Alfredo RECANATESI.
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Il commento
Il commento
Prodi, le lobbies e il rischio del rinvio
La riflessione nel governo e la decisione della società
MILANO - Va dato atto al Consiglio di amministrazione di Alitalia e al suo presidente, Maurizio Prato, di essere andato dritto per la propria strada nell'interesse dell'azienda e dei suoi clienti non preoccupandosi delle molte pressioni cui in questi mesi è stato sottoposto.
Pressioni di politici della maggioranza e dell'opposizione, banchieri potenti, il partito del Nord che difendeva Malpensa e i sindacati che difendevano la corporazione di steward e piloti, persino il presidente di Confindustria, sceso in campo a favore di Air One. Una determinazione, quella del consiglio Alitalia, che in Italia non è comune e per la quale i cittadini lo ringraziano.
Dopo aver tentennato per un anno (nel quale Alitalia ha perso altri 400 milioni di euro, circa 30 euro per ciascuna famiglia italiana) il governo si è preso altre due settimane per decidere. Non si capisce che cosa. Il consiglio di amministrazione ha motivato la scelta a favore di Air France-Klm pubblicando un documento che risponde al coro di chi difendeva interessi particolari con argomentazioni di buon senso e con un confronto preciso fra le due offerte che gli erano pervenute. La decisione finale è fondata su analisi industriali e finanziarie e sui pareri tecnici degli advisor della società.
Che cosa pensa il governo? Di essere più bravo di molti tecnici che hanno contribuito a quella decisione? Dandosi due settimane di tempo Prodi corre un grande pericolo. I variegati interessi particolari che ieri sono usciti sconfitti non andranno certo in vacanza: le pressioni, gli ammiccamenti, le promesse che ieri non ce l'hanno fatta ci proveranno di nuovo.
Solo che la prossima volta a decidere non sarà un consesso di persone perbene, ma un Consiglio dei ministri vociferante nel quale gli uni difenderanno i piloti, altri i dipendenti della Sea, altri ancora i sub-fornitori di Alitalia e nessuno i cittadini.
Francesco Giavazzi
23 dicembre 2007
da corriere.it
La riflessione nel governo e la decisione della società
MILANO - Va dato atto al Consiglio di amministrazione di Alitalia e al suo presidente, Maurizio Prato, di essere andato dritto per la propria strada nell'interesse dell'azienda e dei suoi clienti non preoccupandosi delle molte pressioni cui in questi mesi è stato sottoposto.
Pressioni di politici della maggioranza e dell'opposizione, banchieri potenti, il partito del Nord che difendeva Malpensa e i sindacati che difendevano la corporazione di steward e piloti, persino il presidente di Confindustria, sceso in campo a favore di Air One. Una determinazione, quella del consiglio Alitalia, che in Italia non è comune e per la quale i cittadini lo ringraziano.
Dopo aver tentennato per un anno (nel quale Alitalia ha perso altri 400 milioni di euro, circa 30 euro per ciascuna famiglia italiana) il governo si è preso altre due settimane per decidere. Non si capisce che cosa. Il consiglio di amministrazione ha motivato la scelta a favore di Air France-Klm pubblicando un documento che risponde al coro di chi difendeva interessi particolari con argomentazioni di buon senso e con un confronto preciso fra le due offerte che gli erano pervenute. La decisione finale è fondata su analisi industriali e finanziarie e sui pareri tecnici degli advisor della società.
Che cosa pensa il governo? Di essere più bravo di molti tecnici che hanno contribuito a quella decisione? Dandosi due settimane di tempo Prodi corre un grande pericolo. I variegati interessi particolari che ieri sono usciti sconfitti non andranno certo in vacanza: le pressioni, gli ammiccamenti, le promesse che ieri non ce l'hanno fatta ci proveranno di nuovo.
Solo che la prossima volta a decidere non sarà un consesso di persone perbene, ma un Consiglio dei ministri vociferante nel quale gli uni difenderanno i piloti, altri i dipendenti della Sea, altri ancora i sub-fornitori di Alitalia e nessuno i cittadini.
Francesco Giavazzi
23 dicembre 2007
da corriere.it
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Un'emergenza chiamata salari
Alfredo Recanatesi
La questione salariale pone due ordini di problemi, uno di tattica e uno di strategia, tra i quali sarebbe bene non fare confusione per non mirare su obiettivi sbagliati.
Conviene considerare prima la strategia perché l’emergenza che oggi si pone, e il cui riconoscimento è finalmente condiviso, è originata da errori strategici commessi negli anni passati e, in particolare, da quando è nata l’Unione monetaria europea. La nascita della moneta unica, con la conseguente perdita delle sovranità nazionali sulle politiche monetarie e sulle politiche del cambio, avrebbe dovuto comportare la adozione di un modello di sviluppo totalmente diverso, praticamente opposto, a quello che aveva presieduto, anche con successo, al progresso economico dell’Italia e al raggiungimento di livelli di benessere tra i più elevati del mondo. Era un modello basato sul contenimento dei costi di produzione e sulla prontezza di reazione alle opportunità di mercato che potevano presentarsi assicurata da una larga prevalenza di imprese medio-piccole.
Da più di dieci anni questo modello è entrato in crisi a motivo di due eventi epocali: la adozione di una moneta il cui governo è affidato a una istituzione sovranazionale e la globalizzazione.
Quella globalizzazione che ha posto le produzioni basate sul contenimento dei costi in competizione con quelle di Paesi molto più indietro sulla via dello sviluppo e, quindi, con costi correlati a livelli di vita estremamente più bassi. Il modello di sviluppo che questi due eventi avrebbero dovuto imporre era, come si diceva, sostanzialmente opposto a quello fino ad allora seguito. I costi non potevano più essere un fattore competitivo, a meno di non scendere a livelli di vita più simili a quelli dei nuovi competitori soprattutto asiatici, mentre per competere validamente sarebbe stato necessario puntare su innovazione, esclusività, tecnologie sofisticate. Ma questo non possono farlo aziende medio-piccole perché non hanno il respiro strategico, le capacità finanziarie, la propensione al rischio che possono avere solo quando non siano dominate da una famiglia e dalle sue specifiche esigenze economiche e patrimoniali. Le aziende di grande dimensione, che questa capacità possono sviluppare, non solo non sono aumentate, ma sono addirittura diminuite.
Questo disadattamento si è tradotto in una particolare sofferenza nella competizione internazionale, nella incapacità del sistema a crescere ad un ritmo non lontano a quello degli altri, in definitiva si è tradotto in un impoverimento del Paese nel suo complesso.
La politica che ha fronteggiato questo disadattamento e le sue conseguenze è stato quanto di più strategicamente sbagliato. Tutti i governi che si sono succeduti in questi anni, infatti, invece di adottare misure che almeno tentassero di innescare la necessaria mutazione, hanno posto a carico della collettività una parte del deficit competitivo che le imprese andavano accusando proprio per il fatto di non essersi evolute a sufficienza. Moderazione salariale, alleggerimento di imposte e contributi, lavori atipici per lo più sottopagati sono tutte politiche che hanno puntato sulla riduzione dei costi, ossia su un obiettivo che i due citati eventi avevano reso antistorico. Il fallimento di queste politiche è dimostrato dal fatto che la competitività del sistema nel suo complesso è sempre precaria, e il Paese si è impoverito. L’impoverimento è dato intanto da un tasso di crescita del prodotto inferiore a quello che sarebbe necessario almeno per compensare l’aumento che i prezzi internazionali - energia, materie prime, derrate alimentari - vanno subendo per la maggiore domanda dei Paesi che stanno uscendo dall'indigenza e dal sottosviluppo; ed inoltre è dato dal fatto che si è concentrato sulle categorie lavoratrici in quanto la globalizzazione ha spostato l’asse della distribuzione dei profitti di impresa a favore del capitale, che ha conquistato la libertà di andare per il mondo a cercare i profitti ed i rendimenti più elevati, e a danno del lavoro, posto in competizione con quello dei Paesi dell’est europeo ed asiatico.
Affrontare questa evoluzione, e gli errori strategici che l’hanno determinata, con misure di redistribuzione serve a poco. La tattica può suggerire di fronteggiare una emergenza ponendo a carico del bilancio pubblico, ossia a carico della collettività, una quota dei costi che impediscono alle imprese di reggere la competizione, o una quota del reddito necessario alle famiglie più bisognose di arrivare a fine mese. Ma dovrebbe essere ormai evidente che queste politiche, se impiegate in luogo della strategia, finiscono per distribuire non più reddito, ma povertà.
La redistribuzione è uno strumento della equità sociale; le politiche di sviluppo sono tutt’altra cosa. Ora siamo di fronte ad una riconosciuta emergenza salari alla quale occorre dare una risposta efficace in tempi brevi, e questa risposta non può essere che quella di attingere al bilancio pubblico per restituire alle categorie più indigenti almeno una parte del potere d'acquisto che hanno perso. Ma, comunque la si metta, una misura in questo senso, doverosa sul piano della solidarietà sociale, potrà solo ritardare, anche per quanti ne saranno i più diretti beneficiari, le conseguenze del processo di impoverimento in atto le cui più attuali manifestazioni possiamo individuare nella raffica di rincari seguiti ai botti di fine anno. Se non sarà accompagnata da una politica di sviluppo che, tutelando i lavoratori, premi le imprese che si convertono per puntare sui parametri competitivi propri di una grande democrazia industriale quale l’Italia è ed intende rimanere (e ce ne sono; poche ma ce ne sono), penalizzando nello stesso tempo le imprese che ancora insistono nel voler competere con i Paesi a basso costo, non ci si illuda: di un alleggerimento del prelievo fiscale su salari e stipendi, per quanto rilevante possa essere, si perderà molto rapidamente traccia, così come si è persa quella dei tanti e pur corposi interventi di redistribuzione finora effettuati dai passati governi e soprattutto da questo. Se il miglioramento delle condizioni di vita di chi lavora non verrà generato da un aumento del valore aggiunto delle produzioni nelle quali il lavoro viene impiegato, ogni soluzione alternativa è destinata ad avere vita breve: tattica, appunto, non strategia.
Pubblicato il: 03.01.08
Modificato il: 03.01.08 alle ore 8.13
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Ecco i risultati della globalizzazione della carta straccia
Alfredo Recanatesi
L’intera economia mondiale è stata infettata da quei rifiuti tossici che le banche soprattutto americane hanno diffuso su scala globale.
Si tratta di quei titoli cosiddetti derivati che consistono in obbligazioni che rappresentano mutui per l’acquisto di case privi di adeguate garanzie sia perché concessi anche a chi non possiede un reddito per poterli rimborsare, sia perché, con la caduta dei prezzi degli immobili, il valore di mercato di quelle case non copre più l’importo che è stato erogato.
Insomma, carta straccia o giù di lì, una truffa che è stata possibile realizzare su scala così macroscopica in un Paese dove l’attività bancaria e finanziaria è tuttora ideologicamente affrancata dai controlli ai quali è invece sottoposta in Europa.
L'infezione si sta rivelando più forte del previsto perché non si conosce né l’ammontare di questi titoli in circolazione, né chi li abbia sottoscritti. Ne è derivata una crisi di fiducia sulla reale situazione economica e patrimoniale delle grandi banche. Diffidando le une delle altre, queste hanno fortemente ridotto la propensione a prestarsi reciprocamente denaro. La conseguenza è che, malgrado le robuste iniezioni di liquidità effettuate fin dall’estate scorsa da tutte le banche centrali, il costo del denaro, soprattutto a breve termine, è fortemente salito.
Poiché in tutto il mondo economicamente più evoluto la globalizzazione ha penalizzato i redditi da lavoro, e poiché di conseguenza nella grande massa dei consumatori è cresciuta la quota di quanti sono costretti ad indebitarsi, un aumento del costo del credito si traduce in una contrazione dei consumi.
Negli Stati Uniti, dove è altissima la quota di persone che, usando le carte di credito, fanno a debito anche per la spesa quotidiana, la frenata della domanda interna sta mettendo in crisi l’intera economia. Insensibile alla pronta reazione di Bush, che nel tentativo di scongiurare un così acuto peggioramento della situazione economica proprio nell’anno delle elezioni presidenziali ha annunciato un piano di riduzioni fiscali, la maggioranza degli economisti vede ormai un futuro prossimo di recessione. A parte gli eccessi di ieri, la tendenza ribassista che tutte le borse stanno registrando da tre mesi a questa parte è il segno di una infezione che dalla finanza si va estendendo all’economia reale.
Anche se le banche italiane non si sono fatte coinvolgere dalle sirene di questa finanza tanto innovativa quanto corsara, le conseguenze della crisi americana stanno investendo anche la nostra economia. La Banca d’Italia ha già tagliato le stime di crescita per quest’anno ad un misero 1%, e non è detto che altre revisioni al ribasso si rendano necessarie. Comunque, la stagione della crescita, che già si è rivelata debole con un aumento del Pil che l’anno passato non ha raggiunto neppure il 2%, ora si rivela anche breve, praticamente già esaurita. I problemi che ne derivano sono di due ordini tra loro correlati. C’è in primo luogo una emergenza salari che con una economia in frenata sarà ancora più difficile affrontare. Il contratto dei metalmeccanici, per quanto soddisfacente nelle circostanze date, non è tale da cambiare la vita, così come non può cambiarla una riduzione del prelievo fiscale su stipendi e salari.
Perché si possa risalire qualche posizione nelle classifiche del reddito pro capite e, soprattutto, nel livello dei salari occorre uscire dalla logica redistributiva. Questa può essere seguita in presenza di qualche emergenza sociale, più che economica. Ma per avviare la questione verso una soluzione strutturale appare sempre più necessario che il sistema produttivo torni a generare reddito. Le politiche di aumento della produttività e della competitività imperniate sul contenimento dei salari e sulla flessibilità del lavoro seguite all’accordo del 1993 non hanno funzionato se è vero, com’è vero, che oggi l’economia italiana è in condizioni relative peggiori di quelle di allora. Non hanno funzionato perché la difesa dei profitti, che pure hanno consentito, non si è tradotta in una ripresa di investimenti volti a convertire un sistema produttivo strutturato su mercati segmentati e cambio della moneta utilizzabile ai fini della competitività, in uno in grado di sostenere una competizione globale e un cambio fisso e, per di più, molto forte. Non avendo funzionato quelle politiche, il rallentamento dell’economia mondiale coglie l’economia italiana in una condizione di persistente debolezza strutturale. E di nuovo tutto si fa più difficile.
Si fa più difficile anche per i conti pubblici, e dunque per quel poco di sollievo che da una riduzione delle tasse potrebbe venire per il potere d’acquisto di lavoratori e pensionati. Una crescita più lenta, forse molto più lenta, non è priva di conseguenze per la prospettiva delle entrate e della eventuale disponibilità di nuovi "tesoretti".
Il 2007 si è chiuso con i conti abbastanza a posto, ma questo non basta per concludere che vi siano margini per una iniziativa non simbolica di riduzione delle imposte sui redditi da lavoro dipendente. Occorrerà ridurre la spesa, ma se questa è una operazione di per se difficile, a maggior ragione lo è se l’economia non cresce. Se poi su questo quadro fosco aggiungiamo le incertezze che avvolgono la sorte del governo e della legislatura, davvero non rimane che incrociare le dita e stringerci tutti nelle spalle.
Pubblicato il: 22.01.08
Modificato il: 22.01.08 alle ore 13.14
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I conti e l'emergenza
Alfredo Recanatesi
Il limite dei ministri tecnici è dato dalla loro difficoltà a cogliere i condizionamenti che derivano dalle diverse circostanze politiche non solo all’agire, ma anche all’esternare. Che si faccia parte di un governo stabile con anni di legislatura ancora davanti, oppure di un governo in carica per gestire le elezioni non è la stessa cosa. Era giustificabile che il ministro del Tesoro dimostrasse cautela nel considerare l’eventualità di un alleggerimento fiscale su salari e stipendi quando se ne incominciò a parlare, e dunque quando la crisi era ancora lontana.
Oggi, tuttavia, quelle stesse asserzioni assumono un tono ed una valenza del tutto diversa. Il che spiega perché allora furono oggetto di critiche, tutto sommato pacate, da parte di chi rifiutava una visione essenzialmente contabile di un problema sociale, ancor prima che economico e finanziario, per riaffermarne la priorità indipendentemente dalla disponibilità o meno di nuove eccedenze nelle entrate tributarie. Oggi, invece, le critiche sono assai più estese e risentite perché, alle ragioni opposte allora, si aggiungono quelle che discendono dal fatto che le asce con le quali combattere il confronto elettorale sono già state dissotterrate.
Ha preso le mosse, per altro, una campagna elettorale le cui battaglie più significative, e forse determinanti, si svolgeranno proprio sul terreno delle politiche fiscali. E, almeno in via di ipotesi, le politiche fiscali possono essere le più diverse, naturalmente prevedendo che una onere ritenuto necessario, come quello di una riduzione del prelievo sui redditi da lavoro dipendente, possa essere finanziato attraverso una molteplicità di interventi che vanno dalla riduzione di altre spese, alla imposizione di nuove o diverse tasse, ad un ulteriore impulso nella lotta all’evasione. Come è facile capire, siamo sui temi sui quali le diverse visioni politiche si connotano, si avversano e si contendono il favore degli elettori.
E allora, le asserzioni di Padoa Schioppa sul fatto che la esistenza di nuove eccedenze è tutt’altro che accertata, che al contrario il rallentamento dell’economia le rende improbabili, e che quand’anche ci fossero potrebbero essere necessarie per difendere l’equilibrio dei conti pubblici da eventuali e probabili rallentamenti del flusso di entrate; queste asserzioni - si diceva - non fanno una grinza sotto il profilo tecnico; ossia per quell’aspetto che lo ha indotto a replicare, anche un po’ piccato, a chi va sostenendo che «i soldi ci sono» che difficilmente altri possono saperne più di lui. Ma, se per questo aspetto, la sua posizione non fa una grinza, fa una brutta piegaccia sotto il profilo politico.
Il ministro, infatti, ha involontariamente sollevato una questione non da poco. Anzi, più d’una. La prima è che rinviando addirittura a luglio il tempo nel quale sarà possibile determinare con certezza eventuali disponibilità finanziarie da impiegare per alleggerire il prelievo fiscale su salari e stipendi, di fatto ha escluso che sulla questione possa decidere l’attuale governo. E se ad occuparsene sarà il governo che uscirà dalle urne il 15 aprile, tutto è destinato a tornare in alto mare, e magari non sarà più materia di Padoa Schioppa, ma di un governo meno sensibile - diciamo così - alle ragioni della equità sociale. La seconda questione è: se davvero non si verificassero nuove eccedenze di entrate, l’“emergenza salari” finalmente riconosciuta sarebbe con questo superata? Sarebbe superata la “priorità” con la quale era stata iscritta nell’agenda della politica? E che priorità sarebbe se viene subordinata esclusivamente ad una eccedenza di entrate rispetto alle previsioni, come se fosse il bonus di una azienda che abbia chiuso un bilancio particolarmente positivo? E ancora: detto tutto questo, possibile che non ci sia comunque modo di adottare una prima misura di alleggerimento senza compromettere il riconquistato equilibrio dei conti?
Le incaute polemiche sollevate dalle considerazioni del ministro ora complicano, ad evidenza, la realizzazione degli interventi che erano stati ipotizzati, se non altro per le strumentalizzazioni in chiave elettorale alle quali qualsiasi decisione sarebbe inevitabilmente esposta. Un tema già politicamente complesso e già giuridicamente ingarbugliato a motivo dell’apertura della crisi, ora si presenta vieppiù complicato dai condizionamenti che l’imminenza delle elezioni pone ad ogni forza politica. I problemi, le difficoltà, il crescente disagio di tanta parte delle famiglie italiane che ogni rilevazione statistica hanno incontestabilmente certificato rimangono, ad oggi, l’unica cosa certa; ma invece di andare verso una soluzione degna del grado di civiltà, ancor più di equità, che il Paese deve e vuole dimostrare, sembra che si vada nella direzione opposta.
Pubblicato il: 13.02.08
Modificato il: 13.02.08 alle ore 9.06
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Economia: l’importante è fare
Alfredo Recanatesi
C’è in Italia una paranoia per i programmi delle forze politiche. È una paranoia alimentata dal cosiddetto «bipolarismo muscolare», ossia dall’asprezza della contrapposizione che ha generato una strumentalizzazione dei programmi, usati più per coprirsi dalle critiche degli avversari, pronti a cogliere manchevolezze, incoerenze o genericità, che per evidenziare e argomentare la tipicità di un disegno per la crescita materiale e civile del Paese.
Non basta. Occorre anche, e soprattutto, rendere credibile la realizzazione di tali progetti. Il programma che Veltroni ha presentato ed illustrato non poteva non tenerne conto, e vi si è adeguato senza farsi illusioni che, il giorno dopo, visto da sinistra, sarebbe stato interpretato come «il programma di Confindustria» (titolo di ieri del giornale di Rifondazione), visto da destra, proprio il giornale della Confindustria vi avrebbe colto «silenzi sul mercato» e «coperture improvvisate sulle pur generose promesse su fisco e salari». Insomma, musica vecchia che può generare delusione in chi, contagiato da quella paranoia, si aspettava qualcosa di più adeguato, sia nella forma del programma, sia sulle reazioni che ha suscitato, a quell’aria nuova che il segretario del nuovo partito intende portare, ed in effetti sta portando, nella politica italiana. I suoi dodici punti sono anch’essi vittime per la loro stringatezza di quella paranoia, tanto più dopo le critiche anche sarcastiche delle quali furono fatte oggetto le 270 e passa pagine del governo Prodi. Sono il risultato di una compressione che non ha lasciato spazio non dico ai dettagli, ma neppure a quel minimo di qualificazione che avrebbe potuto distinguerli dall’ovvietà. I problemi dell’economia e della società italiani sono ormai ben noti ed anche largamente condivisi: non può essere questo il terreno sul quale inventare qualcosa di nuovo. Salari, precariato, pressione fiscale, sostegno alle famiglie, maggiore inserimento delle donne nel sistema produttivo, superamento delle resistenze alla realizzazione di infrastrutture tipiche di qualsiasi Paese evoluto, dall’alta velocità ai termovalorizzatori ed ai rigasificatori: qui non c’è niente da inventarsi; anzi, è bene non provarci nemmeno. Il problema non è stilare un elenco di priorità da affrontare, ma individuare le forme, i percorsi, le procedure della politica che consentano di affrontarle ed avviarle a soluzione. Qui sta il «nuovo» di Veltroni, o almeno il tentativo di superare forme, percorsi e procedure che il centro destra come il centro sinistra hanno sperimentato senza quel successo che avrebbe consentito all’Italia di non ritrovarsi nelle ultime posizioni delle classifiche europee.
Veltroni ed il nuovo PD hanno rotto il bipolarismo muscolare proprio nell’assunto che siano molte, e spesso determinanti, le soluzioni, le decisioni, le scelte che godono di una ampia maggioranza di consensi, ma che finora non hanno potuto avere seguito perché, nell’una come nell’altra coalizione, si sono scontrate con i veti di minoranze in cerca di visibilità mediatica prima che politica. Trovare un modo perché la politica non sacrifichi sull’altare delle polemiche tra le avverse coalizioni il denominatore comune di iniziative condivise: questo è il programma del PD di Veltroni, il programma che conta, quello sul quale il partito e lui per primo chiederanno il voto del prossimo 13 aprile.
Poi, certo, differenze ce ne sono, ci mancherebbe; non siamo certo tra coloro che considerano superate le distinzioni tra destra e sinistra. Ma sono differenze che vengono dalla storia delle diverse componenti politiche, dalle esperienze passate, dalle prove già date, dalle loro concezioni sul ruolo dello Stato, dalla sensibilità dimostrata verso le ragioni dell’equità distributiva e della solidarietà, dal credito che può essere attribuito alle singole persone: tutti elementi di valutazione e giudizio che formeranno le decisioni di voto, ma che non troviamo, non possiamo trovare, nei programmi; tanto meno in quelli che la cultura mediatica oggi dominante pretende ed impone succinti, schematici, sintetici. Le ragioni di un credito da attribuire ad una forza politica ed ai suoi leader che si candidano alla guida del Paese non possono essere ridotte alla formulazione di un elenchino di cose da fare perché non potrà mai essere completo né, tanto meno, argomentato. La Politica, quella che «deve rialzarsi» e riguadagnare la P maiuscola è ben altra cosa.
Pubblicato il: 18.02.08
Modificato il: 18.02.08 alle ore 8.15
© l'Unità.
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