Alfredo RECANATESI.

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Il fantasma dell’italianità

Alfredo Recanatesi


Un soprassalto di italianità ha indotto il nostro premier a lanciare un allarme sull’eventualità di «Opa» ostili su quelle (poche) grandi aziende che l’Italia può ancora vantare. Il forte ciclo di rialzo dei prezzi internazionali delle fonti energetiche e delle materie prime di base ha determinato una robusta redistribuzione della ricchezza mondiale a favore dei Paesi produttori, a cominciare da quelli che hanno petrolio sotto terra.

Questi Paesi, di conseguenza hanno accumulato miliardi e miliardi di dollari ed euro, così come li ha accumulati la Cina attraverso una politica di sottovalutazione della propria moneta e, dunque, un forte surplus della propria bilancia commerciale. Per altro verso, la crisi finanziaria ha picchiato e continua a picchiare sulle quotazioni di borsa al punto da aver dimezzato il valore delle imprese rispetto ad un anno fa o poco più. Immaginare come possano combinarsi queste due circostanze - da una parte chi ha molto denaro da spendere e dall’altra imprese e banche a prezzi di saldo - è cosa che viene immediata; del resto, questa combinazione ha già avuto numerose applicazioni la dove fondi cinesi e mediorientali sono intervenuti per salvare banche americane ed inglesi.

Venendo all’Italia, il rischio che i fondi statali di questi Paesi (i cosiddetti “fondi sovrani”) vengano a far man bassa di nostre imprese potrebbe anche esserci, ma è limitato. È limitato intanto per l’aspetto politico che non manca mai nelle scelte di investimento di questi fondi che sono proprietà di istituzioni e, quindi, impiegati anche in base di considerazioni di ordine politico-strategico. E l’Italia non è certo tra i Paesi che possano maggiormente interessare al fine di acquisire potere contrattuale nelle grandi questioni internazionali. Ma è limitato soprattutto perché sono poche le occasioni che possano interessare gli Stati-investitori, e queste poche tutte o quasi con assetti proprietari blindati. Difficile scalare Enel, Eni, Finmeccanica senza l’acquisizione delle cospicue partecipazioni che ancora vi ha lo Stato italiano, o una Mediaset senza che la venda lo stesso Berlusconi. Possiamo mettere nell’elenco anche Telecom, che però da tempo non è più una azienda di punta nel settore delle telecomunicazioni e nella quale l’ingresso della Libia, benché “amichevole”, sembra presentare non pochi problemi. Di altro, almeno nel campo industriale, c’è ben poco. Ci sono aziende non quotate che nelle loro nicchie hanno livelli di eccellenza, anche in attività sulla frontiera più avanzata della tecnologia, ma queste escono dal tema delle opa perché non hanno azioni a proprietà diffusa.

Poi ci sono le banche, e qui il discorso cambia. L’acquisto del 4,23% di Unicredit effettuato ieri dalla Banca centrale libica dimostra infatti la differenza tra l’allarme lanciato da Berlusconi e le dimensioni reali di simili operazioni. Tolte dunque le grandi banche che, attorno alle fondazioni bancarie, hanno proprietà stabili, e tolte le banche popolari, che essendo costituite in forma cooperativa non possono essere oggetto di scalate ostili, rimane qualche banca di medio calibro. Acquistarla può essere una operazione attraente per chi volesse costituire una presenza diretta, ma di qui ad ipotizzare qualche significativa conquista ce ne corre comunque, anche in tempi nei quali le banche italiane - banche solide e con reti di raccolta ampie ed efficienti - sono sottovalutate.

È comunque singolare che l’italianità delle banche costituisca motivo di preoccupazione per il premier, la sua parte politica, il suo ministro dell’Economia che sostituirono il Governatore della Banca d’Italia Fazio proprio perché ostacolava l’ingresso di banche straniere nel nostro Paese, ma tant’è: ora la ruota ha girato ed a difesa dell’italianità anche delle banche troviamo il centro-destra: meglio tardi che mai.

Se, dunque, i rischi che (altri) significativi pezzi del nostro sistema produttivo cadano in mani straniere sono oggettivamente ridotti, c’è da chiedersi il motivo dell’improvviso allarme. Un primo motivo è quello di riformare la legge sulle Opa che, frutto della ubriacatura liberista, è tanto rigida da inibire ogni possibilità di autonoma difesa da parte della impresa sotto tiro: non può acquistare azioni proprie, non può aumentare il capitale, tanto meno può deliberare aggregazioni; può solo sperare in un cavaliere bianco che offra più dell’aggressore, ma se si trattasse di competere con i “fondi sovrani” è presumibile che più che un cavaliere occorra un’armata. Una legge meno rigida, in definitiva, può anche essere opportuna. Un secondo motivo potrebbe essere la riproposizione di una fusione tra Enel ed Eni della quale tempo addietro già si vagheggiò proprio al fine di farne una entità tanto grossa da non poter essere scalata. Ma mettere insieme questi due ex-enti per farne una azienda energetica integrata non ha gran senso economico e suscita non poche perplessità per la concentrazione di potere che si verrebbe a determinare. A meno che... a meno che, con la motivazione della difesa dell’italianità, ora non si intenda spianare la strada ad una fusione tra Enel ed Eni per poter finanziare il piano nucleare che il governo intende promuovere e che l’Enel da sola, con l’elevato indebitamento che già ha, avrebbe qualche difficoltà a realizzare.

Pubblicato il: 17.10.08
Modificato il: 17.10.08 alle ore 8.35   
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Arlecchino:
ALFREDO RECANATESI

Socio fondatore del Club dell'Economia, è giornalista dal 1962. Ha lavorato prima a "Il Globo" e, quindi, a "Il Sole - 24 Ore" fino a raggiungere il ruolo di capo della redazione romana e vice-direttore. Dopo l'esperienza di un anno nello staff del ministro del Tesoro e Presidente dell'Interim Commity del Fondo monetario internazionale, è rientrato col grado di vice-direttore a "Il Sole - 24 Ore", giornale che ha lasciato nel 1985 per assumere la direzione del mensile dell'ABI, "Bancaria", fino al 1991. Negli ultimi anni, all'attività di editorialista di economia de "La Stampa" e dei circa venti quotidiani locali della catena Aga, ha unito quella di consulente per la comunicazione finanziaria di un grande gruppo industriale. Nell'arco dell'intera vita professionale ha collaborato a numerosi quotidiani - tra i quali "La Repubblica" e il "Wall Street Journal" -, a numerosi periodici con prevalente contenuto economico e finanziario, nonché a trasmissioni radiofoniche e televisive. Tra i riconoscimenti ricevuti, il premio di giornalismo Saint Vincent, ed il premio Lingotto.

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