Alfredo RECANATESI.
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Il Governatore ha scoperto i salari
Alfredo Recanatesi
Con una dovizia di dati che solo la Banca d’Italia è in grado di produrre, il Governatore ha posto la questione salariale al centro dell’incapacità di crescere che l’economia italiana dimostra ormai da anni.
Non siamo certo tra coloro che se ne stupiscono: da tempo andiamo sostenendo che la crescita di questi ultimi due anni è solo un riflesso della ripresa dell’economia europea; un riflesso, per altro, opaco perché innescato dalla domanda estera e da questa rimasto dipendente, senza un adeguato sostegno della domanda interna che consenta di farvi affidamento una volta che il traino delle esportazioni per qualche motivo dovesse affievolirsi. Ma l’analisi del Governatore va oltre, e ci dice che in questi ultimi anni i redditi da lavoro (in termini di potere d’acquisto, s’intende) sono rimasti stazionari, e se i consumi hanno potuto ugualmente progredire è stato per due sostanziali fattori, entrambi contingenti: l’aumento delle rendite finanziarie (soprattutto le azioni), e l’aumento di valore degli immobili. Sono questi i fattori che hanno salvato l’economia italiana da un persistente ristagno. E, se questi sono i fattori trainanti, si può capire con quale grado di equità si è registrato il pur contenuto aumento dei consumi.
Insomma, un quadro che definire desolante è poco.
Porre l’entità dei salari al centro dei problemi di crescita della nostra economia è già un punto di arrivo; ce n’è voluto, ma ora che il Governatore vi ha posto il sigillo della Banca d’Italia sarà difficile per chiunque percorrere strade analitiche diverse. Ora si apre il dibattito sul come se ne può uscire. E a questo punto anche Draghi diventa generico mostrando fatica ad uscire da tesi che saranno pure fair secondo la cultura, il modo di pensare, ed anche gli interessi, dell’establishment al quale si riferisce, ma che ciò nondimeno rimangono assai poco convincenti. Prendersela con la politica è un po’ come sparare al canarino in gabbia. La politica, del resto, non è il consiglio di amministrazione di una impresa; deve provvedere ad una infinità di esigenze che rendono arduo per tutti contenere la spesaed indirizzarla maggiormente agli investimenti; non ultima l’esigenza di destinare risorse per contenere quelle distorsioni distributive che Draghi non cita esplicitamente, ma che emergono con chiarezza dalla analisi che lui fa di questa ultima decina d’anni.
L’istruzione? Certo che va riformata, ma, se c’è un problema di fuga dei cervelli e se tanti italiani si distinguono nel progresso scientifico e tecnologico in altre parti del mondo, forse è più urgente affrontare il problema del loro utilizzo in Patria. Si va in pensione troppo presto? È vero, ma è anche vero che il sistema produttivo non sembra offrire tante opportunità a chi ha superato i cinquant’anni.
Ogni capoverso del suo intervento meriterebbe chiose ed approfondimenti, ma ora, dopo una prima lettura, è più opportuno accennare al capoverso che non c’è: un capoverso, anche uno solo, sulle imprese. Quando si parla di salari, di produttività, di prodotto c’entreranno pur qualcosa. E invece nel suo intervento non sono neppure citate, come se la loro efficienza, le loro strategie, le loro capacità di iniziativa, fossero fattori estranei al tema «Consumo e crescita» sul quale ha tenuto la sua lectio magistralis all’Università di Torino.
Forse non è fair come prendersela con la politica, o con l’età pensionabile, o con la demografia, ma i dati che ha citato dicono ugualmente che la questione sta nella capacità di produrre reddito, e che questa dipende dalla produttività dei fattori della produzione, ossia il capitale e il lavoro. Sta, dunque, nelle imprese. E non è un caso che il problema della crescita e della stagnazione dei salari sia emerso grossomodo in seguito alla stabilizzazione del cambio e l’adozione dell’euro perché quella svolta avrebbe dovuto indurre il sistema produttivo al radicale cambio di passo dalla competitività di prezzo a quella sulla innovazione e sulla qualità; dalla piccola dimensione manovriera e flessibile ad una dimensione più consistente in grado di perseguire strategie di più ampio respiro; da produzioni a scarsa intensità di capitale ad altre con maggiori contenuti di specializzazione.
Occorre sempre ricordare che una parte delle imprese questa mutazione l’ha affrontata e spesso con successo, acquisendo il merito non solo di essersi messa in condizione di generare un valore aggiunto più elevato, premessa per un innalzamento del reddito pro capite, ma anche e soprattutto di dimostrare che il successo può anche essere conseguito nell’Italia che c’è senza aspettare quella che vorremmo; di dimostrare, anzi, che l’Italia che vorremmo sarebbe più a portata di mano se quelle imprese costituissero una parte più significativa dell’intero sistema.
Riferendosi all’intera economia, invece, Draghi ricorda che in corrispondenza dell’aumento dell’occupazione la produttività è diminuita, così certificando che la flessibilità è stata usata per ridurre i costi, per resistere un altro po’ alla concorrenza dei Paesi dell’Est, non per cogliere chissà quali nuove opportunità il mondo globalizzato può offrire. Che la chiave di tutto sia nella dinamica della produttività lo sappiamo tutti, ma sappiamo anche che non può crescere fino a quando a tanti laureati non viene offerto che un call-center, fino a quando tanti ricercatori rimangono precari e sottopagati nelle università, fino a quando un giovane che vuol farsi valere (e che ha una famiglia che se lo può permettere) va a lavorare in qualche altro Paese. Per poi, magari, vincere un Nobel.
Pubblicato il: 27.10.07
Modificato il: 27.10.07 alle ore 9.47
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Telecom, l’ultima partita
Alfredo Recanatesi
Si può ben capire come la borsa abbia accolto positivamente la nomina di Galateri e di Bernabè rispettivamente alla presidenza ed alla guida operativa della Telecom. Il titolo aveva cominciato ad apprezzarsi fin dalle prime voci dei giorni scorsi seguite ieri dalla conferma ufficiale. La grande azienda telefonica, infatti, trova finalmente un assetto credibile. Per la prima volta dopo la sua privatizzazione - la più disgraziata e contorta delle privatizzazioni - ha una proprietà con un nucleo sufficientemente forte.
Un nucleo del quale fa parte un grosso partner industriale come la compagnia telefonica spagnola, ed un management distinto da essa.
Quando lo Stato decise di cederla, la Telecom era un fior d’azienda all’avanguardia nelle tecnologie del tempo - la Tim era considerata un gioiello in tutto il mondo - con uno stato patrimoniale solido e la capacità di affrontare l’incalzante divenire che andava trasformando tutto il settore delle telecomunicazioni. Ciò nondimeno, l’offerta pubblica cadde in un vuoto imprenditoriale pressoché assoluto: per costituire un nucleo che rappresentasse una proprietà per il resto dispersa (il sogno utopistico era quello di una public company, ossia una azienda con una proprietà diffusa tra centinaia di migliaia di risparmiatori, e magari di risparmiatori-clienti) il privatizzatore del tempo, quel Mario Draghi oggi Governatore della Banca d’Italia, dovette penare non poco. Riuscì a fare sostanzialmente una colletta, mettendo insieme quello che poi sarebbe stato chiamato il «nocciolino» all’interno del quale la quota maggiore fu quella degli Agnelli i quali, evidentemente più per cortesia che per convinzione, sottoscrissero nientemeno che lo 0,6% del capitale. La Telecom fu comunque privatizzata perché lo Stato doveva far cassa per sistemare i suoi conti in vista della partecipazione all’unione monetaria europea, ma il suo assetto era quanto di più precario si potesse immaginare.
Ed infatti, fatta la cortesia, tutti pensarono ai propri affari, e non ci pensarono due volte quando Colaninno ed alcuni suoi facoltosi amici bresciani misero sul piatto un bel po’ di soldi per rilevare il controllo della Telecom. Colaninno è un bravo imprenditore (lo sta dimostrando in questi anni con la Piaggio) ma dovette fare molti debiti che poi trasferì in capo alla Telecom. Gli andò comunque bene perché poi, all’apice dell’infatuazione per la new-economy, trovò un Tronchetti Provera disposto a strapagargli il controllo della società telefonica. Ma per strapagarglielo, dovette fare altri debiti che aggiunse a quelli già caricati sulla schiena della Telecom. Tronchetti non solo ha caricato la società di ulteriori debiti, ma vi ha incamerato la Tim, ossia la gallina dalle uova d’oro del gruppo, e l’ha impoverita vendendone pezzi del patrimonio, a cominciare dagli immobili. Tronchetti, e le sue società della catena di controllo, si sono rifatti con le stock option, le plusvalenze sulle vendite e dividendi più lauti di quelli che una gestione più lungimirante della società avrebbe potuto consigliare.
Ma, dopo tutte queste vicende, si può facilmente capire che la Telecom non è più quella di una volta; anzi, è una delle non poche aziende italiane che hanno disperso il retaggio di un grande passato: oltre al peso dei debiti, oggi registra un ritardo negli investimenti, un prestigio logorato, un patrimonio tecnologico non certo all’avanguardia. Non sono cose da poco in un settore sotto il tiro di tecnologie sempre nuove - si pensi a Skype, tanto per dire di qualcosa che molti già conoscono ed usano - e quando è alle porte lo scorporo della rete telefonica che Telecom finora ha cercato di usare soprattutto per rendere la vita difficile ai concorrenti.
Ora - meglio tardi che mai - si volta pagina e comincia un capitolo nuovo. Con il nuovo assetto Telecom risolve in primo luogo la commistione tra proprietà e management mettendo fine al tempo dei "padroni" impegnati nell’anteporre il proprio interesse a quello della società. Con le scelte formalizzate ieri, inoltre, proprietà e management sono quanto di meglio oggi in Italia si può trovare. Anche se gli spagnoli sono gente che non manca mai di esercitare tutto il peso possibile, Galateri è indubbiamente una persona in grado di garantire, e disciplinare se dovesse occorrere, il ruolo degli azionisti di comando. Dal canto suo, Bernabè è persona che non deve certo dimostrare né le capacità manageriali (risanò l’Eni dopo i disastri della politica, della chimica e delle tangenti), né la conoscenza del settore (non solo perché fu capo azienda della stessa Telecom negli anni ormai lontani del «nocciolino», ma perché nelle telecomunicazioni è rimasto sia avendo avuto una parte nella fondazione di Andana, poi diventata la 3 ora controllata dai cinesi, sia con sue proprie aziende piccole, ma molto evolute), né deve dimostrare, infine, la conoscenza di questo mondo e di quanti in questo mondo contano.
La Telecom è un patrimonio di conoscenza, di professionalità, di capacità tecnologiche acciaccato e deperito, ma se c’è una possibilità di risanarlo e di rinverdirne i successi è quella che ieri è stata definita con la nomina dei nuovi vertici. Altre carte da giocare non ce ne sono e, probabilmente, non ce ne saranno se anche questa dovesse malauguratamente fallire.
Pubblicato il: 27.11.07
Modificato il: 27.11.07 alle ore 8.20
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Montezemolo spara nel mucchio
Alfredo Recanatesi
Sparare sullo Stato e sugli statali è facile come sparare sulla Croce Rossa. Però è più redditizio perché si vince sempre il consenso di chi ama farsi lisciare nel verso del pelo di uno dei più triti luoghi comuni. E tuttavia nella sostanza le bordate si risolvono sempre in una operazione a somma negativa. Per un verso, infatti, generiche e sparate nel mucchio come sono, non si vede cosa di buono possano generare.
Per altro verso, accrescono la desolazione e lo sconforto di quanti lavorano nella pubblica amministrazione con impegno, fornendo ad un tempo un alibi a quanti sono ben felici di avere argomenti per dimostrare alla propria coscienza che impegnarsi sarebbe del tutto inutile sia per se che per gli altri.
Non ha fatto eccezione il presidente della Confindustria. In un intervento all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università confindustriale, ieri ha dipinto la burocrazia pubblica solo ed esclusivamente come una palla al piede del Paese, la sentina di ogni inefficienza, una tara di miliardi di euro che l’economia è condannata a portarsi appresso nel suo sforzo di produrre ricchezza, progresso, benessere. A parte le enfasi, gli accenti e un evidente eccesso di manicheismo, in quanto ha detto la notizia non c’è: sappiamo tutti che l'efficienza di una larga parte delle amministrazioni pubbliche è uno dei problemi cruciali, ma dirlo duemila volte non rappresenta un passo avanti rispetto al dirlo solo mille volte.
Il passo avanti potrebbe compiersi solo se si cominciasse a parlare del perché le cose stanno così, anzi dei tanti perché fino ad individuare quello dal quale, a cascata, derivano tutti gli altri. Ma questo è scomodo e genera risentimenti ed inimicizie. Quindi ancora una volta Montezemolo si è limitato a sparare nel mucchio, non sulla organizzazione della amministrazione, ma sugli statali. L'assenteismo, sul quale ha incentrato il suo intervento con tanto di dati ad effetto, è un indicatore, non una causa. Un impiegato presente, ma che non fa niente o che, più spesso, è messo a svolgere inutili mansioni è fonte di improduttività ancora più onerosa di un impiegato assente, se non altro perché nella maggior parte dei casi le assenze - questo Montezemolo sembra ignorarlo - sono punite con una trattenuta sullo stipendio. Così come è fonte di improduttività quell'egualitarismo che non viene applicato solo sulle retribuzioni e persino, paradossalmente, sui premi di produttività, ma anche sugli scatti di carriera che, nelle classi impiegatizie più basse fino alla magistratura, sono determinati essenzialmente dalla anzianità di servizio. È responsabilità del dipendente se il tempo che passa è più importante dell’impegno sul lavoro o sugli indici di presenza?
Il merito, dice Montezemolo. Certo, il merito. Ma il merito implica selezione, la selezione postula la responsabilità di selezionare, e questa responsabilità, come tutte del resto, può essere attribuita solo insieme ad un incentivo che induca a conferirgli una valenza funzionale. E invece, sia la storia (i decenni del dopoguerra durante i quali il posto pubblico, ancorché sottopagato, era in primo luogo una forma assistenziale) sia la politica (gli anni della democrazia bloccata durante i quali le varie forme di quell’unica maggioranza che governò l’Italia non potevano permettersi di rischiare il consenso dei milioni di dipendenti pubblici) hanno determinato un ordinamento che, nello spirito ancor più che nella lettera, non solo non favorisce alcunché che sappia di meritocrazia, ma la avversa, addirittura emarginando chi ne tentasse una qualche applicazione. È un ordinamento il cui nocciolo duro resiste tuttora ai pur numerosi tentativi esperiti negli anni per riformarlo proprio perché nessuno di questi si è assunto la responsabilità di incentrare l’organizzazione funzionale delle amministrazioni pubbliche su una gerarchia di responsabilità, assumendosi al tempo stesso la responsabilità di valutarla e, quando ritenuto necessario, di intervenire per modificarla.
Come l’influenza non è colpa del termometro, così l'inefficienza delle amministrazioni pubbliche non è colpa degli assenteisti di Montezemolo o dei fannulloni di Ichino e della sua scuola. Prendersela con loro è una operazione qualunquista sia perché è generica coinvolgendo anche le amministrazioni che funzionano - ce ne sono, ce ne sono - sia perché istillano una sensazione di inutilità e di impotenza in quanti - e ce ne sono - si impegnano, ci credono, e vorrebbero poter essere orgogliosi di servire lo Stato.
Il Presidente della Confindustria dovrebbe essere parecchio impegnato nella analisi delle debolezze del nostro sistema produttivo e nella individuazione dei rimedi verso i quali sollecitare l’intero mondo imprenditoriale. Ma, semmai gli rimanesse del tempo, così come quando parla di industria ama, e giustamente, citare quelle che hanno maggiore successo tacendo regolarmente quelle che, invece, sono rimaste a vedersela con i cinesi o con i romeni, faccia altrettanto con le amministrazioni pubbliche, parlando di quelle che, malgrado tutto, sono efficienti per additarle, esplicitamente questa volta, a quelle che efficienti non sono. Quelle efficienti sono poche, lo sappiamo, ma sono poche anche le imprese che, anziché lamentarsi ed aspettare che altri si diano carico dei loro problemi, si sono impegnate per farsi valere nel mondo e ci riescono.
Pubblicato il: 05.12.07
Modificato il: 05.12.07 alle ore 8.08
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Spagna-Italia: ma il sorpasso non c’è stato
Alfredo Recanatesi
Uno dice che nel reddito pro capite la Spagna ci ha sorpassato e tutti dietro a stracciarsi le vesti, a spiegare i perché ed i percome, a pubblicare pagine di giornali sulla rutilante crescita dei nostri cugini iberici a fronte del nostro ineluttabile e triste declino. Nessuno che abbia fatto mente locale, che abbia preso un po’ di dati e verificato quanto si andava dicendo. Se lo avesse fatto si sarebbe reso facilmente conto che non è vero, che non c’è stato nessun sorpasso, che malgrado tutto - la minore quota di popolazione attiva, l’inefficienza della amministrazione, il debito pubblico, l’economia in nero e tutto il resto che sappiamo - il reddito pro capite italiano è ancora superiore, e neppure di poco, a quello spagnolo.
Intendiamoci, con questo non si vuol negare che, nel confronto con i Paesi economicamente più evoluti, la Spagna sia in ascesa e l’Italia in discesa; che, di conseguenza, gli spagnoli guardano al futuro con fiducia e speranza, mentre noi italiani lo temiamo e tendiamo a rinserrarci nel tentativo di rallentarne gli effetti. Insomma, abbiamo i nostri bravi problemi e ne abbiamo spesso parlato, ma questa non è una ragione per dipingere la realtà peggiore di quello che è. E la realtà è - secondo dati Eurostat che chiunque può facilmente controllare sul sito internet dell’Istituto europeo - che il reddito pro capite è risultato nel 2006 di 25100 euro in Italia e di 22300 euro in Spagna. Dite voi se si può sostenere (molti lo hanno fatto su giornali e telegiornali) che il secondo sia superiore al primo. Ad abundantiam, possiamo aggiungere che secondo dati del Fondo monetario (calcolati con metodi leggermente diversi) il pil pro-capite italiano è stato di 31791 dollari, quello spagnolo di 27767.
L’equivoco del sorpasso è nato sulla sbrigativa interpretazione di una statistica dell’Eurostat che ha calcolato la posizione di ogni Paese rispetto alla media dei 27 Paesi dell’Unione europea per gli anni 2004, 2005, 2006 in termini di Pil pro-capite corretto con il livello dei prezzi: come dire una statistica del potere d’acquisto per abitante nel proprio Paese. Secondo la teoria, una siffatta statistica dovrebbe essere maggiormente significativa del benessere materiale della popolazione, ma nella prassi subentrano tanti altri fattori che frenano una tale interpretazione: basti considerare le profonde differenze che si registrano nella distribuzione del reddito nei diversi Paesi per rendersi conto dell’azzardo che si correrebbe nel trarre da dati come questi classifiche sul benessere.
Comunque, in questa classifica la Spagna è andata avanti (101, 103, 105 nei tre anni considerati) mentre l’Italia è andata indietro (107, 105, 103). Che significa? Significa, certo, che l’economia italiana è cresciuta meno, e questo lo sapevamo. Ma significa soprattutto altre due cose. La prima è che in Spagna i prezzi sono più bassi, per cui gli euro nei quali il Pil pro capite è espresso valgono di più che in Italia. La seconda è che la media del pil pro capite della UE27 cresce più velocemente di quanto possono crescere i Pil pro capite dei Paesi più evoluti. La media, infatti, risente del maggiore ritmo di crescita che i Paesi di più recente integrazione (in sostanza i Paesi dell’est Europa) possono realizzare rispetto ai Paesi dell’Europa occidentale i quali, proprio a motivo del loro maggior grado di sviluppo, crescono a ritmi più moderati. La Spagna, che non è certo paragonabile ai Paesi dell’est, ma non è neppure (ancora) paragonabile a quelli del centro Europa, è in una posizione intermedia che concorre a consentirgli un progresso più rapido. La conseguenza è che la Spagna, in questa particolare ed anche un po’ bislacca classifica, guadagna posizioni, mentre l’Italia ne perde. Ma, a conferma di questa pur sommaria analisi, perdono posizioni anche Paesi ben più blasonati come la Germania (117, 115, 114 sempre nei tre anni), l’Inghilterra (122, 120, 118) e persino l’area euro nel suo complesso (111, 111, 110). In definitiva, in questa classifica l’Italia ha perso quattro punti come l’Inghilterra, tre ne ha persi la Germania ed uno l’intera area euro.
Concludendo: non c’è stato alcun sorpasso poiché il pil pro capite italiano è ancora del 12,6% più elevato di quello spagnolo; quello spagnolo, pur essendo minore, esprime un potere d’acquisto maggiore in quanto in Spagna il livello dei prezzi è più basso. C’è - e lo sapevamo anche prima - un divario nel ritmo di crescita dei due Paesi che prospetta un sorpasso, ma non prima di sette-otto anni. Se la Spagna può costituire un riferimento valido, e certamente può costituirlo dati i molti aspetti di vicinanza e di similitudine tra i due Paesi, c’è tutto il tempo per evitare quel sorpasso o almeno per ritardarlo quanto più possibile. Un tempo che potrà essere impiegato tanto più proficuamente quanto più corrette ed oggettive saranno le analisi sulla realtà dell’economia e sulla effettiva natura dei suoi problemi.
Pubblicato il: 20.12.07
Modificato il: 20.12.07 alle ore 8.22
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Se nasce AliFrance
Alfredo Recanatesi
Era quanto meno probabile, se non proprio scontato, che il consiglio di amministrazione di Alitalia individuasse nel gruppo Air France-Klm quello nel quale il futuro della compagnia potesse trovare le più affidabili prospettive di ripresa e di affermazione. Il cuore, certo, inclinava verso una soluzione nazionale, posto che la preservazione dell’italianità della compagnia di bandiera poggia su argomenti che vanno ben al di là dei tratti caricaturali e antistorici con i quali viene dipinta dalle iperliberiste vestali del mercato e da quanti riducono ogni tema di politica economica e industriale a una difesa del consumatore che spesso si rivela più presunta che reale.
Ma, oltre il cuore, c’è la ragione, la quale spingeva, invece, a conferire il controllo della compagnia ad un gruppo come Air France-Klm a motivo della sua dimensione, della sua esperienza, della sua capacità industriale, del peso che già riveste negli accordi internazionali e nelle relazioni con i fornitori, a cominciare dai produttori di aerei di linea. L’alternativa di Air One e Banca Intesa, per quanto fondata su un coerente piano industriale, era indebolita dalla circostanza che la sua capacità organizzativa e gestionale di rilanciare una compagnia a livello internazionale, se non mondiale, era tutta da dimostrare. Del resto, le argomentazioni a favore di una cessione di Alitalia ad Air One, oltre l’italianità, non andavano molto al dilà della difesa di Malpensa come secondo hub italiano, ossia di un assetto strategico che già si è dimostrato alquanto velleitario per un Paese della dimensione dell’Italia. Non si può negare una maggiore razionalità di un sistema, come quello prospettato da Air France-Klm, che copre il centro dell’Europa continentale con gli hub di Amsterdam, Parigi e Fiumicino, inteso come sistema sinergico, lasciando, per altro, a Malpensa un ruolo rilevante anche nella rete di connessioni internazionali (Stati Uniti, Asia, America Latina). Come non si può negare che il declino di Alitalia ha da tempo superato la soglia oltre la quale una soluzione esclusivamente nazionale si presentava tecnicamente e politicamente improbabile. In altre parole, occorreva semmai pensarci prima.
L’indicazione che il consiglio di amministrazione ha preso all’unanimità deve essere ora ratificata dal governo: è a lui, in quanto detentore del pacchetto di controllo della compagnia, che spetta l’ultima e risolutiva parola. Almeno fino a ieri il governo non si presentava compatto sulla scelta del futuro di Alitalia, ma a questo punto non può non accogliere e ratificare l’indicazione del consiglio nel quale, avendo deliberato all’unanimità, si sono espressi per la cessione ad Air France-Klm anche i rappresentanti del ministero dell’Economia e del ministero dello Sviluppo.
Ciò significa che il dado può essere considerato tratto; qualche ritocco dell’offerta transalpina potrà ancora essere oggetto di trattativa, ma il destino di Alitalia ormai è scritto. Lo si può dire con qualche rammarico, ma anche con grande sollievo perché da troppi anni la compagnia stava sopravvivendo ad un tempo, per altri versi chiuso da anni, nel quale in una azienda la proprietà pubblica era considerata quasi sinonimo di commistione managerial-politico-sindacale, con conseguenze non solo e non tanto economiche, ma di logoramento di un patrimonio come quello dei tempi andati, quando Alitalia portava nel mondo una immagine positiva del nostro Paese, del suo stile, della sua organizzazione e, magari, delle sue ambizioni. È stato necessario giungere alle soglie del fallimento perché quella commistione potesse finalmente essere sciolta per dare un futuro credibile a ciò che dell’Alitalia ancora rimane. Questo chiude ogni spazio a qualsiasi obiezione o recriminazione da parte di chicchessia e presenta l’intesa con Air France-Klm come l’unica possibilità per mantenere comunque una presenza, minoritaria ma non marginale, nel trasporto aereo anche a lungo raggio.
Pubblicato il: 22.12.07
Modificato il: 22.12.07 alle ore 8.15
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