Alfredo RECANATESI.
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Di padre in figlio
Alfredo Recanatesi
C’è un motivo per cui il problema delle pensioni è sempre sul tavolo della politica e non c'è riforma che ve lo possa definitivamente rimuovere. Il motivo è che la questione previdenziale sta su quel tavolo in quanto capitolo di spesa pubblica, un capitolo che richiama su di sé la massima attenzione sia perché sul bilancio dello Stato è dei più rilevanti, sia perché aumenta continuamente ed è certo che continuerà ad aumentare. Affrontandolo quasi esclusivamente sotto il profilo della finanza pubblica, ogni soluzione tra le tante che vengono continuamente suggerite a destra e a manca sarebbe valida se non comportasse inevitabili conseguenze economiche.
Conseguenze che accendono ogni volta la resistenza di determinate categorie e l'opposizione delle parti politiche che quelle categorie intendono rappresentare. Non è da escludere che ogni discussione acquisterebbe in chiarezza e trasparenza, e probabilmente consentirebbe scelte politiche più esplicite e condivise, se il tema fosse affrontato con un'altra logica secondo la quale l'onere di spesa pubblica, ed il relativo finanziamento, non sia più posto come un fine, ma un mezzo da commisurare in funzione dei benefici che si intendono ottenere. Una logica economica, insomma, non, o non soltanto, una logica finanziaria.
Seguendo questo diverso filo logico sarebbe conveniente muovere da un dato di fatto e da un punto di partenza. Il dato di fatto è che la popolazione italiana invecchia, ed anche molto rapidamente. Se il numero degli anziani, comunque li si definisca, aumenta in rapporto alla popolazione in età produttiva, che questi debbano sostenere un onere maggiore per il sostentamento di quelli è cosa matematica ed inevitabile. Riducendo la collettività ad un nucleo familiare, è evidente che il sostentamento di una coppia di genitori anziani graverà su ciascun figlio in ragione inversamente proporzionale al loro numero: se è un figlio unico dovrà provvedere da solo, se saranno due figli l'onere sarà dimezzato e così via. Questo avverrà comunque, perché, anche con un sistema previdenziale a totale capitalizzazione ed a regime, tutto quanto sarà consumato dalla popolazione anziana - alimentazione, cure mediche, vestiario, energia e quant'altro - dovrà essere prodotto e fornito dalla popolazione attiva. Si determina certo una sperequazione intergenerazionale, ma questa sta nella dinamica demografica, e non c'è ordinamento previdenziale che possa neutralizzarla.
Se questo è il dato di fatto, il punto di partenza è quale livello di vita si ritiene che la collettività debba assicurare a chi cessa l'attività lavorativa. Questa scelta determina il costo, in termini reali, che la collettività nel suo complesso dovrà sostenere per l'intero sistema previdenziale indipendentemente dalla sua ripartizione tra parte pubblica e parte privata ed indipendentemente da come l'una e l'altra saranno state finanziate: se un anziano che abbia cessato di produrre reddito col proprio lavoro acquisterà un paio di scarpe nuove, quelle scarpe dovranno essere state prodotte da chi è in età lavorativa, indipendentemente dalla forma finanziaria attraverso la quale questa cessione potrà avvenire.
Posto quel dato di fatto e definito il punto di partenza, tutto il resto è politica, ossia è quel complesso di norme attraverso le quali si determina il livello delle prestazioni previdenziali, la quota obbligatoria, la distribuzione di queste prestazioni, la parte di esse affidata al settore pubblico e quella lasciata al settore privato, il loro finanziamento, la normativa fiscale che favorisce o scoraggia le diverse alternative.
Ogni volta che, con grande travaglio, si ridiscutono riforme, verifiche, aggiornamenti, «manutenzioni» della normativa, in realtà non è in gioco il costo della previdenza, ma solo la quota di esso affidata al settore pubblico. Se questa quota viene ridotta - con l'innalzamento dell'età pensionabile o con una revisione dei coefficienti di calcolo dell'importo della pensione - delle due l'una: o si abbassa il livello di vita di chi andrà in pensione, oppure si sposta l'asse del sistema pensionistico verso il settore privato, il quale può essere costituito da capitale precedentemente risparmiato, da assicurazioni, da fondi pensioni - tutte alternative che implicano una riduzione del reddito disponibile nel corso della vita attiva - ma anche, molto spesso, dalla solidarietà familiare o parentale. Leggendo in questa chiave le misure di «manutenzione» che il governo sta delineando e che oggi inizierà a valutare insieme alle organizzazioni sindacali, si va delineando un arresto della precedente tendenza a ridurre il ruolo della previdenza pubblica e, forse, un suo recupero. Se, infatti, una quota delle risorse risultanti dalla eccedenza di gettito fiscale verrà impiegata per l'innalzamento di pensioni minime, quel che alla fine risulterà è un aumento delle prestazioni previdenziali finanziato consolidando una parte di quella eccedenza. A parità di condizione di vita, i pensionati avranno così meno bisogno di forme integrative, che in questa fascia di reddito sono costituite per lo più dal sostegno di figli e nipoti. Sembra, poi, che verrà decisa anche una qualche redistribuzione delle prestazioni a beneficio delle pensioni più basse a carico di quelle maggiormente privilegiate. La spalmatura del cosiddetto scalone è solo una diluizione nel tempo del brusco innalzamento dell'età pensionabile che, per far tornare i conti, là riforma Maroni stabilì, ma fissandone l'entrata in vigore in la nel tempo in modo che fosse qualcun altro a doverla gestire.
Basterà questo perché non si debba più mettere mano al sistema previdenziale? Molto probabilmente no: le proiezioni demografiche prospettano un onere crescente fino al punto che per ogni persona in età lavorativa ce ne sarà una in pensione. Non c'è forma finanziaria o diversa ripartizione tra previdenza pubblica e previdenza privata che possa modificare la prospettiva che l'intera popolazione debba mantenersi con il reddito prodotto da una sua metà. Le uniche e risolutive riforme da fare dovrebbero essere, di conseguenza, quelle per aumentare il rapporto tra lavoratori e pensionati, incominciando da ogni sostegno possibile che la collettività dovrebbe assicurare a chi genera figli, e per innalzare il rendimento del nostro sistema produttivo, incominciando da un sistema industriale fatto da imprese più strutturate per investire in ricerca ed innovazione. Ma di questo o si parla poco o non si parla affatto; appunto: come se il problema previdenziale avesse rilevanza solo per l'onere che comporta per la finanza pubblica.
Pubblicato il: 19.06.07
Modificato il: 19.06.07 alle ore 12.20
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Uno stimolo per l’Economia
Alfredo Recanatesi
È facile collegare le iniziative concordate ieri dalla maggioranza con l’esigenza di una riscossa dopo la flessione di consensi registrata nelle ultime amministrative. Qualcuno certamente lo farà sostenendo un carattere populista di un insieme di misure che, invece, trovano sostegno nella politica per la quale l’attuale maggioranza vinse le politiche e nel consolidamento dei conti pubblici che, in virtù delle misure contenute nella Finanziaria di quest’anno e di una situazione economica sensibilmente più favorevole, ha generato le risorse necessarie per la realizzazione di quella politica.
L’obiettivo primario era e non poteva che essere una riduzione delle sperequazioni distributive che in tutto il mondo sono un portato dei processi di liberalizzazione e di globalizzazione, ma che le forze politiche progressiste non possono accettare come un semplice «mal comune». Anzi, proprio perché quelle sperequazioni nascono da processi ineluttabili, dall'asprezza del confronto competitivo su mercati grandi quanto il mondo, da standard internazionali sui quali gli stessi processi di integrazione si fondano, il ruolo della politica diventa più cruciale, perché solo attraverso la gestione della cosa pubblica possono essere corretti effetti e conseguenze su intere categorie di persone che la nostra cultura umanitaria e solidale respinge.
Gli interventi concordati ieri sono molto articolati, ma per quel che riguarda le politiche sociali, sono uniti dal denominatore comune del sostegno delle condizioni di vita più disagiate: i pensionati che percepiscono pensioni che non è improprio definire di fame e i giovani con un lavoro precario generalmente sottopagato, ma comunque, anche quando non lo è, penalizzante sia perché impedisce la programmazione della propria vita (e poi ci si lamenta che non si fanno figli e la popolazione invecchia) sia perché non consente la costituzione di una posizione previdenziale con la quale poter guardare serenamente agli anni della vecchiaia.
Ci saranno critiche per l'aumento della spesa pubblica. Il fuoco di sbarramento, del resto, era già partito con gli avvertimenti della Commissione di Bruxelles, i moniti dei banchieri centrali, gli auspici di larga parte della stampa nazionale: tutte fonti che non si misurano col consenso popolare e che spesso vedono le cose attraverso l'ottica distorta dell'interesse particolare. Valga, però, la considerazione che il sostegno ai redditi più bassi, quand'anche non trovasse giustificazione nelle ragioni dell'equità distributiva, ne trova nella politica economica.
La ripresa dell'economia italiana, per quanto apprezzabile, è ancora gracile, troppo dipendente dalla più tonica crescita dei nostri partner europei. Anche la competitività delle nostre imprese è problematica: al tempo della stagnazione si vedeva di più, ora è velata da un Pil che comunque cresce, ma il fatto che cresce meno che altrove è indice di una realtà nella quale il grosso delle produzioni italiane era e tuttora è una offerta di complemento, che entra in gioco solo quando l'offerta dei Paesi più competitivi trova difficoltà a soddisfare la domanda. La situazione sta migliorando, ma i tempi sono necessariamente lunghi ed, in termini relativi, non sono cambiati granchè da quando il declino era reso più evidente e comprensibile dalla stagnazione.
Ecco, allora, che una ripresa non effimera della domanda interna è di incentivo alle imprese per guardare con maggiore fiducia ad un futuro meno aleatorio come quello fatto dai picchi della domanda estera. Il potere d'acquisto dei redditi da lavoro è stagnante da anni e le imprese, gran parte delle quali sono ancora ferme alla competizione sui prezzi, non possono sostenere un costo del lavoro più elevato. L'unica possibilità perché la domanda di consumi possa stabilmente riprendersi, sta in un ruolo pubblico che, con la redistribuzione delle risorse, sostenga la capacità di spesa delle categorie che ne hanno maggiormente persa. Serve molto più una azione di questo genere che una riduzione del cuneo fiscale della quale nessuno, neanche la Confindustria, tiene più memoria.
Pubblicato il: 26.06.07
Modificato il: 26.06.07 alle ore 13.55
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Arlecchino:
Il tango delle pensioni
Alfredo Recanatesi
Sulle pensioni - si è detto - questa è la settimana cruciale. D’accordo: ma quanto cruciale? Occorre chiederselo perché di settimane cruciali ne sono già trascorse parecchie tra un’alternanza di aperture e chiusure, di prospettive di intese e successive rotture, tutte puntualmente seguite dalle cronache alle quali i mezzi di informazione sono tenuti, ma che appaiono sempre più monotone e ripetitive, consolidando l’impressione di una esasperante impasse sulle contrastanti posizioni di principio.
Intendiamoci: che si tratti di un tema complesso è fuori discussione dovendosi conciliare esigenze di equità sociale, per altro esplicitamente riconosciute anche nel programma dell’Unione, e una spesa previdenziale che, soprattutto per motivi demografici, è diventata una sorta di potenziale bomba ad orologeria che potrebbe deflagrare negli anni di un futuro anche lontano. Ma gli elementi della equazione che occorre far quadrare ci sono tutti; sono tanti e complessi, ma ci sono tutti.
Di conseguenza, è difficile non rimanere quanto meno sconcertati di fronte alla mutevolezza delle posizioni assunte dalle diverse parti in causa attorno al tavolo della trattativa in tutte le settimane cruciali che già sono trascorse, e di fronte alla distonia che su un argomento in agenda già da mesi si deve registrare tra i membri stessi del governo. Che il ministro del Lavoro formuli una proposta di intesa da sottoporre ai sindacati ed il ministro dell’Economia la bocci ritenendola rischiosa per le casse dello Stato fa parte del gioco delle parti che si stabilisce all’interno di ogni governo tra chi ha il compito di gestire le spese (e le relazioni con le organizzazioni rappresentative) e chi ha quello di reperire le entrate e far tornare i conti. Ma che questo gioco debba avvenire attraverso i mezzi di informazione non sta scritto in alcuna regola ne di democrazia sostanziale, ne di trasparenza; ed a ragione, perché così non si fa altro che trasformare, senza alcun costrutto, la fisiologica differenza tra i punti di vista interni al governo in un patologico scontro tra i componenti dello stesso governo.
Per stare all’ultimo episodio: prima di proporre ai sindacati, e pubblicizzare sui giornali, i 58 anni più incentivi per chi ritarda il pensionamento ed una verifica tra tre anni dei risultati ottenuti Damiano non poteva sentirsi con Padoa Schioppa ed eventualmente ricorrere a Prodi per individuare un punto di incontro da portare al tavolo della trattativa come proposta del governo?
Insomma, tra le tante esigenze contrastanti il governo formuli una sua proposta che abbia un consenso collegiale e dopo, solo dopo, la esponga al tavolo della trattativa e la renda di pubblico dominio.
Non come un diktat, beninteso, ma neppure come una iniziativa a titolo quasi personale soggetta a prese di distanze, distinguo o veri e propri sbarramenti; dissensi sui quali ogni parte in causa, politica o sindacale, ha l’opportunità di insinuarsi per coltivare il proprio specifico interesse, sia sostanziale che mediatico. In questo modo ci sarebbe, sì, una settimana cruciale per arrivare ad una conclusione, ma una.
Pubblicato il: 04.07.07
Modificato il: 04.07.07 alle ore 13.38
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Tv, culla dell’antipolitica
Alfredo Recanatesi
Intervenendo sulla partecipazione degli esponenti politici ai tanti salotti televisivi, quasi sempre frivoli anche quando non intendono esserlo, il Presidente Napolitano ha toccato un aspetto del più generale problema del rapporto tra politica e televisione. È lecito supporre che più in la non abbia ritenuto di andare per non dover esprimere giudizi sull’altro termine di quel rapporto, ossia la televisione o, più esattamente, l’informazione televisiva. E tuttavia, se non ci si ferma al presenzialismo dei politici, ma si pone mente alla questione nella sua interezza, allora occorre considerare che la politica è presente in televisione non solo e non tanto attraverso la partecipazione di leader alle trasmissioni del più diverso genere, ma in primo luogo nei servizi di informazione. Se si conviene che questo sia il terreno da osservare, balza subito in evidenza un corto circuito: la politica con le sue presente e le sue pressioni distorce e sottomette l’informazione televisiva, ma il risultato è che questa deforma e svilisce la funzione della politica.
È il corto circuito che, innescando il fuoco dell’antipolitica che ormai divampa in ogni angolo del Paese, ha avuto tanta parte nel logorare, fin quasi a recidere, il nesso che deve legare i cittadini - intesi questi come partecipi delle sorti della comunità nazionale alla quale appartengono - e la politica - intesa come ruolo che i loro rappresentanti eletti svolgono per la difesa dei loro comuni interessi, per la soluzione dei loro problemi, per la costruzione del futuro del Paese nel quale vivono loro e vivranno i loro figli -.
Stiamo parlando - è quasi superfluo ricordarlo - di un Paese che si distingue, tra le grandi democrazie industriali evolute, per l’esiguità della diffusione dei quotidiani di informazione. La maggior parte dei nostri concittadini non legge giornali ritenendo che la sua esigenza di informazione possa essere adeguatamente soddisfatta dalla quella televisiva ed, in primo luogo, dai telegiornali. Nei confronti della maggior parte degli italiani, dunque, questi svolgono pressoché in esclusiva il ruolo di presentare la politica, di descriverla, di fornire gli elementi di giudizio.
E allora, nel giorno che più piace a voi, prendete una qualsiasi edizione del telegiornale di una qualsiasi rete; immaginate di essere appena tornati dalla luna e provate a farvi una idea della vita politica del nostro Paese basandovi, per quanto possa riuscirvi, solo sulla informazione che riceverete. È una informazione che accenna (quando va bene) al tema politico del giorno per poi passare ad una giaculatoria delle relative posizioni dichiarate in merito, attraverso i diversi portavoce, da partiti e partitini. Data la natura del mezzo, ad ogni parte prevista dal copione non possono essere dedicati che pochi secondi che consentono nient’altro che puri e ripetitivi slogan gettati dentro il microfono senza alcuna mediazione giornalistica - è colpa loro, no è colpa loro, bisogna cacciarli, è il centro che vuole far fuori il governo, no è la sinistra radicale, sono attaccati alle poltrone, aumenteranno le tasse -. Spot che, al pari di quelli sugli yogurt o sui dentifrici, possono al più generare una emozione, non certo una opinione e, men che meno, una convinzione.
La conseguenza è che questi slogan nulla hanno a che fare con la realtà delle questioni, con la loro complessità, con la natura del confronto tra le parti politiche avverse, con le diverse opzioni che possono essere messe in campo. Come se non bastasse, queste rassegne di insulse e trite battute devono comprendere anche le esternazioni di leader o portavoce di partiti di modestissima dimensione e caratura - Rotondi della Dc per le autonomie, tanto per non fare nomi - del tutto ignorate dalla carta stampata perché non sono notizie alle quali la gente possa essere minimamente interessata, ma che si perpetuano in quanto quelle apodittiche quanto banali affermazioni quotidiane costituiscono l’unica testimonianza di esistenza in vita di quelle etichette partitiche.
Chi ha una età non più giovanissima sa che questo format dell’informazione politica televisiva viene dai tempi della prima repubblica e dai cosiddetti «pastoni», ossia resoconti nei quali, per una ipocrita presunzione di neutralità, ogni partito doveva figurare per dare un segno, se non del suo ruolo, almeno della sua espressione anagrafica. Ma parliamo di più di vent’anni fa, dei tempi della «democrazia bloccata», quando la mancanza (o l’impossibilità) di una alternanza condizionava tutta la vita politica e la sua percezione. Quel tipo di informazione, di conseguenza, era noiosa e, tutto sommato, inutile, ma non faceva grandi danni. Oggi, invece, ne fa e parecchi. Con l’alternanza, infatti, l’elettore si attende di essere maggiormente considerato perché è potenzialmente maggiore il peso del suo voto; con l’evoluzione e la frammentazione della società, ogni sua componente ambisce, e talvolta pretende, di riscontrare nel Parlamento una rappresentazione più tempestiva e puntuale dei suoi interessi e delle sue istanze; con il superamento delle ideologie, vero o presunto che sia, le valutazioni sull’operato della politica tendono a focalizzarsi sulla oggettività dei dati di fatto piuttosto che su una mera propaganda, per di più mal fatta.
Ma se, a fronte di questa evoluzione, della politica si offre una caricatura fatta di puerili battibecchi e di banali contestazioni di principio, in quanti la politica la conoscono e la seguono solo attraverso i telegiornali la delusione non può che essere cocente, la sensazione di impotenza non può che diffondersi, ed alla fine la reazione non può che essere populistica, il rifugio in chi non è capace, neppure lui, di offrire un più costruttivo contributo alla formazione di una cultura politica, ma almeno è divertente.
Ecco, quindi, il corto circuito: imponendo la subordinazione della informazione televisiva (e non parliamo delle trasmissioni «di approfondimento» nelle quali l’argomentazione è ritenuta noiosa e il battibecco da comari è, invece, apprezzato perché «fa spettacolo») la politica non ha distrutto solo la funzione giornalistica che il mezzo televisivo potenzialmente può svolgere, ma sta distruggendo anche e soprattutto il suo rapporto con i cittadini elettori, ossia il fondamento di ogni democrazia; sta distruggendo se stessa e, come ha detto Napolitano, la credibilità delle istituzioni. Perché la politica ha i suoi limiti, i suoi difetti, le sue carenze, le sue contraddizioni, tutto quello che volete voi: ma è e rimane una cosa seria; comunque, qualcosa di più e di meglio di quell’infantile ed irritante contrapposizione di frasi fatte con le quali i telegiornali quotidianamente ce la presentano. Altro che servizio pubblico!
Pubblicato il: 26.09.07
Modificato il: 26.09.07 alle ore 9.09
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Un compromesso ma di qualità
Alfredo Recanatesi
Non è motivo di scandalo che la legge finanziaria per il prossimo anno sia risultata frutto di un compromesso più o meno faticosamente raggiunto. Ciò che soprattutto importa è la qualità del compromesso raggiunto dai due punti di vista dai quali può essere giudicata, quello politico e quello economico-finanziario.
Sotto l’aspetto politico, il compromesso merita una valutazione positiva costituendo un punto di equilibrio tra le due principali istanze che sono emerse all’interno della coalizione.
Quella che intendeva accordare la priorità al sostegno dello sviluppo e quella, invece, che intendeva accordarla ad una riduzione delle sperequazioni distributive che hanno penalizzato e continuano a penalizzare le categorie più deboli. La sua definizione è stata resa faticosa dalla assenza, insolita nella storia italiana, di emergenze finanziarie, dal buon andamento delle entrate e dagli effetti dell’aggiustamento realizzato con la legge finanziaria passata. Insomma, c’era un po’ di “grasso”, e la decisione politica di come impiegarlo è più difficile di quando emergenze finanziarie restringono il terreno delle opzioni o impongono addirittura scelte obbligate. Viene spontaneo, a questo punto, l’auspicio che l’intesa trovata a livello governativo venga fatta propria dai parlamentari della maggioranza e difesa con una coerente condotta lungo l’intero cammino che la proposta governativa deve percorrere prima di diventare legge. Un cammino lungo e tanto più insidioso in quanto incontrerà almeno due potenziali ostacoli: il referendum sul protocollo di luglio e la riforma della tassazione delle rendite finanziarie, che non è entrata nella finanziaria, ma è oggetto di un formale impegno del premier a porla all'ordine del giorno entro breve tempo.
Più cauto deve essere il giudizio sotto il profilo economico-finanziario. Condivisibile è la scelta di non spingere sulla compressione del disavanzo. Assicurata la prosecuzione del cammino verso il riequilibrio dei conti e la riduzione dello stock di debito, una accelerazione in questa direzione non solo sarebbe stata politicamente insostenibile, ma anche troppo restrittiva di una domanda interna che continua ad offrire scarso supporto ad ogni previsione di crescita. La riduzione dell’Ici e le molte altre agevolazioni disposte non rispondono solo a ragioni di equità distributiva, ma anche di supporto ad una domanda interna senza la quale la ripresa è destinata a rimanere debole e precaria.
Non altrettanto si può dire della decisione di impiegare una cospicua parte delle risorse disponibili per ridurre la pressione fiscale sulle imprese. Il recupero di consensi nelle regioni settentrionali ha giocato una parte evidentemente determinante a favore di una misura la cui efficacia ai fini della competitività e della crescita rimane tutta da dimostrare. Che il sistema produttivo sia oberato da pesanti prelievi è nell’evidenza delle cose, ma che questa sia la causa di una sua debole competitività è quanto meno opinabile. Nel loro insieme, infatti, le produzioni italiane soffrono la concorrenza per difetto di innovazione, di specializzazione, di esclusività, non per eccesso di costi e di tassazione. Lo dimostra il fatto che, pur con tutti i limiti e le negatività che le organizzazioni imprenditoriali lamentano, i profitti mantengono un robusto trend di crescita; e lo dimostra il fatto che non mancano aziende che, investendo ed innovando, riscuotono un meritato successo nel mondo. Sono abbastanza perché non le si possa considerare come eccezioni, ma purtroppo sono poche per risolvere l’incapacità di tenere il passo degli altri Paesi europei. Così stando le cose, è quanto meno dubbio che un alleggerimento fiscale possa tradursi in un rilancio di investimenti nell’unica direzione che nel mondo globalizzato un Paese come l’Italia può prendere e che è già tracciata dalle imprese più dinamiche, ossia quella della innovazione dei prodotti, dunque della ricerca, dunque ancora della evoluzione verso dimensioni più consistenti e strutturate, e meno asservite alle esigenze delle famiglie proprietarie. Che una riduzione di imposte così generalizzata ed incondizionata possa generare effetti strutturali di questo tipo è dunque auspicabile, ma improbabile.
Ma la politica - lo sappiamo - è l’arte del possibile, e nella realtà politica di oggi il sentiero delle opzioni praticabili è ristretto da una infinità di esigenze politiche, finanziarie, economiche. Chiunque potrà dire la sua, e la dirà, su cosa si sarebbe potuto fare meglio, su come sarebbe stato preferibile impiegare questi soldi, su dove andare a risparmiare, su cos'altro tagliare: figurarsi, non c'è esercizio più facile. Ma in queste circostanze, con un calo di consensi da recuperare, con l’ondata di una antipolitica populista e demagogica da arginare, con la pressione incalzante delle categorie, è difficile, davvero difficile, immaginare che potesse venir fuori qualcosa di tanto diverso.
Pubblicato il: 29.09.07
Modificato il: 29.09.07 alle ore 8.54
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