 04:49:18 pm
Il retroscena

Elezioni anticipate o larghe intese

Le due strade dopo lo «tsunami»

Grillo vuole votare di nuovo «nel giro di sei mesi»

E Pd e Pdl si scambiano i primi segnali


ROMA — Sanno che, quando la polvere dello scontro elettorale si sarà posata, dovranno fare i conti con l’unica formula che potrebbe garantire oggi la governabilità al Paese. Sanno che, quando gli slogan pronunciati ai comizi andranno sostituiti dai ragionamenti per le consultazioni al Quirinale, dovranno prendere in esame l’unico scenario parlamentare possibile. Insomma, Pd e Pdl sanno che per calcolo numerico e politico si troveranno costretti a discutere di Grande coalizione. È vero che alla vigilia del voto i Democratici consideravano un «suicidio» una simile prospettiva, ma valutavano come un «suicidio» anche un ritorno immediato alle urne. Ed è altrettanto vero che — al pari di Bersani — anche Berlusconi diceva «mai più con i nostri avversari».

Ma il responso delle urne pone i due partiti dinnanzi a una scelta: suicidarsi o assumersi quelle responsabilità che hanno delegato per un anno e mezzo ai tecnici. L’inseguimento dei Cinquestelle per formare una maggioranza in Parlamento è tempo perso, o meglio è un modo di Pd e Pdl per prender tempo, in attesa di far metabolizzare la larga coalizione. Anche perché il vero obiettivo di Grillo — che è stato capace di un exploit non riuscito nemmeno a Berlusconi nel ’94 — è proprio quello di tornare al voto «nel giro di sei mesi », per capitalizzare il successo in una nuova tornata elettorale e sbaragliare ciò che resta delle forze nate nella Seconda Repubblica.

Certo, mettere insieme due progetti alternativi è a dir poco complicato, perciò il passaggio si preannuncia drammatico. E non sarà a costo zero. L’unica variabile è quella profetizzata alcune settimane fa dal ministro Fabrizio Barca, che in un’intervista al Corriere disse come «senza una maggioranza stabile potrebbe accadere, una volta eletto il capo dello Stato, di tornare alle urne», magari con un cambio della legge elettorale. Una opzione da mettere in preventivo, dato che il governo Monti non si è formalmente dimesso, e dunque potrebbe andare avanti per il disbrigo degli affari correnti e di una nuova sfida elettorale. Ma tanto il Pd quanto il Pdl sono consci che in quel caso il «vaffa voto» li sommergerebbe.

Ecco perché, per calcolo politico e numerico, devono prendere in esame le larghe intese, un’alleanza che vedrebbe il centro montiano ininfluente. E chissà se il Professore, dinnanzi a una sconfitta senza appello, avrà pensato al ruolo che avrebbe potuto avere adesso se non fosse «salito in politica». La débâcle centrista è uno dei risvolti che fanno di Berlusconi un «perdente di successo». L’emorragia di voti subita nelle urne è stata compensata dalla maggioranza relativa conquistata al Senato, che consente al Cavaliere di sedere al tavolo delle trattative per la formazione del governo e per la scelta del futuro presidente della Repubblica. Bersani farebbe volentieri a meno di una simile intesa, ma se il Pd optasse per le elezioni anticipate, l’attuale leader dei Democrat dovrebbe passar subito la mano, lasciando a Renzi un partito «rottamato» dal risultato. E con Bersani verrebbe fatta fuori l’intera classe dirigente attuale, che certo non ha interesse a capitolare. Ecco allora che, dopo le prime dichiarazioni a caldo — tutte incentrate sulla necessità di «tornare a votare » — lo stato maggiore del Pd ha assunto una linea meno intransigente, Enrico Letta ha rettificato il tiro, la Finocchiaro ha spiegato che «serve un governo pienamente politico». Una posizione certamente condivisa da D’Alema. Non a caso, in modo speculare, dal fronte berlusconiano sono giunti i primi segnali di apertura: «Se nessuna delle coalizioni avrà la maggioranza — ha detto il pdl Palma — andrà trovata una soluzione per garantire la governabilità». Persino la Lega con Tosi si predispone all’evenienza, pur prospettando una «opposizione costruttiva » a un eventuale gabinetto di larghe intese. Condannati a governare, per espiare le colpe commesse ancora nel recente passato, Pd e Pdl sanno che dovrebbero fare le riforme — anche quelle istituzionali — prima di tornare al voto, per evitare il «suicidio». È una missione (quasi) impossibile, non solo per l’incompatibilità delle ricette economiche ma anche per le difficoltà di comporre il governo: a chi, per esempio, spetterebbe indicare il premier? Potrebbe rivendicarlo il partito che vincesse alla Camera, ma sarebbe necessaria una figura «terza». Uno schema che andrà comunque applicato per la corsa al Colle, dove i candidati di «parte» come Prodi perdono terreno. Perché il Cavaliere — «perdente di successo» — sarà seduto al tavolo che conta. Ma lì ci sarà anche il convitato di pietra: Grillo, l’uomo dello tsunami.

Francesco Verderami

26 febbraio 2013 | 6:10© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/26-febbraio-Elezioni-anticipate-larghe-intese-verderami_823a4a76-7fbf-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Vent'anni dopo spunta la trappola che Bossi tese a Andreotti
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2013, 05:34:44 pm
Si ripropone lo scenario che segnò l'inizio della fine della Prima Repubblica

Vent'anni dopo spunta la trappola che Bossi tese ad Andreotti

Il Pd teme che Grillo offra disponibilità solo per picconare il sistema


ROMA - Davvero Bersani tende la mano a Grillo? Davvero il Pd cerca un'intesa con i Cinque Stelle? Perché se così fosse, il rischio per i Democratici sarebbe quello di cadere nella stessa trappola che Bossi tese ad Andreotti nel '92, quando la Lega offrì al «divo Giulio» i propri voti per il Quirinale, riuscendo nell'intento di rompere il «patto del Caf» che - grazie all'intesa con Craxi - avrebbe dovuto portare Forlani al Colle. Quello fu l'inizio della fine per la Prima Repubblica.

A ventuno anni di distanza il copione si ripeterebbe sulle macerie di un altro sistema prossimo all'implosione. Se non fosse che l'apertura al dialogo di Bersani ai grillini appare come un espediente tattico, più che strategico. È una manovra dettata anzitutto dall'esigenza di tenere unito il partito e la coalizione che ha guidato alle urne. È una mossa segnata dalla necessità di consumare una serie di passaggi prima di esplorare l'unica soluzione che garantirebbe la governabilità al Paese: il governo delle larghe intese con il Pdl. In caso contrario, le sorti di una legislatura che nemmeno è iniziata sarebbero già segnate.
La trappola di Grillo - che non fa mistero di puntare alle elezioni «nel giro di sei mesi» - è già in bella mostra. Ha le sembianze del «modello siciliano» che il leader di M5S ieri ha definito «meraviglioso», è un patto in base al quale il governatore di centrosinistra Crocetta - che ha dato la presidenza dell'Assemblea regionale ai grillini - può contare sull'appoggio dei Cinque Stelle su alcuni provvedimenti, ma a carissimo prezzo. Sarebbe possibile esportare questo sistema in Continente e applicarlo a livello nazionale? Gran parte del Pd non solo ritiene sia impossibile, ma teme soprattutto di esporsi al colpo di grazia del «picconatore» della Seconda Repubblica. Una tesi sostenuta anche nel Pdl: «Bersani non ci farà questo regalo», sorride infatti l'ex ministro Matteoli.

D'altronde, con le cancellerie dell'Unione che invocano «la stabilità», con il governatore della Federal reserve americana che definisce il voto italiano un «elemento di instabilità in Europa», nel centrodestra sono convinti che Napolitano non darebbe mai il viatico a un governo di minoranza del Pd esposto all'appoggio esterno dei grillini. Ne sono consapevoli anche i dirigenti democratici. Il punto è che Bersani si trova oggi a gestire una fase drammatica: per un verso deve fare i conti con un partito frastornato dall'esito del voto e lacerato dinnanzi alla prospettiva di un'intesa con il centrodestra; dall'altro - siccome vuol provare a formare un governo - deve iniziare a costruire una proposta valida da presentare al capo dello Stato.

È tra l'insediamento del nuovo Parlamento e l'inizio delle consultazioni che il leader del Pd potrebbe tentare una manovra diversiva, per cercare di costruire un ponte con i grillini e stabilire con loro un rapporto. Perché se è vero che sulla formazione del futuro governo spetterà a Napolitano il ruolo di regista, prima di allora ci sarà un passaggio che le forze politiche affronteranno in autonomia: l'elezione dei presidenti delle Camere. È lì, come ha fatto intendere Bersani ieri, che potrebbe aprirsi la trattativa con i Cinque Stelle, in attesa di scaricare sul Pdl la responsabilità di appoggiare o meno un governo a guida Pd in nome della «governabilità». Ma l'idea di muoversi «step by step» è un gioco scoperto, che il centrodestra si appresta a rintuzzare.

Bersani però deve allontanare da sé il sospetto dell'inciucio, perciò ha avvisato il Pdl che «non ci disporremo al balletto di diplomazie politiche». «Non è un problema di poltrone, ma di programma», ha risposto Alfano come ad aver inteso il messaggio. Anche perché - sull'orlo del precipizio - mai come questa volta non potrebbe trattarsi di inciucio o di accordi di potere: «Se non si facessero le riforme istituzionali e non si desse ossigeno all'economia, verremmo spazzati via dal Paese», spiegano sottovoce i dirigenti dei due partiti, mentre si sbattono reciprocamente la porta in faccia com'è scontato che sia in questa fase.

Il governo di larghe intese è l'unica opzione per evitare le urne, è un passaggio che non sarebbe indolore per entrambe le forze politiche, «è una riflessione che prenderà del tempo», dice infatti Berlusconi, la cui prudenza testimonia quanto il progetto sia maledettamente complicato da realizzare e non conceda margini all'improvvisazione. Non è una questione di contatti tra Pd e Pdl, la Grande Coalizione non sarebbe comunque tema da pissi pissi di Palazzo. Al momento opportuno, non sarebbero nemmeno Bersani e Berlusconi a parlarsi. Toccherebbe a Napolitano essere l'artefice della mediazione.

Francesco Verderami

27 febbraio 2013 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni/notizie/27-febbraio-vent-anni-dopo-%20trappola-bossi-ndreotti-verderami_e03d99b2-809f-11e2-b0f8-b0cda815bb62.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI E Berlusconi vuole svuotare la lista Monti
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2013, 03:29:21 pm
Settegiorni

E Berlusconi vuole svuotare la lista Monti

Il centrodestra teme una trappola sull'imminente elezione del nuovo capo dello Stato


Una settimana può sembrare un'eternità, e chissà quante eternità dovranno ancora passare prima di trovare la soluzione al rebus del governo. Al momento tutti si rincorrono, ognuno con obiettivi diversi.
C'è Berlusconi che insegue Bersani per un gabinetto di «larghe intese», c'è Bersani che insegue Grillo per un esecutivo di «scopo», e c'è Grillo che invece insegue le elezioni e basta. Toccherebbe al capo dello Stato porre fine al gioco per dare stabilità al sistema, ma la composizione del Senato rende la sfida molto complicata. Perché il segretario del Pd non ha i numeri per formare una maggioranza, e l'opera di «stalking» verso i grillini non può ridursi a una campagna acquisti tra i parlamentari a Cinquestelle.

Il paradosso, uno dei tanti in questo tormentato avvio di legislatura, è che i Democratici - insieme a ciò che resta dei centristi - non avrebbero la forza di andare a palazzo Chigi, ma potrebbero eleggere il nuovo presidente della Repubblica, quando verrà il momento. È un dettaglio che non è sfuggito al Pdl nell'analisi della situazione, perché potrebbe avere un peso rilevante nella sfida di governo e potrebbe giocare a loro sfavore.
C'è un motivo quindi se Berlusconi, ingobbito dai guai giudiziari, ha ventilato l'ipotesi di tornare subito alle urne dopo la modifica del sistema di voto. E la manifestazione indetta per il 23 marzo contro la «magistratura politicizzata» ha un forte sapore elettorale. Il Cavaliere è convinto che - qualora si tornasse a consultare i cittadini - avrebbe delle chance di vittoria, «perché Grillo si mangerebbe il Pd ma noi ci mangeremmo Monti». E grazie agli altri partiti della coalizione di centrodestra potrebbe forse restare davanti a M5S.

Il fatto è che alle elezioni non si potrebbe tornare subito, siccome Napolitano - giunto a fine mandato - non può sciogliere le Camere, potere che avrebbe invece il suo successore. Ed è qui che il Pdl ha fiutato una possibile «trappola»: cosa accadrebbe se le trattative per formare il governo si trascinassero a ridosso della scadenza di mandato dell'attuale presidente della Repubblica? A quel punto i Democratici - escludendo Berlusconi dalle scelte per il nuovo inquilino del Quirinale - potrebbero uscire dall'angolo in cui si trovano al momento.

«Il rischio c'è», riconosce l'ex ministro Fitto: «Sarebbe una furbizia che avrebbe il sapore di un grave sgarbo politico nei nostri confronti e di un gravissimo sgarbo istituzionale nei riguardi del capo dello Stato. Si tratterebbe di un atto che noi saremmo pronti a denunciare». Di paradosso in paradosso, oggi Napolitano è vissuto nel centrodestra come una sorta di nume protettore delle regole del gioco. Perché la linea del Colle in vista delle consultazioni è chiara, tanto che ieri Europa - quotidiano del Pd - ne ha fatto il titolo di prima pagina: «Senza maggioranza non ci sarà incarico».

Ed è evidente la divergenza con Bersani, che ipotizza un governo di minoranza e si prefigge di cercare in Parlamento i voti per andare avanti. Quale sia il livello di tensione tra il Colle e i Democratici lo si intuisce dai ragionamenti di molti dirigenti del Pd, che ormai senza censurarsi teorizzano come «il partito debba assumere un atteggiamento adulto nei confronti di Napolitano». Già prima del voto il segretario aveva denunciato a denti stretti che «i patti» stipulati alla nascita del governo Monti non erano «stati rispettati» dal Professore e dal Cavaliere.

E il risultato della scorsa settimana, la «sconfitta», ha acuito l'insofferenza di quanti nel Pd avevano per tempo sottolineato come il varo del gabinetto tecnico non avesse «consentito al partito di cogliere l'attimo» della crisi berlusconiana per capitalizzarlo nelle urne. Quell'attimo in effetti c'è stato, anche lo scorso anno sarebbe stato forse possibile garantirsi il successo senza grandi patemi. Perché il comico non era ancora pronto a diventare leader, come ha rivelato qualche giorno fa l'ex grillino Favia, che dopo il divorzio da M5S si è candidato con la lista di Ingroia.

L'esponente di Rivoluzione Civile - al termine di una trasmissione televisiva - ha raccontato che «se si fosse votato nel 2012, Grillo non si sarebbe presentato alle elezioni. Ricordo che a quei tempi Casaleggio diceva: "Se si vota adesso non ci presentiamo. Abbiamo bisogno di tempo, dobbiamo arrivare almeno all'anno prossimo"». Così è stato, Grillo ha fatto «boom» e promette di fare un botto ancora più forte se si dovesse tornare alle urne a breve termine.

Perciò il capo di M5S non si lascia acchiappare da Bersani, mira alle elezioni anticipate e medita la «marcia su Roma», con la conquista del Campidoglio a maggio. Un obiettivo che sarebbe alla portata, se gli incubi del Pd si trasformassero in realtà: i Democratici capitolini temono che il sindaco Alemanno sia elettoralmente troppo debole, che al ballottaggio possa arrivare il candidato grillino, trasformando Roma in un nuovo e più clamoroso «caso Parma».

Francesco Verderami

2 marzo 2013 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_02/berlusconi-svuotare-lista-monti_6b220dae-82ff-11e2-839d-17a05d1096bb.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Mossa Pd: una maggioranza per il nuovo Colle
Inserito da: Admin - Marzo 03, 2013, 05:23:29 pm
Il retroscena

Mossa Pd: una maggioranza per il nuovo Colle

Tensione tra i Democratici e il Quirinale

L'ipotesi: costruire un fronte attorno al nome del futuro presidente


ROMA - Se ieri Napolitano ha imposto il «reset» al dibattito politico postelettorale, è perché confida che una ripartenza possa offrirgli dei margini di mediazione per la formazione di una maggioranza di governo. D'altronde la politica non può restare senza un «piano B». Ma a nemmeno sette giorni dal voto ogni soluzione sembra esser stata bruciata, e gli spazi di manovra per il capo dello Stato sono strettissimi. Di più, la partita che si prepara a gestire già prefigura un braccio di ferro con il capo dei Democratici. Il paradosso provocato dal risultato delle urne è che le parti si sono rovesciate: ora è il Pdl a dar manforte all'opera del Quirinale.


Bersani è consapevole delle proprie difficoltà, l'inseguimento di Grillo gli serve per sfuggire all'abbraccio di Berlusconi, per evitare cioè la prospettiva di larghe intese, anche camuffate dalle sembianze di un governo a guida tecnica. La direzione del Pd sarà fondamentale prima di andare all'appuntamento con Napolitano: il voto del partito gli servirà per arrivare alle consultazioni con la forza necessaria a resistere al pressing del Colle. Bersani ritiene di aver con sé la maggioranza del gruppo dirigente, a cui si unisce una base ostile all'idea di un patto con il Cavaliere.


E ancor prima che inizi la sfida, già si mette di traverso rispetto alla prima opzione del «piano B», l'ipotesi che si possa sfruttare il governo attualmente in carica per dare quantomeno avvio alla legislatura. Una prospettiva che anche i vertici della Cgil vivono come una «provocazione». Monti - anche per rispetto verso Napolitano - ha detto di sentirsi «ancora a disposizione del Paese, se servisse». Ma si rende conto che la «salita in politica» ha compromesso la sua immagine di terzietà. Lo pensano anche il leader del Pd e Berlusconi, e almeno su questo punto concordano: «Mai un Monti-bis». Anche perché l'obiettivo del capo del centrodestra è quello di «svuotare» la lista del Professore.

Sul resto i due avversari si dividono. E la «disponibilità» del Cavaliere è un modo per incalzare Bersani, testimoniando al capo dello Stato che il Pdl è pronto a un accordo per un patto di governo che abbia come «precondizione» una durata di almeno due anni, «altrimenti sì che regaleremmo il Paese a Grillo», spiega Alfano. Stretto nella morsa e senza possibilità di conquistare alla causa i 5 Stelle, il Pd è in cerca di altre strade. E chissà se l'ipotesi di velocizzare le procedure di avvio della legislatura - di cui si è discusso a Palazzo Chigi e al Colle - sia una contromossa rispetto allo scenario che è stato preso in esame in questi giorni dallo stato maggiore democratico: dato che non è possibile formare al momento una maggioranza di governo, perché non tentare di precostituirla con una maggioranza sul nome del nuovo capo dello Stato?


L'operazione avrebbe un senso, se non fosse che - per realizzarla - Napolitano dovrebbe dimettersi senza avviare le consultazioni, e lasciando come primo compito al nuovo Parlamento l'elezione dell'inquilino del Quirinale. Le argomentazioni che i dirigenti del Pd producono sottovoce a sostegno della tesi, vanno dai limitati poteri di Napolitano (che è al termine del mandato e non può sciogliere le Camere), fino al ricordo che «proprio lui aveva detto di voler lasciare al suo successore il compito di gestire la nuova legislatura».


L'impressione che Napolitano sia vissuto come un intralcio dai suoi ex compagni di partito è il segno di quanto forti siano le tensioni tra il Pd e il capo dello Stato, e dà l'idea di quanto potrà essere drammatica la fase che si apre. Non a caso l'ex ministro Fitto ha denunciato in maniera preventiva «il rischio di un gravissimo sgarbo istituzionale verso il presidente della Repubblica che saremmo pronti a denunciare», quasi ad alludere a forme di pressione in atto verso il Colle. È chiaro che se le fiamme dello scontro politico sul governo dovessero propagarsi fino al Quirinale, gli esiti del conflitto potrebbero essere devastanti per un sistema già in pezzi.
Il punto è che il Pd non vuole andare in pezzi, perché il prezzo che pagherebbe rispetto all'ipotesi di un qualsiasi rapporto con il Pdl sarebbe altissimo, viste le posizioni nel partito. Anche perché - per quanto affidato a un tecnico - il governo dovrebbe poi essere sostenuto in Parlamento dalla riedizione della «strana maggioranza», e Bersani sembra disposto a sacrificarsi magari per aprire la strada a nuove elezioni con un nuovo candidato, Renzi. Sarà così? Per ora la politica è senza «piano B»: Napolitano ha imposto il «reset» per cercarlo e farlo diventare un compromesso. Ma è chiaro che si tratta di un braccio di ferro. È già iniziato.

Francesco Verderami

3 marzo 2013 | 9:13© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_03/mossa-pd-una-maggioranza-per-il-nuovo-colle-francesco-verderami_58321494-83c4-11e2-9582-bc92fde137a8.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Governo di convergenza per allontanare il voto
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2013, 12:19:22 pm
Il retroscena

Governo di convergenza per allontanare il voto

La sfida decisiva sulla presidenza della Repubblica che potrebbe trasformarsi in un regolamento di conti


Il balletto sulla maggioranza di governo continuerà per settimane, ma già oggi è chiaro che la disputa non è più su Palazzo Chigi bensì sul Colle, considerato lo snodo decisivo per gli assetti futuri di potere, l'àncora a cui i partiti intendono aggrapparsi prima di tornare al voto.
È sulla presidenza della Repubblica che si gioca insomma la vera sfida, e il rischio è che la delicata trattativa possa trasformarsi in un regolamento di conti, provocando la rottura del vaso di Pandora. Perché il Quirinale - diventato negli ultimi anni un motore attivo nell'indirizzo politico - è l'ultimo punto di equilibrio in un sistema andato ormai a pezzi: se saltasse, il conflitto non avrebbe più quartiere.

E il rischio esiste, è maggiore dello stallo sulla formazione di una maggioranza di governo. D'altronde l'esito del voto ha decretato che palazzo Chigi non è più «scalabile» dai partiti della Seconda Repubblica, a cui toccherebbe al massimo un ruolo precario in un contesto già proiettato verso le elezioni successive: questo sarebbe il destino dell'idea di Bersani, che si propone di varare un gabinetto di minoranza tenuto in vita dall'appoggio esterno dei grillini.

Si vedrà se e in che modo Napolitano - vista l'intransigenza di M5S ad un accordo con il Pd - riuscirà a trovare una soluzione alternativa.
Se proverà la carta di un esecutivo tecnico-politico, oppure se attingerà a quella che è diventata ormai la «terza Camera», cioè Bankitalia, per un governo di «convergenza istituzionale» che - almeno nominalmente - non prevederebbe una «alleanza» tra Pd e Pdl ma solo un «appoggio» a un gabinetto guidato da un esponente di Palazzo Koch. Da giorni si fanno i nomi del governatore Visco e del direttore generale Saccomanni, che il centrosinistra accreditava come possibile ministro dell'Economia in caso di vittoria.

Questo governo - proiettato sul medio termine - avrebbe il compito di rassicurare i mercati, lavorare al rilancio dell'economia e garantire ai partiti il tempo necessario per varare le riforme in Parlamento, compresa la legge elettorale. La prospettiva al momento appare indigesta al Pd ma anche al Pdl, stanco di «governi dei banchieri». La soluzione - semmai si concretizzasse - sarebbe di sicuro più potabile di un Monti-bis, verso cui sono contrari le due forze politiche. Perciò le manovre fatte ieri dal Professore non avrebbero effetti.

L'incontro al Quirinale e la lettera che Monti ha inviato a Bersani, Berlusconi e al «signor Grillo» sono di certo un tentativo di annodare i fili del dialogo sotto l'ombrello europeo, in vista del vertice di Bruxelles. Ma sono vissuti come «espedienti tattici» dal segretario dei Democratici e dal leader del centrodestra, che li interpretano come un tentativo del Professore di rientrare in gioco. E non a caso il capo di M5S si pone in contrapposizione ai due avversari, evocando il nome di Monti come possibile successore di se stesso a palazzo Chigi. Il suo fine è scoperto: disarticolare ulteriormente il sistema imperniato su Pd e Pdl, agli occhi di un'opinione pubblica che ha bocciato alle elezioni l'alleanza di centro.

In ogni caso, qualsiasi soluzione di governo «tecnico» si realizzasse, i partiti avrebbero un ruolo marginale. Ecco perché è sul Quirinale che sono concentrate le attenzioni. E il tentativo del Pd di far pressione sul Colle per anticipare l'elezione del nuovo capo dello Stato è la prova di quanto cruenta si appresta ad essere la sfida e dei rischi che il vaso di Pandora vada in frantumi. È vero che Napolitano ha ribadito di non essere in corsa per una sua ricandidatura, sottolineando peraltro che un presidente della Repubblica «non è a termine», ma è altrettanto vero che al momento non appare facile la convergenza bipartisan su un altro candidato.

Anzi, a palazzo Chigi come nel Pdl viene accreditata la tesi che «una parte del Pd» sta lavorando ad una «operazione di maggioranza» per il Colle sul nome di Prodi, da rendere manifesta a ridosso delle votazioni per il Quirinale. Non è dato sapere se anche Casini sarebbe della partita. Per un centro che - dopo la sconfitta elettorale - sarà chiamato a scegliere da che parte stare, potrebbero contare i buoni rapporti tra concittadini. I due bolognesi infatti hanno rapporti frequenti, e prima che Monti diventasse presidente del Consiglio, Prodi tenne una dotta lezione di economia al leader dell'Udc.

Numeri alla mano, per l'operazione potrebbero non servire i voti di Grillo, che peraltro - dopo esser stato corteggiato - ha fatto capire che potrebbe convergere «sul nome di Rodotà». Ma è Prodi che Berlusconi vede come fumo negli occhi, ecco perché il Pdl già grida al golpe.
Il fondatore dell'Ulivo potrebbe essere l'àncora del centrosinistra, in attesa di tentare la rivincita nelle urne. È scontato infatti che - dinnanzi a una simile operazione - il centrodestra salirebbe sulle barricate, interpreterebbe l'eventuale elezione dell'ex premier come un «fattore divisivo» e chiuderebbe al dialogo su tutto, compresa la legge elettorale.
La missione a favore di Prodi però non incontra i favori di tutto il Pd, dov'è iniziata una durissima battaglia. Il 18 marzo dovrebbero iniziare le consultazioni al Quirinale per il governo, ma il vero D-day sarà il 15 aprile, quando inizieranno le votazioni per il Quirinale.
Con un sistema a pezzi, con un Parlamento che è la somma di tante impotenze, un passo falso nella partita per il Colle provocherebbe la rottura del vaso di Pandora.

Francesco Verderami

5 marzo 2013 | 7:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_05/governo-di-convergenza-per-allontanare-il-voto-francesco-verderami_8f1882de-8556-11e2-b184-b7baa60c47c5.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il timore che salti il sistema
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2013, 11:42:45 am
Anche il Pd con Napolitano

Il timore che salti il sistema

Bersani resta contrario a un salvacondotto ma accoglie le decisioni dell'«arbitro»


ROMA - Per una volta hanno smesso la rissa in mezzo al campo, garantendo all'arbitro la possibilità di ristabilire l'ordine nel rettangolo di gioco. D'altronde sono consapevoli che senza l'intervento di Napolitano la partita della legislatura non potrebbe nemmeno cominciare, mettendo a repentaglio persino l'intero campionato, cioè il sistema. Perché stavolta il cortocircuito che si è innescato tra politica e magistratura, non è l'ennesimo scontro di un conflitto ormai ventennale. Rischia di essere l'ultimo, quello fatale.


Perciò poco importa se il presidente della Repubblica non l'ha preavvisato della nota diffusa al termine dell'incontro con i vertici del Csm, Bersani accoglie l'intervento del Quirinale come fosse il capitano di una squadra di rugby che è sempre chiamato ad accettare le decisioni del «referee» senza poterle contestarle. «Io tengo la testa solo sul governo», si limita a dire infatti il segretario del Pd, che è un modo per rimarcare il rispetto nella distinzione dei ruoli, ed è il segno di come i Democratici possano essere solo giocatori.
E da giocatori osservano non solo l'ammonizione che Napolitano commina ai dirigenti del Pdl per quel corteo davanti al tribunale di Milano, ma anche l'altolà posto a chi intende sostituirsi al capo dello Stato, che si fa garante della sfida politica nella quale non ci possono essere «interferenze esterne». Il punto è questo: sebbene tutti tacciano al cospetto dell'arbitro, nella squadra del Pd c'è contezza che le accelerazioni dei palazzi di giustizia contro Berlusconi - dalle visite fiscali alla richiesta di processo immediato per il «caso De Gregorio» - stanno «interferendo» con la partita in corso nel palazzo della politica.


Sia chiaro, i Democrat non sono disponibili a richieste di salvacondotto per il Cavaliere, ma non sono nemmeno disposti a veder saltare il campionato. E il rischio esiste, lo ammettono sottovoce e con preoccupazione, temono che il conflitto faccia saltare il sistema proprio mentre il sistema deve rinnovarsi, con il varo di un nuovo governo e l'elezione di un nuovo capo dello Stato. È quindi una forma di silenzio assenso quella del Pd verso la nota del Quirinale, anche laddove Napolitano invoca di fatto il «legittimo impedimento» per Berlusconi, a cui va «garantita» la partecipazione alla sfida «politica e istituzionale» fino «alla seconda metà di aprile».
Ecco la svolta del Pd, che è fatto più eclatante della «grande soddisfazione» di Berlusconi nel veder riconosciute le proprie ragioni. E chissà se l'intervento del Colle sarà servito a risollevare oltre che nel morale anche nel fisico il Cavaliere, che da giorni deve fare i conti con la pressione alta: 102 la minima, 200 la massima. Certo il Quirinale ha sanzionato duramente il Pdl per quell'invasione nel campo della magistratura, ma - così come Bersani - anche Alfano con il suo silenzio rende merito all'opera del presidente della Repubblica.


Il fatto che Napolitano abbia emesso cinque comunicati in due giorni è - agli occhi dei vertici del Pdl - la prova di quanto sia considerata importante, anzi decisiva, questa vicenda. E di come sia stata presa sul serio. L'operato del Colle viene interpretato come un concreto tentativo di far defibrillare il clima, di rendere quanto più possibile agevole la difficile fase politica.
Solo l'Anm - come a far da contrappunto al Quirinale - ha rotto il silenzio, rimanendo attestato sulle vecchie barricate. Toccherà a Napolitano rendere completamente agibile il terreno da gioco della politica, anche per non veder pregiudicate sue eventuali future iniziative, nel caso Bersani dovesse fallire. Se il conflitto non cessasse, infatti, non ci sarebbe spazio per un «governo del presidente». E si andrebbe alle urne in piena invasione di «campi».

Francesco Verderami

13 marzo 2013 | 7:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_13/pd-napolitano_887ae918-8ba9-11e2-8351-f1dc254821b1.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il punto d'incontro per tornare al voto
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2013, 05:32:16 pm
Settegiorni

Il punto d'incontro per tornare al voto

Perché il Cavaliere è pronto a far passare i candidati democratici per le presidenze


Bersani e Berlusconi vanno dannunzianamente verso le elezioni. Un passo alla volta, perché il tacito patto rimanga al riparo dagli imprevisti, dai giochi di quanti nei rispettivi partiti vorrebbero ribellarsi a un destino che appare già segnato. Per garantire l'accordo serve che ognuno faccia la propria parte, e anche ieri - sulle presidenze delle Camere - i due acerrimi alleati hanno tenuto fede al copione.

Se è vero che i leader del Pd e del Pdl puntano al voto in giugno per garantirsi la rivincita, devono infatti affrettarsi e non perder tempo con un braccio di ferro sulle presidenze delle Camere, che contano poco o nulla in questa legislatura nata moribonda. Così Bersani ha inviato a Berlusconi un messaggio che è stato recepito: per consentire il rapido disbrigo della pratica, l'idea è di affidare gli scranni di palazzo Madama e di Montecitorio a esponenti del Pd, «ma solo per stabilizzare le istituzioni e avviare i lavori parlamentari, pronti a sacrificare le nuove cariche se fosse necessario».

E c'è un motivo se in serata il Cavaliere ha pubblicamente dato il benestare all'operazione, annunciando che il Pdl «si chiama fuori da ogni trattativa di spartizione delle cariche istituzionali». Le sirene montiane - che volevano sparigliare la partita del Senato - stavano tentando di far presa su una parte del Pdl sensibile alle lusinghe del premier, desideroso di restituirsi a un ruolo terzo in vista della corsa al Colle. Palazzo Madama sembrava alla portata del Professore, o almeno così credeva, dato che Bersani gli aveva offerto il posto. Ma si è trattato di un sofisticato gioco politico messo in atto con la (tacita) complicità dell'acerrimo alleato.

Il segretario del Pd, infatti, non poteva non sapere della contrarietà di Napolitano all'idea che Monti abbandonasse Palazzo Chigi, e ha lasciato che il premier ci sbattesse il muso. Perché il capo dello Stato è trasalito quando si è visto produrre dal premier una serie di documenti che - a detta del Professore - consentivano il trasloco, ed ha opposto il veto al termine di un colloquio burrascoso. A quel punto Bersani, che teorizzava l'affidamento di una Camera all'opposizione, ha offerto a Monti un'altra opzione: quella di indicare un esponente di Scelta Civica per lo scranno di Montecitorio, «magari Dellai».

Era una proposta vera o solo una messinscena? Perché il capo dei Democrat non è parso sorpreso al termine dell'ennesimo rendez vous con il premier, che ha dato fumata nera: «Monti - ha commentato - pensa soltanto a se stesso. Doveva essere una risorsa, è diventato invece un ostacolo. Un problema». Ed è un convincimento che si sta facendo strada anche nei gruppi parlamentari centristi, dove cova ormai un certo malcontento verso il leader. Eppoi, il Professore, non si era detto disponibile alla presidenza del Senato «solo» se fosse stato votato anche dal Pdl?

Ma né Berlusconi né Bersani hanno interesse a dare centralità e ruolo politico ai montiani, che il voto ha reso irrilevanti: il loro obiettivo semmai è di spartirsi le spoglie del centro in vista delle urne. È questo il senso dell'offerta per la Camera avanzata dal capo del Pd a Scelta Civica, così da precostituire un accordo politico per le prossime elezioni. D'altronde tutte le mosse di Bersani inducono a prefigurare un repentino finale di legislatura: pur di non fare il governo con l'acerrimo alleato ha tentato il patto coi diavoli, con Grillo e con la Lega, portabandiera dell'antieuropeismo. Due strade senza via d'uscita.

Certo, il Carroccio - pur di non tornare al voto - sarebbe disposto a garantire il numero legale al Senato, ma oltre non potrebbe andare.
È vero che nel Palazzo se ne son viste tante, però un governo Bersani-Monti con l'appoggio esterno di Maroni appartiene alla sfera onirica, dato che il leader della Lega è da poco giunto al Pirellone grazie al Cavaliere. Perciò, se ogni variabile è già stata bruciata, se anche «il governo del presidente» per cambiare la legge elettorale «farà la stessa sorte - come anticipa il pdl Rotondi - perché né Bersani nè Berlusconi vogliono cambiare il Porcellum in questa delicata situazione», non restano che le urne. Entrambi hanno già pronta la campagna elettorale. Il leader del Pd accuserà i grillini di irresponsabilità, e così farà Berlusconi, il cui profilo dialogante piace agli elettori: «Lo dicono i miei sondaggi».
Rimane una piccola questione da risolvere: il Quirinale. Scartato Prodi, che - secondo il Cavaliere - «nutre un odio viscerale nei miei confronti», messi da parte Amato e D'Alema, non c'è che Napolitano. È vero che il capo dello Stato ha più volte detto di non volersi ricandidare, «ma se lo votassimo - sostiene Berlusconi - come potrebbe opporsi alla rielezione?». Anche i montiani l'hanno capito, «e a quel punto - spiega un autorevole dirigente centrista - se restasse l'unica opzione, sarebbe lui a portarci tutti al voto in giugno».

Francesco Verderami

16 marzo 2013 | 7:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_16/bersani_berlusconi_voto_f36e7142-8dff-11e2-8e0e-c5b76e411d4a.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il colloquio con Alfano e l'apertura sul Colle
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2013, 11:55:14 pm
Il retroscena

Il colloquio con Alfano e l'apertura sul Colle

L'offerta a Pdl e Lega per garantirsi il via libera al governo. Disponibilità a discutere su un nome di area moderata: Cancellieri?


Era inevitabile che Bersani e Alfano si parlassero prima dell'incontro ufficiale, anzi necessario. Ed è accaduto. D'altronde i contatti informali evitano le ingessature degli appuntamenti di rito, consentono di discutere in modo più libero di argomenti come governo e Quirinale.

Su questi due temi il leader del Pd ha illustrato al segretario del Pdl le proprie idee, che da una parte confermano una certa rigidità di impostazione sulla struttura del governo a cui sta lavorando, ma dall'altra manifestano un inequivocabile segno di apertura al centrodestra sulla scelta del prossimo capo dello Stato.

Le intenzioni di Bersani sono chiare e il linguaggio usato con Alfano è stato altrettanto esplicito. Il «pre-incaricato» auspica che Pdl e Lega garantiscano in Senato le condizioni affinché il governo possa nascere, e siccome - l'ha ripetuto anche ieri - «la mia proposta è rivolta a tutto il Parlamento», sarebbe disponibile a discutere su alcuni punti programmatici da concordare, riservandosi persino di inserire nella propria squadra ministri in cui il centrodestra potrebbe per certi versi riconoscersi. Questo è il suo «piano A», così l'ha definito, che muove da una chiusura intransigente all'ipotesi di un governissimo e tuttavia è accompagnato da un'offerta sul Quirinale che ricalca i gesti di «discontinuità» sulle presidenze delle Camere di cui va «fiero».

E se ieri Bersani ha detto che di quegli atti di discontinuità «ne farò degli altri», c'è un motivo. Nei suoi intendimenti - qualora il «piano A» venisse accettato - c'è la disponibilità a discutere sul nome di un rappresentante dell'area moderata da eleggere al Colle, una personalità che non dovrebbe essere targata Pdl - questo è chiaro - ma che consentirebbe a quella parte del Paese di centrodestra, di sentirsi finalmente rappresentata.

Ecco la svolta, che non è un'operazione tattica per portare a compimento la sua missione (impossibile) per Palazzo Chigi, semmai è un convincimento che Bersani ha maturato e non da solo nel suo partito. Sì, perché tra i democratici - e non sono pochi - c'è chi riconosce un «fondamento storico» alle tesi «rozzamente rappresentate» da Berlusconi, che chiede un segno di «discontinuità» sul Colle dopo «quattro capi di Stato di sinistra». Anzi, nel Pd c'è chi sostiene che al Quirinale l'alternanza tra esponenti di diversa estrazione politica si sia interrotta molto prima, «dai tempi di Pertini». Perciò l'argomento è tenuto in considerazione, a patto che si discuta di personalità riconosciute, fuori dai partiti e di forte spirito repubblicano.

Ma non è solo per una questione culturale che Bersani è pronto a concordare con il centrodestra l'ascesa di un moderato alla presidenza della Repubblica. Il punto è che in Parlamento non sono possibili oggi prove di forza, non ci sono cioè blocchi capaci di imporre l'elezione di un nuovo capo dello Stato, nemmeno dalla quarta votazione: il Pd è diviso, Scelta civica è spaccata, i Cinquestelle hanno già dimostrato di non reggere alle votazioni a scrutinio segreto, e anche la solidità dell'asse Pdl-Lega è da verificare nei passaggi decisivi.

«Sono frantumazioni - spiega il senatore pd Gotor - prodotte da una situazione d'incertezza che provoca la scomposizione. In questo quadro - aggiunge lo storico, fedelissimo di Bersani - non credo in candidature di rottura o partigiane per il Colle. Perché non sarebbero politicamente praticabili e soprattutto perché non farebbero bene alle istituzioni». In un simile contesto perderebbe quindi forza la candidatura di Prodi, che peraltro farebbe gridare al «golpe» Berlusconi, a vantaggio di profili come quello del ministro dell'Interno, Cancellieri, e del fondatore del Censis, De Rita, sempre restio però a incarichi politici. E comunque, se davvero si arrivasse a una trattativa, toccherebbe al Pdl avanzare al Pd la proposta di una «rosa», nella quale troverebbe posto Urbani.
Non è servito molto tempo al leader democrat per illustrare ad Alfano il suo «piano A», che non contempla ulteriori margini di mediazione.

Qualora il centrodestra dovesse rifiutare la proposta, «allora ci sarebbe solo il piano B». Bersani non lo ha esplicitato, e nel Palazzo le supposizioni sono numerose quanto poche fondate: dall'idea che Bersani punti al Colle per far spazio a Renzi nel partito, alla prospettiva di un'intesa con i grillini per il Quirinale in cambio di un'agibilità al Senato per il governo. Una cosa è certa, e il «pre-incaricato» l'ha detta al segretario del Pdl: «Proverò fino in fondo ma un governissimo non voglio farlo. La mia gente preferirebbe piuttosto tornare a votare».
Probabilmente per questo Bersani non ha dovuto esporre il «piano B». Perché se davvero si precipitasse verso le urne in giugno, con un Parlamento in stallo anche per l'elezione del capo dello Stato, di soluzioni per il Colle ne resterebbero davvero poche. Forse una sola, che il leader del Pd e Alfano conoscono: rieleggere Napolitano, «alla prima votazione» come racconta un autorevole ministro. È vero, il presidente della Repubblica ha ripetuto anche ieri che «alla mia età non sono ammessi straordinari», ma è altrettanto vero che «se gli venisse chiesto dal Parlamento - come dice spesso il Cavaliere - non potrebbe tirarsi indietro». In quel caso, tornato nella pienezza dei suoi poteri, il capo dello Stato potrebbe sciogliere le Camere. E si andrebbe al voto, magari con il governo Bersani sfiduciato...

Francesco Verderami

25 marzo 2013 | 7:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_25/verderami-colloquio-con-alfano-apertura-sul-colle_b959abae-9514-11e2-84c1-f94cc40dd56b.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Ma per il Pdl resta il nodo del Quirinale
Inserito da: Admin - Marzo 27, 2013, 06:37:58 pm
L'offerta

La strada per l'accordo: commissione per le riforme guidata dal centrodestra

Ma per il Pdl resta il nodo del Quirinale


È tutto pronto per l'accordo tra Pd e Pdl. Manca solo l'accordo. È la politica, bellezza, con i suoi paradossi e i suoi penultimatum, con la linea dell'intransigenza ufficiale che scolora nelle trattative riservate, con intese su modelli di governo, formule di sostegno parlamentari, persino percorsi di riforma già stabiliti, e che però rischiano di diventare carta straccia nelle urne.

Insomma l'accordo c'è, anche sul cerimoniale, che è necessario rispettare. Perciò va prima consumato il rito delle consultazioni, con l'incontro dei Cinquestelle, al termine del quale il «preincaricato» dovrà prender atto che i grillini non ci stanno a dargli la fiducia. Nel frattempo gli sherpa di Pd e Pdl hanno accatastato pile di progetti, su un esecutivo a guida Bersani composto da politici di centrosinistra e tecnici d'area di centro e centrodestra, a cui l'opposizione-maggioranza darebbe un appoggio esterno.

E con l'avvio del governo si avvierebbero anche le riforme, patrocinate da due appositi ordini del giorno alla Camera e al Senato che darebbero vita a una commissione redigente da far presiedere a un rappresentante dell'opposizione-maggioranza. Sulla falsariga della vecchia commissione Bozzi, una pattuglia di costituenti - assistita da personalità esterne - verrebbe incaricata di riscrivere in sei mesi la seconda parte della Carta, da presentare poi al giudizio inemendabile del Parlamento.

È tutto pronto per l'accordo tra Pd e Pdl. Peccato però che manchi l'accordo. Perché se su governo e riforme c'è già più di un'ipotesi di intesa, sulla presidenza della Repubblica si sta giocando una spericolata mano di poker tra Bersani e il Cavaliere. Non a caso Berlusconi, prima che la delegazione del centrodestra venisse ricevuta dal «preincaricato», ha dettato la linea ad Alfano: «Dovrete essere irremovibili». Sul Colle, ovvio, non sul resto, che è come l'intendenza: seguirà. E sul nodo del Quirinale pesa il lodo Berlusconi: «Se il Pd accetta la grande coalizione, noi accetteremo di votare un candidato indicato dal centrosinistra. Se il Pd non se la sente di fare il governo con noi, allora dovremo essere noi a indicare un candidato di centrodestra».

E poco importa al Cavaliere se Bersani, venerdì scorso, gli ha inviato un messaggio attraverso Alfano, spiegandogli che «bisogna ragionare su personalità non targate» e che siano «potabili». Niente da fare. Al tavolo di poker l'ex premier si è presentato con il nome di Gianni Letta. A Bersani sono cadute le braccia. E fosse questo il solo problema. Il punto è che il segretario del Pd non vuole, lui dice che non può, mettere insieme la trattativa su Palazzo Chigi con quella per il Colle. «Non posso imbastire adesso una trattativa aperta sul Quirinale», ha ripetuto ieri durante le consultazioni. Perché Bersani è determinato nel voler varare il governo, «ma solo dopo che è partito il governo sono pronto a discutere sulla presidenza della Repubblica, per trovare un giusto equilibrio», cioè a trovare un compromesso su una personalità di estrazione «moderata».

Così l'accordo (sul resto) galleggia sull'alito del drago, e senza un accordo (sul Colle) rischia di bruciarsi. Già, ma chi sarebbe a perdere la mano di poker? È vero, ieri Berlusconi ha pescato una buona carta dal mazzo. Con il caso dei marò ha schiantato Monti, che - a sentire un autorevole esponente di Scelta civica - «ha perso il controllo del gruppo e anche la speranza di diventare ministro degli Esteri nel governo di Bersani». C'è la manina di Alfano (su mandato del Cavaliere) dietro le incredibili dimissioni del titolare dalla Farnesina? Di sicuro, grazie alla mossa di Terzi - che è stato a un passo dalla candidatura nelle liste del Pdl - Berlusconi ha smontato il disegno del «preincaricato» che pensava di edificare il suo governo, partendo dal mattone centrista.

Invece anche quel piccolo mattone si è sgretolato, e il leader del Pd adesso non può fare a meno del supporto (a che titolo si vedrà) del centrodestra per andare a Palazzo Chigi. E per ottenere l'appoggio ha quarantotto ore di tempo per dare una risposta a Berlusconi sul Quirinale. Bersani insomma è spalle al muro. Ma attenzione, perché l'azzardo del Pdl potrebbe non pagare, dato che restano ancora due carte coperte. La prima: se l'intesa sul Colle non si realizzasse, il «preincaricato» potrebbe alzar la posta chiedendo a Napolitano di andare in Parlamento per cercare la fiducia. «Napolitano ci ha dato garanzie che senza numeri certi non consentirà a Bersani di formare il governo», sostiene il Cavaliere. Sarà, ma è disposto ad andare a vedere fino in fondo il gioco?

C'è poi la seconda carta, la più pericolosa per Berlusconi. Senza un'intesa con il Pd, per il Quirinale potrebbe pescare alla fine le peggiori carte (dal suo punto di vista), cioè Prodi o Zagrebelsky o Rodotà, che in principio verrebbero magari votati dai grillini, e su cui i democratici gioco forza sarebbero «costretti» a convergere. Anche in questo caso, il Cavaliere sarebbe disposto a rischiare? E dopo aver perso il Colle, sarebbe sicuro di vincere le elezioni, che nel Pdl già fissano per il 7 luglio? Perché nel Pd Renzi si sta muovendo, chiamando a raccolta anche ciò che resta di Scelta civica, e nei sondaggi farebbe presto a cambiare il trend. Perciò nell'ora delle decisioni irrevocabili Bersani e Berlusconi trattano.

Francesco Verderami

27 marzo 2013 | 7:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_27/commissione-sei-mesi-pdl-verderami_49dd58ce-96a5-11e2-b7d6-c608a71e3eb8.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI La scelta di Monti: niente incarichi di partito
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2013, 07:35:03 pm
SETTEGIORNI

La scelta di Monti: niente incarichi di partito

Il nome del Professore scomparirà dal simbolo



Il suo nome non sarà nello statuto e nemmeno nel simbolo del movimento, che infatti d'ora in avanti si chiamerà solo Scelta civica (senza Mario Monti).

La scelta del Professore sarà distinta anche se non ancora distante dalla forza che «ho ispirato e fondato». Rimarrà senatore a vita e farà il «padre nobile» della lista, ma senza aver più un «rapporto organico» con il gruppo dirigente, siccome «non mi sento un leader di partito, non è il mio mestiere». Così ha annunciato.

Il Professore che era salito in politica, ora vuole scendere dal golgota dove sente di esser stato messo ingiustamente da molti, quasi da tutti: dai partiti «che mi avevano chiamato in soccorso» nell'inverno del 2011, dalle forze sociali - Confindustria e sindacati - che oggi andranno «squallidamente a braccetto senza però indicare come uscire dalla crisi», e persino dai suoi stessi alleati, da quei compagni di avventura che «mi implorarono di fare il capo della coalizione alle elezioni e adesso dicono di aver donato il sangue per me». Raccontano che l'intervista di Pier Ferdinando Casini al Corriere l'abbia lasciato di sale, «sono rimasto allibito», e l'abbia convinto a un passo di lato che somiglia molto a un passo indietro.


Formalmente dice di non essersi disamorato, «non è disamore, non considero terminata l'esperienza», anzi Scelta civica - nel quadro disastrato di un'Italia tripolare - «resta una forza necessaria alla tenuta europeista del Paese». Epperò la prossima settimana i parlamentari che sono stati eletti con il suo movimento, leggeranno nello statuto la conferma ufficiale di quanto già Monti aveva detto loro a voce: la sua assenza dagli incarichi e la cancellazione del suo nome dal simbolo sono il prodotto di una sconfitta iniziata nelle urne e che il Professore fatica a capire, interpretandola come una forma di ingratitudine: «Stiamo uscendo dalla procedura di deficit europeo, i conti pubblici sono in ordine...».
Perciò non solo è turbato dal fatto che non siano stati riconosciuti i meriti del suo governo, non comprende nemmeno l'accanimento, il fatto di esser diventato «il capro espiatorio di tutto e di tutti», sebbene questo sia l'effetto di un Paese stremato dalle tasse e dalla recessione, ma soprattutto la conseguenza della sua precedente scelta: quella di entrare nell'agone politico, dove nulla viene risparmiato a nessuno, figurarsi a chi - entrato nel Palazzo da super partes - ha deciso di farsi parte e di sfidare quanti lo avevano appoggiato. Gli errori di grammatica politica in campagna elettorale e poi quelli di ortografia istituzionale all'inizio della legislatura hanno determinato la reazione, fuori e dentro il suo stesso movimento. Per esempio, quando salì da Napolitano per chiedergli di lasciare Palazzo Chigi in modo da trasferirsi a Palazzo Madama, non solo si attirò le critiche del capo dello Stato, ma anche l'ira di chi - come Lorenzo Dellai - sperava di conquistare la presidenza della Camera in quota Scelta civica, e l'ironia di chi - come Casini - si aggirava per il Senato dicendo: «Non chiedete a me di strategie, io non conto più nulla». Stizzito per le tensioni alla riunione dei gruppi parlamentari, Monti perse per la prima volta il suo aplomb: «Posso andarmene anche domani mattina, non resto qui a fare il vostro zimbello».

Emotivamente provato, si ripetè alla Camera, nelle vesti di premier, davanti agli attacchi di chi gli aveva dato fino a pochi mesi prima la fiducia: «Non vedo l'ora che finisca tutto». E dato che non può ancora farlo con il governo, ha iniziato con il partito, nonostante Mario Mauro gli abbia chiesto di restare. L'ex berlusconiano che prima delle urne pronosticava di sostituire il Pdl con Scelta civica nel Ppe, giorni fa ha pregato Monti, «non mollare, o almeno aspetta un paio di mesi. Traghettaci prima verso l'assemblea costituente del partito».

Niente da fare.

Così la prossima settimana lo scontro interno diverrà pubblico alla vigilia delle Amministrative, dove non si sa cosa fare. Sarà l'anticamera del divorzio? Già oggi d'altronde i cofondatori del movimento vivono da separati in casa: da una parte Andrea Riccardi, che mira a trasformare il movimento in un partitino cattolico; dall'altra Italia Futura che ambisce invece ad approdare nella famiglia liberale europea, e che mentre attende di capire quali saranno le mosse di Matteo Renzi, rilegge i dati delle elezioni politiche, il peggior risultato ottenuto a Roma, proprio nel quartiere simbolo di Trastevere dov'è la sede della Comunità di Sant'Egidio. In mezzo c'è l'Udc, che in vista delle votazioni per il Quirinale riunirà i propri grandi elettori, senza montiani. In fondo, senza Monti, i montiani non ci sono più.


Francesco Verderami

13 aprile 2013 | 7:30
© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_13/monti-no-incarichi-partito_c69922a0-a3fa-11e2-9657-b933186d88da.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi evoca un «accordo di ferro» con BERSANI
Inserito da: Admin - Aprile 17, 2013, 11:44:45 am
Il retroscena: Le resistenze (speculari) sull'ex premier socialista

Il Cavaliere: con Bersani è fatta Una «stretta di mano» al telefono

Berlusconi evoca un «accordo di ferro» con il leader democratico


ROMA - «Direi che è fatta con Bersani», annunciava nel tardo pomeriggio di ieri Berlusconi, che proclamava «la fine della fase tattica» e parlava di un «accordo di ferro» per il Colle con il segretario del Pd sul nome di Amato, ritenuto «l'unico spiraglio». Diceva la verità il Cavaliere o stava bluffando? Tutte e due le cose, l'uso del condizionale - quel «direi» - lo testimoniava. E non perché dovesse solo far finta di aver preso una decisione, ma perché la corsa per il Quirinale è sempre piena di insidie: in passato è bastato un niente per far saltare patti più saldi di quello che il leader del Pdl sostiene di aver stretto con il capo dei democrat.

Di certo c'è che i due si sentono ormai assiduamente e non hanno più bisogno di intermediari. Ma siccome una stretta di mano telefonica non basta a chiudere un simile negoziato, alla vigilia delle votazioni Berlusconi mantiene - al pari del suo interlocutore - un atteggiamento non ambiguo, bensì prudente. E c'è un motivo se dalla sua corte è iniziato a filtrare il nome di D'Alema, se il primo presidente del Consiglio post comunista è stato accreditato come «il candidato»: Amato era e resta la prima scelta per il Cavaliere; D'Alema è la carta di riserva, su cui puntare nel caso in cui l'accordo sull'ex sottosegretario di Craxi non dovesse reggere, e Berlusconi volesse evitare di restar fuori dai giochi, ritrovandosi al Quirinale una personalità non gradito se non ostile.

Il punto è che Amato produce anticorpi all'interno dei due schieramenti: inviso a molti nel Pd e osteggiato da Vendola, determina lo stesso effetto in un pezzo del Pdl e nella Lega. Perciò, se davvero - come sostiene Berlusconi - è stata trovata un'intesa con Bersani sul candidato, il problema è come farlo eleggere, mettendo a punto la tempistica per ufficializzare quel nome e sottoporlo ai grandi elettori. Per esempio, riuscirebbe Amato a superare le forche caudine del voto segreto già alla prima chiama? È stato calcolato che - in caso di accordo tra Pd, Pdl e Scelta Civica - ci sarebbe un margine di centosessanta senatori: basterebbe o sarebbe preferibile aspettare le successive due chiame? E se si optasse invece per la quarta votazione - quando servirà la maggioranza semplice - non ci sarebbe il rischio di aprire le porte ad altri giochi, scatenando i franchi tiratori?

Insomma, un passo falso e Amato sarebbe bruciato. Di qui la carta D'Alema, che Berlusconi ha valutato con lo sguardo però sempre rivolto agli amatissimi sondaggi: perché - agli occhi del suo elettorato - l'ascesa dell'ex segretario del Pds al Colle con il supporto del Pdl saprebbe di «inciucio», avrebbe un impatto maggiormente negativo rispetto ad Amato, che certo non è considerato una «novità». Tuttavia, pur di non dover stare a guardare per la seconda volta l'elezione del capo dello Stato, il Cavaliere non ha escluso D'Alema dal mazzo. Preferirebbe Marini, «peccato che - giura scaricando le responsabilità sul fronte avverso - siano quelli del Pd a non volerlo». Ancora una volta dice il vero o bluffa?

Di sicuro Amato incontra il gradimento di Berlusconi, che è in piena sintonia con Napolitano, da tempo sponsor dell'esponente socialista. Ma se il patto Pd-Pdl dovesse saltare, l'inquilino del Colle avrebbe un altro candidato che vedrebbe di buon occhio come suo successore. Sarà una semplice coincidenza, ma non c'è dubbio che il giudice costituzionale Cassese incontra i buoni uffici del capo dello Stato uscente, ed è il nome con cui Bersani potrebbe evitare di venire travolto da Grillo, che ieri pronto ha iniziato la manovra di accerchiamento al Pd e gli ha di fatto proposto un accordo su Rodotà. Con Cassese, Bersani si precostituirebbe un'exit-strategy, ecco perché ne ha fatto cenno l'altra sera a Monti.

Il premier uscente però vuole che sul Quirinale ci sia una «scelta condivisa» con il Pdl, e la reazione istintiva di Berlusconi all'ascolto di quel nome non è stata entusiastica: «Cassese chi? Quello che ha lavorato per bocciare il lodo Alfano?». Chissà se Gianni Letta sarà riuscito a persuaderlo, spiegandogli che l'ex ministro di Ciampi «si è mosso sempre di intesa con il presidente della Repubblica». Napolitano, appunto. Da quell'orecchio però Berlusconi non ci sente, e infatti nella rosa predisposta dal capo dei democrat ci sono Amato, D'Alema, Marini e la Finocchiaro, che ieri ha chiesto e ottenuto di non venire esclusa dalla lista. È sui primi due nomi però che si gioca la partita per il Colle. Berlusconi dice che «è fatta». Sicuro che non si vada ai supplementari?

Francesco Verderami

17 aprile 2013 | 9:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni-presidente-repubblica/notizie/17-aprile-cavaliere-con-bersani-fatta-stratta-di-mano-al-telefono-verderami_b97d45aa-a720-11e2-ae64-724b68a647ec.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI I segreti di un patto (che già vacilla)
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2013, 06:28:29 pm
Gli incontri riservati del cavaliere con D'Alema, Amato e l'ex leader Cisl

Assedio a Bersani dopo la scelta

I segreti di un patto (che già vacilla)

Il segretario: ho le mie cose da gestire nel partito.

La trattativa su cinque nomi



Almeno la prima postilla dell'accordo ha retto, così come Bersani e Berlusconi avevano concordato ieri pomeriggio al telefono prima di congedarsi: «Allora, dovrò essere io ad annunciare che si va su Marini», aveva detto il segretario del Pd. E il Cavaliere aveva accolto la richiesta: «Certo, riunirò il mio gruppo dopo il tuo».

Più che un gentleman agreement era stata una richiesta politica, un modo per il capo dei Democrat di affermare il suo ruolo di mediatore nel negoziato per il Colle. Se poi l'accordo si tramuterà nell'elezione dell'ex presidente del Senato a capo dello Stato, lo si capirà solo oggi visto che il Pd ribolle come una tonnara. Un problema che era parso chiaro a Berlusconi nel corso della mediazione, quando Bersani - tra una candidatura e l'altra che saltavano - aveva confidato al suo interlocutore: «È che ho le mie cose da gestire...».

Le «cose» si erano manifestate durante il negoziato, che era partito su quattro nomi: Marini, Amato, D'Alema e Finocchiaro. Tranne l'ex capogruppo del Pd al Senato, la lista coincideva con quella che il Cavaliere aveva fatto consegnare un paio di settimane fa al leader del Pd e «per conoscenza» anche a Napolitano. E per arrivare preparato al gran finale, mentre Bersani stava appresso alle sue «cose», Berlusconi aveva visto riservatamente i tre candidati più accreditati. L'altra sera D'Alema aveva avvisato il segretario del Pd dell'appuntamento, che - a quanto pare - si era concluso freddamente. Amato non avrebbe avuto forse bisogno di incontrare il Cavaliere per sentirsi dire ciò che già sapeva, e cioè che «non è colpa mia se quelli sono spaccati e non ti votano».

Con l'ex segretario del Ppi, invece, Berlusconi si è visto ieri in mattinata, quando l'intesa ormai pareva chiusa. E dopo averlo riempito di complimenti, «hai una grande esperienza istituzionale», «hai fatto molto bene il presidente del Senato», «ti sei meritato il rispetto di tutti», «eppoi vieni dalla trincea del lavoro», il capo del Pdl si era congedato con un «sei l'unico che può farcela». Il lupo marsicano - che a quattordici anni di distanza avverte ancora sulla propria pelle il bruciore della sconfitta nella corsa al Colle - si era messo a fare gli scongiuri, e aveva pronunciato il suo proverbiale «mo' vediamo». Non si era sbagliato, Marini, perché nel corso della giornata - tentando di tenere a bada le sue «cose» - Bersani aveva infilato nella lista dei candidati anche Mattarella.

L'operazione era stata vissuta da Berlusconi come un tentativo di spaccare l'area popolare e di far saltare l'intesa. Più o meno quello che aveva subito pensato anche l'ex presidente del Senato: «È vero che anche Enrico Letta lo sostiene?». Tuttavia il Cavaliere ci metteva poco a chiudere la questione, ponendo il veto sull'ex membro della Consulta, che più di venti anni fa - insieme ad altri quattro ministri della sinistra dc - si era dimesso dal governo Andreotti in segno di protesta contro la legge Mammì sulle tv. Figurarsi se Berlusconi se l'era dimenticato: «Non esiste che lo votiamo», aveva spiegato a Bersani, rammentandogli peraltro che «non sono stato io a dire di no a D'Alema e Amato». Più chiaro di così.

Il punto è che le «cose» per il segretario del Pd diventavano di minuto in minuto più complicate. Vendola - che al nome di Marini sentiva aria di governissimo - si smarcava e si faceva attrarre dalla candidatura di Rodotà, annunciata da un Grillo travestito da sirena per marinai di sinistra senza più rotta. Veltroni poi si imbufaliva, lui che dal giorno prima - evocando il «metodo Ciampi» - si era messo a fare lo sponsor di Cassese tra gli amici più fedeli del Cavaliere, e per irretire i suoi interlocutori aveva spiegato che «certo Prodi no, nella logica di una scelta condivisa per il Quirinale, una sua candidatura sarebbe uno strappo».

E mentre le «cose» di Bersani diventavano un casino - con i renziani e i giovani turchi pronti alle barricate - Casini riuniva i propri grandi elettori annunciando «magnum gaudium» che «habemus un democristiano» candidato all'ex residenza dei papi. «Magari fosse Marini», aveva detto il leader dell'Udc giorni fa. Quantomeno faceva mostra di essere contento. Più scettica invece l'altra parte di Scelta civica, che informata dal nunzio del Cavaliere, Alfano, prima storceva il naso e poi si insospettiva. «Non possiamo votare per Amato perché il Pd è spaccato e perché noi ci spaccheremmo con la Lega», spiegava il segretario del Pdl anticipando la conversione su Marini. «La Lega?». Se ne sono accorti adesso i berlusconiani che il Carroccio non avrebbe appoggiato l'ex braccio destro di Craxi? E oggi come si comporterà Maroni con Marini? Se è vero che l'ha chiamato per dirgli «tu sei un uomo di popolo e noi ti votiamo», come mai ieri sera non l'aveva ancora ufficializzato?

L'impressione dei post montiani nel pomeriggio era che l'appoggio di Berlusconi all'ex presidente del Senato fosse solo una mossa tattica, in attesa di veder saltare per aria il Pd e di puntare poi su un candidato coperto. Ragionamento tortuoso, visto che il capo del Pdl teme la deflagrazione dei Democratici durante le votazioni per il Colle e l'avvento di un capo dello Stato a lui ostile, frutto di un accordo con i Cinquestelle. Ma il dubbio è rimasto, ed è alimentato anche da un indizio, dalla confidenza cioè che Sposetti - ex tesoriere dei Ds e assai vicino a D'Alema - ha fatto ieri a un democristiano di lungo corso: «Stiamo lavorando per avere Massimo alla quarta votazione, e farlo eleggere con un po' di soccorso azzurro...».

Il vecchio lupo marsicano non è sorpreso dalle manovre dalemiane, ne aveva già scorto l'ombra dietro l'attacco di Renzi. Perciò non precorre i tempi, e stoppa le voci che lo vorrebbero al Quirinale con Gianni Letta come suo segretario generale: «Fermi, state fermi». Lui aspetta, come Berlusconi, pronto all'accordo per il governo. Anche perché è Bersani che deve mettere a posto le «cose»: sul nome di Marini, infatti, il segretario del Pd è come se avesse posto la fiducia. E se salta lui salta «la ditta».

Francesco Verderami

18 aprile 2013 | 9:30© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni-presidente-repubblica/notizie/18-aprile-segreti-patto-vacilla_b5797b1e-a7e7-11e2-96ed-0ed8c4083cbe.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Gli ultimi ostacoli per il «governo di servizio»
Inserito da: Admin - Aprile 27, 2013, 05:32:32 pm
Il nuovo governo: gli scenari

Letta, il confronto con il Colle per decidere chi guiderà Economia e Giustizia

Gli ultimi ostacoli per il «governo di servizio»

Ma lo scoglio più grande arriva dai democratici


ROMA - Oltre al programma e alla lista dei ministri, il premier incaricato intende collaborare anche alla stesura di una nuova edizione del vocabolario di Palazzo. Così, dopo che Napolitano ha chiesto di togliere dal lessico politico la parola «inciucio», e Berlusconi ha invitato a cancellare il termine «impresentabili», Enrico Letta propone ora di abrogare la formula delle «larghe intese». «Non chiamiamolo governo di larghe intese, per favore», ha detto ieri nel corso delle consultazioni: «Il mio tentativo è di varare un "governo di servizio"».

È evidente che la questione non è semantica ma politica, si riferisce al nodo più intricato che il vicesegretario del Pd deve sciogliere per poter arrivare a Palazzo Chigi. Perché i maggiori problemi per la formazione dell'esecutivo vengono dai democratici, non dal Pdl. È il dissenso che cova nella forza di maggioranza relativa a rendere più complesso il lavoro di Enrico Letta, impegnato a superare i veti di un pezzo del suo partito e le numerose pretese ministeriali degli altri pezzi del suo partito. E c'è un motivo se il presidente del Consiglio incaricato, ricevendo le delegazioni, ha annunciato che sulla struttura della compagine di governo «ho intenzione di avvalermi delle prerogative costituzionali». Per un verso intende evitare di rimaner vittima del «fuoco amico», trovando così una soluzione al rompicapo della lista dei ministri. Perché, per esempio, se dovesse accedere alle pressanti richieste di D'Alema - che mira a tornare alla Farnesina -, come potrebbe dire di no al Pdl, che vorrebbe a quel punto un dicastero equivalente da affidare a una personalità dello stesso peso?

Ma c'è un altro aspetto che si cela dietro l'evocazione delle «prerogative costituzionali» fatta da Enrico Letta. È il ruolo che avrà Napolitano nella formazione del futuro gabinetto e che conferma come il prossimo esecutivo avrà un'impronta se possibile ancor più «presidenziale» del precedente. Nei colloqui di ieri, infatti, il premier incaricato ha lasciato capire che sui ministeri dell'Economia, della Giustizia e degli Interni sarà il Colle a fornire «chiare e stringenti indicazioni», eserciterà insomma un ruolo decisivo. Perciò sui tre incarichi - uno dei quali dovrebbe spettare ad Amato - ci sarà qualcosa di più del timbro del Quirinale.

D'altronde è Napolitano il vero motore dell'operazione, a lui si sono rivolti ieri tutti i contraenti del patto, mano a mano che uscivano dalle consultazioni: la delegazione di Scelta civica, il segretario del Pdl e il premier incaricato. Lo ha fatto anche Berlusconi dagli Stati Uniti, offrendo la plastica rappresentazione dell'intesa. Di più, il Cavaliere ha di fatto bruciato l'incontro tra Enrico Letta e il suo partito, se è vero che la delegazione pidiellina non era ancora entrata dal premier incaricato quando il capo aveva già posto il sigillo pubblico all'accordo di governo.

Non c'è dubbio che ci sia un asse tra il presidente della Repubblica e l'ex presidente del Consiglio, se ne sono resi conto anche gli altri partiti impegnati nel negoziato, sebbene l'enfasi con cui nel centrodestra si accredita la tesi di un esecutivo «Napolitano-Berlusconi» serve solo a riaccreditare e rilegittimare il Cavaliere e a infiammare gli animi nel Pd. Tuttavia le nuvole che sembravano addensarsi sul tentativo di Enrico Letta sono state spazzate via proprio da un dialogo diretto del leader pdl con il capo dello Stato: «Presidente, di lei ci fidiamo». A tutto il resto ci ha pensato Gianni Letta.

E l'intesa val bene una bugia, quella detta da Berlusconi, che ha scaricato su Alfano la responsabilità della nota di due giorni fa e che era stata causa di una forte irritazione di Napolitano: «Si trattava di una dichiarazione a titolo personale del nostro segretario», ha dichiarato dagli Stati Uniti il Cavaliere. Falso. L'aveva voluta e concordata. Però il leader del centrodestra ha inteso così preparare il suo rientro in Italia, pur di chiudere l'accordo sulla lista dei ministri del Pdl: cinque o sei posti, per la metà affidati a donne. E si vedrà se nella delegazione di governo ci sarà anche Alfano, che vorrebbe restare invece alla segreteria. Se così non fosse, sarebbe il preannuncio di una rivoluzione nel partito.

Ma lì è Berlusconi che decide, è lui che ha chiamato Enrico Letta avocando a sé il negoziato, derubricando a liturgia l'incontro della delegazione del Pdl con il premier incaricato, che poi ha convenuto su molte richieste dei suoi interlocutori durante il colloquio ufficiale: sull'Imu andrà trovato un compromesso, i tecnici nell'esecutivo non dovranno pesare sulla quota-parte pidiellina (quelli saranno in quota Quirinale). Perché Enrico Letta alla riuscita delle larghe intese, anzi del «governo di servizio» ci crede. E allora «fidiamoci reciprocamente», ha detto: «E datemi una mano». I dirigenti del Pdl sono pronti a dargliela, ma chiedono la fine delle ostilità, gli attacchi «insopportabili» che giungono dal Pd. «Ne sono consapevole e rammaricato», ha risposto il premier incaricato: «Quelli che attaccano voi, lo fanno per attaccare me». Il patto è fatto. Si è capito da dove vengono le difficoltà.

Francesco Verderami

26 aprile 2013 | 14:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_26/scenari-colle-confronto-verderami_c393fb90-ae2a-11e2-b304-d44855913916.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI La partita tra pacificatori e sabotatori
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2013, 03:44:32 pm
Settegiorni

La partita tra pacificatori e sabotatori

Il sostegno «pieno» del Cavaliere a Letta per isolare il sindaco


Pacificatori e sabotatori si scontreranno e forse in corso d'opera si scambieranno anche i ruoli, perciò non è possibile prevedere oggi «quando si tornerà a votare», dice Berlusconi: «Mi auguro dopo i provvedimenti che serviranno a modificare il sistema istituzionale e a rilanciare l'economia».
Ma è un auspicio, nulla più, perché - come racconta il Cavaliere - le insidie saranno molteplici, «in tanti momenti e per tanti motivi» gli ostacoli si potranno parare sulla strada dell'esecutivo: «E comunque noi del Pdl non dovremo mai essere i responsabili di un'eventuale crisi».



È un precetto che segue la promessa fatta a Napolitano, sponsor e artefice del ricambio generazionale, convinto che il processo di svecchiamento fosse una «necessità» e a suo modo una «opportunità» per varare quelle riforme di cui il Paese e lo Stato hanno bisogno. Ecco cosa lo ha indotto a trasformare Palazzo Chigi in una versione moderna e aggiornata delle Frattocchie e del vicino convento dei frati di Sassone, che erano le scuole dove Pci e Dc coltivavano le nuove leve della politica. Il presidente della Repubblica ha messo in preventivo che l'operazione di rinnovamento sconti un'iniziale fragilità del governo, ma da lord protettore veglierà per difenderlo, sapendo che le minacce possono venire solo dagli «esclusi».


Giorni fa, in un incontro casuale tra ex, Bocchino chiese a D'Alema cosa ne pensasse del nuovo gabinetto: «Mi sembra un governo di democristiani», commentò il braccio destro di Fini. E l'altro, di rimando: «A me sembra piuttosto un governo della Trilateral...». A sinistra come a destra, in tanti vorrebbero accorciare l'orizzonte dell'esecutivo, nonostante Enrico Letta - nel suo discorso alle Camere - abbia ipotizzato una verifica «fra diciotto mesi», e il vice premier Alfano si sia spinto entusiasticamente persino oltre: «Diciotto mesi? Ne riparleremo fra diciotto mesi». Si vedrà.
Per un governo che è ostaggio del Parlamento (e viceversa), molto dipenderà dalla capacità di reperire risorse per far ripartire l'economia. Ma non solo. Come dice un Berlusconi assai informato delle cose di casa altrui, il problema è che «nel Pd ci sono ferite aperte. E non si sa se potranno essere rimarginate». È in corso il regolamento di conti tra i vecchi gestori della «ditta». È lo scontro tra D'Alema e Bersani, che viene da lontano: iniziò quando il leader dimissionario dei Democrat non difese l'ex premier durante la campagna per la «rottamazione» avviata da Renzi, ed è proseguito quando lo stesso Bersani - in una notte - decise di candidare Grasso alla presidenza del Senato al posto della Finocchiaro, che D'Alema considerava «l'opzione B» per il governo delle larghe intese.


Il conflitto si risolverà al congresso del Pd, in autunno o nella prossima primavera. Letta sa, e anche lo sussurra, che quel passaggio - non il braccio di ferro con il Pdl sull'Imu o sulla candidatura di Berlusconi alla presidenza della Convenzione - deciderà la messa in sicurezza del suo governo o segnerà la fine anticipata della legislatura. Il Cavaliere, che ha un piede nel campo di Agramante, osserva la «sinistra che si sta evolvendo», e prova ad abbozzare una previsione partendo da un bilancio. Del recente passato ricorda l'avvento di Renzi, «che era una grossa novità, e in parte lo è ancora». Ai suoi occhi il sindaco di Firenze gli era parso «un elemento che poteva diventare decisivo nel processo di trasformazione del Pd, da partito comunista - ipse dixit - a partito socialdemocratico. Insomma, ci ha fatto pensare a un vero fattore di cambiamento. Poi alle primarie è stato messo in un cantuccio. E ora...».



Ora c'è Letta alla guida di quello che Berlusconi definisce «il buon governo», di cui «siamo parte integrante». E non c'è dubbio che il premier farà il possibile per non perdere l'opportunità, siccome è lui il vero competitor di Renzi, in un derby fra toscani diversi per origine e per carattere. In questa chiave va interpretata l'ultima esternazione di «Matteo», la sua offensiva contro l'ipotesi del Cavaliere presidente della commissione per le riforme, la battuta sul conflitto di interessi «che non si farà se non lo vorrà Berlusconi», la sfida lanciata all'«amico Enrico» che è giunto a Palazzo Chigi attraverso «una scorciatoia», «mentre io vorrò passare per le primarie».
La lotta tra pacificatori e sabotatori è iniziata, ed è chiaro che se Letta avesse successo al governo diverrebbe il candidato naturale alla successione di se stesso, altrimenti - lo ha già spiegato ai suoi amici più stretti - «non entrerò in competizione», deciso in quel caso a tenere un «profilo istituzionale» e farà «un passo indietro». «La trasformazione della sinistra è complicata», commenta il Cavaliere, a cui piace l'idea di fare il papà costituente, sebbene non a tutti i costi. Perché il leader che oggi si fa «concavo e convesso», spera un domani di ricavarne la nomina a senatore a vita.



D'altronde è il protagonista del «miracolo», quel governissimo che «non è un dono caduto dal cielo, abbiamo lavorato per ottenerlo». E c'è un motivo se parla degli alleati-avversari tenendo la misura: «La sinistra non ha mai fatto autocritica, tuttavia è possibile che la trasformazione avvenga, e noi dovremo tenerne conto quando si tornerà a votare». Non sa quando, Berlusconi. Figurarsi se dice come, con quali candidati premier. E soprattutto con quali alleanze...

Francesco Verderami

4 maggio 2013 | 7:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_maggio_04/berlusconi-letta-renzi_2fa1b05c-b47a-11e2-bb5d-f80cf18001da.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Riforme, adesso Letta vuole evitare i rischi di una...
Inserito da: Admin - Giugno 09, 2013, 10:54:25 am
LE SCELTE

Riforme, adesso Letta vuole evitare i rischi di una fuga in avanti

Ma sulle riforme pesa anche l'incognita della giustizia



ROMA - Dopo trent'anni di attesa (e di fallimenti), il rischio è che il percorso delle riforme s'interrompa anzitempo per aver precorso troppo i tempi, anticipando un'idea di modifica delle istituzioni per la quale non sono state nemmeno gettate le fondamenta. È un pericolo che Letta ha compreso dopo l'intervento del capo dello Stato, se è vero che il suo cenno al presidenzialismo della scorsa settimana ha avuto come effetto quello di mettere in fibrillazione i democratici e anche l'area dei «non allineati» presente nel suo governo.

Ma c'è di più. La stagione costituente non solo è esposta al pericolo di accelerazioni che un partito come il Pd non sembra al momento riuscire a reggere sul semipresidenzialismo, è appesa anche al filo delle vicende giudiziarie di Berlusconi, che a breve potrebbero avere effetti devastanti sull'esecutivo con la sentenza della Consulta sul processo Mediaset. Variabili e incognite non consentono quindi di valutare se il governo sarà in grado di risolvere l'equazione o se - drammaticamente - dovrà arrendersi agli eventi.

Ancora una volta la questione giustizia diventa una spada di Damocle sul nascituro Comitato dei Quaranta, come lo fu sulla Bicamerale presieduta da D'Alema. Ecco spiegato il paradosso di queste ore, con Napolitano che chiede a Palazzo Chigi di accelerare l'approvazione del disegno di legge costituzionale necessario a far partire la fase costituente, e al contempo suggerisce prudenza sulla modalità di approccio al tema delle riforme.

Non c'è alcuna certezza né sull'approdo del percorso né sulla durata del governo. E il fatto che ieri Alfano sia salito da solo al Quirinale, dopo il vertice del capo dello Stato con Letta e i ministri delle Riforme e del Parlamento, fa capire che il vice premier non ha parlato con l'inquilino del Colle di semipresidenzialismo. L'ipoteca giudiziaria sull'esperienza delle larghe intese si unisce alle incertezze per la gestione della fase costituente, che hanno indotto Franceschini a sottolineare come «non sia il caso di avventurarsi in discussioni premature», e dall'altra parte hanno spinto Quagliariello a evidenziare «il pericolo mortale»: «Quello di impantanarsi».

Sia chiaro, nell'esecutivo i ministri del Pd e del Pdl lavorano in perfetta intesa, ma è proprio questo ciò che i colleghi «non allineati» - quelli cioè delle altre forze politiche - contestano. Non è un caso se il titolare della Difesa Mauro avvisa che «prima di assumere una decisione vanno coinvolti tutti i partiti». È un modo per evitare che proprio le fughe in avanti facciano saltare tutto. Perché c'è già un precedente, secondo i rappresentanti dell'esecutivo che non fanno parte di Pd e Pdl: la riforma del finanziamento pubblico ai partiti, che - raccontano dal governo - è stata presentata senza una preventiva intesa collegiale. Lo schema non potrà essere ripetuto sulle riforme costituzionali, e però si avverte un certo malcontento per il fatto che il ddl costituzionale sia stato annunciato per il prossimo Consiglio dei ministri ma non sia ancora noto a tutti i ministri.

Per certi versi è la punta dell'iceberg rispetto a questioni ancor più gravi, così come sono un dettaglio i problemi del ministro per le Riforme, che deve ancora definire il numero e i nomi dei «saggi» a cui spetterà il compito di assistere il governo nella fase costituente: tutte le forze politiche hanno dato i nomi dei loro rappresentanti tecnici, tranne il movimento di Grillo. Ma è evidente il motivo per cui Quagliariello insiste: l'intenzione è che l'intero Parlamento sia rappresentato nella Commissione. Dal numero e dalla composizione della squadra si capirà la strada che si vorrà seguire: semipresidenzialismo o premierato. Di più, la Commissione dovrà aiutare l'esecutivo a risolvere il problema posto ieri da Napolitano al vertice del Quirinale: «Non pongo veti sulla forma di governo, mi interessa che la scelta sia valutata attentamente, insieme alle conseguenze ordinamentali che deriveranno dalla riforma». Ma sono altre le variabili e le incognite che minacciano di far saltare la stagione costituente.

Francesco Verderami

4 giugno 2013 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_04/letta-no-fuga-avanti-verderami_da27693e-ccd7-11e2-9f50-c0f256ee2bf8.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Alfano ai falchi del Pdl: «Evitiamo giochi Enrico non ...
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2013, 05:08:58 pm
IL RETROSCENA

Alfano ai falchi del Pdl: «Evitiamo giochi Enrico non accetterebbe»

Lo sfogo del cavaliere dopo la sentenza: «Me ne vado in Sudafrica»


Primum sopravvivere, è la nuova parola d'ordine del Cavaliere. Ferito nell'onore e nell'immagine, avvilito per la condanna e per il modo in cui i media internazionali l'hanno riportata, diceva ieri di sé in terza persona: «Nessuno vorrà più fare una photo opportunity con Silvio Berlusconi».

La componente psicologica nell'ex premier è un fattore decisivo che alleati e avversari tengono in considerazione per cercare di intuire quali saranno le sue prossime mosse: il leader che cercava «il giudizio della storia» e che invece è stato giudicato da un tribunale, più della fine politica teme ora di non potersi riscattare. Ecco perché - subito dopo aver appreso la sentenza - è caduto in prostrazione, meditando addirittura l'esilio: «Me ne vado via, in Sudafrica». Ora si spiega cosa volesse dire Alfano l'altro ieri, quando ha riferito di una chiamata al «presidente», invitato a «tenere duro e ad andare avanti».

Sì, ma avanti dove? Perché è vero che Berlusconi ha dimenticato (in parte) le parole pronunciate nella concitazione del momento, ma resta l'incertezza sul futuro e regna il dubbio oltre al malcontento. Sebbene attorno al Cavaliere i falchi si diano un gran da fare nel teorizzare la rivincita attraverso il lavacro elettorale, sebbene chiedano incessantemente l'immediata capitolazione del governo, c'è un motivo se Berlusconi non ha ancora scelto.

Certo, le azioni di palazzo Chigi che possedeva si sono svalutate dopo la condanna, e l'iniziativa politica non è più funzionale alla sua linea di difesa: «Il governo - secondo l'ex premier - dovrebbe avviare subito la riforma della giustizia. Cosa impensabile con una simile maggioranza». Ma le controindicazioni sulla cessione del pacchetto azionario sono evidenti, anche perché ieri Napolitano l'ha messo sull'avviso. L'esternazione del capo dello Stato è stato tema di discussione durante il vertice a palazzo Grazioli.

Al Cavaliere è parso chiaro che il Quirinale non consentirebbe il ritorno alla urne in caso di crisi, «va tenuto nel conto che se fossimo noi a far cadere il governo non si tornerebbe a votare». E a quel punto l'isolamento all'opposizione sarebbe tutto fuorché splendido, perché un nuovo esecutivo - magari guidato dallo stesso Enrico Letta - verrebbe incaricato di varare la nuova legge elettorale e magari una nuova normativa sul conflitto d'interessi, senza dimenticare che il Cavaliere (privo ormai delle azioni di Palazzo Chigi) potrebbe essere nel frattempo dichiarato ineleggibile dalla giunta del Senato.

Così è stata presa in esame un'altra opzione, sempre orientata a ottenere le elezioni in autunno, l'idea cioè di indurre in tentazione la sinistra, di provocarla su Iva, Imu, sugli F35, in modo da scaricare sul Pd la responsabilità della crisi. «Io Enrico lo conosco», ha detto Alfano riferendosi al premier: «Si accorgerebbe subito del gioco e non ce lo consentirebbe. Perciò, se dobbiamo rompere, rompiamo subito. Ma facciamolo con chiarezza, dichiarando che per noi è politicamente insostenibile stare in questa maggioranza». Quella del vice premier non è stata un'istigazione al gesto, ma una richiesta di assunzione di responsabilità del gruppo dirigente, chiamato a prendere una decisione, caricandosi delle conseguenze.

Non c'è dubbio che spettava e spetta ancora a Berlusconi l'ultima parola, ma tutti in quel momento hanno cercato con lo sguardo Gianni Letta per sapere quale fosse il suo parere. «Non parlo», è stata la risposta: «Non parlo perché sono lo sconfitto». L'uomo delle eterne mediazioni è parso provato dal fallimento della sua linea di azione. Da tempo, peraltro, alle riunioni interveniva meno di quanto facesse prima, cioè poco. Il braccio destro del Cavaliere avverte su di sé il conflitto d'interessi familiare, e sente alle sue spalle quanti lo additano - insieme ad Alfano - del fallimento della «trattativa».

Ma quale trattativa: il fantomatico salvacondotto per Berlusconi? E chi lo avrebbe votato in Parlamento: il Pd? Un partito che si è suicidato alle elezioni per il Quirinale, affossando le candidature di Marini e Prodi, si sarebbe compattato al voto per salvare giudiziariamente il Cavaliere? E allora qual è la verità dei giorni in cui si è deciso di sostenere la nascita del governo di Enrico Letta? Perché proprio alla vigilia del giuramento, Fitto pose una domanda a Berlusconi durante una riunione di partito: «Presidente, c'è un accordo con Napolitano di cui non siamo a conoscenza?». «Nessun accordo», fu la risposta che sta agli atti.
Non è chiaro se dietro l'errore ci siano falsi miti, equivoci, incomprensioni o cattiva gestione politica della vertenza, è certo che il Cavaliere, fino a due settimane fa considerato il dominus del governo, cerca ora di sopravvivere. Resta da capire come. E il dubbio sta paralizzando tutto e tutti nel Pdl, compresa la delegazione di governo, che ieri ha disertato l'informativa del premier in Parlamento sul vertice europeo, e ancora a tarda sera non aveva stabilito se partecipare all'odierna riunione del Consiglio: d'altronde, senza un chiarimento sulla linea del partito, i ministri non intendono approvare eventuali provvedimenti che poi potrebbero essere attaccati in Parlamento dallo stesso Pdl.

Insomma è il caos. E il problema è che nel caos va comunque presa rapidamente una decisione: o si tenta subito la forzatura per arrivare alle urne o a novembre lo scenario sarà radicalmente diverso. Per capire cosa farà il Cavaliere è necessario comprendere la sua componente psicologica. Perciò Enrico Letta si è spinto l'altro ieri a chiamare Fedele Confalonieri, subito dopo la sentenza di condanna di Berlusconi. Più di Gianni Letta, il patron di Mediaset conosce le mille sfumature dell'animo di «Silvio», che è «preoccupato per come i giudici si sono accaniti anche sui testimoni del processo».

Francesco Verderami

26 giugno 2013 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_26/dubbi-del-cavaliere-su-pressioni-falchi-verderami_f16e26a4-de21-11e2-9903-199918134868.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Si allontana l'ipotesi del voto
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2013, 11:57:33 pm
Dietro le quinte L'«ingorgo» degli appuntamenti europei

Si allontana l'ipotesi del voto

Il nodo della sentenza sul Cavaliere

L'unico (vero) rischio potrebbe venire dalla decisione su Mediaset


ROMA - Tra «cabine di regia», «vertici di maggioranza» e «verifiche di governo», la politica sembra davvero tornata indietro di trent'anni. E non c'è dubbio che ai tempi della Prima Repubblica, con un esecutivo precario, partiti in conflitto e gruppi parlamentari in rivolta, si sarebbe aperta la crisi e probabilmente si sarebbero tenute anche le elezioni. Ma rispetto al passato, oggi non sono alle viste né la caduta del governo né il voto anticipato. Il primo ad averlo capito è Renzi, il cui nervosismo testimonia la consapevolezza di chi sa che la strada per le urne è sbarrata, di chi è consapevole di avere un unico alleato per ottenerle: Berlusconi.

Solo il Cavaliere potrebbe in teoria essere tentato di far saltare il banco, qualora in autunno la Cassazione confermasse la sentenza di condanna sul caso Mediaset. Se non fosse che la «golden share» di cui dispone, già adesso sarebbe difficile da usare e ancor di più lo sarebbe in autunno, quando è previsto lo show down giudiziario. Per allora, infatti, alle difficoltà politiche si aggiungerebbero impedimenti tecnici.

Oltre a Napolitano, l'ostacolo sarebbe rappresentato dal voto europeo. La direttiva comunitaria ha fissato tra il 22 e il 25 maggio 2014 le date per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo nei Paesi dell'Unione: un intralcio di fatto insormontabile per chi mira alla fine anticipata dell'attuale legislatura. Ragioni procedurali non consentirebbero infatti l'accorpamento delle Politiche con le Europee, se è vero che esiste un solo precedente, nel giugno del 1979, quando comunque i due voti furono sfalsati di una settimana. Come non bastasse, lo «scudo» del semestre italiano di presidenza europeo dell'anno prossimo allungherebbe la vita al governo fino alla primavera del 2015.

Per questo motivo Renzi scalpita, perciò ripone le ultime speranze in Berlusconi. Altrimenti Letta sarebbe «condannato» ad andare avanti e potrebbe diventare un temibile competitor nella sfida elettorale per Palazzo Chigi. In modo speculare, i falchi del Pdl vedono in questa prospettiva il definitivo tramonto politico del Cavaliere, perciò nel Pd come nel Pdl gli «stimolatori» del governo cercano l'incidente per sovvertire il gioco e bucare l'ombrello protettivo del Colle.

I focolai in questa fase non si contano, come gli incendi boschivi d'estate. Ad appiccarne uno (inconsapevolmente) era stato Monti, ma l'ultimatum del Professore - bacchettato da Napolitano - non ha prodotto danni. Anzi il premier è intervenuto in soccorso di Monti: la convocazione del vertice di domani è stato un modo per tener da conto il senatore a vita, criticato anche dai dirigenti di Scelta civica per la sua sortita. «Non ci sono alternative al governo», sostiene infatti il capogruppo al Senato Susta, che per sgombrare il campo da interessi personali di Monti, finisce quasi per confermarli: «Semmai aspirasse a incarichi internazionali, comunque gli sarebbe indispensabile l'appoggio del governo».

Più pericolose sono le incursioni che vengono dal Pd e dal Pdl. Lo scontro sull'elezione della Santanchè alla vicepresidenza della Camera è insidioso, per questo Alfano vuole depotenziarlo, perciò da tempo - mentre continua ad assicurarsi il voto dei centristi - sta cercando un compromesso con i Democratici. Letta e Franceschini sono dell'operazione, ma si scontrano con la realtà di un partito che è stato capace di azzoppare Marini e Prodi nella corsa al Quirinale, e che difficilmente si può ricompattare nel voto per la pasionaria del Cavaliere.

Al tempo stesso il vicepremier ha intuito che nel Pdl gli avversari della Santanchè vorrebbero per lei la stessa sorte che sotto sotto si augurano anche i falchi, desiderosi di poter fare di «Daniela» una martire delle larghe intese, la Giovanna d'Arco con cui abbattere il governo e gli attuali equilibri nel partito. Ecco il motivo per cui Alfano lavora per spegnere le fiamme, mentre un altro focolaio rischia di provocare un incendio sul fronte delle riforme, con il ministro Quagliariello accerchiato dalle fiamme di Bondi, Matteoli e Fitto. In queste condizioni, ai tempi della Prima Repubblica di sicuro si sarebbe già aperta la crisi e probabilmente si sarebbe andati alle elezioni. Allora, non oggi.

Francesco Verderami

3 luglio 2013 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

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Titolo: Francesco VERDERAMI Le pressioni della base sul Pd per rompere l'alleanza
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2013, 09:53:24 am
L'attesa del centrodestra.

Le pressioni della base sul Pd per rompere l'alleanza

Le «minacce» alle larghe intese e quella finestra elettorale a ottobre

Il Cavaliere con i suoi accusa la Procura di Milano di dettare i tempi

Francesco VERDERAMI

ROMA - Il giorno del giudizio universale è più vicino, ora che è stata fissata la data per la sentenza su Silvio Berlusconi. E la celerità, che ha colto tutti di sorpresa, non ha comunque cambiato il copione dei protagonisti né il canovaccio di una drammatica storia che va in scena da venti anni e ora sembra arrivata all'ultima replica. «È stata la procura di Milano a dettare la decisione della Cassazione», sostiene il Cavaliere. Ed è un già detto, come quello di Enrico Letta, secondo cui «sul governo non ci saranno conseguenze»: un mantra per il premier che cerca di esorcizzare il rischio della crisi, qualora il leader del centrodestra venisse definitivamente condannato.

La trama insomma sembra svilupparsi senza variazioni, ripetitiva e dunque noiosa, se non fosse che l'evento potrebbe far collassare l'intero sistema, già in preda alle prime convulsioni. Con un partito, il Pdl, scosso e frastornato, che è accecato dall'ira verso le «toghe politicizzate» quasi quanto il suo capo, e medita ciò che medita da sempre, le manifestazioni di piazza, i girotondi attorno ai palazzi di giustizia e alla Cassazione, le dimissioni di massa dal Parlamento, la crisi di governo; denunciando quel che Berlusconi per ora non può denunciare, e cioè la manona internazionale, il golpe nazionale, i complotti editorial-giudiziari.
Tutto già detto, tutto già previsto, come nel finale di una partita a scacchi: con la condanna del leader, il voto del Senato che lo dichiara decaduto, la sentenza che lo rende ineleggibile. Un atto di guerra a cui rispondere dichiarando anzitempo guerra, con la fine del governo e il disperato tentativo di arrivare alle urne prima dello scacco matto giudiziario. In effetti la finestra elettorale è formalmente ancora aperta, lo sarebbe anche a fine luglio quando è prevista la sentenza, consentendo il voto per metà ottobre. I calcoli sono stati fatti ieri a palazzo Grazioli, davanti a un Berlusconi a cui l'avvocato Coppi ha imposto il silenzio, esponendosi mediaticamente come mai aveva fatto nella sua carriera forense, proprio per evitare che il suo assistito si esponesse.


Resta da capire, e non è poco, se davvero l'esito (giudiziario) è scontato. Così come resta da capire, e non è poco, se davvero l'esito (politico) sarebbe altrettanto scontato, se il tentativo del Pdl di forzare la mano per ottenere le urne andrebbe a segno, data la contrarietà del Quirinale. E dire che il copione della legislatura era stato studiato fin nei dettagli, sotto la regia di Napolitano: prevedeva l'orizzonte del 2015 per il governo «di servizio», le riforme costituzionali, una nuova legge elettorale. E non c'è dubbio che la buona volontà del premier di portare a compimento la missione ci fosse e ci sia ancora, se è vero che ieri sera - nonostante la tempesta giudiziaria fosse già iniziata - Letta ha assicurato la cancellazione dell'Imu sulla prima casa, rendendo pubblica la promessa fatta a Berlusconi.
Ma sul Colle c'è grande preoccupazione, anche perché tutto sembra tramare contro l'esperimento delle «larghe intese», dentro e fuori i confini nazionali, visto che ieri l'ineffabile agenzia di rating S&P ha deciso di declassare l'Italia proprio mentre si intravvedevano i primi segnali di ripresa economica. Non è detto però che il finale giudiziario sia già scritto, siccome nel Palazzo c'è una scuola di pensiero secondo la quale l'accelerazione del giudizio su Berlusconi da parte della Cassazione sarebbe prodromica a una sentenza benevola. E comunque non è detto che - a fronte di una condanna del Cavaliere - il governo cadrebbe per mano del centrodestra.
Ecco l'unica variante di un copione mandato ormai a memoria dagli attori politici e dal Paese. E se, invece del Pdl, fosse il Pd a staccare per primo la spina a Letta, qualora Berlusconi capitolasse? Ieri, per evitare di far salire ulteriormente la tensione, i dirigenti democrat non hanno rilasciato commenti. Solo la Bindi ha rotto la consegna del silenzio, e la sua critica alle dichiarazioni dei ministri pdl solidali verso il Cavaliere è parsa anche un contropelo al premier. Questa sortita è la spia di un sentimento ostile alle «larghe intese» che nel Pd non si è mai sopito, e che potrebbe risvegliarsi se il leader del centrodestra venisse definitivamente condannato.


In quel caso, fino a che punto lo stato maggiore democratico riuscirebbe a reggere le pressioni della base che chiedesse di rompere con il partito di Berlusconi? Quanto a lungo il Pd potrebbe resistere all'offensiva dei social network, ai girotondi su internet e nelle piazze? «E chi - si chiede Fioroni - avrebbe interesse a cavalcare tutto questo per fini personali?». Il dirigente democrat - senza mai citarlo - evoca Renzi, ormai lanciato verso palazzo Chigi e che nell'eventuale sfida elettorale si troverebbe davanti un centrodestra orfano del leader storico. Fioroni non va oltre, aggiunge solo che «per fortuna abbiamo un capo dello Stato a cui stanno a cuore gli interessi del Paese e non gli interessi particolari».
Si torna così sempre a Napolitano, considerato il garante di un sistema che rischia di crollare. Il giorno del giudizio universale si avvicina e non è detto che il copione sia scontato. Di certo non ci saranno altri rinvii a una sentenza che non riguarda solo Berlusconi.

10 luglio 2013 | 7:18
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da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_10/berlusconi-minacce-larghe-intese_1691dd10-e91f-11e2-a2a0-aaafeae20fe9.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi: con una condanna le larghe intese finirebbero
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2013, 10:53:50 am
Retroscena

Berlusconi: con una condanna le larghe intese finirebbero

E ai suoi dice: fate i preoccupati, non gli arrabbiati

Lupi: è chiaro che accadrebbe con una sentenza avversa

Francesco Verderami

ROMA - L'Italia è al buio. C'è il buio oltre la sentenza giudiziaria che verrà emessa a fine mese dalla Cassazione su Berlusconi, e c'è il buio oltre il verdetto economico che è stato pronunciato l'altro ieri da Standard & Poor's sul rating nazionale. E per quanto distinti e distanti, questi due giudizi richiamano alla memoria l'inizio degli anni Novanta, la fine della Prima Repubblica, la crisi che investì il Paese e la perdita di asset strategici finiti all'estero. Perciò non sono sfuggiti alle massime cariche dello Stato alcuni particolari delle due vicende: il fax inviato due giorni fa alla Cassazione dalla Procura di Milano sui tempi di prescrizione del processo Mediaset, così come la decisione di S&P di declassare l'Italia nel bel mezzo della settimana e non il venerdì sera, a mercati chiusi, come solitamente avviene. Uno «schiaffo» che non poteva passare, e non è passato, inosservato.


Saranno solo coincidenze, ma è evidente la pressione sul governo delle larghe intese, che nel Pdl come in un pezzo del Pd è definita «ostilit à». Così come sono chiari i rischi della crisi di un sistema che si approssima al bivio di fine mese, quando si capirà se l'esecutivo andrà avanti ancora per due anni o se capitolerà per lasciar spazio alle urne in ottobre. Chi ha in mano il gioco è chi di fatto lo sta subendo, cioè il Cavaliere: dovesse venire definitivamente condannato non ci sarebbero margini per una prosecuzione della legislatura. Perciò non si capisce l'accanimento di un pezzo del Pdl alle riunioni dei gruppi parlamentari contro la presenza al governo. Ci ha pensato Lupi a sgombrare il campo dai soliti sospetti. «Guardate che il problema non esiste», ha detto il ministro: «Se il 30 luglio ci fosse una sentenza avversa a Berlusconi, è chiaro cosa accadrebbe». Anzi è scontato.

Siccome - dopo un eventuale verdetto negativo della Corte - il Senato sarebbe chiamato a esprimersi con la «presa d'atto» per estromettere il Cavaliere da Palazzo Madama, non c'è dubbio che nel voto Pd e Pdl si dividerebbero. E quell'atto politico sul leader del centrodestra non consentirebbe di proseguire l'esperienza delle larghe intese. Il resto è propaganda, mista a disinformazione. Come la storia messa in giro ad arte da sedicenti berlusconiani, che il loro capo - in presenza di condanna - farebbe cadere il governo sull'economia, con l'appoggio di Renzi. In realtà Sua Emittenza - se potesse - farebbe di tutto per garantire lunga vita alle larghe intese, per sconfiggere quella che definisce la «lobby mediatico-giudiziaria» e mettere la sordina al sindaco di Firenze, impedendo ciò che teme di più oltre alla perdita della libertà personale: ovvero «l'avvento della sinistra al potere per i prossimi quindici anni».
In attesa del verdetto, il Cavaliere ha adottato - per usare un'espressione di Quagliariello - «lo stesso atteggiamento di Togliatti dopo l'attentato»: fa la parte del leader responsabile, a fronte di un partito in armi. E quando ieri un dirigente del Pdl gli ha chiesto se «dobbiamo fare la parte degli arrabbiati o quella dei preoccupati», Berlusconi ha risposto: «Quella dei preoccupati». Avanti nella mobilitazione, insomma, ma con giudizio. Anche perché il finale di partita non è ancora scritto, e la decisione della Cassazione di incardinare il procedimento per poi lasciare il tempo alla difesa di prepararsi è stato interpretato come un segnale positivo.

Semmai le riunioni dei gruppi parlamentari berlusconiani, autentiche sedute di autocoscienza collettiva, hanno reso l'idea dello stato in cui versa il partito, ricordando - a chi li ha vissuti - gli ultimi incontri della Dc prima dell'implosione: «E se il Cavaliere dovesse andar via - ha commentato il democristiano Rotondi - non ci sarebbe nemmeno il tempo di scambiarci tra noi i numeri di telefono». Ecco perché, come ha spiegato Lupi ai colleghi di partito, «non esiste un problema di governo, esiste un problema di democrazia». Su questo punto Alfano, sempre più nelle vesti di segretario, nel tentativo di tenere unito il Pdl ha avvisato che «quanto faremo dal 30 sera, qualunque strada prenderemo, andrà costruita in questi giorni, così da formare un'opinione nel Paese. Perché il 30 sera potrebbe avvenire una cosa senza precedenti, e cioè che una democrazia viene privata di un leader. Il nostro leader».

11 luglio 2013 | 8:18
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da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_11/attesa-di-Berlusconi-con-una-condanna-le-larghe-intese-finirebbero_27171e76-e9f0-11e2-8099-3729074bd3db.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il Cavaliere torna a sperare (anche) nel modello Milan
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:05:24 am
Il retroscena Il veto del nuovo legale su qualsiasi iniziativa pubblica di «sostegno» organizzata dal popolo del Pdl

Il Cavaliere torna a sperare (anche) nel modello Milan

I fedelissimi dell'ex premier rievocano il destino rossonero per alleggerire l'attesa


ROMA - Non è solo questione di giurisprudenza e di ragion di Stato, di diritto e di politica. Alla fine Berlusconi spera di cavarsela grazie anche al «fattore c». Perché la fortuna serve, in tutti i campi, tanto che ieri l'argomento è stato servito alla tavola rotonda del Cavaliere, per sostituire il solito menù a base di codici. D'altronde negli ultimi tempi il leader del Pdl ha spesso evidenziato nelle discussioni una insopprimibile esigenza di cambiar discorso, per evadere dalla stressante attesa del verdetto della Cassazione e per trovare nei suoi trascorsi vincenti un appiglio positivo. Certo, evocare la buona sorte per vicende passate è - inconsciamente - una sorta di consuntivo, di fine bilancio.

Ma i commensali l'hanno assecondato, ripescando dal passato un evento in cui il «fattore c» è stato senza dubbio un decisivo fattore di svolta. Senza l'aiuto della dea bendata, infatti, probabilmente non ci sarebbe stata l'epopea rossonera, quella che ha portato Berlusconi a diventare il presidente della società di calcio più titolata al mondo. Se a Belgrado non fosse calata una fitta nebbia la sera del 9 novembre 1988, il Milan - sotto nel punteggio e inferiorità numerica a mezz'ora dalla fine - sarebbe stato eliminato dalla Stella Rossa in Coppa dei Campioni. L'assenza di visibilità mutò il corso degli eventi, perché costrinse l'arbitro a sospendere il match. E il giorno seguente - quando venne rigiocata la partita - il risultato consentì al Milan di passare il turno e di vincere il torneo.

Quel ricordo ha imposto la fortuna (definita in termini prosaici durante il pranzo) come elemento da tenere in debito conto nella valutazione che oggi farà la Corte. O quantomeno è stato questo il divertito convincimento di chi, a tavola, ha cercato insieme a Berlusconi di esorcizzare il giorno del giudizio e la sentenza. Chissà come l'avrebbe presa il professor Coppi, che in quelle stesse ore si preparava alla difesa in Cassazione. Di sicuro l'ha presa male quando ha saputo che altri stavano preparando per l'indomani una manifestazione di sostegno al Cavaliere davanti palazzo Grazioli.

E poco importa quali siano state le argomentazioni del suo cliente, se è vero che ha fatto finta di cadere dalle nuvole, sebbene sapesse tutto. L'avvocato ha urlato che «non esiste» e Berlusconi - che avrebbe tanto desiderato consolare il proprio ego - ha dovuto assoggettarsi ai voleri del legale, l'unico che oggi riesce a gestire (faticosamente) il Cavaliere. Perché il leader del Pdl - sperando di cavarsela - può anche confidare nel «fattore c», ma un conto è immaginare la riedizione della partita di Belgrado, altra cosa è pensare di farla franca con l'espediente di Marsiglia, dove il suo Milan - sempre in Coppa dei Campioni - cercò ignominiosamente di sfruttare la rottura di un riflettore dello stadio per evitare la sconfitta sul campo. Con Coppi in panchina «non esiste», appunto.

Così a Berlusconi non è rimasto che far ritirare striscioni e claque, per aspettare il risultato di oggi. Nel frattempo la vecchia guardia aveva già lasciato la tavola rotonda del Cavaliere, da ore Confalonieri (a pranzo insieme a Gianni Letta) si era congedato dal leader del Pdl, forzandosi a ridere e a pensare positivo. Un modo anche per contrastare il clima funereo che sta ammorbando l'aria dell'amico di una vita, quella sequenza interminabile di telefonate dei pidiellini che sanno di condoglianze preventive, e a cui scaramanticamente il capo risponde dall'altro capo del telefono toccando ferro e facendo le corna: «State tranquilli, sono tranquillo. Al massimo, vorrà dire che presiederò le riunioni di partito dagli arresti domiciliari. Condannato o assolto, per me non cambia nulla».

Ecco, è sul «non cambia nulla» che in molti dubitano. Lo s'intuisce dal volto segnato dei ministri berlusconiani, dall'opinione - per una volta unanime nel Pdl - che una sentenza avversa non potrà essere politicamente gestita. Non solo perché non sono prevedibili le reazioni del Cavaliere, che pure fa sfoggio di saggezza patriottica, ma perché non sono nemmeno governabili le sette tribù democratiche, sette correnti già sul piede di guerra per il prossimo congresso del Pd. Perciò, pur di aggrapparsi a qualcosa, persino il premier (tifoso milanista) si è messo a confidare anche sul «fattore c». Ma siccome in serata i rossoneri ne hanno presi 5 dal Manchester City, tra i suoi ministri c'è chi ha preferito appellarsi ai santi. Il più citato è San Giorgio.


1 agosto 2013 | 7:40
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_agosto_01/il-cavaliere-torna-a-sperare-anche-nel-modello-milan-francesco-verderami_9de6a7aa-fa63-11e2-9aaf-71b689b7d489.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il Cavaliere resta solo con Gianni Letta «Cambio tutto se...
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2013, 11:12:51 am
Il retroscena La figlia Marina pronta a raggiungerlo

Il Cavaliere resta solo con Gianni Letta «Cambio tutto se mi assolvono»

La battuta sull'ipotesi di condanna: in quel caso vi darò l'indirizzoa cui mandarmi le arance


Francesco Verderami

ROMA - Se è vero che davanti alla Suprema corte si sta consumando una normale causa di Cassazione, è altrettanto vero che la causa contro «Berlusconi e altri» è un affare di Stato. Ecco perché attorno al processo si affannano vertici istituzionali e politici, che da tempo vegliano e per tempo hanno operato con discrezione in modo da evitare il collasso del sistema. E non c'è dubbio che se i giudici decidessero per il rinvio in Appello con annullamento della sentenza, l'esito della causa verrebbe accolto con un sospiro di sollievo in gran parte dei palazzi della politica, di sicuro in quelli che contano, compreso Palazzo Chigi.

È assai probabile che ieri l'argomento sia stato affrontato da Berlusconi con Gianni Letta, l'unico che - dopo l'incontro della sera prima con Alfano - abbia avuto accesso alla residenza del Cavaliere fino al tardo pomeriggio. L'isolamento dell'ex premier, voluto anzi desiderato, è stato violato solo dai suoi legali che dalla Cassazione lo tenevano informato sullo svolgimento della causa. L'intervento del relatore aveva fatto ben sperare Berlusconi. La requisitoria del pg invece è stata vissuta in modo assai pesante, specie per quel passaggio in cui l'accusa lo ha definito «l'ideatore del meccanismo di frodi fiscali»: «Su questa frase i giornali mi massacreranno», ha commentato il Cavaliere, che tuttavia non ha smarrito la speranza infusagli dal professor Coppi.

Come un leone in gabbia, il leader del centrodestra ha continuato a tormentarsi. Un sentimento condiviso con la figlia Marina, pronta a raggiungerlo a Roma per la sentenza, e che - al pari del padre - è stanca delle tante interpretazioni, delle tante conclusioni a cui potrebbe giungere il processo e di cui ha sentito discutere negli ultimi tempi: che facciano presto, non se ne può più di questa attesa snervante. È evidente che la componente umana in questo affare di Stato ha un peso, e Berlusconi (Silvio) ne porta il carico maggiore, sebbene gli effetti si riprodurrebbero sull'intero sistema. Un verdetto che riportasse il caso Mediaset in Appello, garantirebbe a Letta (Enrico) una navigazione relativamente più tranquilla alla guida del governo, una condanna del Cavaliere gli spalancherebbe invece sotto i piedi le porte dell'inferno.

Politicamente, in caso di sentenza avversa, il capo del Pdl ha più volte detto che terrà «fede alla parola data», che cioè non farà mancare l'appoggio all'esecutivo di «larghe intese». Per certi versi sarebbe una mossa obbligata, siccome la crisi porterebbe al caos e spetterebbe al Cavaliere pagarne il conto. Ma a Pa alazzo Chigi come nel partito di Berlusconi si rendono conto che una cosa è ragionare a freddo, un'altra è affrontare la questione dopo un verdetto che espellerebbe il leader del centrodestra dal Parlamento. I ministri del Pdl devono aver intuito che il Cavaliere non chiederebbe mai le loro dimissioni, che forse (forse) si aspetterebbe da loro un gesto. A meno che...

A meno che proprio Berlusconi, tenendo a freno l'istinto, decidesse di non mollare la presa sul governo, impedendo mosse avventate come ha fatto in questa ultima fase: così toccherebbe sempre e solo a lui l'ultima parola. D'altronde, se ai tempi di Monti il saldo politico è stato negativo, con Letta (Enrico) il saldo per ora è positivo, come testimoniato dai sondaggi. Se questa fosse la decisione, qualora si avverasse la peggiore delle ipotesi, il Cavaliere manterrebbe il profilo «responsabile» che si è dato, scaricando sul Pd l'eventuale responsabilità dello strappo. E Letta (Enrico) sa che il suo partito difficilmente potrebbe reggere: come farebbe infatti la «ditta» ad andare a congresso mentre è ancora alleato con un Pdl il cui capo è stato condannato? Come potrebbe gestire allo stesso tempo l'assedio di Renzi e l'accerchiamento di una base già in rivolta, senza correre il rischio della spaccatura?

Ecco perché la causa in Cassazione contro Berlusconi è un affare di Stato. Il resto è attesa, e nell'attesa il Cavaliere ha già anticipato le sue prossime mosse ai dirigenti del Pdl. «Se mi assolvono, facciamo Forza Italia. Se mi condannano, vi darò l'indirizzo a cui mandarmi le arance». Comunque vada cambierà tutto. Berlusconi è pronto a cambiar tutto, nel partito, nell'entourage, nello staff legale. Lo ha deciso da quando davanti a lui il professor Coppi ha fatto il Bartali, e gli ha detto che era tutto sbagliato tutto da rifare, nell'approccio processuale come in quello politico.

31 luglio 2013 | 9:32
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_luglio_31/cavaliere-resta-solo-letta-cambio-tutto-se-mi-assolvono_eed571e4-f9b1-11e2-b6e7-d24d1d92eac2.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il Cavaliere e la grazia .
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2013, 07:30:01 pm
Sette giorni

Il Cavaliere e la grazia.

I figli: la chiediamo noiLa strategia dell'isolamento

Il Cavaliere congela i video messaggi agli italiani e rinuncia alle uscite pubbliche. La figlia Marina guida i fratelli



Per anni gli hanno detto che era entrato in politica per salvarsi, ora gli dicono che deve uscire dalla politica per salvarsi. Lui forse lo farebbe. O forse no. Di certo Berlusconi resiste ancora all'idea di chiedere la grazia, e medita di scontare una pena che considera ingiusta.
Se il Cavaliere recalcitra, è un po' perché non vorrebbe sottomettersi a un atto che sa di contrizione, un po' perché vorrebbe che la clemenza si estendesse all'interdizione, che lo atterrisce quanto la decadenza da parlamentare e l'ineleggibilità. Riottoso e volubile nell'umore, non riesce a trovare una via d'uscita e si dimena. Marina, preoccupata per i contorcimenti del padre, vorrebbe che il supplizio finisse, perciò ha riunito fratelli e sorelle in modo da convincere il genitore: «Se non vuoi firmarla tu la grazia, lo facciamo noi. Siamo pronti».

Un moto filiale, una forma di pressione che accomuna la famiglia e gli amici più intimi, preoccupati che Berlusconi possa infine accettare i suggerimenti di quanti in queste ore spingono il leader del Pdl a rompere gli indugi e a non cedere, «perché così ti fai fregare, Silvio». Suggerimenti «interessati» secondo la primogenita del Cavaliere, che tuttavia non intende invadere la sfera decisionale del padre e resta (per ora) un passo indietro.
Il fatto è che Berlusconi teme di rimanere senza scudo giudiziario ma anche senza voce, «e io voglio poter parlare ancora agli italiani». È un'angoscia, la sua, pari quasi alla perdita della libertà personale e alla prospettiva di finire nel mirino di una nuova offensiva giudiziaria appena fuori dal Parlamento. È un'ansia claustrofobica, è la paura dell'isolamento, in parte mitigata dalle telefonate che ha ricevuto negli ultimi giorni da parte di esponenti politici europei, rappresentanti di quel mondo che ha frequentato per venti anni, e che si complimentano con lui per il modo in cui ha sostenuto la nascita delle larghe intese e lo esortano a non far saltare il governo.


Saranno stati anche gli effetti di questi colloqui, fatto sta che nell'ex premier sta iniziando a prevalere l'idea di restare fermo alla parola data, di mantenere la linea di sostegno al gabinetto Letta, di separare insomma il proprio destino da quello dell'esecutivo. Così ha deciso per il momento di chiudere nel cassetto il video messaggio che aveva già registrato, di annullare gli appuntamenti pubblici che aveva già in programma. L'ha fatto come si fa con una pistola nella fondina, con il dito sempre pronto sul grilletto.
Perché come sostiene Brunetta - che ieri è andato ad Arcore a trovarlo insieme all'altro capogruppo Schifani - se lunedì in giunta al Senato il Pd facesse precipitare la situazione, allora sarebbe il finimondo. L'auspicio nel Pdl è che il Colle si adoperi per agevolare non un'intesa ma quantomeno la disponibilità dei Democratici all'ascolto delle motivazioni in base alle quali, il centrodestra contesta l'applicazione della legge Severino al «caso Berlusconi». Il punto è che il Cavaliere vivrebbe come un'onta la decadenza prima dell'inizio della pena e si trattiene dall'esternare l'indignazione che cova dentro di sé verso tutto e verso tutti: «Perché al di là delle inimicizie politiche, dovrebbe essere la sinistra a impedire che si consumasse questo delitto giuridico».

La politica sta navigando pericolosamente tra Scilla e Cariddi e, mentre l'ex premier aspetta di vedere se il Pd cederà alle sirene del giustizialismo, intanto resiste alle sirene di chi gli consiglia l'apertura del conflitto, la resa dei conti in Parlamento, la mossa per andare subito alle elezioni. «Ma mi conviene rompere?» riflette il Cavaliere dopo aver ascoltato i suggerimenti di Confalonieri, che ha visto aprirsi «una breccia» e confida si possa trovare un'onorevole soluzione. Come un paziente a cui viene controllata continuamente la pressione, così i Berlusconi e i berlusconiani verificano ora per ora l'umore del Cavaliere, i suoi ultimi convincimenti.
Attorno a lui si muovono gli avvocati che studiano i ricorsi del cliente, i figli che sorvegliano le mosse del padre, i dirigenti di partito che si alimentano delle parole del leader e ne alimentano le diverse tendenze. Il bollettino viene aggiornato senza sosta. Un po' come è stato aggiornato quel videomessaggio che nella prima stesura era dirompente e nella seconda salvaguardava sì il governo ma conteneva un attacco forsennato a Magistratura democratica insieme alla nascita del nuovo partito: «È come se Forza Italia alle elezioni dovesse battersi contro Md e non contro il Pd» racconta chi l'ha visto.
La prossima settimana si capirà se il nastro sarà mandato al macero o verrà utilizzato, con quel che ne conseguirebbe. Tutti sono in attesa e circondano il Cavaliere, che in fondo vive già da sorvegliato.

7 settembre 2013 | 8:12
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_07/cavaliere-grazia-figli_078f65d6-1777-11e3-8a00-11cf802b0067.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI La scelta di Berlusconi: restare in trincea
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2013, 04:50:55 pm
Dietro le quinte

Il Cavaliere: «Non ho ricevuto la solidarietà che mi aspettavo»

I sospetti e l'amarezza per la diplomazia con il Colle.

La scelta di Berlusconi: restare in trincea


ROMA - «Non ho ricevuto la solidarietà che mi aspettavo», dice il Cavaliere nel giorno in cui la Giunta del Senato innesca l'inesorabile procedura che lo porterà a decadere da parlamentare. La telecamera è spenta, l'ennesima e ultima versione del videomessaggio è già stata registrata. Ed è chiaro a chi si riferisce Berlusconi, che si mostra assai avvilito quando confida la propria amarezza a consuntivo di una trattativa finita come già pensava che finisse prima che iniziasse. Un mese e mezzo di diplomazia con il Colle - partita l'indomani della sentenza che l'ha definitivamente condannato - non ha prodotto gli esiti da lui sperati. L'assenza di «solidarietà» diventa così agli occhi di Berlusconi un ulteriore indizio che si assomma ad altri vecchi indizi, un castello di congetture che nella sua mente sono infine diventate la prova della «congiura» orchestrata ai suoi danni.

Una tesi che più volte Gianni Letta ha provato a smontare, confutando l'esistenza di una regia istituzionale volta ad accompagnarlo alla porta della politica. Insieme all'ex sottosegretario anche altre personalità hanno cercato di dissuadere il Cavaliere, spiegandogli come il meccanismo giustizialista che si è innescato da anni non è più ancillare alla sinistra ma si è messo in proprio, fino ad avere ormai un radicamento sociale autonomo. E per convincere il leader del Pdl sono state prodotte prove che dimostrerebbero la conflittualità di questo contropotere nei riguardi di chi tenta di arginarlo: dal trattamento mediatico riservato a Napolitano, fino alle recenti contestazioni subite da Violante alle feste del Pd.

Tutto inutile, Berlusconi è rimasto fermo nei suoi convincimenti se è vero che il videomessaggio è stato un modo per parlare a nuora perché suocera intendesse. Stavolta infatti la citazione delle toghe rosse braccio armato dei comunisti era un artificio retorico per celare il vero destinatario del suo discorso. In questa chiave assumono quindi un altro significato le parole del Cavaliere, dal ricordo di aver «bloccato nel '94 la strada alla sinistra», al passaggio in cui sostiene che «insistono nel togliermi di mezzo con un'aggressione scientifica attraverso il loro braccio giudiziario», fino a quella sorta di avviso al navigante: «Si illudono di essere riusciti a escludermi dalla vita politica. Non è un seggio che fa un leader».

La decadenza si approssima. Da ieri si è fatta di un giorno più vicina. Ma c'è un motivo se il capo del centrodestra non può né vuole fare un passo indietro, se non accetta la strada dell'esilio politico che gli è stata offerta - a suo giudizio - da chi «sta tentando di annientarmi»: è convinto che deve restare in trincea in nome della sua famiglia, delle sue aziende e del suo partito, dunque di se stesso. Berlusconi lo spiega senza veli quando la telecamera è ormai spenta: «Ho settantasette anni, e quelli che hanno la mia età hanno più vita alle spalle che vita davanti. Ma per uno come me non conta la qualità della vita che si ha davanti, conta quello che si è fatto nella vita che si ha alle spalle. Se ora mollassi lascerei distruggere tutto quello che ho costruito». Per l'imprenditore, l'uomo di sport, il leader politico che diceva di cercare «il giudizio della storia», è una fine «inaccettabile».

Così l'amaro consuntivo, l'avvilimento per la «solidarietà che non ho ricevuto» viene spazzato via da una battuta, innescata da una discussione sul suo prossimo futuro, sui mesi di pena che a breve dovrà iniziare a scontare. «Sette mesi e mezzo passeranno in fretta», dice sorridendo, in attesa di venire contraddetto. Infatti: «Dottore, in verità sono nove». E il Cavaliere di rimando: «Eh no, sono chiuso in casa dal primo agosto. Questo mese e mezzo me lo devono scontare». Risate. E la consapevolezza che la prigionia estiva di Arcore è stata solo un assaggio di ciò che lo attende, perché non sono gli arresti domiciliari o i servizi sociali ad angosciarlo, ma l'interdizione che Berlusconi vorrebbe trasformare in un pulpito da cui difendersi.

Lo scudo tornerà a chiamarsi Forza Italia. Ma il problema per il Cavaliere sarà trovare chi possa dar corpo alla sua voce, chi possa sostituirlo fisicamente sulla scena politica. Ed è lì che non riesce a trovare una soluzione, infastidito per di più dalla rissa di quanti sgomitano nel partito. Non trova un sostituto, perciò evita di impugnare la durlindana elettorale, attestandosi (per ora) nella trincea del governo delle larghe intese. Da dove continuerà a parlare a nuora perché suocera intenda, «perché io non me ne vado».

19 settembre 2013 | 8:26
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_19/non-ho-ricevuto-solidarieta-che-mi-aspettavo_83c970c2-20ed-11e3-abd6-3cb13db882d4.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi già studia tutte le mosse di Renzi
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2013, 04:37:28 pm
SETTE GIORNI

Registrazioni e sondaggi: Berlusconi già studia tutte le mosse di Renzi

Il leader pdl prepara la campagna elettorale: è un battutista, alla lunga stanca.

Il timore che sfondi nel centrodestra



Lo osserva, lo compulsa, lo vede e lo rivede nelle sue performance in tv. E naturalmente lo testa, in modo maniacale. Forse avrà commissionato più sondaggi lui su Renzi dello stesso Renzi. E sebbene il sindaco di Firenze svetti nei report di ogni istituto di ricerca, Berlusconi è convinto che non vincerà: «L'ho studiato, è solo un battutista che alla lunga stanca». Sarà perché l'hanno preso per matto molte volte nel suo partito prima di doversi ricredere, sarà perché alla fine il capo è sempre il capo, ma nel Pdl in molti iniziano a credere all'ultima profezia del Cavaliere, secondo cui per Renzi il destino si è ribaltato, e al contrario di un anno fa stavolta trionferà nel Pd ma perderà nel Paese. Forse servirebbe Esopo per raccontare questa conversione di Berlusconi, che pure era rimasto colpito dal giovanotto, capace di sbaragliare nella sua città il potente apparato della «ditta» e conquistare la poltrona di palazzo Vecchio. In effetti un principio di infatuazione ci fu, lo riconosce il Cavaliere, ricostruendo la storia del famoso pranzo di Arcore con l'esponente democratico: «Lo volli incontrare perché mi aveva incuriosito, e pensavo potesse essere una persona su cui investire. Scoprii invece che era solo un ambizioso».

MINACCIA - O forse l'uva era posta troppo in alto, se è vero che - subito dopo la vittoria di Bersani alle primarie del Pd - il leader del centrodestra disse che «la porta per Matteo è sempre aperta». Di certo la versione dell'appuntamento offerta da Berlusconi è diversa da quella che a suo tempo fornì Renzi, crocifisso per anni dai suoi stessi compagni di partito per il rendez vous riservato con «il nemico», che pure a maggio gli sbarrò la strada per palazzo Chigi, preferendogli Enrico Letta per le larghe intese. E ora che il governo inizia a vacillare, e tutti si tengono pronti in vista eventualmente delle urne, l'ex premier è tornato ad applicarsi sul rottamatore che promette di asfaltare il centrodestra e intanto cerca di asfaltare i suoi rivali nel Pd. Renzi è più di una minaccia, è un pericolo, il timore nelle file dei berlusconiani è che davvero riesca a sfondare nel loro territorio. E chissà se Berlusconi dissimuli per nascondere la sua preoccupazione, visto che persino Signorini - potente direttore del mondadoriano Chi - si è invaghito del sindaco di Firenze. In pubblico, cioè nelle riunioni riservate, il Cavaliere invita però alla calma, perché - a suo dire - «per ogni voto che Renzi cercherà di prendere al centrodestra ne perderà due a sinistra».

NUMERI - La sua tesi sarà il frutto dei sondaggi, magari confortati da una chiacchierata con D'Alema, comunque il capo del Pdl ritiene di essere nel giusto. La sua analisi si fonda sul fiuto ma anche - così dice - sui numeri, parte dal presupposto che il potenziale candidato premier sia vissuto nella pubblica opinione come una personalità divisiva, «anche nel suo stesso campo», e che la campagna elettorale - quando sarà - lo costringerà a muoversi nel recinto retorico della sinistra, vincolato dalla base e dalle strutture che sono la cinghia di trasmissione del consenso democratico. A quel punto - secondo Berlusconi - Renzi dovrà scegliere se indossare il giubbotto di Fonzie o la tuta di Cipputi. La cosa curiosa è che ne parla e si comporta come dovesse essere ancora lui a sfidare l'avversario, un dettaglio che non è sfuggito ad alcuni dirigenti del Pdl, preoccupati che i falchi si trasformino in sirene e lo convincano di potersi ancora presentare all'appuntamento delle urne. Non è dato sapere se davvero il Cavaliere coltivi questa idea, sicuramente non sottovaluta il competitore, tanto da avere portato avanti un piano in gran segreto, per porre un argine al tentativo di invasione del suo campo.

UOMINI DEL FARE - Così, oltre alle centinaia di pagine che fotografano Renzi e il suo rapporto con gli italiani, Berlusconi sta facendo testare una serie di personalità esterne alla politica, da lanciare quando verrà il momento delle urne, così da dimostrare che il centrodestra non è solo composto dall'apparato di partito, ed è capace di attrarre i famosi «uomini del fare». Nel frattempo tiene Renzi nel mirino, e ripete che «è solo un battutista». Chissà se in cuor suo teme di dover assaggiare l'uva e di scoprirne il sapore aspro della sconfitta. Per ora osserva le mosse del Pd, il modo scomposto con cui si approssima al congresso, e che - secondo i suoi amatissimi sondaggi - sta dando agli elettori l'impressione di un partito dove si litiga per spartirsi un bottino che si ritiene già dato per scontato, come se stessero già apparecchiando il pranzo per palazzo Chigi. Dimentica le risse nel suo partito Berlusconi, che è stato costretto a parlare (anche) per non far sentire i piatti che si rompono nel retrobottega del Pdl.

21 settembre 2013 | 8:36
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_21/berlusconi-renzi-sondaggi_676d9006-227e-11e3-b502-24e91794bc4d.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI E si riapre la diplomazia tra Colle e Arcore
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2013, 05:00:30 pm
Il Cavaliere non intende far cadere l'esecutivo ma va all'attacco dei Democratici

E si riapre la diplomazia tra Colle e Arcore

Berlusconi resiste all'idea della grazia considerata come un atto di sottomissione

 
ROMA - È vero, c'è da trovare oltre un miliardo e mezzo per tener fede al patto di stabilità sottoscritto con l'Europa. È vero, c'è da varare la legge di Stabilità per rinnovare il patto delle larghe intese. È vero c'è da garantire la stabilità di governo per rassicurare i mercati internazionali. Ma c'è un motivo se ieri Napolitano ha invitato Alfano al Quirinale, se il Cavaliere ha cambiato l'agenda degli appuntamenti a Milano e si è precipitato nella Capitale insieme alla figlia Marina, se Enrico Letta dagli Stati Uniti si è esposto sul «caso Berlusconi» anticipando che «alla fine si troverà una soluzione nel rispetto della legge».

Il fatto è che nel fine settimana le urla del Cavaliere avevano di nuovo profanato l'austero silenzio dei palazzi romani: «Viviamo in una democrazia dimezzata, il potere appartiene ormai a un manipolo di magistrati, e qui si discute di un punto di Iva?». L'approssimarsi della sua decadenza e il rischio che da Napoli o da Milano le procure possano chiederne l'immediata custodia cautelare, avevano portato il leader del Pdl a risalire sulle barricate contro «l'attacco delle toghe politicizzate». L'eco era giunta anche al segretario del Pd Epifani, che aveva chiesto notizie sul «nervosismo» dell'«alleato»: «Si sta preparando per caso ad aprire la crisi?».

Lo stesso interrogativo se l'era posto il capo dello Stato, che si è incaricato di ripristinare le comunicazioni ormai interrotte con il centrodestra, dopo un silenzio che si protraeva ormai da tempo e che era il segno evidente dello strappo consumatosi tra il Cavaliere e il Colle, ritenuto da Berlusconi la vera centrale dell'offensiva contro di lui. Se Napolitano ha mosso il passo, e se a sua volta Berlusconi ha evitato di farne altri, significa che qualcosa si sta muovendo. Ed è chiaro che il presidente della Repubblica vorrebbe stendere un cordone sanitario a difesa del governo e della legislatura.

Ma per quanto le diplomazie si adoperino, il tempo passa e tutto è ancora fermo al punto di partenza: Berlusconi non vuol saperne di chiedere la grazia, vissuta come un atto di sottomissione, e al tempo stesso dice di non voler fare cadere il governo, che però è minacciato - a suo avviso - dall'atteggiamento del Pd: prima con il voto sulla sua decadenza, e ora con altre scaramucce di confine, come lo scontro sulla legge per l'abolizione del finanziamento ai partiti e quello sulle presidenze delle commissioni bicamerali. «Se le prendano tutte quelle commissioni, e si votino da soli i presidenti», commentava ieri il capogruppo del Pdl Schifani, che alla delegazione democratica ha detto: «Non cadremo nelle provocazioni, facendo cadere il governo».

Ma l'«irrigidimento delle posizioni», per dirla con Epifani, non aiuta ad assecondare l'operato di Napolitano, al quale Alfano ha messo in evidenza le accelerazioni di un Pd che si avvicina al congresso. «E siccome nessuno di loro vuole andare a congresso alleato con me - è la tesi di Berlusconi - è chiaro che di qui all'otto dicembre cercheranno di rompere». Nella maggioranza, anche tra i centristi, si tenta di capire quale strada prenderanno i democratici, che si troverebbero - secondo le informazioni in possesso degli «alleati» - a un bivio: proporre a Renzi un accordo per farlo eleggere segretario, a patto che garantisca il governo Letta fino al 2015, con l'obiettivo così di logorarlo per riprendersi la «ditta» nel giro di due anni; oppure puntare subito alle urne, candidando Renzi a premier ma non da segretario, perché il congresso verrebbe nel frattempo rinviato.

Si comprende allora l'irritazione crescente del Colle, e si capisce meglio la mossa di Letta, la proposta del patto di semi-legislatura, che è un modo non solo per costringere il Pdl al chiarimento ma anche per depotenziare le manovre nel Pd, circoscrivendo gli effetti delle assise democratiche sul governo, fino quasi a parlamentarizzarle sulla legge di Stabilità, dove il premier si gioca il tutto per tutto. Insomma, i casi di un eventuale crac delle larghe intese potrebbero essere tanti, ma si riducono ad uno: il voto dell'Aula del Senato che estrometterà il Cavaliere dal Parlamento. Quel giorno quale sarà la reazione del Pdl?

L'incontro tra Napolitano e Alfano non ha sciolto il vero nodo politico. Perché in fondo un'intesa per evitare l'aumento dell'Iva fino a dicembre sembra a un passo, e così potrebbe essere anche per la legge di Stabilità, se la stabilità non fosse compromessa, e se - come chiede Epifani - «sui numeri, cioè sui conti dello Stato, ci fosse quella chiarezza che non c'è». Non è casuale la sottolineatura del segretario democrat, che pungola Saccomanni a «farsi carico di un problema finora sottovalutato: qual è il dato tendenziale per il 2014? Il 2,5 o il 2,8? Non è questione di poco conto per decidere come muoversi».

Sarebbe questo il vero problema, se non ci fosse l'altro, che tiene appeso tutto e tutti. E mentre l'Italia perde con Telecom un altro pezzo di argenteria, mentre nel Pd va in scena il gioco dello scaricabarile sul modo in cui ai tempi del centrosinistra venne privatizzato il colosso telefonico, Berlusconi aspetta di sapere quale sarà il suo destino. E intanto lavora a una grande convention per presentare i «volti nuovi» che sul territorio incarneranno la «nuova Forza Italia», e per rilanciarsi mediaticamente prepara un road show in giro per il Paese. Come se il 15 ottobre non dovesse accadergli nulla...

25 settembre 2013 | 7:17
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_25/e-si-riapre-la-diplomazia-tra-colle-e-arcore-francesco-verderami_8007c9b2-25a1-11e3-baac-128ffcce9856.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI - Quella telefonata tra il premier e Alfano...
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2013, 05:15:02 pm
IL COLLOQUIO

Quella telefonata tra il premier e Alfano

La complicata partita del Quirinale

Il presidente del consiglio Letta dagli Stati Uniti fa sapere: «Se scoppia il caos sono pronto a dimettermi anche da qui»


Non è uno strumento di pressione né tantomeno un'arma di ricatto, perché a Berlusconi era chiaro che il Pd non avrebbe mosso un dito per salvarlo dalla decadenza, tanto più ora che prepara l'Aventino. Più banalmente la decisione presa ieri è il riflesso istintivo di chi si sente perso e finisce per perdere anche quel che aveva conquistato nelle durissime sfide del Quirinale e del governo: il centro del ring politico. Ora dal ring il Cavaliere ha deciso di scendere, scorgendo proprio in Napolitano il suo più acerrimo nemico - così lo definisce - «perché è lui che mi vuol fare condannare». Ormai senza più freni inibitori, si trascina appresso un partito dilaniato dagli appetiti di potere, e dove - pur di non perdere posizioni - sono state le colombe a trasformarsi in falchi nell'ultimo vertice di palazzo Grazioli, precipitando una decisione che sarebbe dovuta maturare dopo il voto del 4 ottobre con cui il Senato accompagnerà il leader del centrodestra alla porta del Parlamento.

Eppure era stato Berlusconi, ancora fino alla scorsa settimana, a frenare l'impeto di chi voleva far saltare subito il banco, spiegando che «se facessi cadere il governo mi metterei contro il Quirinale, i poteri forti con i loro giornali, il Wall Street Journal , il Financial Times . E pure quelli del Ppe direbbero che avevano ragione a non fidarsi di me». Ma i fantasmi che non lo fanno dormire di notte hanno preso infine il sopravvento, e le ombre di nuovi provvedimenti giudiziari avversi si sono fatte carne quando gli hanno riferito che la procura di Milano avrebbe pronte numerose richieste di misure cautelari contro le «Olgettine», che si sarebbero macchiate di falsa testimonianza al processo Ruby pur di salvarlo dalla condanna. È stato a quel punto che non ci ha visto più. E ha tratto il dado. Il modo in cui l'ha fatto è stato se possibile più dirompente della stessa decisione, perché - scardinando le regole istituzionali - non ha preannunciato la scelta nemmeno al Quirinale. D'altronde, con il capo dello Stato - considerato il regista della congiura - i rapporti si erano ormai interrotti, e il tentativo di Napolitano di riavviare il dialogo, chiamando Alfano al Colle, non ha avuto effetto. Un indizio si era potuto cogliere già ieri mattina, alla festa organizzata in Rai per i novanta anni di Zavoli, e dove è stato notato come il presidente della Repubblica - premuroso con tutti gli ospiti - si è scambiato solo un gelido saluto con Gianni Letta.

Il botto ha preso alla sprovvista anche la delegazione dei ministri del Pdl, se è vero che Alfano ha saputo dell'accelerazione a cose fatte, di ritorno dalla sua visita in Piemonte al cantiere dell'Alta velocità. E il colloquio con Enrico Letta - dall'altra parte dell'Atlantico - è stato quasi una sorta di commiato. Perché il premier sa di non avere margini di manovra, sa che i falchi che militano nel Pd si accingono a chiedergli un gesto «per salvare l'onore tuo e del tuo partito». È un gioco scoperto, l'ha spiegato al suo vice prima di prendere la parola all'Onu, confidando che la riunione dei gruppi parlamentari del Pdl non ufficializzasse la decisione: «Angelino, se scoppia il casino io mi dimetto anche ad qui». Un'estrema forma di pressione, questa sì, che non poteva produrre effetti. E così è stato. Di qui la scelta del presidente del Consiglio di far finta di nulla, in attesa degli eventi. Perché ora bisognerà capire quanto potrà andare avanti la messinscena, ché di questo sotto il profilo tecnico si tratta, se è vero che le dimissioni dei parlamentari non provocano la crisi di governo né producono vuoti nelle Camere, siccome è previsto il subentro dei primi non eletti. Perciò Napolitano - che è il destinatario dell'offensiva politica - vuole smascherare i berlusconiani, caricati ieri sera da un capo che ha evocato il voto e la vittoria, sebbene tutti in quella sala - tra applausi e dimostrazioni di fedeltà - sapessero che tra un paio di settimane il Cavaliere sarà fuori dal Palazzo e che non avrà le urne.
 
In realtà, il primo a saperlo è proprio il Cavaliere, e non solo perché l'assenza di una riforma elettorale è garanzia di sopravvivenza della legislatura, ma soprattutto perché glielo ripetono settimanalmente i suoi amatissimi sondaggi, a mo' di filastrocca: il Paese non vuole la crisi, il Pdl pagherebbe duramente il conto della crisi, la crisi non risolverebbe comunque i suoi problemi giudiziari mentre acuirebbe i problemi sociali. Ma non c'è verso, almeno così sembra, per placare l'ansia di chi si sente ormai braccato e vittima di una «operazione eversiva», e che - vellicato da quanti nel Pdl temono per il proprio futuro - sembra aver deciso di indossare l'armatura e teorizza una «insorgenza civile», chiama a raccolta i parlamentari e dice loro: «Servono dimostrazioni di massa, dovete pacificamente portare la gente per le strade, nelle stazioni, negli aeroporti, per denunciare la perdita della democrazia». Toccherebbe al titolare dell'Interno la gestione dell'ordine pubblico, se non fosse che Alfano - prima di questo problema - ne ha un altro, tutto politico, a lui evidente senza che Schifani ieri sera lo enunciasse rispondendo a una domanda dei cronisti: «Le dimissioni dei ministri dal governo? Chiedetelo a loro».

È scontato che il voto del Senato sulla decadenza di Berlusconi porrà i ministri dinnanzi a una scelta che appare scontata, e che stravolge lo schema fin qui previsto, quello del partito di lotta e di governo, che tiene un piede nell'esecutivo, attacca il Pd sull'economia e lo stressa per verificarne la tenuta in vista del loro congresso. Così invece il Pdl si assumerebbe la paternità della crisi. Ma tant'è. «Siamo un partito - dice Alfano - che non farà l'errore dei partiti della Prima Repubblica. Noi non ci divideremo, resteremo stretti attorno al nostro leader». Berlusconi esorta i suoi parlamentari all'«estremo sacrificio»: «Abbiamo contro tutti. Siamo solo noi e dieci milioni di elettori». Delle larghe intese restano macerie, è il Cavaliere a citare il de profundis: «Quelli del Pd dicono che l'alleanza con noi è contro natura e se ne vergognano. Ci dovremmo vergognare noi di loro». Fine.

26 settembre 2013 | 7:25
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_26/verderami-telefonata-premier-alfano_1fa5e486-2665-11e3-a1ee-487182bf93b6.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi: avevo pensato di mollare Ma adesso andrò...
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 04:57:49 pm
VISTO DA ARCORE

Berlusconi: avevo pensato di mollare

Ma adesso andrò fino in fondo

Irritazione verso il Colle. «La Cassazione, un plotone contro di me».

Il Cavaliere: un progetto eversivo, vogliono cancellarmi


ROMA - «Molti nemici molto onore» sbotta infine Berlusconi, come a volersi strappare di dosso quella camicia di forza che per mesi aveva indossato controvoglia. E non è chiaro se non intende arretrare perché ormai non può più farlo, di certo - siccome considera Napolitano «il regista della congiura» - non rinnega la sua tesi sull'«operazione eversiva orchestrata ai danni del leader politico del centrodestra», anzi la sostanzia, innescando un conflitto istituzionale senza precedenti. Così, dalla barricata su cui si è posto, replica con pari durezza alle parole del presidente della Repubblica, sostenendo che è «legittimo, perché veritiero, parlare di colpo di Stato». Perciò ieri ha ordinato ai capigruppo del Pdl di rispondere alla nota del Quirinale, siccome sostiene di avere «le prove di ciò che dico»: «Mi limito per ora a ricordare solo il modo in cui è stata composta la sezione feriale della corte di Cassazione, apparecchiata come un plotone di esecuzione contro di me. Di quella sentenza tutta la magistratura dovrebbe vergognarsi».

Non è più tempo di galateo istituzionale, «basta con questa storia delle etichette», commenta il Cavaliere, che a tutti si rivolge con un moto di fastidio quando si affronta l'argomento. Ne sa qualcosa Gianni Letta, che l'altro ieri - appellandosi proprio all'etichetta e al senso dello Stato - aveva tentato in extremis di convincere Berlusconi a bloccare l'operazione delle dimissioni in massa dei parlamentari, ed è stato sbrigativamente liquidato con toni molto aspri. Il punto è che il leader del Pdl ritiene di avere avuto «fin troppo senso dello Stato», mentre veniva messa in atto l'«operazione eversiva» di cui si sente vittima. Ha il Quirinale nel centro del mirino: «Sul lodo Alfano non è intervenuto, sul legittimo impedimento non è intervenuto, sull'atto di clemenza è meglio lasciar stare. E allora poi non si può lamentare per quello che sta accadendo». Nei suoi ragionamenti, ormai senza più freni, chiama in causa anche il presidente del Consiglio: «Dice che non poteva fare nulla? Poteva almeno risparmiarsi certe dichiarazioni».

Ammette che «c'è stato un momento in cui ho pensato di ritirarmi e di trattare con il capo dello Stato. Ci ho riflettuto, poi ho deciso di non mollare, di andare fino in fondo». Chiedeva «solo» che gli venisse riconosciuta la possibilità di rivolgersi alla Consulta sulla legge Severino, si è sentito rispondere che avrebbe «evitato il carcere». Perciò ha deciso di tagliare il nodo gordiano a cui si sentiva ormai impiccato: «La verità è che vogliono cancellarmi. Ho contro tutti: la Consulta, il Csm, Magistratura democratica, i magistrati soggetti a Magistratura democratica, il Pd, Sel, Scelta civica anche se non ne capisco il motivo. Eppoi i grandi giornali, De Benedetti, alcuni poteri forti... Ma io non mollo, vado fino in fondo».

A fondo, rischia di trascinare così l'esecutivo, dove siedono esponenti di spicco del suo partito. Ed è paradossale quanto sta accadendo, perché non era mai successo di vedere dei ministri che si dimettono da parlamentari ma (per il momento) non dal governo. A parte il fatto che non tutti hanno ancora firmato quella letterina pre-stampata, c'è un problema assai più delicato: la compagine ministeriale del Pdl si mostra già scompaginata, se è vero che Lupi si è schierato in difesa di Napolitano, e Quagliariello ha ribadito la necessità di cambiare la legge elettorale, dopo che l'altra sera ai gruppi il Cavaliere si era invece espresso a favore del Porcellum.

Dettagli per Berlusconi in questa fase: tenere in piedi il governo è per lui questione secondaria rispetto alla battaglia sulla sua decadenza da parlamentare. Il suo obiettivo - dicono dal fronte democratico - sarebbe quello di puntare subito alle urne, e aggirare il problema dell'incandidabilità presentandosi da capolista in tutte le circoscrizioni, nella speranza che una delle ventisei corti di Appello accolga la sua tesi contro la legge Severino, consentendogli così di scendere ancora in campo. Ma all'accelerazione impressa dal leader del Pdl, Enrico Letta (con la regia di Napolitano) ha risposto con un'altra accelerazione, anteponendo la verifica parlamentare sul suo governo alla riunione della Giunta del Senato. Già oggi, però, la riunione del Consiglio dei ministri - semmai si terrà - potrebbe decretare la fine delle larghe intese: come farebbe infatti la delegazione berlusconiana a restar seduta allo stesso tavolo con un premier che ha appena detto di ritenere «un'umiliazione per l'Italia» il gesto delle dimissioni di massa del centrodestra?

Ecco perché c'è attesa per ciò che Enrico Letta dirà o potrà fare, perché le sue mosse potrebbero innescarne altre nella delegazione del Pdl per reazione. Un interrogativo però, il più importante, non trova per ora risposta: cosa ci sarebbe dopo il governo Letta? Questo è l'azzardo per Berlusconi, che ha innescato un gioco pericoloso. Con la sua mossa ha sì portato la nave dell'esecutivo sugli scogli, ma rischia di non riuscire ad affondarla e di restare incagliato, in balia dei flutti. Senza dimenticare che le dimissioni di massa da gesto storico potrebbero trasformarsi in farsa. Ma ci sarà un motivo se è già proiettato verso la campagna elettorale: «Non andrò in tv, in quelle trasmissioni che sembrano pollai. Solo Internet, interviste e comizi, se potrò...» .

 27 settembre 2013 | 7:22
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_27/berlusconi-no-marcia-indietro_65f1b800-2734-11e3-94f0-92fd020945d8.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il retroscena Il blitz in assenza del segretario
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2013, 11:14:25 pm
Il retroscena Il blitz in assenza del segretario

Ad Arcore il vertice a sorpresa con i falchi Ghedini al Cavaliere: farai la fine di Silvio Pellico

Alfano dice no a un primo documento particolarmente duro con il premier. Le critiche di Quagliariello


ROMA - È il blitzkrieg, è uno contro tutti, ed è una guerra che non contempla prigionieri. Si vedrà se quella di Berlusconi è stata davvero la mossa della disperazione, «un suicidio» come dicono nel suo stesso partito, o una scelta meditata, coltivata da tempo, e messa in atto dopo aver colto «l'opportunità» che il premier a suo modo di vedere gli ha offerto, bloccando il provvedimento sull'Iva. Di certo la decisione del Cavaliere di far saltare il banco e di ritirare la delegazione del Pdl dal governo è una scommessa giocata sul ritorno immediato alle urne. È una manovra che rischia di avere effetti devastanti non solo sui destini del Paese ma anche del suo stesso movimento. Quale sia l'arma segreta non si sa, anche perché stavolta l'uomo che per venti anni è stato il leader incontrastato del centrodestra non potrà guidare il suo esercito sul campo di battaglia elettorale. Eppure Berlusconi decide di avviare il conflitto, e questa è la storia del giorno più lungo della Seconda Repubblica.

Ore 10
Nella villa di Arcore il Cavaliere riceve alcuni dirigenti Mediaset. Nella sua residenza si trovano già la figlia Marina e Bondi, con loro discute della situazione politica. L'informativa notturna di Alfano sul Consiglio dei ministri e la lettura dei giornali gli hanno confermato ciò che già sapeva: il premier e il capo dello Stato «vogliono mettermi spalle al muro» dopo l'offensiva delle dimissioni in massa dei suoi parlamentari. Il giorno prima, al vertice del Pdl, aveva letto una sua considerazione con la quale spiegava di non avere alcuna intenzione di aprire la crisi di governo. L'accelerazione di palazzo Chigi e la richiesta di un chiarimento davanti alle Camere lo pongono dinnanzi a un bivio: votare la fiducia, senza però avere più alcun potere contrattuale, né sul versante politico né su quello giudiziario, oppure cercare attraverso un'operazione bizantina di attaccare l'esecutivo, con i suoi ministri seduti al banco del governo. «I miei elettori non capirebbero». Squilla il telefono, in linea c'è Cicchitto. «Silvio, devi fare attenzione. Rischi di apparire come il nemico del popolo». Berlusconi ripete di non volere la crisi e chiede al dirigente del suo partito di preparargli una nota, deciderà poi se farla propria con un comunicato o di trasformarla in un videomessaggio. A Roma intanto vanno avanti le trattative tra Pd e Pdl per scongiurare la rottura. L'attivismo è frenetico, Brunetta si consulta con rappresentanti del governo e con gli «alleati», e c'è ottimismo su una soluzione positiva.

Ore 12
Ad Arcore arrivano Verdini e Santanchè, formalmente per discutere della manifestazione da indire per il 4 ottobre in concomitanza con il voto della Giunta di palazzo Madama sulla decadenza del Cavaliere. Il coordinatore del Pdl ha un conto aperto con Berlusconi, perché convinto che non ci sia altra strada della crisi. Come lui la responsabile dell'organizzazione, che il giorno prima aveva tribolato sapendo dell'esito del vertice a cui non aveva preso parte. I falchi tornano a premere sul leader, comprendendo di trovare terreno fertile alle loro argomentazioni. Ma serve un innesco per dar fuoco alle polveri, ed è l'avvocato-deputato Ghedini a farlo. Ostile al governo Letta fin dalla sua nascita («sarà la tua rovina, Silvio»), torna a insistere sulla necessità di rompere gli indugi, usa per grimaldello la situazione giudiziaria del Cavaliere, ritorna sull'inconsistente aiuto giunto dal Quirinale ai suoi guai, e gli prospetta «nel giro di venti giorni» un finale drammatico: «Farai la fine di Silvio Pellico». Quella parole incendiano il Cavaliere, la brace torna a farsi fiamma, ed è allora che viene messo a punto il blitzkrieg . Le linee nemiche hanno lasciato un varco in cui infilarsi: la decisione di non varare il decreto economico e di lasciar partire l'aumento dell'Iva era stato un modo per Enrico Letta di vendicarsi con il Pdl dell'«umiliazione» subita con l'annuncio delle dimissioni in massa proprio mentre si trovava all'Onu. «Lui umiliato?», tuona Berlusconi: «Io fui umiliato nel '94, quando mi mandarono l'avviso di garanzia mentre presiedevo il vertice di Napoli». Per il leader del centrodestra è giunto il momento di preparare la dichiarazione di guerra: «Chiamatemi Capezzone». La missione è ancora top secret. Persino Confalonieri e Gianni Letta sono ignari di quanto sta accadendo, e come loro anche il segretario del Pdl non sa nulla.

Ore 16
Alfano - che si trova nella sua abitazione a Roma - riceve una chiamata che lo gela per i contenuti e per i modi. «Apriamo la crisi, Angelino. Ho da leggerti il comunicato che voi ministri dovrete fare vostro». Ma non c'è Berlusconi all'altro capo del telefono, bensì Ghedini, a cui il Cavaliere ha affidato il compito di avvisarlo. È chiaro il messaggio del leader verso il vicepremier, che ascolta la lettura della nota redatta dall'ex segretario radicale: un documento violentissimo nei riguardi del presidente del Consiglio, che evoca - come nella migliore tradizione stalinista - una implicita richiesta di autoaccusa della compagine ministeriale del Pdl. Alfano, stordito e addolorato, respinge il comunicato e non solo perché «ho lavorato fino ad oggi con Enrico nel governo», ma anche perché non intende politicamente suicidarsi. Si apre una trattativa che dura più di un'ora, e tocca a Bondi la stesura di una nuova bozza, quella definitiva.

Ore 18
Berlusconi dirama la dichiarazione di guerra. A stretto giro i suoi ministri si dimettono. Per Alfano c'è solo il tempo di preavvisare il premier, che trasecola: «Ma se stavamo cercando un compromesso...». Anche Napolitano viene avvisato prima che il comunicato sia reso pubblico e non capisce, visto che solo cinque minuti prima Brunetta lo aveva informato che la trattativa era a buon punto. «Non c'è razionalità in questa vicenda», commenta il capo dello Stato: «Se alla dimensione politica si privilegia la dimensione umana, non si può costruire più nulla. Sono dispiaciuto, anche per Berlusconi, ma tutto ciò con la politica non c'entra nulla». Nel frattempo Alfano si mette alla ricerca degli altri ministri. Si trovano subito la De Girolamo e la Lorenzin, che sta passeggiando in riva al mare. Quagliariello è in attesa della partita del Napoli e resta di sale: «Sono pronto a dimettermi ma non sono d'accordo. Perché questo gesto non serve né al Paese né al centrodestra né a Berlusconi. Così ci mettiamo contro quel mondo che vogliamo rappresentare». Resta da trovare Lupi, e si fatica. Il titolare dello Sviluppo economico è a messa con Carron, il leader spirituale di Cl. La scorta gli porta il cellulare in chiesa. «Maurizio ti devi dimettere», e in sottofondo sale il canto dell'Alleluja. «Maurizio, Berlusconi ha aperto la crisi», e dalla cornetta si sente il sacerdote che invita i fedeli a scambiarsi il segno della pace.

La pace non c'è più nel Pdl, che ribolle come una tonnara. Il rischio di una spaccatura è elevato e - chissà - forse messo nel conto dallo stesso Berlusconi, che un anno fa coltivò l'idea dello spacchettamento del partito. «Un partito in mano ai falchi non è il nostro partito», attacca infatti uno dei ministri, che si appresta a chiedere una «verifica interna». Ma a chi, al Cavaliere? Sembra la vigilia dell'otto settembre. Mentre a Milano Verdini e Santanchè festeggiano, a Roma la compagine di governo appena dimessasi va a casa di Alfano, che intanto ha avuto modo di sentire - brevemente - il «dottore». L'ormai ex vice premier, verso cui i suoi stessi amici muovono critiche per non aver vigilato abbastanza sul partito, si trova ora tra Scilla e Cariddi: tra Berlusconi, che comunque continua a volere accanto a sé «Angelino», e le sirene centriste che confidano cambi rotta. La guerra lampo è iniziata, lascerà molti cadaveri sul campo.

29 settembre 2013 | 17:52
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_settembre_29/ad-arcore-il-vertice-a-sorpresa-con-i-falchi-ghedini-al-cavaliere-farai-la-fine-di-silvio-pellico-francesco-verderami_b68872c6-28cf-11e3-8fff-a1e6916711a7.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi: tranne Angelino, i ministri non li ho scelti io.
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2013, 05:00:31 pm
Il tormento del Cavaliere

Alfano a cena, il faccia a faccia più teso

Berlusconi: tranne Angelino, i ministri non li ho scelti io.

E medita di affidare ai «lealisti» un nuovo assalto al governo

 
Forse è così. Forse davvero il ventennio berlusconiano non è ancora finito, forse davvero non è in gioco la successione al Cavaliere, forse davvero - come dice la figlia Marina - il padre «non delega la leadership perché non ritiene sia arrivato il momento di delegarla». Ma se è così, allora la leadership va esercitata. E ieri Berlusconi ha iniziato a farlo per cancellare la linea ondivaga sul partito e sul governo. Perché dopo il «tribolato» voto di fiducia c’era da capire cosa stesse meditando: affidare ai «lealisti» il compito di assaltare nuovamente l’esecutivo se e quando verrà dichiarato decaduto da parlamentare? E c’era da capire in che modo volesse ricomporre la frattura in un Pdl dove i dirigenti si delegittimano a vicenda. Di certo gli strappi del Cavaliere nelle ultime settimane hanno provocato un’emorragia di consensi: non è un caso se nei sondaggi Berlusconi ha rilevato come, persi sette punti in pochi giorni per aver minacciato la crisi, ne ha recuperati più della metà in poche ore dopo aver dato la fiducia alle larghe intese.

Serviva una linea politica chiara all’ex premier, che è ancora il capo del Pdl ma doveva dimostrare di stare a capo del Pdl. Non era più tempo di applicare il vecchio schema del divide et impera e non bastava il richiamo all’unità come «bene supremo», né bastava dire che «se Alfano e Fitto si parlassero, i problemi si appianerebbero». L’aveva potuto verificare l’altra sera a cena con il frontman dei «lealisti», che contestava - sulla base di un suo conteggio interno - la richiesta di «Angelino» di prendere la guida del partito, e lo additava per la manovra di Palazzo sul voto di fiducia che «ti ha danneggiato, finendo per renderti ridicolo persino sulle vignette dei giornali».

L’ha constatato anche ieri sera a cena con il vice premier, che non solo ha confutato i numeri di Fitto - evidenziando per esempio come i campani si siano già smarcati - ma ha sottolineato soprattutto al Cavaliere che lo strappo con «Raffaele» era frutto «dei suoi veti, presidente», ai tempi degli organigrammi del partito e dei gruppi parlamentari: «E ora lei non può usare lui contro di me». Ed è stato a quel punto, dopo un lungo faccia a faccia, che Berlusconi avrebbe mosso il primo passo per consegnare ad Alfano la vicepresidenza della Forza Italia del futuro. Stretto nella morsa, per tutta la giornata il Cavaliere era parso assai contraddittorio. Per un verso aveva menato fendenti contro «i traditori» che stanno al governo, ripetendo che «tranne Alfano i ministri non li ho scelti io». Per l’altro verso però, all’incontro con gli europarlamentari, aveva accennato al fatto che lo statuto del Pdl non può essere cambiato per non avere «problemi burocratici» nel Ppe, confermando quindi indirettamente la figura del numero due, che i «lealisti» vorrebbero azzerare.

Fosse per lui, le liturgie interne andrebbero ridotte all’essenziale, incardinate nei dogmi che gli suggerì Bossi molti anni fa, e ai quali vorrebbe ancora attenersi: «A me la disponibilità del simbolo e il potere di fare le liste. Poi voi fate come vi pare». Non è più così oggi che i dirigenti riconoscono a Berlusconi la leadership a patto che la eserciti. Serviva la sua mediazione, non solo l’appello a «deporre le armi» per evitare una rottura che segnerebbe «la vittoria della sinistra» e consegnerebbe gli scissionisti al ruolo di «stampella del Pd». Anche perché nessuno ha questo intendimento, neppure Quagliariello, a cui in queste ore sono fischiate più volte le orecchie. Il titolare delle Riforme, additato dal Cavaliere nei conciliaboli riservati come «il ministro che prende ordini da Napolitano», è stanco della litania sul tradimento: «Sono il primo a volere l’unità. Di cosa mi accusano?». Il Pdl vive in una dimensione kafkiana, tra richieste di repulisti e minacce di scissione sussurrate ai media da chi ormai è fuori dai giochi. Ce n’è la prova se «Raffaele» - ai ferri corti con «Angelino» - attende solo di «conoscere le decisioni di Berlusconi», così dice: «E sono pronto, se necessario, a fare opposizione durissima. Ma nel partito, non fuori». Appunto.

Solo che in attesa delle «decisioni di Berlusconi», la guerra dei nervi ha fatto smarrire i sorrisi. Nessuno più si diverte. Non si diverte Alfano, entrato tesissimo ieri sera all’appuntamento con il Cavaliere. Non si diverte Fitto, che dissimula la tensione dietro sorrisi tirati e una voce arrochita da estenuanti discussioni. Non si diverte nemmeno uno come Quagliariello, che pure ha coltivato il gusto della battuta anche nei momenti più drammatici. Come la sera in cui Berlusconi chiese davanti ai gruppi parlamentari che i panni si lavassero in famiglia. «Ci fosse almeno una lavatrice per farlo», sussurrò, provocando una grassa risata tra quanti gli stavano accanto.
Ovviamente non si diverte nemmeno il Cavaliere, che pure l’altra sera davanti alla tv aveva riso guardando «Radio Belva» su Rete4. Peccato che il giorno dopo il programma sia stato cancellato dal palinsesto per via dei turpiloqui. Lui, che tanto aveva apprezzato la performance di Paolo Villaggio, ha dovuto abbozzare: «A me la trasmissione era piaciuta».

12 ottobre 2013
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Francesco Verderami

da - http://www.corriere.it/politica/13_ottobre_12/tormento-cavaliere-alfano-cena-faccia-faccia-piu-teso-272add98-32fd-11e3-b13e-20d7e17127ae.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Pdl , le quattro pagine dell’intesa saltata
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2013, 06:37:00 pm
L’ULTIMA TRATTATIVA FALLITA ALLA VIGILIA DEL CONSIGLIO NAZIONALE

Pdl , le quattro pagine dell’intesa saltata
Prima della spaccatura quattro fogli con le garanzie agli innovatori.
E’ sfida fra le nuove generazioni

Dove c’era il Popolo della libertà ora c’è un ground zero, e chissà in che modo rinascerà il centrodestra, quanto tempo servirà per riedificarlo e chi si intesterà il nuovo progetto, se l’architetto che per venti anni l’ha disegnato a propria immagine e somiglianza avrà ancora la forza per proporne uno nuovo. Di certo la scissione certifica l’incapacità di Berlusconi a imporsi nel conflitto interno al suo partito. È una sconfitta politica per tutti ma soprattutto per il Cavaliere, a cui il fallimento forse brucia più della stessa decadenza. Un mar Rosso lo separa ormai da Alfano che a sera si aggirava tra i brindisi degli innovatori, nella sala dove don Sturzo lanciò l’appello ai «liberi e forti», con un velo di commozione che non riusciva a dissimulare. E solo dopo, nel chiuso di una stanza, si è sciolto insieme a Lupi. Eppure i due ieri pomeriggio si ripetevano contenti di aver trovato l’intesa con Berlusconi, e anche il Cavaliere aveva partecipato alla festa con una battuta: «Ma io posso venire con voi alla riunione?».

Per la prima volta era stato scritto nero su bianco quello che Alfano e il «presidente» si erano ripetuti per settimane, apportando al progetto della nuova Forza Italia un paio di modifiche al disegno originario impostato dai lealisti. Sta nelle righe in grassetto di un documento di quattro pagine l’accordo che non è poi stato, e che avrebbe evitato la rottura. In un inciso si stabiliva che Forza Italia avrebbe continuato a dare sostegno al governo «anche nel caso in cui il Senato dovesse votare la decadenza del presidente Berlusconi». E in un altro capoverso si formalizzavano i tre coordinatori, a cui affidare la responsabilità di formare le liste «a garanzia della reale rappresentatività e del radicamento sui territori delle principali aree politiche e culturali del movimento». È vero che sul resto tutto il gruppo dirigente era concorde, ma quei passaggi mutavano il profilo del partito, come i calcoli statici di un grattacielo.

Ci ha creduto davvero Berlusconi quando in un quarto d’ora ha accettato le modifiche al progetto apportate d’intesa con il ministro Quagliariello, prima di sconfessarle? O aspettava che i lealisti gli dicessero di no per rinnegarle? In un caso come nell’altro vorrebbe dire che il Cavaliere ha già abdicato, che nel legittimo scontro tra Fitto e Alfano ha perso il potere della firma di architetto. Ecco perché i mediatori gli avevano consigliato di far saltare all’ultimo momento il Consiglio nazionale, per non sancire con il suo imprimatur la sua destituzione. Certo, a Berlusconi resta il controllo del consenso, ma la sfida delle nuove generazioni è stata ufficializzata. E c’è un momento in cui tutto ciò è avvenuto, quando ha lasciato i ministri in una stanza della sua residenza romana, per tornarci qualche minuto dopo: «Va bene, convochiamo stasera l’ufficio di presidenza per ratificare le modifiche al documento. Ho parlato con gli altri, sono d’accordo». Non era vero.

Sessanta parlamentari seguiranno Alfano nel «Nuovo centrodestra». Se sarà un progetto o solo un avventura non lo si capirà da possibili, ulteriori arrivi di deputati e senatori, o dall’aggregazione con altre forze, ma dalla capacità di dar seguito alla scelta con l’azione di governo. Dall’altra parte Fitto avrà il compito di evitare che certe pulsioni nella nuova Forza Italia non riducano il berlusconismo a una moneta fuori corso. Si preannuncia una battaglia aspra, giocata sul territorio e nelle Camere proprio su quei due passaggi del documento che sono stati al centro della contesa. «Angelino» punterà a difendere il perimetro delle larghe intese che «Raffaele» minaccerà fin da domani, e per riuscirci dovrà farsi valere sui temi sensibili del lavoro e delle tasse. Non sarà facile. Come non sarà facile il test elettorale delle Europee.

Paradossalmente, invece, il vice premier avrà più facilità di muoversi sul terreno della giustizia, dove sarà chiamato a sfidare il centrosinistra alla riforma. Alfano potrà imporre al Pd di calare la maschera e mostrarsi con il suo vero volto: se è vero che - da Bersani a Renzi, passando per D’Alema - tutti hanno sempre sostenuto la necessità di ristabilire l’equilibrio tra il potere politico e l’ordine giudiziario, senza più l’alibi di Berlusconi e delle leggi ad personam, si capirà se il garantismo prevarrà sul giustizialismo. E così il «traditore» - perché questo trattamento si aspetta oggi l’ex segretario del Pdl - potrà mostrarsi come il miglior alleato di Berlusconi, magari appoggiando anche i referendum radicali.

Non c’è il tempo di commuoversi per ciò che è stato, perché lì dove sorgeva il Popolo delle libertà e ora c’è un ground zero, le macerie non resteranno a lungo. Altri architetti potrebbero edificare con altri progetti. È la politica, bellezza.

16 novembre 2013
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_16/crisi-pdl-quattro-pagine-dell-intesa-saltata-16f37094-4e90-11e3-80a5-bffb044a7c4e.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI La contromossa del governo: ritoccare la Carta
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2013, 11:54:04 am
La contromossa del governo: ritoccare la Carta

L’obiettivo: poche riforme ma veloci per aggirare possibili veti

Letta e Alfano (Ansa)Letta e Alfano (Ansa)La fine delle larghe intese è l’inizio di un conflitto istituzionale che contrappone Berlusconi a Napolitano, è uno scontro destinato a radicalizzarsi, è una sfida che si gioca sul terreno delle procedure parlamentari ma che origina dalla battaglia sulla decadenza del Cavaliere. Perché è vero che Forza Italia ha deciso ieri di lasciare la maggioranza per dissenso sulla legge di Stabilità, e che in virtù di un mutamento sostanziale del quadro politico ha chiesto al premier di salire al Quirinale per essere poi - eventualmente - rinviato alle Camere per ottenere una nuova fiducia. Ma è altrettanto vero che la scelta è avvenuta alla vigilia del giorno del giudizio per Berlusconi, e che la manovra mira al blocco dell’attività parlamentare, quindi anche allo slittamento del voto sull’estromissione del Cavaliere dal Senato.

La scelta dell’esecutivo di porre la fiducia sulla legge di bilancio e di blindare in un solo colpo i conti dello Stato e la nuova maggioranza è stata però condivisa e assecondata dal capo dello Stato, provocando così la reazione degli azzurri, che accusano il Quirinale di «vulnus» alle regole del gioco. Ecco il preludio del conflitto che potrebbe segnare in modo drammatico l’epilogo della Seconda Repubblica. È la prova che Berlusconi non intende arrendersi, che punta alla delegittimazione del Colle e scommette sulla debolezza del quadro politico, magari con l’«aiuto» di Renzi per una crisi a breve termine.

È il rischio del «caos» a cui ha fatto riferimento ieri Letta, che sotto il patronato di Napolitano identifica il suo governo come l’alveo dentro cui arginare le convulsioni del sistema. Ma per evitare che il sistema imploda, l’esecutivo ha una sola strada: avviare subito la revisione della Carta. Il punto è che la fine delle larghe intese si porta appresso la fine del percorso riformatore previsto con la nascita del Comitato dei saggi: senza Forza Italia non ci sono più i due terzi dei voti parlamentari necessari per evitare un referendum, che vecchi e nuovi avversari del governo potrebbero utilizzare per far saltare il banco. Per incanto si unirebbero le estreme, da Berlusconi a Grillo, dalla Fiom ai custodi dell’ortodossia costituzionale: Colle e Palazzo Chigi verrebbero stritolati.

È un azzardo che lo stesso Renzi ha suggerito a Letta di evitare, e che incrocia il parere favorevole di Alfano. È preferibile piuttosto procedere con il tradizionale meccanismo dell’articolo 138, al quale sta già lavorando il ministro delle Riforme Quagliariello, che si appresta a presentare il primo pezzo della riforma, che è il passo d’avvio e forse anche di arrivo. Con la trasformazione del Senato nella Camera delle Autonomie si otterrebbe un triplice risultato: il superamento del bicameralismo perfetto e insieme la riduzione del numero dei parlamentari e dei costi della politica, visto che i 315 senatori sarebbero sostituiti (senza emolumenti) dai rappresentanti delle realtà locali.

Così si potrebbe anche evitare un «taglio» alla Camera degli attuali 630 deputati, sarebbe più semplice varare una legge elettorale e il cerchio si chiuderebbe. Tutto fatto? Niente affatto. Certo, Forza Italia e Cinquestelle faticherebbero a ostacolare un simile progetto di riforma, ma c’è da convincere i senatori ad abbandonare Palazzo Madama, impresa finora mai riuscita. Una cosa però è sicura: questo pacchetto viene sponsorizzato da Renzi, che non è ancora formalmente diventato il «player» della maggioranza ma di fatto adopera già la sua golden share sull’esecutivo.

Il futuro segretario del Pd si dispone al tavolo da gioco con due carte: potrebbe attendere che una maggioranza fragile al Senato si sfilacci, aprendo la strada alle elezioni, o - come sostiene di voler fare - mostra di dar credito a Letta, di appoggiare il percorso delle riforme che sposterebbe l’orizzonte del voto almeno al 2015. Che sia tattica o strategia, poco importa: Renzi vuole dettare l’agenda al governo, consapevole - nel caso - di poter ottenere le urne senza nemmeno lasciarci le impronte, visti i desideri di rivalsa che covano nell’area montiana...

Da ieri è cambiato tutto, e la sfida per Alfano inizia in salita: con Renzi che vuol contare e con Forza Italia che tenterà di schiacciarlo a sinistra, dovrà evitare di farsi «cespuglizzare». Tuttavia il vicepremier sa di avere una chance nel medio termine, se riuscirà a condividere con gli alleati di governo i primi refoli della ripresa economica - tutta da consolidare - e se riuscirà a intestarsi le riforme, dove peraltro potrebbe ricevere di qui a breve un prezioso contributo dalla Lega di Maroni, interessata al progetto di revisione della Carta. Sarebbe il primo passo verso un nuovo assetto del futuro rassemblement di centrodestra. Ma si fatica a scrutare l’orizzonte. Da ieri le nubi del conflitto istituzionale minacciano tempesta.

27 novembre 2013
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_27/contromossa-governo-ritoccare-carta-83ed7b28-572c-11e3-a452-4c48221dc3be.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Parte la caccia al «tesoretto» di voti
Inserito da: Admin - Novembre 28, 2013, 11:57:17 am
Il caso Berlusconi, Gli scenari
Parte la caccia al «tesoretto» di voti

La prima vera occasione di autoriscatto del Cavaliere arriverà con le Europee


ROMA - Quel giorno, guardando dalla finestra il picchetto d’onore che lo attendeva nel cortile di Palazzo Chigi per rendergli il saluto - come si fa con ogni presidente del Consiglio dimissionario - Berlusconi si volse verso Tremonti e gli disse: «Ora come passerò le mie giornate?». Le prossime saranno ancora più difficili, sebbene la decadenza del Cavaliere abbia per ora solo svuotato uno scranno del Senato, non un patrimonio elettorale.

Ed è questo il nodo politico, l’interrogativo che si pongono tanto i partiti avversari quanto gli stessi dirigenti azzurri: Berlusconi sarà ancora protagonista nell’era del «dopo Berlusconi»? Perché è vero che il leader del centrodestra ha giurato ai suoi elettori di «non mollare» e ha dato appuntamento alla prossima sfida nelle urne, ma bisognerà vedere se il tempo corroderà quel bacino di consensi o se il leader del centrodestra riuscirà a tenere per sé quel «tesoretto» che in tanti - anche dentro Forza Italia - vorrebbero ereditare.
Per ora tutti, dall’Osservatore Romano alla senatrice del Pd Finocchiaro, sostengono che l’estromissione dal Palazzo non lo escluderà dalla politica: quasi fosse un riflesso condizionato, dovuto alle tante volte in cui il Cavaliere si è rivelato una fenice, risorgendo dalla sue stesse ceneri. Persino Renzi ha invitato i sostenitori democratici a non considerare Berlusconi già battuto, siccome teme che lo «spacchettamento» del Pdl in due partiti, uno di lotta e l’altro di governo, possa rappresentare una minaccia alla scalata verso Palazzo Chigi.

Ma stavolta l’operazione del Cavaliere appare terribilmente più complessa, perché non potrà limitarsi alla tattica che finora l’ha reso (quasi) imbattibile, quel mix cioè di Palazzo e di piazza che gli ha consentito di impattare la sfida con Bersani alle ultime consultazioni, costringendo il Pd al governo delle larghe intese: il «metodo Monti» - con cui pur stando in maggioranza è riuscito a presentarsi al Paese come capo di una forza di opposizione - non basterà più. Inoltre l’eclissi, se non totale quantomeno parziale, lo coglierà quando fra qualche mese la sentenza sul «caso Mediaset» dispiegherà i suoi effetti. E senza elezioni anticipate sarà complicato tenere i suoi elettori in perenne stato di allerta pre-elettorale.
Tuttavia Berlusconi potrebbe avere ancora una chance, sfruttando le debolezze del governo, se Letta non cambiasse passo. In quel caso le Europee potrebbero consegnargli l’occasione del riscatto, intercettando il senso di insoddisfazione crescente dell’opinione pubblica verso la politica economica di Bruxelles e di Berlino. È vero che quell’area è già coperta da Grillo, ma il Cavaliere ritiene di avere lo spazio sufficiente per prendersi la rivincita nei confronti di chi - a suo parere - due anni fa ha «cospirato» contro di lui.

Chissà se nel libro su «La vera storia dello spread» che ha promesso di scrivere, racconterà quello che tempo addietro ha confidato: «Obama, Merkel, Sarkozy mi hanno voluto far pagare l’amicizia con Putin e altro ancora...». Comunque non c’è dubbio che al test della prossima primavera sta mirando. Lo si è capito ieri quando ha iniziato a lavorare ai fianchi il Nuovo centrodestra, esortando gli elettori a non «frazionare il voto», parlando di «piccoli partiti» e «piccoli leader», mentre il suo gruppo dirigente gridava al «tradimento».
Per ora il Cavaliere non ha dichiarato apertamente guerra ad Alfano, convinto dalla famiglia e dagli amici più «fedeli» ad evitare la rottura. E c’è un motivo se - nonostante gli attacchi - il vice premier ha scelto il giorno della decadenza per impugnare la bandiera berlusconiana sulla giustizia, e dire che il tema va inserito «nell’agenda» della legislatura. Il leader del Nuovo centrodestra sa di avere un’unica strada per confutare la tesi di chi - come Brunetta - sostiene che «quelle di Angelino sono solo favole»: cercare un’intesa con Renzi, che sostiene la necessità di una riforma. Ed è proprio al futuro segretario del Pd che Alfano si è rivolto, quando ha spiegato che «ora la sinistra non avrà più alibi».

Il resto sono solo iniziative di posizionamento. Ed è evidente come il Cavaliere stia cercando di blindare il suo «tesoretto», che sente minacciato. I sondaggi sull’onda dell’emotività oggi lo premiano, ma sta nell’operazione dei circoli «Forza Silvio» la chiave per interpretare la manovra di Berlusconi, che vuole contrastare l’emorragia di quadri dirigenti sul territorio, dove molti portatori di voti vanno spostandosi verso il Nuovo centrodestra.
Così si torna all’interrogativo che nel Palazzo non trova ancora risposta: sul Cavaliere sta davvero calando il sipario? All’uomo che ha incarnato un ventennio politico, servirà il ritmo di un passista e non più quello dello scattista per smentire la sua decadenza politica oltre quella parlamentare, sapendo però che sarà una gara ad handicap e che - quasi certamente - non potrà tagliare lui di nuovo il traguardo.

28 novembre 2013
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/13_novembre_28/berlusconi-tesoretto-voti-verderami-47b75796-57f9-11e3-8914-a908d6ffa3b0.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Renzi e le alleanze variabili ...
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 06:12:46 pm
Sette giorni

Renzi e le alleanze variabili
Doppio gioco del leader di Fi sui tempi per andare al voto


Renzi vorrebbe veleggiare lontano dalle rotte del governo: «Dovessi dire ciò che penso davvero della legge di Stabilità... Lasciamo stare». E c’è un motivo se sulla legge elettorale intende varcare le colonne d’Ercole della maggioranza. L’ignoto gli fa meno paura dell’esistente. Ma sempre ignoto resta, e la navigazione per niente facile. Il leader del Pd ne è consapevole anche quando esprime le proprie certezze nel confronto che si è aperto con Letta e con Alfano sul futuro sistema di voto. L’idea che si debba allargare il consenso sulla riforma anche alle forze di opposizione appartiene a tutti, «nessuno - spiega il ministro Quagliariello - vuol restare al di qua delle colonne d’Ercole della maggioranza. Ma il problema non è il punto di arrivo, bensì il punto di partenza». Una tesi che non convince Renzi, secondo cui questa impostazione finirebbe per «ingessare il dialogo» con Forza Italia e Cinquestelle: «Sarebbe come dividere i partiti tra serie A e serie B, ed è chiaro che gli ultimi non ci starebbero».

Così com’è altrettanto chiaro che una discussione tra sordi è sintomo di incomprensioni che rivelano strategie diverse. Allora resta da capire se «l’uomo nuovo» - così lo definiscono i fedelissimi - troverà di qui a gennaio un approdo su questa rotta, se il Cavaliere cioè sarà la sua America. «Se Renzi vuole rilegittimare Berlusconi, è un rischio che si assume», commenta il ministro Mauro: «Magari farà lo stesso errore commesso Veltroni, che poi infatti perse». Il titolare della Difesa, che lavora alla costituzione di una nuova area centrista, fa capire che le manovre del leader dei democrat mirano a rendere più difficile la ricomposizione del centrodestra, creando un fossato tra Forza Italia e Ncd.

In effetti si preannuncia un Natale durante il quale dirigenti del Pd e di FI si scambieranno auguri e sistemi elettorali, magari da girare anche agli intermediari grillini. Ma è risaputo che il Cavaliere, per accettare il patto, si aspetta come dono la caduta del governo e il voto anticipato in primavera, almeno così sostiene formalmente. Qualora vedesse esaudite le sue richieste farebbe mostra di grande gioia, ma se così non fosse - come spiega l’azzurro Rotondi - «perché Berlusconi dovrebbe regalare a Renzi lo spot per le Europee? Non ci pensa nemmeno».

Di più, l’ex premier pensa che sarebbe più vantaggioso per lui arrivare al 2015 per varie ragioni. Intanto avrebbe il tempo necessario per ricostruire il partito a sua immagine e somiglianza. Poi terrebbe in sospeso la sfida per palazzo Chigi, in attesa di conoscere l’esito del ricorso a Strasburgo per la «sentenza Mediaset», sulla quale il suo avvocato Coppi ha detto di nutrire «grande fiducia». E nel frattempo osserverebbe le manovre di Renzi, costretto a navigare nelle acque del governo Letta con il rischio di incagliarsi, mentre lui resterebbe al largo, all’opposizione.


Siccome Berlusconi ciò che pensa di solito non se lo tiene, ha pensato bene di rivelare a un interlocutore (non di Forza Italia, ovvio) il suo doppio gioco: «... Per questi motivi, se le elezioni nel 2014 non ci fossero, sarebbe alla fine preferibile». Con il Cavaliere che chiede la luna perché ha bisogno di tempo, e Renzi che la luna difficilmente può concederla ma non ha tempo, è difficile ipotizzare un’intesa. Perciò il segretario del Pd deve muoversi con prudenza, e i suoi consiglieri comprendono quanto sia delicata e complicata l’operazione: per ora solo discussioni di massima sui sistemi di voto, niente carte sul tavolo, nemmeno la calendarizzazione della riforma in Commissione alla Camera. L’alibi peraltro c’è: bisogna aspettare di conoscere le motivazioni della sentenza prodotta dalla Consulta sul Porcellum.

Sarà, ma il tempo passa. E se la Corte costituzionale dovesse davvero attendere fino a metà gennaio prima di depositare gli atti, non sarebbe facile stipulare in due settimane un’intesa sulla legge elettorale, come chiede il nuovo corso del Pd. Senza dimenticare che proprio in quel periodo la maggioranza dovrebbe stipulare il fatidico «patto alla tedesca» sul programma per il 2014. Se Renzi non si esprime sulla legge di Stabilità per evitare che le sue dichiarazioni terremotino il governo, anche nell’esecutivo ci si rende conto che una svolta è necessaria. Non a caso Lupi parla di un «nuovo inizio» riferendosi all’«agenda Italia»: «Chiuso un anno molto difficile, bisognerà dare anche psicologicamente un segno di rottura».

D’altronde o i partiti di maggioranza cambiano ritmo o ne subiranno le conseguenze alle Europee di primavera, dove il Nuovo centrodestra si giocherà tutto nelle urne, dove Berlusconi si presenterà spiazzando quanti ipotizzano una deriva anti-europeista, e dove Renzi dovrà dare una dimostrazione di forza. «Il Pd quando ero segretario prese il 26,1%», ricorda spesso Franceschini. Solo come annotazione di cronaca, ovvio...

21 dicembre 2013
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_21/renzi-alleanze-variabili-b197924c-6a0b-11e3-aaba-67f946664e4c.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Renzi vorrebbe veleggiare lontano dalle rotte del governo...
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 06:42:51 pm
Renzi vorrebbe veleggiare lontano dalle rotte del governo: «Dovessi dire ciò che penso davvero della legge di Stabilità... Lasciamo stare». E c’è un motivo se sulla legge elettorale intende varcare le colonne d’Ercole della maggioranza. L’ignoto gli fa meno paura dell’esistente. Ma sempre ignoto resta, e la navigazione per niente facile. Il leader del Pd ne è consapevole anche quando esprime le proprie certezze nel confronto che si è aperto con Letta e con Alfano sul futuro sistema di voto. L’idea che si debba allargare il consenso sulla riforma anche alle forze di opposizione appartiene a tutti, «nessuno - spiega il ministro Quagliariello - vuol restare al di qua delle colonne d’Ercole della maggioranza. Ma il problema non è il punto di arrivo, bensì il punto di partenza». Una tesi che non convince Renzi, secondo cui questa impostazione finirebbe per «ingessare il dialogo» con Forza Italia e Cinquestelle: «Sarebbe come dividere i partiti tra serie A e serie B, ed è chiaro che gli ultimi non ci starebbero».

Così com’è altrettanto chiaro che una discussione tra sordi è sintomo di incomprensioni che rivelano strategie diverse. Allora resta da capire se «l’uomo nuovo» - così lo definiscono i fedelissimi - troverà di qui a gennaio un approdo su questa rotta, se il Cavaliere cioè sarà la sua America. «Se Renzi vuole rilegittimare Berlusconi, è un rischio che si assume», commenta il ministro Mauro: «Magari farà lo stesso errore commesso Veltroni, che poi infatti perse». Il titolare della Difesa, che lavora alla costituzione di una nuova area centrista, fa capire che le manovre del leader dei democrat mirano a rendere più difficile la ricomposizione del centrodestra, creando un fossato tra Forza Italia e Ncd.

In effetti si preannuncia un Natale durante il quale dirigenti del Pd e di FI si scambieranno auguri e sistemi elettorali, magari da girare anche agli intermediari grillini. Ma è risaputo che il Cavaliere, per accettare il patto, si aspetta come dono la caduta del governo e il voto anticipato in primavera, almeno così sostiene formalmente. Qualora vedesse esaudite le sue richieste farebbe mostra di grande gioia, ma se così non fosse - come spiega l’azzurro Rotondi - «perché Berlusconi dovrebbe regalare a Renzi lo spot per le Europee? Non ci pensa nemmeno».
Di più, l’ex premier pensa che sarebbe più vantaggioso per lui arrivare al 2015 per varie ragioni. Intanto avrebbe il tempo necessario per ricostruire il partito a sua immagine e somiglianza. Poi terrebbe in sospeso la sfida per palazzo Chigi, in attesa di conoscere l’esito del ricorso a Strasburgo per la «sentenza Mediaset», sulla quale il suo avvocato Coppi ha detto di nutrire «grande fiducia». E nel frattempo osserverebbe le manovre di Renzi, costretto a navigare nelle acque del governo Letta con il rischio di incagliarsi, mentre lui resterebbe al largo, all’opposizione.

Siccome Berlusconi ciò che pensa di solito non se lo tiene, ha pensato bene di rivelare a un interlocutore (non di Forza Italia, ovvio) il suo doppio gioco: «... Per questi motivi, se le elezioni nel 2014 non ci fossero, sarebbe alla fine preferibile». Con il Cavaliere che chiede la luna perché ha bisogno di tempo, e Renzi che la luna difficilmente può concederla ma non ha tempo, è difficile ipotizzare un’intesa. Perciò il segretario del Pd deve muoversi con prudenza, e i suoi consiglieri comprendono quanto sia delicata e complicata l’operazione: per ora solo discussioni di massima sui sistemi di voto, niente carte sul tavolo, nemmeno la calendarizzazione della riforma in Commissione alla Camera. L’alibi peraltro c’è: bisogna aspettare di conoscere le motivazioni della sentenza prodotta dalla Consulta sul Porcellum.

Sarà, ma il tempo passa. E se la Corte costituzionale dovesse davvero attendere fino a metà gennaio prima di depositare gli atti, non sarebbe facile stipulare in due settimane un’intesa sulla legge elettorale, come chiede il nuovo corso del Pd. Senza dimenticare che proprio in quel periodo la maggioranza dovrebbe stipulare il fatidico «patto alla tedesca» sul programma per il 2014. Se Renzi non si esprime sulla legge di Stabilità per evitare che le sue dichiarazioni terremotino il governo, anche nell’esecutivo ci si rende conto che una svolta è necessaria. Non a caso Lupi parla di un «nuovo inizio» riferendosi all’«agenda Italia»: «Chiuso un anno molto difficile, bisognerà dare anche psicologicamente un segno di rottura».

D’altronde o i partiti di maggioranza cambiano ritmo o ne subiranno le conseguenze alle Europee di primavera, dove il Nuovo centrodestra si giocherà tutto nelle urne, dove Berlusconi si presenterà spiazzando quanti ipotizzano una deriva anti-europeista, e dove Renzi dovrà dare una dimostrazione di forza. «Il Pd quando ero segretario prese il 26,1%», ricorda spesso Franceschini. Solo come annotazione di cronaca, ovvio...

21 dicembre 2013
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/13_dicembre_21/renzi-alleanze-variabili-b197924c-6a0b-11e3-aaba-67f946664e4c.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il leader di Ncd sa che dovrà sacrificare le preferenze
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 06:12:39 pm
Il retroscena
Il leader di Ncd sa che dovrà sacrificare le preferenze
Le telefonate tra Angelino e Matteo che ora si scoprono mediatori
Oggi incontro tra i due sull’ipotesi di compromesso

ROMA - Il «triangolo» si sta realizzando. Per quanto l’accordo sul sistema elettorale non sia ancora chiuso, il compromesso tra i leader del Pd, di Forza Italia e di Ncd sembra davvero prendere corpo. Tutti sapevano che nessuno avrebbe vinto qualora la trattativa fosse fallita. Tutti invece possono ritenersi per la loro parte soddisfatti: Renzi e Berlusconi si sono presi la scena sulle riforme, Alfano insieme a Letta ha guadagnato la stabilizzazione del governo. Certo, fino alle 16 di domani - dead line per presentare il testo di legge - «saranno le carte scritte a parlare», come sottolinea il leader del Nuovo centrodestra. Ma c’è un motivo se ieri il vice premier e il segretario del Pd si sono lasciati al telefono in modo assai diverso da come si erano congedati giovedì notte dopo il vertice a palazzo Chigi, se Renzi si è costantemente tenuto in contatto con Alfano, chiamato venti minuti prima dell’incontro con Berlusconi e subito dopo la fine del colloquio con il Cavaliere.

Non è stato un atto di cortesia, quello del leader democratico, ma un gesto politico, a riprova che la base di trattativa sulla legge elettorale è stata frutto di un’intesa maturata prima nell’area della maggioranza, forgiata nel tesissimo colloquio di tre giorni fa tra Alfano e Renzi davanti a Letta, e nel successivo rendez vous di Lupi con il segretario del Pd: la verità sta nell’impianto del testo, che - se avessero potuto far da soli - il sindaco di Firenze e Berlusconi avrebbero ricopiato integralmente dal modello spagnolo. Se non è andata così, è perché serviva il «triangolo», e i «giovanotti» hanno saputo gestire la mediazione, ognuno con il proprio stile, la propria indole e i rispettivi obiettivi. Ma il risultato sembra potersi realizzare. E perché l’opera si completi, i due si sono dati appuntamento per oggi.

Ovviamente serviva e serve l’assenso e l’immanenza del Cavaliere, che - consapevole del gioco - «non è per nulla contrario al fatto che tu sia nella squadra dell’accordo», ha raccontato Renzi ad Alfano ieri sera, nel corso di una conversazione punteggiata da battute distensive alla vigilia del passaggio più delicato. Ora la trattativa entra nella fase più complessa, dopo che ognuno ha già dovuto cedere qualcosa agli altri. Il leader di Ncd sa che dovrà sacrificare le preferenze, «materia teologica di chi non vuol fare scegliere le persone», ma ha conquistato la ripartizione nazionale dei collegi e vigilerà perché il premio di maggioranza sia dato alla coalizione vincente, così da garantirsi la presenza del simbolo nella scheda elettorale: «Siamo nel centrodestra ma non torneremo indietro. Non torneremo all’ovile nemmeno se cercassero di imporcelo per legge. D’altronde, senza di noi il centrodestra diventerebbe il terzo polo».

Richieste e concessioni stanno alla base della mediazione. Alfano non si opporrà a una soglia di sbarramento alta per l’accesso in Parlamento, «quattro o cinque percento si vedrà. Di sicuro non faremo patti di sindacato con i partitini», ha garantito. Quanto alla soglia per ottenere il premio di maggioranza, fissata al 35%, non ha avuto da obiettare, sapendo che già il Colle si sta muovendo, perché la quota - ritenuta bassa - potrebbe entrare in contrasto con la sentenza della Consulta. «Conteranno le carte», ripete il leader del Nuovo centrodestra, cioè il testo scritto. Per il resto, ognuno potrà chiamare la riforma come gli pare: «spagnolo modificato» come dicono a Forza Italia, «sindaco d’Italia modificato» come sostiene Alfano o «Porcellum modificato» come lo definisce il ministro Quagliariello. Comunque il termine «modificato» è sinonimo di compromesso.
E il compromesso è la pietra angolare per un processo ambizioso di riforme che il leader del Pd vuole intestarsi e per un rilancio del governo che Alfano non vuol farsi sfuggire, consapevole che il destino del suo partito è legato all’azione dell’esecutivo. Ma un anno di tempo sembra ormai esser stato conquistato, e per quanto possa apparire paradossale il proseguimento della legislatura viene garantito anche dal Cavaliere, che si inserisce nel processo costituente e opera quello che il leader di Ncd definisce «un ravvedimento operoso». L’ex premier che dopo essere passato all’opposizione si era detto indisponibile alla stagione delle riforme, «rientra in un gioco in cui c’era già e avrebbe potuto starci dal fronte della maggioranza».

Nel ragionamento svolto da Alfano ieri sera con i dirigenti del suo partito si avvertiva una nota di amarezza «per gli errori compiuti a causa della linea estremista» maturata in Forza Italia, «e che è stata alla base della nostra separazione». Ma al tempo stesso ha avuto la conferma che - a suo avviso - «noi avevamo ragione su tutta la linea. E se il presidente Berlusconi allora ci avesse dato ascolto sarebbe rimasto nel gioco senza doverci rientrare solo sulle riforme». Il «triangolo» sta per realizzarsi, e per quanto la sfida sia ancora complicata, il vice premier guarda al percorso con «moderato ottimismo».

19 gennaio 2014
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_19/alfano-renzi-verderami-eadb0512-80df-11e3-a1c3-05b99f5e9b32.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il patto stracciato
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2014, 05:52:08 pm
Sette giorni

Il patto stracciato
L’avvertimento di Letta ad Alfano: le sirene di Matteo portano al voto

Stracciato il patto di governo per il 2014, smarrito il foglio excel su cui andavano scritti programma e tempi di attuazione, riposti il jobs act, la riforma della Bossi-Fini, le unioni civili, al dunque Renzi sfodera la «staffetta». All’alba della Terza Repubblica torna di moda un arnese della Prima, che annuncia un cambio in corsa alla guida del governo. Segno che i riti della politica non cambiano mai. E c’è un solo modo perché il segretario del Pd succeda al vicesegretario del Pd a Palazzo Chigi: deve togliergli la fiducia. La mossa compete a lui e a nessun altro, «non apriremo noi la crisi», gli va ripetendo infatti Alfano in questi giorni segnati da incontri e telefonate, avances ed emoticon. È evidente l’accerchiamento a Letta, la manovra in atto per scalzarlo. Talmente rapida da aver sorpreso il capo del governo, che pure se l’aspettava e che però non voleva crederci quando - durante la direzione del partito - ha sentito il segretario rivolgersi a lui in modo algido, chiamandolo «presidente del Consiglio». D’altronde c’è qualcosa che il leader del Pd può promettere e che il premier non può invece garantire: stabilizzare la legislatura fino al suo naturale compimento, riformare la legge elettorale e le istituzioni. Durare, insomma, fino al 2018.

È il sogno di (quasi) tutti i partiti e di (quasi) tutti i parlamentari, ma che secondo Letta nasconde un inganno: «Non fidatevi di Renzi. Vi porterebbe presto al voto», continua a dire a ogni interlocutore, in specie ad Alfano, che si è stancato di questa patologica architettura della coalizione, dove i ruoli si sono rovesciati. Ncd, che doveva essere la forza corsara, si trova costretta a reggere il peso del governo, mentre il Pd si tiene le mani libere. «Questo derby mi ha stufato», ha spiegato il vicepremier, pronto in settimana a presentare le sue proposte di programma che giacciono in attesa del duello in casa altrui: «L’Italia non può più aspettare».

Invece aspetterà ancora due settimane. La prossima sarà impiegata per l’esame a Montecitorio della legge elettorale, in quella successiva andrà in scena lo show down in casa democratica. Ma è chiaro che - siccome tutto si tiene - il passaggio alla Camera per la riforma del sistema di voto sarà preludio dell’intesa di governo. Perciò non sono previsti scossoni, «l’Italicum non sarà terreno per ricatti o minacce», ha assicurato il vicepremier a Renzi, anche perché - a quanto pare - i due hanno concordato altri «miglioramenti» al testo. E comunque, se qualcosa andasse storto, ci sarebbe sempre il passaggio al Senato.

Il nodo resta però l’esecutivo, e nelle consultazioni informali il segretario democratico ha fatto capire all’«alleato» di Ncd di non credere alla capacità dell’attuale gabinetto di rilanciare l’azione programmatica, men che meno alla forza di dar vita a un Letta bis. A fronte di questo modo obliquo di avanzare la propria candidatura, Alfano ha messo l’interlocutore sull’avviso: «Non intendo prestarmi al gioco, e non puoi porre a me la domanda. Semmai sono io a essere creditore di una risposta. Posto che sto sostenendo un governo a guida Pd, tu che hai deciso di fare?».

La mossa tocca a Renzi, che una risposta l’ha già data, quando ha avvisato che «io non governerò mai con Forza Italia». Nel Nuovo centrodestra c’è però chi ritiene che l’avvertimento di Letta abbia un fondamento, non a caso Lupi continua ad attaccare il leader dei democratici, nel timore di vedere il suo partito eclissarsi nel cono d’ombra del Pd. Il punto è - come ha spiegato Alfano ieri in una riunione riservata - che «per quanto noi siamo leali con Enrico, e lo siamo, non siamo il partito del presidente del Consiglio. È il Pd che deve riconoscerlo come tale, ed Enrico deve porre la questione di fiducia al suo partito».

Quanto al tema se fidarsi o meno, non è categoria della politica. Sono gli interessi a muovere le convergenze e i patti. E gli interessi di Renzi e Alfano sembrano convergere. Nel breve termine sono agonisticamente concentrati sulle Europee, dove Ncd si giocherà la partita della vita e dove il segretario del Pd - per non perdere l’allure - dovrà dimostrare di non essere da meno del 26% preso cinque anni fa da Franceschini. Perciò l’idea di sfruttare la luna di miele con il Paese, appena arrivato al governo, lo attizza.
Sul lungo termine, invece, è una risposta che Renzi dovrà anzitutto a Napolitano. Ecco il vero scoglio di un’operazione complicata. Se è vero che l’attuale premier può garantire un orizzonte limitato al 2015, Renzi è in grado di assicurare riforme e stabilità fino al 2018 con la stessa formula politica del governo Letta? Dopo una prima fase assai ruvida, i rapporti tra il segretario del Pd e il capo dello Stato sono cambiati, il centralino del Colle squilla in continuazione fin dalla trattativa sulla legge elettorale, tanto da aver provocato in quelle settimane l’irritazione del Cavaliere: «Napolitano, Napolitano, sempre Napolitano...».
E Napolitano, che ancora tre giorni fa ha difeso Letta, avrà un ruolo decisivo. Certo, più i partiti prendono forza, più il Quirinale deve assecondare i processi politici. Ma la «staffetta» è gara tremenda. Nella corsa bisogna non far cadere il testimone.

08 febbraio 2014
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Francesco Verderami

DA - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_08/patto-stracciato-letta-alfano-9282db1a-9089-11e3-85e8-2472e0e02aea.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI La telefonata tra i due leader ...
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2014, 07:18:24 pm
Il retroscena
La telefonata tra i due leader
Parte una trattativa difficile
La settimana chiesta da Ncd sarà utile anche al segretario Il primo problema da affrontare è quello dell’organigramma

Angelino Alfano durante le consultazioni al Quirinale, sabato (Ap/Riccardo De Luca)Angelino Alfano durante le consultazioni al Quirinale, sabato (Ap/Riccardo De Luca)

Il programma da stilare, l’organigramma da concordare, il pacchetto dei primi cento giorni da scrivere, la legge elettorale, le riforme istituzionali, e poi ancora i decreti di Letta da convertire, la corsia preferenziale in Parlamento da trovare, la missione europea da elaborare, l’intesa con i partiti di maggioranza, l’accordo con le forze d’opposizione... Benedetta sia la trattativa e i giorni che serviranno a completarla, per Renzi: perché se il leader del Pd avesse dovuto presentarsi stamattina da Napolitano già con i compiti fatti - come aveva in principio ipotizzato - si sarebbe trovato impreparato. A partire dallo schema approssimativo dei ministri, dove risalta la riga vuota dell’Economia che il premier in pectore starebbe pensando di riempire con l’ex capo di Eni e Telecom, Bernabè. La rapidità con cui il segretario democrat ha deciso di puntare a Palazzo Chigi non si combina con la natura e la complessità dei problemi da risolvere. Perciò la settimana di tempo chiesta da Alfano per chiudere l’accordo di maggioranza è un ritardo salvifico per Renzi. E chissà se i due hanno affrontato l’argomento ieri sera al telefono, dopo aver deciso di posticipare l’incontro, in attesa che Napolitano conferisca oggi l’incarico al sindaco di Firenze.

Sebbene una trattativa portata troppo alle lunghe - come spiegano autorevoli dirigenti del Pd - si porti appresso il rischio della paralisi, non c’è dubbio che il futuro presidente del Consiglio abbia bisogno del time out, primo assist fornitogli dal Quirinale. È evidente infatti che qualcosa si è inceppato nell’ingranaggio renziano, prima ancora della trattativa con le forze che dovranno sostenerlo. I «no» ricevuti per le poltrone ministeriali dal manager di Luxottica Guerra, dall’inventore di Eataly Farinetti e dallo scrittore Baricco appaiono al momento solo come sbavature mediatiche prima della partenza ufficiale del mandato.
Ma da oggi non saranno consentiti a Renzi ulteriori passi falsi, che potrebbero indebolire la sua immagine e anche la sua forza politica. E il diario è zeppo di compiti. Quello sull’organigramma è un problema da affrontare anzitutto con Alfano. Il braccio di ferro che si è innescato sui media attorno al peso di Ncd e al ruolo del suo leader nel governo, è una sfida che il Nuovo centrodestra non può né vuole perdere. E che si incastra dentro un altro problema: se è vero che Renzi lavora a una squadra più corta rispetto ai ventuno ministri di Letta, e se è vero che punta ad avere un gabinetto formato per metà di donne, con l’innesto di alcuni esterni, il premier in pectore si trova davanti a «un cubo di Rubik», come sottolineano nella maggioranza. E l’affaire Economia è emblematico. È risultato finora difficile trovare un politico che abbia i requisiti per rivestire quel ruolo. Ancora l’altro ieri Letta ha risposto no all’appello: «Sono in partenza per una vacanza. Non sarò in Italia nei prossimi giorni».

Si tratta però del primo step. Quello successivo - e che per Ncd sarà «determinante» - riguarda il programma. «Noi saremo rivoluzionari», ha detto ieri Alfano. E siccome anche Renzi vuole esserlo, bisognerà capire quale sarà il punto di compromesso. Sullo Ius soli e sui diritti per le coppie di fatto riuscirà quella che già viene chiamata la «necessaria transazione»? E sulle politiche economiche, fino a che punto la linea della «libertà fiscale» chiesta da Ncd sarà assecondata da Renzi, che deve fare i conti con l’ala sinistra del Pd? Per non parlare del tema lavoro, su cui è tutta da costruire la mediazione tra i principi di Job act proposti dal leader democrat e la proposta di legge già presentata dall’ex ministro pdl, Sacconi.
Al momento le carte dei partiti di maggioranza sono coperte, ma nella maggioranza ci si interroga su uno dei più importanti obiettivi che si è posto il futuro premier: la missione in Europa per negoziare lo sforamento dei parametri, su cui c’è grande attesa. Nei colloqui informali di questi giorni è emerso un problema: l’incognita sulla (possibile) assenza di interlocutori. Si può porre infatti la questione a una Commissione ormai in scadenza? Perché, se si dovesse attendere il varo del nuovo governo europeo, il timing slitterebbe al prossimo autunno. Ma la vera sfida è il piano dei primi cento giorni del governo, quelli della «luna di miele» con il Paese, su cui Renzi fa affidamento per lanciare la volata del suo Pd alle Europee. Ed è chiaro che quel piano interesserà anche Alfano, perché - superata l’attuale fase di reciproca diffidenza - se l’esecutivo dovesse partire, anche il leader di Ncd lavorerebbe a testa bassa per strappare consensi per la propria parte. Il piano però - raccontano esponenti democratici - non sarebbe ancora pronto.

E anche se lo fosse, andrebbe risolto un altro problema, che Del Rio e Franceschini hanno sottoposto a Renzi: il Parlamento è intasato da quattro decreti, e sarà complicato fargli spazio. Così sarà difficile tenere alla Camera il timing fissato con Forza Italia sulla riforma elettorale. A nome del Cavaliere, Toti ha messo il leader del Pd sull’avviso: «Se i patti non verranno rispettati, ci sentiremo sciolti dall’accordo». Brunetta a Montecitorio non vedrebbe l’ora di iniziare il filibustering. E il governo non è ancora nato...

17 febbraio 2014
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_17/telefonata-due-leader-parte-trattativa-difficile-91d2f4f6-979c-11e3-910c-771d54eec810.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI L’incontro fra i due leader. Ncd: su Fisco, diritti e lavoro
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2014, 08:02:22 am
Retroscena.

L’incontro fra i due leader. Ncd: su Fisco, diritti e lavoro non torniamo indietro
Il difficile confronto nella notte
Il primo scoglio è il programma
Alfano: ci sono colonne d’Ercole che non possiamo superare. Il nodo dell’Italicum

ROMA - Renzi freme per cominciare la navigazione e anche Alfano sarebbe pronto a sciogliere le vele, ma senza aver concordato prima la rotta non lascerà il porto, perché «ci sono delle colonne d’Ercole oltre le quali non possiamo andare». Sono bastioni invalicabili che rischiano di far fallire altrimenti la missione, costringendo Ncd a restare a terra. E non è tatticismo. Perciò si tratta nel cuore della notte, perciò il capo del Pd e il leader del Nuovo centrodestra si sono incontrati.

Nulla era scontato, tranne la volontà di arrivare a un compromesso. Ma certo ieri non potevano bastare degli scarni sms tra «Matteo» e «Angelino» per colmare il buco che rischiava di far precipitare la crisi. Il colloquio è andato abbastanza bene, anche se non ancora risolutivo.

Nei brevi messaggi del pomeriggio, ognuno aveva fatto valere le proprie ragioni: Renzi riteneva che alzare la tensione «non contribuisce a risolvere i problemi», Alfano era convinto che il suo partito avesse «esigenze sulle quali non posso tornare indietro». A Ncd serve il patto alla tedesca sul programma, che al vertice di maggioranza non era stato siglato: serve l’accordo sulla norma per legare la legge elettorale alla riforma del Senato - una sorta di «salva vita» della legislatura - che va messa nero su bianco, non affidata a un gentlemen agreement; e serve infine l’intesa sulla squadra dei ministri, che non può essere lasciata a giochi mediatici e a boatos di Palazzo.

Sono nodi che non sono stati ancora del tutto sciolti, ma il primo passo di stanotte è significativo. D’altronde, la novità,rispetto alle precedenti trattative di governo, è che per la prima volta il programma ha la stessa valenza dell’organigramma.

E c’è un motivo se Ncd batte su questo tasto, perché - come dice Sacconi - «è in gioco la constituency del Nuovo centrodestra», la sua ragione sociale, il suo stesso nome. Sui temi del lavoro, del fisco, dei diritti - Alfano l’ha spiegato a Renzi - «non possiamo tornare indietro», conscio che Berlusconi avrebbe gioco facile a massacrarli, bollandoli come «ruota di scorta» del Pd: «E noi, che abbiamo l’ambizione di costruire un moderna coalizione moderata, non lo consentiremo».

Per questo motivo la trattativa è entrata in una fase delicata, e un passo falso potrebbe davvero far saltare tutto. È una partita doppia con il Cavaliere nei panni del convitato di pietra, vissuto dentro un pezzo di Pd come un potenziale alleato che «potrebbe regalarci la sorpresa di un appoggio esterno», e visto dentro Ncd come un temibile avversario. Ed è in un clima di tensioni e di sospetti che si è dipanata la giornata. Ogni dettaglio ha alimentato reciproche diffidenze. Perché Del Rio, al tavolo del programma, quando i centristi hanno chiesto garanzie sulla legge elettorale, ha scartato dicendo che «non è questa la sede per discuterne?». E perché dalla sede del Pd, in testa il portavoce della segreteria Guerrini, per tutto il giorno sono rimbalzate sui siti e sulle agenzie voci sull’assenza prima di Alfano poi di Lupi dalla lista dei ministri?

«Sono espedienti tattici», aveva commentato il leader di Ncd, riunendo il suo partito. La stessa «estenuante» tattica adottata da Renzi con Letta e applicata ora per chiudere la vertenza di governo: stressare la trattativa sull’organigramma, per poi fare cedere l’alleato sul programma. E magari coprire mediaticamente il problema che in queste ore affligge il presidente del Consiglio incaricato sul ministero dell’Economia. Perché il leader del Pd sa che se dovesse assegnare a un tecnico come Padoan la poltrona di via XX Settembre, si porterebbe appresso l’immagine di un premier «commissariato» e non darebbe quel segnale di discontinuità a cui tiene prima di ogni cosa.

Alfano è pronto a collaborare, a cercare soluzioni condivise, ma non può né vuole superare le «colonne d’Ercole», come gli impone il nome del suo partito. «E Renzi - attaccava nel pomeriggio Quagliariello - non può immaginare che la discontinuità sia fare da solo il programma senza concordarlo con chi dovrebbe dargli la fiducia, non può ipotizzare da solo appoggi esterni che magari in futuro diventano interni, nè può pensare di fare da solo una squadra con ministri diversi o comunque da assegnare a dicasteri diversi».

Il leader del Pd a un certo punto ha compreso la portata della reazione del Nuovo centrodestra, i rischi che si portava appresso, aggravati da un sospetto che nel pomeriggio aveva preso corpo dentro Ncd, e cioè che l’idea di togliere Alfano dal Viminale fosse un segnale lanciato dai democratici a Forza Italia, un modo per consentire a Berlusconi di offrire qualcosa di più di un’«opposizione costruttiva» a fronte di un processo di «de-lettizzazione» della squadra di governo. Le ombre stavano per prendere il sopravvento, quando la trattativa è iniziata nella notte. Renzi non vede l’ora di partire, se è vero che sta già lavorando al discorso per la fiducia. E Alfano è pronto a salpare con lui, ma a patto di non superare le «colonne d’Ercole».

21 febbraio 2014
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/14_febbraio_21/difficile-confronto-notte-primo-scoglio-programma-b6a6a3be-9ac0-11e3-8ea8-da6384aa5c66.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI La via obbligata delle primarie per il prossimo leader del..
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2014, 01:21:51 pm
Il retroscena
La via obbligata delle primarie per il prossimo leader del centrodestra
Le Europee del centrodestra, prima divisi e poi le primarie

di Francesco Verderami

Le Europee segneranno l’epilogo di una stagione, «saranno -per dirla con Casini - l’ultimo fotogramma di un vecchio film». Da quel momento nulla sarà più come prima, ed è un problema che riguarderà tutti. Soprattutto quell’area che fino a oggi è stata chiamata centrodestra, e che per venti anni ha formalmente rappresentato la casa dei moderati. Cosa rimarrà di un’epoca lo si scoprirà il giorno delle urne, ma è ormai evidente «il rischio che il nuovo bipolarismo passi dal duello tra Grillo e Renzi, alle cui capacità taumaturgiche la classe dirigente dovrebbe poi affidarsi nel tentativo di rinnovarsi», cioè di salvarsi. È un esito che l’ex presidente della Camera spera non si avveri, perché vorrebbe dire che un patrimonio politico è stato dilapidato. E in fondo quel patrimonio un po’ gli appartiene, compresa una quota parte di errori che non dimentica di addossarsi.

Il cantiere dell’area moderata
Proprio per questo motivo Casini confida che, passati i titoli di coda, una nuova generazione inizi a scrivere «un copione nuovo», con i vecchi leader pronti a dare una mano, a svolgere il compito dei «facilitatori» a cui si è già iscritto. Non è chiaro se ci sia ancora tempo e spazio per l’impresa, di certo «o si darà vita a un’area popolare di centrodestra o il futuro sarà un futuro da vassalli», senza più un corpo elettorale da rappresentare, «perché l’area moderata è già minata sotto il profilo politico dal tramonto di Berlusconi e dagli scontri tra le varie forze del centrodestra, ma è minata anche sotto il profilo sociale, siccome la crisi economica spinge verso posizioni estreme».

Per evitare di diventare «vassalli» di Renzi o Grillo è necessario quindi aprire un «nuovo cantiere», e il fondatore dell’Udc considera «positiva» l’alleanza tra il suo partito e l’Ncd di Alfano, «che è un primo tentativo di ricomposizione» di un mondo che «deve coinvolgere Forza Italia», soggetto imprescindibile per l’intrapresa. L’auspicio è che il Cavaliere sia partecipe della nuova sfida, che anche lui vesta i panni del facilitatore, «a meno che non decida di rassegnarsi al ruolo dell’opposizione a sua maestà». Già questa è una pesante incognita, sebbene l’idea di una riaggregazione - secondo Casini - «accomuni molti rappresentanti» della diaspora, e sarà tema della convention che presiederà il 9 maggio, unica tappa italiana di Juncker, candidato del Ppe alla guida della Commissione europea.

Il «plebiscito democratico»
Il nuovo film del centrodestra italiano, semmai vedrà la luce, si dovrà imperniare - a detta di Casini - su un copione originale: via il vecchio canovaccio, la nuova generazione dovrà sfidarsi per la leadership. Perché, come gli raccontò Sarkozy, «le leadership si rubano non si ereditano». Insomma, la futura classe dirigente e chi se ne intesterà la guida dovrà passare attraverso «un plebiscito democratico», che poi sono le primarie dette in altro modo: «Di sicuro non servirà convocare un conclave a porte chiuse dove scegliere un papa, che sarebbe sconfitto prima ancora di presentarsi alle elezioni». L’esempio è Renzi, quello che fa accendere e disperare al tempo stesso Berlusconi, convinto che il premier sia «un problema, ci sottrae i voti. Ma fa le cose che volevamo fare noi».

Forse Renzi si è imposto in politica grazie alla sua forza, o forse ha solo raccolto ciò che restava della politica a un’asta fallimentare. Il punto è se il centrodestra si vorrà condannare al vassallaggio, o cercherà di riscattarsi senza tentare furbizie e scorciatoie. Perché se è vera l’idea che circola in Forza Italia, di attendere cioè le Europee per modellare poi l’Italicum in base al risultato delle urne, vorrebbe dire che la storia recente non ha insegnato nulla. Giusto venti anni fa, gli eredi della Dc e del Pci provarono a dividersi le spoglie della Prima Repubblica cucendosi su misura la legge elettorale: si fecero il Mattarellum, ma vinse Berlusconi.

«I processi politici non si possono ingabbiare dentro degli schemi», riconosce Casini, che visse anche quel passaggio d’epoca. Ora che si approssima un altro tornante, serve «coraggio e freddezza, o il centrodestra sarà destinato alla parcellizzazione». Insomma sarà condannato a scomparire. Già nei sondaggi si nota il disorientamento di una parte considerevole di quell’elettorato, propenso a disertare le urne: è lo stesso disorientamento che colse venti anni fa gli elettori democristiani. Le categorie della politica che fino a oggi sono servite a muovere il bipolarismo sono saltate, e non è dato sapere se il governo Renzi sia la causa o l’effetto di quanto sta accadendo. Di certo quella che fu la casa dei moderati non potrà essere ristrutturata. Ne andrà costruita una nuova. O resteranno solo macerie.

19 aprile 2014 | 08:15
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_19/via-obbligata-primarie-prossimo-leader-centrodestra-c226b922-c77f-11e3-98e6-75c21d6c5e5d.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Così il sindaco prova a smarcarsi da Letta e Alfano
Inserito da: Admin - Aprile 23, 2014, 01:24:41 pm
Il retroscena
Così il sindaco prova a smarcarsi da Letta e Alfano
Legge elettorale, lo scenario di un accordo di maggioranza allargato a Forza Italia

Si è condannato al movimentismo, perché convinto che sia l’unico modo per non finire logorato da quei due «vecchi democristiani» seduti a palazzo Chigi. Perciò ieri Renzi ha aperto formalmente il confronto con gli altri partiti sulla legge elettorale. Ma il rischio che corre il leader del Pd è di rimanere vittima delle sue stesse manovre, finendo incastrato nel gioco dei veti incrociati. Se l’abbia messo nel conto o più semplicemente si senta costretto a farlo non è chiaro, di sicuro è consapevole del pericolo, e con lui i suoi più fidati consiglieri.

L’accelerazione impressa sulla riforma del Porcellum è un modo per tenere fede alla promessa sottoscritta alle primarie: il punto è che da questo momento il segretario democratico diventa il regista dell’operazione e non potrà scaricare su altri un eventuale fallimento.

Perciò Letta e Alfano lo attendono al varco, certi che alla fine l’intesa sul nuovo sistema di voto dovrà partire - come sostiene il leader del Nuovo centrodestra - «dall’alveo della maggioranza», per essere poi «allargata a Forza Italia». L’abbrivio sembra questo, e questi almeno sono i calcoli dei vertici di governo, disposti ad assecondare il timing dettato Renzi. È una convergenza di cui c’è traccia nei colloqui di ieri tra i rappresentanti dell’esecutivo e il capo democrat, è una tesi caldeggiata dal ministro Franceschini con il premier e il vicepremier, e che solo all’apparenza è paradossale: «Se la legge elettorale non venisse approvata rapidamente, allora sì che il fallimento farebbe saltare la legislatura, non viceversa».

D’altronde, se per un verso lo schema di Renzi delle tre proposte - che sono altrettante offerte distinte ad Alfano, Berlusconi e Grillo - spettacolarizza la sfida, dall’altro lascia intuire come la «rosa» presentata ai suoi interlocutori sia destinata a perdere ben presto due petali. Il primo è già caduto, e non tanto perché il «comico» ha già risposto con il solito «vaffa», ma perché in realtà il sindaco di Firenze più che a un’intesa con i Cinquestelle mira a quella cassaforte di consensi. È un progetto ambizioso, che nella strategia renziana garantirebbe la vittoria del Pd alle Politiche. Le avances a Berlusconi hanno invece un diverso obiettivo. Siccome il segretario democratico non si fida di Letta e Alfano, e teme un loro gioco di sponda, intende presentarsi al tavolo della trattativa minacciando l’asse con il Cavaliere, così da togliere al leader di Ncd la facoltà di porre veti. Di qui l’apertura di Renzi al modello spagnolo, caro a un pezzo di Forza Italia, e a cui il Cavaliere ha subito risposto mostrandosi disponibile all’intesa. L’ex premier è desideroso di partecipare alla sfida, «sono pronto a incontrare Renzi e ad accordarmi con lui», ha infatti detto, «ma a patto di ottenere le elezioni anticipate», accorpando a maggio Politiche ed Europee.

Ecco le avvisaglie dei rischi che corre il leader democrat, semmai iniziasse il gioco del cerino sulla legge elettorale: il movimentismo di cui è protagonista oggi, gli si potrebbe ritorcere contro domani. Perché un conto sono i desiderata di Renzi, che se potesse andrebbe alle urne anche domani, un conto sono gli spazi di manovra. E il voto anticipato non è nelle sue disponibilità. Non a caso lo stato maggiore del Pd ieri ha subito frenato dinnanzi alle richieste del leader forzista, che a sua volta si tiene le mani libere, e lascia i suoi dirigenti dividersi sul sistema di voto. Se Brunetta è favorevole al Mattarellum e Verdini propende per lo spagnolo, c’è chi - come il capogruppo al Senato Romani - sottolinea come «noi siamo fermi sulla difesa del bipolarismo, sapendo però che in Italia non c’è il bipartitismo». Traduzione: va privilegiata la logica di coalizione, e dunque un sistema che non uccida gli alleati ma li riunisca.

È un ponte verso Alfano che Berlusconi non ha mai fatto saltare, anzi. E c’è un motivo se il vicepremier intende tenerlo solido, se ribadendo la linea di un’intesa preventiva nella maggioranza, parla esplicitamente di un successivo «allargamento a Forza Italia». Dal ginepraio di mosse e contromosse, emerge il fatto che nella «rosa» delle proposte già una raccoglie il consenso dell’area di governo: il modello del «sindaco d’Italia», che è stato offerto da Renzi nel pacchetto, che non è inviso agli azzurri - visto come la Gelmini ieri ha evidenziato la «nostra disponibilità a discutere su qualsiasi sistema» - e che è stato preso al volo dal leader del Nuovo centrodestra: «Noi siamo pronti, e siamo pronti a fare in fretta».

A fronte della mano tesa da Alfano, come potrebbe il leader del Pd ritrarre la propria? Anche perché, se davvero vorrà portare a casa «entro gennaio» il primo voto della Camera sulla riforma, non ha molto tempo a disposizione. Il presidente della commissione Affari costituzionali di Montecitorio, Sisto, ha spiegato ai dirigenti del Pd che è possibile stare nei tempi, «a patto però che ci sia un accordo su un testo». Appunto.

03 gennaio 2014
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Francesco Verderami

Da - http://www.corriere.it/politica/14_gennaio_03/cosi-sindaco-prova-smarcarsi-letta-alfano-e82e00c8-744e-11e3-90f3-f58f41d83fbf.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Un TESTO corretto per disinnescare il fronte di Chiti
Inserito da: Admin - Aprile 28, 2014, 12:07:34 pm
Un TESTO corretto per disinnescare il fronte di Chiti
E Renzi prepara la strategia estrema
Il premier prepara una campagna in piazza e in tv

Di Francesco Verderami

«Se non avessimo fatto quello che abbiamo fatto, i Cinquestelle oggi sarebbero il primo partito», dice Renzi, che ha un modo tutto suo per compiacersi senza giustificarsi della strategia con la quale tiene a bada Grillo nella sfida elettorale e Berlusconi sulle riforme. «Quel che abbiamo fatto» è una sequenza di mosse predeterminate che sfocia nella presa di palazzo Chigi ma parte fin dalle primarie: fu Renzi infatti - da candidato alla guida del Pd - a premere perché il Senato votasse subito la decadenza di Berlusconi; fu Renzi - da leader del Pd - a voler incontrare al Nazareno un Cavaliere ormai «dimezzato»; e fu sempre Renzi - vincolata ormai Forza Italia al patto sulle riforme - a spiazzare tutti, sostituendo Letta alla guida del governo.

La ricostruzione serve al premier per spiegare che solo così il Partito democratico può proporsi oggi come alternativa a M5S e può gestire senza contraccolpi i contorcimenti di Berlusconi sulle riforme. Ma «se non avessimo fatto quello che abbiamo fatto», se cioè ci fosse ancora il governo Letta, Grillo non avrebbe rivali alle Europee e il Cavaliere avrebbe gioco facile a far naufragare il percorso costituente senza pagar dazio.

Invece il capo di Forza Italia non ha margini, stretto com’è in una morsa nel Palazzo e nel Paese: se da un lato Berlusconi non vuole dare a Renzi il voto sulla modifica del bicameralismo prima delle urne, perché teme di consegnare al leader del Pd tutto il dividendo elettorale, dall’altro non può né vuole offrire alla pubblica opinione l’immagine di chi ostacola un percorso di riforme che incrocia l’assenso popolare, perché rischierebbe di perdere ulteriore consenso.

È un azzardo a cui si aggiungerebbe un altro azzardo, l’extrema ratio che Renzi minaccia sapendo di usare l’arma come deterrente. Se davvero il Cavaliere si ponesse di traverso, gli lascerebbe la responsabilità dello strappo e a quel punto proporrebbe come unica alternativa il ritorno alle urne in autunno con una riforma della legge elettorale «varata a maggioranza». L’eventualità è vissuta con terrore da Forza Italia e dal suo leader, che vincolato dalla sentenza sul caso Mediaset sarebbe definitivamente fuori gioco.

Ecco perché l’opzione non esiste, Berlusconi non se lo può permettere. E comunque non glielo permetterebbe un pezzo consistente del suo stesso partito, se è vero che autorevoli esponenti azzurri sono convinti della necessità di non interrompere ora la legislatura. Ed è chiaro che una diversa decisione farebbe implodere Forza Italia. Il Cavaliere ne è consapevole, non a caso ieri prima ha seppellito in tv la riforma del Senato e l’Italicum, poi si è precipitato a rettificare. La verità è che l’ex premier cerca di proporsi come l’unico garante del processo costituente, tentando di evidenziare la «debolezza di Renzi nel Pd».

E non c’è dubbio che il presidente del Consiglio debba affrontare un passaggio complicato sulle riforme, siccome la commissione Affari costituzionali del Senato è vissuta dai renziani come la commissione Lavoro della Camera: una sorta di casamatta degli oppositori interni. Ma il premier è fiducioso: «E se la prossima settimana il nostro disegno di legge sulla modifica del bicameralismo verrà adottato come testo base, sarà game over». Secondo Renzi la spinta a trovare l’intesa nel Pd è data (anche) dai sondaggi, dall’aumento considerevole di consensi accreditato ai Cinquestelle: «C’è qualcuno di noi che ha istinti suicidi?»

Nemmeno Berlusconi li ha, solo che proprio i rilevamenti demoscopici lo inducono a chiedere una modifica dell’Italicum: altro che i costituzionalisti, è Grillo che lo preoccupa, è il timore di rimanere escluso dal ballottaggio e di riscoprirsi come capo di un terzo polo. Perciò il patto «va rivisto». Su questo punto Renzi non ha fretta, se ne riparlerà dopo le Europee. Per ora è concentrato a mostrarsi capace di centrare gli obiettivi prefissi. Sui contenuti lascia fare agli sherpa, convinto com’è che «gli italiani sono allergici alle discussioni sui dettagli».

Ma è nei dettagli che si annidano i rischi, i dettagli lo hanno costretto a fare l’alba insieme a Padoan, Delrio e Lotti, dopo aver presentato in conferenza stampa il decreto sull’Irpef: quei dettagli che la struttura del ministero dell’Economia poneva «come ostacoli», e che hanno spinto il premier fino a via XX Settembre per protestare con i tecnocrati del dicastero. Renzi non vuole «ostacoli» perciò fa mostra di non vederli. E se ci prova Berlusconi, non si scompone. A rispondergli ci pensa Schulz, il candidato del Pse alla guida del Commissione europea, che certo non avrà attaccato il Cavaliere senza prima aver informato palazzo Chigi...

25 aprile 2014 | 09:05
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_25/renzi-prepara-strategia-estrema-122a13f8-cc47-11e3-bd55-1293c86c2534.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Quel discorso per Marina
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2014, 06:57:17 pm
Sette giorni

Quel discorso per Marina

Di Francesco Verderami

C’è la figlia, poi ci sono i figli. E per la figlia già sette mesi fa aveva organizzato la discesa in campo: «Mai avrei immaginato di trovarmi su questo palco», è l’incipit del discorso scritto per Marina, che Silvio Berlusconi ha riletto nei giorni scorsi, trovandolo ormai superato. A logorare quel testo è stato il radicale cambio di scenario, in base al quale l’erede - se per davvero decidesse di misurarsi con il consenso - dovrebbe fare i conti con gli altri figli del Cavaliere, «perché Renzi e Grillo sono figli di Berlusconi», secondo l’ex ministro Matteoli. «Di Berlusconi, Renzi a suo modo ripropone l’epopea della rivoluzione liberale per il cambiamento dello Stato. Mentre Grillo - a detta del dirigente forzista - ha ereditato il profilo antipolitico», compresa la prosa iconoclasta, la stessa che venti anni fa contraddistingueva il Cavaliere, impegnato a bonificare la «cloaca romana».

Non è un caso, quindi, se l’ex premier aveva tentato di avvicinare i leader del Pd e dei Cinquestelle, perché in entrambi aveva rivisto un pezzo di se stesso. Ora che i due sembrano avergli strappato ruolo e primato, offrendosi agli elettori come i capi di un nuovo bipolarismo, Berlusconi si rammarica per quello che considera un suo errore: «Ho sbagliato e mi morderei la lingua», ha ammesso il Cavaliere, quando alcuni dirigenti gli hanno rimarcato i «troppi endorsement» a favore del premier democratico.

Ma le difficoltà non possono essere ridotte a questo passo falso. È vero, inseguendo l’abbraccio con Renzi, Berlusconi ha disatteso una regola aurea della politica, che ha sempre ripetuto ai suoi adepti e che lo ha reso vincente: «Non c’è grande partito senza un grande nemico». Ma il leader del Pd, non avendo l’imprinting comunista, impedisce oggi di riproporre il vecchio schema. C’è invece un altro problema, di cui il Cavaliere è consapevole, e che di fatto è stato evidenziato con il rilancio del marchio Forza Italia: un’operazione simile a quella decisa agli inizi degli anni Novanta dalla Dc, che ripropose il simbolo del Ppi perché sperava con un ritorno alle origini di rigenerarsi.

L’idea del futuro incarnato dall’eventuale discesa in campo di Marina resta così all’orizzonte per esorcizzare il declino, sebbene sia ancora legato a molte, troppe variabili. Di certo quel discorso - preparato lo scorso autunno - prefigurava la fine immediata della legislatura e il ritorno alle urne. Adesso tutto è cambiato, e c’è un motivo se il possibile «sacrificio» della figlia non pare aver acceso l’immaginario di quella parte dell’elettorato azzurro che - a detta dei rilevamenti demoscopici - sarebbe per il momento intenzionata a disertare il voto.

Il fatto è che gli «altri figli» di Berlusconi stanno cannibalizzando la competizione, come si fossero divisi l’eredità politica e mediatica del Cavaliere. Anche se nulla è scontato, visto che ieri non c’è stato sondaggista a non aver preso le distanze da se stesso e dai propri numeri. Diamanti su Repubblica ha esortato i lettori alla «prudenza», D’Alimonte sul Sole li ha invitati alla «cautela». L’unica certezza è «l’incertezza», per dirla con Pagnoncelli sul Corriere. Ma è evidente che Forza Italia non decolla, se Berlusconi ha già cambiato comunicazione in campagna elettorale. All’inizio c’era la sfida con Grillo per il secondo posto, ora - come se avesse già metabolizzato il terzo posto - cerca di invogliare l’elettorato, puntando al superamento di una certa «quota».

Già, ma quale? Se fosse «quota 20%» si tratterebbe del peggior risultato mai ottenuto da Berlusconi in undici competizioni dal ‘94 ad oggi. Perciò da ieri ha preso a parlare del 25%. Resta la preoccupazione di ritrovarsi il giorno dopo le urne dietro Renzi e Grillo, inseguito dalla profezia di Alfano che - dopo la separazione - disse che «senza di noi Forza Italia sarà un terzo polo». Il fatto è che la disgregazione del centrodestra potrebbe anticipare una crisi di sistema, che le ultime inchieste rischiano di accelerare. Infatti il leader di M5S - come nel ‘94 fece Berlusconi - vellica il giustizialismo, perché nel fuoco purificatore in cui si vedono bruciare gli altri è più facile pensare di purificare se stessi.

«O noi o loro», dice Grillo: un concetto semplice e rivoluzionario, con cui prova ad accomunare tutti gli avversari. E Renzi, l’altro «figlio» di Berlusconi, prova ad evitare l’equiparazione con il Cavaliere, e contrappone alla «rabbia» del capo dei grillini la «speranza» del suo esecutivo. Perché, ecco la novità, dai sondaggi è emerso che una parte consistente di elettori considera Renzi il leader di un «partito del governo». La partita elettorale dunque è vista come una sfida a due, e sembra al momento oscurare il ruolo dell’ex premier.

Gli effetti di questo nuovo scenario saranno chiari solo all’apertura delle urne, ma la morsa in cui si trova Berlusconi fa capire che sono pochi i margini di azione. Per questo motivo ha frenato i propri istinti e ha evitato la rottura sulle riforme con Renzi, per non consegnarsi a Grillo. Il Cavaliere, che sette mesi fa aveva preparato il discorso per la figlia, deve vedersela con i suoi «figli».

10 maggio 2014 | 08:26
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_10/quel-discorso-marina-7934d9dc-d80b-11e3-8ef6-8a4c34e6c0bb.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Ora il premier è un uomo solo al comando
Inserito da: Admin - Maggio 26, 2014, 06:17:55 pm
Ora il premier è un uomo solo al comando
Un risultato senza precedenti Nuovi equilibri per fare le riforme
L’unica incognita per la maggioranza è il risultato di Ncd
Di Francesco Verderami

ROMA — È un mondo nuovo, una vera e propria cesura con il passato: di qua un Renzi dominus di un risultato senza precedenti, di là un Grillo assai ridimensionato nelle mire, in mezzo il tramonto di Berlusconi e del berlusconismo, con Forza Italia che assiste alla propria disfatta e il Nuovo centrodestra che lotta per la sopravvivenza. Così il Cavaliere, che pensava di poter ipotecare il successo del leader democratico — tenendo la golden share sulle riforme e una spada di Damocle sul governo — deve invece decidere come investire quel che resta del suo consenso, per contribuire a rifondare quella che fu la coalizione dei moderati. O consegnarla al tribunale fallimentare della politica.

Una cosa è certa, al di là della vittoria del Pd: è in atto una rivoluzione che può travolgere il sistema oppure rinnovarlo e fortificarlo. È un passaggio infatti che potrebbe spazzar via le ultime macerie della Seconda Repubblica o dar vita a un nuovo «arco costituzionale» attorno al presidente del Consiglio, un ombrello sotto il quale le forze che si contrappongono ai Cinquestelle decidono di mettere davvero mano alla Costituzione per non soccombere.

Ecco a cosa è servito il voto per l’Europa: a decidere le sorti dell’Italia. È stato allo stesso tempo un sondaggio sull’esecutivo, un referendum sulle riforme, uno stress-test sulla futura legge elettorale, una sfida tra le tre coalizioni: insomma è stato tutto fuorché un voto per Strasburgo, verso cui è aumentata l’ostilità del Paese, visto come è aumentato l’astensionismo. E non c’è dubbio che Renzi è da considerarsi l’unico vincitore, il punto di riferimento di chi nel Paese chiedeva la stabilità. Ma il risultato rischia di passare per una «vittoria dimezzata» per il suo governo, se il Nuovo centrodestra non superasse la soglia del 4%, perché il partito di Alfano è stato fino a oggi il «perno» della strana maggioranza: qualora non dovesse superare la prova, si aprirebbe un grave problema per Ncd e in quota parte anche per il premier.

Certo, Renzi ha oggi in mano la carta per «cambiare verso» al sistema e prendere l’abbrivio per arrivare fino al 2018. Le urne d’altronde parlano chiaro: è un affidavit per varare le riforme, non per passare subito all’incasso con il voto anticipato. Anche perché oggi manca la metà dell’elettorato all’appello, e l’esito della sfida potrebbe ribaltarsi. Ma è chiaro che per andare avanti servirà «un cambio di passo, per la ripartenza»: così lo definisce un autorevole dirigente del Pd, che ipotizza «di qui all’autunno» un «rimpasto» con cui «adeguare l’esecutivo al nuovo quadro politico», un riequilibrio «dettato dal riassetto dei rapporti di forza». Con Scelta civica cannibalizzata, e Ncd che balla sulla soglia del 4%, questa è l’opzione.

Insomma, non c’è la prospettiva di allargare i confini dell’area di governo a Berlusconi. I Democratici, con il loro leader in testa, si sono sempre detti contrari all’ingresso di Forza Italia nell’area di governo. Renzi, nei colloqui riservati delle settimane scorse diceva che «un conto è se i gruppi parlamentari di Alfano si allargano un po’, un’altra cosa è se cambiasse la composizione della maggioranza». E allora bisognerà verificare cosa vorrà fare il Cavaliere, a urne chiuse. Sulle riforme, dovrà stabilire se far da «padrino» a un nuovo «arco costituzionale» o consegnarsi a un ruolo marginale. Resta da capire quali contropartite potrà ora chiedere al capo dei democrat, e se Renzi sarà disposto ad accettarle.

Il «bipolarismo sbilenco» che si delinea, una riedizione del duello tra Dc e Pci, con M5S nel ruolo di forza alternativa al sistema, cambia i termini dei patti finora stipulati: per il governo, per le riforme e anche per la legge elettorale. Era evidente che le Europee sarebbero state un test per l’Italicum, e il test non è stato superato. Il rischio è che questo modello di voto venga accantonato, di sicuro andrà modificato. È vero che il centrodestra — sommando i consensi ottenuti da tutti i partiti che facevano parte della vecchia Casa della libertà — potrebbe tentare di competere con il Pd per la conquista di Palazzo Chigi, ricacciando indietro Grillo, al ruolo di leader di un terzo polo. Ma l’area berlusconiana — in crisi dopo la fine del Pdl — sembra aver perso spinta propulsiva, e comunque si appresta ad affrontare una cruenta resa dei conti tra Forza Italia e Ncd.

Il destino del Nuovo centrodestra si riflette sul destino del governo, e viceversa. Nel senso che — in prospettiva — questo partito potrebbe venire risucchiato nell’orbita renziana a meno di un cambio di linea che i suoi dirigenti già mettono nel conto. Ma la forza del premier non lascia molti margini agli alfaniani e nemmeno a Berlusconi. Il premier è il nuovo magnete, la zattera a cui le stesse forze di centrodestra sembrano doversi aggrappare per non soccombere. È un’alleanza di necessità, che attorno al segretario del Pd potrebbe coagulare quel nuovo «arco costituzionale» chiamato a varare le riforme e portare il sistema verso la Terza Repubblica. Ma non dovevano essere elezioni Europee?

26 maggio 2014 | 06:50
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Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2014/elezioni-europee/notizie/risultato-senza-precedenti-d4faffda-e490-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il premier e i primi effetti del voto sulla coalizione
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2014, 12:19:40 pm
Il partito democratico
Il premier e i primi effetti del voto sulla coalizione
Cosa potrebbe cambiare negli equilibri interni al governo
E se Lupi optasse per Strasburgo, Renzi dovrebbe cambiare una casella

Di Francesco Verderami

Forte in Europa e senza avversari in Italia, da oggi ricomincia la luna di miele tra Renzi e il Paese, perché il risultato delle Europee ha di fatto resettato il suo rapporto con l’opinione pubblica che tre mesi di governo sembravano aver logorato: d’altronde non era mai accaduto che il voto decretasse un solo vincitore. Ma c’è un motivo se il premier ha scelto di non enfatizzare la vittoria, se ha detto che «Grillo non va sottovalutato». È vero che il tramonto del berlusconismo e il netto ridimensionamento dei Cinquestelle gli offrono la chance di aprire un lungo ciclo politico, ma la «febbre» del malcontento potrebbe tornare a salire rapidamente se non ottenesse al più presto dei risultati a Roma come a Bruxelles.

Non c’è dubbio quindi che il leader del Pd voglia accelerare sulle riforme, ed è consapevole che i suoi competitori non abbiano la forza né la voglia di cambiare la sua agenda, però sa di dover attendere che la polvere della competizione elettorale si posi, così da capire gli effetti del voto sugli equilibri delle forze alleate e avversarie. Effetti che potrebbero già modificare la squadra di governo e imporre a breve dei «cambi in corsa», al di là del rimpasto ipotizzato dopo il semestre europeo: se Lupi decidesse infatti di lasciare il ministero delle Infrastrutture per sedere a Strasburgo, Renzi sarebbe chiamato a operare una sostituzione di peso nel suo gabinetto.

È impensabile che Alfano, in tal caso, non chieda per un rappresentante del suo partito la guida di quel dicastero, cosi come è presumibile una trattativa con il premier. Certo, nessuna altra forza potrà vantare pretese, visto che Scelta civica è ridotta a prefisso telefonico, ma è anche vero che i rapporti di forza tra Pd e Ncd da domenica sono mutati e i Democratici potrebbero tentare di forzare la mano. Renzi tuttavia non ha interesse a rompere l’incantesimo nella sua coalizione, le parole di «gratitudine» rivolte ieri al Nuovo centrodestra dimostrano che il suo intento è di rassicurare l’alleato, unico «superstite» della mattanza elettorale, ma che - uscito debole dalla prova del voto - teme in prospettiva di venire soffocato dall’abbraccio. Non a caso Alfano ha provato a divincolarsi, dicendo che «il governo non è un monocolore Pd».

In ogni caso, ecco un primo effetto del test europeo, perché è evidente che se Lupi optasse per l’Europa, lo farebbe con l’intento di dedicarsi a tempo pieno di Ncd e del processo di ricostruzione del centrodestra. Un processo nel quale - per quanto possa apparire paradossale - Renzi è parte attiva. Abile nel tenere un piede nel campo di Agramante, il leader dei democrat si è finora garantito il rapporto con Berlusconi sulle riforme, garantendo così al Cavaliere una centralità nell’area moderata che al momento impedisce il progetto di ricostruzione. È un’Opa camuffata, quella di Renzi, mentre tra la «generazione dei quarantenni» di quel che fu il Pdl, si lancia i primi segnali. Tra le invettive reciproche degli esponenti forzisti e di Ncd dopo il voto, non è sfuggita l’apertura di Fitto - autentico acchiappa preferenze azzurro - alle primarie. «Almeno una cosa concreta», ha commentato Alfano. Il resto si vedrà, le Regionali saranno fra un anno...

La lunga marcia nel deserto che attende il centrodestra si fa più complicata proprio per la presenza sul sentiero di Renzi, che per un verso tiene nella maggioranza di governo Ncd e per l’altro tiene nella maggioranza per le riforme Forza Italia, alle prese con un dilemma: se assecondasse il premier nel progetto di revisione istituzionale, gli consegnerebbe almeno il successo alle prossime elezioni politiche; se rompesse, se ne assumerebbe la responsabilità, offrendo al capo del Pd la possibilità di denunciare chi vuole far restare l’Italia «nella palude» e di andare al voto anticipato nel ruolo della «vittima».

Sia chiaro, il premier mira a durare sfruttando la propria capacità attrattiva, e punta a costituire quel nuovo «arco costituzionale» di cui sarebbe l’artefice. Anche la manovra di accostamento ai grillini va letta in questo senso, in attesa di vedere come reagiranno i gruppi parlamentari dei Cinquestelle, dove il malcontento finora era stato tacitato dalla campagna elettorale. Al momento è necessario che la polvere della competizione si posi, prima che Renzi acceleri di nuovo, con un occhio alle riforme e uno alle manovre per il Colle, argomento affrontato nelle segrete stanze e tenuto al riparo per non bloccare la stagione costituente. Ma se il Parlamento dovesse davvero far sul serio e modificare la Carta, la corsa per il Quirinale (già iniziata) si aprirebbe ufficialmente.

27 maggio 2014 | 08:16
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http://www.corriere.it/politica/14_maggio_27/premier-primi-effetti-voto-coalizione-3d0e5c0a-e565-11e3-8e3e-8f5de4ddd12f.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Forza Italia e i rischi dell’asse con la Lega. Il piano di
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2014, 10:28:17 pm
SETTEGIORNI

Forza Italia e i rischi dell’asse con la Lega. Il piano di Alfano
L’obiettivo è tornare uniti con una coalizione. Lupi resta nell’esecutivo ma spiega che l’Ncd ora ha l’obiettivo di ricostruire il centrodestra
Di Francesco Verderami

Il centrodestra è un fortino in macerie e senza più difesa, che solo un nuovo esercito e una rinnovata alleanza potrà salvare dal rischio delle invasioni, delle annessioni, dell’irrilevanza e dell’oblio, che sono ben peggiori della fine.

Alle viste c’è l’armata di Renzi, che ha già varcato la frontiera e mira a insediarsi definitivamente su un territorio mai conquistato dal Pd. Il «partito della nazione» non è uno slogan rubato al centrodestra, è l’annuncio di un’invasione del centrodestra che il premier prepara in vista delle prossime elezioni, dove si presenterà con «volti nuovi e di provenienza moderata», quegli stessi volti che Berlusconi non è riuscito ad avere tra le sue file, e che invece stanno riservatamente accettando l’offerta del leader democratico.

Potrà quindi bastare al Cavaliere offrirsi al dialogo con Salvini, pur di salvare il suo castello? Anche perché il Carroccio vuole il suo castello: «Puntiamo a egemonizzare il centrodestra», spiegava il giorno dopo le Europee il leghista Fedriga. L’intesa con Berlusconi serve per far calare il ponte levatoio di Forza Italia e occuparne poi la piazza d’armi. D’altronde, cosa pensi Salvini dell’ex premier è presto detto: «È un bollito», commentò dopo averlo incontrato ad Arcore un paio di mesi fa, senza esser mai riuscito a parlargli in privato. E quando il Cavaliere intuì lo stato d’animo dell’ospite, a disagio per l’incombente presenza della senatrice Rossi, gli disse: «Lo so, è peggio di Rosi Mauro», famosa per esser stata la «badante» di Bossi e l’artefice di un altro cerchio magico.

Altri tempi, altra storia, altri giudizi sul «vecchio Umberto», a cui pure Berlusconi diede talvolta del «mascalzone», ma non con il tono sprezzante usato l’altro giorno per Salvini: «Non fatemi parlare di lui. Si è permesso di darmi dell’ottantenne e di dire che vorrebbe rottamarmi». E allora, è questo il prezzo da pagare per non mostrarsi solo e finire isolato? Oltre le differenze (sostanziali) tra una forza che milita nel popolarismo europeo e un’altra che ora è alleata con il Fronte lepenista, è possibile che il leader storico del centrodestra stia consegnando il segno del primato a chi finora ha capitanato l’intendenza?

«È una follia», sostiene Fitto insieme a molti dirigenti azzurri. «È una follia», sostiene Alfano insieme a tutto Ncd. E c’è un motivo se pezzi importanti di ciò che è stato il Pdl si esprimono allo stesso modo, pur restando ognuno nel proprio accampamento. Non è un caso se pensano e propongono a Berlusconi l’idea di un nuovo esercito e di una rinnovata alleanza di centrodestra. Ma è bastata l’idea delle primarie per far scattare in Forza Italia l’accusa di «lesa maestà», di «tradimento», epiteti accompagnati il giorno dopo dalla solita smentita. «È un metodo che ha già danneggiato la nostra comunità politica e umana», commenta la Carfagna, che così dicendo tocca le proprie ferite e ricorda le ferite di chi ha scelto un’altra strada.

Eppure proprio quei segni della divisione diventano ora i segni di una vecchia appartenenza. Ecco perché Lupi si offre al dialogo: «Quando decidemmo di restare al governo, lo facemmo per senso di responsabilità per la ricostruzione del Paese. Ma il nostro impegno politico è per la ricostruzione del centrodestra». Non chiede abiure il ministro, e certo non è pronto a farne: «Resto nell’esecutivo», dice. E il caso del rimpasto è chiuso. Almeno per ora il premier non potrà procedere all’ingresso del capogruppo democratico Speranza nel suo gabinetto. Si apre invece un’altra fase nei rapporti tra Pd e Ncd, che vorrà caratterizzare la sua presenza a palazzo Chigi, lasciando aperto qualsiasi scenario futuro.

Nel frattempo propone a Forza Italia la nascita di quel cantiere necessario a riedificare i contrafforti del fortino diroccato e minacciato dal «partito della nazione», e che non può essere lasciato in dote al Carroccio. Per riuscire nell’intento «bisognerà che tutti si rimettano in gioco», ha detto Alfano riunendo l’altro giorno i gruppi parlamentari del suo partito. E se la Lega lo immaginava già pronto a intrupparsi con Renzi, il ministro dell’Interno ha inteso smentirlo: «Il centrodestra è nel nostro DNA, è nel nostro nome. È la nostra missione, il nostro orizzonte, la nostra prospettiva». Ognuno con le proprie insegne, però, «perché il progetto di Ncd va avanti. Occorreranno battaglie forti e visibili, al governo e nel Paese. Non sarà un compito facile né breve. Chi ha paura lo dica. Ma non si crea un partito in pochi mesi». Né si ricrea una coalizione in poche settimane.

I modelli da cui trarre spunto sono tanti. Ncd ipotizza quello della Coalicion popular, che in Spagna avrebbe nel tempo dato vita al partito popolare. Dentro Forza Italia si pensa all’Ump francese, che garantì al gollismo di sopravvivere a De Gaulle. In un caso come nell’altro, è chiaro il messaggio rivolto a Berlusconi. Perché tutti sono pronti a competere, senza sconfessare il proprio ceppo d’origine. Ma nessuno vuole rassegnarsi alle invasioni, all’irrilevanza, all’oblio. Cose ben peggiori della fine.

31 maggio 2014 | 11:04
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_maggio_31/forza-italia-rischi-dell-asse-la-lega-piano-alfano-b2bb1b4e-e8a0-11e3-8609-4be902cb54ea.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Così cambia la strategia sui trattati Ue.
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2014, 12:23:43 am
Sette giorni
Così cambia la strategia sui trattati Ue
I consigli del Colle e il piano da 10 miliardi

Di Francesco Verderami

Dovrà trasformare il prossimo autunno in una nuova primavera per evitare un rapido inverno a se stesso e al suo governo: il rilancio dell’economia sarà per Renzi una sfida da «dentro o fuori». Nel puzzle che in parte ritiene di aver completato con l’intesa bipartisan sulle riforme istituzionali, è questo il tassello mancante. E anche il più importante. Non basta infatti saper gestire in equilibrio l’accordo (vero) con Berlusconi, il dialogo (finto) con Grillo e l’alleanza con Alfano, a cui ha promesso che «non farò patti assassini contro di te» sulla legge elettorale.

È sulla crescita che il Paese attende Renzi alla prova: da settembre non gli sarà più consentito scaricare la crisi italiana sugli «ultimi inconcludenti venti anni», né potrà bastare il fatto che «l’Italia è uscita dalla depressione» se continuerà a galleggiare ai margini della recessione. Manca un tassello al premier, o gli salta il puzzle. Ed è in Europa che vincerà o si perderà, entro dicembre. La legge di Stabilità - «il mio biglietto da visita» - si preannuncia come un difficile banco di prova, che in molti - nell’opposizione ma anche nella maggioranza - ritengono dovrà essere preceduta da una manovra correttiva. «Si sbagliano», assicura Renzi: «D’altronde sono gli stessi che non ne hanno mai azzeccata una». La sfrontata determinazione con cui confuta le tesi dei «gufi di destra e di sinistra», si combina con un approccio diverso alla soluzione del nodo economico che rischia di strangolarlo.

E se ancora pochi mesi fa, da leader del Pd, attaccava palazzo Chigi e il «rigorista» Enrico Letta, sostenendo che «il vincolo europeo del 3% è anacronistico e si può sforare», da capo del governo ha accolto i suggerimenti di Giorgio Napolitano, con il quale si è confrontato prima dell’inizio del semestre di presidenza italiano: «Matteo, non è opportuno chiedere la modifica dei Trattati. È preferibile lavorare sulle clausole dei Trattati». Quel giorno al Quirinale, accompagnato da una delegazione dell’esecutivo e dal titolare dell’Economia, Renzi si rese conto che non avrebbe abbattuto l’ostacolo europeo, «andresti incontro a una sconfitta», e che al massimo avrebbe potuto aggirarlo.

Padoan, d'intesa con Napolitano, spiegò che nelle pieghe delle norme «c’è spazio» per recuperare soldi alla bisogna: «Dieci miliardi», da trattare a Bruxelles. Attorno a questa complessa mediazione è in corso la battaglia, su questo si regge il rapporto con la Merkel, che alla riunione del Ppe si è spesa per il premier italiano, «su cui possiamo puntare». Perciò Renzi non si è curato degli attacchi che gli ha rivolto nell’Europarlamento il capogruppo popolare Weber, «che non è della Cdu, il partito della cancelliera, ma della Csu bavarese. E anche in Germania si fa politica mica solo in Italia...». Così come non gli ha fatto velo l’offensiva della Bundesbank, che a suo giudizio era «un siluro lanciato contro Draghi», e che in Italia gli ha fatto gioco, perché lo propone come difensore degli interessi nazionali. Ma al dunque, c’è da completare il puzzle, e c’è intanto da fare affidamento sul ministro dell’Economia, che dopo una fase iniziale di (reciproca) diffidenza ora Renzi chiama «il mio capo».

Sono due i fronti, uno è posto sulla trincea della «flessibilità» per ottenere intanto qualche margine, l’altro sulle riforme da varare: fisco e lavoro, che è carne viva per il Paese. Riuscirà il premier nell’impresa? Ieri ha annotato con una punta di soddisfazione come «per la prima volta questo mese c’è un segno positivo sull’occupazione». Poca cosa però, e il flebile segnale di luce si unisce all’ombra sugli 80 euro, che ha garantito a Renzi un ritorno elettorale ma non un ritorno sui consumi. La sfida si gioca su ben altri livelli, e Renzi confida di riuscirci. Presentando a Barroso la sua squadra di governo, l’ha rappresentata in scala come la maggioranza in Europa: «Ci siamo noi socialisti e democratici, c’è una forte presenza popolare con Alfano, e poi - ha concluso volgendosi verso la Giannini - ci sono anche i liberaldemocratici, che non hanno ottenuto un buon risultato alle elezioni, ma lasciamo stare...».

Sulle battute non ha cambiato verso, bisognerà vedere se ha cambiato atteggiamento. Cosa farà se non riuscirà a completare il puzzle? Prima di dimettersi da premier, Enrico Letta si congedò dagli alleati di Ncd con una profezia: «Vedrete. Renzi rilancerà e poi rilancerà ancora. Finché alla prima occasione vi porterà al voto». Anche questa è la scommessa.

5 luglio 2014 | 10:41
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_05/cosi-cambia-strategia-trattati-ue-1e319ce8-041e-11e4-80b4-bb0447b18f3b.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Renzi, la doppia maggioranza e il settembre nero da superare
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2014, 10:07:11 am
Sette giorni

Renzi, la doppia maggioranza e il «settembre nero» da superare
L’asse con il partito e la strategia con Forza Italia.
Il premier ai suoi: «Autunno difficile, ci aiuterà fare cose nuove»

Di Francesco Verderami

Tra soglie di sbarramento e parametri economici, tra legge elettorale e legge di Stabilità, Renzi si appresta ad affrontare un settembre che rischia di esser nero. «È da giugno che in troppi preparano un settembre nero contro il governo e per gli interessi più svariati», dice Alfano per spiegare come dietro la sfida dei numeri si celino gli avversari dell’esecutivo, che a vario titolo - dentro e fuori il Palazzo - proprio a quei numeri si affidano per veder saltare il banco. Nell’attesa c’è chi si predispone già al soccorso: «Se avrai bisogno di una mano...», ha lasciato cadere Berlusconi l’altro giorno al telefono con il premier. Accadde più o meno la stessa cosa quattro anni fa, quando il Cavaliere ospitò ad Arcore l’allora sindaco di Firenze, offrendogli il potere. Ma l’altro, piuttosto che ottenerlo (forse) per delega e (sicuramente) ad interim, rispose: «Grazie, faccio da me».

È successo anche stavolta, Renzi vuole ballar da solo. «Con Forza Italia non ci sono le condizioni per una comune responsabilità sulle questioni di governo», ripete il vice segretario del Pd Guerini. Ma non c’è dubbio che la fase sia «molto delicata», è stato lo stesso presidente del Consiglio a riconoscerlo ieri, al pranzo con i capigruppo di maggioranza del Senato. Un incontro che di per sé è una notizia, perché segnala una svolta nelle relazioni del capo del governo con la sua rappresentanza parlamentare, guardata finora con sospetto e perciò tenuta a debita distanza. Ma la battaglia al Senato sulle riforme istituzionali ha cambiato verso al rapporto, e il rendez vous a palazzo Chigi è servito a Renzi per consolidare il legame, per rendere tutti partecipi della sua strategia: «Forza Italia resta un interlocutore privilegiato sulle riforme ma non è un alleato, non è condizionante».

Insomma, schema che vince non si cambia. Il leader del Pd intende proseguire «fino al 2018» con la tattica della «doppia maggioranza» che gli sta per garantire al Senato il primo voto sulla modifica del bicameralismo. Ma in vista del «settembre nero» rafforza intanto l’argine della maggioranza di governo, consapevole che «l’autunno sarà difficile»: «Tuttavia, proprio le difficoltà ci aiuteranno a fare cose nuove». Non è dato sapere quali saranno le «cose nuove» che dovrebbero trovar spazio nella legge di Stabilità, e che sarebbero alla base di certe frizioni con il ministro dell’Economia. C’è un motivo però se giovedì, in Consiglio dei ministri, il premier ha voluto rassicurare la sua squadra di governo: «Piano piano ce la faremo. E supereremo le critiche attraverso la ripresa dell’occupazione. Perché assieme ai dati negativi, ci sono anche dei dati positivi».

Quei centomila occupati in più sono per Renzi un fragile germoglio da coltivare nel deserto dello scetticismo che lo circonda. Basterebbe infatti una manovra per bruciarlo. Ecco il punto. Per questo annuncia il decreto «sblocca Italia» e intanto prova a diffondere ottimismo nel Paese, perché - come evidenzia il ministro Lupi - «l’economia può ripartire anche se gli italiani riacquisiscono fiducia». Nel salone del governo, l’altro giorno, parlava Renzi ma sembrava Berlusconi: «...Eppoi, certo, se Ballarò ogni giorno descrive l’Italia come un Paese dove va tutto male, è chiaro che gli italiani si deprimono». E allora via all’abbattimento dei tabù della sinistra, compresa l’autorizzazione alle trivellazioni in Sicilia e Basilicata per garantirsi l’energia: «Non si capisce perché - dice il premier - dobbiamo comprare all’estero quello che abbiamo in casa, e che non viene sfruttato a causa di burocrati impegnati solo a bloccare tutto».

La battaglia contro la nomenklatura e l’establishment è un chiodo fisso di Renzi, un filo rosso accompagna le critiche ai sindacati «che rischiavano di mandare a monte l’accordo su Alitalia», lo scontro con le Sovrintendenze «che vorrebbero gestire a loro piacimento i musei», e per ultimo il ben servito a Cottarelli sulla spending review: così facendo, cavalcando l’anti-politica, Renzi pensa di riaffermare il primato della politica. Il rischio è di ritrovarsi da solo, quando gli servirà un sostegno. E il rischio si avvicina, è il «settembre nero».

Il problema sono i numeri: quelli del bilancio dello Stato e quelli sulle soglie per la legge elettorale. Sono due fronti diversi e insieme minacciosi. Il premier però confida di arrivare all’appuntamento con l’autunno politicamente rafforzato se - come sembra - palazzo Madama darà il via libera alle modifica del bicameralismo prima della pausa estiva. Anche in questo caso, Renzi non ha accettato i suggerimenti di quanti lo esortavano alla prudenza sulle riforme istituzionali: no, voleva vincere prima di mediare. E adesso, dopo giorni di baraonda, sgombrato il campo dall’ipotesi del Senato elettivo - attorno a cui ruotava la sfida con le opposizioni - si appresta a un fine settimana di trattative su alcuni punti del provvedimento: è un modo per smentire quanti lo accusavano di una «deriva autoritaria».

Sulla legge elettorale invece la mediazione sarà più lunga e faticosa per far accettare a Berlusconi le preferenze e un abbassamento della soglia di accesso al Parlamento, che dovrebbe calare fino al 4%, come per il sistema delle Europee.

La «doppia maggioranza» finora ha garantito al premier il gioco al rilancio a Roma. Ma un conto sarà mediare con il Cavaliere sui numeri del sistema di voto, altra cosa sarà patteggiare con Bruxelles sui numeri del bilancio pubblico. Per settembre le previsioni non annunciano tempo sereno su palazzo Chigi. Basterà l’ombrello a Renzi?

2 agosto 2014 | 07:16
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_agosto_02/renzi-doppia-maggioranza-settembre-nero-superare-45c0ff06-1a03-11e4-8091-75f99d804c44.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI La linea garantista che agita il Pd
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2014, 06:39:05 pm
La linea garantista che agita il Pd

Di Francesco Verderami

Tenere una linea sulla giustizia può essere difficile per Renzi quanto tenere a posto i conti pubblici. Prima da leader del Pd e poi anche da presidente del Consiglio, Renzi ha vissuto finora pericolosamente la sua stagione, oscillando sulle questioni da codice penale tra gesti intransigenti ed enunciati garantisti. Il modo in cui ieri ha difeso l’ad di Eni - accusato di una presunta tangente per una concessione petrolifera in Nigeria - è parsa una svolta, perché è stata insieme la rivendicazione della scelta fatta cinque mesi fa con la nomina di Descalzi, e la difesa di un principio costituzionale: «Rispetto le indagini e aspetto le sentenze».

Insomma, è una posizione coraggiosa, che rompe con gli atteggiamenti a volta farisei del passato e tende a restituire alla politica i suoi spazi e il suo primato. Il fatto è che Renzi non si è sempre mosso così da quando è balzato sulla scena. È vero che c’è una differenza tra un manager e un rappresentante del popolo. È vero che nel mondo del business internazionale il confine tra lobbismo e «stecca» è assai labile. Ed è vero infine che certe inchieste si portano appresso il rischio di quei «danni collaterali» - come li definisce il Giornale - a causa dei quali famose aziende di Stato italiane hanno perso commesse multimilionarie all’estero.

Tuttavia l’approccio del premier non fu lo stesso quando non era ancora premier. Ai tempi del «caso Fonsai» - che portò all’arresto dei Ligresti - il rottamatore chiese infatti le dimissioni del Guardasigilli del governo Letta. Secondo Renzi, la Cancellieri si sarebbe dovuta dimettere per via di quella telefonata con i familiari degli arrestati, durante la quale il ministro della Giustizia aveva criticato la decisione dei magistrati: «Indipendentemente se abbia ricevuto o meno un avviso di garanzia, sono per le sue dimissioni. Non è un problema giudiziario, questo. È un problema di opportunità politica».

L’«opportunità politica» fu lo scudo dietro cui Renzi protesse il suo garantismo e iniziò a picconare #enricostaisereno. Fu infatti per «ragioni di opportunità politica» - fresco vincitore delle primarie nazionali - che risolse con una telefonata il «caso Barracciu», la dirigente democratica vincitrice delle primarie in Sardegna e finita nell’inchiesta sulle spese pazze del Consiglio regionale. Lei era solo indagata, lui allora era solo segretario del Pd. Lei fece un passo indietro nella corsa da governatore, lui - appena diventato premier - le diede un posto nel governo. Fu un cambio di rotta tanto brusco quanto incomprensibile. Accusata di peculato, la Barracciu fu difesa dalla Boschi: «Non è nostra intenzione chiedere dimissioni di ministri o sottosegretari sulla base di un avviso di garanzia». Una posizione garantista, non c’è dubbio: ma perché non venne adottata prima?

Sarà stato per ragioni di «opportunità politica», le stesse che indussero Renzi ad avallare il voto a scrutinio palese della Camera sulla richiesta d’arresto - avanzata dalla procura di Messina - del deputato pd Genovese, che era solo indagato e non condannato. Fu una scena raccapricciante agli occhi di molti dei parlamentari dem. E la scelta iper giustizialista - non contrastata dal premier - più che una ragione di opportunità politica si rivelò un caso di opportunismo elettorale, visto l’approssimarsi delle Europee e la battaglia con il Movimento 5 Stelle. Lo si capì dal tweet di Renzi, qualche minuto dopo il voto (favorevole all’arresto) di Montecitorio: «Ora Grillo si asciughi la bava alla bocca».

Tenere parametri garantisti è complicato quanto restare dentro i parametri europei. Eppure il premier sembra stavolta intenzionato a non deflettere, e così come si è mosso a difesa di Descalzi, non si è mosso - almeno così pare - per invitare al passo indietro il compagno Bonaccini, in corsa per le primarie del Pd in Emilia Romagna e accusato dalla Procura bolognese dello stesso reato che impedì alla Barracciu la candidatura in Sardegna. Una svolta che sconta le contraddizioni del passato, perché mentre Renzi non intervenne a difesa di Genovese per risparmiargli la galera preventiva, si è esposto con l’ormai ex governatore emiliano Errani, che pure era stato condannato in secondo grado e al quale però aveva chiesto di restare al suo posto.

L’applauso per «Vasco», strappato domenica scorsa a Bologna dal segretario del Pd al popolo della festa dell’Unità, ha coinciso con l’offensiva riformista del premier sulla giustizia, con il tweet sulla responsabilità civile dei magistrati («chi sbaglia paga»), con il taglio delle ferie ai togati, con quel «brrrr che paura» con cui ha risposto agli attacchi dell’Anm. Renzi, che dismesso il vecchio Cda della «ditta», sembra volerne dismettere anche la linea politica. A questo punto resta da capire se si tratta solo di un caso di «annuncite», o se davvero il premier vorrà rottamare il giustizialismo insieme allo Statuto dei lavoratori. E se così fosse, bisognerà vedere se reggerà il Pd. A meno dell’ennesima correzione di rotta per ragioni di «opportunità politica».

13 settembre 2014 | 08:29
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_13/linea-garantista-che-agita-pd-26f992aa-3b0e-11e4-9b9b-3ef80c141cfc.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi, il governo Renzi e l’idea di sostituire Ncd ...
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2014, 04:08:07 pm
SETTEGIORNI

Berlusconi, il governo Renzi e l’idea di sostituire Ncd nell’esecutivo
Finora l’«operazione Lassie» per togliere ad Alfano la golden share della maggioranza in Senato, non ha sortito effetti

Di Francesco Verderami

Berlusconi vuole allearsi con Ncd per i governi regionali o vuole sostituirsi a Ncd al governo nazionale? Ultimamente pensieri parole opere (e omissioni) del Cavaliere - assai contraddittori - hanno alimentato il dubbio sul suo reale intento: cerca Alfano o aspira a Renzi? Vuole ricostruire una coalizione di centrodestra per battere poi Renzi nelle urne o pensa piuttosto di asfaltare il Nuovo centrodestra per poi allearsi con Renzi in Parlamento? È una domanda che ormai si pongono apertamente anche dentro Forza Italia, siccome gli indizi sono numerosi, tanti quante le impronte che Berlusconi ha lasciato sul telefonino nel corso dell’estate, passata a corteggiare i senatori transitati con Alfano: per Schifani e Bonaiuti - visti i rapporti di un tempo - non ha avuto bisogno di intermediari. Mentre a Verdini, Tajani, Ghedini e Romani ha lasciato il compito di saggiare la disponibilità degli altri a tornare insieme.

Il Cavaliere, si sa, è abile nel toccare le corde giuste, e per ogni interlocutore - da Colucci a D’Alì, da Viceconte a Gentile - ha usato il tasto dei ricordi, il tono struggente dell’amarcord. Peccato che la cordialità (ricambiata) non abbia fatto breccia, per ragioni politiche e interessi personali. D’altronde quale senso avrebbe avuto - vista l’offerta che veniva avanzata - lasciare Ncd, passare un paio di giorni all’opposizione e poi tornare per una via diversa di nuovo in maggioranza? E in più, con Forza Italia in «overbooking» e la vecchia guardia azzurra minacciata dal ricambio generazionale, chi mai tornerebbe in Parlamento?

Così l’«operazione Lassie», voluta da Berlusconi per togliere ad Alfano la golden share della maggioranza in Senato, non ha sortito effetti. E visto che non riusciva a superare l’ostacolo, il Cavaliere - come raccontava ieri Libero - ha provato ad aggirarlo, puntando a costruire un altro gruppo, nel quale far confluire pezzi di Ncd e di centristi, da unire ad altri parlamentari che militano nel gruppo delle Autonomie. Ma anche questa iniziativa non è decollata, e Schifani - stufo di vedersi tirato in ballo - spiega che «c’è piena sintonia con Alfano» e che «questi malevoli rumors sono finalizzati a ostacolare l’unificazione di Ncd con l’Udc e i Popolari di Mauro».

Strana storia, quella del centrodestra: di giorno si riuniscono per stabilire come andare insieme alle Regionali, e la sera c’è chi si adopera per soffiare l’argenteria in casa altrui. Il «caso Bugaro» - l’ormai ex coordinatore ncd delle Marche - è emblematico. Non è certo un «selfie» che ha indotto Alfano a porsi l’interrogativo: «Berlusconi vuole ricostruire o vuole vendicarsi?». Domanda retorica, visti gli indizi, disseminati dal leader di Forza Italia. Dell’offerta di alleanza fatta in agosto a Renzi, per esempio, c’è traccia nei sondaggi che il Cavaliere aveva commissionato prima dell’incontro, e che pare abbia lasciato in copia sulla scrivania del premier.



È un lavorio frenetico, quello di Berlusconi, che continua a ripetere di aver fatto la «cosa giusta» rompendo le larghe intese con il governo Letta. Però, mentre le sue parole provano a giustificare quella scelta, le sue azioni rivelano che sta tentando di rimediare all’errore. Non si spiega altrimenti il modo in cui ha argomentato le sue avances ad alcuni alfaniani, l’idea cioè - in prospettiva - di «farmi promotore di un partito popolare. Capisci, così sarebbe più facile avere un rapporto con Renzi, piuttosto che chiamarci Forza Italia».

È un ripensamento strategico che sta dietro il sostegno al Jobs act e che cova sotto la cenere della riforma elettorale. Sull’Italicum infatti il Cavaliere tentenna, e coltiva intimamente il sogno di tenersi il proporzionale. Renzi ha fiutato puzza di bruciato. Così si torna alla domanda: Berlusconi vuole allearsi con Ncd alle Regionali o vuole sostituirsi a Ncd al governo? Tutto non può avere.

27 settembre 2014 | 09:38
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_settembre_27/berlusconi-governo-l-idea-sostituire-ncd-7c9ae7ba-4610-11e4-a490-06a66b2e25ed.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi e l’attacco a Fitto per rassicurare Renzi
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2014, 10:48:47 pm
SETTEGIORNI
Berlusconi e l’attacco a Fitto per rassicurare Renzi
Il capo del governo teme che il leader di FI non controlli più i suoi

Di Francesco Verderami

Un patto è un patto, e Renzi voleva capire se Berlusconi avesse cambiato idea o se in Forza Italia fossero cambiate le cose. Dal loro ultimo incontro a Palazzo Chigi il premier aveva preso a dubitare del suo interlocutore. Il Cavaliere - si chiedeva Renzi - stava rallentando sull’Italicum perché si era convertito al proporzionale o perché aveva difficoltà a garantire l’intesa in Parlamento? Per veder dissipati i propri sospetti, si era rivolto a Berlusconi con un linguaggio tanto crudo da imporre una risposta altrettanto chiara. «Sulla legge elettorale voglio chiudere in fretta», era stata la premessa del premier, che a sua volta intende tener fede al patto con Napolitano, e mira a chiudere la pratica della riforma elettorale entro l’anno, così da lasciare al capo dello Stato la libertà di decidere quando congedarsi dal Quirinale: «Perciò devo capire se c’è ancora l’accordo e se avete il controllo dei vostri gruppi parlamentari».

«Manterrò la parola data», gli aveva fatto sapere il Cavaliere. Al segretario del Pd non bastava: «Serve una dichiarazione pubblica». Ecco allora che, per mostrarsi fedele al patto, Berlusconi gli aveva anticipato quanto sarebbe poi accaduto all’Ufficio di presidenza di Forza Italia: la prova della sua fedeltà all’accordo sta dunque nell’attacco portato l’altro ieri al capo del dissenso azzurro, a quel «Fitto che parla molto con D’Alema», come lo stesso Cavaliere ha raccontato a Renzi. Ma l’offensiva verso quel «figlio di un democristiano» si è rivelata un boomerang e non ha risolto a Berlusconi il problema di una minoranza interna che nei gruppi di Camera e Senato raccoglie ben più dei due voti ottenuti nell’Ufficio di presidenza.

Ora il premier sa che il Cavaliere non ha cambiato idea, ma sa anche che le cose sono cambiate in Forza Italia, e quella riunione di partito è stata un’ulteriore prova di quanto già accade a Montecitorio con le fumate nere sui giudici della Consulta. «Io parlo con Berlusconi perché ha milioni di voti», ha detto ieri Renzi. Ma i voti di Berlusconi che gli servono sono in Parlamento, perciò è preoccupato. E se per il leader forzista il patto del Nazareno ha un’unica funzione politica, perché gli garantisce ancora una certa visibilità e centralità, per il premier ha valenze diverse: gli è utile, finché l’altra sponda regge, e all’occorrenza può essere usato come diversivo mediatico.

Ad agosto, per esempio, quando l’Istat stava per rendere noti i dati che certificavano la recessione dell’Italia, Renzi decise prontamente di incontrare Berlusconi e in meno di un’ora concesse al Cavaliere un appuntamento a lungo atteso. Ufficialmente fu un briefing per verificare lo stato d’avanzamento dei lavori sulle riforme, in realtà il premier voleva attutire con la notizia dell’incontro l’impatto sull’opinione pubblica di quei numeri che vive come un incubo.



Perché per Renzi l’Istat è «un incubo», anzi «una tragedia», un «farmaco depressivo per il Paese». E non ne fa mistero. Più volte ha aperto i Consigli dei ministri citando l’Istituto nazionale di statistica, e all’ultima riunione - giorni fa - è tornato a parlarne, dopo la pubblicazione dei dati sulla disoccupazione: «Anche oggi – ha esordito con dolente ironia - l’Istat ci ha voluto dare un’altra buona notizia. Mica ce le dà tutte insieme, no...». Il premier sa che la divulgazione dei dati è stabilita da un preciso calendario, ma è proprio il reiterarsi delle «buone notizie» il virus che teme maggiormente, perché indebolisce la forza del vaccino con cui vuole combattere quello che considera «il male dell’Italia contemporanea: la rassegnazione».

L’Istat invece è una sorta di ice bucket, una secchiata d’acqua gelida che cambia la sua agenda e la sua strategia comunicativa, e incide sul parametro che più sta a cuore a Renzi: l’indice di fiducia degli italiani nel futuro, che può rivelarsi una leva economica con cui muovere consumi e investimenti. «Ragazzi - ha detto appellandosi ai ministri - o restituiamo agli italiani la speranza o la paura li terrà bloccati. Perciò dobbiamo insistere sulle cose positive che facciamo». Ma i numeri lo inseguono, e i parametri europei sono più minacciosi di quelli dell’Istat. Bastava sentire Padoan in Consiglio, mentre spiegava che a Bruxelles «ci attende un difficile negoziato» sulla legge di Stabilità. Molto più difficile del negoziato sulla legge elettorale con Berlusconi .

4 ottobre 2014 | 08:05
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_04/berlusconi-l-attacco-fitto-rassicurare-renzi-70cea48c-4b8b-11e4-afde-3f9ae166220d.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Renzi e la mossa per evitare la troika: commissariare il...
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2014, 05:18:41 pm
Il retroscena
Renzi e la mossa per evitare la troika: commissariare il Parlamento
Il capo del governo e la fiducia per scongiurare il commissariamento dell’Italia Padoan: se all’Ue non bastasse quello che offriamo, non riusciremmo a risalire la china

Di Francesco Verderami

ROMA Renzi commissaria il Parlamento per evitare che la troika commissari l’Italia. D’altronde, se non fosse una autentica emergenza nazionale, difficilmente Napolitano sarebbe rimasto silente dinnanzi a un governo che pone la fiducia su una legge delega, con cui di fatto le Camere e le forze politiche vengono estromesse dalla scrittura del provvedimento. Ma il Jobs act non è una riforma come altre, è parte essenziale della «trattativa» con Bruxelles, come aveva avuto modo di spiegare la scorsa settimana il titolare dell’Economia in Consiglio dei ministri, poco prima di recarsi al Quirinale.

L’Europa - secondo Padoan - «ritiene sia insufficiente» che l’Italia non sfori il 3%, perché chiede che «almeno mezzo punto» venga destinato all’abbattimento del debito pubblico: «Noi offriamo invece uno 0,1%, alcuni tagli strutturali e soprattutto la riforma del mercato del lavoro. E confidiamo si comprenda che, se non fosse accolta la nostra proposta, non riusciremmo a risalire la china». Parole crude che avevano fatto calare il gelo a palazzo Chigi. «Ma noi - aveva subito ripreso Renzi - non possiamo accettare che ci venga tenuta la testa sott’acqua».

Ecco qual è il valore del Jobs act, inserito dal premier nella «trattativa» con Bruxelles per evitare quelle che definisce «le regole capestro volute dall’Europa all’epoca del governo Monti». Regole che, «fossimo costretti ad applicarle, costerebbero 40 miliardi. Invece io punto a fare una manovra espansiva per rilanciare l’economia. E lavoreremo per realizzarla, alle condizioni date». Per riuscirci bisogna intanto sfuggire alle «regole capestro» che «ha votato Bersani mica io», va ripetendo Renzi quasi a voler esorcizzare l’esito negativo di un «negoziato che - come ha tenuto a sottolineare Padoan - sarà comunque difficile».

Di certo sarebbe stato impossibile se il governo non avesse accelerato sulla riforma del lavoro, perciò il premier ha forzato la mano, grazie anche a una copertura istituzionale che è dettata dall’emergenza nazionale. A sua volta questo passaggio di natura economica non è politicamente a saldo zero, produce effetti sul sistema che nemmeno la riforma elettorale avrebbe determinato. Sul Jobs act - per esempio - si misurerà la solidità del rapporto di Renzi con Alfano, che non a caso l’altra sera in Consiglio dei ministri aveva insistito sull’utilità di porre al Senato la fiducia «anche per valorizzare il profilo riformatore della maggioranza, per darle quel tratto distintivo che si deve a una riforma epocale».

Il premier aveva convenuto con il leader di Ncd, senza mostrarsi preoccupato per le resistenze della minoranza democratica: «... Sarà poi responsabilità dei singoli parlamentari decidere se fare andare avanti il governo o metterlo in crisi. Non penso accadrà.


Scommetto invece che arriveremo al 2018». È da vedere se davvero Renzi arriverà a fine legislatura, ma non c’è dubbio che la sua scommessa sul voto di palazzo Madama sembri realistica, che il suo esecutivo otterrà la fiducia, «magari con qualche assenza». Il riferimento del premier era ad alcuni suoi compagni di partito, ma è chiaro che sul Jobs act si va profilando un clima di larghe intese, per quanto camuffato.

Formalmente Berlusconi vorrà marcare la distanza, in realtà il «soccorso azzurro» è pronto a materializzarsi se ce ne fosse bisogno per bilanciare - con qualche assenza - il dissenso tra i democrat: «Vedremo se Verdini verrà a votare contro il suo governo», ridevano ieri sera alcuni senatori forzisti. Ma non è solo per idiosincrasia verso la troika che il Cavaliere vuole evitare problemi al premier. Basti vedere la trattativa in corso tra Pd e FI sulla legge sul conflitto d’interessi, affidata all’azzurro Sisto e caratterizzata addirittura da una norma sul blind trust: fumo negli occhi un tempo per Berlusconi, a cui oggi interessa piuttosto il matrimonio tra Telecom e Mediaset, che per realizzarsi necessita di un «ritocchino» alla legge Gasparri...

Ma è il Jobs act la chiave di volta. La drammatica crisi economica sta accelerando il processo di archiviazione della Seconda Repubblica e nel frattempo ha rottamato gli ultimi retaggi della Prima: perché l’incontro di ieri tra Renzi e i sindacati, più che l’inizio di un dialogo è parso la fine di un’era. Se ne sono resi conto i rappresentanti delle forze dell’ordine, ricevuti poco dopo a palazzo Chigi. Quando il premier ha ascoltato il loro plauso per alcune sue idee, li ha interrotti: «Se conosceste tutte le riforme che ho in mente, non so se mi applaudireste».

8 ottobre 2014 | 08:27
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_08/renzi-mossa-evitare-troika-commissariare-parlamento-364efa08-4ead-11e4-b3e6-b91ef8141370.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Verdini e il no al nuovo patto del Nazareno: potrei lasciare
Inserito da: Admin - Ottobre 26, 2014, 08:06:25 am
FORZA ITALiA
Verdini e il no al nuovo patto del Nazareno: potrei lasciare
In una lettera il senatore indica la data di scadenza del suo incarico

Di Francesco Verderami

Il patto del Nazareno somiglia sempre più a un accordo programmatico. E l’intesa che sembrava circoscritta alla legge elettorale e alle riforme costituzionali, si scopre in realtà più ampia, comprende anche le unioni civili e lo ius soli: due temi sui quali Renzi e Berlusconi si erano però limitati a un accordo sui «titoli». E allora come mai il Cavaliere ha deciso di aderire alle tesi del leader del Pd?

La mossa ha provocato lo sconcerto tra i forzisti, che già vivono come un «tradimento» da parte del Cavaliere l’idea di accettare la proposta renziana per assegnare il premio di maggioranza della legge elettorale a un partito e non più a una coalizione. Perciò in molti hanno chiesto conto a Verdini, considerato il nume tutelare del «patto», e tutti sono rimasti stupiti quando gli hanno sentito dire: «Non chiedete a me. Io lascio». Era già accaduto che «l’uomo dei numeri» del Cavaliere fosse stato sul punto di mollare, ma dopo averlo minacciato era sempre tornato sui propri passi, cedendo agli appelli di Berlusconi. Stavolta però Verdini è andato oltre, perché non solo l’ha detto a voce al capo di Forza Italia, l’ha anche scritto in una lettera dove ha aggiunto la data di scadenza dell’incarico, così da dare tempo di organizzare l’avvicendamento. Da più di una settimana l’ex premier mostra la missiva e ne parla con apparente preoccupazione.

Chissà se anche stavolta riuscirà a comporre lo strappo. Il fatto è che Verdini è stanco di fare il cireneo: lui che era stato additato in Forza Italia come «la tessera numero due del Pd» per la sua «eccessiva vicinanza» a Renzi, non accetta di essere usato nel rapporto con il premier e di vedersi poi delegittimato. Problemi di linea politica si intrecciano a questioni di credibilità personale, visto che agli occhi dei parlamentari forzisti ormai vale più un selfie della corte di Berlusconi che la parola di un dirigente incaricato di gestire la trattativa con Palazzo Chigi.

«Speriamo che Silvio si svegli», ha sospirato Verdini, commentando la decisione. Le oscillazioni del Cavaliere a suo modo di vedere mettono a repentaglio il futuro del partito. L’approccio su temi sensibili quali le unioni civili e lo ius soli aprono una faglia con la Lega, dove rischiano peraltro di finire inghiottiti voti forzisti. E l’opzione del premio di maggioranza da assegnare a una lista e non a una coalizione per la futura legge elettorale «sarebbe per noi esiziale».

Ma Berlusconi non sembra dargli retta. La proposta di Renzi, «con i dovuti accorgimenti su soglie di sbarramento e blocco delle preferenze», sarebbe secondo Berlusconi «utile al sistema»: «Meglio che governi un solo partito. L’ho sempre sostenuto. Se penso a quello che ho dovuto sopportare con Fini, Casini e Bossi quando ero a Palazzo Chigi...». Per certi versi è l’eterno alibi con cui il Cavaliere ha coperto le inadempienze del suo contratto con gli italiani: «Non mi hanno lasciato lavorare».


Una tesi che può reggere sulla riforma della giustizia e su quella del fisco, sulla riforma della burocrazia e su quella dello Stato, ma che cade quando si parla del partito unico di centrodestra. Perché fu Berlusconi a promettere di voler «lasciare in eredità agli italiani la più grande forza moderata della storia». Ma fu lui che dopo esser salito sul predellino decise di scenderci e di tornare a Forza Italia. E oggi è consapevole che lo scontro con Renzi è impari: per numeri, per uomini, per struttura di partito e soprattutto per il fattore tempo, che non gioca a suo vantaggio.

Così il Cavaliere sembra applicare la massima secondo la quale se non si può battere un nemico ci si allea. Il problema è se, alleandosi con il nemico, si perdono gli alleati: cioè il partito, attraversato da forti tensioni interne che vengono monitorate anche da Renzi, a cui stanno bene gli attuali equilibri di sistema, e che è preoccupato quindi dal rischio di una disgregazione di Forza Italia. In questo contesto è maturato il distacco tra Berlusconi e Verdini, che ha prodotto una novità.

Nel gruppo dirigente del partito è infatti cresciuta l’impressione che si sia saldato un sodalizio tra lo stesso Verdini e Gianni Letta, che insieme gestiscono le trattative con Palazzo Chigi. Per quanto diversi per carattere e per approccio, hanno in comune la conoscenza della sintassi politica, laddove alla corte del Cavaliere (quasi) tutti sono digiuni di grammatica. Ma tant’è. E «Denis» non accetta più di assistere ad errori persino di ortografia.

Non è chiaro quali siano le motivazioni che hanno indotto Berlusconi alle ultime svolte. In Forza Italia esistono due scuole di pensiero. C’è la tesi politica, secondo cui il leader si ritrova senza più bandiere: perso il vessillo delle riforme economiche per mano di Renzi, senza più lo stendardo dei temi etici che vuole intestarsi Ncd, lasciato per forza di cose il ruolo di forza anti-europeista alla Lega, l’immagine «liberal» servirebbe al Cavaliere per accreditarsi presso una parte di opinione pubblica che pure non lo vota. Ma con cui magari spera di avvicinarsi per allearsi con Renzi. C’è poi un’altra tesi, quella di chi dice che se Sky entrasse sul mercato italiano delle tv generaliste per Berlusconi sarebbe un problema.

25 ottobre 2014 | 09:22
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_ottobre_25/verdini-no-nuovo-patto-nazareno-potrei-lasciare-98c3218e-5c16-11e4-a063-152f34c0ded7.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI L’ultimatum di Renzi, Berlusconi punta ancora sulla trattati
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2014, 11:39:18 am
L’ultimatum di Renzi, Berlusconi punta ancora sulla trattativa
Il governo accelera sulla legge elettorale che da martedì arriva in Parlamento:
«Se salta il patto avanti da soli». E il Cavaliere convoca il partito

di Francesco Verderami

A Berlusconi serve un accordo sulla legge elettorale che non sappia di resa, e su questo punto Renzi è disposto ancora a trattare. Ma Renzi vuole una risposta «entro domani sera», e su questo punto Berlusconi non può più trattare. Il patto del Nazareno è una cambiale che va a scadenza. Se il premier chiede al Cavaliere di onorare l’impegno, è perché l’Italicum non è più (solo) la legge che serve per le prossime elezioni, ma è diventato lo strumento con cui si misurano la forza e la debolezza dei due leader. Per quanto finora sia stato paziente, Renzi non ha mai inteso affidare il proprio destino nelle mani di un Berlusconi che ha temporeggiato per non rendere manifeste le difficoltà tra le sue stesse file. Ma dopo il voto sulla Consulta, dopo che l’ennesimo candidato di Forza Italia non è stato eletto, il premier ha avuto una plastica rappresentazione della drammatica condizione in cui versa il Cavaliere.

Quella «figura di m....» - così testualmente definita da Berlusconi - ha indotto Renzi a porsi una domanda: «Se Forza Italia non è capace di essere determinante per se stessa, come potrà esserlo sulla legge elettorale, quando si dovrà votare anche a scrutinio segreto?». Più dei sospetti per le trame politiche del suo interlocutore, ha potuto la dura realtà delle cose. Ecco il motivo per cui il premier ha reso pubblico il suo «piano B», approntato per tempo: le aperture di credito ai Cinquestelle - infatti - non sono state estemporanee, così come la concessione ad Alfano di un vertice di maggioranza sull’Italicum, autentica novità politica del suo gabinetto.

«Se salta il patto del Nazareno, l’accordo lo faremo con i partiti alleati di governo», aveva preannunciato il leader del Pd. A quel punto l’intesa - calata nei dettagli - incrocerebbe nelle Aule di Camera e Senato anche il consenso di M5S e Sel. «E noi faremmo la fine dei bischeri», si lamentava l’altro giorno in Transatlantico Verdini: «Non solo verremmo tagliati fuori politicamente, ma consegneremmo a Renzi una vittoria senza avversari. Perché con le soglie di ingresso basse per entrare in Parlamento, la futura maggioranza si troverebbe contro un’opposizione polverizzata in tanti piccoli gruppi».

C’è un motivo però se il capo democrat ha concesso un’ultima chance a Berlusconi, se ieri - attraverso il ministro Boschi - gli ha offerto ancora una linea di credito: il punto è che Renzi non vuole trovarsi a pagare a sua volta cambiali alla minoranza del suo partito, che mira a uno scambio tra Italicum e Jobs act. Ecco allora che è partita una nuova e faticosa trattativa con il Cavaliere, desideroso di chiudere ma timoroso di non mostrarsi arrendevole verso il premier. «Non possiamo pagare un prezzo troppo alto», è stato il messaggio giunto a palazzo Chigi, a cui si chiede - magari - di non inserire il premio alla lista nel patto e di lasciarlo semmai a un emendamento da approvare in corso d’opera in Parlamento.



Ma davvero Renzi può accettare che l’intesa si chiuda senza un accordo sul punto cruciale dell’Italicum? E Berlusconi può davvero immaginare di superare così gli ostacoli interni a Forza Italia? «Immagino che avremo occasione di discuterne prima negli organismi dirigenti», chiede minaccioso Fitto. La verità è che, per il Cavaliere, dire oggi sì al premier sarebbe come dire no al suo partito, che sembra ormai l’ex Jugoslavia. Stretto tra il pressing di Renzi, il tentativo di Opa di Salvini e il processo di disgregazione dei suoi gruppi parlamentari, Berlusconi ieri non avrà avuto certo voglia di festeggiare il primo anno di vita della nuova Forza Italia: quello che doveva rappresentare il primo step per il suo rilancio si sta rivelando un’intrapresa a saldo negativo.

Il patto del Nazareno per il Cavaliere è una cambiale che va in scadenza, «e di Renzi invidio la sua cattiveria». In vista del vertice di partito convocato per oggi, questa considerazione sul premier serve a Berlusconi anche per tirare una riga rispetto a quanto gli sta accadendo attorno, per pensare all’affronto di Salvini che vuole i suoi voti e non la sua leadership, per meditare sugli errori commessi nella gestione di ciò che un tempo è stato il centrodestra. Perché in fondo l’ex premier è più arrabbiato con se stesso che con il capo dei leghisti, e c’è un motivo se ha fatto votare contro la mozione di sfiducia ad Alfano e formalmente ha cambiato tono. Due settimane fa diceva: «Nessun accordo con i traditori». Due giorni fa ha detto: «Quelli di Ncd si diano una mossa». Ma la prima mossa tocca a lui...

8 novembre 2014 | 07:49
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_08/ultimatum-renzi-berlusoni-punta-ancora-trattativa-26c94cce-670c-11e4-afa4-2e9916723e38.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il Cavaliere «tradirà» il Nazareno
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2014, 04:35:45 pm
Il retroscena
Il Cavaliere «tradirà» il Nazareno
In Parlamento il no all’Italicum
L’ex premier cercherà di rallentare i tempi per giocarsi tutto nella partita per il Quirinale

Di Francesco Verderami

ROMA Più che il periodo dell’avvento, si prepara il mese della passione per il patto del Nazareno, che proprio alla vigilia di Natale non festeggerà la sua epifania nell’Aula del Senato, ma sarà accompagnato da un «de profundis» con il voto contrario di Forza Italia alla legge elettorale. Fino ad allora Berlusconi continuerà a ripetere con una certa dose di ambiguità che l’accordo con Renzi resta, perché una separazione lenta tatticamente gli serve. Tuttavia la decisione è presa, e non da ieri: non è stato infatti il crac di Forza Italia alle Regionali a determinare la sua decisione, semmai il voto ha evidenziato l’ineluttabilità della futura mossa.

Una scelta è sempre suffragata da dati di fatto, che un giorno la controparte potrà anche additare come pretesti: è il gioco della politica. E il gioco di Renzi non piace più al Cavaliere, che si lamenta per il modo in cui il premier avrebbe - a suo dire - «disatteso i patti», dalle modifiche «non concordate» sull’Italicum, fino allo sfregio praticato da Palazzo Chigi con la sua costituzione di parte civile al processo di Bari sulle escort. La celerità è parsa sospetta a Berlusconi: in effetti il governo avrebbe potuto attendere l’inizio della fase dibattimentale prima di muoversi, perciò le motivazioni giunte all’orecchio del leader forzista da parte dell’esecutivo hanno solo acuito la sua furia: «Non mi vengano a dire che ha fatto tutto Del Rio. Lì non si muove foglia che Renzi non voglia».

Perciò quel tweet con cui l’altra notte il capo del Pd ha spiegato come «la Lega ha asfaltato Forza Italia» alle Regionali, è parso l’anticamera della rottura ufficiale. Renzi si sceglie Salvini come avversario, con Berlusconi ci sarà tempo per la restituzione degli anelli. In fondo non è nemmeno detto che si arrivi all’ufficializzazione del divorzio, piuttosto dietro l’ambiguità dei due Nazareni si approssima una sfida ad alto tasso di rischio, anche per il premier. Perché il punto non è se il segretario democrat al Senato - senza il sostegno azzurro - avrà i voti per far approvare l’Italicum: si è già premunito con una pattuglia di ex grillini all’occorrenza.

Il vero test-match si giocherà sul Quirinale. Sia chiaro, Berlusconi farà di tutto per essere della partita, «come ai tempi di Ciampi - racconta chi c’era - quando fece finta gli piacesse quella scelta, che invece era stata frutto dell’accordo tra Veltroni Fini e Casini». È assai probabile che Renzi inizialmente starà al gioco, sebbene si sia ormai convinto del fatto che il Cavaliere non controlla più i suoi gruppi parlamentari, che Fitto per esempio - come gli disse lo stesso Berlusconi - «si muove d’intesa con D’Alema». E a voto segreto ognuno cercherà la propria intesa. Così la battaglia sulla legge elettorale si trascinerà ai supplementari con la corsa al Colle. E siccome (quasi) tutti in Parlamento sono tifosi del Consultellum che non piace a Renzi, (quasi) tutti punteranno su un capo dello Stato che non piaccia a Renzi.

Ecco l’ultima vera partita che può giocare Berlusconi, ormai politicamente debole nel Paese ma non del tutto nel Palazzo. Si vedrà quale sarà il destino di Forza Italia, che ne sarà dell’intesa con Alfano che il Cavaliere si dice pronto ad incontrare. Il Mundial ora si disputa nel cortile del Quirinale, e nell’ambigua e lenta dissolvenza del Patto del Nazareno l’ex premier cercherà tempo e modi per dare quella che lui spera sia la sua penultima zampata, per evitare insomma i titoli di coda.

D’altronde, sulla presidenza della Repubblica - come ha spiegato ieri sera Bersani ai suoi - «bisognerà prepararsi a una lunga serie di votazioni». Con il Pd in fibrillazione, con la Lega che vorrà segnalarsi, con i Cinquestelle che cercheranno la rivincita, Renzi non potrà stare tanto sereno.

25 novembre 2014 | 07:56
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_novembre_25/cavaliere-tradira-nazareno-parlamento-no-all-italicum-49f0c55e-746f-11e4-ab92-90fe0200e999.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Sul Colle lo «schema Renzi» che elimina Prodi e D’Alema
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2014, 04:14:39 pm
SETTEGIORNI

Mosse, tempi, nomi
La partita per il Quirinale
Sul Colle lo «schema Renzi» che elimina Prodi e D’Alema

Di Francesco Verderami

L’ incertezza sulla data d’addio di Napolitano stava trasformando quel caos calmo, che nel Palazzo caratterizza le vigilie della corsa per il Colle, nel «caos Quirinale»: non solo era stata stravolta l’agenda politica di Renzi, ma anche i piani dei candidati alla successione. Ora però sembra che il capo dello Stato abbia fissato il giorno delle sue dimissioni: il 14 gennaio, subito dopo il rendiconto del premier sul semestre italiano di presidenza in Europa. Non che la sfida per il Quirinale nell’ultimo mese si sia mai fermata, ma la data - per quanto ufficiosa - è una sorta di fixing che consente ai protagonisti della grande corsa di dispiegare le rispettive strategie. E certo la prima mossa toccherà a Renzi, che già a Napolitano avrebbe illustrato il modo in cui intende procedere: lo schema - per ragioni diverse - escluderebbe dalla corsa al Colle personaggi come D’Alema, Marini e lo stesso Prodi.

Con il Professore, il premier ha voluto parlare di persona, e che il colloquio non si sarebbe incentrato sul Quirinale è stato subito chiaro. Quasi subito, perché l’incipit del leader democrat avrebbe potuto generare un fraintendimento: «Il mio candidato ideale sei tu (pausa) per la carica di segretario generale della Nazioni Unite». Raccontano che Prodi abbia poi descritto la scena ad alcuni amici, con quel sorriso dietro cui spesso cela cattivi pensieri. Ma Renzi si sarebbe mostrato convinto all’atto di prospettargli il suo futuro, «chi meglio di te?», preannunciando che - quando Ban Ki-moon lascerà - siccome la carica toccherà a un rappresentante dell’Europa - «farò una battaglia sul tuo nome».

A Prodi però toccherebbe aspettare ancora due anni. Nel frattempo il fondatore dell’Ulivo, che pure si dichiara estraneo alla corsa per il Colle, non disdegna gli incontri conviviali. Uno di questi è stato organizzato da Bettini, che alcune settimane fa - prima che scoppiasse lo scandalo di Mafia capitale - di ritorno da Bruxelles confidò a un collega europarlamentare l’imminente appuntamento con Prodi: «Stasera, insieme ad altri, ci vediamo a cena con Romano per discutere di prospettive politiche». In fondo, «Romano» non è l’unico a discutere di «prospettive politiche». Anche Casini avrà affrontato lo stesso argomento con Berlusconi, incontrato riservatamente.

D’altronde la riservatezza è d’obbligo in questa fase, dove tutti stanno fermi ma tutto è in movimento. E ognuno lancia segnali. Il voto in commissione alla Camera con cui il governo è andato sotto sulla riforma del Senato, per esempio, non era che un segnale a Renzi inviato dalle minoranze del Pd e di Forza Italia. È vero, Fitto ripete sul Quirinale le stesse parole del Cavaliere, «servirà una personalità autorevole», ma l’identikit potrebbe non collimare. E nel Palazzo c’è chi teorizza che Berlusconi, lanciando il nome di Amato, abbia inteso bruciare il candidato di Napolitano e di D’Alema, che proprio con Fitto ha stretto un asse «anti Nazareno». Una cosa è sicura, e il vice segretario del Pd Guerini ne è consapevole: «Finché non si risolverà la questione del Colle la fibrillazione è destinata a protrarsi». Pertanto le prossime settimane per il governo si preannunciano ad alto rischio: sulla legge di Stabilità ma soprattutto sulla riforma del sistema elettorale che è all’esame del Senato. Renzi - che contava di arrivare al voto d’Aula sull’Italicum prima delle votazioni per il Quirinale - ora ha ridotto le sue pretese: spera di ottenere il via libera della commissione Affari costituzionali senza incidenti di percorso. Ecco quale influenza ha la corsa per la presidenza della Repubblica, che non è - né poteva essere - una variabile indipendente dello scenario politico, dopo che Napolitano ha lasciato accreditare il suo addio.

E più si ingarbuglia la faccenda delle riforme più si capisce che il caso Quirinale è ancora un caos. «Più ci si avvicina alla metà - ha spiegato infatti Bersani ad alcuni compagni del Pd - e più aumenta la nebbia». Allora, davvero Renzi ha dei nomi coperti che non siano già finiti nel tritacarne delle anticipazioni? Da Bassanini a Padoan, dal governatore di Bankitalia Visco al capo della Bce Draghi, da Finocchiaro a Mattarella, non c’è opzione che non sia stata preannunciata. E non è solo l’incertezza sulla data delle dimissioni del capo dello Stato ad aver fatto aumentare le tensioni nel Palazzo. Perché il punto non è solo quando Napolitano si dimetterà. Il punto è anche cosa dirà...

13 dicembre 2014 | 10:13
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Titolo: Francesco VERDERAMI Quirinale, le variabili tempo e alleanze sulle manovre...
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2014, 12:08:06 pm
Quirinale, le variabili tempo e alleanze sulle manovre incrociate
Tra i nomi dei renziani per la presidenza rispunta Mattarella. Il premier prepara il decreto sull’Iva per la vigilia di Natale

Di Francesco Verderami

Era evidente che la corsa per il Colle non sarebbe potuta rimanere una variabile indipendente della politica, e infatti - per quanto il capo dello Stato abbia tentato di tenere le sue dimissioni slegate dalle questioni di governo e dalle dinamiche parlamentari - da oltre un mese ogni mossa è influenzata e dettata da quell’evento.

Tutto insomma ruota attorno alla data d’addio di Napolitano. E nel «triangolo della politica» - che include Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama - ci si stava preparando all’evento per il 14 gennaio: ce n’è traccia nelle conversazioni riservate delle massime cariche e nell’organizzazione del cerimoniale per l’elezione del nuovo presidente della Repubblica, che si stava già predisponendo. C’è un motivo quindi se ieri in Parlamento la frase con la quale Napolitano ha annunciato la sua «imminente» decisione, è stata legata al compromesso sulla legge elettorale, la clausola di salvaguardia che sposta al settembre del 2016 l’entrata in vigore dell’Italicum.

Si tratta di un elemento con cui Renzi stabilizza il quadro politico, rasserena deputati e senatori sulla durata della legislatura e facilita il percorso delle riforme. Ma il rischio è che i due disegni di legge si fermino in Parlamento a un passo dall’approvazione per dover lasciare strada alle votazioni sul Quirinale. Per favorire il varo dei provvedimenti, e quindi Renzi, Napolitano potrebbe posticipare di qualche giorno le dimissioni, così da lasciare dopo aver raggiunto l’obiettivo: quello cioè di aver consegnato un Paese che si avvia ad ammodernare le istituzioni e dotato di un nuovo sistema elettorale.

È da vedere se le previsioni sulla «data» - che accomunano autorevoli esponenti di maggioranza e opposizione - si realizzeranno. Ma già il solo esercizio interpretativo sulle volontà del capo dello Stato testimonia come proprio «la data» sia determinante nelle manovre per il Quirinale. Manovre che sono in corso e si alimentano ogni giorno con le solite voci e i soliti nomi: l’ultimo ritorno di fiamma è Mattarella, ex giudice della Consulta, ministro ai tempi della Dc e anche dell’Ulivo, attorno a cui viene ritagliato l’identikit di Palazzo Chigi. È una personalità che - secondo gli uomini di Renzi - Berlusconi farebbe difficoltà a non accettare, visto che il suo nome richiama all’estremo sacrificio nella lotta alla mafia.

Non è dato sapere se si tratti di una mossa diversiva o se l’indicazione sia stata formalizzata al Cavaliere, che di Mattarella rammenta le dimissioni dall’ultimo governo Andreotti - insieme ad altri quattro ministri della sinistra dc - in polemica per il decreto con cui vennero riaccese le tv del Biscione. Una cosa è certa: la corsa per il Colle è troppo lunga per essere già terminata. Anzi, nemmeno è iniziata che si intravvedono i bagliori dello scontro. È bastato che ieri il ministro Boschi prospettasse un metodo, in base al quale il Pd proporrebbe «un nome» agli altri partiti, per far saltare i nervi anche all’Ncd. Parafrasando un famoso slogan della campagna elettorale del ‘48, Cicchitto ha avvisato l’alleato: «Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Renzi no» ...

Altro che Grillo e Salvini: il premier non può perder tempo, e prima di trovare l’intesa con il Cavaliere deve compattare la maggioranza e il suo partito. D’altronde la clausola di salvaguardia sulla legge elettorale non è stato solo un segno distensivo verso Forza Italia, ma anche - anzi soprattutto - verso la minoranza interna. Eppure, proprio nel Pd temono che l’emendamento «salva legislatura» possa essere un cavallo di Troia, perché basterebbe un decreto del governo per cambiare data all’introduzione dell’Italicum. A quel punto, come si comporterebbe il nuovo capo dello Stato? Perciò l’opposizione dem chiede per il Colle «una figura di garanzia».

E si torna alla sfida sul Quirinale, sfida che non può iniziare senza l’ufficializzazione dell’addio da parte di Napolitano. Nel frattempo, però, all’ombra della partita decisiva, il premier ne sta giocando altre, e non di secondo piano. L’attesa per il varo dei decreti attuativi al Jobs act ha allertato quanti - da Sacconi a Ichino - temono cedimenti verso il fronte filo-Cgil. Ma Renzi potrebbe smentire se stesso e la campagna che ha fatto in Europa? È Natale, e in Parlamento c’è l’ingorgo. In verità anche a palazzo Chigi, dato che il premier sta pensando di convocare due distinti Consigli dei ministri: l’ultimo nel giorno di vigilia, per mettere sotto l’albero il decreto sull’Ilva.

19 dicembre 2014 | 07:33
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_dicembre_19/quirinale-variabili-tempo-alleanze-manovre-incrociate-a8636a66-8747-11e4-b343-7326607b3ce4.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI «Il patto regge»: Renzi e Berlusconi vogliono l’accordo
Inserito da: Admin - Gennaio 05, 2015, 04:54:00 pm
Le tattiche dei due leader
«Il patto regge»: Renzi e Berlusconi vogliono l’accordo
Uno scambio sull'Italicum in vista dell'elezione del nuovo capo dello Stato. Ma senza il bisogno di incontrarsi subito

Di Francesco Verderami

Tra Renzi e Berlusconi l’accordo è di fare l’accordo, e sul Quirinale per ora può bastare. Non c’è quindi bisogno di vedersi subito, tantomeno prima che Napolitano abbia formalizzato le dimissioni: è questione di galateo istituzionale ma anche di opportunità politica. Il patto del Nazareno regge e lo si vedrà fra una settimana, quando l’Italicum farà da stress test alla corsa per il Colle. Il vero appuntamento tra il premier e il Cavaliere è fissato l’8 gennaio al «check point Charlie» del Senato sulla legge elettorale: l’accordo prevede che il leader del Pd ottenga l’approvazione della riforma prima del voto sul presidente della Repubblica, e che in cambio al capo di Forza Italia vengano garantite la norma sui capilista bloccati (con cui impedirebbe un’opa ostile nel suo partito) e la clausola di salvaguardia sull’entrata in vigore dell’Italicum (con cui si allungherebbe formalmente la legislatura almeno per altri due anni).

Con modifiche, Patto a rischio
Qualsiasi modifica metterebbe a rischio il patto, ed è evidente che quanti si oppongono all’intesa di sistema tra Renzi e Berlusconi useranno Palazzo Madama come luogo per tendere l’agguato, consapevoli che gli effetti si ripercuoterebbero sulla partita per il Colle. Fino ad allora le sorti dei quirinabili saranno appese alle manovre dei leader di partito e dei loro avversari interni. Perché questo è il punto: lo stesso Parlamento che due anni fa bruciò ogni intesa prima di affidarsi ancora a Napolitano, oggi si ripresenta all’appuntamento maggiormente frammentato. E dunque, chi più riuscirà a tenere uniti i propri gruppi avrà la golden share all’atto decisivo.

Priorità
È questa al momento la priorità del premier e del Cavaliere, sebbene i due già studino la tattica dell’altro. Berlusconi, per esempio, è convinto che «bisognerà lasciar fare Renzi», che «il nome vero uscirà all’ultimo momento». È un’opzione, che però si porta appresso dei rischi. Tuttavia le prime schermaglie consentono al presidente del Consiglio di capire su chi verrà posto il veto. Dicendo che non accetterà di votare «un candidato con la tessera del Pd», il Cavaliere sembra volersi realmente muovere d’intesa con i centristi. «Dobbiamo fare asse insieme», ha spiegato l’altra sera l’ex premier a un dirigente di Ncd, ripetendo ciò che aveva detto alcune settimane fa ad Alfano. Sarebbe un’operazione «di blocco preventivo» rispetto ai quirinabili di stretto giro renziano, a quei ministri cioè che il leader democratico fa mostra di voler proporre: da Delrio alla Pinotti. Al tempo stesso sembrerebbe un segnale di apertura verso chi - come Veltroni e Mattarella - non è (più) dirigente del partito.

Parlare a nuora (Renzi) perché suocera (Berlusconi) ascolti
Ma siccome nessuno conosce meglio Berlusconi degli stessi berlusconiani (per quanto ex), sono pochi a volersi già ora esporre. Anzi, venerdì il coordinatore di Ncd Quagliariello ha lanciato un messaggio pubblico double face: ha parlato a nuora Renzi, «sul Colle niente giochi», perché ascoltasse suocera Berlusconi. È stato un modo per accreditare le voci da tempo circolanti su un possibile accordo tra il Cavaliere e Prodi grazie agli uffici di Putin: l’intesa garantirebbe quella «pacificazione» a cui i dirigenti di Forza Italia mirano e che cela la richiesta della «riabilitazione» politica del loro leader.

Rassicurazioni dal Pd
Dal Pd sono arrivate autorevoli rassicurazioni, «non ci facciamo scegliere il presidente della Repubblica dal Cremlino», che sanno tanto di allergia verso il fondatore dell’Ulivo. Peraltro lo stesso capo di Forza Italia aveva pubblicamente smentito, dopo aver spiegato a un vecchio amico come Cicchitto che «a Prodi non ci penso proprio, figurarsi». Semmai, nei colloqui di queste ore, Berlusconi ribadisce in privato ciò che si era lasciato «sfuggire» in pubblico: «Io continuo a stare su Amato e aspetto che sia Renzi a propormi il suo nome».

L'attesa di un nome
E se Renzi quel nome non lo proponesse, e se fosse anche questa una manovra diversiva? Ma soprattutto, chi avrà davvero la forza di opporre un veto al premier tra l’alleato di governo Alfano, che siede al suo fianco in Consiglio dei ministri, e l’alleato di opposizione Berlusconi, che ambisce a essere kingmaker nella corsa per il Colle? Di certo c’è che il premier intende chiudere un’era.

Chiudere un'era
Dagli albori della Seconda Repubblica, infatti, gli inquilini del Quirinale hanno giocato un ruolo diretto nelle vicende politiche: Scalfaro arrivò a porre il veto sulla squadra dei sottosegretari del governo Amato; Napolitano spaziò dalla lettera all’allora presidente della commissione Affari costituzionali del Senato Vizzini, su alcuni emendamenti del lodo Alfano, fino alla telefonata con cui invitò Cuperlo ad accettare l’incarico di presidente del Pd. Che Renzi voglia cambiar verso è indubbio. Ma deve tenere in considerazione lo scrutinio segreto. L’idea di tener coperto fino all’ultimo il nome del suo quirinabile può risultare pericolosa: tutti lo attendono al varco della quinta «chiama», quella decisiva. Se si andasse troppo oltre, il voto sulla presidenza della Repubblica si trasformerebbe in una lotteria, e quanti oggi si tirano ufficialmente fuori dalla corsa per il Colle potrebbero rientrarci sulle macerie del disegno renziano. Siccome il leader del Pd lo sa, allora può darsi che anche la sua tattica dilatoria sia solo tattica.

3 gennaio 2015 | 09:12
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_03/patto-regge-renzi-berlusconi-vogliono-l-accordo-3a375fb2-931c-11e4-8973-ae280e1dba84.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Quirinale, pronta una terna di nomi ...
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2015, 12:02:17 pm
Il retroscena

Quirinale, pronta una terna di nomi
E cresce l’ipotesi Veltroni
Le opzioni Mattarella, Gentiloni e Fassino.
Il premier chiede a Berlusconi di serrare i ranghi Il leader di Forza Italia valuterà la rosa dei candidati con il metro dell’agibilità politica

Di Francesco Verderami

ROMA Sul Quirinale è il momento di contarsi per contare. E se Renzi non mette in dubbio la parola di Berlusconi, «ha detto che voterà con noi e io gli credo», vuole capire se ha davvero fondamento l’altra garanzia fornita dal Cavaliere: «A breve incontrerò Fitto e i miei gruppi saranno uniti». La corsa per il Colle inizia ufficialmente oggi, e il premier chiede all’alleato dell’opposizione di stringere i suoi ranghi, «io devo badare a compattare i miei». Si vedrà se il leader del Pd riuscirà ad arrivare puntuale all’appuntamento, «alla quarta votazione avremo il nuovo capo dello Stato», o se la sua scommessa si rivelerà un azzardo. Molto dipenderà dal grado di tenuta del capo dei forzisti ma soprattutto dalla tattica che verrà adottata per evitare le insidie del voto segreto. Arcore è la Fortezza Bastiani di Berlusconi, che in attesa di sapere cosa disporrà Renzi sul Quirinale si sporge dai camminamenti per scorgere la sagoma di un messaggero: da quel deserto, d’altronde, non arrivano più nemici ma solo un ufficiale di collegamento. È Verdini. È lui che spiega al Cavaliere come comportarsi: «Renzi ti proporrà una serie di candidati e noi potremo scegliere». Il leader di Forza Italia inizia così a sfogliare i petali della rosa, a modo suo: «Avrò l’agibilità, non avrò l’agibilità...». È un chiodo fisso, non smette di parlarne, mentre attorno a lui i fedelissimi sbirciano sui suoi fogli i nomi dei quirinabili: Mattarella, Gentiloni, Fassino.

Chi è il vero candidato
Il Cavaliere storce il naso. In realtà, in fondo al sentiero che porta alla presidenza della Repubblica, quella terna (forse) nasconde il vero candidato. Confalonieri sostiene che «nella storia del Quirinale sono salite personalità sbiadite, però pensi di eleggere uno sbiadito e poi magari ti ritrovi un Pertini». Il Colle visto da Arcore è un santuario laico da cui Berlusconi si attende il miracolo, e la sua Fortezza Bastiani è un ottimo punto di osservazione per vedere tutti quelli che si agitano con i loro messaggi e le loro telefonate, grazie alle quali l’ex premier può dimenticare l’estrema debolezza politica del momento. Fassino - per accreditarsi - gli ha fatto sapere che da Guardasigilli non ebbe mai alcun atto ostile contro di lui sulla giustizia, «e quanto a standing internazionale sono stato ministro del Commercio estero». Persino Prodi gli manda a dire. O meglio, alcuni prodiani - non si sa se autorizzati o mossi da iniziativa personale - hanno contattato rappresentanti berlusconiani del mondo dello spettacolo e dell’informazione per affidare un pensiero da consegnare al Cavaliere.

Prodi è in corsa o no?
Ma il Professore non ha detto a più riprese di non essere «in corsa»? Vero, ma «in corsa» lo potrebbero sospingere gli avversari di Renzi nelle prime tre votazioni, quelle in cui il premier ha dichiarato che «si voterà scheda bianca», quelle in cui il leader del Pd sarà maggiormente vulnerabile. Se il Professore iniziasse a salire nei consensi sarebbe complicato arrestarne poi la marcia. A meno da non proporre un nome che sia «all’altezza di Prodi e di Marini», come chiede Bersani a mo’ di sfida. E il capo democrat - per parare il colpo e fermare la corsa del fondatore dell’Ulivo - medita di lanciare in pista il primo segretario del Pd, quel Veltroni che - per dirla con autorevoli membri del governo - «più sta fermo più sta dentro i giochi». Se così fosse, gli oppositori interni di Renzi avrebbero difficoltà a respingere la proposta del loro segretario. Se così fosse, altro che terna: vorrebbe dire che Berlusconi qualche garanzia deve averla data sul candidato secco. Proprio Bersani ieri sentiva aria di grande intesa: «Il premier dice che per il capo dello Stato partirà dalla quarta votazione e l’opposizione non protesta?».

Apertura sul nome di Veltroni
Di più. Tra i ranghi forzisti c’è chi sottovoce si mostra disponibile a votare eventualmente Veltroni, accreditando di fatto la tesi che la debolezza politica del Cavaliere lo porterebbe ad accettare anche «un esponente del Pd» pur di stare in gioco. Ma è questo il vero gioco o la soluzione ventilata ieri da Palazzo Chigi è una mossa tattica, fatta nell’urgenza del momento, per stoppare gli oppositori del premier? E l’accordo - semmai fosse stato già chiuso con Berlusconi - comprende anche l’area dei centristi che stanno nel governo? Perché ieri Alfano ha detto no a un candidato al Colle che sia frutto «delle primarie del Pd». Tra tanti interrogativi, una cosa è certa: Renzi oltre la sesta chiama potrebbe perdere il controllo della situazione in Parlamento, perciò ha bisogno di presentarsi ai blocchi di partenza con un candidato forte. I rischi di un protrarsi della corsa sono stati analizzati a Palazzo Chigi come ad Arcore, dove a Berlusconi è stato prospettato che - in caso di stallo - potrebbe prendere corpo anche la candidatura di Grasso. Raccontano che il Cavaliere abbia avuto un sobbalzo: «Un magistrato anche al Quirinale? Ci manca questo». Fosse per lui, un nome ci sarebbe, uno che gli fa ricordare la sua gioventù politica: «Tra tutti, l’unico è D’Alema ad avere il profilo dell’uomo di Stato. E sarebbe garante degli accordi. Ma purtroppo...». Purtroppo Renzi non lo vuole. E se invece fosse Veltroni?

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14 gennaio 2015 | 07:54



Titolo: Francesco VERDERAMI La successione al colle
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2015, 06:29:50 am
La successione al colle
Quirinale, la rete di Renzi che tiene i contatti con tutti i candidati
Il premier e la presidenza della Repubblica: «Nessuno può fare un presidente contro di me, ma dovrò sceglierlo con gli altri»

Di Francesco Verderami

Terrà fede al soprannome che gli hanno affibbiato in Consiglio dei ministri, perciò prima di lanciare un nome per il Colle Renzi «last minute» aspetterà fino all’ultimo, fino all’ultimo studierà i candidati e i sondaggi che sul loro conto ha commissionato. E siccome dai dati demoscopici emerge che nessun politico spicca oggi negli indici di gradimento, non ha definitivamente accantonato l’idea della sorpresa.

Ma di questo il premier tace con i quirinabili, a cui dice o fa dire cose che non spengono le loro speranze. Per Amato ha avuto parole commendevoli, a Del Rio ha spiegato che «tu saresti il mio ideale», a Casini non ha opposto veti all’ipotesi di un esponente dell’area moderata al Quirinale. Tranne Cantone - a cui ieri ha cancellato ogni aspirazione sostenendo in pubblico che «lui ha già tanto da fare all’Autorità anticorruzione» - il leader del Pd fa sentire tutti in corsa. Se i candidati di Renzi si costituissero in Associazione, capirebbero che a ognuno di loro è stata detta sostanzialmente la stessa cosa.

Sarà per via della sua indole o per la difficoltà politica di comporre al momento l’intricata faccenda, in ogni caso il premier sta alimentando le ambizioni di quanti vorrebbero succedere a Napolitano. E li tiene stretti a sé, grazie a un network di fedelissimi che risponde solo a lui e che ha il compito di monitorare i quirinabili e riferirgli ogni dettaglio delle loro conversazioni.
   
Così a Delrio è stato assegnato il «fronte emiliano», dove sono di stanza Prodi e Castagnetti. Alla Boschi sono toccate la Severino e la Finocchiaro. La Madia è stata facilitata, visto che parla ogni giorno con il figlio di Mattarella, capo legislativo del suo dicastero. Nessuno si risparmia. Persino il sindaco di Firenze è coinvolto da Renzi nella «rete»: è Nardella infatti a tenere in via riservata i rapporti con Amato.

Agli ex segretari del partito ci pensa invece il premier, conscio che «tutti i miei predecessori si sentono candidati in pectore per il Quirinale». E con loro Renzi parla, più di frequente manda sms di lusinga o di rassicurazione. Ma tra questi c’è chi ricorda com’era rassicurante il messaggio inviato dal segretario del Pd a D’Alema quando era in ballo per una nomina in Europa: è un messaggio che l’ex premier ha tenuto nella memoria del telefonino e che ogni tanto mostra ai suoi interlocutori per metterli sull’avviso.

In fondo però Renzi va capito. Deve gestire il passaggio più delicato della sua giovane carriera politica, con avversari interni ed esterni al suo partito che - a scrutinio segreto - vorrebbero riservargli il trattamento della rottamazione. Il premier però è convinto di partire nella corsa al Colle da una posizione di forza, e da lì poter mediare: «Nessuno - spiega - potrà fare un presidente della Repubblica contro di me, anche se io dovrò farlo insieme agli altri».

Gli «altri» sono Berlusconi, l’Area popolare di Alfano e la minoranza democratica. E pur di tenere dentro l’accordo il Cavaliere, mette in conto di perdere un pezzo del suo stesso partito. Il problema è di non perdere tanti pezzi del Pd e soprattutto di non ritrovarsi con una Forza Italia a pezzi. Questo è il maggior rischio, evidenziato ieri nell’Aula della Camera e riassunto in un tweet dal renziano Giachetti: «Dal dibattito sulle riforme si deduce che a giorni cadrà la giunta Maroni e che ad ore i fittiani usciranno da Forza Italia».

Nonostante Berlusconi faccia sfoggio dei «nostri 150 grandi elettori» per dire che «al Quirinale non voteremo un capo dello Stato come gli ultimi tre», lo spettacolo offerto a Montecitorio non è stato un bel segnale per il premier alla vigilia della partita per il Quirinale. E come non bastasse, in vista delle prime tre votazioni - le più insidiose per Renzi - i dirigenti del Pd hanno segnalato a palazzo Chigi movimenti di truppe Cinquestelle, pronte a votare Prodi per tentare di sabotare il patto del Nazareno. Come ammette il vice segretario del Pd Guerini, il passaggio in cui è prevista la maggioranza dei due terzi dei grandi elettori, «sarà delicato».

Ecco spiegato l’endorsement per Veltroni, che di fatto viene contrapposto al fondatore dell’Ulivo. Guerini confuta la tesi, spiegando che «comunque un candidato forte si misura poi alla prova del consenso». Insomma, è solo l’inizio della sfida, non è pensabile sia già scritta la fine. Perciò al momento tutti nutrono speranze. Grasso, per esempio, agli occhi di Renzi si gioca la partita della vita con il «canguro», l’arma usata per eliminare gli emendamenti di massa presentati dalle opposizioni per fare ostruzionismo. E il presidente del Senato - pur da supplente di Napolitano - tiene la regia dell’Aula di palazzo Madama dov’è in gioco l’approvazione dell’Italicum prima delle votazioni per il Colle.

Nell’attesa tutti si apprestano a manovre di posizionamento. Anche quello che un tempo fu il centrodestra - cioè i gruppi di Forza Italia e di Area popolare - dovrà decidere: marcerà in ordine sparso verso l’intesa con il premier o darà vita a un preventivo patto di consultazione? Alfano, puntando per il Colle su una personalità «garante di tutti e con sensibilità cattolica» si schiera per Casini. E Berlusconi?

15 gennaio 2015 | 07:36
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_gennaio_15/quirinale-rete-renzi-contatti-tutti-candidati-224f9636-9c80-11e4-8bf6-694fc7ea2d25.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI I tanti veti di Berlusconi e la tattica di Renzi sui tempi
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2015, 11:34:11 am

Il retroscena

I tanti veti di Berlusconi e la tattica di Renzi sui tempi
Perché il premier sposta avanti il traguardo. Riprende quota Padoan L’obiettivo Forse in questo modo il segretario conta di riuscire a convincere il Cavaliere Il voto decisivo Il leader pd ai suoi dice che il nome arriverà tra la quarta e la quinta votazione

Di Francesco Verderami

ROMA Fidarsi o non fidarsi? Questo è il dilemma dei tanti kingmaker impegnati nelle mediazioni alla vigilia della corsa per il Colle. E nelle ultime ore le trattative sul prossimo capo dello Stato sembrano ricalcare per un verso certi canovacci delle opere shakespeariane, per un altro il copione del film La stangata . Perciò ogni considerazione e ogni espressione del volto dei protagonisti può significare una cosa e il suo opposto. Per esempio, cosa voleva davvero dire Renzi ieri, quando - nei suoi contatti riservati - ha previsto che «il nuovo presidente lo avremo tra la quarta e la quinta chiama»? E il dettaglio gli è sfuggito o è stato offerto di proposito ai suoi interlocutori?

Far scivolare l’elezione anche solo di una votazione, può far trasparire da parte del premier un segno d’incertezza, a sostegno della tesi che sia in difficoltà nella vertenza. Oppure il leader del Pd vuole far capire che non dispera di riuscire a convincere Berlusconi, deciso al momento a far valere i suoi tanti voti con altrettanti veti: su Padoan, su Mattarella, su Finocchiaro e su tutti gli ex segretari del Pci-Pds-Ds-Pd, compreso Fassino. Guarda caso proprio i nomi che stanno nella Renzi’s list.

Dall’altro lato della barricata, Bersani osserva lo sviluppo della situazione, e al pari del Cavaliere sembra per ora intenzionato a non offrire sponde: «Non si era mai visto un premier che avoca a sé le trattative per il Quirinale. Ma visto che ha deciso così, tocca a lui la soluzione». E Renzi dovrà trovarla prima di incontrare proprio Berlusconi e Bersani, gli unici che vedrà al riparo delle formali consultazioni con i partiti, e che - guarda caso - hanno un nome in comune nelle loro liste: quello di Amato, a favore del quale si sta esercitando sul premier una forte pressione.

Scartando l’opzione della «rosa di candidati», Renzi sta tentando di rompere l’assedio. Ma ci sarà un motivo se ieri la forzista Mariarosaria Rossi - fedelissima del Cavaliere - ha detto che «se si trovasse l’intesa su un nome condiviso, si potrebbe eleggere il capo dello Stato al primo voto»: era un chiaro «sì» ad Amato e un indiretto «no» alle proposte finora avanzate dal leader dem. Che nel frattempo ha cambiato (ancora) la sua road map. Se la scorsa settimana aveva anticipato di voler rendere pubblico il nome del prescelto «prima dell’inizio delle votazioni», adesso medita uno slittamento, «tra venerdì sera e sabato mattina», cioè a cavallo tra la prima e la seconda chiama, per evitare un’esposizione di quarantott’ore che rischierebbe di bruciare il suo candidato.
 
Anche questo sembra un segno di difficoltà se legato all’atteggiamento del Cavaliere, che non sembra dar segni di cedimento dinnanzi alle pressioni del premier su Delrio e soprattutto su Padoan. La versione di Berlusconi è che - dopo aver sostenuto le riforme e la legge elettorale - non può dare i suoi voti per il Colle a un ministro di un governo a cui non ha dato la fiducia. Men che meno al titolare dell’Economia. Ora il capo forzista si aspetta un dividendo, non vuole acconciarsi a una svendita che lo esporrebbe all’attacco interno di Fitto.

Ma la versione di Renzi è un’altra, almeno così è stato interpretato quel lampo sul suo volto mentre incontrava alcuni compagni di partito, che gli chiedevano lumi sui suoi pronostici, sul cambio di road map, sull’idea di tenere la carta coperta fino all’ultimo, sulla sua insistenza a puntare su Padoan. Un lampo, nulla più. Ma quel lampo ha fatto rammentare ai presenti cos’è accaduto solo due settimane fa: se sulla legge elettorale Renzi è riuscito a «convincere» il Cavaliere sul premio alla lista, perché non potrebbe riuscirci sul nome del futuro capo dello Stato?

D’un tratto ai dirigenti del Pd i tanti veti di Berlusconi sono parsi troppi perché il premier non riesca a scalfirne uno e giungere così all’obiettivo. Magari con il sostegno degli ex grillini, un drappello che alla vigilia del voto per il Colle si è trasformato in un piccolo esercito, e che Renzi coltiva e incontra, com’è accaduto con il deputato Rizzetti: se così fosse, grazie (anche) a loro potrebbe neutralizzare il veto dei bersaniani sul «tecnico» Padoan e ottenere il voto dei dalemiani. Ma Renzi è disposto a rischiare? Perché Berlusconi (per ora) non demorde, e l’asse con gli alfaniani di Area popolare regge, al punto che ieri il ministro Lupi ha posto pubblicamente il veto sui tecnici: «È stato Renzi a dire che la loro stagione è finita. E ora dovremmo eleggerne uno alla massima carica del Paese?». «Tra la quarta e la quinta votazione», ripete il premier: come avere a tennis due palle per il match-point, sapendo quanto è esile il confine tra un ace e un doppio fallo.

27 gennaio 2015 | 08:27
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Titolo: Francesco VERDERAMI Quirinale: Renzi, l’ipotesi Amato e la tentazione del ...
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2015, 11:40:50 am
ETTEGIORNI
Quirinale: Renzi, l’ipotesi Amato e la tentazione del rimpasto
Il premier non scopre le carte sulla corsa al Colle.
In crescita le azioni di Padoan: se liberasse l’Economia si aprirebbe un giro di valzer nelle poltrone del governo
Di Francesco Verderami

Nella lista di Berlusconi c’è (anche) il nome di Amato. Nella lista di Alfano - che è la stessa di Berlusconi - c’è (anche) il nome di Amato. Nella lista di Bersani c’è (anche) il nome di Amato. Napolitano spinge per Amato. D’Alema dice Amato. Ma Amato sta nella lista di Renzi? È questo il punto, perché in passato, con un candidato così sponsorizzato, la corsa al Colle sarebbe finita al primo giro. Invece il premier - che prima del varo dell’Italicum al Senato non scioglierà la riserva - sta trasformando la corsa al Colle in un thriller. Renzi vive il nome di Amato come un assedio ed è evidente il tentativo di trovare una via di fuga. Da settimane gli interlocutori provano a interpretarne i segnali, azzardando pronostici sul quirinabile di suo gradimento. «Il fatto è - ha raccontato Bersani dopo averlo visto - che Matteo si comporta come un pokerista. Sta lì, inizia a sciorinare una lunga lista di nomi, e intanto ti scruta per vedere quali sono le tue reazioni».

L’unica volta in cui tracciò un identikit appena articolato sul candidato ideale, Napolitano era ancora al Quirinale. «Serve una figura saggia e preparata», disse Renzi: «Perché nei prossimi anni potrebbe essere chiamato ad affrontare situazioni difficili». Sembrava una preferenza per una personalità politica. Ma non è facile decrittare un oracolo, tantomeno il leader del Pd, capace - come solo lui sa fare - di muoversi su molti fronti contemporaneamente. E infatti, mentre è atteso alla partita della vita, Renzi medita sul restyling da fare al suo governo.

In più di un’occasione si è lamentato dell’operato «a dir poco insoddisfacente» di alcuni sottosegretari che vorrebbe cambiare. Intanto ha chiuso un negoziato con il governatore della Calabria, al quale farà arrivare come «forte sostegno» per la giunta il ministro Lanzetta, che lascerebbe quindi l’esecutivo. Vorrebbe poi mettere le mani sull’Istruzione - da affidare a un ministro del Pd - prima di presentare la riforma della scuola, e intanto non fa passare riunione di governo senza leggere alla Giannini i sondaggi che danno Scelta civica allo zero virgola. C’è il sindaco di Milano, Pisapia, che gli ha rappresentato la «personale disponibilità» al ruolo di Guardasigilli, anche se Orlando non intende candidarsi in Campania. Si tiene pronto nel caso il rapporto con Poletti - che si è logorato - dovesse liberargli il dicastero del Lavoro...

Più che un restyling sarebbe un rimpasto, un vero e proprio Renzi bis, una mossa inopportuna in questa fase, dato che in primavera si tengono le Regionali. A meno che il premier non intenda incrociare la partita del Quirinale con quella del governo. Perché se riuscisse a piazzare Padoan sul Colle, sfrutterebbe l’occasione - la sedia vuota dell’Economia - per avviare il giro di valzer. E Padoan - nonostante le polemiche sulla norma «salva Berlusconi» nel decreto fiscale - ci crede e ci spera nella promozione. Lo hanno intuito a via XX settembre, visto come il ministro ha ridotto all’osso le trasferte: «Fatemi restare a Roma in questi giorni...», sorride. E gli altri gli sorridono.

Sorridono un po’ meno nel Pd, dove - per il Quirinale - non solo la minoranza ha messo una croce sul suo nome, come su quelli di Bassanini e dell’ex presidente della Consulta De Siervo, ormai ribattezzato «il capo dello Stato del giglio magico». A differenza di due anni fa, però, l’opposizione interna non compirebbe il gesto sacrificale nel segreto dell’urna. Quando Bersani spiega che «non sarò certo un franco tiratore», è perché ai suoi ha detto: «Se Renzi ci presentasse un candidato di secondo rango, dovremmo dire pubblicamente che non l’accettiamo». Ormai il leader del Pd e il suo predecessore sono sull’orlo di un divorzio, perciò non è alle viste un nuovo incontro: una separazione nel voto per il Colle equivarrebbe a una scissione.

«Amato» dice Bersani. Per evitare la rottura ci sarebbe anche Mattarella. E la Finocchiaro. Ma è Renzi che manca all’appello, e nel Palazzo basta niente per scatenare la psicosi collettiva. Ieri un accenno su Visco, durante una riunione, ha innescato una reazione a catena. E poco importa se il governatore di Bankitalia si è schermito, il punto è che il suo nome è stato pronunciato da Renzi all’incontro con Berlusconi. Rientrato a palazzo Grazioli, il Cavaliere si è sfogato con i suoi: «Ci manca solo il ministro delle tasse». «Ma no dottore, non è Vincenzo. È Ignazio Visco. L’ha nominato lei a Bankitalia». «Ah sì e non mi ha nemmeno chiamato per dirmi grazie». E tutti a fissarlo: il «dottore» sta dicendo il vero o sta bluffando? Perché di pokeristi al tavolo d’azzardo per il Colle non c’è seduto solo Renzi...

24 gennaio 2015 | 07:30
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Da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2015/elezioni-presidente-repubblica/notizie/quirinale-renzi-ipotesi-amato-padoan-rimpasto-governo-9242e066-a391-11e4-808e-442fa7f91611.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Gli amici: ha fatto più questo governo per le tue aziende...
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2015, 11:19:34 am
Il retroscena
La strada stretta dell’ex premier e la partita dell’azienda di famiglia
La rottura dell’accordo con Renzi va inquadrata oltre il recinto della politica Telecomunicazioni
Il sottosegretario Giacomelli: peccato se si interrompe un clima positivo Ad Arcore
Gli amici: ha fatto più questo governo per le tue aziende che i tuoi ministri


Di Francesco Verderami
ROMA Berlusconi non ha rotto il patto del Nazareno, ha rotto lo specchio che avrebbe dovuto magicamente trasformare la proiezione dei suoi desideri in realtà. È la fine di un incantesimo di cui Renzi si è servito prima di porre il suo «alleato di opposizione» dinnanzi al bivio del prendere o lasciare. E se è vero che agli occhi del leader di Forza Italia il premier ha assunto le sembianze di «una iena», è altrettanto vero che nell’ultimo lunedì di Arcore - quello dedicato ai figli e agli amici di una vita - c’è stato chi ha ricordato al padrone di casa come, «nonostante tutto, questo governo in un anno ha fatto per le nostre aziende molto più che i tuoi ministri in dieci anni».

Eppoi certo, l’opinione comune a quel desco era che - per quanto bravo e sveglio - di Renzi non ci si dovesse fidare ciecamente, sebbene il moto istintivo che appartiene a Marina Berlusconi non fosse un consiglio, tantomeno una critica rivolta al genitore, che invece in Renzi credeva e a Renzi credeva. Semmai è stato un gesto solidale in vista della decisione: «Fai la cosa giusta». E il padre, che si è sentito tradito, ha mandato in frantumi lo specchio, destandosi da un sogno che era a sua volta il sequel di un altro sogno.

Ma davvero era solo un sogno? Perché in tal caso la rottura tra il premier e l’ex premier andrebbe confinata nel recinto della politica, alla partita sul Quirinale: «E il patto - dice Berlusconi - è che non si sarebbe proceduto oltre se io non fossi stato d’accordo sulla scelta». Non c’è dubbio che abbia commesso degli errori nella trattativa, come sostiene Gianni Letta, secondo cui «non ci si siede al tavolo con un solo nome». Però alla vigilia del voto in Senato sulla legge elettorale - quando Renzi aveva estremo bisogno di Forza Italia - la vicesegretaria del Pd Serracchiani disse in un’intervista radiofonica che «il prossimo presidente della Repubblica lo voteremo insieme a Berlusconi».

Le cose sono andate diversamente, anche se l’ex premier è convinto che Renzi abbia fatto male i conti con il successore di Napolitano, «perché lui pensa di trarne vantaggio, ma non sarà così. Mattarella è un cattolico integralista e alla lunga questa scelta gli si ritorcerà contro». Si vedrà, e comunque sono valutazioni che stanno ancora tutte dentro il perimetro della politica. Il punto è se c’era e c’è dell’altro, oltre l’intesa sulle riforme costituzionali e l’Italicum. Bisognerebbe forse seguire le tracce lasciate dall’avvocato-onorevole Ghedini negli ultimi tempi per verificare se quello di Berlusconi era davvero solo un sogno.

È un percorso punteggiato da indizi lasciati sul sentiero: senza andar dietro i boatos sulle modifiche alla legge Severino e sulla prescrizione, andrebbe capito come mai - a ridosso della sfida per il Colle - è stato perso del tempo per raccontare all’ex premier la storia del comandante partigiano comunista Moranino, scappato in Cecoslovacchia dopo una condanna per omicidio plurimo aggravato ai tempi della Resistenza, e graziato da Saragat appena salito al Quirinale. Ecco lo specchio dove Berlusconi vedeva i suoi desideri prender corpo. Era solo un incantesimo? Perché è stato Renzi a tracciare il solco del decreto fiscale, ed è andata la Boschi in tv a difenderlo. Perché il premier l’altra sera a «Porta a Porta» ha accennato all’affaire Telecom-Mediaset dopo aver detto che «sulle riforme non mi faccio ricattare da Berlusconi».

Nonostante questi segnali, il cristallo si è ugualmente rotto. E appena ieri se n’è sentito il frastuono, nel dibattito politico si è inserito un sottosegretario di solito silenzioso come il democratico Giacomelli, che nel governo ha una delega particolare, l’emittenza: «Sono dispiaciuto che si possa interrompere un clima positivo». Confalonieri conosce Giacomelli, una volta lo descrisse come «un politico pragmatico e lontano dai furori ideologici», e si disse perciò convinto della bontà della linea del governo, «improntata alla difesa delle aziende italiane, che sono un patrimonio nazionale».

Quando i suoi collaboratori gli hanno consegnato quel dispaccio di agenzia, il patron del Biscione si è chiesto se la dichiarazione fosse una casualità o un avvertimento, che ribalterebbe l’accusa sul conflitto d’interessi per venti anni addebitata a Berlusconi. «Lasciamo che la polvere si posi», si è limitato a dire, senza far capire quale risposta si fosse dato. Perché, se lo specchio si è rotto, in qualche modo il patto può ancora essere politicamente reincollato.

È Berlusconi che dovrà decidere, dopo aver urlato l’altra sera in faccia a Verdini la sua rabbia: «Mi hai portato in un vicolo cieco». No, lo portò al Nazareno, dove Renzi prima lo adulò, «qui sono circondato da milanisti», poi lo dileggiò alle spalle: «Voleva Amato, allora mi son fatto vedere con Cantone e si è messo paura che lo volessi davvero candidare al Quirinale». Un anno dopo a Berlusconi è chiaro che quel patto non era la sua «legittimazione». Era una gabbia da cui ora è difficile uscire. Infatti ha rotto lo specchio, non il patto.

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5 febbraio 2015 | 07:37

Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_05/berlusconi-renzi-rotto-patto-nazareno-a28a4bcc-acff-11e4-8190-e92306347b1b.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI - L’amarezza di Verdini «Vedo nani e ballerine fare festa»
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2015, 12:21:43 pm
SETTEGIORNI

Patto in crisi, l’amarezza di Verdini «Vedo nani e ballerine fare festa»
Il diario: Renzi prepara rappresaglie e organizza le truppe come faceva Masaniello


Di Francesco Verderami

Non dovendo più scrivere i suoi report per Silvio Berlusconi, Denis Verdini si è messo a scrivere le sue memorie, che sono per ora fogli scritti a mano, sparsi sulla scrivania. Non è casuale che l’uomo della trattativa con Matteo Renzi abbia iniziato il racconto dalla fine, perché risalendo il sentiero verso la sorgente si possono meglio analizzare le vicende, le ragioni e gli errori, propri e altrui. Certo, l’autobiografia sfocia sovente nel mare dell’autoassoluzione, e lui in Forza Italia è l’imputato. Che ha scelto la scrittura per dire la sua verità.

Eccolo l’artefice del Nazareno, «è grazie a Denis, alla sua intuizione, che un anno fa siamo rientrati in gioco», aveva esordito Berlusconi all’ultimo vertice di Forza Italia, prima di dargli il benservito: «Ora però dobbiamo uscire dall’equivoco». Di equivoci nel Patto con Renzi e nella sua gestione ce n’erano stati troppi perché il leader e il suo ambasciatore potessero riassumerli nella furibonda lite della sera prima. Ed è con un riferimento a quello scontro che inizia il racconto di Verdini: «In una monarchia il re è la legge. E se il re dice “la legge sono io”, meglio aspettare che si sfoghi». Perciò il giorno seguente, quando era stato richiamato a corte, aveva disertato l’appuntamento: «Sono a un funerale». Verdini aveva perso tre volte in un colpo solo: perché era saltato il Patto, perché era stato accerchiato dal «cerchio magico», e perché - siccome in Forza Italia il leader non sbaglia mai - aveva sbagliato solo lui. Ma Verdini sentiva di aver vinto: perché il Patto non era davvero saltato, perché non aveva accettato di dimissionarsi, e perché Renzi aveva annunciato di non voler parlare con altri messaggeri dell’ex premier: «Ho fatto sapere che, se vogliono, li faccio mettere in contatto con il mio vice al partito, Lorenzo Guerini. Vadano al Nazareno a parlare con lui. Anche Berlusconi».

Per quanto messo al rogo, Verdini non sembra temere le fiamme dell’inferno politico. Almeno così c’è scritto nelle sue memorie: «Mi sento sollevato, libero da responsabilità. Osservo nani e ballerine far festa per la fine del Patto. Io sto seduto sulla riva del fiume in attesa di pescare qualche pesciolino. Come Mike Bongiorno, sto lì: busta numero uno, busta numero due e busta numero tre...». Non è dato sapere a cosa alluda con quest’ultimo concetto. Lui, che si muove tra le colonne e però tiene sulla scrivania un piccolo Vangelo rilegato in pelle rosso fuoco, spesso parla e scrive senza volersi fare decrittare. E poco più sotto, nello stesso foglio, descrive la scena del Palazzo dopo l’elezione di Sergio Mattarella al Colle: «Il Pd attende, tranquillo che (frase incomprensibile, ndr)... Fuga di grillini in massa, il comandante zero alla guida di soldatini con piedi d’argilla, la nuova leva nordista che gonfia il petto. E Renzi sulla tolda di comando che - libero da patti - addomestica la tigre comunista alla sua sinistra, prepara rappresaglie, e intanto organizza truppe come faceva Masaniello: quelli con il fazzoletto di qua, quelli senza fazzoletto di là».

La frase meriterebbe un’esegesi, specie quando rivela che Renzi starebbe preparando «rappresaglie»: Verdini si riferisce forse alle prossime norme del governo in materia di giustizia, fisco ed emittenza? Più chiaro è invece il riferimento al premier che «organizza truppe» in Parlamento. Sono i nuovi Responsabili, che oggi vengono pubblicamente lodati dalla vicesegretaria del Pd, Debora Serracchiani, la stessa che - quando i gruppi vennero organizzati per salvare Berlusconi - si espose per accusare di mercimonio politico quella teppa: «Eccoli, i Disponibili, che chiedono un piatto di lenticchie. Questo sarebbe il simbolo giusto per la loro formazione». Così va il mondo e la (doppia) morale. Verdini non se ne cura. Anzi, essendo l’inventore di quel brevetto, annota come «ora è facile copiarlo, perché la gente tiene famiglia, non vuole andare a casa, e bussa alla porta di Renzi. Ai miei tempi fu diverso».

Eppoi, quanto sta accadendo è l’effetto della sfida per il Quirinale, durante la quale il centrodestra ha commesso degli errori di cui si sente (in parte) responsabile. Il patto di consultazione con Angelino Alfano, per esempio... Scrive Verdini: «Fu una riunione tra fratelli ritrovati. Ma ci facemmo prendere dai sentimenti, perdendo il senso della ragione. Renzi lo conosco, non avrebbe permesso che il nostro desiderio si realizzasse. Infatti andò così. Ncd non poteva a quel punto uscire dal governo. Né deve farlo. Per andare dove ora? Il centrodestra è in frantumi. Salvini pensa di vincere. Non vincerà mai. Quando in Francia Le Pen andò al ballottaggio con Chirac, non ci fu partita». Più che l’analisi della situazione, o il passaggio su Renzi che «conosco» - e che evoca lo stretto rapporto di Verdini con il premier - colpisce l’afflato verso «i fratelli ritrovati», gli «amici di Ncd e Udc» con cui - prosegue nello scritto - «ci siamo detti che in prospettiva bisognerà ricostruire. Ma ci vorrà tempo e pazienza. E servirà che Berlusconi capisca cosa loro hanno spiegato, con garbo e determinazione, quando hanno posto il problema del rapporto con la Lega e il tema della leadership».

Siccome non è un testo apocrifo, sono sensazionali le rivelazioni contenute in questi fogli, dove - per la prima volta - un dirigente forzista definisce un «errore la fine del Pdl»: «La rottura fu un errore strategico, perché dividersi è significato indebolirci reciprocamente. Se non lo avessimo fatto, forse oggi non ci sarebbe stato Renzi». Così Verdini arriva alla sorgente dei mali del centrodestra, che è la rottura con il governo Letta: «Resto convinto che la crisi andasse aperta per dare un segno di solidarietà a Berlusconi, ingiustamente estromesso dal Senato. Ma la mia tesi era che dopo quindici giorni avremmo fatto un altro governo». È la sua «tesi» che cela però un’altra verità.

7 febbraio 2015 | 07:49
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_febbraio_07/patto-verdini-nani-ballerine-festa-e05aacba-ae91-11e4-99b7-9c6efa2c2dde.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi e l’insofferenza per Salvini «il populista»
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2015, 05:59:50 pm
Berlusconi e l’insofferenza per Salvini «il populista»
Il capo di Forza Italia ora non esclude l’alleanza in Veneto con il sindaco di Verona Tosi

di Francesco Verderami

Berlusconi si è proprio rotto di questo «goleador», i cui atteggiamenti iniziano a ricordargli quelli di Balotelli, la «mela marcia» che temeva potesse rovinare l’armonia nello spogliatoio rossonero. E se da presidente del Milan ci mise del tempo prima di liberarsi del giocatore, da leader di Forza Italia sta esaurendo la pazienza verso il segretario del Carroccio, quella «testa matta» - è la sua definizione - che gioca per sé irridendo persino la squadra. Non gli va giù il modo in cui Salvini lo tratta, insomma. Così venerdì, dopo essersi sentito etichettare come un leader «del passato», ha deciso che era giunto il momento di reagire. E quando ad Arcore, durante una riunione sulle Regionali, gli hanno chiesto se l’eventuale candidatura di Tosi in Veneto fosse un’opzione da scartare, ha risposto d’istinto: «No, no. Questo asso teniamolo nel mazzo...».

È da vedere se davvero Berlusconi romperà con il segretario della Lega per allearsi con il sindaco di Verona. Sarebbe un evento clamoroso, non solo perché con Zaia - che è stato suo ministro - ha un ottimo rapporto, mentre con Tosi ci sono vecchie storie tese. Ma il problema è Salvini, la sua linea, gli atteggiamenti che proprio non gli piacciono. L’altro giorno, a pranzo con il presidente del Ppe Daul, ha fatto una tirata dopo che l’ospite gli aveva raccomandato l’unità del centrodestra alle prossime elezioni: «In Francia abbiamo perso praticamente dappertutto per questo problema». «E io mi sto impegnando», ha replicato il leader di Forza Italia: «Io dico che dobbiamo andare tutti insieme, però Salvini...». E giù una collezione di apprezzamenti: «Non mi piacciono i suoi toni arroganti, non mi piace il suo populismo, non mi piace la deriva estremista che ha fatto prendere alla Lega».

Pensava di applicare con l’uomo in felpa lo stesso metodo adottato con il ragazzo in maglietta, che trangugiò a Milanello nella speranza gli facesse gol. Ma quella è la sua squadra, questo invece è un altro partito, con un altro capo, peraltro assai diverso da Bossi. E allora, visto che Salvini continua a comportarsi come Balotelli, il presidente (di Forza Italia) ha deciso di dargli un avvertimento, strizzando l’occhio a Tosi. Di lui gli hanno parlato a tavola alcuni fedelissimi, «in Veneto ha la Chiesa che lo sostiene». Di lui ha letto venerdì una nota, nella quale il sindaco di Verona sosteneva che «se Berlusconi si candidasse alle primarie del centrodestra, le vincerebbe». Un vero e proprio controcanto a Salvini, che poche ore prima aveva liquidato l’argomento: «Berlusconi non può essere più leader».

Quella dell’ex premier sarà una mossa tattica, presto lo si capirà, perché l’idea di tenere «l’asso nel mazzo» potrebbe servire a provocare una reazione nella Lega. Soprattutto in Zaia, che da candidato in Veneto è esposto per quanto sia favorito, e che avrebbe vinto senza far nemmeno campagna elettorale se solo avesse potuto ripresentarsi con la stessa squadra di governo regionale. Non a caso Tosi, che promette di far danni nella Lega, si è espresso in quel modo verso Berlusconi. In politica nulla è fatto gratis, e c’è un motivo quindi se il sindaco di Verona ripete che «bisogna riunificare il centrodestra», se anche Alfano prova a verificare le reali intenzioni del «dottore» e gli offre una sponda: «Quando Tosi sceglierà se candidarsi, valuteremo. Certo, se Forza Italia ci stesse, potremmo condividere una candidatura in Veneto».

È chiaro che su al Nord non è in gioco (solo) una poltrona da governatore ma si sperimentano i futuri assetti di quello che fu il campo dei moderati. E il ministro Lupi esorta Berlusconi a fare ciò che sempre ha fatto: «Dalla nascita del Pdl, all’idea del governo delle larghe intese, fino al patto del Nazareno, ha avuto sempre l’intuito per costruire progetti importanti, tranne poi interromperli. La storia gli offre ora un’altra possibilità, riproponendolo davanti a un bivio: può essere protagonista di un progetto nuovo o decidere di percorrere la strada segnata da Salvini». In effetti, per una mano, Berlusconi può tenere il banco al tavolo del centrodestra. E dal mazzo per il momento non ha ordinato di scartare Tosi: «No, no. Teniamolo».

Se il leader di Forza Italia tentenna, però, non è solo a causa della sopravvenuta debolezza politica, ma anche del suo status di cittadino «perennemente inseguito dalla giustizia». L’assoluzione per il caso Ruby non gli ha dato sollievo, al di là delle apparenze: «Perché non è finita», dice. Infatti - oltre ad essere pessimista sull’esito del ricorso in Europa contro la sentenza Mediaset - è «molto preoccupato» per l’indagine Ruby-ter. Tuttavia non è pentito per aver dato più di due milioni di euro alle olgettine. Lo considera anzi un atto di responsabilità «verso ragazze che a causa di quella inchiesta hanno oggi una vita rovinata»: «Non trovano un fidanzato, non trovano un lavoro. Nemmeno mio figlio le prende a Mediaset».

«Sistemerò le cose», si è ripromesso. E in effetti ne deve sistemare tante. Dal Milan che però non vorrebbe vendere, «non lo cedo, è un patrimonio di famiglia», a un altro asset a corto di fondi e di risultati, cioè Forza Italia. Tutte cambiali in scadenza, che Berlusconi vorrebbe onorare per rilanciarsi, anche se i suoi sogni appaiono imprigionati e i suoi discorsi sembrano attorcigliarsi in un vorrei ma non posso. Vorrebbe, per esempio, un nuovo e accomodante socio per la squadra di calcio, e un nuovo logo per la coalizione che dia l’idea dell’«Unione del centrodestra», con lui ovviamente al centro. Invece è costretto a fronteggiare la realtà che nel frattempo è cambiata. Dovrà fare l’abitudine alle nuove cose, Berlusconi, anche alla riacquisita libertà: la sera ha ancora il riflesso di chi attende che i carabinieri bussino alla sua porta per il controllo.

14 marzo 2015 | 08:12
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_marzo_14/berlusconi-salvini-tosi-lega-veneto-alleanza-68b1e73c-ca16-11e4-8e70-9bb6c82f06ec.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Forza Italia, Berlusconi pensa a Mara Carfagna al vertice...
Inserito da: Admin - Marzo 28, 2015, 04:51:28 pm
SETTEGIORNI
Forza Italia, Berlusconi pensa a Mara Carfagna al vertice del partito
E tra l’ex Cavaliere e Salvini alleanza (a loro insaputa)

Di Francesco Verderami

Correranno insieme, ma finora non si sono mai fatti vedere insieme. Berlusconi e Salvini sembrano alleati a loro insaputa. È una trovata elettorale? Un esperimento politico? Di sicuro non è una novità. Quando Monti scese in campo con Scelta civica, si negò persino alla foto con Fini e con Casini. Tutti sapevano cosa pensasse a quei tempi il professore dei suoi compagni di strada (ricambiato), e tutti sanno cosa pensano oggi l’uno dell’altro il leader di Forza Italia e il segretario della Lega. Per Berlusconi «Salvini è un problema». Per Salvini «Berlusconi è cotto». Tuttavia troveranno un’intesa in vista delle Regionali, sebbene proprio l’ossessione di vedersi come carbonari, di smentire incontri realmente avvenuti, di scivolare via dai luoghi dove sono stati appena colti insieme, rende manifesta la distanza tra i due. Anche ieri, appena si è sparsa la voce di un loro rendez vous serale, in tanti si sono affannati a spiegare che non era vero. Quasi a voler preservare entrambi dall’idea di una possibile mescolanza.

C’era una volta il centrodestra, oggi non c’è nemmeno una posa sorridente da offrire alla stampa. D’altronde non c’è sorriso sul volto di Berlusconi, che impreca all’oltraggiosa fortuna riservatagli dagli eventi, e deve convivere con gli sbalzi d’umore. Infatti non è per farsi desiderare se prende tempo quando lo invitano alle manifestazioni: «Purtroppo ho la febbre», ripeteva ancora ieri sera. Nel 2006 aveva il colpo della strega, eppure alla fine andò a Vicenza a sfidare i vertici di Confindustria, e il suo famoso balzo sulla sedia mandò in visibilio la platea degli imprenditori. Fu l’inizio di una clamorosa rimonta elettorale su Prodi, quasi completata. «Lasciatelo in pace quell’uomo», replica ogni volta in sua difesa Confalonieri, a chi gli chiede che l’amico faccia un altro scatto.

Lo specchio magico che Berlusconi aveva costruito, e in cui ogni giorno si rimirava per sentirsi dire che era il più forte, si è frantumato. E oggi sono in tanti a specchiarsi in quei mille frammenti, pensando di poter ascoltare di se stessi la stessa cosa. Nella sede di Forza Italia non c’è nemmeno più il centralinista, nei gruppi di Forza Italia si attende una nuova diaspora. Resta da capire - e non è cosa da poco - se sono i parlamentari a volersene andare o se è il leader che se ne vuole andare. Con Fitto, per esempio, il capo fa mostra di volerlo «fuori dalle scatole», così ha detto: «Per i suoi candidati assicuriamo dei posti alle Regionali. Si accontenti, se crede».

È una mossa dettata da un disegno o un segno di sconforto? E siccome Berlusconi resta (ancora) Berlusconi, i dirigenti azzurri continuano ad analizzare i suoi comportamenti, come un tempo: forse vuol costringere Fitto a rompere per farlo contare nelle urne, addebitargli le cause della sconfitta alle elezioni, e non permettergli di lucrare dall’interno del partito sul (quasi certo) risultato negativo di Forza Italia. Quanto al possibile gruppo autonomo di Verdini, c’è chi la considera una diabolica trovata, per mantenersi un tramite con Renzi e un surrogato del vecchio patto nazareno. «Ma se si fanno andar via tutti questi parlamentari, poi chi rimane?», si è domandato Romani, chiedendo urgentemente udienza al capo. 

Per il capo vige oggi il motto «meglio pochi ma fedeli», e tra quei pochi c’è la Carfagna, che Berlusconi medita di porre al vertice del partito per offrire il segno tangibile del cambio generazionale. Si vedrà se il visionario avrà una nuova visione, e cosa ne sarà - per esempio - del rapporto con il Partito popolare europeo che Tajani riunisce nella capitale per discutere sulla «capacità di aggregare» del centrodestra italiano. Per il momento è in atto un processo di scomposizione. È vero, da qualche parte bisogna pur ricominciare, il punto è che molti si ritrovano dopo essersi appena divisi. Al centro Ncd e Udc - pronti a fondersi in Area popolare - discutono con Tosi, che ha appena divorziato da Salvini, su come costruire un rassemblement di moderati, mentre la destra che fu An riunisce oggi dieci sigle a discutere di «Terza Repubblica» ...

La verità è che Renzi li ha fatti tutti prigionieri, e la politica è stremata al punto tale che, con la sola voce contraria di Brunetta, al premier è consentito «meditare» - senza che la cosa meni tanto scandalo - se porre o meno la fiducia in Parlamento addirittura sulla legge elettorale. «L’avessi detto io, sarebbe scoppiata la guerra mondiale», dice Berlusconi. È vero, ma il premier gli ha strappato le sue parole d’ordine: ha portato il suo Pd a sinistra con l’ingresso nel Pse, e ha spostato a destra il suo governo con il Jobs act, la responsabilità civile dei magistrati e ora pure con la riforma delle intercettazioni.

Al leader di Forza Italia non resta che aggrapparsi a Salvini, che ancora ieri però lo insolentiva: «Chi mi ama mi segua». Ed è chiaro a cosa miri il segretario del Carroccio, ed è per questo che agli occhi di Berlusconi resta insopportabile. Perciò finora non si sono mai fatti vedere insieme, anche se correranno insieme: alleati a loro insaputa.

28 marzo 2015 | 08:04
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DA - http://www.corriere.it/politica/15_marzo_28/forza-italia-berlusconi-carfagna-salvini-8cba8eb8-d515-11e4-ac8b-ead84921270e.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il sogno del ‘93: sindaco a Milano
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2015, 11:11:35 pm
Il sogno del ‘93: sindaco a Milano
Quando Berlusconi disse a Renzi: un giorno tutto questo sarà tuo
Ma oggi l’ex premier non si fida più: un furbastro, ha preso anche i difetti dei comunisti

Di Francesco Verderami

In fondo Berlusconi ci aveva visto giusto, non a caso invitò Renzi ad Arcore promettendogli che «un giorno tutto questo sarà tuo». Non è chiaro se vedesse in quel «simpatico ragazzo» un talento da cavalcare o una minaccia da scongiurare, è certo che a distanza di qualche anno Renzi si sta prendendo ciò che gli era stato offerto, senza nemmeno chiedere permesso. La migrazione da Forza Italia verso il Pd è iniziata: «Bondi l’ha fatto e anche Verdini ormai aspetta solo una scusa per andarsene». Berlusconi è consapevole che la ferrea legge della natura, cioè della politica, non fa concessioni nemmeno a chi per venti anni è stato il re della foresta nel Palazzo.

E infatti ieri il ruggito con cui voleva richiamare all’ordine quanto resta del suo branco, non ha sortito effetti. Anzi, persino il candidato del centrodestra in Puglia, Schittulli, gli ha voltato le spalle, costringendo il vecchio leader a inseguirlo per non restare fuori da quel laboratorio dove pezzi dell’ex Pdl - da Fitto ad Alfano - tentano una ricostruzione che verrà provata anche in Veneto con l’appoggio a Tosi. Sono esperimenti, e in quanto tali possono essere fallaci. Ma testimoniano un’idea di progetto, guardano al futuro.

Berlusconi sembra invece vincolato a un presente che è denso di recriminazioni e di angosce. Vive con ansia l’attesa di una libertà che non è stata pienamente ritrovata, «ancora non mi hanno restituito il passaporto», ed è mosso da un forte disappunto verso quel «simpatico ragazzo» che si è trasformato in un «furbastro di cui non ci si può fidare», perché si è «rivelato uno di quelli». Cioè un «comunista». O meglio, ai suoi occhi il segretario del Pd ha acquisito i loro stessi difetti: «I comunisti, per esempio, sono sempre stati abili nel truccare le elezioni. E Renzi, in una delle occasioni in cui ci siamo incontrati, mi ha raccontato che alle primarie contro Bersani venne fregato. “La volta dopo - mi disse - siccome avevo capito come facevano, li ho fregati io”. Capite il personaggio?».

Si capisce anche la sofferenza di Berlusconi, un visionario che un tempo fece di un acquitrino una città, che sfidò la Rai con una tv del sottoscala, che trasformò un club in fallimento nella squadra di calcio più titolata al mondo, che scese in campo per entrare subito a palazzo Chigi, ma che oggi non riesce a calarsi nei panni del padre nobile, siccome il padrun sa solo comandare e vincere. E per una parvenza di vittoria ha quietato l’impulso di andare da solo alle Regionali, acconciandosi all’alleanza con la Lega, «perché non possiamo dare anche il Veneto a Renzi». Pur di prendersi la rivincita sul «furbastro», ha subìto senza replicare le battutacce di Salvini.

L’ultima dev’esser stata una coltellata al cuore e ai suoi ricordi, perché quando si è ventilata l’ipotesi che l’ex premier potesse candidarsi a sindaco di Milano, il capo del Carroccio ha commentato: «Dopo Pisapia, chiunque può farlo». È vero che Berlusconi aveva accarezzato quella idea, ma per presentarsi in politica non per accomiatarsene. È una storia che risale al ‘93 e che riaffiora nella testimonianza di un ex parlamentare del Ppi, Duilio, catapultato a fare il vice commissario della Dc milanese, a fianco di Bodrato, nei mesi tremendi di Tangentopoli, quando «sui vetri della sede del partito si sentiva il rumore metallico delle cento lire».

Per anni Duilio era stato il responsabile dell’Agenzia di formazione per l’impegno sociale e politico nella diocesi lombarda, a diretto contatto con il cardinal Martini, che lo assecondò nella nuova intrapresa quando a chiamare fu Martinazzoli. Duilio seppe delle intenzioni di Berlusconi durante una riunione dei dirigenti democristiani dell’epoca in via Mirone: «Era giugno, c’erano appena state le elezioni per il comune di Milano, e noi - che avevamo candidato Bassetti - eravamo stati sconfitti dalla Lega con Formentini. Ricordo che, mentre si discuteva sul da farsi, il professor Moioli, docente alla Statale, pronunciò quel nome».

«Quel nome» allora evocava solo un tycoon delle tv legato a Craxi, e vissuto con ostilità dalla sinistra dc. «Perciò - rammenta Duilio - non capii subito cosa c’entrasse. Tranne quando ci fu detto che proprio lui, prima del voto, aveva fatto sapere che sarebbe stato seriamente intenzionato a candidarsi per palazzo Marino, che era disponibile se noi avessimo accettato. Forse Bodrato ne parlò con Martinazzoli o forse no, ma con il senno di poi si può dire che sarebbe stato un evento che avrebbe forse cambiato il corso delle cose».

Chissà se Berlusconi ne ha fatto cenno a Salvini dopo la sua dichiarazione, più probabilmente si sarà tenuto stretto il ricordo. Perché i ricordi si confidano agli amici, non ai «furbastri». Siano avversari o alleati.

4 aprile 2015 | 10:39
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_aprile_04/berlusconi-arcore-renzi-sindaco-milano-a19da192-daa3-11e4-8d86-255e683820d9.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Palazzo Chigi e il verdetto pensioni, Renzi irritato: ...
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2015, 04:37:28 pm
«SETTEGIORNI»
Palazzo Chigi e il verdetto pensioni, Renzi irritato: «Danno per il Paese»
Il presidente del Consiglio punta il dito contro l’assenza di comunicazione della Consulta: «Ci fosse qualcuno della minoranza dem che dica qualcosa...»


Di Francesco Verderami

Tanto è sospettoso per i metodi e la tempistica adottati dalla Consulta, quanto si mostra cauto nella reazione, e chiede a tutti di «pazientare», di «evitare le polemiche». Ma ciò non toglie che Renzi consideri la sentenza sulle pensioni «un danno arrecato alla credibilità del Paese». Sono molte le ragioni che hanno indotto il premier a questo convincimento. Certo si è infuriato per l’assenza di etichetta istituzionale della Corte, che ha violato il patto di collaborazione tra organi dello Stato, tenendo il governo all’oscuro del verdetto, e suscitando a Palazzo Chigi molti interrogativi estranei alle logiche giurisprudenziali. E non c’è dubbio che l’emergenza economica provocata dalla sentenza sia un fattore rilevante.

Ma non il più importante, secondo il leader del Pd. A suo giudizio infatti la vicenda rischia di produrre un grave effetto, un processo cioè di «deresponsabilizzazione in chi governa», perché di qui in avanti verrebbe offerto un alibi a quanti - in futuro - decidessero di «scaricare» sui loro successori eventuali falle di gestione: «Tanto la Corte sentenzierà fra qualche anno...».

L’anno che verrà per Renzi è già arrivato, tocca a lui oggi sobbarcarsi l’eredità di scelte altrui, vittima di una sorta di contrappasso della storia, se è vero che si presentò al Paese e ai partner dell’Unione dicendo «basta con i tecnici, che hanno provocato tanti danni in Italia e in Europa». Se il taglio delle pensioni sia stato un danno, un errore, o più semplicemente una scelta dettata dall’emergenza, ora poco importa, il punto è che i cocci sono i suoi.

Anche se gli resta un dubbio che somiglia tanto a una polemica: «Ci fosse stato qualcuno della minoranza del mio partito, in questi giorni, che avesse detto qualcosa... No che non l’hanno detta, allora - da Bersani a Letta - tutti votarono a favore del provvedimento di Monti». Lui che ha scommesso sul «ritorno al primato della politica» è gioco forza costretto a pagare la cambiale che gli impone di cambiare corso. E non sarà facile.

Perché Renzi finora aveva interpretato un unico ruolo. Vestendosi da rottamatore, riformatore, innovatore, al dunque aveva offerto al Paese sempre lo stesso, identico profilo: nella sua narrazione era il «buono» che si proponeva di cambiare il sistema politico con l’Italicum e la riforma del Senato, che si distingueva per misure di equità fiscale con gli ottanta euro, che puntava al rilancio della scuola con centomila nuovi assunti. Adesso, per effetto di una sentenza della Consulta, gli toccherà la parte del «cattivo», a cui spetterà decidere quanti (e quanto) riceveranno ciò che la Corte stabilisce essere un loro diritto. Proverà a fare di necessità virtù, già sta pensando alla controffensiva mediatica per limitare i danni. Ma è consapevole che saranno molti gli scontenti, e che forse il suo provvedimento finirà di nuovo sotto la lente di osservazione dei giudici costituzionali.

È questa l’altra metà del «danno», stavolta alla sua immagine e al suo modo di proporsi all’opinione pubblica: perché sa che toccare le pensioni significa disorientare i cittadini, provocare un abbassamento del livello di affidabilità dello Stato, innescare un meccanismo di sfiducia e d’incertezza per il futuro. Tutto il contrario di quanto si è proposto di fare da un anno a questa parte, con le dosi massicce di ottimismo che non ha mai smesso di somministrare.

Perciò entra periodicamente in frizione con l’Istat. È vero, l’altro giorno il report dell’Istituto di statistica lo ha soddisfatto, anche se si trattava solo di una previsione del futuro. Ma ancora nel recente passato, appena due Consigli dei ministri fa, Renzi si è lasciato andare all’ennesima sortita contropelo: «L’Istat deve pubblicare i dati? Va bene, pubblichi questi dati. Ma su come darli occorre una comunicazione condivisa con il governo». Ad alleati e compagni di partito, ricorda qualcuno per questa sua allergia verso gli organismi indipendenti: dalla magistratura, alla Commissione europea, fino alla Corte Costituzionale...

Renzi il «buono» e Renzi il «cattivo». Lo sdoppiamento è inevitabile, anche se il premier - nel suo negoziato con Bruxelles - sta tentando di camuffarsi nel suo nuovo ruolo, mirando a posticipare il varo del provvedimento sulle pensioni dopo le urne delle Regionali, per evitare emorragie nel consenso. Tuttavia è consapevole che il tema impatterà sulla campagna elettorale, sa che gli avversari alzeranno il livello della polemica, ed è alla ricerca di una strategia di comunicazione che sia più efficace di quella che «non ha funzionato» per la riforma della scuola. L’eredità pesa.

9 maggio 2015 | 07:37
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_maggio_09/palazzo-chigi-verdetto-pensioni-renzi-irritato-danno-il-paese-7fda227c-f60c-11e4-a548-cd8c68774c64.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Lo scontro nella Ue sui profughi L’Italia pronta a...
Inserito da: Admin - Giugno 25, 2015, 07:44:40 pm
La trattativa
Lo scontro nella Ue sui profughi L’Italia pronta a chiedere più fondi
La strategia di Roma per far riconoscere il nostro ruolo di Paese di confine

Di Francesco Verderami

Sotto il muro di Dublino si sta consumando tra i Paesi dell’Unione uno scontro che segnerà il profilo futuro dell’Europa. Perché più delle questioni di bilancio, il tema dell’immigrazione e soprattutto il nodo degli «asilanti» va a interferire con il principio di sovranità nazionale degli Stati. Di qui le resistenze al piano Juncker, sostenuto con forza da Berlino e Roma, ma che - in vista dell’«opting out» di Londra - rischia di naufragare senza l’appoggio di Parigi e Madrid, dedite a smontare lo schema di ripartizione per «quote» dei migranti.

Ed è evidente che l’Italia - in prima linea nella trincea meridionale per via della crisi libica - non può accettare soluzioni pilatesche, «l’Europa - dice il titolare del Viminale - deve riconoscere il nostro ruolo di Paese di confine». Le parole di Alfano anticipano l’apertura di un ulteriore fronte di negoziato: se tocca a Roma fare «il lavoro di tutti», allora a Roma vanno destinate maggiori risorse, o quantomeno vanno garantiti dei vantaggi nel patto di Stabilità, dato che - rispetto ai 60 milioni stanziati ad hoc da Bruxelles - il governo italiano per il 2015 ha già messo a bilancio 800 milioni.

Non c’è dubbio che l’aspetto economico sia un dettaglio (per quanto non marginale) della trattativa, così com’è chiaro che l’emergenza immigrazione non può essere risolta con la divisione degli «asilanti» nei vari Paesi dell’Unione. Per l’Italia il problema si chiama Libia, Renzi riconosce che «le quote sarebbero un palliativo se non si bloccassero i flussi di partenza dall’Africa». Dunque la sfida si gioca anche a un altro tavolo, quello delle Nazioni Unite, dove giace la risoluzione che consentirebbe di intervenire per porre fine alla crisi nel Mediterraneo. L’ottimismo del premier su un «esito positivo» della partita diplomatica al palazzo di Vetro, poggia sull’ottimismo trasmessogli dallo stesso capo della Farnesina, Gentiloni, che in questi giorni ha avuto un colloquio «soddisfacente» con il collega cinese e si prepara a volare nel fine settimana a Mosca per incontrare il ministro degli Esteri russo.

Nel frattempo va trovato un accordo in Europa sul piano Juncker, «va costruito il consenso» - come dice la Mogherini - per superare il voto a maggioranza qualificata tra i Paesi dell’Unione. Ed è lì, sotto quel muro di Dublino che fissa rigide barriere tra gli Stati, che si concentra lo scontro. L’alto rappresentante per la politica estera europea fa capire le difficoltà, perché il nuovo meccanismo scardina i precedenti schemi di gestione dell’immigrazione tra i vari Stati e apre conflitti politici nei singoli Stati. Ecco il motivo che ha indotto Hollande a ottenere che nel progetto non si parlasse più di «quote» ma di «redistribuzione» degli «asilanti»: sebbene il piano europeo convenga anche alla Francia, l’inquilino dell’Eliseo doveva intanto rompere la morsa in cui si è trovato stretto in patria, per effetto degli attacchi di Sarkozy e della Le Pen.

Al momento il muro di Dublino sembra insomma resistere. Ma sotto questa barriera che appare insormontabile è al lavoro la Germania, convinta sostenitrice del piano con l’Italia. E non è un caso che, nella missione, un ruolo importante lo stia giocando il capo di gabinetto di Juncker, Selmayr, potente rappresentante della Merkel in Commissione a Bruxelles: a lui la cancelleria tedesca ha affidato il compito di premere riservatamente sulle capitali europee, in modo di aprire un varco.
L’obiettivo è ambizioso: se l’operazione riuscisse, se cioè il piano varato per l’emergenza - per quanto rabberciato - venisse approvato, vorrebbe dire che sarebbe passato un principio innovativo in Europa. A quel punto, una volta accettata la soluzione ponte, l’idea della Commissione sarebbe quella di presentare per dicembre un nuovo meccanismo «permanente», senza più limiti numerici. In tal caso, le quote di ripartizione degli «asilanti» verrebbero superate. Sarebbe davvero la caduta del muro di Dublino. Ecco perché questa fase è molto delicata, perciò se ne discuterà al G6 di Dresda il primo giugno, dov’è previsto un incontro tra il titolare dell’Interno italiano e il collega tedesco De Maiziere, mentre i tecnici dei due dicasteri dovrebbero riunirsi per studiare una proposta di mediazione che possa aver successo.

Un errore in questa fase di trattative e tutto verrebbe pregiudicato. Il consiglio dei ministri dell’Interno del 16 giugno sarà una tappa importante, ma determinante sarà il vertice dei capi di Stato e di governo alla fine di quel mese: «Allora vedremo - dice Renzi - se l’Unione avrà un volto solidale».

27 maggio 2015 | 07:20
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_maggio_27/scontro-ue-profughi-l-italia-pronta-chiedere-piu-fondi-7232550a-042f-11e5-8b0b-0cc2990e0043.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il sì di Berlusconi ai suoi: ritentiamo la via del Nazareno
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2015, 10:20:21 am
La svolta
Il «sì» di Berlusconi ai suoi: ritentiamo la via del Nazareno
Il risultato elettorale alle amministrative (che non ha soddisfatto né Renzi né il leader di Forza Italia) e le insistenze di Confalonieri e Gianni Letta riavvicinano i leader

Di Francesco Verderami

Forse senza convinzione, sicuramente senza passione. Ma viste le insistenze di Confalonieri e Letta, Berlusconi ha deciso di rifare un tentativo con Renzi. Il Nazareno è come l’araba fenice, è come certe storie che non finiscono. Così, in nome e per conto del suo leader, l’azzurro Romani ha incontrato il collega Zanda, e attraverso il capogruppo democratico ha fatto sapere al premier come Berlusconi sia disponibile a rinnovare il patto che fece storia e scandalo. Senza più l’enfasi del passato, ovviamente, senza più gli incontri conviviali in cui i due finivano a parlar di calcio. Non è più tempo, per certi versi il tempo sembra già scaduto. Tuttavia l’offerta è giunta a palazzo Chigi: Forza Italia è pronta a dialogare (di nuovo) con la maggioranza e a dare un contributo sui provvedimenti più importanti. A condizione però che sulle riforme il leader del Pd cambi verso, che reintroduca il Senato elettivo e garantisca di modificare l’Italicum, assegnando (di nuovo) il premio alla coalizione e non più alla lista.

Secondo Berlusconi è un atto di generosità, visto che «Renzi è odiato all’interno del suo partito, dove ho l’impressione che stiano lavorando per farlo cadere». Secondo Renzi è un atto di contrizione, visto che «Berlusconi si è reso conto di aver commesso un grave errore» staccandosi dal Nazareno. Entrambi raccontano un pezzo di verità, entrambi restano diffidenti, entrambi sono alle prese con problemi politici. Ma con situazioni assai diverse. Se è vero che il segretario dem è stato sconfitto alle amministrative, è altrettanto vero che il presidente degli azzurri non ha potuto intestarsi il risultato.

La vittoria dei sindaci moderati ha segnato infatti un superamento della leadership berlusconiana. Non è un caso se il trionfo delle liste civiche ha coinciso con il declino di Forza Italia. In Sicilia, per esempio, il simbolo è stato presentato solo a Bronte, perché dappertutto veniva chiesto di rafforzare le formazioni locali. Come sono lontani gli anni ruggenti in cui i candidati facevano la fila ad Arcore per la fotografia con il leader, da usare poi nei manifesti elettorali. Ora accade il contrario, e Venezia è stato il caso più eclatante. Con garbo il neo eletto sindaco Brugnaro l’ha rivelato a Salvatore Merlo per il Foglio: «Sono debitore della generosità di Forza Italia, che si è fatta un po’ da parte».

Non è solo un problema di marketing politico, il primo a saperlo è proprio Berlusconi, che usa il pretesto come alibi e si arrovella per cercare un nuovo nome. Nei giorni scorsi si era appassionato al logo «L’altra Italia», scartato quando dai sondaggi ha notato che dava «un’idea divisiva e non inclusiva». Andrà meglio con il prossimo nome, anche se ogni test somiglia alla tela di Penelope, da fare e disfare per prender tempo. Ma il tempo logora chi non ce l’ha. E infatti è il tempo che ruba le idee a Berlusconi, perché è lui che aveva pensato di rinnovare e rinnovarsi con le liste civiche.

Il punto è che quelle liste oggi non gli appartengono. Per progetto, linea politica e obiettivi, Brugnaro è tutta un’altra storia rispetto a Berlusconi. Le Comunali sono da sempre il luogo della sperimentazione per l’area moderata. D’altronde ventidue anni fa - sulle macerie della Dc - il centrodestra anticipò la sua vittoria alle Politiche con la candidatura di Fini al Campidoglio. E quando sarà il momento a Roma anche Marchini, che sembra il «prescelto», chiederà di «innovare»: «I partiti - avvisa - dovranno fare un passo indietro».

C’è un motivo dunque se l’ex premier è vittima della sua stessa operazione: la scomposizione a cui mirava ha colpito infatti solo l’area un tempo dominata dal Pdl. Con i loro alti e bassi gli altri partiti restano invece strutturati, è Forza Italia che sprofonda nella voragine aperta dallo stesso Berlusconi. La prova sta nel sondaggio con cui ieri Ixe’ ha fatto scendere per la prima volta nella storia il suo partito sotto la soglia psicologica del 10%, a fronte di una Lega salita fino al 16%: il trend negativo testimonia quindi che il calo non era dovuto al patto con Renzi. Forse anche per questo, pur senza passione e nemmeno convinzione, Berlusconi ha bussato di nuovo al Nazareno. Senza dirlo a Salvini.

20 giugno 2015 | 07:15
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Da – corriere.it


Titolo: F. VERDERAMI Il disincanto di Berlusconi che preferisce «rifugiarsi» da Putin
Inserito da: Arlecchino - Settembre 11, 2015, 11:27:26 am
Il retroscena SUL VIAGGIO IN RUSSIA
Il disincanto di Berlusconi che preferisce «rifugiarsi» da Putin
Il progressivo allontanamento dal Palazzo dell’ex premier. Di Renzi non si cura più Il leader dall’amico Vladimir per «studiare una strategia con cui sconfiggere l’Isis»

Di Francesco Verderami

ROMA L’unica cosa che ancora lo appassiona è la politica estera e «l’unico leader mondiale rimasto sulla scena, cioè Putin. Altro che Obama e Merkel». Per il resto non prova più attrazione, «non ho più voglia», ammette Berlusconi. E il suo disamoramento per le cose di Palazzo è sintomo comune a quanti si accingono al distacco. Durante l’ultimo vertice estivo in Sardegna con i dirigenti di Forza Italia, mentre il capogruppo dei senatori Romani gli parlava di riforme, lui parlava di botanica, preoccupato per certi innesti fatti su alcune piante rare più che per le modifiche da apportare alla Costituzione.

Cambiar discorso o cambiare aria sono modi per sfuggire a una quotidianità che deprime, con gli avvocati sempre per casa, con le liti di confine nel partito, con quel Salvini che non passa giorno senza ricordargli di aver più voti e meno anni. Così, quando proprio non può cambiar discorso, allora Berlusconi cambia aria. Torna da Putin «per studiare insieme a lui una strategia con cui sconfiggere l’Isis». Di sconfiggere Renzi, che sembrerebbe un obiettivo meno complicato, non si cura (più). Anche perché - dice - «fino al 2018 la situazione resterà bloccata», e poi «sono in attesa di aver giustizia dalla giustizia per poter rientrare in campo».

Ma all’idea che possa essere un giudice di Strasburgo a fargli tornare la voglia, non ci crede più nessuno in Forza Italia. E in fondo non ci crede nemmeno lui, che pure recita la parte per tenere unito quel che resta delle truppe e per non disperdere l’elettorato fidelizzato. Che sembri un alibi lo s’intuisce anche dal modo in cui all’occorrenza l’amico di una vita, Confalonieri, prova a difenderlo da amici e avversari che lo assediano: «Lasciatelo in pace quest’uomo».

Il fatto è che «quest’uomo» spesso è vittima di se stesso: accentra ogni cosa e non vuole poi occuparsene, nomina generali e se ne stanca poco dopo, s’inventa l’Altra Italia e in men che non si dica la inabissa come Atlantide. Una sequenza di mosse e contromosse in cui finisce per restare imbrigliato: dalle schermaglie nel partito sui volti nuovi da mandare in tv, fino alle questioni di strategia politica. Come spiega Matteoli, «per capire la linea di Silvio bisogna aspettare il giorno in cui la cambia». Per oltre venti anni questa tattica si è rivelata vincente, ora che non lo è più la cosa genera sconcerto nel partito verso il quale il leader mostra tutto il suo distacco. E non si addossa colpe, perché si sente «un incompreso».

Stanco anche del cerchio magico, delle liti tra di loro e delle liti con loro, Berlusconi vola da Putin per sfuggire all’oltraggiosa sfortuna. Quando c’è il caos meglio cambiar discorso o cambiar aria. Accadde già in una torrida giornata di luglio del 2003, quando tutti a Roma si domandavano dove fosse finito il presidente del Consiglio, mentre il governo di centrodestra era sull’orlo della crisi. Lo scoprirono a Positano, nella villa del regista e amico Zeffirelli, dove rimase fino a sera dimenticandosi delle beghe con Bossi, Fini e Casini: «Lasciamoli sfogare questi ragazzi».

Anche stavolta saluta tutti e parte. Dopo aver disertato la riunione con i senatori forzisti sulle riforme, ha fatto saltare l’appuntamento pubblico alla Versiliana organizzato dal Giornale (dove avrebbe parlato il giorno prima di Renzi), e ha disdetto la visita al convegno di Fiuggi indetto da Tajani, a cui però ha promesso «un collegamento telefonico dalla Russia»: «Viene bene lo stesso. I giornali poi riprendono le cose che dico». Ma la sua assenza si nota, come si nota quella buca che ha scavato dove un tempo aveva costruito il Pdl. Non c’è quasi più niente, tranne berlusconiani spaesati e sparsi, al centro a destra e a sinistra. Come accadde quando implose la Dc.

E mentre Renzi prepara il tour per cento teatri d’Italia, Berlusconi - che aveva promesso di fare un giro di tutte le province - si rifugia oltre confine da un amico con cui si diverte: «Con Putin mi diverto». Ed è sincero ogni volta che lo dice, perché sorride quando si appresta a mostrare certe foto private con il presidente russo. Eccoli mentre fanno rafting insieme, imbragati con i salvagente e il caschetto protettivo; o mentre sfidano i rigori del clima siberiano con una tuta termica che somiglia a quella degli apicultori; e ancora mentre fanno una battuta di caccia. «E poi c’è questa...», che ritrae Berlusconi a un poligono di tiro mentre prende la mira e spara con un kalashnikov.

Non le ha mai rese pubbliche queste pose, nonostante le insistenze, perché «non so quale reazione susciterebbero nell’opinione pubblica». Forse non lo fa perché è consapevole che darebbero la misura del suo distacco dal Palazzo e dalle cose della politica nazionale, perché mostrerebbero in modo inequivocabile cosa si cela dietro i segni del progressivo e inarrestabile disamoramento. Forse si capirebbe perché Berlusconi parla di botanica mentre attorno a lui gli altri parlano di riforme.

9 settembre 2015 (modifica il 9 settembre 2015 | 07:48)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_settembre_09/disincanto-berlusconi-che-preferisce-rifugiarsi-putin-4d141292-56b2-11e5-a580-09e833a7bdab.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il sì alla riforma del Senato una vittoria con paracadute
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 14, 2015, 02:41:34 pm
BICAMERALISMO
Il sì alla riforma del Senato una vittoria con paracadute
Non è un caso se il referendum costituzionale si terrà pochi mesi dopo le elezioni comunali, perché se in primavera il responso delle urne a Roma, Milano e Napoli fosse avverso al Pd, in autunno la consultazione sulla Carta si trasformerebbe per Renzi in un’occasione di rivincita

Di Francesco Verderami

Il Senato non ha riscritto solo la Costituzione, ha descritto un altro mondo: ecco la nuova Yalta della politica italiana.

Il voto sulle riforme disegna due blocchi contrapposti e in mezzo una sorta di no fly zone, un’area cuscinetto, dove si scorgono le rovine del vecchio patto del Nazareno. Certo, il fatto che la fine del bicameralismo non sia frutto di un accordo tra forze di maggioranza e opposizione bensì l’esito di un conflitto, contrasta con l’idea che due anni e mezzo fa ha dato vita alla legislatura costituente. Ma da allora molte cose sono cambiate, compreso il governo, e non c’è dubbio che da allora le riforme sono diventate (anche) un terreno di lotta politica.

Così sul campo si contano vincitori e vinti, che già si preparano alla sfida referendaria, dove i comitati del sì e quelli del no — attraverso il voto dei cittadini — tenteranno di definire le future frontiere. Intanto Renzi ha ottenuto ieri dal Senato — grazie a un’ampia maggioranza — una rinnovata legittimazione, una sorta di fiducia costituzionale, tappa fondamentale per portare a compimento il suo ambizioso disegno: sancire la fine del bicameralismo paritario, tenere a battesimo la nuova Repubblica e infine guidarla. Ma l’esito non è scontato.

Arrivato un anno e mezzo fa al governo con l’ostilità del Palazzo e il consenso sostanziale della gente, ora ha conquistato il Palazzo perdendo però un po’ di smalto presso l’opinione pubblica. Il punto è che Renzi — presentatosi alla guida di una cordata di innovatori — ora rischia di essere vissuto come il capo di un nuovo establishment. E per quanto le Amministrative non rappresentino un test politico, in quel voto si riverseranno anche gli umori di un Paese che è solito cambiar verso rapidamente nei riguardi di ogni premier.

Perciò non è un caso se il referendum costituzionale si terrà pochi mesi dopo le elezioni comunali, perché se in primavera il responso delle urne a Roma, Milano e Napoli fosse avverso al Pd, in autunno la consultazione popolare sulla Carta si trasformerebbe per Renzi in un paracadute, in un’occasione di rivincita e di rinnovata legittimazione al cospetto degli italiani. È vero, la sfida decisiva verrà alle Politiche, lì si vedrà se il leader democratico avrà saputo intercettare gli italiani. Ma il passaggio del referendum sarà dirimente, perché servirà a formalizzare i confini della nuova Yalta o a decretarne l’immediato fallimento.

Al referendum si misurerà la forza d’urto dei Cinquestelle e dei leghisti, che certo non si giocavano la loro partita in Parlamento. Con i comitati per il sì al referendum si capirà se i centristi di Alfano — che sulle riforme hanno visto riconosciuta la ragione sociale del loro partito — sapranno aggregarsi insieme ad altri e costruire un campo più largo, elettoralmente attrattivo. È il referendum che chiarirà le sorti di Forza Italia, divisa ieri nel voto al Senato e schiacciata sotto il peso di vecchie contraddizioni e del giovane alleato leghista.

Renzi si avvia ad intestarsi la paternità della Terza Repubblica, che poggia però su basi ancora da consolidare. C’è un motivo quindi se Napolitano, che delle riforme è stato patron e architetto, ha esortato il premier a porvi rimedio oltre che attenzione. Il presidente emerito della Repubblica non ha inteso criticare la mancanza di qualità lessicale, che pure emerge dalla lettura delle nuove norme costituzionali, ma ha centrato il suo discorso in Aula su aspetti da correggere per spazzar via ogni accusa e timore sull’imprinting della Carta.

È vero che le riforme sono come delle Formula 1, che nessun test in galleria del vento nè simulazione al computer può anticipare la bontà di un progetto: che — insomma — bisogna girare in pista, cioè far entrare a regime una legge per provarla. Ma un sistema che per molti versi è presidenziale senza formalmente esserlo, ha bisogno di essere temperato, e Napolitano ha individuato nella legge elettorale il punto su cui intervenire. Possibile che Renzi non faccia tesoro del suggerimento?

Perciò, piuttosto che lasciare l’Aula in segno di ostilità verso l’ex capo dello Stato, il gruppo di Forza Italia avrebbe fatto meglio ad ascoltarlo, perché Napolitano ha sollevato — a suo modo — lo stesso identico problema posto dal capogruppo Romani a più riprese. Peccato: è stato un altro segno di come le riforme siano state usate in base alla convenienza politica del momento. E in questo caso non ci sono vincitori e vinti.

14 ottobre 2015 (modifica il 14 ottobre 2015 | 10:30)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_ottobre_14/si-riforma-senato-vittoria-paracadute-1678e6a4-7232-11e5-b015-f1d3b8f071aa.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI I nemici di Berlusconi sono diventati i nemici di Renzi
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 24, 2015, 12:08:48 pm
SETTEGIORNI
Una tregua apparente che non poteva durare
C’erano segnali chiari che la tregua tra il leader e le toghe non avrebbero retto.
E Alfano e Orlando accendono i riflettori sul caso che scuote il Tribunale di Palermo

Di Francesco Verderami

I nemici di Berlusconi sono diventati i nemici di Renzi: uno dopo l’altro, mese dopo mese, man mano che il suo governo realizzava pezzi del programma del vecchio centrodestra. Dopo la responsabilità civile dei magistrati, l’abrogazione dell’articolo 18 e il taglio delle tasse sulla casa, per chiudere il cerchio manca ormai soltanto la riforma delle intercettazioni, che non a caso i magistrati hanno eletto a linea di trincea.

Il premier si attendeva l’offensiva delle toghe - il suo Guardasigilli l’aveva messo sull’avviso - ma non immaginava che il presidente dell’Anm Sabelli arrivasse a sostenere che «il tema delle intercettazioni è diventato più importante della lotta alla mafia». Un oceano di distanza non basta ad attutire l’onda d’urto della reazione: «Si dà scandalo per coprire un altro scandalo?». Dietro una frase all’apparenza criptica si cela un’irritazione provocata dall’assenza di riconoscenza verso un governo che, finora, aveva scelto di mantenere un basso profilo e di non accendere i riflettori su un’inchiesta che sta colpendo proprio il Palazzo di giustizia considerato l’avamposto nella lotta al crimine organizzato: Palermo.

La voragine che si è aperta nel Tribunale del capoluogo siciliano sta inghiottendo i vertici della sezione Misure di prevenzione, per una presunta storia di corruzione e abuso d’ufficio legata alla gestione dei beni confiscati alla mafia, con un giro d’affari milionario che vede coinvolti un giudice e anche suoi familiari. Dal sindacato togato, nel giorno d’apertura del loro congresso, Palazzo Chigi si attendeva «almeno un cenno d’autocritica», invece «proprio mentre sono sotto scacco loro, pensano di mettere sotto attacco noi». È vero, il braccio di ferro tra il governo e l’Anm era già in atto, un conflitto strisciante che non era diventato guerra aperta perché - quando venne varata la norma sulla responsabilità civile dei magistrati - Renzi era riuscito a spostare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle loro ferie.

Ma il tema delle intercettazioni per l’Anm è un totem come lo era l’articolo 18 per i sindacati. E Sabelli ha sferrato il colpo, o forse si è sentito in dovere di sferrarlo, se è vero che - in recenti conversazioni riservate - ha confidato ad un esponente dell’esecutivo di sentirsi «pesantemente pressato dalla base», aggiungendo di non vedere «l’ora di finire il mandato». Il suo teorema, pronunciato per di più davanti al capo dello Stato, ha spinto - e non a caso - il vice presidente del Csm Legnini a prendere le pubbliche distanze. E soprattutto ha innescato la reazione del governo.

Il primo ad accendere ieri i riflettori su Palermo e sul «messaggio devastante» che quell’indagine «per reati gravissimi» sta trasmettendo al Paese, è stato il ministro dell’Interno. Poco dopo - altro fulmine a ciel sereno - il ministro della Giustizia con un’inusuale dichiarazione all’ Ansa ha annunciato che «l’ispezione» al Tribunale siciliano «si chiuderà nel giro di alcuni giorni». Come non bastasse, Orlando ha voluto evidenziare una norma «da noi varata per mettere un tetto ai compensi degli amministratori di beni confiscati». Così ha messo il dito nella piaga, dando anche lui evidenza a un caso finito al centro di un’inchiesta.

Le sortite dei due ministri sono parse altrettanti messaggi alle toghe e al loro presidente, una risposta all’ excusatio non petita pronunciata da Sabelli, che aveva respinto «la falsa immagine di una corporazione volta alla difesa dei propri privilegi», e aveva rigettato l’idea di una magistratura «rappresentata come un ceto elitario e oligarchico». Sarà, ma da giorni sulle scrivanie di molti dicasteri e di Palazzo Chigi giace l’intervista a Panorama dell’avvocato Cappellano Seminara, coinvolto nell’indagine a Palermo. Una sua frase è segnata con l’evidenziatore: «In tutti i Tribunali ci sono familiari di giudici che assumono incarichi assegnati dallo stesso distretto giudiziario in cui operano i congiunti».

Con l’approssimarsi della riforma sulle intercettazioni era chiaro che la tregua tra Renzi e le toghe non avrebbe retto. Non è ancora chiaro, però, fino a che punto si spingerà il conflitto, in una fase segnata da scandali e manette.

Di certo il premier non poteva che reagire davanti al teorema di Sabelli: «La nostra generazione di politici - dice Alfano come a farsi portavoce del governo - è quella che ha più contrastato la mafia e che ha ottenuto grandi risultati». La miccia è accesa.

24 ottobre 2015 (modifica il 24 ottobre 2015 | 08:40)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_ottobre_24/tregua-apparente-che-non-poteva-durare-19062230-7a19-11e5-9874-7180d07bb3bf.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI I 5 Stelle, i sindaci e la cautela sul voto nelle città ...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 28, 2015, 05:53:02 pm
SETTEGIORNI
I 5 Stelle, i sindaci e la cautela sul voto nelle città (per non bruciarsi)
Si punta al governo.
Un errore nella gestione del grande centro potrebbe costare molto


Di Francesco Verderami

È paura di volare o paura di farsi male? Cosa spinge gli enfant prodige del grillismo a respingere le candidature a sindaco di Roma e Napoli? Possibile che a Di Battista e Di Maio non piaccia vincere facile? Perché non c’è sondaggio che non annunci la loro vittoria alle prossime Amministrative.

La storia delle regole non regge, sebbene Di Battista e Di Maio se ne servano come scudo. «Le regole del Movimento non sono un accessorio», ha spiegato il vice presidente della Camera al Mattino, dimenticando che i Cinquestelle sono capaci persino di rifare una votazione se il risultato non è quello programmato: a luglio fu così che la responsabile comunicazione del gruppo alla Camera rimase al suo posto, dopo che i deputati l’avevano bocciata nelle urne. Perciò la tesi che i puledri di razza della scuderia Casaleggio non possano correre a Roma e Napoli siccome già parlamentari, è un alibi inconsistente.

La verità è un’altra, Di Maio si è incaricato di rivelarne pubblicamente solo una parte: «Siamo concentrati sul fronte nazionale per garantire un’alternativa a Renzi». Ci ha pensato Di Battista a illuminare il lato oscuro della luna, confidando a un autorevole esponente di maggioranza le ragioni del rifiuto: «E chi si candida, mica siamo matti. Noi puntiamo al governo nazionale, col cavolo che vogliamo bruciarci». Ecco, ora è tutto chiaro. Per i due grillini la scommessa delle Amministrative sarebbe solo a saldo negativo: se perdessero, verrebbero tagliati fuori dalla competizione nazionale; se vincessero, sarebbero costretti a governare città ingovernabili.

Poco importa che i sondaggi rivelino come, senza questi candidati, i Cinquestelle potrebbero perdere le sfide. Il movimento si trova davanti a un dilemma: governare porta con sé il rischio di rovinare un brand. Il marchio oggi è considerato vincente perché valorizzato dai fallimenti dei partiti tradizionali. Ma se i grillini cadessero là dove sono caduti i loro avversari, anche solo se incespicassero nella gestione del potere, per incapacità non per malaffare, sarebbero fatalmente condannati all’omologazione. E gli argomenti usati per conquistare l’opinione pubblica si ritorcerebbero contro per una sentenza senza appello.

Non c’è dubbio che la conquista delle città al voto il prossimo anno diverrebbe una formidabile vetrina in vista delle Politiche: nel ‘93 la vittoria a Milano portò la Lega alla ribalta nazionale come forza di governo. Ma Roma e Napoli sono città pericolose. E allora, un conto è dover gestire a Parma quel termo-valorizzatore che in campagna elettorale era stato promesso di chiudere, un conto è bocciare il bilancio del proprio sindaco al comune di Livorno, altra cosa sarebbe restare imbottigliati nel traffico caotico dell’amministrazione romana. «Tutti fanno i Superman finché non devono misurarsi con la burocrazia», ha detto la leader di Fdi Meloni a un incontro di partito.

Anche Di Battista sa che quella è kryptonite. Perché se in Campidoglio - nonostante le cure di Cantone e la presenza di tanti magistrati che nemmeno in una procura - al primo appalto del Giubileo scattano subito tre arresti, vuol dire che il livello di degenerazione è profondo e la macchina incontrollabile. «A Roma non serve un salvatore della patria, serve un programma», ha detto il giovane grillino. Sì, ma serve qualcuno che conosca il burocratese per evitare ciò che l’ex assessore Esposito ha denunciato: «La struttura amministrativa scrive male le delibere perché il Tar poi le bocci». Gli elettori cinquestelle sono disposti a perdonare a Di Battista la presenza nel guinness delle «bufale» stilato dal New York Times, e possono chiudere un occhio per quel premio al «politico dell’anno» accettato da Di Maio. Altro no. Loro lo sanno, e da politici ormai scafati si sono riparati dietro «le regole».

Si metta l’animo in pace il popolo del web, alle «Comunarie» del 2016 non troverà i preferiti da votare ma dei rincalzi disposti a «bruciare». Il Movimento non ha paura di volare, ha paura di cadere, perdere l’anima e rimetterci i migliori runner per palazzo Chigi. Sebbene Di Battista un anno fa avesse promesso di lasciare la politica: «Se arriviamo al 2018 non mi ricandido per non avere più a che fare con queste m... in Parlamento». Di Maio è sempre stato più prudente. Mica per niente ha ricevuto il premio.

17 ottobre 2015 (modifica il 17 ottobre 2015 | 19:24)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_ottobre_17/m5s-5-stelle-imola-timori-sindaci-voto-citta-ba12a646-748b-11e5-a7e5-eb91e72d7db2.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI L’ex «porto delle nebbie» e i rischi del partito-Stato
Inserito da: Arlecchino - Novembre 15, 2015, 09:00:28 pm
Magistratura e politica
L’ex «porto delle nebbie» e i rischi del partito-Stato
La procura di Roma ha sostituito quella di Milano nel ruolo di guida nazionale della giustizia, evocando l’inizio di una stagione che più di venti anni fa cambiò la storia d’Italia.
Ma l’assenza di furore ideologico nelle inchieste pone la classe dirigente di fronte ad una sfida ancora più insidiosa

Di Francesco Verderami

Da porto delle nebbie si è trasformata in porto franco, le sue inchieste ne alimentano altre in altri uffici giudiziari del Paese: così la procura di Roma ha sostituito quella di Milano nel ruolo di procura guida nazionale che indirizza anche la lotta al terrorismo islamico e accompagna con il breviario penale la rivoluzione morale in Vaticano.

Ma sono l’operazione Mafia Capitale, l’affaire Anas con la sua «dama nera», e per ultimo il caso ereditato da Napoli in cui è coinvolto il governatore campano De Luca, a evocare nell’immaginario collettivo l’inizio di una stagione che più di venti anni fa cambiò la storia d’Italia.

Il rito romano è diverso da quello ambrosiano, perché diverso è il contesto e il profilo dei protagonisti. Il «pool» di Borrelli raggiunse picchi di notorietà tali da essere citato a memoria, quasi fosse la formazione della Nazionale. Oggi invece c’è una squadra di magistrati guidata da un antidivo come Pignatone, che silenziosamente si sta prendendo una rivincita rispetto a quei suoi colleghi che ne avevano ostacolato la carriera definendolo un «normalizzatore».

Finito il tempo dei missionari che proclamavano di voler «rovesciare l’Italia come un calzino» e che promettevano di riconsegnare ai cittadini un Paese dalle «mani pulite», è giunto sulla scena un procuratore che invoca il sostegno della politica per non costringere la magistratura al ruolo della «supplenza» e che assicura il sistema di non avere «altri disegni» se non quello di colpire le sue «patologie».

Ma proprio l’approccio conciliante, l’assenza di furore ideologico nelle inchieste, l’abbandono del mito della lotta del bene contro il male, pongono la classe dirigente dinnanzi a una sfida ancor più insidiosa rispetto a quella del passato, perché la spogliano delle sue difese, le impediscono di usare l’alibi della giustizia politicizzata. Infatti nessuno parla di azioni a orologeria se parla della procura di Roma. Non è accaduto nemmeno due settimane fa, quando dagli uffici di piazzale Clodio — con perfetta tempistica — è filtrata la notizia che il sindaco della Capitale aveva ricevuto un avviso di garanzia per peculato, proprio mentre Marino tentava un’ultima disperata resistenza in Campidoglio.

Questo atteggiamento remissivo della politica non è solo conseguenza dalle sue debolezze, oltre che delle sue colpe, è anche il dovuto attestato di credito a un magistrato rimasto (finora) immune dal virus del soubrettismo giudiziario, che continua invece a minare la credibilità della sua categoria. Ma nonostante le differenze con il rito ambrosiano, le iniziative penali della procura di Roma cominciano a produrre effetti simili. Solo che a differenza di ventitré anni fa — quando le inchieste liquidarono le forze di governo della Prima Repubblica — nessuno stavolta può difendersi sostenendo di essere vittima di un disegno, perché formalmente non esiste più un intento persecutorio. Il potere ora è nudo davanti al suo giudice.

Peraltro, se in conseguenza del dissolvimento del quadro politico a restare in piedi è un solo partito-Stato, è inevitabile che ogni indagine sullo Stato finisca per colpire (soprattutto) quel partito. È il prezzo che paga una forza di sistema, è un problema con cui (soprattutto) il Pd deve oggi fare i conti. A lungo andare, a fronte dei casi che affiorano in giro per l’Italia, a Renzi non basterà farsi scudo solo con le autorità di controllo e vantando l’inasprimento delle norme contro i banditi della democrazia.

Serve la «rottamazione» di un modo di fare politica e di chi se ne è fatto interprete. Sono le «scelte autonome» di cui parla Pignatone, che rivolge un suggerimento e al tempo stesso una sfida al sistema al quale sostiene di interessarsi solo per colpire le sue «patologie». Resta da capire come la classe dirigente del Paese vorrà affrontare il problema per evitare che un altro ciclo si chiuda traumaticamente. E intanto si aspetta di capire fin dove si spingerà la procura di Roma, che dice di muoversi senza avere «alcun disegno».

13 novembre 2015 (modifica il 13 novembre 2015 | 08:52)
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Da - http://www.corriere.it/opinioni/15_novembre_13/porto-senza-nebbia-a60306ea-8995-11e5-9216-e8e41772d34a.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Attentati Parigi, Alfano: «Pronti a qualsiasi passo per...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 15, 2015, 09:09:22 pm
Attentati Parigi, Alfano: «Pronti a qualsiasi passo per fermarli»
Il ministro dell’Interno: «Nella Carta c’è il ripudio della guerra ma come i costituenti avevano previsto non ci si può sottrarre se la pace è minacciata»

Di Francesco Verderami

Dopo quello che è successo a Parigi, che differenza passa tra un figlio che sta in trincea e un figlio che sta per le vie del centro? E fino a che punto si è disposti a mandare un figlio in trincea, pur di vedere garantito a un altro figlio di muoversi per le vie del centro? Perché ormai questo è il bivio, per tutto l’Occidente. Dunque anche per l’Italia. Angelino Alfano lo riconosce, e sottolinea che «entrambi quei figli combattono per la libertà. Noi siamo in trincea da tempo con i nostri militari, ancora pochi giorni fa abbiamo ricordato gli eroi di Nassiriya. Però anche i ragazzi che stanno in centro difendono la nostra libertà, difendono cioè le nostre abitudini, la nostra voglia di dichiararci e vivere da Occidentali. Perché i terroristi, quando non riescono a sopraffare i regimi di governo, tentano di sopraffare i regimi di vita».

Ogni sera il ministro degli Interni va a letto e pensa: anche oggi è andata bene. Ogni mattina il ministro degli Interni si alza e pensa: sarà oggi? La percezione, infatti, non è se quanto accaduto in Francia avverrà anche in Italia, ma quando avverrà e dove. «Ogni giorno - risponde - lavoriamo perché il Paese sia sicuro, dunque libero. E continueremo a lavorare perché la risposta a quel terribile interrogativo sia “mai”. Anche se sappiamo che il “rischio zero” non esiste». Alfano non rivela quante volte l’Italia sia scampata a un attentato da quando siede al Viminale, «ma se penso all’instancabile opera di prevenzione che viene quotidianamente fatta, dico che abbiamo da ringraziare il dio in cui crediamo e gli uomini a cui affidiamo un compito delicatissimo».

A Parigi invece i terroristi, oltre l’obiettivo militare, potrebbero aver centrato anche un obiettivo politico. Uno dei killer era un profugo proveniente dalla Grecia. Così rischia di saltare il fragile progetto di redistribuzione dei profughi in Europa. E rischia di saltare l’Europa.
«L’Europa non salterà, né si farà dettare l’agenda dal terrorismo, che dovremo sconfiggere con le armi degli Stati sovrani, le armi della forza e del diritto: dando asilo a chi ne ha diritto ed espellendo i falsi profughi, senza mai dare nulla per scontato. Sapendo che il momento storico è caratterizzato da due emergenze mondiali senza precedenti: l’immigrazione e il terrorismo. Chi non ne tiene conto ha una visione miope o strumentale».

Mentre Hollande parlava di guerra, sui siti è diventato virale il disegno della Torre Eiffel stilizzata nel simbolo della pace. Allora non si vuol capire...
«La cronologia del terrore determina un cambio di passo. A quel cambio di passo noi siamo pronti. A Parigi c’è stato un attacco di guerra gestito con tecnica stragista, che ha colpito anche obiettivi imprevedibili. Noi abbiamo capito benissimo, perciò - ripeto - siamo pronti a qualsiasi cambio di passo».

Sarà, ma prima siamo stati tutti americani, poi tutti spagnoli, tutti inglesi, ora francesi. E non è cambiato niente. Non è che siamo tutti codardi?
«Credo che alla fine il terrorismo islamico produrrà un effetto contrario rispetto a quello che si prefigge, cioè di annichilirci. Continueremo a essere americani, spagnoli, inglesi e francesi perché l’attacco è globale, ci riguarda tutti. E sono certo che combatteremo fianco a fianco a ogni livello. Serve uno spirito unitario in Occidente e dobbiamo recuperare lo spirito unitario in Italia, consapevoli che è cambiato tutto. Anche le guerre».

Ritiene allora che la Costituzione debba essere adeguata alla nuova realtà?
«Il ripudio della guerra è un ripudio morale. E noi continueremo a ripudiarla. Ma così come i costituenti previdero, non ci si può sottrarre quando la pace viene minacciata».

I terroristi avranno pure «sequestrato un dio», come lei dice, ma rispetto ai musulmani l’Occidente ha sotterrato le sue tradizioni.
«Penso che proprio i nemici dell’Occidente rafforzeranno la nostra identità. Continueremo a difendere la nostre tradizioni, la nostra cultura. Che è anche cultura di accoglienza. Perciò sapremo sempre dividere chi prega da chi spara, semina odio contro gli ebrei e i cristiani. E uccide i musulmani stessi».

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15 novembre 2015 | 08:20

Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/15_novembre_15/attentati-parigi-alfano-pronti-qualsiasi-passo-fermarli-0685ca06-8b68-11e5-85af-d0c6808d051e.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi: «Pd e Cinque Stelle al ballottaggio? Voterei ...
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 04, 2015, 06:57:54 pm
L’intervista Silvio Berlusconi
Berlusconi: «Pd e Cinque Stelle al ballottaggio? Voterei scheda bianca»
Il leader di Forza Italia: ci batteremo perché vinca il no al referendum sulle riforme

Di Francesco Verderami

«Non vedo un’effettiva consapevolezza della gravità della situazione da parte di molti leader occidentali. Sarà per mancanza di esperienza, per mancanza di idee, per paura, per condizionamenti ideologici... Ma sono molto preoccupato dalla piega che hanno preso gli eventi». Silvio Berlusconi punta l’indice contro le leadership occidentali, chiamate a fronteggiare la crisi internazionale. E auspica una «grande alleanza» con la Russia per combattere il terrorismo jihadista, ricordando che «la mia linea di politica estera è sempre stata improntata alla collaborazione» tra l’Europa, Washington e Mosca, «a partire dall’intesa di Pratica di Mare, con cui si era messa fine alla guerra fredda».

L’ex premier ritiene invece che in questi anni siano stati commessi «molti gravi errori dai Paesi occidentali», a iniziare «dal tentativo tardivo e maldestro di mettere il cappello sulle cosiddette primavere arabe»: «Non si è stati in grado né di prevederle né tantomeno di accompagnarle nel loro corso. Forse per non essere accusata di interventismo, come è accaduto a Bush, l’amministrazione Obama ha scelto di non intervenire in Medio Oriente. Salvo poi, con un atteggiamento in apparenza contraddittorio, aver spinto per un cambiamento di regime in Libia, spiegato come un intervento a protezione delle popolazioni indifese. In questo modo l’Occidente ha permesso la destabilizzazione del Nord Africa e del Medio Oriente, senza un disegno o una prospettiva di un nuovo assetto politico per la zona, spianando così la strada all’estremismo islamico».

Come non bastasse il Califfato, è in atto ora uno scontro tra i suoi amici Putin ed Erdogan. Il primo accusa addirittura il secondo di aver abbattuto l’aereo militare russo per «coprire i traffici con l’Isis».
«Spero e credo che l’abbattimento sia stato un incidente, ma capisco che Putin si senta “tradito” da un Paese che, proprio come la Russia, si oppone all’Isis. Più che stabilire chi ha ragione, è fondamentale che non si ripeta mai più un episodio del genere. Dobbiamo renderci tutti conto che la Russia è un alleato imprescindibile, non un nemico. Quanto alla Turchia, negli ultimi anni ha attraversato cambiamenti che non condivido. Questo però, ancora una volta, è anche una nostra responsabilità. Nel passato mi sono battuto per l’entrata della Turchia nell’Unione. Sono sempre stato osteggiato dai pregiudizi di molti Paesi europei, Francia e Germania in primis. La parte migliore della Turchia voleva diventare Europa. L’abbiamo tenuta fuori dalla porta. Era inevitabile che prevalessero altri tipi di spinte, in una nazione a cavallo fra Oriente ed Occidente».

Se si realizzasse la «grande alleanza» contro l’Isis, l’Italia dovrebbe partecipare anche ad operazioni di terra in Siria? E pensa che il Paese sarebbe pronto a una guerra, mettendo in conto dei caduti sul campo di battaglia?
«Non possiamo illuderci che altri facciano le guerre per noi, e aspettare di lucrarne i benefici. Poi le forme di coinvolgimento di ciascun Paese saranno da valutare secondo i mezzi e le possibilità di ciascuno. Ma qualcosa dovremo fare certamente. Io credo che primo compito di un presidente del Consiglio italiano sia di obbedire all’identità e alla storia del nostro Paese, secondo l’insegnamento che da De Gasperi in poi ci ha consentito di svolgere un ruolo inclusivo sul piano delle alleanze. Mi sono già impegnato e mi sto impegnando per favorire la comprensione tra Russia e Occidente. E sono, in questo momento drammatico, a piena disposizione del mio Paese per sostenere il costituirsi di una coalizione sotto l’egida dell’Onu. Un incontro in Italia dei leader più importanti del fronte contro lo Stato Islamico avrebbe una valenza organizzativa e simbolica importantissima».

Il premier italiano ritiene che in Siria non si debbano «ripetere gli errori commessi in Libia». Condivide questa linea prudente, in assenza di un disegno sui futuri assetti di quell’area? Il suo alleato Salvini vorrebbe invece indossare subito l’elmetto.
«Condivido certamente il fatto che non si debbano ripetere gli errori commessi in Libia. Quanto a Renzi, la prudenza nel combattere il regime di Assad in assenza di un’alternativa migliore è un atteggiamento saggio. La prudenza nel combattere lo Stato Islamico — che di Assad è mortale nemico — è una ambiguità che non ci possiamo permettere».

Non pensa che un intervento attivo dell’Italia nel conflitto possa provocare un’azione terroristica sul territorio nazionale?
«La pavidità non ci mette certamente al riparo. L’unico modo per stare al sicuro è estirpare il cancro alla radice. L’Isis è un’organizzazione criminale, ma molto lucida e con molto senso politico. La sua strategia è proprio quella di colpire e accentuare le debolezze dell’Occidente».

Al governo lei chiede in questo frangente «meno tasse e più sicurezza»: non è soddisfatto allora del taglio proposto da Renzi per le tasse sulla casa e il miliardo annunciato per la lotta al terrorismo?
«Le tasse sulla casa le avevamo già tolte noi nel 2008, e il Pd le ha reintrodotte. Renzi non fa altro che riportare la situazione al punto al quale noi l’avevamo lasciata. Fa bene, ma non è certo una sua idea. Oggi la situazione richiederebbe interventi ben più incisivi, per avere effetto davvero sulla ripresa. E in ogni caso ogni taglio di tasse va finanziato con tagli della cattiva spesa pubblica e non facendo deficit e debito. Quanto alla sicurezza, bene gli stanziamenti, se davvero ci saranno, anche se ce ne vorrebbero di più. E comunque servono a poco se non si danno alle Forze dell’ordine anche gli strumenti legislativi necessari per operare di fronte all’emergenza. E poi trovo grottesco il fatto che Renzi approfitti dell’occasione per annunciare elemosine elettorali, sempre finanziate in deficit, come i 500 euro ai diciottenni per andare al cinema. E, con l’occasione, cancellare la modesta riduzione dell’Ires promessa alle imprese».

Nonostante la guerra, si avvicinano le Amministrative. A Roma, tra Marchini e Meloni, chi sceglierebbe? E per Milano, opterebbe per Sallusti o magari per lo stesso Salvini?
«La Meloni e Marchini sono entrambi ottimi candidati. Entrambi sarebbero in grado di far uscire Roma dal disastro in cui l’ha condotta il Pd. A Milano la candidatura Sallusti è una opportunità eccellente. Quanto a Salvini, che pure sarebbe un candidato di lusso, mi pare lui stesso l’abbia escluso, preferendo fare il capolista».

Per «riunire tutto il centrodestra», come lei dice di voler fare, non sarebbe più logico seguire il «modello Lombardia» proposto dal governatore Maroni, con Ncd come alleato?
«Ma io sono d’accordo e anche Salvini lo è. Solo che lui dice “tutti tranne Alfano”».

Se il Pd dovesse perdere le Amministrative, chiederebbe le dimissioni del governo e il voto anticipato o pensa che si dovrebbe proseguire fino al termine naturale della legislatura?
«Le elezioni si dovrebbero fare non per i risultati delle Amministrative, ma per ricostruire la democrazia. Sono quattro anni che l’Italia è retta da governi non scelti dai cittadini. Renzi governa con una maggioranza formata addirittura da eletti nel centrodestra che, sostenendolo, contraddicono il voto che li ha portati in Parlamento, e da deputati arrivati in Parlamento grazie a un premio di maggioranza che la stessa Corte costituzionale, costituita in larga maggioranza da giudici di sinistra, ha definito incostituzionale. La storia della Repubblica degli ultimi vent’anni è fatta di continui ribaltamenti della volontà popolare. Veri e propri colpi di Stato».

Costituirete i «comitati per il no» ai referendum sulle riforme costituzionali, che per un tratto avete sostenuto in Parlamento? E non temete che perdendo consegnereste alla sconfitta il nuovo progetto di centrodestra?
«Ma io sono certo che vinceremo al referendum. E per riuscirci, ci opporremo in tutti i modi ad una riforma ritagliata su misura per il Pd, che potrebbe consentire a chi abbia il consenso di un italiano su sei di sottomettere il Paese. Si pensi poi a cosa succederebbe se questo meccanismo, che Renzi ha creato per se stesso, portasse al governo Grillo. Non è un’ipotesi astratta, tutti i sondaggi dicono che al ballottaggio tra Pd e Cinque Stelle prevarrebbero i secondi. E sono sotto gli occhi di tutti i disastri che i grillini combinano nelle città che amministrano. La particolarità di tutti i loro parlamentari è che prima di essere eletti al Parlamento non hanno saputo far niente di buono neppure per sé e per la propria famiglia. Come potrebbero amministrare una città o addirittura il Paese? Perciò occorre un centrodestra forte, capace di dire “no” al referendum e di vincere alle Politiche, superando al primo turno sia il Pd che i Cinque Stelle».

E se invece il ballottaggio si risolvesse proprio come lei teme, e si trovassero contro Renzi e il candidato di Grillo, lei chi voterebbe?
«Temo che molti elettori di centro-destra, soprattutto gli elettori della Lega, potrebbero essere tentati di votare il candidato grillino, ma solo per rompere il sistema di potere del Pd. Io personalmente voterei scheda bianca così come faranno probabilmente molti elettori di Forza Italia. Ma questo è un vero e proprio scenario da incubo. Non permetteremo che si realizzi».

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2 dicembre 2015 (modifica il 2 dicembre 2015 | 12:20)

Da - http://www.corriere.it/politica/15_dicembre_01/berlusconi-pd-cinque-stelle-ballottaggio-voterei-scheda-bianca-62e944b4-987c-11e5-b53f-3b91fd579b33.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Tutti i fronti del governo
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 26, 2015, 11:10:43 pm
SETTEGIORNI
Tutti i fronti del governo
Dopo il caso Boschi, Renzi si prepara ad affrontare il peggio: l’avversario più insidioso non sarà il Parlamento, i veri rischi arrivano dall’Europa e dal fronte giudiziario

Di Francesco Verderami

Non è finita. E infatti il presidente del Consiglio si predispone al meglio per affrontare il peggio, conscio che l’avversario più insidioso non sarà il Parlamento, un mondo sempre più piccolo e sempre più antico.

Non era l’atto di sfiducia contro il ministro Boschi a preoccupare Renzi, semmai è la concentricità di problemi e di attacchi che rende l’affaire-banche un missile a più stadi puntato contro il governo. Il fronte politico oggi è il meno esposto, rispetto a quelli giudiziario finanziario ed europeo. Lo s’intuisce dalle parole pronunciate dal titolare dell’Economia davanti ad alcuni colleghi dell’esecutivo: «Non capisco come mai si sia scatenato il putiferio. Sulle banche ci siamo mossi in modo lineare». Queste considerazioni hanno portato autorevoli ministri democratici a domandarsi se «qualcosa si è rotto», se sono «saltati certi equilibri»: perché d’un tratto - come fosse un dejà vu - hanno notato venir meno il quadro di protezione internazionale, mentre si è fatta incalzante l’azione della magistratura.

Sebbene il premier ieri abbia voluto far sapere attraverso la Boschi e il sottosegretario Lotti che non si lascerà politicamente intimidire, non sarà facile muoversi su più fronti: lo sussurrano i dirigenti del Pd e lo dicono gli alleati di governo, colpiti dalla virulenta polemica di Renzi con la Merkel e dall’affondo contro il commissario europeo Hill sul decreto salva-banche. È quello il punto dolente, e c’è un motivo se tutte le forze di maggioranza s’interrogano sulla strategia del premier, a partire dalla mossa a sorpresa di voler affidare la gestione degli arbitrati al capo dell’Anticorruzione Cantone: «Non si capisce - dice il senatore Ncd Gentile - come si possano aggirare le regole che disciplinano il sistema bancario. A meno che Renzi non tema che le inchieste arrivino a coinvolgere anche i vertici di quel sistema».

L’intervento alla Camera del ministro per le Riforme, il piglio con cui ha replicato alle contestazioni dei grillini, ha consentito al governo di vincere la sfida dell’Aula, grazie anche all’errore di timing compiuto dai Cinquestelle, troppo precipitosi nel presentare la mozione di sfiducia: «Non è chiaro - ha commentato la leader di Fdi Meloni - se sono solo dei peracottari o sono in malafede». Ma un conto è una battaglia, altra cosa è la guerra. E ai banchi del governo non è sfuggito quel «per ora» pronunciato al termine del suo intervento dal grillino Di Battista. Un (altro) segno che non è finita, che sul fronte politico M5S proseguirà l’offensiva accompagnando gli sviluppi giudiziari, e ponendosi a capo di uno schieramento che da ieri annovera anche una «sinistra a Cinquestelle». Si vedrà se il centrodestra verrà attratto in questa orbita. Nei giorni scorsi ha colpito il modo in cui, contro Renzi, è stato adottato lo stesso vocabolario usato a suo tempo contro Berlusconi: «pericolo per la democrazia», «comitato d’affari», «conflitto d’interessi».

È vero che il leader di Forza Italia si è sfilato dal voto sulla mozione individuale contro la Boschi, ma è altrettanto vero che il centrodestra si prepara a presentare una mozione di sfiducia contro il governo al Senato, dove la maggioranza è così friabile da non garantire nemmeno il numero legale sulla riforma della Rai, e dove Verdini - l’alleato esterno del premier - è contrariato: «Non è pensabile che i nostri voti siano buoni di notte ma non di giorno». Se Berlusconi assecondasse l’offensiva leghista, rischierebbe però di frantumare ciò che resta del suo gruppo: «L’Italia vive una situazione scabrosa - avverte l’ex ministro Matteoli - e siccome non ci sono più personalità come Ciampi pronte a gestire le emergenze, ragioni di realpolitik dovrebbero indurci a riflettere prima di far precipitare il Paese nel nulla».

Non che non è finita, e come se non bastasse la commissione d’inchiesta sollecitata dai Cinquestelle, potrebbe trasformarsi in un boomerang per il premier che l’ha condivisa. Perché storicamente queste commissioni sono servite per lo più a regolare i conti politici, non a stabilire la verità dei fatti. E i grillini sono pronti a sfruttare l’occasione, chiamando magari a testimoniare i padri dei figli...

19 dicembre 2015 (modifica il 19 dicembre 2015 | 08:42)
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Da - http://www.corriere.it/politica/15_dicembre_19/tutti-fronti-governo-retroscena-verderami-212dac18-a623-11e5-b2d7-31f6f60f17ae.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI L’ira di Renzi per i tempi sul reato di clandestinità
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 09, 2016, 05:30:57 pm
SETTEGIORNI
L’ira di Renzi per i tempi sul reato di clandestinità

Di Francesco Verderami

Se c’è qualcosa di insopportabile per Matteo Renzi è che qualcuno tenti di strappargli di mano l’agenda politica, che per due anni ha gestito dettando temi e tempi. Il solo fatto che ora su quell’agenda altri tentino di scrivere o disegnare scarabocchi, fa capire quanto sia cruciale il momento.

La contesa sulle unioni civili, e la decisione del governo sul reato di immigrazione clandestina, sono nodi che il premier non aveva sciolto e che si materializzano alla vigilia del passaggio parlamentare per lui più importante: l’ultimo e decisivo responso del Senato sulle riforme costituzionali, su cui Renzi ha puntato l’intera posta. La sua attenzione era e resta concentrata su quella votazione, che può renderlo definitivamente dominus del Palazzo in vista del referendum popolare, e soprattutto dopo. Perciò il leader del Pd avrebbe bisogno di un quadro politico stabile in vista di quell’appuntamento.

Invece per la prima volta sembra aver perso di mano l’agenda, costretto a rincorrere gli eventi, a tamponare per evitare pericolose fibrillazioni. C’è un motivo quindi se sulle unioni civili si defila e mette al riparo l’esecutivo, derubricando la materia a questione di gruppi parlamentari, nemmeno di partito. Senza entrare in rotta di collisione con Alfano - suo alleato di governo - che ha ingaggiato la battaglia sulla stepchild adoption. E non è un caso se il premier e il ministro dell’Interno si sono ritrovati ieri sulle stesse posizioni dovendo decidere cosa fare del reato di immigrazione clandestina, tema anche questo che stava fuori dalle priorità di Palazzo Chigi.

Ragioni di «opportunità politica» (ed elettorale) inducono Renzi a fare in modo che il reato non venga depenalizzato, anche se il Guardasigilli - che ha in mano il provvedimento - ha un’opinione diversa e teme di essere attaccato come ministro inadempiente, a fronte del mandato a legiferare che aveva ricevuto dal Parlamento. Già nello scorso novembre, però, nel braccio di ferro che sul tema si era creato in Consiglio tra Orlando e il titolare del Viminale, il premier aveva preso le posizioni di Alfano: «È meglio se stralciamo l’argomento».

E siccome la decisione - dopo il passaggio alle Camere - spetta all’esecutivo, Renzi ieri ha di fatto ribadito quel concetto, per quanto «logica vorrebbe che si scegliesse di depenalizzare il reato» in sanzione amministrativa, come ha riconosciuto anche il ministro dell’Interno. Ma alla luce dei fatti di Colonia e del clima che si respira nel Paese non è il momento. Nel Pd a trazione renziana, a sera avevano ancora i capelli dritti pensando alle piazze infuocate dalla Lega in vista delle Amministrative: «Se non si può più stralciare la materia dalla delega, si farà decadere la delega».

È evidente che l’approccio di «sinistra» su unioni civili e immigrazione ha innalzato la tensione nella maggioranza. Per Alfano - che lo ha scritto di recente su Repubblica - la cosa «non è per nulla casuale», e la sua tesi non ha preso di certo alla sprovvista la maggioranza democrat e Palazzo Chigi, sebbene si cerchi di sopire e troncare qualsiasi forma di polemica. Per quanto irritato, il premier ha un obiettivo primario oggi: evitare che l’agenda gli sia scarabocchiata da quanti mirano a causare turbolenze alla vigilia del voto del Senato sul Senato.

Forse dopo quel passaggio recupererà l’ironia con cui gestiva ogni problema che prendeva corpo anche in Consiglio dei ministri. Una volta il premier «superò se stesso», come racconta un autorevole esponente di governo del Pd che ne aveva viste tante ma non fino a quel punto. Rendendosi conto della piega che stava prendendo la discussione, Renzi prese il suo cellulare, lo accostò al microfono del tavolo e fece partire una musichetta: «C’è troppa tensione nell’aria... Forza, vediamo chi la riconosce per primo. Di chi è questa canzone?».

Entro gennaio si terrà la madre di tutte le votazioni al Senato e il premier ha bisogno di stabilità. E in questo contesto non sarà un fatto secondario capire se il rinnovo delle presidenze di Commissione a Palazzo Madama avverrà prima o dopo l’ultimo responso sulle riforme. Dietro una apparente questione di poltrone si cela infatti un nodo politico: lo scrutinio segreto sulle presidenze svelerà se Verdini continuerà a offrire solo un «appoggio esterno» al governo oppure se cambierà ruolo, e il suo diventerà un «appoggio interno». Magari per garantire un margine di sicurezza per il voto decisivo sulle riforme.

9 gennaio 2016 (modifica il 9 gennaio 2016 | 08:17)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_09/ira-renzi-tempi-reato-clandestinita-80eb857a-b6a0-11e5-9dd6-8570df72b203.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Renzi "trasformista", Boschi "adatta alle forme", i ...
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 09, 2016, 05:44:06 pm
IL LIBRO E IL RETROSCENA

Renzi "trasformista", Boschi "adatta alle forme", i retroscena del Nazareno
In un libro di Massimo Parisi, deputato passato da FI con Verdini, tutti i report e i consigli a Berlusconi all’ombra del Nazareno


Di Francesco Verderami

«Ti consiglio di vedere Renzi a Roma, presso la sede del Pd, per una serie di motivi.
1) Sfatare un tabù: pensa al tuo ingresso al largo del Nazareno e al giro del mondo che faranno quelle immagini.
2) Questa trattativa, al di là della sostanza, che in questo caso è vita, ti riporta al centro della politica.
3) Pensa all’importanza di un incontro pubblico con il segretario del Pd, proprio nei mesi in cui volevano renderti “impresentabile” e trattarti da “pregiudicato” espulso dalla politica. Ora invece, ricevuto nella sede del Pd, saresti uno dei padri fondatori della Terza Repubblica».

Sono i suggerimenti di Denis Verdini a Silvio Berlusconi prima dell’incontro che il 18 gennaio del 2014 darà inizio al Patto del Nazareno, è uno delle migliaia di report con cui per anni l’ex coordinatore di Forza Italia ha offerto analisi e suggerimenti al «presidente». È attraverso questi promemoria che si snoda il resoconto di quasi due anni di storia politica nazionale, racchiusi in un libro che racconta del fallito accordo sulle riforme tra il capo del Pd e il fondatore del centrodestra, ma anche della crisi di un partito e di un leader artefici di un ventennio.

Il Patto del Nazareno (edito da Rubbettino), sarà pure una versione di parte, siccome a scriverlo è stato Massimo Parisi, giornalista e deputato che ha lasciato Forza Italia per seguire Verdini nel gruppo parlamentare di Ala. Ma l’uso dei documenti ufficiali e delle dichiarazioni pubbliche irrobustisce la trama che ruota attorno alla trascrizione dei famosi report di Verdini, il Virgilio della storia. E anche il suo artefice, se è vero che fu lui a contattare Renzi, di cui - scrive Parisi - non aveva «neanche il cellulare». Un modo per smentire che i due si conoscessero e per smontare l’idea di un patto alle spalle del capo. «Io sono come Bruno Contrada», disse il mediatore forzista al telefono con Gianni Letta, e l’accostamento all’ex capo della Mobile di Palermo gli servì per spiegare «il mio modus operandi»: «Per fare le trattative sto un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Ma non può per questo essere messo in dubbio da che parte sto».

All’inizio della storia Verdini descrive Renzi come «uno che, tolta la rottamazione, non si sa cosa sia. Fin qui è stato un perfetto trasformista. Ma ora dovrà aprire la scatola e verrà il difficile». In quella fase è il «presidente» a stravedere per Renzi e per frenarne la deriva «giovanilista», Verdini

dipinge così la segreteria del Pd: «Non è un mirabile cenacolo di Pico della Mirandola, ma un gruppo di segretarie e segretari». Nel promemoria c’è il «boy scout» Luca Lotti, il cui «profilo appare, non solo per età e inesperienza, oggettivamente modesto». C’è Debora Serracchiani, che «studia faziosità da Rosy Bindi». C’è Marianna Madia, «così giovane eppure con una lunga vita politica alle spalle», da aver «già girato tutte le correnti del Pd». C’è Federica Mogherini «la solita solfa gnè-gnè-pacifismo-femminismo-europeismo». C’è Maria Elena Boschi che «bella è certamente bella, a dire poco. Più adatta però al tema forme che al tema riforme». E c’è Lorenzo Guerini «forse l’unico davvero bravo. Lontano dallo stereotipo del trinariciuto».

Per Verdini arriverà «il momento della conversione» al renzismo, che Parisi storicizza nel report del 7 aprile 2014, quando il mediatore si accorgerà che il Patto è in pericolo e invierà a Berlusconi una lettera titolata «Il pericolo di non decidere»: «Diceva Jean-Paul Sartre - sì era un filosofo comunista ma anche loro l’azzeccano - che “ciò che non è assolutamente possibile è non scegliere”. Non scegliere, per il nostro movimento politico, potrebbe essere esiziale. Ora, se è vero che i messaggi di Renzi sono slogan, sono pur sempre efficaci. Somiglia a quel genio che nel 2001 propose un patto con gli italiani...».

Ma Berlusconi - a giudizio dell’autore - sta già cambiando verso. E a giugno il Patto muore «nella mente e nella pancia» del leader di Forza Italia, dopo il 41% di Renzi alle Europee. Se così stanno le cose, perché la trattativa si trascinerà fino agli inizi dell’anno seguente? In un report di novembre Verdini critica Berlusconi per «un certo grado di schizofrenia politica» nel rapporto con Ncd, «forse convinti dell’ennesima favola bella che faranno cadere il governo... e che contemporaneamente modificheranno la Severino e che... gli asini volano... non tutti ma quelli rosa sì!!».

È forse in ballo il tema della «agibilità politica» di Berlusconi? C’entra qualcosa il decreto per la riforma dei reati tributari redatta dal governo nel gennaio 2015, che - come ricorda Parisi - «avrebbe potuto cancellare la condanna a Berlusconi e restituirgli persino la candidabilità? All’autore di questo testo, pure addentro alle cose segrete del Patto, non è noto se questa norma facesse parte di qualche tipo di accordo sotterraneo. I protagonisti lo hanno sempre escluso. Nei report di Verdini non ne ho mai trovato cenno». Sarà, ma quel capitolo del libro si apre con una battuta che Parisi sente fare a Berlusconi «il 10 gennaio 2015»: «Tanto Renzi non ci darà un bel nulla».

Ufficialmente la rottura avviene dopo la corsa per il Quirinale. Al termine dell’ultimo colloquio tra Renzi e Berlusconi, Verdini scrive al premier un sms: «Matteo, ti capisco ma cerca di capire la situazione. 1) Tu non hai mai messo un veto su Amato. 2) Silvio lo ha sempre messo su Mattarella. Questi sono i fatti. Ps: oggi è messa in crisi la fiducia sempre riposta in te della quale ho sempre sostenuto la sincerità». È finita. E sta per finire anche la storia di Verdini con Berlusconi. L’ultimo report è del 27 marzo, che il mediatore invia anche a Gianni Letta e Fedele Confalonieri, come a esortarli di aver cura del vecchio leader.

«Caro presidente, dopo aver buttato via il patrimonio politico del Patto del Nazareno, intendi cestinare anche l’immenso patrimonio politico che hai costruito in venti anni? Pensi davvero di poter fare una guerra senza quartiere al “dittatore Renzi” (...) mettendo il futuro del partito in mano a un mediocre sinedrio? Ma sarebbe ingiusto prendersela con loro: quello che accade è quello che tu vuoi».

7 gennaio 2016 (modifica il 7 gennaio 2016 | 11:29)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_07/renzi-trasformista-boschi-adatta-forme-retroscena-nazareno-dd443d7a-b507-11e5-8efc-b58ffc8363b9.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Blitz di Renzi: pronti sei nomi per il governo
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 14, 2016, 06:12:51 pm
IL RETROSCENA

Blitz di Renzi: pronti sei nomi per il governo
Il completamento della squadra di governo non sarà una mera formalità, ma consentirà anche di capire come il premier avrà chiuso le vertenze con gli alleati di Ncd e con la minoranza del Pd, e come si appresta ad affrontare un stagione per lui decisiva, che culminerà con il referendum costituzionale

Di Francesco Verderami

Tutto in ventiquattro ore. Prima il voto finale del Senato sulle riforme, poi il Consiglio dei ministri in cui verrà annunciata la «ristrutturazione» dell’esecutivo. La definizione serve al premier per sfuggire all’uso del termine «rimpasto», parola mediaticamente infausta e politicamente impropria, visto che in effetti si tratta solo di posti vacanti da riempire. Il completamento della squadra di governo - le scelte che verranno compiute - non sarà una mera formalità, ma consentirà anche di capire come il premier avrà chiuso le vertenze con gli alleati di Ncd e con la minoranza del Pd, e come si appresta ad affrontare un stagione per lui decisiva, che culminerà con il referendum costituzionale.

Non è un caso che la «ristrutturazione» - prevista per il 21 gennaio - sia stata calendarizzata per il giorno seguente al responso di Palazzo Madama sulle riforme. Lo si intuisce dal modo in cui l’altra notte il sottosegretario Lotti, in un vorticoso giro di telefonate, spiegava ai suoi interlocutori che «è il momento di definire gli incarichi di governo e di chiudere questa storia. Perché poi dovremo impegnarci nella campagna referendaria». È chiaro che tutto ruota attorno al verdetto del Senato, dove serviranno 161 voti per il visto definitivo alle riforme. E il passaggio porterà alle scelte successive, nel governo come nel Pd, se è vero che Renzi - tenendo fermo il tandem dei suoi vice Guerini e Serracchiani - vuole procedere anche al «rimpasto» della segreteria democrat. La decisione era già stata assunta durante alcune riunioni di partito, dove era emersa la necessità di intervenire. E non solo per colmare dei vuoti.

Non è ancora chiaro chi entrerà in Consiglio dei ministri per Ncd: i più accreditati sono l’attuale vice di Orlando alla Giustizia, Costa, e l’ex sindaco di Milano Albertini, che dopo le dimissioni di Lupi garantirebbero a quel partito la «visibilità» persa al Nord. Si vedrà. Ma già il fatto che - undici mesi dopo l’addio dell’allora titolare alle Infrastrutture - Renzi abbia deciso di colmare quel vuoto, smentisce la tesi di un veto verso gli alleati. Con la «ristrutturazione» il premier toglie di mezzo ogni inciampo, consolidando il rapporto con Alfano. E il risarcimento nella squadra verrà completato dal ritorno del sottosegretario Gentile, che aveva lasciato l’incarico dopo il caso del giornale Calabria Ora nel quale era rimasto coinvolto il figlio, poi scagionato dalle accuse. Stabilizzare i gruppi di Area popolare era e resta un obiettivo del capo del governo per evitare fibrillazioni parlamentari al Senato.

Quanto al Pd, la lista delle nomination si è ristretta e nella griglia di appunti che Lotti provvede ad aggiornare con la matita risalta ora il nome di Nannicini, che da consigliere economico del premier si prepara ad essere «promosso» sottosegretario. Se così fosse, resterebbero ancora almeno quattro caselle vuote, una delle quali di peso: quella del vice ministro agli Esteri, lasciata vacante da Pistelli, e per la quale è in predicato un giovane della sinistra dem, Amendola. Resta da capire se sarà davvero così. Perché le scelte di Renzi daranno l’idea del rapporto che il leader democratico intende avere con la minoranza, specie con le componenti più dialoganti, saranno una traccia per seguire i cambiamenti della geografia interna, consentiranno di verificare fino a che punto si spingerà il coinvolgimento (anche) dell’area bersaniana. In questo senso aveva preso corpo l’ipotesi di un ingresso al governo di Errani, sebbene l’opzione in questi ultimi tempi sia caduta, a testimonianza di una frattura che si evidenzierà al congresso.

Tutto in ventiquattro ore: prima il test del Senato sulle riforme, poi la «ristrutturazione» dell’esecutivo. Ma qualche ora dopo un altro passaggio sarà politicamente interessante e avverrà a Palazzo Madama, con l’elezione dei presidenti di commissione: il voto - a scrutinio segreto - stabilirà se Verdini dall’«appoggio esterno» al governo passerà all’«appoggio interno», se cioè un rappresentante del gruppo Ala conquisterà uno di quegli scranni. Nelle «trattative» - raccontano autorevoli dirigenti democrat - Palazzo Chigi è stato al crocevia. Il nodo sono gli effetti che provocherebbe la scelta, in un senso o nell’altro, nel Pd e nel gruppo di Verdini. Renzi punta alla riduzione del danno.

14 gennaio 2016 (modifica il 14 gennaio 2016 | 08:39)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_14/blitz-renzi-pronti-sei-nomi-il-governo-7c00aa8e-ba8f-11e5-8d36-042d88d67a9f.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Le due strade del premier dopo il referendum
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 25, 2016, 11:34:16 pm
SETTEGIORNI
Le due strade del premier dopo il referendum

Di Francesco Verderami

Se è vero che il destino del governo è legato al risultato del referendum, è altrettanto vero che proprio il referendum decreterà la fine della sua missione. Perciò a ottobre, se sarà riuscito a traghettare l’Italia nella Terza Repubblica, Renzi dovrà decidere cosa fare: interrompere la navigazione o proseguire nella rotta.

Ecco la scelta che compete al premier, su questo ragionano i suoi alleati «interni» ed «esterni», dal capogruppo di Ncd Lupi al leader dei forzisti ammutinati Verdini: tutti proiettati sul prossimo futuro. È come se l’autunno fosse già alle porte, è un tema dirimente che impegna anche la minoranza democrat nelle riunioni riservate, è un argomento che ieri ha attraversato il dibattito alla direzione del Pd. Perché se davvero Renzi - doppiato lo scoglio del referendum - decidesse di spingersi fino alle colonne d’Ercole della legislatura, cambierebbe la natura del suo esecutivo. E l’alleanza con una costola del vecchio centrodestra, nata per varare le riforme, si trasformerebbe in una coalizione politica proiettata verso le elezioni.

Su questa analisi convergono le due estreme della maggioranza che fanno da corona al presidente del Consiglio, sebbene le loro reazioni siano contrapposte. Il cambio di ragione sociale del governo avrebbe infatti conseguenze traumatiche nel Pd e - sotto la spinta levatrice della campagna referendaria - legherebbe l’area postberlusconiana a Renzi. Nulla sarebbe più come prima: né la natura della maggioranza né la composizione del Consiglio dei ministri. E c’è un motivo se il premier non affronta la questione, e fa mostra di non vedere il bivio: deve ancora scegliere. Intanto si porta avanti, punta alla consultazione popolare d’autunno per poi regolare i conti nel partito.

In Italia e in Europa si allunga però la fila di quanti ritengono che in realtà abbia già deciso: dall’ex presidente della Camera Casini, secondo cui si andrà alle urne nella «primavera inoltrata» del 2017, al capogruppo del Ppe Weber (come dire Merkel), convinto che il segretario del Pd abbia alzato il tiro su Bruxelles per portare al voto anticipato Roma: «Solo così si spiega cosa sta facendo». È una tesi che ha fatto breccia sulle colonne del Wall Street Journal, è uno scenario che è stato reso immaginifico sul Foglio, con tanto di «grilletto e pallottola d’argento».

Ma le certezze di chi osserva le mosse di Renzi non trovano riscontro (per ora) negli atti di Renzi. Il fatto è che il premier si rende conto di come un cambio di sistema possa determinare effetti imprevedibili: nel ‘94, per esempio, nessuno nel Pds come nel Ppi immaginava che avrebbe vinto Berlusconi. È un ricordo ricorrente nei ragionamenti del leader democrat, che evocando il fondatore del centrodestra confida di emularlo: «Ci sarà il G7 in Italia», ha detto ieri, e probabilmente si terrà nella sua Firenze.

Ai vertici europei - tra il serio e il faceto - ripete spesso ai capi di stato e di governo che «io scadrò dopo di voi». Vuol dire quindi che pensa davvero di proseguire fino al 2018? La risposta si avrà in Europa, dove il braccio di ferro in atto cela il tentativo del premier di crearsi dei varchi, dei margini di manovra nei conti pubblici. Perché il suo sogno è trasformare la legge di Stabilità del 2017 in un manifesto elettorale per il 2018, dove poter dar corso alla riforma dell’Irpef promessa al Paese e aggiungerci un tocco (manco a dirlo) berlusconiano: così come il leader di Forza Italia - a sorpresa - promise il taglio dell’Ici prima che si aprissero le urne, Renzi vorrebbe annunciare l’abolizione del canone Rai, suo vecchio pallino.

Sono proiezioni molto in là nel tempo, ma è ora che il premier deve creare le condizioni per riuscire nell’impresa. Mentre alleati «interni» ed «esterni» - così come i suoi compagni di partito - attendono di capire cosa vorrà fare al bivio: se andare avanti, mettendo in conto un cambio della maggioranza o fermarsi e contemplare la fine anticipata della legislatura. Ma più delle modifiche costituzionali è la revisione del sistema di tassazione la riforma più attesa tra gli elettori. E Renzi dovrebbe spiegare i motivi dell’addio alla promessa.

Nel 1992, Bush senior perse la Casa bianca per mano di Clinton, dopo una campagna elettorale durante la quale i democratici proposero ossessivamente le immagini di quattro anni prima, in cui il candidato repubblicano giurava che non avrebbe messo le mani nelle loro tasche: «Leggete le mie labbra, nessuna nuova tassa». Nel centrodestra hanno già pronti gli spot con l’annuncio di Renzi all’Assemblea del Pd nel luglio dello scorso anno: «... E nel 2018 cambieremo l’Irpef». Le scorciatoie possono rivelarsi pericolose nei cambi di sistema.

23 gennaio 2016 (modifica il 23 gennaio 2016 | 09:36)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_gennaio_23/due-strade-premier-il-referendum-161e9780-c1ab-11e5-b5ee-f9f31615caf8.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Caso Guidi, le mosse del premier per evitare il ...
Inserito da: Arlecchino - Aprile 02, 2016, 12:31:42 pm
Settegiorni

Caso Guidi, le mosse del premier per evitare il rischio contraccolpo
Rilancio tra azione di governo e referendum di ottobre. Nessun timore sul caso trivelle

Di Francesco Verderami

Se c’è un pericolo per il premier è l’omologazione, l’idea cioè che possa essere considerato dall’opinione pubblica simile ai suoi predecessori. Un presidente del Consiglio come tanti altri, insomma. Ecco il rischio a cui Renzi vuole sfuggire, consapevole di come la novità sia un processo che il tempo inevitabilmente tende a levigare e che gli inciampi della politica finiscono per appannare. Perciò ha indotto il titolare dello Sviluppo economico alle immediate dimissioni, nonostante l’iniziale smarrimento di chi non si aspettava di dover affrontare una tale emergenza.

La rapidità della mossa gli è servita per attutire il colpo, che è stato comunque avvertito ed è stato causa di una forte arrabbiatura. Perché è parso subito chiaro al leader del Pd che gli avversari — fuori e dentro il suo stesso partito — avrebbero coinvolto nel «caso Guidi» anche la Boschi, intrecciando l’affaire Banca Etruria al ruolo istituzionale avuto dal titolare per i Rapporti con il Parlamento sull’emendamento incriminato, e servendo così al Paese l’immagine di un impasto esiziale per chi due anni fa ha promesso discontinuità. Per Renzi non c’era (e non c’è) tempo per cercare indizi su un complotto giudiziario ai suoi danni, sebbene il sospetto alberghi nella sua testa. Così come non era (e non è) tra le sue priorità il referendum sulle trivelle, se è vero che ieri autorevoli esponenti del governo erano pronti a scommettere sulla percentuale dei votanti alla consultazione del 17 aprile: «Nonostante tutto, non supererà il 25%». Non è un problema per il premier nemmeno la mozione di sfiducia. Anzi, l’offensiva delle opposizioni è considerata un’opportunità da sfruttare in Parlamento.

La manovra del grillino Di Maio, a cui si è accodato il capo della Lega Salvini, ha aperto infatti una crepa nell’area di centrodestra. Perché a fronte della pubblica adesione del capogruppo forzista alla Camera Brunetta, è stato notato il silenzio del suo collega al Senato. E Romani non sarebbe convinto dell’approccio: la sua tesi è che in questo modo si rafforzerebbe il governo. Opinione condivisa da altri esponenti del partito e rappresentata a Berlusconi. L’obiettivo dei Cinque Stelle è far risaltare che il governo verrebbe «salvato» in Parlamento da Verdini, ammaccando ancor di più l’immagine di Renzi. Ma c’è un motivo se il leader di Forza Italia ha invitato i suoi interlocutori a «parlarne con Brunetta». Il punto è che l’ex premier si trova a un bivio: non vorrebbe rompere ciò che resta della vecchia coalizione, ma non intende nemmeno accodarsi alle manovre grilline, conscio che solo loro ne trarrebbero giovamento. Nel giorno delle dimissioni della Guidi è passato in secondo piano una sua frase, riportata dall’Agi: «In futuro — ha detto evocando lo strappo per il Campidoglio — non avrei alcun timore di andare divisi alle elezioni politiche».

Berlusconi deve decidere se essere irrilevante nel campo delle forze populiste oppure essere determinante nel campo delle forze governative (non del governo). È uno scenario che fa da sfondo al gioco sulla mozione di sfiducia e che potrebbe avvantaggiare Renzi. Ma rimane pur sempre un gioco di Palazzo. Nel Paese è tutta un’altra storia. La sindrome dell’omologazione il premier la scorge nei sondaggi, dove — rispetto al passato — il suo personale indice di fiducia è oggi valutato di pochi punti superiore rispetto ai valori del suo governo. La riduzione di quella forbice rappresenta un segnale, rivela che l’opinione pubblica si è ormai assuefatta alle dosi massicce di «ottimismo» iniettate da Renzi, e che non fanno più presa le citazioni sugli «80 euro, il Jobs act, la riforma della scuola».

Già lo storytelling è da rivedere, se il leader del Pd vuole raggiungere l’obiettivo a cui continua a credere: «Noi alle Politiche prenderemo il 40%». Ma il rischio sulla strada, più della classica buccia di banana, è rappresentato dalla quotidianità. E Renzi non vuole offrire del suo gabinetto l’immagine di un governo del tran-tran, che combatte con i decimali dell’Istat e della Commissione europea. Metterà mano al dicastero dello Sviluppo economico, dove potrebbe tornare De Vincenti, liberando un ruolo a palazzo Chigi in attesa di definire la posizione di Carrai. Il nodo politico è però un altro: trovare la leva per il rilancio. Il premier — malgrado metta in conto un risultato negativo alle Amministrative — è convinto che la chiave di volta sarà il referendum sulla riforma costituzionale. Così metterebbe a tacere quanti, nel suo stesso partito, pensano ciò che il governatore pugliese Emiliano dice: «Non c’è bisogno di opporsi a Renzi. Andrà a sbattere da solo».

1 aprile 2016 (modifica il 1 aprile 2016 | 23:26)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_aprile_01/caso-guidi-mosse-premier-evitare-rischio-contraccolpo-02d18a4a-f84f-11e5-b848-7bd2f7c41e07.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il nuovo ministro dello Sviluppo dopo Guidi: la strettoia...
Inserito da: Arlecchino - Maggio 08, 2016, 11:22:09 am
IL RETROSCENA

Il nuovo ministro dello Sviluppo dopo Guidi: la strettoia del premier «Mi serve uno che sia all’altezza»
Alla fine Renzi si è convinto che neppure De Vincenti può essere spostato


Di Francesco Verderami

Quando era al governo, Berlusconi impiegò centocinquantuno giorni per sostituire Scajola con Romani al ministero per lo Sviluppo economico. Impossibile battere quel record. Ma il fatto che a più di un mese dalle dimissioni della Guidi non sia stato ancora scelto un sostituto, evidenzia per Renzi un problema di penuria di classe dirigente. Perché non c’è dubbio che se il premier avesse individuato una soluzione l’avrebbe già indicata al capo dello Stato. E dunque le discussioni sul profilo tecnico o politico nel metro di selezione del candidato, la volontà di mantenere un equilibrio tra generi nel governo, e il conseguente balletto mediatico sul nome della nomina, sono l’effetto non la causa dell’impasse. Il garbuglio è un altro, emerge da una battuta pronunciata da Renzi al termine dell’ennesima fumata nera: «Mi serve uno che sia all’altezza».

Il problema
Così il premier ha fatto mostra di essere consapevole del suo problema: quello di non avere personale a sufficienza, soprattutto nel Pd. È una sorta di crisi di vocazione o una mancanza di talenti. Di sicuro è un fatto senza precedenti per un partito erede della tradizione comunista, che ha sempre tradizionalmente espresso personalità nel campo delle relazioni industriali e sindacali: perché quello del lavoro — nelle sue varie espressioni — è stato per decenni il core business della sinistra. Da quando la Guidi ha lasciato lo Sviluppo economico, a palazzo Chigi ogni settimana si è chiusa con la promessa di risolvere la pratica per la settimana successiva. Sebbene la settimana scorsa il premier abbia ammesso che «siamo ancora in alto mare», e questa settimana abbia dovuto depennare (quasi) tutti i nomi della lista. Errani, Bellanova, De Micheli, Testa: ogni soluzione ha la sua controindicazione, per ragioni politiche, per lo standing inadeguato, per i rischi di insorgenti conflitto d’interessi...

I nomi
Renzi si è dovuto convincere che anche De Vincenti, il più accreditato, non poteva essere trasferito. Intanto perché il sottosegretario vuole rimanere alla presidenza del Consiglio, eppoi perché lo stesso premier si è reso conto che — dopo aver già spostato Delrio alle Infrastrutture — trovare per quel ruolo un terzo sostituto dopo due anni di governo non sarebbe opportuno. Né sarebbe possibile richiamare oggi Calenda dalla missione diplomatica, visto che è appena partito per Bruxelles.

Gli incastri
Proprio questo gioco di incastri, dove girano sempre i soliti nomi, è rivelatore della penuria di classe dirigente. Ed è un segnale preoccupante per chi — inseguendo il blairismo e puntando sul ricambio generazionale — si ritrova sguarnito di uomini e donne con cui dar seguito alla svolta. È come se dietro la rottamazione non ci fosse (quasi) nulla. Perciò è indicativo il modo in cui, qualche sera fa, Renzi si è rivolto ad alcuni rappresentanti del suo gruppo dirigente. La tensione legata all’offensiva giudiziaria e all’offuscamento d’immagine del Pd era altissima nella stanza, quando il premier si è sfogato: «...E non riusciamo a far passare il messaggio che stiamo facendo le riforme».

I dem
Il fatto è che nel Pd si avverte un certo scollamento, se è vero che un esponente di lungo corso come il governatore del Lazio, ha deciso di centellinare la partecipazione alla campagna elettorale per le Amministrative. «Mi sono arrivati centinaia di inviti», ha raccontato ad un compagno Zingaretti: «Ma di questi candidati ne conosco pochissimi. E allora ho deciso di andare solo da quelli che puntano alla riconferma. Per sicurezza». Per la sostituzione della Guidi la prossima settimana potrebbe essere quella buona. O forse bisognerà attendere ancora un’altra settimana, proprio a ridosso dell’assemblea di Confindustria, convocata per fine mese: si noterebbe se si aprisse in assenza del ministro. Dal dicastero lo hanno segnalato. Non passa sera senza che arrivino segnalazioni a palazzo Chigi: dall’accumulo di dossier, fino alle «sollecitazioni» del Parlamento, dove giacciono provvedimenti come quello sulla concorrenza, fermo alla commissione Industria del Senato.

Il record
I centocinquantuno giorni di interim di Berlusconi sono un record che Renzi non potrà mai battere. Ma nei cinque mesi di supplenza, il premier dell’epoca — muovendosi al limite dei conflitti d’interesse — si occupò di quel ministero dove Renzi non mette piede e non mette firme, al punto che anche le strutture tecniche sono ormai scadute, e c’è chi teme che la Corte dei Conti decida di intervenire. Serve chiudere il dossier, serve «uno all’altezza».

6 maggio 2016 (modifica il 7 maggio 2016 | 00:32)
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Da - http://www.corriere.it/politica/16_maggio_07/dopo-guidi-strettoia-premier-105d04e8-13cd-11e6-acb9-4814fe47e238.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI I volti della crisi
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 09, 2016, 04:42:55 pm
I volti della crisi
Crisi di governo, l’«Ora et manovra» di Franceschini: un uomo per tutte le stagioni e sempre con un alibi
Cosa pensasse di lui, Renzi l’aveva detto due anni fa al microfono in una direzione del Pd: «Scusate, nella ressa è sparito un cappotto. Dario si è già costruito un alibi di ferro»


Di Francesco Verderami

Cosa pensasse di lui, Renzi l’aveva detto due anni fa al microfono in una direzione del Pd: «Scusate, nella ressa è sparito un cappotto. Dario si è già costruito un alibi di ferro». Solo processi indiziari a carico dell’avvocato Franceschini, mai una prova che abbia consentito alle sue presunte vittime di incastrarlo. Che poi in politica non esistono i complotti, perché ogni vicenda è la risultanza di mosse azzeccate e sbagliate. E se Renzi si trova oggi in un cul de sac non è certo per colpa del ministro della Cultura. Ma siccome lo dipingono così, siccome per anni è riuscito a superare indenne le alterne fortune del centrosinistra, dell’Ulivo e del Pd, con l’avvento di Renzi aveva deciso di rifugiarsi nella splendida stanza del suo dicastero, circondato da un muro di libri e incurante del motto che gli avevano cucito addosso: «Ora et manovra». Adesso che la risultanza referendaria ha spinto il premier a dimettersi, vive come un’ingiustizia quel venticello, la tesi cioè che si sia messo in proprio — in combutta con Berlusconi — per spodestare Renzi: «Scusate non posso parlare, sono ad Arcore a chiudere l’accordo». Una battuta per sdrammatizzare una situazione drammatica per il Pd. Un modo per sottolineare che ad Arcore non c’è mai stato, lui...

Sia chiaro, nessun Candide o Forrest Gump potrebbe campare così a lungo nel Palazzo. L’arte manovriera e l’istinto di sopravvivenza sono capacità e caratteristiche di chi si è forgiato alla scuola democristiana dei coltelli. Ma se anche stavolta Franceschini dovrà difendersi dall’accusa di tramare, potrà sempre dire che un alibi ce l’ha. Perché proprio lui, prima del voto, aveva consigliato Renzi a non compiere il passo che invece ha compiuto: «Matteo, non lasciare Palazzo Chigi. Se resti, potrai continuare comunque a controllare anche il partito. Se lasci, non avrai la forza nemmeno per controllare il partito». Un suggerimento che il premier, sospettoso di natura, deve aver vissuto come una trappola e che in queste ore è invece diventata la linea del Piave per chi ha subito la Caporetto delle urne. Le ombre sono dappertutto e per Renzi l’ombra più insidiosa ha il profilo di Franceschini, specie dopo che il ministro si è opposto all’idea del premier di andare precipitosamente al voto: «Questo sarebbe un suicidio e io non intendo suicidarmi». Essendo azionista nel partito e nei gruppi parlamentari, ha pesato le parole facendo capire quanto pesavano.

Più nel Pd cresce la voglia di sbarazzarsi di Renzi, più Franceschini dice di «seguire la linea di Renzi». Non c’è bisogno dello spargimento di sangue. Perché l’adozione del Consultellum alla Camera e al Senato, aprirebbe una lunga stagione di larghe intese dopo le elezioni. E il premier del futuro governissimo sarebbe il frutto di una mediazione tra partiti, non il leader di uno dei partiti. Da scrittore ha scritto pagine dense di colpi di scena, da politico i colpi di scena li ha vissuti e talvolta subiti. La sintesi sta in una vignetta di Vincino che desidererebbe avere e che il Corriere pubblicò diciassette anni fa: ritrae una furibonda mischia rugbistica dalla quale esce indenne Mattarella che, ovale in mano, s’invola verso la meta. Il giorno prima Franceschini — già vestito per salire al Colle a giurare da ministro della Difesa del secondo governo D’Alema — era rimasto incastrato nella mischia. Dovette attendere. Seppe attendere. Bisogna saper attendere.

8 dicembre 2016 (modifica il 9 dicembre 2016 | 00:59)
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Da - http://www.corriere.it/la-crisi-di-governo//notizie/ora-et-manovra-franceschini-uomo-tutte-stagioni-d7c39c00-bd8b-11e6-bfdb-603b8f716051.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il piano Berlusconi per le rivincite: «La riabilitazione ...
Inserito da: Arlecchino - Marzo 23, 2017, 11:12:42 am
SETTEGIORNI

Il piano Berlusconi per le rivincite: «La riabilitazione vale 5 punti»
Il sistema elettorale sarà decisivo. Per ora la prospettiva del listone con Salvini è esclusa


  Di Francesco Verderami

Non è stato il voto su Minzolini che l’ha indotto a queste riflessioni. Semmai il modo in cui è stata respinta la decadenza del parlamentare azzurro ha fortificato i suoi convincimenti, che vanno oltre l’umiliazione subita nel 2013, quando la stessa Aula, con gli stessi senatori, lo espulse dal Palazzo: «Ora è chiaro che la legge Severino fu un’arma usata dal Pd per far fuori l’avversario politico». Un’arma che il Cavaliere ritiene ora di poter sfruttare a proprio vantaggio, per ribadire che «c’è un problema democratico da risolvere e che riguarda la possibilità di un leader di poter rappresentare nelle urne i propri elettori».

Obiettivo al 20 per cento
Berlusconi sa di avere un formidabile vettore mediatico. E lo userà per convincere un pezzo di opinione pubblica che il suo progetto può davvero concretizzarsi. Al tempo stesso è consapevole che difficilmente riuscirà a realizzare quel disegno fino in fondo. Intanto la Corte di Strasburgo, se sentenziasse a suo favore, gli restituirebbe l’onore politico, ma non inciderebbe sulla possibilità di ricandidarsi. Semmai sarebbe l’allungamento della legislatura a poter offrirgli la chance. Come ha scritto Magri sulla Stampa, se le elezioni si svolgessero nel maggio del 2018 - evento possibile secondo le norme costituzionali - Berlusconi avrebbe il tempo per presentare al Tribunale di sorveglianza la domanda di riabilitazione. E in base alla legge Severino, se la richiesta venisse accolta, potrebbe partecipare alla sfida.
È uno scenario (quasi) irrealizzabile, ma evocativo. Perché - non potesse candidarsi - il Cavaliere si presenterebbe al Paese come una «vittima del sistema», per ottenere quei voti necessari a garantirsi la centralità nel Palazzo nella prossima legislatura. «L’importante è superare il 20%»: ecco l’obiettivo di Berlusconi, convintosi peraltro che restare fuori dalle Camere potrebbe essere ininfluente. In fondo Renzi, Grillo e Salvini in questa legislatura hanno avuto ruoli da protagonisti senza essere parlamentari.

I rapporti con Salvini
Perciò - raccontano autorevoli fonti - «il dottore si sta acconciando a fare il Grillo», a gestire il suo marchio come fa il capo del Movimento: alle elezioni del 2013 era lui il frontman di candidati a quei tempi senza volto e senza nome. Ed è così che il Cavaliere sta selezionando le «novità», sfidando i dirigenti forzista e la loro ilarità quando parla dell’«albero della libertà»: «Il tempo delle ideologie è finito. E senza quella spinta, solo puntando sugli interessi singoli e collettivi degli elettori possiamo sperare di riportarli a votare». Berlusconi si vede al bivio del sistema: potrebbe essere decisivo per la vittoria della sua coalizione o potrebbe incidere sulla scelta del premier di un governo di larghe intese. In attesa della legge elettorale, scarta (per ora) la prospettiva del listone con Salvini, con il quale non vuol prendere nemmeno un caffè. E il leader della Lega contraccambia, attaccandolo persino sul Milan: «Da tifoso sono imbarazzato per la telenovela sul closing. Maglia e dignità hanno un valore che non so dove siano finite».

Gli accordi
È una «telenovela» anche l’accordo nel centrodestra, con Berlusconi che per sgambettare Salvini lancia Zaia come candidato premier, e Salvini che per sgambettare Berlusconi (e Maroni) fa circolare il nome della Gelmini come possibile candidata al Pirellone. Ma persino nel Pd c’è chi scommette infine su un’intesa tra i due. Anche perché il Cavaliere, per mettere le briglie al capo del Carroccio, ricorda ai leghisti che «l’anno prossimo ci sono le regionali in Lombardia». E intanto cerca di raccogliere al suo progetto (quasi) tutti. A Rotondi e Cesa, incontrati riservatamente, ha chiesto di prendere in lista «i transfughi centristi». Dinnanzi alla riottosità del segretario dell’Udc, ha aggiunto: «Ho sentito Casini e mi ha detto che sapeva del nostro incontro» ... Strasburgo, provincia di Arcore.

18 marzo 2017 (modifica il 18 marzo 2017 | 08:39)
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Da - http://www.corriere.it/politica/17_marzo_18/piano-berlusconi-le-rivincite-la-riabilitazione-vale-5-punti-a74124fc-0bac-11e7-a9ee-e937d2fc7af8.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Boschi: mi sento sola
Inserito da: Arlecchino - Maggio 16, 2017, 02:07:43 pm

LO SCENARIO

Banca Etruria, Boschi agli amici: «Mi sento sola e isolata, ma non mi dimetto: non sono colpevole»
L’indagine sulle banche voluta dal leader PD potrebbe trasformarsi in un palcoscenico dove Renzi potrebbe essere rimesso sul banco degli imputati.
Boschi: mi sento sola

Di Francesco Verderami

Se davvero Renzi cerca l’incidente per andare al voto anticipato, il caso Boschi non è quello più indicato. E se cercava la rivincita con la commissione d’inchiesta sulle banche, le coincidenze finiscono per renderlo vittima della nemesi. È chiaro il motivo che aveva spinto Renzi, dopo il crac Etruria, a voler fare chiarezza sugli istituti di credito italiani. L’allora presidente del Consiglio riteneva (e ritiene ancora) di avere valide ragioni, «visto che su di me e sul mio governo sono stati scaricati problemi nati molti anni prima, sul finire dello scorso decennio, quando le banche andarono fuori dai parametri senza che le autorità intervenissero». Perciò aveva insistito sulla commissione d’inchiesta, anche dopo l’addio a Palazzo Chigi, resistendo ai suggerimenti di un pezzo del suo partito e persino del Quirinale, che lo invitavano alla prudenza.

Non poteva immaginare quanto stava per accadere quel giorno di inizio mese, quando venne informato che la Conferenza dei capigruppo di Montecitorio aveva calendarizzato il voto in Aula sulla commissione per il 24 maggio. E siccome c’era fretta per insediarla, nessuno aveva presentato delle modifiche al testo varato dal Senato. Così fra due settimane la Camera darà via libera al progetto renziano, offrendo agli avversari del leader democrat un palcoscenico di cui si serviranno per rimetterlo politicamente sul banco degli imputati. È l’eterogenesi dei fini, è il passato che ritorna e intralcia il suo disegno di riscatto, costruito sulla pietra d’angolo delle primarie.

Nell’immaginario collettivo le banche sono destinate a rappresentare il tallone d’achille di Renzi, come per Berlusconi lo erano le televisioni. Anche perché la sua immagine si sovrappone all’immagine della Boschi, di nuovo sotto i riflettori per la storia della banca e di suo padre. Ieri la sottosegretaria si è presentata in Consiglio dei ministri ostentando sicurezza, dilungandosi sui decreti legislativi da vagliare. Ma quella maschera celava la disperazione di chi ha confidato agli amici più intimi di sentirsi «sola e isolata», «spinta ancora in questa storia per ragioni che mi sfuggono», epperò decisa a non cedere siccome «le dimissioni sarebbero un’ammissione di colpevolezza. E io non sono colpevole».

Anche Renzi è contrario a un suo passo indietro, non tanto per evitare ripercussioni sull’attuale governo quanto per scongiurare un effetto negativo sul giudizio dei suoi mille giorni a palazzo Chigi. Ma l’interessamento a Banca Etruria di Delrio — a quei tempi sottosegretario alla Presidenza — alimenta i sospetti, che pure l’ex vice ministro Zanetti considera «frutto di una visione distorta della politica»: «È normale per un parlamentare occuparsi dei problemi del territorio. Se c’è una banca in difficoltà, non è sbagliato interessarsene, se non si fanno pressioni. Il punto è che la Boschi ha detto in Parlamento di non essersene occupata. Solo Ghizzoni potrebbe dire la parola definitiva».

Ma non lo fa. E il silenzio dell’ex ad di Unicredit fa alzare la voce agli avversari di Renzi. Così l’idea di far passare la nottata non regge con l’approssimarsi del voto sulla commissione d’inchiesta. Il Pd è pronto a chiederne la presidenza, il forzista Brunetta è pronto a chiedere «l’audizione del governatore Visco, perché è chiaro che si partirà dai casi più recenti». Chissà se al leader democrat sono tornati in mente certi suggerimenti, anche del Colle: i timori che la commissione potesse diventare un predellino per la campagna elettorale, il rischio che il suo uso strumentale finisse per minare la politica in un quadro peraltro di fragilità del sistema creditizio italiano.

Una sorta di Armageddon, insomma, una roba da crisi di sistema. «Un suicidio involontario», dice il centrista Cicchitto, che scorge in queste pulsioni certe similitudini con la fine della Prima Repubblica, nel tentativo di restituire l’onore al proprio partito e a se stessi: «Magari andremo a rompere le scatole pure a chi da Francoforte sta salvando l’Italia...». E ci sarà un motivo se Berlusconi — nonostante abbia dei conti da regolare con la storia — pare preoccupato a tenere quel vaso di Pandora quantomeno socchiuso.

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12 maggio 2017 | 23:24

Da - http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/17_maggio_13/commissione-inchiestache-puo-diventare-boomerang-91f49ff8-3757-11e7-91e3-ae024e503e5d.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Gentiloni «leale» col Pd, ma se il voto è anticipato, la ...
Inserito da: Arlecchino - Giugno 05, 2017, 11:39:56 am

IL PREMIER E LA RIFORMA

Gentiloni «leale» col Pd, ma se il voto è anticipato, la sua scelta è settembre
L’alternativa è il 2018, «per non restare in mezzo al guado». Il presidente del Consiglio sorride ai suoi interlocutori: osservo quanto accade con atteggiamento zen

Di Francesco Verderami

Non si chieda a Gentiloni di opporsi a Renzi, ma non gli si chieda nemmeno di essere d’accordo fino in fondo con Renzi: sarà «leale verso il mio partito», cioè verso il segretario, e spiega che farà «quanto mi verrà richiesto». Insomma, è pronto a staccarsi la spina, se la legge elettorale verrà approvata in tempo per andare alle urne in settembre. Ecco l’unica condizione che pone il premier: a settembre o l’anno prossimo, «si voti subito o a scadenza naturale», per scongiurare un pericoloso accavallamento dell’agenda politica nazionale con le scadenze che impegnano l’Italia in Europa. «Bisogna evitare che il sistema resti in mezzo al guado», secondo Gentiloni. Posizione non proprio simile a quella di Renzi, che giorni addietro — nelle consultazioni con i partiti sulla legge elettorale — si era spinto fino a ottobre inoltrato con il calendario delle urne. E davanti alle preoccupazioni dei suoi interlocutori aveva messo persino in conto un’eventuale procedura di infrazione da parte di Bruxelles pur di chiudere presto la legislatura e avere entro l’anno un governo legittimato dal voto, capace di trattare a muso duro con l’Unione.

La fretta

Se il presidente del Consiglio ripete che farà «quanto mi verrà richiesto», la richiesta può già trovarla nella legge elettorale, nella definizione territoriale dei collegi che è stata direttamente inserita nella riforma, al contrario di quanto accadde con il Mattarellum e con l’Italicum. Allora il compito toccò al Viminale. Ed è vero che anche stavolta è stata assegnata la delega al governo, ma stavolta è previsto che — in caso di voto anticipato — vengano adottati i criteri stabiliti dalla nuova legge. Smontare e rimontare l’assetto dei collegi non è facile: ai tempi del Mattarellum furono necessari tre mesi, per l’Italicum ne servirono quattro. Per il «tedesco» sembra sia bastata la consulenza dell’Ufficio studi della Camera e alcune riunioni notturne tra esponenti del Pd e di Forza Italia. È la prova regina della fretta, la dimostrazione che si contano i giorni. Ma non c’è modo di interpretare cosa si celi dietro il sorriso enigmatico con cui Gentiloni si offre agli interlocutori: «Osservo quanto accade con atteggiamento zen». Mentre Renzi torna a chiamarlo con il doppio cognome più il titolo nobiliare e gli azzera in direzione quanti facevano riferimento a lui. Mentre nel gruppo dirigente — persino nella stretta cerchia del capo — c’è chi si adegua alla linea con il timore che non sia quella giusta. Mentre nei gruppi parlamentari c’è la ressa per conquistare un posto nei listini del proporzionale, tutti consapevoli che un posto nei collegi con il «tedesco» — per com’è congegnato — sarebbe una lotteria, e che l’elettore con la sua croce sulla scheda metterebbe in moto processi imperscrutabili.

Il patto del G4

Sia chiaro, il premier non è alla ricerca di una sponda, non può né vuole ostacolare la linea del partito, cioè di Renzi. Perciò non accenna mai al plauso ricevuto in questo periodo dai partner europei e tantomeno si attarda sui sondaggi: la scorsa settimana, secondo il report di Ixè per la trasmissione Agorà, il suo indice di fiducia è cresciuto di un punto (34%), mentre il segretario è sceso di un punto (30%), superato persino dal governo (31%). Il tempo che rimane a Gentiloni è il tempo che si daranno i partiti sulla riforma del sistema di voto. Il futuro si vedrà. Ma se la legge elettorale è lo specchio dell’anima delle forze politiche, allora bisognerà vedere se reggerà — e in che modo — il patto del G4: tra Pd, Forza Italia, Lega e M5S, i Cinquestelle paiono al momento l’anello debole. Perché Grillo è intervenuto per normalizzare i suoi, ma il dissenso alla riforma dell’ala movimentista si alimenta del dissenso della rete e trae linfa dai media di riferimento. Dal Fatto Quotidiano, per esempio, che ieri titolava: «Gratti il tedesco ed esce l’Italicum. Capilista bloccati e multi-candidature pro casta».

Sovrapposizione delle immagini

L’immagine di Grillo che si sovrappone a quella di Renzi e Berlusconi sarebbe un disastro per M5S, che per anni ha denunciato il «Parlamento dei nominati». E infatti a sera i grillini dicevano che sulla legge elettorale «ancora non ci siamo». Quando e se «ci saranno», in tempo per andare al voto l’ultima settimana di settembre, Gentiloni dimostrerà la sua lealtà al partito, cioè a Renzi. Intanto si prepara a mettere in sicurezza le riforme che sono a metà del guado alle Camere, a partire dal ddl sulla Concorrenza, come gli ha chiesto Mattarella.

3 giugno 2017 | 00:02
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/politica/17_giugno_02/gentiloni-leale-col-pd-ma-se-voto-anticipato-sua-scelta-settembre-8f17b1f4-47d7-11e7-b4db-9e2de60af523.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI La terapia illusoria dei magistrati che entrano in politica
Inserito da: Arlecchino - Giugno 05, 2017, 11:44:06 am
PARTITI

La terapia illusoria dei magistrati che entrano in politica
Questa commistione che ormai fa solo confusione non è più un problema di subalternità del potere politico, ma una forma inconscia di deresponsabilizzazione

  Di Francesco Verderami

Nel ‘94 ci provò Silvio Berlusconi con Antonio Di Pietro, nel ‘96 ci riuscì Romano Prodi sempre con Di Pietro, e ancora tre anni fa Matteo Renzi si presentò al Quirinale con una lista di ministri in cui c’era Nicola Gratteri come Guardasigilli. L’uso politico del magistrato è un rito antico, si rinnova dai tempi di Tangentopoli: per i leader della Seconda Repubblica farsi affiancare da una toga è stata finora una forma di garanzia offerta alla pubblica opinione, la rappresentazione di una rottura rispetto al passato e alle sue pratiche. È allora singolare che i grillini — interpreti del nuovo — perpetuino una vecchia e frusta cerimonia: offrire posti di governo a esponenti della magistratura non è un segno di diversità ma un gesto di continuità. Questa commistione che ormai fa solo confusione non è più un problema di subalternità del potere politico, ma una forma inconscia di deresponsabilizzazione: non si chiedono voti per governare la cosa pubblica cercando una patria potestà per gestirla. Ha ragione quindi Piercamillo Davigo quando teorizza (e pratica) la separazione delle carriere tra politici e magistrati, al contrario di quanto teorizza (e sembra voler praticare) il suo collega Antonino Di Matteo. Peraltro, con questo approccio alla questione, l’ex pm di Mani pulite contribuisce a rompere una crosta di ipocrisia, l’idea cioè che la presenza delle toghe assicuri pulizia nel Palazzo. Anche perché il tasso di magistrati nelle istituzioni è oggi elevatissimo: sono dappertutto.

Ci sono magistrati che scrivono leggi nei ministeri e magistrati che disfano leggi fuori dai ministeri, ci sono magistrati tra le cariche istituzionali e magistrati che indossano la fascia tricolore da sindaco nelle stesse città dove — fino al giorno prima — avevano vestito i panni del procuratore. Una volta le toghe in politica erano un’eccezione, e anche se oggi sono diventate una regola i problemi del Paese sono rimasti gli stessi: il debito pubblico, la disoccupazione e pure la corruzione. Serve un programma per risolverli, non farsi accompagnare da papà.

1 giugno 2017 (modifica il 1 giugno 2017 | 20:41)
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Da -  http://www.corriere.it/opinioni/17_giugno_02/terapia-illusoria-magistrati-che-entrano-politica-1f28f9ae-46f9-11e7-b9f8-52348dc803b5.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Trattative (e nervosismi) sul «tedesco» Berlusconi: ...
Inserito da: Arlecchino - Giugno 05, 2017, 11:50:14 am
IL RETROSCENA

Trattative (e nervosismi) sul «tedesco» Berlusconi: le urne? Responsabilità vostra
La data del voto tra 24 settembre e 22 ottobre. E Renzi non esclude la procedura d’infrazione

  Di Francesco Verderami

Lui si impegna sulla legge elettorale ma è l’altro che deve vedersela per il voto anticipato. Lui è Berlusconi, l’altro ovviamente è Renzi. E lui sulla data in cui si andrà alle urne non ha offerto garanzie all’altro, nel senso che «saranno loro a doversene assumere la responsabilità». «Loro», cioè il Pd. Sia chiaro, il patto tra i due c’è e sembra anche saldo, ma sull’appuntamento con le urne — che nel calendario del leader democrat oscilla tra il 24 settembre e il 22 ottobre — il Cavaliere può tutt’al più assecondare le mosse dell’interlocutore.

Nessun conflitto con Mattarella
Ma fino al portone del Quirinale. Oltre non intende andare, e non solo perché non vuole entrare in conflitto con Mattarella ma perché l’affaire non è nelle sue disponibilità: guida una forza di opposizione. Le procedure per chiudere anticipatamente la legislatura sono delicate, specie se sul Colle si avverte una certa refrattarietà all’argomento, perciò Berlusconi manovra con «cautela», che è anche la parola d’ordine trasmessa al suo partito. Già la storia della legge elettorale sta creando nervosismo in Forza Italia: dal modello di scheda con cui si andrà a votare alla definizione dei collegi, ogni dettaglio è visto come una potenziale trappola.

Le rassicurazioni del Pd
E non bastano le rassicurazioni del Pd, le promesse sul futuro governo di larghe intese, i «sei ministri nostri» di cui parlavano alcuni azzurri ieri in Transatlantico. Meglio approfondire per non ritrovarsi a dover correre ai ripari, perché all’ultimo momento si capisce che la soglia di sbarramento al 5% favorisce Pd e M5S a discapito di Forza Italia nella spartizione degli scranni lasciati vacanti da chi non ha superato il quorum. E dato che quella partita è ormai persa, meglio vigilare sul resto, per non permettere che — oltre al vantaggio già acquisito — i due partiti avversari ne aggiungano anche un altro: perché se la ripartizione proporzionale dei seggi avvenisse non attraverso un collegio unico nazionale ma in base a piccoli collegi circoscrizionali, Renzi e Grillo avrebbero un ulteriore «boost» di posti in Parlamento.

Niente tecnicismi
E ci rimetterebbe (ancora) Berlusconi. Per quanto i tecnicismi lo facciano letteralmente assopire, il Cavaliere ha inteso di doversi ridestare, per evitare la stangata, memore com’è della profezia sentita da Verdini: «Silvio, stai attento». E infatti Verdini non sa se il patto reggerà fino in fondo: «Speriamo...», dice. Perché più l’accordo si avvicina alla chiusura più si avvertono inevitabili scricchiolii. Accade sempre quando c’è di mezzo la legge elettorale, ma c’è un motivo se ieri — come racconta l’Agi — incontrando alcuni sindaci a villa Gernetto, Berlusconi è tornato alla trattativa sul capo dello Stato che mandò a monte il primo Nazareno: «Mi salutai con Renzi alle 20 con l’accordo su Amato al Quirinale e la mattina dopo seppi che proponevano Mattarella».

La cautela prima di tutto
Non andò così, e Gianni Letta non spiegherà mai in pubblico quali furono gli «errori» commessi da Berlusconi in quell’occasione. Ma la citazione del Cavaliere dà l’idea del momento: «Perché Renzi è tornato a essere un nostro interlocutore, ed è bravo. Anche se bisogna stare attenti a fidarsi». Appunto. E siccome la lingua batte sempre lì, la «cautela» è diventata precetto: sulla data del voto se la sbrighi il «bravo» con il Colle. Per quanto ieri M5S e Lega, evocando le urne per settembre, proprio al Colle hanno voluto inviare un messaggio. Renzi, al contrario, davanti alla direzione del Pd è parso quasi disinteressarsene: «Non abbiamo impazienza di andare al voto».

La legge di Stabilità
È stato talmente olimpico che la delegazione di un partito, ricevuta il giorno prima al Nazareno, si è domandata chi avesse davvero incontrato. Durante l’incontro era stato chiesto a Renzi come si sarebbero potute conciliare le urne subito dopo l’estate, con le scadenze parlamentari per l’approvazione del Def e della Nota di variazione, previste entro il 27 di settembre. E come si sarebbe potuto assolvere al compito europeo di trasmettere la legge di Stabilità a Bruxelles entro il 15 di ottobre, con un Parlamento appena insediato. «Io quelli li conosco», aveva attaccato il padrone di casa con vocabolario tranciante. La versione di Renzi è che l’Italia debba avere entro fine anno un nuovo esecutivo, capace di gestire la contrattazione con l’Europa, pronto a mettere in conto persino un’eventuale procedura d’infrazione. In attesa del nuovo governo, al vecchio spetterebbe inviare una bozza della legge di Stabilità, perché quella vera arriverebbe dopo. Perciò Berlusconi...

30 maggio 2017 | 23:27
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Da - http://roma.corriere.it/notizie/politica/17_maggio_30/trattative-nervosismi-tedesco-berlusconi-urne-responsabilita-vostra-3cd96146-457d-11e7-81bc-6e91411407c5.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Berlusconi: c’è un solo centrodestra, quello moderato e ...
Inserito da: Arlecchino - Luglio 13, 2017, 11:28:30 am
L’INTERVISTA

Berlusconi: c’è un solo centrodestra, quello moderato e liberale. Legge elettorale: ripartire dal sistema tedesco
Il leader di Forza Italia: rieccomi, guiderò la campagna elettorale. Nessun delfino, esistono solo in monarchia. Noi siamo il primo partito e forza trainante

Di Francesco Verderami

Presidente Berlusconi, lo sa che nel Pd la chiamano «Fanfani»? Il signor «rieccolo», come scrisse Montanelli del leader democristiano.
«Ricordo bene la battuta di Montanelli. Ma io non sono mai andato via. Comunque, “rieccomi”».

Il centro-destra ha vinto le Amministrative, ma in vista delle Politiche — in questo sistema multipolare — non si vede oggi un baricentro.
«Il baricentro lo decideranno gli elettori con il voto, finalmente. Per il momento, alle Amministrative hanno scelto noi. A dimostrazione che un centro-destra con una forte componente liberale, moderata, ancorata al Ppe, è in grado di esprimere idee e persone giuste per vincere, ma soprattutto per governare bene le città e la nazione. In questo centro-destra, Forza Italia — che si è confermata il primo partito della coalizione per voti e per numero di eletti — ha una funzione trainante. È la prova che il vento è tornato a spirare nella nostra direzione».

In realtà Genova è stata considerata il prototipo di una coalizione che proietta il centro-destra oltre Berlusconi. L’ha vissuta come una forma di ammutinamento o come un fatto fisiologico della politica?
«Io credo che gli elettori di Genova abbiano scelto, come avevo suggerito loro, un bravo sindaco, un manager prestato alla politica: Marco Bucci. Hanno dato un giudizio severo sulla sinistra, non sulle chiacchiere di Palazzo. E poi abbiamo ottenuto eccellenti risultati in molte regioni, dal Nord al Sud, grazie all’impegno dei nostri militanti e dirigenti: per tutti, vorrei citare una regione importante come la Lombardia, dove abbiamo vinto quasi ovunque, grazie anche al grande lavoro del nostro coordinatore Mariastella Gelmini. Ma tutti i nostri coordinatori regionali si sono impegnati con entusiasmo e passione».

Per marcare il suo primato nel centro-destra, ha annunciato la presentazione di un programma che starebbe scrivendo di suo pugno.
«Abbiamo preparato un bellissimo albero della libertà, rappresentazione grafica di un programma che sarà rivoluzionario: le radici sono i nostri valori cristiani e i nostri principi liberali, i rami rappresentano i diversi problemi del Paese e i frutti sono le nostre proposte per superarli e far ripartire l’Italia. Ne citerò due. La flat tax, l’imposta piatta uguale per tutti, famiglie e imprese, al livello più basso possibile con una quota esente per i primi 12.000 euro, in modo da assicurare la progressività. E poi il reddito di dignità: di fronte alle cifre drammatiche sulla povertà in Italia serve assicurare un reddito minimo, appunto dignitoso, nel quadro di una riforma complessiva del welfare. Proprio nei giorni scorsi uno dei più prestigiosi think tank italiani, l’Istituto Bruno Leoni, ha avanzato in questa materia proposte molto simili alle nostre. È un’altra conferma del fatto che siamo sulla strada giusta».

Pensa basterà per tenere uniti i due centro-destra apparsi negli ultimi tempi?
«Non mi ero accorto che ci fossero due centro-destra. Io ne conosco uno solo, quello che ho inventato 23 anni fa e con cui abbiamo vinto molte elezioni a tutti i livelli. Un centro-destra unito, plurale, vincente. Una coalizione basata sui valori dell’Occidente liberale, all’interno della quale uomini e idee della destra democratica hanno trovato spazio e ruolo. Quale sarebbe l’altro? Quello della signora Le Pen, che ha garantito la vittoria della sinistra in Francia?».

A proposito di Salvini, in campagna elettorale lei si è mostrato più comprensivo verso i guai di Renzi che conciliante con il leader della Lega: ha detto che se ci fosse un governo Salvini-Di Maio scapperebbe all’estero.
«La mia era ovviamente una battuta. Più che altro, a scappare sarebbero moltissimi elettori della Lega. Quanto a Renzi, dire che io sia stato comprensivo non è esatto. Semplicemente non uso verso gli avversari gli stessi metodi che sono stati usati verso di me, in particolare per quanto riguarda la persecuzione mediatico-giudiziaria».

Teme di non potersi ricandidare, visti i tempi della Corte di giustizia europea: se non le fosse possibile ripresentarsi, non sarebbe opportuno che — da fondatore del centro-destra — lanciasse un suo candidato?
«I delfini esistevano nelle monarchie, e non sempre riuscivano a salire sul trono. Per quanto mi riguarda, alle elezioni ci sarò comunque. Anche se la Corte di Strasburgo non desse il suo verdetto in tempo utile, sarò in campo a guidare la campagna elettorale. Certo, sarebbe una clamorosa ingiustizia per milioni di italiani che non potrebbero votare il loro leader».

Il sistema politico non ha un baricentro e nemmeno una legge elettorale. Fallito l’accordo sul proporzionale, sarebbe pronto a un’intesa su un sistema che garantisse il premio di maggioranza a una coalizione? E pensa che il Pd accetterebbe?
«Il premio di coalizione ha più senso del premio di lista, ma poiché il Pd non ne vuol sentir parlare, noi siamo fermi al sistema tedesco, sul quale tutti i maggiori partiti fino a 15 giorni fa erano d’accordo. Qualcuno deve spiegarmi cos’è cambiato e perché non si può ripartire da dove eravamo arrivati».

Ritiene che a questo punto si arriverà alla scadenza naturale della legislatura?
«Temo sia inevitabile, anche se preferirei che si votasse prima per tornare a dare finalmente la parola agli italiani».

L’Europa e i mercati ci guardano: nell’interesse del Paese sarebbe ragionevole andare al voto senza aver varato una legge di Stabilità?
«Il voto in democrazia non è una patologia, è il normale esercizio della sovranità popolare. Se la legge di Stabilità dovesse essere impostata da un governo e conclusa nel suo iter da un altro governo, non succederebbe nulla di traumatico. Però temo che ormai sia una discussione astratta».

Insiste con il proporzionale, ma lei non era l’uomo del bipolarismo?
«Il bipolarismo l’ho portato io in Italia, quando ce n’erano le condizioni. Ma oggi gli italiani hanno deciso di non essere bipolari, e quindi dobbiamo rispettare la loro volontà, e non cercare di forzarla. I sistemi elettorali servono per garantire le decisioni degli elettori, non per coartare la loro libertà, costringendoli a scelte che non vogliono fare. Sono uno strumento, non un valore in sé, e in momenti storici diversi servono sistemi diversi».

Questo momento storico lascia presagire che si andrà verso governi di larghe intese. Nella Prima Repubblica partiti con forti identità si coalizzavano per governare. E l’Italia divenne una potenza mondiale. Perché oggi si fatica a parlarne: è il Paese che non è più abituato o sono i politici che non hanno capacità di mediare?
«Anche allora ci furono coalizioni e coalizioni. Ci fu il centrismo, che realizzò il miracolo economico e trasformò un Paese devastato dalla guerra in una delle grandi potenze economiche mondiali. Ci fu il centro-sinistra, che fece cose importanti ma compromise la crescita per l’eccessiva dilatazione della spesa pubblica. Ci fu la disgraziata stagione del compromesso storico, e poi il pentapartito, che pur commettendo numerosi errori avviò una nuova modernizzazione del Paese. Le coalizioni funzionano se sono coerenti al loro interno, e comunque sono una decisione degli elettori».

Per rimanere in tema, qual è la sua opinione su Renzi: pensa che da rottamatore finirà per essere rottamato?
«Si possono attribuire a Renzi due tipi di errori: ha atteggiamenti mutevoli che anche noi abbiamo subìto. E poi non si è mostrato in grado, per quella sua cultura politica tipica della sinistra democristiana, di realizzare quella vera modernizzazione della sinistra che sarebbe molto utile all’Italia. Tuttavia non si può non riconoscere che sia dinamico e determinato».

Che effetto le ha fatto vedere Prodi tornare sulla scena?
«Mi ha incuriosito. Significa che essere stato umiliato per tre volte dai suoi non gli è bastato».

Nell’immaginario collettivo ha sostituito «i comunisti» con Grillo: ma se prende così tanti voti non sarà perché le forze della Seconda Repubblica hanno fallito?
«Verissimo: il successo dei grillini è il fallimento della politica. Io considero pericolosissimi i Cinquestelle ma ho massimo rispetto e comprensione per chi li vota. Questi elettori esprimono un disagio, una rabbia, una delusione verso la politica che non solo condivido, ma faccio mie. A quegli elettori noi abbiamo il dovere di proporre una diversa qualità dell’offerta politica, basata su persone oneste e credibili e su programmi concreti e realizzabili. Questo è l’unico modo per fermare un movimento come quello di Grillo, che se mai dovesse governare sarebbe la sciagura definitiva per il nostro Paese. Basti pensare alle politiche fiscali, basate sulla patrimoniale, su tasse altissime sulla casa e su tasse di successione al 50%».

Per quanto i dati macroeconomici segnalino un balzo del Pil, l’Italia deve fare i conti con la crisi di pezzi del sistema bancario. E i costi in parte ricadono sui cittadini.
«Sono molto preoccupato. Intanto sarei cauto a parlare di balzo del Pil, visto che cresciamo ad una velocità che è pari alla metà dei nostri partner europei: la crescita è troppo bassa per incidere sulla disoccupazione, che è un grande dramma sociale del nostro Paese. In realtà è la situazione complessiva dell’Italia che mi preoccupa molto, e che mi induce ad usare volutamente una parola forte come “rivoluzione”. Sono necessarie risposte terribilmente urgenti e concrete in ogni settore: l’economia non cresce, la disoccupazione aumenta, la perdita del benessere e quindi la povertà ci minacciano, l’immigrazione dilaga incontrollata, i cittadini non si sentono sicuri, e in più siamo tutti vittime dell’oppressione fiscale, burocratica e giudiziaria. Per uscire da questa situazione ci vuole dunque una vera e propria rivoluzione: quella grande rivoluzione liberale che è il vero obbiettivo finale del nostro agire».

Ritiene che il governo abbia fatto bene a varare il decreto per salvare gli istituti veneti?
«Bisognava intervenire prima e meglio, garantendo così un enorme risparmio ai contribuenti. Ritengo comunque sia giusto evitare una bancarotta che avrebbe effetti incalcolabili a catena, soprattutto sui piccoli risparmiatori. Non è la prima volta che il governo è costretto a intervenire per salvare delle banche dal fallimento. Mi sembra il minimo chiedere, di fronte a tanto esborso di denaro pubblico, che sia fatta chiarezza sulle responsabilità a tutti i livelli».

C’è poi l’emergenza immigrazione che...
«Su questo la situazione è assolutamente fuori controllo. Finalmente, forse, se n’è accorto anche il governo. Ma per il momento siamo solo alle intenzioni, anche se buone, mentre ondate di migranti si riversano sul nostro Paese. Un traffico indegno e insieme un dramma sociale per gli italiani. Eppure il problema non è irrisolvibile: quando eravamo al Governo, avevamo praticamente azzerato gli sbarchi. Questo grazie ai trattati che avevamo firmato con la Libia e gli altri Paesi del nord Africa».

Ma è tutto cambiato da allora, e la Libia di fatto non esiste più.
«Nel 2011, la politica irresponsabile di Sarkozy e Obama di sostegno alle cosiddette “primavere arabe” provocò l’apertura della diga. Il regime di Gheddafi venne abbattuto e la Libia piombò nel caos. Nel frattempo, in Italia, un vero e proprio colpo di Stato portò il mio governo alle dimissioni. Da allora, cominciò il disastro: oltre 700mila nuovi arrivi. Ora quella diga va chiusa, perché produce un dramma per gli italiani, e per gli stessi migranti che si illudono di venire a trovare il benessere e invece trovano solo miseria. Le soluzioni passano attraverso l’Europa. Ma non basta ridistribuire i rifugiati, bisogna stipulare con i Paesi della sponda sud del Mediterraneo dei trattati per bloccare gli scafisti prima della partenza, e degli accordi per far accettare il rimpatrio dei clandestini. Oltre l’emergenza, per fermare questo fenomeno epocale occorre poi un grande piano Marshall per lo sviluppo dell’Africa, sotto la bandiera delle Nazioni Unite, con la partecipazione dell’Europa, degli Stati Uniti, della Federazione Russa, della Cina. Un piano di cui l’Italia deve farsi promotrice».

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30 giugno 2017 (modifica il 30 giugno 2017 | 08:05)

Da - http://www.corriere.it/politica/17_giugno_30/c-solo-centrodestra-20ca10cc-5d0b-11e7-95ac-44c3014ce0fa.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Troppe incognite per Berlusconi, l’intesa non piace a ...
Inserito da: Arlecchino - Settembre 24, 2017, 12:09:01 pm
Troppe incognite per Berlusconi, l’intesa non piace a Gianni Letta
Ma i promotori della legge hanno studiato una procedura per evitare agguati in Aula.
L’ex sottosegretario è compiaciuto del fatto che il leader di Forza Italia e il segretario del Pd abbiano ripreso a dialogare direttamente

  Di Francesco Verderami

Non è colpa sua se lo dipingono così: sempre suadente e conciliante. Invece ci sono momenti in cui Gianni Letta si altera e si mostra intransigente. In questi giorni, per esempio, il consigliere di Berlusconi ha un dubbio per ogni capello sulla riforma elettorale, che a suo giudizio non va bene, non conviene. Il vocabolario non inganni: sentirgli dire che l’accordo «è un errore dettato da una visione miope della politica», è come sentirgli pronunciare una parolaccia. La parolaccia a Gianni Letta è scappata davanti al Cavaliere e a quanti hanno spinto per stringere l’intesa con Renzi sul Rosatellum. Certo, l’ex sottosegretario è compiaciuto del fatto che il leader di Forza Italia e il segretario del Pd abbiano ripreso a dialogare direttamente. Ed è convinto che nella prossima legislatura l’unica prospettiva possibile (e auspicabile) sia un governo di larghe intese. Ma ritiene che, al di là delle buone intenzioni, il modello elettorale scelto possa ostacolare il progetto. Infatti contesta il merito e la tempistica del patto.

Rischio di pagar dazio
Ancora all’ultima riunione Letta aveva invitato a lanciare lo sguardo oltre il contingente. È vero che il meccanismo di coalizione permetterebbe a Berlusconi di evitare la lista unica con Salvini, e magari consentirebbe di lucrare un po’ di seggi a danno dei grillini: «Ma la riforma ci getterebbe nelle braccia della Lega», per due ragioni. Per la difficile trattativa con il Carroccio che attenderebbe Forza Italia sulle candidature nei collegi maggioritari al Nord, e per il legame politico che comunque gli eletti forzisti di quei collegi contrarrebbero con l’alleato leghista. Era stato un modo elegante per spiegare che, dopo le elezioni, verrebbe complicato tagliare quel cordone e puntare sulla grande coalizione senza correre il rischio di pagar dazio. Come un altro rischio sarebbe consentire a Salvini — proprio grazie ai collegi maggioritari — di rafforzarsi nei numeri in Parlamento, al punto da poter immaginare un accordo con i Cinquestelle. In entrambi i casi verrebbe certificata la fine della leadership berlusconiana. Per tutelarla, Letta riteneva (e ritiene ancora) che gli azzurri debbano andare alle urne separati da Salvini. Anche con il Consultellum, se del caso. Che poi, non è detto non ci fosse tempo per trovare l’intesa su un modello migliore.

Un «Mattarellum» al contrario
Se il patto non conviene
Ed ecco l’obiezione sul timing avanzata dal braccio destro del Cavaliere, secondo il quale sarebbe stato meglio spostare la trattativa dopo le elezioni tedesche e dopo il voto in Sicilia: da un lato l’affermazione della Merkel (e la contestuale crisi dell’Spd), dall’altro la vittoria del centro-destra nell’Isola, avrebbero garantito una maggiore forza contrattuale a Berlusconi. E soprattutto avrebbero allungato i tempi della legislatura, magari fino a maggio, consentendo al Cavaliere di conoscere la sentenza della Corte di giustizia europea a cui è legato il suo destino politico. Insomma il patto non conviene, non va bene. E sebbene sia stato stipulato c’è da scommettere che Letta tornerà alla carica con Berlusconi, per correggere «un errore» causato da una carenza altrui di diottrie nell’analisi politica. Anche perché non è scontato che il patto regga, per via delle numerose variabili e delle tante incognite numeriche da tenere in conto. Il primo stress-test sul Rosatellum si avrà alla Camera. Gli agguati nelle votazioni a scrutinio segreto che affondarono a giugno il sistema «tedesco» sono più facili ora, perché la nuova maggioranza è aritmeticamente più fragile: ci sono i centristi al posto dei grillini.

«L’emendamento canguro»
Ma la volontà politica potrebbe sopperire alla debolezza numerica. Di questa volontà c’è traccia nel lavoro preparatorio dei gruppi che hanno stipulato il patto, e che — in vista della prova d’Aula — hanno studiato un escamotage con cui potrebbero depotenziare le armi degli avversari. La tecnica legislativa può essere a volte fantasiosa, consentendo di trovare delle soluzioni. E come al Senato «l’emendamento canguro» fece saltare l’ostruzionismo sulle riforme costituzionali, così alla Camera una «norma di principio» potrebbe rendere meno pericolose le imboscate sulla riforma elettorale. Forse.

22 settembre 2017 (modifica il 22 settembre 2017 | 23:55)
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Da - http://www.corriere.it/politica/17_settembre_23/troppe-incognite-berlusconi-letta-06d2403a-9fd8-11e7-b69e-b086f39fca24.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Il patto tra Renzi e Berlusconi per avere «mani libere» ...
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 09, 2017, 05:38:39 pm
SETTEGIORNI

Il patto tra Renzi e Berlusconi per avere «mani libere» dopo le urne
L’obiettivo di depotenziare M5S.
Le coalizioni-ologrammi pronte a dissolversi

  Di Francesco Verderami

«Si vince quando si ha un leader e un programma», diceva un tempo Berlusconi. Siccome oggi non può essere il leader in campo, ne può conciliare le sue posizioni europeiste con quelle sovraniste di Salvini, con il Rosatellum aggira i due problemi. Le coalizioni sono ologrammi: scompariranno dopo il voto. L’intesa con Renzi sulla legge elettorale fa perno sui dettagli tecnici della riforma ma anche su una comune tattica mediatica. C’è un motivo se il Cavaliere — al pari del leader democrat — ha mantenuto un profilo basso durante la trattativa, lasciando trapelare dubbi, esitazioni e persino ripensamenti: in questo modo non è stato commesso l’errore che a giugno provocò l’affondamento del «tedesco». Evitando di assumersi la paternità del Rosatellum, mostrandosi quasi trascinati al compromesso, entrambi hanno tenuto finora il patto quanto più possibile al riparo dalle (inevitabili) tensioni politiche.

Depotenziare i Cinquestelle
Ma il patto li soddisfa. Senza un premio di maggioranza per il rassemblement vincente e senza l’indicazione di un candidato premier tra partiti alleati, il nuovo sistema di voto lascia al capo di Forza Italia e al segretario del Pd le «mani libere» dopo le urne, quando tutti sanno che l’unico governo possibile sarà frutto di una maggioranza di larghe intese. Semmai ci saranno i numeri. Proprio per venire incontro a questa esigenza, il Rosatellum — grazie ad alcuni accorgimenti noti agli specialisti della materia — tra «assenza di scorporo» e «collegamenti con liste locali» dovrebbe favorire l’altro obiettivo che i due si sono dati: comprimere il tripolarismo, depotenziare cioè il risultato dei Cinquestelle.

Il cavaliere non sgancerà nemmeno un euro
L’interesse è reciproco, la strategia è chiara. Lo si intuisce dal linguaggio comune adoperato in questo anticipo di campagna elettorale contro «i populisti», e dalle parole ancor più esplicite usate dal coordinatore del Pd Guerini a Porta a Porta: «Una legge contro i grillini? Non è colpa nostra se non si coalizzano con nessuno». Appunto. E nell’attesa di verificare se il patto stavolta diventerà legge, il Cavaliere — al pari di Renzi — mette in fila le truppe, dividendole tra futuribili liste funzionali a ottimizzare il consenso. La sua idea di depositare il marchio «Rivoluzione Italia» non deve però trarre in inganno: da sempre il fondatore del centrodestra protegge i nomi testati. Non si sa mai. Intanto ha fatto avvisare tutti i potenziali alleati che bussano alla sua porta per un finanziamento: «Il dottore vuole attendere l’approvazione della riforma». Traduzione: fino ad allora non sgancerà nemmeno un euro. Dopo, chissà. Anche perché il Rosatellum gli avrà pure tolto di mezzo due problemi (quello della leadership della coalizione e quello del programma comune) ma non lo esimerà dalla sfida con Salvini per la lista che percentualmente avrà il primato nel centrodestra. Per vincere è probabile che vorrà fare il pieno con Forza Italia.

Coalizioni ologramma
Tutto era impossibile ottenerlo, e Berlusconi ritiene di aver raggiunto il miglior accordo possibile alle condizioni date. Come Renzi, che se ha deciso di aprire alle coalizioni non è perché sia stato folgorato sulla via del Rosatellum, ma perché indotto dall’accordo in Sicilia con Alfano, grazie al quale i centristi (e Mdp) dovranno superare una soglia abbordabile: il 3%. È la prova che le leggi elettorali non sono neutre, ma rispecchiano la fase politica del momento. Le coalizioni ologramma sono figlie di questo tempo: ognuno andrà a caccia di voti per il proprio partito, in una guerra tra «vicini di casa» che è già iniziata. Come testimonia il derby sovranista tra Meloni e Salvini sui referendum in Lombardia e Veneto.

«Si voterà il 4 marzo»
È vero che nell’immaginario collettivo il centrodestra è dato oggi in vantaggio su Pd e M5S, ma senza una maggioranza nei due rami del Parlamento le forze dell’alleanza non potranno formare da sole un governo. E analizzando i sondaggi del momento, emerge che i loro dati — disaggregati — sono inferiori alle percentuali dei democratici e dei grillini. Dopo le urne l’ologramma scomparirà. Resta ancora da capire se il Rosatellum supererà il test degli scrutini segreti alla Camera. E va interpretato il modo in cui ieri, alla riunione azzurra dei lombardi, il capogruppo del Senato Romani ha invitato i dirigenti locali ad appuntarsi una data: «Preparatevi. Si voterà il 4 marzo». Un tono assertivo, simile a quello del coordinatore di Ap Lupi, che trovandosi casualmente al Pirellone, ha fatto capolino alla riunione di Forza Italia con una battuta: «Siamo di nuovo insieme. Non vi avevano avvisati?». La certezza sulla data delle elezioni può venire solo dalla sicurezza che la riforma verrà approvata. E solo la fiducia può dare garanzie. La smentita alla Stampa, che l’altro giorno aveva rilanciato l’ipotesi, fa testo fino a un certo punto: c’è il precedente della fiducia sull’Italicum. E stavolta ci sarebbe anche il sostegno tecnico di due partiti dell’opposizione.

6 ottobre 2017 (modifica il 7 ottobre 2017 | 08:23)
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Da - http://www.corriere.it/politica/17_ottobre_07/patto-capi-dem-forza-italia-berlusconi-1a1f6d76-aad6-11e7-bf9b-eb2db464e457.shtml


Titolo: Francesco VERDERAMI Fissato il chiodo, Dario Franceschini si avventura in una...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 12, 2017, 12:38:37 pm
07 Novembre 2017

Di Francesco Verderami

Primo: «Non avrebbe senso intestare la sconfitta in Sicilia a Matteo Renzi».
Secondo: «Non avrebbe senso usare strumentalmente il risultato per fini interni».
Terzo: «Non avrebbe senso una resa dei conti nel Pd, che infatti non ci sarà».


Fissato il chiodo, Dario Franceschini si avventura in una scalata di nono grado con l’intento di raggiungere «in due settimane» la cima, cioè «un’alleanza tra le forze che stanno oggi nel campo del centrosinistra, da costruire in vista delle elezioni politiche».
Un’impresa al limite del possibile. E per riuscirci il ministro della Cultura si propone di seguire la via tracciata da Silvio Berlusconi per il centrodestra: «Talvolta a scuola si copia per essere promossi».
È il segno dei tempi. Ma c’è un «valido motivo» se, per parlare a Pierluigi Bersani e Giuliano Pisapia, Franceschini cita il Cavaliere. «L’onda populista che ha colpito l’Europa ha investito anche l’Italia. E il voto siciliano, che precede di qualche mese il voto nazionale, deve farci capire quale rischio stiamo facendo correre al Paese: consegnarlo alle forze antisistema. Ora, a fronte dei dati economici che ci descrivono in crescita, e a fronte della prospettiva di partecipare l’anno prossimo al processo di rilancio dell’Unione con un governo europeista, chiedo: davvero l’area di centrosinistra non ha interesse a reagire?».
 
Quel campo politico è un campo di battaglia.
 
«Lo so, le lacerazioni sono fresche e i rapporti complicati. Ma si può avere per una volta un approccio pragmatico? Il nuovo sistema di voto porta a costruire delle alleanze. Nei trecento collegi uninominali, dove vince chi prende un voto in più degli altri, questo campo non sarebbe competitivo se si presentasse diviso. Eppure questo campo esiste. Perciò rivolgo un appello a chi di questo campo è parte: per quanto sia attraversata da forti divisioni, è un’area che ha sostenuto i governi Letta, Renzi e Gentiloni, amministra insieme regioni e comuni».
 
E pensa possibile la nascita di una coalizione.
 
«Parlo di un’alleanza. Non mi rifaccio alle esperienze dell’Ulivo e dell’Unione. Non ci sono le condizioni né il tempo per riproporre simili modelli. Ma ognuno con il proprio simbolo e il proprio leader potrebbe collaborare alla costruzione dell’alleanza».
 
Quindi di Renzi non sarebbe più il candidato premier.
 
«Renzi è il leader del Pd. E lui per primo oggi dice che non si impone come candidato di una coalizione. D’altronde la nuova legge elettorale prevede solo il capo della lista. E allora perché accapigliarsi su un tema che non esiste? Guardiamo cosa ha fatto Berlusconi, che è sempre il più veloce ad adeguarsi ai cambiamenti. Il nuovo centrodestra si basa su un sistema di competizione interna. I partiti che ne fanno parte non avranno un candidato premier comune. I leader si mostrano litigiosi nella contesa del primato e continueranno a farlo: parlano a elettorati diversi, si sfidano tra loro. Ma questa sfida resta nel perimetro dell’alleanza. E alla fine i voti li sommano, non li sottraggono all’alleanza».
 
Ai «compagni» di Campo progressista e di Mdp propone di copiare Berlusconi.
 
Se fino a sei mesi fa siamo stati nello stesso partito, perché non potremmo stare nella stessa alleanza?

«Propongo di adattarci al nuovo sistema elettorale, come fa Berlusconi. E siccome il tema della premiership è superato, perché dovremmo continuare a dividerci inutilmente? Il Pd avrà come suo candidato il suo segretario, come dice il nostro statuto. Il campo di governo alla sinistra del Pd ne indicherà un altro, mantenendo la sua originalità. Stessa cosa potranno fare i centristi. In questo quadro di competizione, le forze potrebbero essere sommate e non si eliderebbero. Ritengo sia un’operazione doverosa: se fino a sei mesi fa siamo stati nello stesso partito, perché non potremmo stare nella stessa alleanza?».
 
Perché, più che uno spirito di collaborazione, prevale un reciproco desiderio di vendetta.
 
«E la vendetta sarebbe consegnare l’Italia a Grillo e Salvini? Conosco lo spirito che anima molte persone di buonsenso. So che ognuno avverte sulla propria pelle le ferite. E sia chiaro, io non sono equidistante, considero la scissione un errore. Ma invito tutti alla ragione, nel breve tempo che abbiamo a disposizione: sabato ci sarà l’Assemblea di Pisapia, poi la Direzione del Pd, infine l’Assemblea di Mdp. Il nodo va sciolto subito, sapendo che abbiamo nelle nostre mani il destino del Paese».
 
Se il dialogo inizia con il Pd che attacca Grasso… Che fa: non risponde? Silenzio dissenso.
 
«Esatto».
 
Possibile non ci sia spazio per l’autocritica nel Pd
 
«Non siamo riusciti a mettere a frutto i risultati positivi dell’azione dei nostri governi, che…».
 
…Ministro, mi riferivo a Renzi: lei rilancia una proposta che a luglio la portò a un duro scontro con il suo segretario.
 
«A me interessa la sostanza. Nei momenti in cui ho avuto opinioni differenti da Renzi non ho esitato a esprimerle. Se oggi faccio questo appello è perché credo sia necessario trovare un minimo comun denominatore tra centristi, Pd e sinistra di governo: insieme potremo essere competitivi, divisi saremo colpevoli. Da dirigente di partito, penso sia giusto all’occorrenza esprimersi in maniera diversa dal segretario. Ma poi il segretario va sostenuto».
 
Ricorda Forlani.
 
«Ricordo che la Dc le elezioni le vinceva».

http://www.areadem.info/adon.pl?act=doc&doc=35106


Titolo: Francesco VERDERAMI Decreto Dignità, Salvini costretto a esporsi.
Inserito da: Arlecchino - Luglio 29, 2018, 01:06:09 pm
Decreto Dignità, Salvini costretto a esporsi.
Le mosse di Giorgetti per ridurre il danno

Inizialmente il ministro dell’Interno aveva scelto la linea del basso profilo sul decreto. Ma il tentativo è fallito.
D'altronde i segnali dal territorio erano chiari

  Di Francesco Verderami

Inizialmente Salvini aveva scelto la linea del basso profilo sul decreto Dignità: un po’ per tener fede al patto di governo che prevede di non invadere le sfere d’influenza dell’alleato, un po’ per salvaguardare il rapporto con il mondo imprenditoriale che rischiava di incrinarsi. Ma il tentativo è fallito, e la protesta degli industriali veneti costringe il segretario della Lega ad esporsi per non veder compromessa la luna di miele con un pezzo importante di elettorato, soprattutto al Nord. D’altronde i segnali che provenivano dal territorio erano chiari: due settimane fa il governatore Zaia aveva riservatamente trasmesso a Roma le contestazioni che l’altro ieri sono state rese pubbliche. E non è detto che le modifiche al testo basteranno per placare il malcontento, così come potrebbero rivelarsi insufficienti le promesse di «iniziative volte ad agevolare le imprese» che lo stato maggiore del Carroccio ha rimandato alla prossima legge di Stabilità. Sebbene il sottosegretario all’Economia Bitonci giudichi «esagerate le critiche» degli industriali, le perplessità dei maggiorenti leghisti alle norme volute dai Cinque Stelle rimangono. Quando Di Maio lanciò il decreto, a Salvini fu chiaro che si trattava del tentativo grillino di rispondere politicamente allo strapotere mediatico conquistato dal titolare dell’Interno con l’immigrazione. I suoi ministri gli fecero peraltro notare che il provvedimento aveva «un’impronta cigiellina, visti i consulenti che hanno collaborato alla stesura».

La triangolazione
Così la patata bollente venne scaricata nelle mani del solito Giorgetti, che — oberato com’è di dossier — vive la sua esperienza a palazzo Chigi con un approccio sempre più millenarista: «Un giorno qui vale dieci anni». Da un mese e passa l’obiettivo della Lega è quello di ridurre il danno e di trasformare il «bandierone grillino in una bandierina». Ma attutire l’impatto del decreto non è facile, anche se il sottosegretario alla Presidenza sfrutta le sue competenze e conoscenze per arrotondare gli spigoli del decreto, contando sul fatto che all’Economia compete la vigilanza della parte economica, e che sul testo il coordinamento spetta al Dipartimento Affari Giuridici e Legislativi di palazzo Chigi, cuore pulsante del governo, casella che Conte non ha ancora riempito... Forte di queste triangolazione, Giorgetti ha trasmesso in questo periodo messaggi rassicuranti agli interlocutori: «Intanto ci sarà la mediazione nel governo e poi ci sarà il lavoro del Parlamento». Strappati i voucher per il turismo e l’agricoltura, come voleva il ministro Centinaio, si arriverà anche alla decontribuzione per i contratti a tempo indeterminato. Il punto è se si andrà oltre, perché sul decreto incombe la fiducia. Inizialmente Di Maio voleva evitarla per una questione d’immagine, ma più del filibustering dell’opposizione il governo teme un iter complicato e ha poco tempo per convertire il decreto in legge.

Il rischio di soffocare la ripresa
Se così fosse, la soluzione metterebbe la sordina alle perplessità che accomunano i ministri leghisti ai detrattori del provvedimento: la preoccupazione che le nuove norme sul lavoro possano soffocare la timida ripresa, il rischio che invece di garantire stabilità all’occupazione si favorisca l’aumento del lavoro nero, eppoi la prospettiva di un abbassamento dei livelli occupazionali contemplata nella relazione di accompagnamento al decreto. Perciò ieri Salvini è dovuto intervenire dopo le proteste degli industriali. Con quel suo «a fine percorso vedremo chi avrà avuto torto e chi ragione», pone una sorta di questione di fiducia rivolta agli imprenditori, è un modo per rilanciarsi come garante di un mondo che ripone altre aspettative. Il vero problema risiede nella differenze politiche tra M5S e Lega, amplificate in queste ore dalle nomine, e su cui la Meloni accende i riflettori: «Se al Tesoro il governo conferma Rivera, che scrisse il decreto salva-banche per Renzi, dov’è il cambiamento?». È vero che non c’è Consiglio dei ministri senza tensioni. Ai tempi del «caso Diciotti», per esempio, la nave fermata in mare con i migranti, Salvini fu perentorio: «Non deve attraccare». «È un’imbarcazione militare», replicò la responsabile della Difesa. «Non se ne parla», si sentì rispondere. Ma per ora lo scontro non è destinato a deflagrare, non sul decreto dignità. Poi, come dice Salvini, «verranno momenti difficili»: sulla Tav, sul Tap, sulla pedemontana veneta, sulla legge di Stabilità, dove la Lega vorrà dare risposta (anche) agli industriali.

25 luglio 2018 (modifica il 26 luglio 2018 | 14:41)
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