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Autore Discussione: Piero IGNAZI.  (Letto 59327 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 03, 2011, 11:33:33 pm »

La borghesia si è svegliata o no?

di Piero Ignazi

Per quindici anni si sono riparati sotto l'ala di un palazzinaro disinvolto che prometteva loro di tutto.

Adesso sono delusi e sconcertati, ma chissà se hanno il coraggio di andare fino in fondo

(27 ottobre 2011)

Lo ricordava Massimo Cacciari nel suo articolo sul numero scorso dell'Espresso: questo paese ha bisogno di una classe imprenditoriale, erede dello spirito borghese. Nulla di più vero e di più urgente. Però qualche dubbio si affaccia sulla reale consistenza e sulla possibile traduzione "politica" di questo ethos. Quanto il capitalismo italiano si è autorappresentato come forza trainante, culturalmente e civilmente, di questo paese al fine di condurlo per mano verso il "progresso"? Uno sguardo rapido e disincantato al nostro dopoguerra evidenzia una propensione del capitalismo alla connivenza più che al confronto-contrasto con la politica: i detentori del potere erano blanditi in pubblico per ottenere provvidenze e protezioni dallo stato, ma disprezzati in privato.

Questo rapporto di mutua convenienza e di scambio - sostegno in cambio di aiuti vari - ha indebolito la consapevolezza di sé della classe imprenditoriale. Negli ultimi vent'anni, dopo aver lasciato andare alla deriva i vecchi partiti, la borghesia, quasi spaventata di tanto ardore, si è rifugiata sotto l'ala berlusconiana: come se un palazzinaro e un concessionario di beni pubblici rappresentasse la punta di lancia dello spirito imprenditoriale e non invece quello di un capitalismo protetto e disinvolto (per usare un eufemismo).

Da qualche tempo però c'è del nuovo nell'aria. Dapprima sono affiorate coraggiose iniziative individuali come quella del rifiuto del pizzo e dell'omertà condotta dal presidente degli industriali siciliani Ivan Lo Bello, e poi fatta propria dalla Confindustria, alla quale sono seguite analoghe prese di posizione in altre parti d'Italia: iniziative che hanno fornito al mondo imprenditoriale uno spessore etico e civile inedito. Poi, con un crescendo di insofferenza e di mugugni per lo "stile" di governo, è esploso il dissenso contro l'inerzia e l'inefficacia dell'"attività" di governo.

In un paese normale il ritiro della delega di buona parte della classe imprenditoriale avrebbe effetti devastanti su un governo che si vanta di rappresentare soprattutto quel ceto sociale. In Italia, invece, il governo continua a macinare voti di fiducia uno dietro l'altro. Viviamo il paradosso di una maggioranza sfiduciata da parte del suo elettorato di riferimento - quello di cui più si vantava e in cui più voleva identificarsi, benché il grosso dei voti venissero dalle casalinghe anziane e dai pensionati che passano la loro giornata alla televisione - ma che resiste grazie alle più sconce manovre di corridoio. Il mercimonio di prebende e favori a destra e a manca (ultimi arrivati i radicali pronti a fornire un'altra stampella al Cavaliere e a raggiungere l'indimenticato Capezzone?) consente la sopravvivenza al governo ma ne favorisce il distacco dall'opinione pubblica at large.

Non è solo il ceto imprenditoriale a essere sconcertato per la vista corta e la passività del governo ma tutto l'elettorato che si vede ribaltata di 180 gradi l'immagine dell'uomo del fare, del rappresentante della società civile ostile al "teatrino della politica". Proprio lui diventa l'alfiere massimo della "politique politicienne", degli accordi sottobanco in parlamento, della sopravvivenza nel bunker a ogni costo, dell'attaccamento alla sedia. In questa fase Berlusconi interpreta tutto il peggio della cosiddetta vecchia politica; e tutti i peggiori stereotipi dell'antipolitica trovano linfa in ogni suo passo, dal perseguimento degli affari propri alla difesa degli amici e dei potenti, dalla grevità dell'eloquio al disinteresse per il bene collettivo. Per dire la parola fine manca solo un'opposizione (più) credibile alla quale i referenti sociali tradizionali del centro-destra ora in uscita - borghesia imprenditoriale in testa - possano rivolgersi.

 
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« Risposta #61 inserito:: Novembre 25, 2011, 10:56:59 pm »

Opinione

Scaricato dalle partite Iva

di Piero Ignazi

Autonomi, professionisti, imprenditori. Hanno puntato su Berlusconi per cercare l'autoaffermazione individuale.

Ma la crisi ha fatto saltare il rapporto tra quei ceti e il leader che si erano scelti

(17 novembre 2011)

L'epoca berlusconiana è tramontata. Il logorio della sua immagine, l'inefficacia dei suoi governi, la fragilità della sua creatura politica sono alcuni dei motivi che hanno condotto all'epilogo. A questi ne va aggiunto un altro, che ha agito sottotraccia: il mutamento nella conformazione e negli orientamenti del blocco sociale che lo ha sempre sostenuto. Il successo iniziale del Cavaliere, e la sua resilienza successiva, si spiegano con modificazioni profonde e di lungo periodo sia nelle strutture socio-economiche sia nei riferimenti culturali e valoriali della società italiana.
Nel corso degli anni Ottanta l'Italia si scopre sempre più secolarizzata e laicizzata. Non tanto in senso stretto, cioè allontanandosi dalla Chiesa e dal suo magistero; più in generale, dimostra una crescente insofferenza per sistemi di relazioni sociali e visioni del mondo "chiusi". Il senso di irrigidimento e irrigimentamento, proprio di un Paese costretto dentro due ideologie forti (le due chiese, cattolica e comunista) e dentro gerarchie sociali stringenti, viene intaccato dal decennio dei movimenti collettivi. Ma il lungo '68 aveva solo scalfito la superficie e contagiato componenti sociali metropolitane e acculturate.

Tuttavia aveva gettato un seme. Aveva instillato nella mentalità collettiva l'idea della "liberazione" individuale e dell'autoaffermazione: una sorta di individualismo primordiale che, benché si collegasse con l'antica tradizione italica del "particulare", non si rintanava nel familismo e nel calore protettivo del maso chiuso ma invece si proiettava all'esterno. Favoriti anche dalla rottura della cappa plumbea degli anni Settanta nel periodo successivo gli italiani scoprono il fascino dell'affermazione del sé. In piena sintonia con la diffusione dei valori post-materialisti in tutto l'Occidente anche in Italia gli individui pongono al centro del loro orizzonte di vita le pulsioni individuali e relegano in un angolo interessi e identità collettive. Nel nostro Paese si assiste però a una curvatura particolare di questa spinta. Rimane asfittica la tendenza libertaria, che altrove troverà rispondenza nei partiti Verdi, e si sviluppa ipertroficamente la tendenza acquisitiva. La "liberazione" dai referenti cultural-ideologici e sociali tradizionali si esprime soprattutto sul versante dell'economico. E' su questo terreno che gli italiani vogliono "affermarsi". L'esplosione delle partite Iva, delle professioni di ogni genere e tipo, dell'imprenditoria indica la direzione economicista del mutamento in corso. A questo sommovimento i vecchi partiti non sanno - né possono - rispondere. A problemi nuovi rispondono partiti nuovi. In primis la Lega, ma la sua piega etno-regionalista le tarpa le ali. Deve irrompere l'icona di quel tempo, l'innovatore di uno dei totem più anchilosati e pervasivi dell'immaginario italiano - la televisione - per rappresentare, direttamente, l'effervescenza individualista-acquisitiva (con punte di narcisismo) della società.

Una volta sfruttata la finestra di opportunità offerta dal collasso dei vecchi partiti e imposta l'immagine dell'"homo novus" e dell'interprete più accreditato dell'Italia fattiva e operosa - di contro ai parassiti del settore pubblico - il gioco è fatto. Berlusconi sutura il rapporto incrinato tra società e politica.

La sutura produrrà una iper-calcificazione politica dividendo l'Italia in due schieramenti mutuamente nemici. Questa contrapposizione radicale, continuamente alimentata da produzioni simboliche e da provvedimenti legislativi partigiani, ha retto finché la nave andava. La crisi ha fatto saltare la sutura. Ha rotto il rapporto tra quei ceti sociali e il Cavaliere. Anche i sostenitori del centrodestra avvertono ora la drammaticità di uno Stato assente, sia in senso identitario sia in termini di fornitore di servizi, uno Stato scientemente picconato in questi decenni. E non è un caso che si rifugino dietro l'unica figura che lo "incarna" ancora , il presidente Giorgio Napolitano. Silvio Berlusconi esce di scena perché coloro che lo avevano plebiscitato hanno (finalmente) compreso, e a velocità crescente negli ultimi mesi, l'inadeguatezza della sua proposta politica nei nuovi tempi che si sono drammaticamente aperti.

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« Risposta #62 inserito:: Dicembre 17, 2011, 11:23:58 am »

Opinioni

Perché Bersani si è sacrificato

di Piero Ignazi

Il leader del Pd ha rinunciato alle elezioni, che avrebbe vinto, per sostenere il governo Monti.

Ma ora è alle prese con i conflitti interni, dalla Cgil ai giovani "democrat". E con la possibile ripresa della destra

(08 dicembre 2011)

Il Partito democratico si renderà conto con il passare dei giorni di aver buttato al vento un'occasione storica per tornare al governo a vele spiegate. I fischi e i cori che hanno accompagnato Silvio Berlusconi alla sua uscita da Palazzo Chigi erano il segno del tramonto di un'epoca. Anche osservatori equilibrati come Stefano Folli hanno visto in quelle manifestazioni un tratto tipico della "fine dei regimi".

Il Pd aveva quindi tutto l'interesse a chiudere una volta per tutte la partita con l'avversario sfidandolo alle urne. E tutti i sondaggi mostravano che il risultato era acquisito con qualsiasi tipo di alleanza fosse andato al voto. Ma un meritorio senso dello Stato, simboleggiato da uno slogan degno dei 150 anni - "prima l'Italia poi il Pd" - ha messo in quarantena la possibilità di un rapido ritorno al governo.

In più, e anche per questo, si apre un futuro denso di incognite per il partito di Bersani. Tanto sul piano interno che su quello esterno. All'esterno, il tempo che separerà la caduta di Berlusconi dalle prossime elezioni, a meno che non siano ravvicinatissime, consentirà al centrodestra di rifarsi una verginità, di mondarsi del peccato di aver portato il Paese sull'orlo della catastrofe. Ancor peggio, la Lega, corresponsabile in tutto e per tutto delle scelte del governo, raccoglierà i frutti di una campagna demagogica di taglio antisistemico, contro tutto e tutti.

In questo ribaltamento e annebbiamento di ruoli il Pd non può più giocare in tutta scioltezza la carta dell'opposizione e dell'alternativa al governo della destra: ogni partito si presenta all'opinione pubblica con una sua punta critica rispetto al nuovo esecutivo. Così, l'immagine del Pd sbiadisce. A meno che non decida di ingoiare qualunque rospo e di sostenere comunque Monti nella speranza di ricavare il benefit politico del successo nel risanamento e rilancio del Paese ad opera del professore.

Poi vengono i problemi interni. Il primo riguarda il rapporto con il sindacato. Mentre il Pd ha dato fiducia a Monti, la Cgil fin dalle prime battute si è mostrata molto scettica. Ora, con una manovra in cui i richiami all'equità del neo premier ("Chi ha dato meno dovrà dare di più") si sono scoloriti, il Pd si trova a far fronte a un sindacato all'attacco. E non solo la Cgil, visto che anche Bonanni e Angeletti si sono svegliati dal letargo. Del resto, sindacati che hanno quasi la metà dei loro iscritti nei pensionati diventano ipersensibili quando si parla di pensioni.

Il secondo problema interno del Pd è meno visibile e meno immediato. Si proietta sul medio periodo. Non riguarda lo scontro correntizio, bensì ne rappresenta la negazione, per certi aspetti. Il vero conflitto interno che monta è quello generazionale, di cui Matteo Renzi rappresenta solo l'epifenomeno più spettacolare e narcisistico. C'è invece un largo strato di giovani quadri intermedi - dai dirigenti delle sedi territoriali ai rappresentanti negli enti locali - che si sono impegnati in politica sull'onda dell'Ulivo e sono allergici alle identità politico-ideologiche pregresse.

Questa generazione "democrat" non sopporta più gli scontri di corrente vecchi di vent'anni. Vede quanto il partito sia appesantito dalle sue "culture originarie" e, per questo, quanto appaia datato, vecchio, non al passo con i tempi. Non a caso il Pd è sottorappresentato nelle fasce giovanili, dove morde invece il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo (il cui peso è costantemente sottostimato, come si è visto alle regionali in Molise). Poiché molti elettori grillini vengono dal Pd a contrastare questo deflusso i più attrezzati sarebbero proprio i nuovi quadri, che però rimangono nelle retrovie. In conclusione, sfuocato il ruolo di oppositore, impervio quello di sponsor di Monti, insoddisfatti sindacati e nuove leve, per Bersani non si preannunciano tempi facili.


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« Risposta #63 inserito:: Gennaio 06, 2012, 09:57:58 am »

Opinione

Monti, fin qui hai un po' deluso

di Piero Ignazi

Sì, ha raccolto le ceneri di un disastro. D'accordo, almeno ha parlato di equità. Ma si è mosso nel solco della Destra Storica: fredda, incapace di farsi sentire vicina alla vaste fasce di Paese che vivono il disagio sociale

(28 dicembre 2011)

Il governo Monti nasce da due diverse pressioni: una interna al sistema politico e l'altra esterna, di natura internazionale. La spinta più forte, quella che ha fatto catalizzare il consenso su un governo nuovo e "tecnico", di esperti, è venuta dall'esterno: dalla crisi economica, dalla sfiducia dei mercati, dall'offuscamento della nostra immagine (i grandi media internazionali definivano senza remore Berlusconi come joker, clown, buffoon...), e quindi dalla nostra debolezza in ambiti decisionali cruciali dell'Unione Europea e degli organismi internazionali. La pressione esterna non derivava solo da una disistima per il profilo buffonesco di Berlusconi; originava dalla inettitudine e dall'ignavia del governo di fronte alla crisi, un atteggiamento che ben si riassumeva nell'inconcludente filosofeggiare di Giulio Tremonti e nelle battute da bar del Presidente del Consiglio su ristoranti pieni et similia.

E' di fronte a questa continua fuga dalla realtà che è maturata la spinta interna al cambiamento. Buona parte di quella classe dirigente e di quei ceti sociali che a lungo ha sostenuto o sopportato il centrodestra, alla fine, ha ritirato la delega. E il governo si è avvitato in una spirale di disfacimento con fuoriuscite, sconfessioni e voti negati. Berlusconi non si è dimesso per un atto di responsabilità come lui stesso e suoi megafoni vanno cianciando: si è dimesso perché non aveva più la maggioranza.

Il governo Monti ha raccolto le ceneri, avviato il risanamento dei conti pubblici ed aperto un gigantesco cantiere di riforme.

Il nuovo premier ha introdotto nel lessico politico un termine abbandonato da tutti, anche dai partiti di sinistra: equità. Mentre di rigore e di crescita se n'è parlato ad abundantiam in questi anni, di equità, vale a dire di giustizia sociale, si erano perse le tracce. In effetti per la prima volta da decenni si è cercato, con qualche probabilità di successo, di intaccare anche gli alti redditi (non quelli altissimi che sono protetti da "firewall" troppo sofisticati per essere raggiunti, quanto meno nel breve periodo). I prelievi sulla ricchezza mobile, sulle seconde case con tanto di rivalutazione catastale, sui capitali scudati sono interventi che nemmeno il "governo di Vasto" avrebbe avuto l'ardire di attuare. Certo, la mannaia contributiva e regolativa sulle pensioni è calata pesantissima. Lì non ci sono stati sconti. Fasce sociali tutt'altro che privilegiate hanno contribuito al risanamento in maniera più che proporzionale rispetto a chi gode di redditi elevati.

Questo intervento ha inquinato il buon proposito dell'equità? Lo si vedrà dai prossimi provvedimenti. E' su terreni più ampi rispetto alla logica emergenziale dei primi passi che si potrà misurare il grado riformista, innovatore e "giusto" del governo Monti.

Per ora, l'impressione è che questo esecutivo si muova nel solco della Destra Storica, di una classe politica dedita al bene comune e consapevole della "dimensione" dell'impresa, ma forse, come quei padri della patria, a volte un po' lontana dal pulsare delle emozioni. Esistono aree di insoddisfazione sconfinate in questo Paese che vanno dalle piccole imprese strozzate dai crediti inesigibili, anche dallo Stato, ai disoccupati meridionali che piangono l'arresto dei camorristi, dai giovani senza lavoro e senza speranza ai cinquantenni in mobilità. E la lista potrebbe continuare, ovviamente. A tutti costoro il governo deve non solo fornire una risposta ai loro bisogni (e già questa è una impresa) ma esprimere, simbolicamente, una "vicinanza": convincerli che ci si occupa della loro sorte senza altri interessi, differentemente dal passato. In una ottica di discontinuità rispetto ad un mondo luccicante di escort, festini e affaristi.

Per questo il pranzo tra Monti e Berlusconi, al di fuori di una cornice ufficiale, costituisce tanto un passo falso nello stile quanto una rilegittimazione incomprensibile del responsabile del disastro. Il governo Monti è nato in antitesi non in continuità con quello passato. Che si comporti di conseguenza.

 
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« Risposta #64 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:16:59 am »

Basta scorie nel governo Monti

di Piero Ignazi

L'esecutivo del professore piace perché privilegia la competenza sui partiti.

Ma anche lì, ci sono i cascami della vecchia classe dirigente che sopravvive a ogni cambio di stagione.

Se vuole essere credibile, il premier se ne deve liberare

(23 gennaio 2012)
 
Con il governo Monti è entrata in scena una diversa classe dirigente, quella degli esperti, dei portatori di conoscenza. Le competenze dei componenti del governo vengono da aule universitarie, amministrazioni pubbliche, aziende private, studi professionali, non dalle stanze dei partiti. Questo, in alcuni casi, costituisce un deficit quanto a capacità di negoziazione, gestione dei conflitti, uso della retorica, movenze sul filo dell'ambiguità, modalità note ai politici di professione di ogni latitudine. In altri casi costituisce un valore in termini di chiarezza di intenti, di profondità analitica e di rispondenza alle domande dei cittadini e a finalità e interessi generali.

In un momento in cui l'opinione pubblica dimostra una stanchezza estenuata verso la politica, la non-politicità e il professionismo impolitico del governo compensano, e di molto, l'inesperienza partitica. La luna di miele del governo si è fondata su questi elementi innovativi (ai quali vanno aggiunti l'insofferenza per lo stile da avanspettacolo del precedente governo e la legittimazione fornita dall'avallo attivo del Quirinale). Ma per mantenere e consolidare il feeling positivo con l'opinione pubblica, il governo, nell'immediato, deve superare (tra i tanti) due ostacoli.

Il primo deriva dall'offuscamento di immagine derivante dalla presenza di figure, nelle pieghe del governo e nel milieu che gli ruota intorno, che stridono con quell'aura di rinnovamento, serietà e pulizia efficacemente simboleggiata dalla prima conferenza stampa del governo Monti. Emerge il timore di un'eccessiva continuità con il passato. I tipici vizi di una classe dirigente di lungo corso, avvezza ai cambi di stagione, al cumulo di cariche e di posizioni, ai conflitti di interesse ramificati e radicati, all'impermeabilità alle diverse maggioranze politiche, alla contiguità/consuetudine con il potere e alla leggerezza di alcuni comportamenti sono affiorati nell'ambiente governativo. Più che i curriculum vitae infarciti di studi d'eccellenza, qui valgono ancora le frequentazioni di salotti e palazzi (e consigli di amministrazione).

Quanto rivelato nelle scorse settimane stona con l'immagine di serietà e seriosità del governo Monti e attenua la discontinuità con il passato. Mentre una sua grande risorsa sta proprio nella distanza di sicurezza dal costume politico "romano" di intrecci e intrallazzi. Perché non "liberalizzare" anche gli accessi alle alte cariche pubbliche de-burocratizzando il reclutamento e rompendo l'intreccio politico-clientelare d'alto bordo e salottiero? Perché non fare piazza pulita di navigati routiers del potere ministeriale?

Certo, più semplice a dirsi che a farsi, soprattutto se si pensa al secondo ostacolo del governo Monti: l'incerto e ondivago sostegno politico. Il Pdl non appoggia apertamente e fino in fondo quasi nessuna iniziativa di Monti: oscilla tra semplici puntualizzazioni e dissensi radicali. In realtà lavora a un logoramento del governo per evitare che acquisti troppa sicurezza e indipendenza. E soprattutto che dimostri cosa significa essere "moderato", parola di cui il Cavaliere e i suoi hanno abusato senza ritegno. Il Pd è più allineato. Ha persino digerito l'intervento sulle pensioni che ha colpito il suo elettorato di riferimento, dipendenti pubblici e privati di ogni livello. Ma non fa di quest'impegno una vetrina. Sostiene a bassa voce, quasi non volesse farlo sapere. Con la conseguenza di lasciare al Terzo polo la bandiera della sponsorship convinta al governo. Che è un po' troppo poco.

Monti ha bisogno di un consenso parlamentare più deciso. Con i prossimi provvedimenti, inevitabilmente, scontenterà qualcuno più di altri. A quel punto dovrà avere la forza di imporsi e, al limite, di scegliere interlocutori preferenziali. Per questo è necessario che si ripulisca dalle scorie che ne indeboliscono il prestigio.

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« Risposta #65 inserito:: Febbraio 17, 2012, 05:03:32 pm »

Politica

Cosa c'è nella testa di B.

di Piero Ignazi

Non si candiderà più come premier, ma non se ne va affatto a casa. Anzi: vuole condizionare la politica italiana ancora a lungo. Come? Mettendo alle corde un centrosinistra già diviso, riconquistando i moderati e le categorie infastidite da Monti, continuando a occupare la Rai. Ecco con quali obiettivi

(14 febbraio 2012)

Siamo proprio sicuri che Silvio Berlusconi sia fuori dai giochi? Che il suo allontanamento da Palazzo Chigi a suon di fischi e lazzi abbia sancito la sua definitiva uscita di scena? Gli ultimi eventi fanno pensare il contrario. Il voto alla Camera sulla responsabilità personale dei magistrati che ha ricompattato la vecchia maggioranza forzaleghista e la levigata intervista al "Financial Times", quel giornale che lo aveva trattato come uno Schettino alla rovescia ingiungendogli un "Scenda da quella nave, per diana!", ha riportato il Cavaliere alla centralità perduta. Il suo partito, pur diviso in mille cricche e attraversato da odi feroci, non è ancora sull'orlo dell'implosione. Soprattutto, non sta decomponendosi nella direzione prevista, e da molti auspicata: chi minaccia di fare le valigie non sono i moderati filo-governativi bensì gli ex An e qualche altro "descamisado" senza etichetta.

Se questi propositi bellicosi si concretizzassero, salterebbe l'assetto bipolare del sistema (che tuttora tiene) e andremmo a una tripartizione dello spazio politico. E cioè, ammesso che la sinistra rimanga nella fissa nella sua configurazione attuale, vi sarebbe una nuova componente "radicale" di destra (ex-An e Lega) e un corpaccione moderato, con un Berlusconi in versione rotonda e benpensante pronto a riannodare i fili con il centro e persino con Fini. Ecco perché Berlusconi è così accomodante con il governo, così responsabile e dialogico.

Il sostegno a Monti, esplicito a parole e contrattato nei corridoi, produce anche ottimi risultati. Grazie alle pressioni del PdL le liberalizzazioni, partite con grandi squilli di tromba, si sono ridotte a una fotocopia in sedicesimo di quanto fecero Prodi e Bersani nel 2006. I veti incrociati delle mille lobby hanno trovato audience e comprensione da parte del Pdl che ha così riannodato i fili con quei settori della società civile che lo avevano abbandonato alla fine dello scorso anno. Anche il tema dell'equità, grande ed esaltante novità della discesa in campo del governo tecnico, è scomparso sotto la neve. E' rimasta, e per fortuna, la martellante campagna anti-evasione. Ma vedremo quanto resisterà all'offensiva contro lo "stato di polizia tributaria" già innescata dalla destra. Infine, a dimostrazione di quanto sensibile si sia dimostrato il governo di fronte alla difesa degli interessi primari del Cavaliere - le tv, ovviamente - da Palazzo Chigi e dintorni non è venuta una parola sulle nomine di marca forzaleghista in Rai.

Ora, entra nella fase finale la discussione sul mercato del lavoro. Nel governo non aleggia un clima pro-labour. Anzi, stupisce sentir ripetere la litania dell'articolo 18 come fattore inibente degli investimenti, quando contano ben più l'assenza dello Stato in intere regioni del Mezzogiorno, la lentezza della giustizia civile, il costo delle infrastrutture, i vincoli burocratici.

Come dimostrano i giuslavoristi non politicizzati, il licenziamento per motivi economici è perfettamente possibile in Italia: non è invece possibile gettare sulla strada uno solo perché antipatico e di idee politiche diverse. In un paese con una classe imprenditoriale ben più rozza di quanto non appaia ai piani alti delle rappresentanze confindustriali (vogliamo ricordare la prassi delle lettere di dimissioni firmate in bianco imposte alle giovani dipendenti a rischio maternità, proibite per legge dal governo Prodi e riammesse da Berlusconi?) dobbiamo augurarci che "queste" garanzie non solo rimangano ma vengano estese. Perché se si ritiene che licenziare "senza giusta causa" sia giusto, allora rassegniamoci ad avere un governo, certo perbene e serio, ma di destra, a trazione Pdl.

Con il risultato che il Pdl centra tre obiettivi: si riqualifica come un partito responsabile presso quell'opinione pubblica moderata che lo aveva lasciato; riprende contatto con il suo serbatoio elettorale di riferimento dimostrando che è in grado di addolcire la medicina delle liberalizzazioni e dell'equità fiscale, e di mettere all'angolo i sindacati; mette alle corde il Pd che si è speso per Monti senza aver ottenuto nulla.

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« Risposta #66 inserito:: Marzo 10, 2012, 04:21:50 pm »

Non si può fare a meno dei partiti

di Piero Ignazi

Il governo Monti ha avuto due effetti: l'oblio dei guasti di Berlusconi e la condanna delle forze politiche.

Che invece restano le uniche strutture di aggregazione del consenso. E che sono più forti di quanto non sembri

(01 marzo 2012)

Il cambio di tono e di stile apportato dal governo Monti alla politica italiana produce effetti a 360 gradi. Alcuni erano prevedibili altri assai meno. La delegittimazione dei partiti da parte degli esperti faceva parte degli esiti inevitabili. I de profundis intonati ai partiti peccano però di precipitazione. Per tre ragioni. La prima è che i partiti continuano a essere le strutture fondamentali attraverso le quali si articola e si aggrega il consenso. Certo, non esauriscono le modalità con cui i cittadini possono partecipare alle decisioni fondamentali. I referendum, le azioni dirette attivate dai movimenti sociali (ultimi esempi, gli Indignados e Occupy Wall Street), i blog e l'agorà elettronica sono forme aggiuntive ma non alternative alla politica praticata dai partiti. Finché non si arriverà all'elezione alle cariche politiche tramite sorteggio, modalità già sperimentata in Islanda due anni fa per nominare i 25 costituenti, o non si diffonderà la "democrazia deliberativa" - un processo decisionale fondato su una discussione approfondita, dialogica e "oggettiva" di un campione rappresentativo di cittadini - i partiti rimangono al centro della scena. Per mancanza di alternative.

Ma non solo. La sopravvivenza dei partiti dipende anche dalla constatazione che oggi, contrariamente a quanto si dice, non sono più deboli rispetto a un tempo. Avranno meno iscritti e meno sedi ma dispongono in abbondanza di soldi, di personale, di competenze, di reti di relazioni, di strutture. E continuano a determinare o a influenzare le nomine in una pluralità di enti, commissioni, consigli. Grazie alle loro risorse materiali e alla loro penetrazione nella società civile i partiti mantengono il centro della scena.

La terza ragione, più nobile se vogliamo, è che i partiti creano al loro interno uno "spazio di eguaglianza": le differenze personali in termini di risorse economiche, di capitale culturale, di centralità sociale, che inducono uno squilibrio nelle relazioni tra le persone, si appiattiscono all'interno dei partiti. Le diseguaglianze sociali vengono riequilibrate consentendo anche a chi non è provvisto di risorse economiche di svolgere una funzione dirigente e di occupare cariche. Certo, questa funzione equalizzatrice è andata appannandosi negli ultimi decenni, in Italia come altrove. Si è riaffacciata una tendenza al neo-notabilato di cui, mutatis mutandis, il governo Monti rappresenta una incarnazione, seppure involontaria. Ma "l'autorità della democrazia", come ha scritto recentemente il filosofo politico David Estlund, non si può fondare solo sulla competenza dell'esperto.

Poi il governo Monti ha avuto anche un effetto del tutto imprevisto, benché in linea con il nostro costume nazionale: l'oblio immediato dei guasti e delle responsabilità del passato. Il governo precedente, e più specificatamente il suo capo, vengono ogni giorno di più assolti da ogni manchevolezza e perdonati per le loro incapacità. Non solo. Tutta la classe dirigente del Pdl ripete all'unisono che Silvio Berlusconi ha fatto "volontariamente" un passo indietro per il bene del Paese pur disponendo della maggioranza e pur essendo stato "insediato" a Palazzo Chigi dal voto degli italiani. Ovviamente tutto ciò è falso come l'ottone: il Cavaliere è stato costretto alle dimissioni suo malgrado, dalla liquefazione della sua maggioranza, oltre che dal discredito interno e internazionale. Ma il clima da union sacrée per la salvezza della patria favorisce l'amnesia e consente ricostruzioni fantasiose come queste. L'ottima stampa di cui gode il governo Monti ha quindi un effetto paradosso: invece di rimarcare la distanza siderale tra il governo del bunga bunga e l'odierna serietà-seriosità dei professori, stende un velo sul passato. Ha ragione l'avvocato Mills: l'Italia è un Paese cattolico, e qui si perdona tutto.

Insomma, dopo 100 giorni il governo Monti incide su più fronti: da un lato solleva e redime (il Cavaliere) e dall'altro condanna e affossa (i partiti). Per vie impreviste la buona stella sorge ancora ad Arcore.

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« Risposta #67 inserito:: Marzo 24, 2012, 03:04:53 pm »

Polemica

Non sono partiti, sono locuste

di Piero Ignazi

All'ultimo giro sono state 94 (avete letto bene: 94) le liste che hanno goduto di finanziamenti pubblici.

Quelle che erano associazioni di cittadini con un comune ideale sono diventate solo imprese.

Anzi, macchine da soldi a spese dello Stato

(23 marzo 2012)

Non riusciamo a toglierci dalla testa un'immagine ricevuta, consolatoria quanto le favole: che i partiti politici siano, come lo erano nel passato, delle organizzazioni attive, dedite al bene comune, disinteressate, parsimoniose, presenti ovunque e rigurgitanti di attivisti pronti a diffondere il verbo. Un concentrato di virtù, insomma.

Si potrà sorridere di questa raffigurazione oleografica ma gran parte dell'opinione pubblica quando parla di partiti cade in uno stato schizofrenico: per loro sono angeli e demoni allo stesso tempo. Da un lato, richiamano ancora, per riflesso in un mitico e lontano passato, quegli edificanti tratti di cui sopra, dall'altro sono tutto il contrario e meritano ogni vituperio, tant'è che meno del 10 per cento li considera organizzazioni degne di fiducia.

Certo, molte delle funzioni e delle caratteristiche dei partiti si sono isterilite: perché non servono più. Questo per la semplice ragione che è mutata radicalmente la società che ha fatto da levatrice ai partiti di massa. Quelle condizioni di segmentazione sociale in gruppi omogenei, di vite ordinate su ritmi standard lavoro-casa, di divertimenti collettivi e non individualizzati, di infinitamente minore benessere, di rigide stratificazioni in condizioni occupazionali ben definite e condivise da grandi numeri, si sono esaurite da molti decenni. Quella società industriale è tramontata e siamo entrati nell'era post-industriale, cioè nella società dei servizi, del lavoro fondato sulla conoscenza e sull'interazione con gli altri più che sulla capacità e la fatica manuale. Con al centro l'individuo, e non più soggetti collettivi.

Come hanno reagito i partiti di fronte a questo cataclisma che minava le loro fondamenta? Cercando riparo laddove potevano trovarlo: nello Stato. Per reggere alla perdita di contatto con una società alla quale non sono più "adatti", i partiti hanno ceduto alla tentazione di usare le risorse pubbliche a loro favore. Passo dopo passo si sono incistati nelle pieghe dell'amministrazione e del settore pubblico dell'economia. Laddove vi erano burocrazie dotate di forte spirito di corpo, come in Francia, o dove l'economia di Stato era di dimensioni ridotte o, infine, dove l'ethos collettivo impediva arrembaggi troppo scomposti, i partiti hanno mantenuto le distanze. In un Paese come il nostro, patria della "clientela e parentela", con un'amministrazione permeabilissima e un ampio settore pubblico, i partiti si sono trasformati in locuste. Ma oltre ai benefit indiretti di una lottizzazione selvaggia hanno preteso anche denaro sonante dalle casse dello Stato.

Il flusso di denaro pubblico che arriva oggi ai partiti italiani supera di molte lunghezze quello che viene dalle donazioni dei privati, dalle tessere e dalle altre attività di autofinanziamento. I partiti tutti sono "dipendenti" dallo Stato per il loro funzionamento. Senza quei soldi scomparirebbero. Anzi, siamo arrivati al paradosso che i partiti sono vere e proprie "macchine da soldi". Oggi fondare un partito equivale ad avviare una start up di successo: la generosità del rimborso elettorale (un euro per ogni cittadino elettore per i cinque anni della legislatura anche se questa si chiude in anticipo) e la rilassatezza dei criteri di accesso (almeno l'1 per cento o l'elezione di un parlamentare) hanno riempito le casse anche di formazioni minuscole. La prova di quanto sia redditizio presentarsi alle elezioni, a ogni livello, dalle europee alle regionali, viene dal numero delle liste ammesse al rimborso: dalle 30 del 2001 siamo passati alle 94 del 2008.

Come le stagioni, i partiti non sono più quelli di una volta. Stanno cambiando ma non sanno bene come. Nel frattempo si rincantucciano nello Stato approfittando smodatamente delle sue risorse.

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« Risposta #68 inserito:: Aprile 18, 2012, 04:16:15 pm »

Nella Lega non cambierà nulla

di Piero Ignazi

Il Carroccio è nato e ha avuto successo come movimento xenofobo, populista, antidemocratico.

E non c'è nessun motivo di credere che Maroni toccherà questa formuletta magica, che è uguale a quella di Le Pen in Francia

(12 aprile 2012)

Il più longevo segretario di partito di tutta l'Europa occidentale ha ceduto lo scettro. Umberto Bossi lascia dopo oltre vent'anni di regno indiscusso. E' una caduta rovinosa, senza la grandezza politica di un Bettino Craxi, responsabile delle tangenti miliardarie arrivate al suo partito, ma immune da interessi personali. Craxi si erse orgoglioso e cocciuto fino alla cecità nell'invocare se non la liceità almeno la legittimità dei finanziamenti occulti e illegali, perché "così facevan tutti". Bossi frana sulle manie di grandezza e sulla voluttà del lusso della sua famiglia. Tra diplomi di studio comprati, interventi edilizi faraonici e auto di lusso, c'è un sentore da arraffamento piccolo borghese. La miseria morale di questi episodi dovrebbe finalmente lacerare il manto di ipocrisia con il quale è stata ricoperta e camuffata la politica del Carroccio. Il successo elettorale dell'ultimo decennio, e soprattutto quello degli ultimi anni, è stato letto da tanti analisti come il trionfo di una politica vicina alla gente, interprete dei "veri" bisogni dei cittadini, presente laddove emergono i lamenti degli onesti lavoratori. Molti hanno tessuto lodi al partito "radicato nel territorio" sorvolando sul carattere verticistico e antidemocratico del suo assetto interno. Basti pensare che la Lega non tiene un congresso da dieci anni!

Lo strabismo del circuito politico-mediatico nei confronti della cultura politica e della visione del mondo leghista è impressionante. Mentre una mole sempre più abbondante di studi e ricerche (Gianluca Passarelli e Dario Tuorto, "Lega e Padania. Storie e luoghi delle Camicie verdi") dimostra le somiglianze tra il Carroccio e gli altri partiti della destra populista europea, dal Front National di Marine Le Pen in giù, le cannonate da riservare ai migranti, l'incitazione ai pogrom nei campi dei Rom, l'islamofobia più scatenata, vengono derubricate a sbavature. Nei confronti della Lega e dei suoi dirigenti scattano subito tutte le giustificazioni. Anche i gesti osceni ripetutamente esibiti da Bossi quand'era ministro della Repubblica sono passati in cavalleria. Un ministro francese, tedesco o inglese che si fosse comportato allo stesso modo sarebbe stato rimosso. Da noi ci si ride sopra. Del resto, se si fosse accettato che Lega era - ed è - un partito anti-sistemico e anti-repubblicano si sarebbe messa in discussione la legittimità dei governi di centrodestra (poi, cosa ci fosse di centro nell'ultimo governo Berlusconi rimane un mistero).

La distorsione populista di questi ultimi lustri ha fatto sì che il voto, il successo elettorale, fossero l'unica ratio di legittimità. Una sorta di spada di Brenno gettata sulle urne. Invece è l'adesione ai principi fondanti del costituzionalismo liberale che fornisce legittimità a governare. E di questa adesione la Lega non ha mai dato prova. Perché la sua ideologia, favolette celtiche a parte, è imbevuta di xenofobia, chiusura e separatezza. Che poi ci sia qualche amministratore leghista che si è ben comportato non importa, così come il riformismo dei comunisti emiliani degli anni Cinquanta non implicava che il Pci fosse un partito pro-sistema.

Per quanto possa apparire paradossale, l'uscita di scena di Bossi non cambia nulla nella Lega, a meno di una divisione interna tra Lega Lombarda e Liga Veneta, essendo quest'ultima abbastanza infastidita dai pasticci che combinano i cugini lombardi - ai quali, non a caso, ha imposto un membro del triumvirato e il tesoriere. Non cambia nulla perché il Carroccio non ha nemmeno avviato un dibattito sui tre punti cardinali della sua politica:
1. Rimanere ancorato al suo recinto anti-sistemico proseguendo verso il fine ultimo, la secessione della Padania, oppure limitarsi a rivendicare un "normale" federalismo;

2. Conservare il suo armamentario xenofobo e populista, oppure dirigersi verso un più tradizionale moderatismo conservatore;

3. Mantenere l'appello antipolitico che raccoglie consensi trasversali oppure concentrarsi sul terreno delle politiche economiche per rappresentare gli interessi del lavoro autonomo e imprenditoriale. In ogni caso, l'epopea leghista tramonta con il suo capo.


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« Risposta #69 inserito:: Maggio 19, 2012, 10:40:51 am »

Opinione

Perché la Casta non molla

di Piero Ignazi

I numeri parlano chiaro: senza i contributi pubblici, i partiti perderebbero oltre il 70 per cento dei loro introiti.

E con la loro attuale crisi di credibilità, non riuscirebbero mai a ottenere contributi volontari, come in America.

Quindi resistono a oltranza (e peggiorano la crisi di credibilità)

(08 maggio 2012)

Pia illusione pensare che i partiti italiani possano fare a meno di forme di finanziamento pubblico. I partiti sono macchine complesse che macinano continuamente attività politica; e tutto ciò costa, dal mantenimento delle sedi all'acquisto di materiale, dalle spese di comunicazione e advertising allo stipendio o al rimborso delle centinaia (oppure migliaia) di persone che lavorano per il partito, e così via.

Detto questo, va però sottolineato che, in questi ultimi anni, grazie alla "generosità" dello Stato, molti partiti hanno accumulato avanzi di bilancio. Quindi, una contrazione delle dotazioni pubbliche non li ridurrebbe sul lastrico. Soprattutto farebbe tornare in auge l'idea, forse romantica ma certo non disprezzabile, che la politica non è un "mestiere" redditizio. Tanto per fare un esempio, oggi riuscire ad entrare in un "listino" alle elezioni regionali significa assicurasi un reddito da 100 mila euro netti all'anno per cinque anni, magari solo per essere esperte igieniste dentali.

A causa di questi emolumenti la classe politica della seconda Repubblica, in continuità con la degenerazione del Psi di rito ambrosiano, gode di uno stile di vita da "privilegiati", lontano dagli standard delle persone comuni. La professione del politico è stata vissuta da tanti eletti come un opportunità di arricchimento economico e non come un servizio.

Ora, di fronte alla protesta montante i partiti "dovrebbero" tagliare le risorse pubbliche che ricevono. Sgombriamo però il campo dall'idea che possano vivere solamente di contributi volontari: negli ultimi quindici anni la componente delle entrate non statali si colloca sul 25-30 per cento del totale, con una tendenza generale al calo. La Lega Nord si differenzia da tutti gli altri partiti per la capacità di autofinanziamento nettamente superiore (ma chissà cosa pensano oggi i militanti leghisti dei loro soldi andati a finanziare l'ingordigia e le spese allegre della "Family").

E' comunque vero che esistono diverse strategie e modalità per convincere i cittadini a versare soldi ai partiti. Una recente ricerca in merito di A. F. Ponce e S. Scarrow, ("Who Gives? Partisan Donations in Europe") conferma che il tax benefit, oggi invocato da molti, non è né diffuso né rilevante. Piuttosto valgono due aspetti: l'enfasi che il partito stesso mette sulla richiesta di sovvenzioni ai privati, e "l'immagine" del partito presso l'opinione pubblica, la sua credibilità e stima.

Sul primo aspetto gli autori notano che, nonostante il grande successo della campagna di fund raising di Barack Obama alle presidenziali del 2008 (tanti, piccoli contributi), i partiti europei disdegnano questa possibilità: la maggior parte dei loro Web-site non danno indicazioni su come contribuire al partito e non citano nemmeno i relativi benefici fiscali. Questa pigrizia lascia presumere una certa preoccupazione da parte dei partiti di "esporsi" al pubblico per chiedere soldi, per il semplice motivo che sono consapevoli che la loro immagine non è tale da far mettere mano al portafoglio (se non per precisi interessi).

E si torna al punto dell'immagine dei partiti. Quella dei partiti italiani è così deteriorata che difficilmente sollecita donazioni. Senza indulgere nel pauperismo, altro atteggiamento estremo da evitare - i politici sono pur sempre, a giusto titolo, parte della classe dirigente di un Paese - i partiti devono scendere dal loro mondo esclusivo e "dorato". Solo così possono recuperare credibilità e forse motivare qualcuno a finanziarli.

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« Risposta #70 inserito:: Maggio 27, 2012, 09:58:11 am »

La fine

B. in confusione totale

di Piero Ignazi

Il mondo narrato dal Cavaliere per quasi vent'anni non esiste più. Lui lo sa, come sa che Pdl è alla frutta. Ma non ha idea di cosa inventarsi.

Tanto più che anche la Lega si squaglia. Come avvenne per la Dc e il Psi nel 1994

(25 maggio 2012)

Siamo al secondo atto. Un anno fa la caduta del muro di Milano e il successo di referendum emarginati e snobbati. Oggi l'onda lunga di quel desiderio di cambiamento ha infranto altri muri. E non si fermerà qui. Il sistema partitico post-1994 è arrivato al capolinea: Pdl e Pd erano dei "residui" del big bang bipolare del 1994. Ora sono entrambi investiti dall'insofferenza verso una politica giudicata inefficiente, corrotta, "vecchia".

Il trionfalismo di Pierluigi Bersani nel commento del dopo-voto è fuori posto. Certo il Pd ha guadagnato sindaci ma i suoi voti si stanno volatilizzando. Non riesce più a trattenerli nemmeno nelle sue zone di insediamento tradizionale, e soprattutto in Emilia-Romagna, dove la Lega e i grillini avevano rosicchiato voti alle regionali del 2010. Ora l'emorragia continua verso il non-voto o di nuovo verso il MoVimento 5 Stelle. Dalla ritirata della Lega il partito di Bersani non ha recuperato nulla sotto il Po. I voti che guadagna al Nord sono di natura diversa: non sono "suoi" per antica consuetudine, bensì sono voti mobili, volatili, oggi qui domani altrove. In sostanza, il Pd non riesce a raccogliere i frutti della sua vittoria sul forzaleghismo a trazione berlusconiana.

Il mondo narrato dal Cavaliere non esiste più, travolto dalla crisi e dal bunga bunga. Lo stesso vale per le feste celtiche delle camicie verdi. Mentre la Lega è ormai fuori gioco, Berlusconi, con le risorse di cui dispone, può ritornare in una versione riveduta e corretta a condizionare la politica italiana. Non sarà più il dominus del centro-destra, ma quest'area esiste ancora. Gli elettori moderati hanno ritirato la delega a questo (impresentabile) centro-destra. Sono alla finestra ad aspettare. Angelino Alfano ha promesso "la più grande novità politica" degli ultimi vent'anni. Al netto di questa boutade fuori luogo, dal Pdl devono venire delle novità, pena l'inabissamento del partito. Ma può non bastare perché la situazione ricorda quella di vent'anni fa. Anche allora la Dc diceva che doveva cambiare, solo che nel suo percorso di rinnovamento perse per strada alcuni pezzi importanti, dalla Rete di Leoluca Orlando (corsi e ricorsi) ai Riformatori di Mario Segni. E alla fine arrivò esausta all'appuntamento del 1994. Inoltre, come la Dc vide liquefarsi il suo alleato storico, il Psi di Bettino Craxi, altrettanto il Pdl si ritrova orfano della Lega, avvitata in una crisi finale.

E' allora il momento dei centristi di Casini (incluso il movimento di Luca Montezemolo che ha ormai acceso i motori ovunque)? Le chances del leader dell'Udc si giocano sul suo rapporto con il governo. Vale a dire: da un lato, grazie al suo sostegno convinto a Monti, Casini può candidarsi a rappresentare quell'esperienza con una lista/partito infarcita di ex ministri; dall'altro, se il governo adotta provvedimenti sempre più indigesti ai fedelissimi di Berlusconi o, per altri motivi, agli ex An, Casini può raccogliere in un nuovo contenitore i transfughi moderati. In entrambe le situazioni ha di fronte a sé le praterie di un voto moderato in cerca di rappresentanza. A questo punto può ritirarsi spaventato di fronte ai grandi spazi e puntare alla rendita di posizione, invocando una nuova legge elettorale di tipo proporzionale. Così, farebbe da ago della bilancia, un ruolo che è congeniale alla sua storia politica. Oppure può "osare" e sostenere una riforma elettorale impostata sul doppio turno alla francese convincendosi che solo con questo sistema le ali più moderate di ciascun schieramento hanno la meglio sui concorrenti più radicali.

L'offerta politica per le prossime elezioni è tutta da definire. L'insoddisfazione per la politica e l'usura dei partiti tradizionali obbligano tutti a cambiare, anche per contenere l'onda grillina che continuerà a montare. A sinistra il Pd sembra il più restio a mutamenti, con tutti i rischi che ne conseguono. A destra il Pdl non sa più cosa fare. I centristi, se vogliono giocare in grande, hanno l'occasione di approfittare di un centro-destra in disarmo. Ma solo il doppio turno realizza un bipolarismo ben temperato.

 
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« Risposta #71 inserito:: Giugno 20, 2012, 11:21:28 pm »

Opinione

Cosa vuol fare il Pd da grande?

di Piero Ignazi

Il crollo del centrodestra nei consensi non regala un solo punto percentuale in più al partito di Bersani.

Perché ai suoi vertici c'è un gruppo dirigente ancorato al secolo scorso, e terribilmente autoreferenziale

(18 giugno 2012)

In meno di un anno il rapporto tra PdL e Pd si è capovolto. Non è solo questione di numeri. Certo, la discesa del Popolo della Libertà fa impressione visto che oggi arriva, a fatica, al 20 per cento mentre il Partito democratico mantiene grosso modo le posizioni, tra un 25 e un 28 per cento. E' soprattutto l'immagine della leadership a fare la differenza. Nel PdL l'eclisse di Berlusconi ha lasciato il partito in uno stato tra il luttuoso e lo spaesato. Non c'è più il dominus che guida e rassicura. Angelino Alfano si è rivelato un semplice portavoce e i vari cacicchi pensano a organizzare, ciascuno per proprio conto, le linee di difesa dal naufragio che incombe. E gli elettori del centro-destra, abituati alle certezze granitiche ripetute ad infinitum da tutto il coro dei berluscones, di un partito afono e confuso non sanno che farsene. Infatti rimangono alla finestra in attesa di una alternativa che li rappresenti.

Al confronto, il Pd sembra una roccia. Il segretario ha ricompattato il partito e si butta nella sfida delle primarie con una serenità da "forza tranquilla". Non solo: anche i suoi riottosi alleati non stanno troppo bene. Di Pietro alza i toni perché è usurato quanto il suo contendente storico e insidiato dal grillismo; poi, dietro di lui, il vuoto (o gli Scilipoti e i De Gregorio). Vendola non esce da una nicchia radical-intimista e sostalzialmente periferica che ne azzoppa le ambizioni di leadership nazionale. Eppure, se di fronte al crollo dell'avversario storico il Pd rimane al palo, significa che qualcosa non va. Tre (almeno) sono le zavorre di Bersani.

1) La resistenza corporativa di una classe dirigente che proviene, culturalmente e politicamente, dal Novecento. Esempio: come si fa a nominare un distinto medico come Antonello Soro all'Authority per la Privacy? L'unica spiegazione plausibile è la "retribuzione" (in termini sociologici) a un politico di lungo corso, peraltro non in prima linea, e a una componente del partito (per gli appassionati di archeologia politica: ex Margherita, tendenza Ppi). Secondo esempio: come si fa a non proporre una legge che tagli i benefit ai partiti e a non adottarla subito indipendentemente dalla sua approvazione? L'elenco potrebbe continuare. A dimostrazione che il Pd si mostra terribilmente in linea con i peggiori stereotipi della partitocrazia. E su tutto ciò morde ai polpacci il MoVimento 5 Stelle, questo sì "una costola della sinistra", ma altrettanto ingestibile come l'originale - cioè la Lega nord, così definita da Massimo D'Alema.

2) Il rapporto centro-periferia. In connessione con la chiusura a riccio della classe dirigente il rapporto tra il centro e la periferia mostra le prime crepe. Gli esiti delle primarie evidenziano un impoverimento di quella che era la vera linfa vitale del partito: la sua classe dirigente locale. Quando si fanno errori clamorosi come quelli di Parma (ma è uno tra i tanti) allora vuol dire che anche in periferia il Pd non è più in contatto con la società civile. Con un'élite nazionale autoreferenziale anche i terminali locali si isteriliscono.

3) La legittimazione della leadership. Se il Pd decide che il proprio segretario, eletto appena due anni fa (non vent'anni prima come tutti gli altri), non è legittimato a rappresentare il partito per guidare la coalizione di governo, allora sarebbe tempo di buttare a mare uno statuto fin troppo fantasioso e di ripensare da cima a fondo cosa vuol fare il Pd da grande. In tutti i partiti europei sono i rispettivi leader a guidare il proprio partito o la coalizione nella sfida elettorale. E ovviamente il leader deve essere scelto dai membri del proprio partito, non dagli altri. Il centro-sinistra ha fatto ricorso alle primarie di coalizione, all'epoca, perché il candidato proposto, Romano Prodi, era un "senza partito". Ma quell'eccezione non può diventare la norma. Perché se così fosse non avrebbe più molto senso parlare di "partito".

Meglio affidarsi alla Rete, allora. Magari vien fuori qualche faccia nuova, e non necessariamente brufolosa.

   
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« Risposta #72 inserito:: Luglio 11, 2012, 10:04:04 am »

I partiti all'ombra di Monti

di Piero Ignazi

Il premier sembrava destinato a finire la sua esperienza sotto la tutela dei vecchi politici. Invece è successo il contrario. E ora la sua presenza 'ingombrante' spaventa i leader

(10 luglio 2012)

Ormai, di Mario Monti i partiti non si libereranno facilmente. Fino alla scorsa settimana, indebolito dall'aggravarsi della crisi con conseguente, crescente riottosità da parte dei cittadini a reggere l'accresciuta imposizione fiscale, da uscite improvvide di alcuni suoi ministri e dalla difficoltà a far funzionare l' apparato amministrativo il presidente del Consiglio sembrava sul punto di consumare la sua esperienza "sotto tutela". Il più baldanzoso di tutti nella carica contro il governo Monti era il redivivo Berlusconi. Al vecchio Cavaliere non pareva vero potersi vendicare di chi l'aveva disarcionato e riprendere a manovrare per linee interne contando su vecchi compagni di strada, come la Lega, e su sponde impreviste, come Antonio Di Pietro.

BERLUSCONI, e con lui molti altri, non hanno però ancora capito che l'arena nazionale non è più il solo "spazio" nel quale si valuta la politica di un esecutivo. Esiste anche una sfera globale i cui giudizi sono sempre più influenti. In quest'ambito i vari governi nazionali sono giudicati in base a un gioco di rimandi tra l'immagine del paese e quella dei suoi leader. Un paese di prima grandezza, solido ed efficiente ma rappresentato da un leader inadeguato abbassa sensibilmente lo standing internazionale della nazione e ne indebolisce l'influenza. La presidenza di Nicolas Sarkozy esemplifica bene questo squilibrio: una nazione rilevante come la Francia ha perso gradualmente di peso nell'arena internazionale proprio a causa della contraddittorietà e inconsistenza del suo presidente. Allo stesso modo, ma in maniera ben più drammatica, la lunga presenza di Silvio Berlusconi alla guida dell'Italia ne ha disastrosamente offuscato l'immagine. Il nostro "downgrading" non inizia improvvisamente l'estate scorsa quando, in effetti, poco era cambiato per far scatenare da un giorno all'altro la speculazione. Semplicemente, da molti anni nella community globale si erano riaffacciati i peggiori stereotipi dell'italiano furbo e pasticcione, affarista e inaffidabile, corrotto e levantino. A un certo momento qualcuno ha detto basta e si è rotta la diga.

MARIO MONTI RAPPRESENTA tutto il contrario agli occhi della comunità internazionale. Ma non è semplice invertire una tendenza al "downgrading". Per dissipare diffidenze e dissolvere stereotipi serve tempo. E anche occasioni speciali, circostanze fortunate. Il Consiglio europeo di Bruxelles del 28-29 giugno ha fornito una di queste preziose opportunità. L'attenzione di tutta la comunità degli affari era concentrata su quell'evento e lì è emerso come protagonista (e vincitore) il presidente Monti. Di fronte a questo successo internazionale l'arena della politica interna rimpicciolisce. I partiti si ritrovano ridimensionati, ricondotti a una condizione di "marginalità" rispetto al governo. I propositi più bellicosi della destra forza-leghista, in versione riveduta e ridotta, per ora, rientrano. Allo stesso tempo, le forze più responsabili del centro e della sinistra, che hanno continuato a difendere il governo, guadagnano spazio. Monti, pur dovendo contare ancora sul voto del Pdl, non può far finta di non vedere o sentire la differenza di toni e giudizi tra destra e centro-sinistra. Dovrebbe prenderne atto. E distinguere anche chi nel Pdl ha atteggiamenti concilianti e chi vuole invece sfasciare tutto. Il governo oggi è più forte. Si è ricreata una situazione da nuovo inizio. Può finalmente prendere quelle decisioni che fin qui ha rimandato per mancanza di convinzione o coraggio: tagliare rendite e privilegi, sprechi e ruberie, evasioni ed elusioni; favorire merito e intrapresa, giustizia e legalità, risparmio e lavoro. Ora è lecito attendersi uno scatto in avanti.

   
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« Risposta #73 inserito:: Settembre 16, 2012, 04:30:58 pm »

Opinione

Bersani, non fare come Occhetto

di Piero Ignazi

Nel '94 il leader del Pds veniva da elezioni locali vincenti, era dato in testa dai sondaggi e aveva messo in piedi una coalizione pronta ad acchiappare tutto. Poi finì come sappiamo. Ora il Pd rischia di fare la stessa fine

(11 settembre 2012)

Il Pd vede materializzarsi lo spettro del 1994 giorno dopo giorno. Allora il maggior partito della sinistra, il Pds, aveva costruito una coalizione destinata (così sembrava) a vincere le elezioni politiche dopo i ripetuti successi alle comunali in tutte le grandi città, Milano esclusa. Era la "gioiosa macchina da guerra" di Achille Occhetto. Anche oggi il Pd si avvia verso la prossima scadenza elettorale nella convinzione di essere il vincitore designato. Invece ci sono molte incognite lungo il percorso. Almeno quattro.

Una riguarda il campo avverso. La preannunciata implosione del Pdl si è rivelta più un wishful thinking (un pio desiderio, in altri termini) che un'ipotesi concreta. Il ritorno in campo di Silvio Berlusconi ha azzerato tutte le velleità di vita autonoma dei vari sub-leader. Con le buone o le cattive, il Cavaliere ha convinto ex An e moderati in perenne sofferenza a convivere ancora con lui. E ha archiviato il rapporto con l'amico Umberto Bossi per annodare legami cordiali con il nuovo gruppo dirigente leghista. La sicumera ostentata da Roberto Formigoni al convegno di Comunione e liberazione è rivelatrice del buon feeling con Bobo Maroni. La rinnovata unità del vecchio centro-destra che capacità di attrazione avrà sulle nuove liste moderate e centriste pronte a schierarsi?

LA SECONDA INCOGNITA si chiama Mario Monti. Il presidente del Consiglio ha ripetutamente affermato che la sua esperienza politica (di governo) si chiuderà alla fine della legislatura e non c'è motivo di dubitare delle sue parole. Ma la politica del governo Monti non è solo una parentesi bensì costituisce un lascito. Alcune scelte sono state affrettate, inadeguate o persino illusorie (che ne è dell'equità?) ma è su di esse che ci si confronterà in campagna elettorale. Qual è il grado di «distinzione senza sconfessione» che il Pd è in grado di articolare senza perdere la faccia né spaccarsi?

A questo dilemma si connette il terzo punto: la strategia delle alleanze. Non c'è dubbio che l'elettorato e il personale politico dei democratici siano molto più vicini a Sel rispetto all'Udc. Ma oggi il Pd governa con l'Udc mentre Sel è all'opposizione. La partecipazione, convinta e sofferta allo stesso tempo, del Pd al governo Monti impedisce un abbraccio esclusivo con Vendola. La sconfessione di quell'esperienza farebbe perdere a Bersani la credibilità guadagnata in questi mesi anche a livello internazionale. La domanda che circola nelle cancellerie e nel mondo economico finanziario riguarda proprio la figura del successore di Monti. Per questo il Pd non può flirtare con chi esibisce propositi euroscettici, a incominciare dai grillini. E anche Vendola deve chiarire ogni ambiguità in merito.

INFINE LA QUARTA INCOGNITA - il nuovo (?) sistema elettorale - potrebbe rappresentare la soluzione dei problemi del Pd. Il ritorno al proporzionale e il mantenimento del Porcellum sono due sciagure. Il proporzionale produce alta frammentazione, nessuna indicazione su chi governerà, coalizioni mutevoli e instabili con una golden share in mano a Casini e ulteriori nuovi compagni di cordata. Un incubo. Il Porcellum a Bersani andrebbe benissimo: con chiunque si allei le probabilità di vittoria sono alte. Però rimane il problema di governare, che non è irrilevante. Il maggioritario a doppio turno, alla francese, è invece la soluzione ideale. Il Pd diventa l'inevitabile polo di attrazione di tutta la sinistra e allo stesso tempo può offrire spazio all'Udc in una coalizione ampia ma "gestita" dal partito maggiore senza troppi condizionamenti. Finalmente la governabilità. La posta in gioco è importante: da come il partito di Bersani affronterà le quattro incognite che gravano sul suo futuro dipende non solo il destino del Pd ma quello del nostro sistema.

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« Risposta #74 inserito:: Ottobre 19, 2012, 05:01:44 pm »

Opinione

Bersani, non fare come Occhetto

di Piero Ignazi

Nel '94 il leader del Pds veniva da elezioni locali vincenti, era dato in testa dai sondaggi e aveva messo in piedi una coalizione pronta ad acchiappare tutto. Poi finì come sappiamo. Ora il Pd rischia di fare la stessa fine

(11 settembre 2012)

Il Pd vede materializzarsi lo spettro del 1994 giorno dopo giorno. Allora il maggior partito della sinistra, il Pds, aveva costruito una coalizione destinata (così sembrava) a vincere le elezioni politiche dopo i ripetuti successi alle comunali in tutte le grandi città, Milano esclusa. Era la "gioiosa macchina da guerra" di Achille Occhetto. Anche oggi il Pd si avvia verso la prossima scadenza elettorale nella convinzione di essere il vincitore designato. Invece ci sono molte incognite lungo il percorso. Almeno quattro.

Una riguarda il campo avverso. La preannunciata implosione del Pdl si è rivelta più un wishful thinking (un pio desiderio, in altri termini) che un'ipotesi concreta. Il ritorno in campo di Silvio Berlusconi ha azzerato tutte le velleità di vita autonoma dei vari sub-leader. Con le buone o le cattive, il Cavaliere ha convinto ex An e moderati in perenne sofferenza a convivere ancora con lui. E ha archiviato il rapporto con l'amico Umberto Bossi per annodare legami cordiali con il nuovo gruppo dirigente leghista. La sicumera ostentata da Roberto Formigoni al convegno di Comunione e liberazione è rivelatrice del buon feeling con Bobo Maroni. La rinnovata unità del vecchio centro-destra che capacità di attrazione avrà sulle nuove liste moderate e centriste pronte a schierarsi?

LA SECONDA INCOGNITA si chiama Mario Monti. Il presidente del Consiglio ha ripetutamente affermato che la sua esperienza politica (di governo) si chiuderà alla fine della legislatura e non c'è motivo di dubitare delle sue parole. Ma la politica del governo Monti non è solo una parentesi bensì costituisce un lascito. Alcune scelte sono state affrettate, inadeguate o persino illusorie (che ne è dell'equità?) ma è su di esse che ci si confronterà in campagna elettorale. Qual è il grado di «distinzione senza sconfessione» che il Pd è in grado di articolare senza perdere la faccia né spaccarsi?

A questo dilemma si connette il terzo punto: la strategia delle alleanze. Non c'è dubbio che l'elettorato e il personale politico dei democratici siano molto più vicini a Sel rispetto all'Udc. Ma oggi il Pd governa con l'Udc mentre Sel è all'opposizione. La partecipazione, convinta e sofferta allo stesso tempo, del Pd al governo Monti impedisce un abbraccio esclusivo con Vendola. La sconfessione di quell'esperienza farebbe perdere a Bersani la credibilità guadagnata in questi mesi anche a livello internazionale. La domanda che circola nelle cancellerie e nel mondo economico finanziario riguarda proprio la figura del successore di Monti. Per questo il Pd non può flirtare con chi esibisce propositi euroscettici, a incominciare dai grillini. E anche Vendola deve chiarire ogni ambiguità in merito.

INFINE LA QUARTA INCOGNITA - il nuovo (?) sistema elettorale - potrebbe rappresentare la soluzione dei problemi del Pd. Il ritorno al proporzionale e il mantenimento del Porcellum sono due sciagure. Il proporzionale produce alta frammentazione, nessuna indicazione su chi governerà, coalizioni mutevoli e instabili con una golden share in mano a Casini e ulteriori nuovi compagni di cordata. Un incubo. Il Porcellum a Bersani andrebbe benissimo: con chiunque si allei le probabilità di vittoria sono alte. Però rimane il problema di governare, che non è irrilevante. Il maggioritario a doppio turno, alla francese, è invece la soluzione ideale. Il Pd diventa l'inevitabile polo di attrazione di tutta la sinistra e allo stesso tempo può offrire spazio all'Udc in una coalizione ampia ma "gestita" dal partito maggiore senza troppi condizionamenti. Finalmente la governabilità. La posta in gioco è importante: da come il partito di Bersani affronterà le quattro incognite che gravano sul suo futuro dipende non solo il destino del Pd ma quello del nostro sistema.

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