LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Ottobre 31, 2007, 12:14:16 am



Titolo: Piero IGNAZI.
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2007, 12:14:16 am
POTERE&POTERI

Che cosa manca a Fini
di Piero Ignazi


Dopo 13 anni il leader di An deve ancora dare al suo partito la convinzione di essere 'normale'. Senza il bisogno di certificati di garanzia del Cavaliere  Qualche saluto romano non manca mai alle radunate di Alleanza nazionale. Si sa, la nostalgia è un mal sottile, che scende lentamente nelle vene. E così, nelle sezioni di An, dentro un armadio o in un angolo buio non manca mai qualche busto del Duce, qualche libro di memorie del ventennio, qualche ricordo epico di gesta militari (dalla parte dell'onore, ovviamente). Però, chi si fermasse a questi aspetti coglierebbe solo il lato folkloristico di Alleanza nazionale, buono, anzi ottimo, per qualche foto e qualche titolo ad effetto, e ne ricaverebbe un'immagine deformata.

Certo, la leadership di Alleanza nazionale ha fatto ben poco nei primi anni di vita del 'nuovo' partito per educare il proprio popolo alla fuoriuscita dalla nostalgia. Si è accontentata di sopire laddove scappavano dal senno iniziative e affermazioni troppo tinte di nero, e solo quando il clamore usciva dagli ambiti locali è intervenuta con pugno di ferro comminando espulsioni e commissariamenti. Comunque, a 13 anni dal lancio del marchio An, il punto dolente non è quello del taglio delle radici. La dirigenza nazionale lo ha metabolizzato da tempo e non c'è mai stato nessuno, a quel livello, che abbia innalzato lo stendardo della fedeltà all'Idea. Nemmeno Francesco Storace, nonostante la sua recente deriva, poteva essere arruolato in quella schiera. Al vertice, tutti erano convinti che il futuro si chiamasse Alleanza nazionale. E che Fini fosse il suo profeta. Persino nei momenti più acuti del solipsismo finiano, quando il leader imponeva agli esterrefatti compagni di ventura il diritto di voto agli immigrati o il sì al referendum sulla fecondazione artificiale, passando per il 'fascismo male assoluto', non c'era anima viva che pensasse seriamente di poter fare a meno di lui.

An non è risucchiata dal passato che, benché lentamente, inesorabilmente passa. Piuttosto,
è spaventata dal futuro. Fin qui ha rappresentato la forza moderatrice del populismo demagogico forzaleghista. La voce pacata a fianco degli sbraitamenti della coppia Berlusconi-Bossi. L'incarnazione di un minimo senso dello Stato rispetto all'arrembaggio e alla dilapidazione delle risorse pubbliche ad uso delle clientele siculo-padane. L'idea di una politica fatta con passione. Non per nulla i giovani di An si sentono superiori sul piano politico, culturale ed etico ai loro coetanei di Forza Italia e Lega, come dimostrato da una ponderosa e accurata ricerca condotta da Stéphanie Dechezelles dell'Università di Bordeaux sui giovani del centro-destra.

Ma se Alleanza nazionale si limita a giocare di sponda con gli alleati rischia di fare la parte dell'eterna giovane promessa che non sboccia mai. È vero che, al di là di ogni idiosincrasia o imbarazzo (indimenticabile quello di Fini a fianco di Berlusconi nella tumultuosa presentazione del semestre italiano di presidenza Ue al Parlamento di Strasburgo), il legame di ferro con il Cavaliere non si è mai intaccato. Ora, però, il partito è di fronte a un bivio. O spera che il leader di Forza Italia dopo eventuali, vittoriose elezioni si faccia magnanimamente da parte per incoronarlo (auguri.). Oppure conquista con la forza della politica il primato del centro-destra. Dalla fine della scorsa legislatura in poi, Fini ha imboccato la prima strada. Corollario di quella scelta era la nascita del partito unico del centro-destra: in sostanza, Forza Italia, con il suo fondatore ritirato in villa, spalancava le porte alle truppe finiane e si faceva tranquillamente egemonizzare. Negli ultimi due mesi, lo sponsorship frenetico del Cavaliere a un personaggio da rotocalco con la chioma rossa e le troupes al seguito ha incrinato quella prospettiva.

La recente manifestazione di Roma sulla sicurezza e il fisco, organizzata in solitaria da An, annuncia un cambiamento di strategia. Del resto, se vuole conquistare la leadership del centro-destra Alleanza nazionale deve contare sulle proprie forze. L'esibizione muscolare della scorsa settimana segna un primo punto. A questo atout il partito affianca un elettorato socialmente più centrale e moderno rispetto a quello degli altri partner del centro-destra: mentre Forza Italia sbanca tra le casalinghe (soprattutto anziane e con bassa istruzione) e nei pensionati, ed è abbandonato dagli studenti e dal ceto medio dipendente (- 6,9 e - 6,7 punti percentuali rispetto alla media dei suoi elettori), An attira non solo studenti (+ 3,9) ma anche operai (+ 1,8), ed è premiato dai lavoratori autonomi e dai liberi professionisti quasi quanto Forza Italia (+ 3,8 contro + 4,5).

Cosa manca allora ad An? La convinzione di essere un partito 'normale' e di non avere più bisogno del certificato di garanzia del Cavaliere. E di agire di conseguenza.

(29 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: Piero Ignazi - Armageddon in senato...
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2007, 05:44:29 pm
POTERE

Armageddon in senato

di Piero Ignazi


Le grida, le invettive, i lazzi lanciati contro Rita Levi Montalcini fotografano il degrado della lotta politica  Rita Levi MontalciniQuelle che un tempo furono aule auguste e solenni, dove galantomismo e rispetto, prevalevano sopra ogni divisione, sono ora diventate suburre incandescenti, dai cui spalti piovono insulti postribolari all'indirizzo degli avversari. Parliamo dell'odierno Senato della Repubblica, specchio fedele quanto angosciante della cultura politica che alberga in buona parte del paese. Le grida, le invettive, i lazzi, lanciati dalla quasi totalità dei senatori del centro-destra all'indirizzo di Rita Levi Montalcini, nel silenzio e nell'acquiescenza dei dirigenti politici di quello schieramento, fotografano il degrado della lotta politica italiana.

Una delle persone più illustri della cultura nazionale, una delle pochissime insignite di un premio Nobel in una disciplina scientifica, una donna di veneranda età, invece di essere omaggiata per il servizio che ha reso al suo paese, e che continua a rendere interpretando con senso del dovere esemplare il suo nuovo compito di senatrice, viene dileggiata ad ogni suo apparire dalle centurie dell'opposizione. L'attacco a cui viene quotidianamente sottoposta Rita Levi Montalcini rasenta la pura vigliaccheria perché mira ad intimidirla per indurla a disertare le sedute del Senato. Questo atteggiamento bullistico non cade dal cielo: riflette una cultura dell'odio, del disprezzo e dell'aggressione che sta montando da troppo tempo nel cuore del centro-destra. I titoli dei giornali più in sintonia con il forzaleghismo, vero asse portante della Cdl, dal 'Giornale' a 'Libero' al nuovo 'Panorama' con l'elmetto, sorvolando su altri organi di informazione più di nicchia, ma su cui si abbeverano comunque i militanti di quell'area, trasudano di una ostilità sorda e rancorosa contro i 'nemici'.

Alcuni buontemponi continuano a trastullarsi con l'immagine della sinistra unita solo dal nemico Berlusconi; accecati come sono dal loro furore contro tutto ciò che odori di sinistra, non vedono le colate di astio bollente che tracimano dai vulcani politico-informativi della destra. C'è un fetta di opinione pubblica che è stata alimentata in questi anni dall'evocazione di nemici, reali o immaginari non importa, ma comunque tutti infidi e minacciosi: i comunisti e l'euro, i poteri forti e i magistrati, i sindacati e l'Ue, gli immigrati e gli intellettuali, la tv pubblica e le banche, e in cima a tutti, ovviamente Romano Prodi. In quale paese, del resto, si è sentito un primo ministro in carica - e parliamo di Silvio Berlusconi - disprezzare così apertamente e volgarmente gli elettori dello schieramento opposto definendoli "coglioni" o denigrandoli come "naturalmente predisposti al broglio elettorale" (quando invece bisogna ancora chiarire il mistero delle schede bianche scomparse e delle incursioni degli hacker al Viminale la notte delle elezioni).


Alla virulenta denigrazione dell'avversario non vengono alzati argini: quali interventi abbiamo letto dagli aedi autentici o mascherati della Cdl che stigmatizzassero le espressioni indegne contro la Montalcini? Silenzio assordante. Di questa deriva una responsabilità va anche al centro-sinistra. E non per la ragione sostenuta dai buontemponi di cui sopra. Bensì perché il belato dei dirigenti del centro-sinistra si limitava a invitare sommessamente gli avversari ad abbassare i toni, come azzimati signorini che chiedono un po' di buone maniere a una banda di bulli di periferia, senza pretendere rispetto e rispondere per le rime a chi butta nella spazzatura le regole del viver civile.

L'assenza di minimo comun denominatore nella politica italiana è però storia vecchia quanto il Colosseo. Lo scontro radicale, assoluto, totale, amicus/hostis, da sempre connota il carattere nazionale. Solo dopo gli anni di piombo, a fatica, era finalmente emersa una sensibilità diversa che vedeva la fine delle contrapposizioni violente, la tolleranza verso gli avversari politici, l'apertura al dialogo a 360 gradi.

Dalla discesa in campo del Cavaliere e dall'affermarsi della Lega si è invece innescato di nuovo un processo di radicalizzazione. In questa corsa scomposta verso l'Armageddon politico dello scontro finale non stonano certo le aggressioni verbali ad una minuta e canuta signora. Fanno parte anch'esse di quella 'antica festa crudele' in cui tanti, troppi, si dilettano. E invece bisogna cacciare Clausewitz dall'arena politica.

(08 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero Ignazi. Laicità repressa
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2008, 10:59:50 am
Piero Ignazi

Laicità repressa


Se c'è un problema di minoranze offese e marginalizzate, oggi in Italia, esso riguarda ancora una volta i laici 

La Città del Vaticano, in termini di diritto internazionale, è uno Stato sovrano titolare di 'soggettività internazionale'.

È ammesso come osservatore permanente all'Onu, mantiene rappresentanze diplomatiche presso gli organismi internazionali e scambia ambasciatori accreditati con tutto il mondo.

In termini istituzionali la Città del Vaticano è una sorta di monarchia elettiva. Al vertice dello Sato vi è infatti una figura assimilabile a un presidente a vita, eletto da un conclave di maggiorenti (i cardinali). Il pontefice esercita la sua attività coadiuvato da un consiglio da lui scelto (come nelle corti di un tempo) a cui sono affidati compiti e funzioni varie; ma è da lui che promana ogni iniziativa in campo civile, oltre che religioso ovviamente. Come è scritto nel sito ufficiale del Vaticano, "nell'esercizio della sua suprema, piena ed immediata potestà sopra tutta la Chiesa, il romano Pontefice si avvale dei dicasteri della curia romana, che perciò compiono il loro lavoro nel suo nome e nella sua autorità, a vantaggio delle Chiese e al servizio dei sacri pastori".

Del resto, anche l'articolo 1 della Costituzione della Città del Vaticano, entrata in vigore il 22 febbraio 2001, non lascia adito a dubbi sul suo ruolo: "Il Sommo Pontefice, Sovrano (sic) dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario".

Ebbene, in base a questi dati, sotto il profilo giuridico-politico, il Sommo Pontefice Benedetto XVI è, innanzitutto, un capo di Stato. E, come ogni altro capo di Stato, quando va in visita in un altro paese, può essere omaggiato e osannato oppure può essere criticato e contestato. Ancora prima di ogni valutazione sulla vicenda dell'invito della Sapienza di Roma, questo è il primum mobile della questione. Chi mette piede in uno Stato democratico come, pur con enormi difetti e manchevolezze rimane ancora, forse per poco, l'Italia, è sottoposto alle regole della democrazia. In cima alle quali c'è la libertà di espressione, verbale e non verbale.

Quando Richard Nixon venne in Italia e il ricevimento in suo onore fu disturbato dalle proteste di piazza, che arrivavano fino alle ovattate stanze del Quirinale, 'quel' presidente rispose ai suoi imbarazzati anfitrioni: ""No problem, this is democracy".
 
Premesso tutto ciò, rimane il versante politico della questione. Anzi, più che politico, delle buone maniere: su questo i papa-fans hanno ragione da vendere, non si invita qualcuno sapendo di metterlo a rischio di sgradevoli contestazioni. Prima ci si accerta che sia accolto con largo consenso e poi, se ci sono degli irriducibili, si soprassiede. Il pasticciaccio e la brutta figura ricadono tutte sul rettore della Sapienza. Abilmente, la curia vaticana ha colto la palla al balzo per avviare una campagna di vittimizzazione, consentendo ai sicofanti di turno di lanciare allucinanti proclami sulla "libertà di parola negata".

L'episodio getta comunque un fascio di luce sullo stato della laicità in Italia. Da un lato è, essa sì, praticamente ridotta al silenzio dalla continua aggressione verbale che le gerarchie ecclesiastiche di ogni ordine e tipo scatenano contro chi non si allinei. Ma dall'altro, checché strombettino le fanfare clericali, dal 'Foglio' in su, il processo di secolarizzazione avanza. Gli studi condotti sotto la supervisione del professor Renato Coppi per l'Osservatorio sulla Secolarizzazione e pubblicati da 'Critica Liberale' dimostrano come la secolarizzazione sia andata costantemente avanzando dal 1991 al 2004 (data dell'ultima rilevazione).

Questo processo trova conferma nella sconsolata conclusione di una approfondita ricerca curata da Franco Garelli, Gustavo Guizzadi ed Enzo Pace, secondo la quale "Dio, Cristo, la Bibbia, sono diventati anche per alcuni fedeli oggetti incerti di fede".

Per far fronte a questo deperimento la Chiesa ha elevato il livello di scontro, intervenendo in ogni settore della vita civile italiana (e di altri paesi). Ad esempio, con la massima tranquillità certe diocesi discutono sulla eventuale costruzione di moschee, sentenziando sul diritto di altri a praticare degnamente la loro religione.
E non si limita a questi aspetti, e ad altri assai materiali e terreni (si veda la perorazione per gli ospedali cattolici della capitale fatta dal papa a sindaco e presidenti di Regione e Provincia la scorsa settimana): la Chiesa pretende anche di delegittimare qualunque altra etica non fondata sui principi della fede cattolica, come se i non credenti o i cultori del libero pensiero fossero una sottospecie morale, degli Untermenschen dell'anima.

Se c'è un problema di minoranze offese e marginalizzate, oggi, in Italia, esso riguarda, ancora una volta, come nei secoli passati, i laici.

Non certo la Chiesa, onnipresente su tutti i media.

(25 gennaio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero Ignazi Elezioni con l'handicap
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2008, 09:31:16 pm
Piero Ignazi

Elezioni con l'handicap


Si va verso il voto con la grossa novità rappresentata dal Pd, ma Berlusconi mantiene il vantaggio competitivo di risorse mediatiche che distorce la competizione  Silvio BerlusconiC'è un equivoco che sta montando impetuosamente in questi primi giorni di campagna elettorale: quello che scambia una alleanza elettorale come l'accordo Berlusconi-Fini, con Bossi e, probabilmente, Casini a seguire, con un nuovo partito già bello e fatto. Tra lo stringere un patto elettorale e il dar vita a una organizzazione partitica c'è di mezzo il mare, come si è visto dalle parti del centro-sinistra: dall'Ulivo al Partito democratico è passato più di un decennio. E quindi, invertendo il celebre commento di Mark Twain sulla sua annunciata scomparsa, la notizia della nascita di un nuovo soggetto politico nel centrodestra appare alquanto esagerata. Il massimo a cui si è spinto fin qui il presidente di An è l'auspicio di un gruppo parlamentare unico. Vedremo poi quali saranno gli umori nella direzione allargata di Alleanza nazionale convocata per fine settimana.

Con ogni probabilità filerà tutto liscio, con i molti 'berluscones' aennini liberati dalla fatica di dover rincorrere il capo sugli impervi terreni del voto agli immigrati e dell'accettazione della fecondazione assistita nonché di dover reggere le improvvise freddezze ("Siamo alle comiche finali") nei confronti dell'amato Cavaliere. In ogni caso, parlare oggi di fusione tra i due partiti è solo un futuribile, più vicino rispetto al passato, ma ancora ben lontano da realizzarsi. Questa accelerazione della prospettiva unitaria nel centrodestra è, palesemente, una risposta al vero, compiuto, fatto nuovo della politica italiana, vale a dire il Partito democratico. La sua genesi è stata quanto di più tormentato, incerto e defatigante si potesse immaginare e il suo slancio ideologico-culturale assolutamente asfittico. Nulla di entusiasmante. Eppure tre milioni e mezzo di persone si sono mobilitate per incoronare il leader e fornirgli piena legittimità .

Di questa forza Walter Veltroni ha fatto buon uso. Prima muovendosi a viso aperto verso gli avversari per tentare una riforma elettorale, mettendo a nudo l'indisponibilità /incapacità del centrodestra a formulare una proposta. Poi imponendo la corsa in solitaria alle elezioni, costi quel costi. Con questa scelta coraggiosa Veltroni ha imboccato una direzione di marcia e ha obbligato il centrodestra a rincorrerlo. Il front runner sul piano dell'innovazione politica è lui, mentre rimane ancora l'outsider sul piano elettorale. Ma con chances enormi, mai godute dai suoi predecessori. In primo luogo perché il confronto tra la fissità tolemaica del centrodestra, con le stesse facce - Berlusconi, Fini, Bossi e Casini - a offrirsi all'elettorato 15 anni dopo, e il rinnovamento rappresentato in sé dal Pd è impietoso per la Casa delle libertà sub-specie di Popolo della libertà (o come si vorrà chiamare).

In secondo luogo perché l'elettorato percepisce che questa volta, a sinistra, la scelta è molto 'diversa' rispetto al passato; e quindi è potenzialmente disponibile o a ritornare a votare dall'astensione o ad abbandonare lo schieramento più 'vecchio'. In terzo luogo perché la leadership veltroniana pur con tutti i suoi difetti, riassumibili nella tendenza al bambocciamento, sa parlare all'opinione pubblica, riesce a entrare in contatto con gli elettori. A rischio di abusare di un termine passpartout, incarna la figura più 'post-moderna' della politica italiana (anche del Cavaliere, ormai usurato, ripetitivo e, in sostanza, stantio). Infine, proiettandoci nelle prossime settimane, il Pd ha un'altra opportunità da cogliere per rosicchiare posizioni: aprire le sue liste a un nuovo personale politico; non necessariamente ai rappresentanti di quella mitica (e introvabile) società civile, quanto ai tanti dirigenti periferici che si sono fatti le ossa come bravi ed efficienti amministratori: gente concreta e fattiva, lontana dai riflettori nazionali, ma non per questo meno preparata e competente dei frequentatori abituali dei salotti televisivi.

Il Pd, però, vale la pena ripeterlo ancora, è gravato da un handicap, presente in tutte elezioni dal 1994 a oggi: il differenziale di risorse mediatiche a favore di Silvio Berlusconi. L'Italia rimane, agli occhi di tutti gli osservatori internazionali, un Paese a democrazia incompleta perché non garantisce una equa ripartizione dell'informazione televisiva. Lo ricordava efficacemente, dall'alto della sua esperienza personale, Vaclav Havel al World Freedom Press Day nel 2002. Il controllo del Cavaliere su Mediaset distorce la competizione elettorale, assicurando ancora, e per la quinta volta, un indebito vantaggio competitivo a uno dei concorrenti. Noi ci siamo mitridatizzati e nessuno ormai lo rileva più. Ma rimane un vulnus alla democrazia italiana e un handicap per gli altri concorrenti.

(15 febbraio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero Ignazi. L'egemonia del cavaliere
Inserito da: Admin - Maggio 25, 2008, 05:28:44 pm
L'egemonia del cavaliere

Piero Ignazi


Berlusconi, estraneo alla tradizione nera, è stato lo sponsor credibile del revisionismo storico e poi dell'agenda politica neoconservatrice  Silvio BerlusconiSe si fanno bene i conti, accasando micro-partiti e listine all'una o all'altra parte, alle ultime elezioni la destra ha sfiorato la maggioranza assoluta con il 49,6 per cento. Un ottimo risultato, ma ben lontano dal rappresentare i 2/3 del paese, come ha baldanzosamente affermato Silvio Berlusconi. Infatti, grazie alla (attuale) dissociazione dell'Udc di Pier Ferdinando Casini dal fronte berlusconiano, l'opposizione è al 49,1 per cento. Ancora una volta, un paese spaccato a metà.

Le sorti della sinistra sono quindi legate alla sua capacità di fare opposizione. E in questo la destra ha molto da insegnare. Perché non c'è alcun dubbio che l'attuale vittoria sia stata costruita sia con un lavoro di lunga portata di cui oggi si vedono i primi frutti - ed altri matureranno nei prossimi anni - sia con una efficacissima strategia di attacco nella lotta politica contingente. Sorvoliamo sull'abilità nell'incalzare continuamente l'avversario di cui ha dato prova la destra, adottando ogni linguaggio anche il più sprezzante e ogni strumento anche il più disinvolto, pur di ottenere il proprio scopo (due esempi per tutti: gli insulti a Rita Levi Montalcini e le profferte al senatore Nino Randazzo); vediamo piuttosto quali sono le origini lontane del suo successo.

In una parola si fondano sulla costruzione prima e sull'affermazione poi di una cultura politica di destra. Un fatto nuovo e, se vogliamo, rivoluzionario, perché non c'è mai stata una presenza solida, cosciente di sé e articolata della cultura di destra. Un po' perché intinta nell'inchiostro nero della nostalgia e della tradizione antidemocratica di inizio Novecento, un po' perché innervata da influenze clericali pre - e anti - conciliari, un po' perché provinciale ed estranea al dibattito internazionale, fino alla metà degli anni Novanta, in Italia, non si sono mai affacciati il neoconservatorismo e la moral majority, i due capisaldi culturali della destra occidentale degli ultimi due decenni del secolo.

La Dc, in quanto perno moderato del sistema e guidata da una classe politica formatasi su valori che spaziano dal personalismo al cattolicesimo democratico, ha fatto da argine alla penetrazione del neoconservatorismo. Fiocinata a morte la Balena bianca, rimaneva non solo un vuoto politico, ma anche uno culturale. La prima operazione conseguente a quel crollo è stata la postfascistizzazione del Msi e la conseguente eufemistizzazione del ventennio. Corollario di quella operazione, il picconamento dei pilastri cultural-politici dell'antifascismo e la svalutazione della resistenza. Si pensi alla differenza tra la ricezione positiva, anche a destra, del lavoro, problematico quanto magistrale, di Carlo Pavone, 'Una guerra civile', pubblicato nel 1991, e l'onda diffamatoria sulla resistenza degli anni successivi.

Per realizzare questo passaggio era necessario però un sponsor credibile, estraneo alla tradizione nera. Silvio Berlusconi è stato l'uomo della provvidenza. Ma il suo intervento non si è limitato a una copertura del revisionismo storico. Il dominus di Forza Italia ha introdotto e legittimato tutta l'agenda politica neoconservatrice, con un crescendo progressivo di radicalizzazione. Ma le sue esternazioni - come quelle di altri leader della destra - non sono cadute nel vuoto. Si sono giovate del lavoro di copertura culturale fornito dalle elaborazioni dei vari centri studi, delle riviste e delle pubblicazioni di ogni tipo e genere - elaborazioni prontamente rilanciate dai mass media previa riformulazione per il medium di destinazione.

In tal modo si è creata una koiné comune alla destra e si sono imposti nel dibattito politico-culturale temi quali: l'esaltazione dell'individualismo sregolato, la mitizzazione dello Stato minimo, il disprezzo per il pubblico, il neonazionalismo soft, l'ostilità agli immigrati rasentando la xenofobia, l'adozione, spesso impropria, dei riferimenti religiosi uniti a un via libera a ogni intromissione della Chiesa, la riduzione dei diritti civili a optional, la glorificazione acritica dell'Occidente e del Grande Fratello d'oltre-oceano, l'euroscetticismo, l'insofferenza per i checks and balances costituzionali a fronte dell'idolatria populistica del volere del popolo (salvo quando si schiera per quasi i 2/3 contro le proposte di riforma costituzionale dei geni di Lorenzago nel referendum, presto dimenticato, di due anni fa). Tutto questo non si è costruito in un giorno: è il risultato di un impegno 'metapolitico' di anni. E ora se ne vedono i frutti.

Cosa oppone la sinistra a questa offensiva? Quali sono le sue idee forza? Con quali strumenti pensa di proporle?

Lasciate ad altri la storiella dell'egemonia culturale della sinistra.

È vero esattamente il contrario, e per tornare a vincere deve prendere atto della realtà e rimboccarsi le maniche.

(09 maggio 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero Ignazi. Cosa farà il Pd da grande
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2008, 09:12:01 am
Piero Ignazi.


Cosa farà il Pd da grande


 Il Partito democratico ha di fronte a sé tre dilemmi da sciogliere: il primo sul giudizio in merito al risultato delle elezioni (sconfitta o tenuta), il secondo sulla natura del partito (socialdemocratico, o democratico), il terzo sulla strategia da perseguire (vocazione maggioritaria o politica delle alleanze).

I dilemmi non sono isolabili e separabili, bensì intrecciati, quasi aggrovigliati l'uno all'altro: tuttavia è utile tenerli distinti per cercare di dipanare la matassa del Pd.

Il primo dilemma, pur essendo il più contingente, contiene in sé i codici dello sviluppo degli altri due. In termini banalmente numerici - ma si sa che nel paese dell''inferma scienza' i numeri, più che contarli, si pesano - il Pd è avanzato in valori assoluti e in percentuale rispetto a qualsiasi conformazione precedente dell'Ulivo. Il partito guidato da Walter Veltroni ha guadagnato consensi, non ne ha persi rispetto alle formazioni da cui origina, prese singolarmente o collettivamente sotto l'egida dell'Ulivo.

Da un punto di vista 'oggettivo', di semplice statistica elettorale, il Pd è riuscito non solo a mantenere il pre-esistente serbatoio elettorale ma a rabboccarlo un po'. E, date le condizioni di partenza (si riguardino i dati sulla popolarità del governo Prodi all'inizio della campagna elettorale), il risultato può essere considerato un 'successo'. Poi c'era chi, a cominciare dallo stesso Veltroni, vaticinava addirittura il sorpasso sul Pdl, e con una contagiosa forza di convinzione (tanto da smuovere anche uno scettico come il sottoscritto).

Lo scarto tra Pd e Pdl , oltre alla vittoria schiacciante del centro-destra nel suo insieme, ha fatto passare in secondo piano il risultato in sé del Pd. Walter Veltroni ha tentato nei primi giorni di qualificare in senso positivo il responso delle urne, ma
i suoi avversari interni, e ovviamente quelli esterni, si sono buttati a capofitto nello stigmatizzare il risultato come una rotta. Quando invece il dato del 37,5 per cento è perfettamente in linea con le percentuali di tutti i partiti socialisti europei, dal Labour inglese al Ps francese, dalla Spd tedesca ai socialdemocratici scandinavi, con la sola eccezione del Psoe spagnolo.

E qui viene il secondo dilemma. Socialdemocratico o democratico? Cosa siano oggi i socialdemocratici, con una certa fatica, riusciamo a rintracciarlo; cosa siano i democratici, cari ai 'novatori' del Pd, francamente no. Niente di male. Basta coinvolgere le migliori intelligenze del centro-sinistra e sfornare contributi a getto continuo per una riflessione collettiva sul senso da dare a questa parola nella politica italiana ed europea, vista l'assenza di modelli.

'Vaste programme', avrebbe ironizzato il generale De Gaulle, ma anche avventura intellettuale e politica affascinante. Finora però, a parte casi isolati e rimasti fuori dal dibattito interno ed esterno al partito, non c'è praticamente nulla. Quindi, delle due l'una: o accetta di entrare, pur con alcune peculiarità, nella famiglia socialista, o si fa portabandiera di una nuova famiglia politica in Europa. In assenza di passi in avanti significativi su questo secondo obiettivo, non rimane che confluire nell'alveo socialista, con buona pace dei residui, pochi, cattolici rimasti nel Pd. I quali dovrebbero comunque ricordare che il Labour è il partito dei cattolici inglesi e che la Spd accoglie la maggior parte dei fedeli di confessione protestante. E, più in generale, che in 12 paesi europei il 45 per cento di coloro che dichiarano di appartenere ad una religione vota per partiti socialisti.

Infine, vocazione maggioritaria o strategia delle alleanze. La risposta sembra ovvia, visti i risultati elettorali. Eppure, se si ragiona non sul breve periodo - le elezioni europee - ma sul medio periodo - le prossime politiche - l'alternativa mantiene tutto il suo senso.O il Pd assume il ruolo di partito cardine del centro-sinistra che decide, a seconda delle sue convenienze, se allearsi con altre formazioni, che accettino però tranquillamente un ruolo di junior partner , oppure ritorna al carosello delle coalizioni (instabili) con partiti a cui viene garantita 'pari dignita''. In quest'ultimo caso il Pd prosegue con il piccolo cabotaggio, mentre nel primo deve attraversare una marcia del deserto. E per questo necessita di una leadership autorevole e condivisa, che trascini il partito verso la (una) sua nuova identità - socialdemocratica o democratica che sia - convinta che un terzo dei consensi costituisca una ottima base di partenza.

(01 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero Ignazi. Law and order fuorilegge
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2008, 11:47:54 pm
Piero Ignazi


Law and order fuorilegge


La tolleranza zero dei nostri neoconservatori alla vaccinara diventa razzismo e repressione del dissenso  Un soldato in strada a RomaNella visione del mondo dei conservatori classici il law and order, l'imposizione di norme severe e rigorose per far rigar dritto criminali e devianti, racchiudeva l'essenza stessa del vivere ordinato, civile, rispettoso delle leggi. Oggi, nell'epoca del neoconservatorismo populista, il legame organico tra ordine e legalità proprio dei vecchi conservatori si è allentato fin quasi a sciogliersi. I neo-cons trionfanti, soprattutto quelli nostrani, alla vaccinara, non 'vedono' nemmeno il rapporto tra il law and order e l'omaggio assoluto, rigoroso, quasi automatico al primato della legge in quanto tale. Quando le attuali più alte cariche governative sostengono che le leggi vanno interpretate politicamente, e chi non si attiene al nuovo 'benpensare' berlusconiano viene additato come un nemico del popolo, esse rivelano la loro propensione all'utilizzo strumentale - e in prospettiva pericoloso - della potestà normativa.

Una politica di tolleranza zero contro il crimine, come quella lanciata a suo tempo dal sindaco di New York, Rudy Giuliani, poteva essere contestata sulla base della sua efficacia (e infatti gli studi condotti sul caso newyorkese hanno mostrato che il calo dei reati violenti dipendeva da una diversa distribuzione anagrafica della popolazione: diminuendo drasticamente i giovani, i reati calavano in rapporto); ma non rappresentava un problema di legalità perché non veniva messo in discussione il primato della legge, la rule of law. E infatti i casi di abuso di potere della polizia hanno riempito le pagine dei giornali, infiammato il dibattito e costretto le autorità a intervenire per rimediare ai danni. Nessuno si è alzato a sostenere che il sindaco e i suoi poliziotti avevano comunque ragione perché eletti dal popolo. Evidentemente, c'erano dei 'giudici' a New York. Ed erano rispettati. L'11 settembre 2001 e la vittoria dei neoconservatori hanno modificato anche negli Stati Uniti il concetto di Stato di diritto, imponendo una visione emergenziale e d'eccezione a molti aspetti della vita civile. Ma, assorbito lo shock delle Torri Gemelle, l'America è ritornata nell'alveo della tradizione: la cultura liberale sta infatti imponendosi di nuovo.

In Italia, invece, il rischio di travolgere la rule of law agitando gli spettri delle invasioni rumeno-tzigane o berbero-saracene si è innalzato con la vittoria del centrodestra. Per la semplice ragione che i nostri neocons alla vaccinara non hanno alle spalle una cultura politica liberale, nemmeno in versione ipermoderata. Hanno acquisito e assemblato alla meglio la versione più estremista e populista del neoconservatorismo, innervandola di quanto di originale ha prodotto il genio italico nel XX secolo: vitalismo futurista, strapaese qualunquista e familista, fascismo aggressivo o querulo a seconda delle occasioni. Il tutto riconfezionato sulla taglia della società postmoderna dello spettacolo e dell'infotainment di cui Silvio Berlusconi è il massimo interprete (e impresario). Questa visione del mondo ha in dispetto la divisione e il bilanciamento dei poteri, il pluralismo delle idee e degli interessi, il rispetto sempre e comunque delle norme (comprese quelle tributarie). Preferisce esprimersi con una proiezione ipertrofica del proprio ego politico.

Di qui derivano le scelte sulla sicurezza. La ridicola messinscena di un migliaio o poco più di militari nelle città italiane a fronte della disponibilità di circa 300 mila agenti delle forze dell'ordine, numero quasi doppio di cui dispongono gli altri paesi europei, e la campagna d'odio e di discriminazione razziale lanciata contro gli zingari, servono per mantenere sotto pressione l'opinione pubblica, alimentando il circuito perverso della paura e per saggiare le reazioni all'utilizzo improprio, 'eccezionale', delle forze armate.

Dato che l'efficacia di qualche militare in giro per le città è pressoché nulla, il senso di questa operazione è tutto nell'utilizzare la logica del law and order al di là e al di fuori della legalità; creando in tal modo un cortocircuito tra invocazione della mano dura contro i nemici e lassismo nei confronti delle regole generali e impersonali, prive di nemici reificabili. Il tutto giustificato dal richiamo al volere del popolo (spaventato), contro il quale non ci possono essere argini o contropoteri legittimi. Questo atteggiamento genera una inquietante incognita: che la tolleranza zero contro il crimine, in paesi governati da maggioranze povere di cultura liberal-costituzionale, degeneri in tolleranza zero per il dissenso e la diversità. O produca una, cento, mille Bolzaneto. Il trattamento riservato alla prostituta nigeriana a Reggio Emilia e alla studentessa peruviana a Roma sono i primi campanelli d'allarme.

(22 agosto 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero Ignazi. Ecco la nuova lotta di classe
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2008, 12:40:06 am
Piero Ignazi


Ecco la nuova lotta di classe


A combattere non sono più gli 'ultimi' ma i 'primi' sostenuti dal governo di Berlusconi.
Quando si pensa alla lotta di classe si immaginano folle di tute blu vocianti o moltitudini di contadini scalcagnati e scamiciati - ma anche composti e dignitosi come nel celebre quadro di Pellizza da Volpedo - che sfilano per rivendicare pane e lavoro. Questa immagine è sbiadita come una vecchia fotografia, rimanda ad un mondo antico di cui si stanno perdendo le tracce. Non ci sono più quegli attori: il proletariato si è sfrangiato in mille componenti diverse e gli 'ultimi' della società riflettono un caleidoscopio di etnie, costumi e culture che non può certo essere ricompattato in una classe sociale omogenea.

Ma se si è dissolta la lotta di classe fatta di scioperi e picchettaggi che aveva nel proletariato la sua spina dorsale, non per questo è scomparsa. Si è spostata di 180 gradi. Ha subito una rivoluzione copernicana. Non è più condotta dagli 'ultimi', bensì dai 'primi'. Sono i detentori delle risorse economiche e politiche che prendono l'iniziativa per mantenere e rafforzare le posizioni acquisite a discapito degli altri. L'offensiva non passa più per le antiche vie contrattuali, sempre meno rilevanti in termini numerici e sempre più residuali per definire i rapporti di forza (anche se il tentativo di scardinare la contrattazione collettiva a favore di una contrattazione individuale indica una precisa linea di attacco), bensì per l'iniziativa pubblica, per il matrimonio d'interesse tra corporazioni economiche e potere politico celebrato dal governo Berlusconi.

Lo si è visto con uno dei primi provvedimenti del governo di centro-destra. Uno dei tanti, ma esemplare per la sua precisione chirurgica: l'eliminazione della tracciabilità degli onorari dei liberi professionisti, strumento efficace di contrasto all'evasione e al riciclaggio introdotto dal governo Prodi.

Il messaggio non poteva essere più chiaro: sappiamo chi sono 'i nostri' e interveniamo subito in difesa dei loro interessi. E, specularmente, sappiamo chi sono i 'nemici': i lavoratori dipendenti, soprattutto del settore pubblico, che votano a sinistra. Contro di loro si è scatenata una offensiva tambureggiante puntando sulla delegittimazione morale al punto da affibbiare loro l'etichetta di 'fannulloni'. Non basta. Mentre il ministro dell'Istruzione - che non sa nulla di scuola e università ma in compenso ha guadagnato l'avvocatura a Reggio Calabria - decreta l'espulsione di decine di migliaia di insegnanti (ovviamente dei fannulloni) negli Stati Uniti i candidati alla presidenza fanno a gara a chi promette più interventi nel sistema educativo e Barack Obama arriva a dichiarare testualmente alla Convention democratica che "arruolerà legioni di insegnanti pagandoli meglio anche a costo di aumentare le tasse".

Tutto questo perché nel sistema americano si crede ancora nell'istruzione, nella conoscenza e nella competenza come veicoli di successo professionale, mentre da noi la cultura, e chi lavora nel mondo dell'educazione, sono trattati con sufficienza e mal sopportati, come un orpello inutile. In fondo basta essere una bella soubrette per diventare ministro, perché consumarsi gli occhioni sui libri e al computer? Questo è il vero messaggio, subliminale e quindi autentico, della nomina di Mara Carfagna. Il resto è accessorio.

La lotta di classe impostata dal governo ha un obiettivo preciso: scardinare quel poco che è rimasto della classe operaia sindacalizzata, peraltro priva di una guida all'altezza della sfida, difendere i lavoratori autonomi da ogni meccanismo regolativo e fiscale per riprendere la redistribuzione del reddito a loro favore avviata nel precedente governo Berlusconi (e incautamente ammessa anche dallo stesso superministro Tremonti) e, infine, spremere il ceto medio per compensare i benefici alle altre componenti sociali - e per chi abbia dubbi in proposito basta leggere l'intervento, inquietante per usare un eufemismo, di Laura Pennacchi, 'Un decisionismo (poco) compassionevole', sull'ultimo numero della rivista 'il Mulino'.

La difesa degli interessi corporativi implica un drenaggio di risorse dal lavoro dipendente, perché se si toglie l'Ici alle case dei ricchi, si abbandona la lotta all'evasione fiscale (il crollo del gettito dell'Iva sta a dimostrare come il lavoro autonomo si sia immediatamente adeguato al nuovo clima), si rifinanziano i progetti faraonici come il ponte sullo stretto, e si fanno pagare a noi cittadini, anzi ai 'tax-payers' come si dice nei paesi anglosassoni, le perdite dell'Alitalia lasciando i profitti agli happy few, in qualche modo bisogna trovare i soldi. È per questo che il governo si schiera in prima fila a fianco degli interessi corporativi contro il lavoro dipendente in una nuova versione della lotta di classe.

(12 settembre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Perché tra politica e fede la Chiesa ha scelto la politica
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2008, 03:46:21 pm
Piero Ignazi.


L'arbitrio al governo


Il caso Alitalia dimostra come la classe dirigente è pronta a picconare lo Stato di diritto. 
Il caso Alitalia costituisce la cartina di tornasole della persistenza di alcuni tratti tipici della cultura politica italiana: iper-corporativismo sindacale, uso discrezionale della legislazione e predilezione per furbizie e scorciatoie, inattitudine della sinistra a fare opposizione, retorica patriottarda, fiancheggiamento al potente di turno di una imprenditoria 'compradora', acquiescenza al potere degli intellettuali con contorno di liberismo alle vongole.

Se il catalogo è (ancora) questo, c'è poco da stare allegri: vuol dire che abbiamo azzerato gli sforzi di modernizzazione compiuti da minoranze virtuose negli ultimi 15 anni e che procediamo come gamberi scatenati via dall'Europa, diritti verso il peronismo.

Mettiamo sotto la lente il comportamento della classe imprenditoriale, quella che negli ultimi anni, sorvolando con nonchalance sui casi Parlamat e Cirio, è stata esaltata come la punta di lancia dell'Italia moderna. A parte quei settori dove si produce in regime di concorrenza globale, e che fanno la vera ricchezza della nazione, molti (ex o soi-disant) imprenditori si sono adagiati sulle reti di protezione pubblica garantite da tariffe, da concessioni, da barriere. Del resto, l'esempio viene dall'alto. Il nostro presidente del Consiglio, infatti, ha agito sempre in settori connessi con i pubblici poteri attraverso 'concessioni', vuoi edilizie, vuoi di frequenze televisive; il rischio d'impresa era azzerato dalla protezione politica, indiretta ai tempi di Craxi, diretta ora.

Nessuno stupore quindi che un gruppo composito di imprenditori abbia risposto all'appello pressante (e immaginiamo quanto pressante) del presidente del Consiglio a dar vita alla cordata per impiccare la vecchia Alitalia e sfornarne una nuova di zecca, ripulita dei debiti e pronta a spiccare il volo in tratte protette grazie all'intervento dello Stato. In effetti non c'è che da ammirare il coraggio di questi imprenditori che affrontano il rischio di affiancare il potente di turno, scaricano sui contribuenti il costo del deficit (almeno un miliardo di euro) accumulato dalla compagnia di bandiera e si tutelano per legge dalla concorrenza. Un modello di investimento di grande innovazione che certo entrerà nel novero dei più intriganti 'case study' delle Business School di tutto il mondo.

Qualcuno ricorda gli articoli grondanti di sdegno perché uno sprovveduto consulente economico di Romano Prodi aveva inviato un progetto di ristrutturazione aziendale al presidente di Telecom? Guai alla commistione politica-affari tuonavano le prefiche del liberalismo a 24 carati. E poi, come si indignava il centrodestra per l'asta promossa dal governo Prodi: la Fondazione Magna Carta sentenziava che "il governo si è deliberatamente sostituito al mercato nella funzione di determinatore di valore. Alitalia non sarà venduta al miglior offerente, rispettando il principio cardine del mercato competitivo, ma all'investitore il cui piano industriale sia 'più rispettoso' delle clausole imposte dal governo stesso". Oggi quegli stessi tacciono, intenti a guardare altrove o a distillare veleno sul sindacato reo di lesa maestà per non essersi piegato subito al volere del principe alato. Sono assai pochi coloro che hanno mantenuto la barra dritta sui principi proclamati in passato e non si sono accodati al coro nazional-popolare pro Cai.

Ma se questi atteggiamenti rimandano a carenze strutturali di una classe imprenditoriale e di un ceto intellettuale, per cultura e tradizione troppo avvinti e 'disponibili' al potere politico, il lato più oscuro della vicenda Alitalia sta in una provvidenza solo apparentemente marginale del governo: il grazioso dono elargito alla Cai della sospensione dell'antitrust per sei mesi. Una iniziativa geniale e semplice come l'uovo di Colombo: se c'è una norma, un regolamento, un istituto, che intralciano, basta sospenderli. Se questa è la cultura giuridica del governo in carica, un tale precedente potrebbe essere esteso anche ad altri ambiti. In fondo, Silvio Berlusconi, all'indomani delle elezioni del 2006, non voleva sospendere l'esito del voto? Perché non farlo la prossima volta, se necessario? E perché non sospendere la Corte Costituzionale se non si comporta bene sul lodo Alfano? Al di là della fantapolitica (speriamo), l'assenza di reazioni al diktat governativo evidenzia la drammatica sottovalutazione di cosa significhi introdurre l'arbitrio 'principesco' in un sistema politico complesso. Significa, semplicemente, incominciare a picconare lo Stato di diritto.

(03 ottobre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero Ignazi. Il ritorno dello Stato
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2008, 10:24:16 pm
Piero Ignazi


Il ritorno dello Stato


La destra italiana si riconverte allo statalismo abbandonando con un giro di valzer il neoliberismo vantato fino all'altro ieri  Giulio TremontiIl sentiero stretto in cui si devono muovere i governi di fronte alla crisi finanziaria globale passa tra due opposti pericoli: quello del business as usual, non è successo niente, anzi 'un bel febbrone aiuta a crescere' e quindi evviva la distruzione creativa del capitalismo; e quello della crisi irreversibile del capitalismo e quindi riportiamo lo Stato nel ponte di comando dell'economia.

Per una volta, in mezzo sta la virtù. L'intervento pubblico non è, in sé, il male assoluto come per decenni hanno sostenuto i fondamentalisti dell''iper-mercato' e i neoconservatori di mezzo mondo, da Ronald Reagan in poi. Dipende da chi lo attua, con quali finalità e quale background culturale-ideologico (comunista o socialdemocratico , populista-autoritario o fascista).

Negli ultimi vent'anni e passa l'ideologia neo-liberista è dilagata in tutta Europa. La socialdemocrazia, per sua debolezza teorica, non è riuscita a far argine e ha ceduto passo dopo passo alle posizioni dell'avversario, spesso ricalcando in maniera grottesca le sue argomentazioni. Con il risultato di perdere l'identità, stretta tra un irrigidimento in difesa della tradizione e un adeguamento supino verso il pensiero della parte avversa.

La conseguenza di questo arretramento è che oggi il 'ritorno dello Stato' in Europa rischia di sfuggire di mano alla sinistra e trasformarsi in una risorsa a disposizione della (nuova) destra. È solo una possibilità che comunque va declinata paese per paese. Se in Gran Bretagna non ci sono dubbi che sia il Labour ad avere il monopolio della politica interventista nell'economia, senza peraltro essere più tacciato come inconcludente dissipatore del denaro pubblico grazie ai governi di Tony Blair - al punto che oggi Gordon Brown può proporsi come un novello Clement Attlee, pronto a difendere sia l'economia che i sottoprivilegiati - in Francia e in Italia sono le destre a guidare la riscossa dello Stato. Che siano i gollisti di Nicolas Sarkozy a farlo Oltralpe non stupisce visto che non fanno altro che riprendere la tradizione statalista del Generale (le prime grandi nazionalizzazioni post belliche portano la sua firma, non quella della sinistra). E sappiamo bene come, per i francesi, il riferimento a L'État abbia un suono particolare.


Ma in Italia è tutto un altro discorso. L'intervento statale, da noi, ha un antecedente culturale di segno diverso. Si ritrova innanzitutto nel fascismo con la teoria corporativa - peraltro rimasta sulla carta - e con la creazione dell'Iri e nazionalizzazioni collaterali. Del resto, l'espansione dello Stato nell'economia era congruente con la visione delineata dall'ideologo del regime, il (purtroppo grande) filosofo Giovanni Gentile, quando sosteneva che lo Stato era tutto e fuori dallo Stato non c'era nulla.

Ora non c'è niente di più normale che la destra italiana si riconverta allo statalismo abbandonando con un disinvolto giro di valzer il neoliberismo vantato fino all'altro ieri e della cui carenza rimproverava burbanzosamente la sinistra. Nulla di più facile questa piroetta della destra, perché nei suoi geni non ci sono mai stati i codici del liberismo economico (e nemmeno del liberismo tout court, peraltro). Il suo liberismo era anarchismo, indifferenza e fastidio per ogni vincolo pubblico, animal spirits della giungla non del mercato, privatizzazione dei profitti e pubblicizzazione delle perdite. In assenza di un coerente framework teorico da difendere, la crisi finanziaria mette nelle mani della destra una opportunità preziosa e irripetibile: riprendere la via fanfaniana dell'occupazione pubblica dell'economia attraverso aiuti alle industrie, chiusura al mercato internazionale, innalzamento di barriere, difesa dalla contendibilità delle nostre aziende e, ovviamente, corsie preferenziali per gli amici (Alitalia docet), ecc.

Se per la destra questa è una occasione d'oro per conquistare una stabile egemonia, la sinistra può però rispondere dimostrando di saper coniugare con maggior coerenza dell'avversario 'Stato e mercato'. In sostanza, ritrovare le ragioni e la convinzione di essere 'liberal' anche in tempi di ferro come questi. Le risorse intellettuali e politiche non mancano: devono solo avere il coraggio di uscir fuori, senza chiedersi cosa penseranno Massimo o Walter, cosa diranno i media, ecc, ecc. È tempo di grilli parlanti alla Paul Krugman e di leader innovativi.

(24 ottobre 2008)


da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero Ignazi. Servono nuovi leader
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2008, 10:47:04 pm
Piero Ignazi.


Servono nuovi leader


Chi può dare risposte credibili alla crisi economica, ai giovani, a chi perde il lavoro? Polizia nelle università, carcere per gli inquinatori (ma solo del napoletano), sproloqui sulla crisi e sul neo-presidente americano conditi da insulti alla stampa, avvertimenti mafiosi del ministro Giulio Tremonti ai banchieri non amici, altolà all'ingresso della Croazia nell'Ue da parte nientemeno che del sindaco di Roma: il catalogo delle ultime iniziative ed esternazioni del governo è questo. Al di là di sconsolanti considerazioni sulla qualità della presente offerta governativa, quello che preoccupa maggiormente è la concezione della politica che questi esempi segnalano: la divisione del campo in amici o nemici e l'uso del potere come un maglio che cala contro tutti coloro che non sono ossequienti. Questa concezione populista e arrogante delle responsabilità di governo porta il centrodestra sempre all'attacco, su ogni fronte, incurante di travolgere decoro istituzionale, fair play e interessi nazionali.

Esempio: la manifestazione del Pd a Roma; un flop, nemmeno 200 mila persone hanno ripetuto tutti i leader della maggioranza, con un misto di irrisione e di disprezzo (anche nei confronti di tutti coloro che avevano visto le riprese dall'alto e si erano resi conti del suo clamoroso successo).

Ma non potevano attenersi a commenti più sobri ed equilibrati? Macché, via all'assalto denigrando e insultando: esemplari gli epiteti sparati a raffica con futuristico ardore dal ministro della Difesa Ignazio La Russa contro il direttore de 'l'Unità' Concita De Gregorio, da "cretina" a "mettiti un turacciolo in bocca" (ogni allusione sessuale è ovviamente esclusa).

Finora comunque il governo non ha avuto modo di esercitare in corpore vili la sua pulsione aggressiva. Sono mancate le occasioni propizie e sono quindi rimasti nel cassetto i consigli dati dall'ineffabile ex presidente della Repubblica - e soprattutto ex ministro dell'Interno - Francesco Cossiga di riempire le manifestazioni studentesche di infiltrati e di provocatori e poi di spaccare la testa a studenti e insegnanti tanto per far capire chi comanda. Ma non è detto che nei prossimi mesi non si prospettino situazioni favorevoli per attuare i buoni propositi kossighiani. Il clima sociale sta cambiando e come sempre gli studenti sono l'antenna più sensibile di un malessere, indefinito e oscuro quanto ormai chiaramente percepibile.

Alcuni hanno giustamente osservato che per la prima volta gli studenti non rivendicano quello che non va della loro condizione: aule, biblioteche, laboratori, didattica, servizi, ecc. E ne avrebbero ben d'onde di lamentarsi. Invece sono preoccupati - anche - di finanziamenti, ricerca, reclutamento e selezione dei professori. Un segnale di spostamento d'ottica e persino di maturità (anche se la dinamica della protesta può prendere facilmente altre direzioni e perdersi nelle fumisterie degli acchiappanuvole di professione). Lo sguardo degli studenti non è infatti sul presente - 'vogliamo tutto e subito', si diceva un tempo - bensì sul futuro. Ma il futuro appare costellato di precarietà, di mobilità sociale bloccata, di sotto-occupazione intellettuale. Il tutto aggravato all'ennesima potenza dalla crisi finanziaria ed economica.

Questa visione cupa è condivisa da larga parte dell'opinione pubblica perché suffragata da dati 'duri', reali e incontestabili. Nei prossimi mesi, se non si invertirà miracolosamente il trend economico, migliaia di imprese chiuderanno e milioni di persone perderanno il lavoro o passeranno nel precariato. E molte di queste saranno immigrati, destinati quindi in breve tempo, grazie alla Bossi-Fini che li tratta da Gasterbeiter (lavoratori ospiti e temporanei), a diventare clandestini. Ci troveremo di fronte a una inedita confluenza nell'area del malessere sociale di lavoratori precarizzati o ridotti sulla strada e di una massa non indifferente di 'non-cittadini' costretti alla clandestinità con tutto quello che ne consegue. Di fronte alle probabili tensioni che tale malessere produrrà, il governo, viste le premesse, dichiarazioni bellicose, atteggiamenti di sfida, rifiuto del dialogo (salvo una improvvisa e benvenuta resipiscenza del ministro dell'Istruzione), potrebbe agire seguendo il tracciato dell'ordine a ogni costo e della repressione stile Diaz-Bolzaneto. Ovviamente sarebbe una scelta disastrosa, ma su quali anticorpi cultural-politici può contare la maggioranza per evitare questa deriva? Chi ha l'autorevolezza, oltre alla perspicacia, per intervenire prima che la conflittualità sociale esploda? O per gestirla senza strappi alla convivenza civile e allo Stato di diritto? Forse, solo di fronte al precipitare della crisi su ogni fronte emergeranno nel centrodestra figure alternative e, sperabilmente, più responsabili. Abbiamo un gran bisogno di nuovi leader, su ogni fronte.

(14 novembre 2008)

da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Calvario democratico
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2008, 11:01:39 pm
Piero Ignazi.

Il vero il falso e il finto

Le esternazioni della Carlucci e l'Ambrogino negato a Enzo Biagi: due episodi che svelano una cultura politica per nulla liberale e moderata.
Dice Carlo Ginzburg, storico di molte storie, che il suo lavoro consiste nel "districare l'intreccio tra vero, falso, finto". Per dipanare le matasse più intricate, per comprendere le ragioni più contorte di un accadimento bisogna identificare degli indizi, delle tracce che disvelino il falso che sembrava vero, e viceversa. Se adottiamo questo metodo 'indiziario' alla politica italiana, piuttosto che prender per buone le dichiarazioni solenni, gli scontri all'arma bianca nei salotti televisivi, e qualche volta anche in parlamento, vale rifugiarsi nelle pieghe della politica a tutto volume per recuperare qualche traccia del vero al di là del finto e del falso. Da indegni apprendisti stregoni di Ginzburg proviamo a muoverci alla ricerca di alcuni elementi indiziari delle 'vere' coordinate ideali del Pdl.

Due episodi recenti, per quanto minori (ma proprio per questo), sembrano illuminanti.

Il primo viene dalla presa di posizione di un illustre esponente del partito di maggioranza, membro della commissione Cultura della Camera dei deputati, l'onorevole Gabriella Carlucci, in risposta alle reazioni del mondo accademico e artistico a fronte della progettata istituzione di una Direzione generale per i musei e le gallerie, e la loro valorizzazione, direzione affidata per di più a una persona dal profilo squisitamente manageriale, ma per nulla addentro alle problematiche dell'universo museale e conservazionistico. Ebbene, a fronte dell'appello contro questa proposta promosso dall'Associazione Bianchi Bandinelli e sostenuto da migliaia di firme da tutto il mondo, l'ottima deputata rappresentante del partito di maggioranza nella commissione Cultura ha testualmente dichiarato che "i firmatari dell'appello contro la saggia decisione del ministro Sandro Bondi di istituire un manager che valorizzi adeguatamente il patrimonio museale italiano, i quali in questo momento ricoprano incarichi pubblici, dovrebbero immediatamente dimettersi". E conclude: "A questo punto l'incompatibilità funzionale palesata suggerirebbe di rassegnare immediate e responsabili dimissioni".

L'invito è perentorio quanto la gravità del reato commesso: lesa maestà! Qualche servitore dello Stato si permette di dissentire e, horribile dictu, di esternarlo pubblicamente. Il funzionario deve eseguire gli ordini e tacere. Oppure dimettersi. Traluce forse una nostalgia per il giuramento di fedeltà al regime imposto ai professori universitari dal regime fascista? Non ancora. Vi sono persone ben più ragionevoli dell'onorevole Carlucci nel Pdl; e infatti il ministro Bondi ha 'saggiamente' ritirato la proposta. Eppure, l'imperversare delle scorrerie della sunnominata onorevole nel campo della cultura - l'onorevole non è nuova a imprese di questo genere - lascia due tracce. La prima: per il Pdl la cultura non è materia da lasciare agli specialisti, bensì al primo che passa. Ma fin qui non si svela nulla di eclatante. La seconda, assai più grave: dalle fila del partito di maggioranza promana una concezione illiberale e autoritaria dello Stato, al quale si deve solo cieca obbedienza: siamo a un passo dallo Stato etico. E nessuno si è scandalizzato più di tanto, né ha intinto la penna per sottolineare il deficit di cultura liberale della destra; tanti commentatori pronti ad alzare il ditino di rimprovero verso le manchevolezze della sinistra si sono voltati dall'altra parte dimostrando, una volta di più, lo strabismo di gran parte dell'intellinghenzia moderata.

Il secondo indizio viene dalla decisione del consiglio comunale di Milano (a maggioranza di centrodestra) di bocciare la proposta del sindaco di conferire il riconoscimento cittadino (l'Ambrogino d'oro) a Enzo Biagi. Gli stessi che avevano candidato a questa onorificenza la spia 'Betulla', al secolo il giornalista Renato Farina, ora la negano a un maestro del giornalismo come Biagi per la sua opposizione ai diktat bulgari di Berlusconi. Una dimostrazione di faziosità al limite dell'odio politico nei confronti di chi non si allinea.

Fatti minori questi, ma forse spie rivelatrice del vero al posto del falso e del finto nell'ideologia della destra. Criminalizzazione del dissenso e mentalità da stato etico, spirito di vendetta ed astio imperituro per l'avversario sono due indizi di una cultura politica in totale contrasto con la sua auto-immagine (falsa e finta, quindi) liberale e moderata.

(05 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Calvario democratico
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2008, 09:52:31 am
Piero Ignazi.


Calvario democratico


Per un nuovo inizio del Pd serviva un gesto forte: l'offerta di dimissioni da parte di Veltroni  Walter VeltroniDi nuovi inizi sono lastricate le strade del declino. Il Partito democratico vi si è incamminato con passo leggero e irresponsabile. Non sembra rendersi conto della gravità della situazione. Tra la manifestazione del 25 ottobre e la vittoria elettorale in Trentino (peraltro assai poco valorizzata e immediatamente dimenticata in tutti i commenti) il Pd ha vissuto una fase di rilancio. Una boccata di ossigeno per un partito messo alle strette dalla pessima gestione della sconfitta elettorale: provincialismo, rancori interni e fragilità nervosa si erano fusi a creare un impasto micidiale di svalorizzazione del risultato ottenuto e di sfiducia nella leadership. Come se il patrimonio di un terzo dei voti fosse una misera cosa e, in Italia o in Europa, la sinistra avesse sempre veleggiato ben al di sopra di questa cifra. Tutto ciò ha prodotto l'ingabbiamento progressivo del segretario in una rete di delegittimazione. Ruolo dal quale Walter Veltroni non è riuscito a uscire nemmeno con la grande manifestazione di Roma. Un discorso piatto di fronte a una folla entusiasta e un'azione politica senza fantasia né rigore nelle settimane successive, fino al travaso di bile prodotto, com'era destino, dall'epatologo Riccardo Villari. E infine la mazzata degli arresti a raffica.

Invocare la moralità dei 'compagni di un tempo' come qualcuno ha fatto con riflesso pavloviano non ha molto senso per il semplice fatto che il Pd non è la continuazione del Pci-Pds-Ds, ma un partito in cui sono confluiti esponenti della Margherita i cui percorsi politici, al di là del nocciolo duro degli ex Ppi, sono stati i più fantasiosi, senza una adeguata socializzazione politica all'interno di un partito strutturato. Del resto, all'epoca veniva teorizzato che la Margherita non dovesse essere altro che un traghetto verso il grande partito dell'Ulivo e quindi verifica di curriculum e selezione interna erano viste come quisquilie o, peggio, forche caudine da vecchio partito. Senza un partito forte, i cacicchi prosperano.


"L'amalgama non è riuscito", ha sentenziato Massimo D'Alema alla prima vera direzione del partito dove, finalmente, si è incominciato a discutere (riconoscendo che quello è 'il luogo' della politica democrat). Bella scoperta quella di D'Alema, come se potesse riuscire la maionese con lo strutto al posto dell'olio. Gli ingredienti del Pd non si sono 'contaminati' in una nuova cultura politica come i più ottimisti auspicavano, recitando un atto di fede più che articolando una riflessione. Perché non si dà nuova identità senza un progetto politico-ideale forte, alto, evocativo e, soprattutto, senza sostegno convinto da parte del gruppo dirigente. Sono queste le due irrinunciabili condizioni per effettuare cambiamenti veri e farli accettare sia ai vecchi militanti che ai nuovi adepti. Queste condizioni continuano a mancare drammaticamente nel Pd.

C'è però anche un'altra strada per imporre il rinnovamento. Il cambio radicale della classe dirigente. L'Spd di Willy Brandt, il Ps di François Mitterrand e il Labour di Tony Blair dimostrano che i 'nuovi inizi' necessitano di leadership collettive rinnovate in profondità, non di un uomo solo al comando.

Per il Pd non si tratta tanto di una questione generazionale - e quello dei giovani è ormai uno stucchevole leit-motiv ad usum bamboccioni - quanto piuttosto del rapporto centro-periferia. La forza del Pd, soprattutto nella componente ex diessina, sta proprio nel governo delle città, delle provincie e delle regioni. La qualità politica di tanti dirigenti locali - ed è ridicolo pensare che dieci inchieste annullino migliaia di buone amministrazioni - è più che sufficiente per ritemprare un partito sfibrato, esausto. Solo coloro che hanno dimostrato esperienza e capacità a contatto con le realtà locali, affrontando i problemi quotidiani della vita dei cittadini, e allo stesso tempo sono estranei ai 'giochi romani', possono produrre (probabilmente) un migliore amalgama e (certamente) una migliore gestione politica.

Il nuovo inizio evocato da Veltroni sembra invece ridursi a un pio desiderio, fatto per consolare e illudere, reso credibile da una unità emergenziale. Invece, solo un gesto drammatico, eroico, come l'offerta delle sue dimissioni avrebbe rimesso tutto in gioco: per un vero nuovo inizio. Adesso si dovrà aspettare il risultato delle europee per rifare gli stessi discorsi, e magari attuare ciò che non è stato fatto adesso. La crisi di identità e di convinzione, all'interno come all'esterno del partito, non si risolve aspettando. Ma iniziando davvero.

(24 dicembre 2008)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI.
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2009, 04:58:21 pm
Piero Ignazi

Un paese anormale


A renderci unici in Europa è l'ineffabile leggerezza con cui vengono recepiti xenofobia e razzismo alimentati dalla Lega  Quando dieci anni fa siamo ufficialmente entrati nell'area euro grazie all'impegno del primo governo Prodi che impose la sanguinosa finanziaria del 1996, accettata peraltro dall'opinione pubblica senza troppi mugugni tanto era chiaro e condivisibile l'obiettivo, abbiamo pensato che l'Italia stesse avvicinandoci a quella sospirata 'normalità' che da sempre ci sfuggiva. Un paese moderno, capace di indirizzare i propri sforzi verso mete ambiziose e di investire nel futuro, e con un governo in grado di convincere con argomenti razionali i propri cittadini. In quella fase tra bicamerali e 'normale' azione di governo la transizione sembrava avviarsi a conclusione. Poi, saltati uno dietro l'altro entrambi i tavoli grazie all'insipienza dei protagonisti del centro-sinistra d'allora, siamo ritornati in una fase di 'anormalità'; che perdura tuttora.

Oggi l'anormalità italiana si nutre di due fattori principali sul piano politico (e quindi escludiamo macro-fenomeni come la criminalità organizzata, l'economia grigia, l'evasione fiscale, ecc. ). La prima, arcinota, ma repetita iuvant perché si fa sempre finta di niente, riguarda, né più né meno, la (sempiterna) presenza al vertice del governo di Silvio Berlusconi in ragione della sua biografia e del suo conflitto di interessi. La seconda, anch'essa sottaciuta e sottostimata, riguarda la circolazione tranquilla - e quindi la sostanziale accettazione - delle argomentazioni, della fraseologia e degli stereotipi del razzismo identitario. Questa versione del discorso razzista ha soppiantato il tradizionale, storico, razzismo biologico secondo il quale esiste una gerarchia delle razze e, ovviamente, quella bianca e/o ariana è naturaliter superiore alle altre.

Nemmeno nell'estrema destra europea viene più adottata questa versione del razzismo. Più sottilmente, si declina la differenza tra i vari gruppi etnici in termini di diversità culturale. Ma il risultato è lo stesso: alcuni sono accettabili, altri no. Se un gruppo vuole esprimere la propria identità culturale, liberissimo: ma lo faccia a casa sua, non venga a 'mescolarsi' con noi. E se per un impulso di bontà glielo concediamo, almeno lo faccia ben nascosto dai nostri occhi, in qualche sottoscala. Questo è l'approccio adottato per primo e con più coerenza dal Front National di Jean-Marie Le Pen, e poi diffuso in tutto il continente. Questo è l'approccio che sta diffondendosi, con velocità e successo crescenti, in Italia grazie alla Lega Nord.

L'ineffabile leggerezza della ricezione della vulgata xenofoba e razzista (sub specie identitaria) costituisce anch'essa una anomalia italica: negli altri paesi europei discorsi di tal fatta sono stigmatizzati dall'opinione pubblica democratica, e gli esponenti politici che li veicolano sono emarginati dagli altri partiti. In Francia, ad esempio, Nicolas Sarkozy ha eretto un invalicabile cordone sanitario nei confronti del Front National. Qui la Lega continua a imperversare con una tambureggiante offensiva volta a stigmatizzare i 'bingo bongo' come elegantemente Umberto Bossi definì gli immigrati (domanda: qualcuno pensa che negli Usa pre-Obama o in Gran Bretagna o in Francia sarebbe ancora ministro un politico che si fosse espresso così?). Ora siamo all'introduzione di una nuova tassa ad hoc per gli immigrati. In fondo, nonostante il governo Berlusconi si vantasse di voler abbassare le tasse, tartassare i più poveri rientra perfettamente nelle corde di un governo di destra.

L'odio contro i diversi alimentato in questi anni dalle fornaci leghiste si sta riversando lungo tutta la Penisola. L'offensiva anti-immigrati non si ferma di fronte a nulla, né di fronte a quelle voci, peraltro fioche, alterne, sporadiche, della Chiesa che reclamano un po' di umanità, né ai richiami delle organizzazioni internazionali e dell'Europa (sulla opposizione interna meglio stendere un velo). Un solo esempio: ancora pochi giorni fa il gaffeur principe della nostra diplomazia - l'ex brillante ministro degli Esteri Franco Frattini - ha emesso una dura nota contro le critiche sulla questione rom mosse da Thomas Hammarberg, commissario per i Diritti umani del Consiglio d'Europa - sprezzantemente definito 'il signor Hammarberg' (sic).

La ricezione tranquilla del discorso razzista, senza reazioni di rigetto, senza la forza dell'indignazione, senza l'opposizione di valori universali, ci rende, una volta di più, anomali rispetto al mondo civile. Altrove, chi attraversa il confine tra il lecito e il non-lecito nella tavola dei valori democratici viene emarginato. Nel Belpaese, va al governo e viene riverito.

(23 gennaio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Un regime postmoderno
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2009, 03:24:41 pm
Piero Ignazi

Un regime postmoderno


Berlusconi ha dato il via alla fase due: la vicenda  di Eluana è solo un pretesto abilmente gestito  Ci siamo arrivati. I benandanti della politica - illusi o corrivi non è dato saperlo - che ritenevano il presidente del Consiglio un uomo politico 'normale' hanno materia per ricredersi. Alla prima occasione utile con la freddezza, il cinismo e l'abilità che contraddistinguono Silvio Berlusconi è partita la fase due della costruzione del regime. E, per cortesia, non si venga a dire che non si tratta di regime: quando al potere economico e al controllo assoluto sull'informazione, si unisce anche il dominio sul politico, siamo alla costruzione di un regime, per quanto adeguato ai tempi post-moderni; e quindi suadente e dissuasivo allo stesso tempo, che vuole essere amato più che temuto, benché all'occorrenza sappia usare il pugno di ferro. L'offensiva contro il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ne è la prova.

La fase uno della costruzione del regime si è modulata lungo un quindicennio, con la costruzione del mito dell'uomo della provvidenza, con la demonizzazione dell'avversario e l'instaurazione di un clima da guerra civile a bassa intensità, con la creazione di un gigantesco sistema di interessi grazie all'uso spregiudicato di sconfinate risorse economiche, con il consolidamento dell'impero mediatico e il suo intelligente uso ad usum delphini. Tutto questo è stato costruito dal nulla in 15 anni grazie a eccezionali capacità e risorse, e alla miseria cultural-politica degli avversari, incapaci di cogliere i passi falsi e le battute d'arresto in cui questo progetto di tanto in tanto incappava. Ora è troppo tardi. Annichilito il Pd a causa delle sue debolezze interne, di personale politico nazionale innanzitutto, e di progettualità e strategia in secondo luogo, non ci sono barriere.

La fase due dell'instaurazione del regime è tutta in discesa. Bastava aspettare il momento buono per avviarlo. E questo è arrivato sfruttando un tema di fortissimo impatto emotivo come la vicenda di Eluana Englaro. Berlusconi non aveva alcuna idea su questa dolorosa vicenda. Ancora due giorni prima del consiglio dei ministri di venerdì 6 febbraio il presidente del Consiglio dichiarava di non averne maturato una precisa.

Poi il suo staff ha suggerito una strategia d'attacco su questo tema per introdurre una nuova, drammatizzante, contrapposizione politica tra la maggioranza identificata come il fronte della vita e l'opposizione marchiata come i portatori della falce della morte. Semplificazioni volgari ma efficacissime, che si depositeranno nella memoria collettiva perché l'opinione pubblica non si interessa affatto del federalismo, della legge elettorale, della riforma della giustizia, ecc., ma ha una sua posizione su questa vicenda che tocca la vita (e la morte) di ciascuno. Riuscire a politicizzare questo confronto brandendo lo stendardo immacolato della vita contro lo spettro della morte è una operazione di grande abilità e di sicuro, duraturo, successo. Sarà questo il leit-motiv dei prossimi mesi e anni, e sarà dura strappare all'appassionato e compassionevole presidente del Consiglio l'aura del salvatore degli inermi e dei più deboli presso tanta parte di elettorato, soprattutto quello più disattento alla politica e meno provvisto di strumenti culturali.

Messa l'opposizione in un angolo terribilmente buio (buio come la morte), Berlusconi può procedere al suo obiettivo ultimo: impiantare un regime personalistico di tipo peronista che si fondi sul rapporto mediatico-medianico con il popolo, azzerando ogni contropotere e ogni impiccio al dispiegamento della benevola e benevolente attività del 'capo'. Ovviamente la separazione e l'equilibrio tra i poteri andranno a quel paese, ma che importa: di fronte al fine ultimo, cioè l'eliminazione politica della sinistra - un remake, con qualche adattamento al palato del XXI secolo, del 1922 - anche i dubbiosi si allineeranno. Del resto, il principio della democrazia delegata, tanto caro agli inglesi, è stato abbandonato un po' da tutti. La mitologia delle primarie 'aperte al popolo', che tanto ha affascinato la sinistra negli ultimi tempi e da cui fatica a rinsavirsi , ha picconato anch'essa la concezione della lenta e graduale formazione delle scelte, saltando d'un balzo tutte le mediazioni e aprendo la strada al plebiscitarismo e alla presidenzializzazione dei partiti.

Gli anticorpi culturali al dilagare del populismo berlusconiano sono oggi più deboli rispetto a quindici anni fa per il lavorìo continuo ed abile condotto dalla destra e per la scarsa consapevolezza della sinistra. E il tema sul quale si innesterà il cambiamento istituzionale, 'per la vita e contro la morte', è così emotivo e tranchant che sarà assai difficile contrastare. O quanto meno ci vogliono convinzioni forti e persone coraggiose, all'altezza della sfida. Ancora una volta, attendiamo il Godot democratico.

(13 febbraio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Per un Pd credibile
Inserito da: Admin - Marzo 07, 2009, 12:28:54 am
Piero Ignazi

Per un Pd credibile


Dario Franceschini può dare al partito una direzione netta, che indichi da che parte stare
Vi sono alcune trappole lungo il cammino del nuovo Pd di Dario Franceschini. Non ci riferiamo tanto a quelle che gli avversari interni piazzeranno continuamente per puro autolesionismo: ormai all'interno del Pd è diventato un moto riflesso quello di sparare addosso al leader di turno - anche perché, altrimenti, molti cosiddetti leader, che vivono solo di dichiarazionismo, cioè di parole dette e riportate dai media, non saprebbero come passare la giornata. Ci riferiamo piuttosto ai consigli che benevolmente ma con il ditino alzato vengono dai molti soloni dell'establishment cultural-mediatico. E massimamente all'invito a fare la faccia gentile e a collaborare con il governo e, in subordine con l'Udc, e a lasciar perdere la pericolosa compagnia della sinistra radicale, per non parlare poi di quell'impresentabile popolano di Di Pietro: 'Sapesse contessa.'.

Franceschini non ha bisogno di consigli perché ha già dimostrato nel corso della sua carriera politica di saper fare di testa sua, anche a dispetto della prudenza, virtù che i democristiani succhiavano con il latte materno; nel IV congresso del Ppi, indispettito per uno sgambetto fatto dai maggiorenti del partito, Franceschini si candidò alla segreteria sfidando a viso aperto i suoi supposti padrini. Perdendo, ovviamente, ma dimostrando una virtù disperatamente scarsa tra i dirigenti del Pd: il coraggio.

Il neo-segretario democrat ha le carte in regola per smarcarsi dalle insidie del nuovo politically correct. Anche perché dovrebbe essere ormai chiaro che in un sistema partitico polarizzato come quello italiano non si vince seguendo il vecchio modello della 'prossimità', vale a dire avvicinandosi il più possibile al centro dello spettro politico. Si vince seguendo il modello della 'direzione' che prescrive di scegliere chiaramente 'da che parte stare' nei vari temi in conflitto, tenendo una posizione forte, ed anche, udite udite, radicale. Solo presentando all'elettorato un programma dai contorni netti e marcati, proposte radicalmente alternative al mainstream politico, e iniziative conflittuali nei confronti degli avversari, l'elettorato di sinistra può essere mobilitato - e quello non fidelizzato dal berlusconismo conquistato. Questo significa che la politica del Pd deve aumentare esponenzialmente la sua capacità di porre al centro dell'agenda politica i propri temi e deve condurre una lotta senza quartiere al governo battendo sui suoi numerosi punti deboli: dalla distruzione della scuola di ogni ordine e grado ai 4 miliardi fatti pagare agli italiani per salvare Air One e regalare agli amici l'Alitalia, dall'assenza assoluta di iniziative anti-crisi al picconamento delle norme anti-evasione, dal bavaglio all'informazione alla militarizzazione e 'miliziazione' del territorio, dall'incitazione continua all'odio razziale al dilettantismo e al provincialismo da italietta d'antan in politica estera.


Se il Pd non si fosse dedicato alla contemplazione del proprio ombelico in questi lunghi mesi ma avesse fatto politica, si sarebbe accorto di quali e quante armi polemiche gli offre l'improntitudine del governo della destra. Quando si combatte un avversario che non esita ad usare calunnie e disinformazione in quantità sovietico-goebbelsiana (ci siamo dimenticati delle panzane propalate dal conte Igor e avallate dai megafoni della destra nella Commissione parlamentare truffa su Telekom Serbia, o il caso Scaramella in quella parallela sul dossier Mitrokin per incastrare Romano Prodi come agente del Kgb?) non ci si può opporre con la nobiltà della cavalleria, come fecero i polacchi di fronte ai panzer tedeschi. Si finisce massacrati. Suonano quindi falsi quegli inviti alla prudenza e al bon ton quando non si è levato nemmeno un sospiro di fronte alle palate di guano lanciate dall'altra sponda. E allora, visto l'animus pugnandi dell'avversario, bisogna attrezzarsi di conseguenza e incominciare col respingere al mittente l'insistente richiesta di 'liberarsi' di Di Pietro. Certo, il leader dell'Italia dei Valori non è elegante e fine come l'ex sindaco di Treviso Gentilini, né cristallino e probo come il sottosegretario all'Economia Cosentino; però dall'altra parte non si è esitato ad allearsi con formazioni dell'estrema destra come Forza Nuova. Qualche terzista ha mai alzato la voce per questo? Insomma, in un sistema partitico polarizzato vince chi occupa con determinazione e chiarezza lo spazio alternativo agli avversari, non chi ci si avvicina. Solo così si guadagna la credibilità perduta. Forse Franceschini l'ha capito meglio di altri.

(06 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Con Dario si può fare
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2009, 11:27:40 pm
Piero Ignazi


Con Dario si può fare


Che cosa è oggi il Pd? Non è un partito socialista, né confessionale o liberale. Ora occorre dare sostanza culturale al progetto  Dario FranceschiniIn un'altra era geologica, nel luglio del 1976, un accordo di vertice o un complotto, a seconda delle interpretazioni, portò alla segreteria del Psi un giovane 'fuori dai giochi', punto di equilibrio tra i maggiorenti del partito, destinato a essere una parentesi in attesa che i big, De Martino, Giolitti, Mancini, ecc., tornassero in pista. Quel giovane era Bettino Craxi, e tutto è stato fuor che una meteora. Nulla si ripresenta con la stessa fisionomia nella storia e tanto meno in politica. Eppure l'elezione di Dario Franceschini alla testa del Pd ricorda un po' quella vicenda.

Soprattutto simile è la situazione dei due partiti: entrambi precipitati in una profonda crisi 'esistenziale'. Esistenziale più che politica, perché come era accaduto allora al Psi anche nel Pd si è esaurita la spinta vitale, non si crede più in quello che si fa e si passa il tempo a lagnarsi dei propri problemi. Manca il cemento identitario, lo spirito di corpo, l'identificazione in un obiettivo.

Walter Veltroni aveva avuto il coraggio, l'ardire quasi, di indicarne uno ambiziosissimo che avrebbe potuto attivare energie e risorse assopite, rincantucciate nelle pieghe della società italiana: quello di creare un partito 'a vocazione maggioritaria', pessima espressione per indicare la costruzione del primo, grande soggetto riformista della storia italiana, libero dalle ideologie del passato, aperto, inclusivo, aggregante. Il risultato elettorale è stato buono (ripeto: buono, perché è andato oltre la somma dei due partiti fondatori, ed è su questi dati e non su altri parametri che si misurano i risultati elettorali). La gestione di tale risultato, al contrario, è stata disastrosa, per incapacità del segretario e per voglia di rivincita degli avversari interni.

Di conseguenza, invece di partire a testa bassa a fare opposizione come in qualsiasi paese con dinamiche politiche bipolari, proprie di una democrazia dell'alternanza, il Pd si è trastullato con polemiche intestine, finendo per perdere per strada una marea di consensi.


L'elezione di Franceschini ha arrestato la spirale autodistruttiva. Le prime uscite del neosegretario sono state chiare, precise, concrete . Un linguaggio semplice e diretto, espresso con un'aria da ragazzo della porta accanto, non da politico di lungo corso. Una modalità che lo ha immediatamente differenziato dai suoi blasonati colleghi di partito, rendendolo così più appetibile a quelle larghe platee che giudicano i politici (e qualsiasi persona pubblica) su basi pre-razionali, emotive, spesso indipendentemente dal contenuto.

Franceschini non può però sperare di contare sull'elemento novità e freschezza più di tanto. Questa fiammata di attenzione e simpatia si esaurisce presto se non è sostenuta da iniziative coerenti. E qui torna il problema del partito. Ancora una volta: che cosa è oggi il Pd? Non è socialista, ovviamente, non è confessionale, ovviamente, e non è, ancora più ovviamente, liberale. È allora qualcosa mai creato prima in politica? Per anni gli ulivisti doc hanno insistito proprio sulla 'novità' Pd, sul suo essere inconciliabile con ogni altra esperienza del passato ma, salvo pochissimi casi (Michele Salvati tra questi pochissimi), non hanno mai dato sostanza culturale al progetto: si sono limitati a slogan, buoni propositi e giaculatorie.

Franceschini non ha la bacchetta magica per sciogliere questi nodi, però deve avviarli a soluzione perché le elezioni europee si avvicinano e con esse una definizione della collocazione politica del Pd a Strasburgo. Con molta comprensione e buona volontà i socialisti europei hanno concesso agli eletti democrat uno status da 'osservatore' nel prossimo Parlamento europeo ma è una scelta transitoria, anche perché al di fuori dei grandi gruppi non si conta nulla a Strasburgo.

Il dilemma riguarda soprattutto la componente cattolica: se vuole essere alternativa al moderatismo confessionale delPartito popolare europeo, pronto ad accogliere a braccia aperte il Pdl di Berlusconi, non c'è altra opzione che il gruppo socialista del Pse (a meno che essa non scopra una anima verde o liberale.). In mezzo ci sono irrilevanza e velleità . Il segretario del Pd è meglio attrezzato di altri per mettere ordine tra le tentazioni neocentriste e clerical di molti suoi ex compagni di partito e il profilo 'progressista' del partito. Un compito che sarà agevolato se Franceschini insisterà nel promuovere azioni in difesa dei ceti sociali minacciati dalla crisi, che rischiano di essere rappresentati, unicum in Europa, soprattutto dalla destra.

(16 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Apprendisti stregoni
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 04:50:04 pm
Piero Ignazi


Apprendisti stregoni


Nei confronti del referendum sulla legge elettorale, Berlusconi si sta spostando verso il sì all'abrogazione. Il motivo: al Pdl in questa fase va benissimo una legge che assicuri al primo partito il bonus per arrivare al 55 per cento   Umberto BossiFreddo e scettico nei confronti del referendum sulla legge elettorale, Silvio Berlusconi si sta spostando con moto accelerato sul versante del sì all'abrogazione. La ragione è evidente: forte com'è ora nell'opinione pubblica, al Pdl va benissimo una legge-'mostre' che assicuri al primo partito un bonus per arrivare al 55 per cento dei seggi, qualunque sia la percentuale ottenuta.

Con questo ulteriore mostriciattolo elettorale - un unicum nel panorama delle democrazie consolidate, che ci porrebbe ai margini delle stesse democrazie per la distorsione clamorosa del principio di rappresentanza - il partito del presidente del Consiglio non avrebbe più bisogno di alleati. Potrebbe andare libero e tranquillo per la sua strada, senza il minimo condizionamento.

Anzi, magari prende corpo l'ipotesi di una crisi pilotata per arrivare allo scioglimento anticipato delle Camere e approfittare così del regalo fornito dalla nuova legge elettorale. Per Berlusconi sarebbe la blindatura definitiva del suo potere, vita natural durante. L'incubo di morire democristiani che tanto agitava i sonni della sinistra degli anni Ottanta, si traduce ora nella prospettiva di un lungo regime personalistico di tipo sultanistico - e non solo in senso politologico, alla Sartori, ma anche in senso colloquiale.

Al di là di ogni elucubrazione sull'esito e gli effetti del referendum, quello che è certo è lo stato di grazia in cui si muove il partito di maggioranza. Per intralciare la sua marcia trionfale verso le elezioni europee alcuni ingegni del Pd, con una improntitudine già dimostrata in precedenti occasioni, puntano su una supposta riottosità della Lega all'alleanza con il Pdl.

Immemori del patto d'acciaio siglato un decennio fa tra Bossi e Berlusconi, questa schiera di apprendisti stregoni sembra ignorare quanto il
Carroccio abbia incarnato sempre più convintamente posizioni di destra anti-immigrati e law-and-order. È evidente che con un profilo politico siffatto il partito di Bossi non può trovare sponda altro che nel Pdl.

Invece circola ancora quell'abbaglio sociologico che dipinge la Lega come una costola smarrita della sinistra per via del suo elettorato popolare, dimenticando le motivazioni, gli slogan, le parole d'ordine con i quali essa attira i propri elettori; richiami che sono del tutto simili a quelli degli altri partiti populisti e xenofobi europei, dal Front National di Jean-Marie Le Pen alla formazione di Jörg Haider, il leader austriaco recentemente scomparso, sempre ammirato dai leghisti.

E come quei partiti, anche la Lega attira le componenti meno acculturate e meno favorite, quelle più spaventate dalle trasformazioni delle nostre città e dal diffondersi del panico mediatico. Il dialogo sulle riforme avviato dal Pd con la Lega nell'illusione di alimentare attriti con il Pdl in realtà non fa altro che legittimare l'agenda politica del partito di Bossi (con i risultati che si vedranno alle europee e, soprattutto, alle amministrative).

Maggior grinta il Pd la esibisce nei confronti dell''alleato' Di Pietro. Il residuo snobismo ancora aleggiante tra i 'democrat' rende difficile la convivenza con l'irruente Tonino. Il tratto popolare, popolano anche (ma non populista), dell'ex magistrato mette in sofferenza la sindrome della rispettabilità e delle buone maniere che pervade da anni il centro-sinistra.

Mentre i dipietristi continuano a lanciar bordate contro il governo come ogni opposizione che si rispetti e non dimentica mai né il conflitto di interessi né le leggi ad personam né il dominio berlusconiano sui media, il Pd sorvola con eleganza lettiana su queste questioni. E sul declassamento dell'Italia da paese libero a paese semilibero da parte della Freedom House "per la concentrazione delle fonti d'informazione" appena un sospiro.

Eppure, il ceto medio riflessivo continua, seppure con crescente fatica, a indignarsi; c'è ancora una opinione pubblica che 'resiste' all'incensamento mediatico del Cavaliere faber, e ora anche pater premuroso della povera gente terremotata. Sono componenti che trovano maggior rispondenza alle loro preoccupazioni in un partito improbabile e raccogliticcio, ma vocale e battagliero, come l'Italia dei Valori.

Il Pd finisce per fare il donatore di sangue, sia a destra che a sinistra (senza parlare dei tormenti dei suoi cattolici). In sovrappiù, i probabili successi elettorali della Lega e dell'IdV avranno un impatto sistemico superiore al trionfo del Pdl: radicalizzeranno il conflitto politico consentendo al Pdl di porsi in una collocazione centrale, come espressione super partes, vero 'partito unico nazionale', spingendo il Pd ai margini della scena politica. Uno scenario da incubo.

(07 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. La fattoria degli animali
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2009, 05:09:37 pm
La fattoria degli animali


di Piero Ignazi

Ogni sistema di potere non si regge senza una legittimazione e senza una sorta di 'mission', esplicita o implicita che sia. Il sistema di potere creato da Silvio Berlusconi a partire dal 1994 aveva - e ha tuttora - due finalità fondamentali: salvare l'impero Mediaset dal fallimento verso il quale stava precipitando in quegli anni, e salvare l'Italia dai comunisti. Il primo risultato è stato brillantemente raggiunto sia per scelte di uomini azzeccate al suo vertice (Franco Tatò, ad esempio); sia per normative favorevoli (emblematica la vicenda di Rete 4); sia per la non belligeranza del mondo politico ed economico.

La seconda finalità, all'inizio, faceva sorridere. Era finita la guerra fredda, il comunismo e il Pci non c'erano più da anni e questo resuscita un ritornello da anni Cinquanta.

Eppure quella vecchia melodia si era profondamente sedimentata nelle menti e nei cuori di tanti italiani. La Dc l'utilizzava solo nei momenti elettorali e poi la rimetteva nel cassetto, perseguendo politiche che necessitavano di un ampio consenso. Ma serviva mantenere viva l'esistenza di un nemico, forte e minaccioso - così come lo era, per la sinistra, il capitale e/o il fascismo, altrimenti detto 'la reazione' - perché forniva un facile e immediato senso di appartenenza: noi siamo di qua, contro 'gli altri'. Pur sotterrata da anni di bassa temperatura ideologica, la frattura, sotto traccia, era ancora scomposta. L'unico, autentico, colpo di genio del Cavaliere è stato quello di rivelarla, di riaprirla e di tenerla sempre attiva.

Ancora la scorsa settimana, non ha saputo far altro che gridare ai microfoni che era contestato da "gruppi di comunisti organizzati". Una frase non casuale perché unisce vari messaggi: l'organizzazione di un dissenso che altrimenti non ci sarebbe e quindi la malvagità di chi lo 'crea' artificiosamente; la connotazione di comunisti perché solo gli amici di Pol Pot possono concepire di contestarlo.

Questa insistenza fobica sul pericolo rosso ha ancora efficacia presso il suo elettorato. Come mai? Perché in questo quindicennio è stato costruito un 'nuovo elettorato' - il suo -, cioè un elettorato autenticamente e 'liberamente' di destra che prima non si esprimeva in quanto tale, tarpato com'era dall'ottundimento democristiano e l'impresentabilità neofascista. A questo elettorato, peraltro differenziato e disomogeneo, il Cavaliere ha proposto di identificarsi nella sua 'bio-storia' (corpo e anima), e di combattere il nemico che vuole rovinare l'Italia. Due identità deboli e forti allo stesso tempo: deboli in quanto l'una riassume tutto in una persona con tutti i rischi connessi, e l'altra è declinata al negativo; forti perché di facilissima identificazione: sono per/con Berlusconi, sono contro i comunisti e la sinistra.

Per mantenere questa impalcatura Silvio Berlusconi ha introdotto una dinamica populista di contrapposizione assoluta con il nemico, salvo tendergli la mano per fargli abbassare la guardia e colpirlo meglio, rafforzata dalla produzione di un sistema di credenze ad usum delphini. Su quest'ultimo aspetto siamo entrati in una dimensione puramente orwelliana. Un episodio su tutti: l'invenzione del fidanzamento di Noemi. Scaricato l'impresentabile Gino, prodotto autentico dell'ambiente dove vive e opera la famiglia Letizia, ecco arrivare dalle fucine del mondo Mediaset e dintorni un giovanotto aitante e belloccio, adatto a creare una immagine glamour della giovane illibata. Un fidanzamento creato a tavolino (all'usanza talebana), con incontri e foto relative concordati con i media del padrone, per fornire l'immagine della ragazza e della famiglia in questione (e siamo sempre curiosi di sapere a quale titolo il signor Letizia potesse parlare di candidature con il presidente del Consiglio...). In questo piccolo grande caso siamo di fronte a una spudorata 'creazione della realtà'. E chi non ci sta, come una delle ragazze di Bari, si trova, guarda caso, l'auto bruciata.

Non basta. Assistiamo anche alla invenzione di nuove norme etiche, per cui i giudici della Corte costituzionale nominati dal centrodestra rivendicano con orgoglio la loro fedeltà al benefattore, senza che gli passi per l'anticamera del cervello che un comportamento del genere, in paesi democratici, porterebbe alle immediate dimissioni; provino a chiedere ai loro colleghi europei e nordamericani cosa ne pensano: provino. Siamo ormai entrati a pieno titolo nella fattoria degli animali (e in via di uscita dalle democrazie normali).

(09 luglio 2009)

da epresso.repubblica.it
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Titolo: Piero IGNAZI. Passi falsi e gaffes
Inserito da: Admin - Settembre 10, 2009, 10:59:09 am
Passi falsi e gaffes

di Piero Ignazi


L'immagine dell'Italia nel mondo è al punto più basso dal dopoguerra. Con una politica estera velleitaria che rischia di emarginarci.

La politica estera italiana ha sempre oscillato tra l'acquiescenza a decisioni e indirizzi 'imposti' dall'esterno, e le velleità di autonomia e indipendenza d'azione. Solo negli anni Ottanta era maturata una certa consapevolezza del ruolo, dignitoso ma 'contenuto', consentito dall'ordine internazionale ad una media potenza come l'Italia. In quel periodo, agendo di concerto con gli alleati e muovendosi nel solco dei due binari tradizionali della politica estera post-bellica, atlantismo ed europeismo, il nostro paese ha potuto declinare qualche iniziativa originale e non velleitaria (benché non coronata dal successo) come l'avvio di una intensa attività di cooperazione internazionale verso i paesi in via di sviluppo, e la proposta di un forum di conciliazione al profilarsi della disgregazione della Jugoslavia. Per contro, si sono rivelati efficaci gli interventi sul piano europeo, dalla promozione dell'Atto unico al sostegno al trattato di Maastricht. La politica estera della seconda repubblica post-1994 ha invece un andamento oscillante, quasi schizofrenico, dovuto al diverso colore politico dei governi che si sono succeduti.

Il governo Berlusconi ha ulteriormente accentuato la divaricazione rispetto alle linee strategiche tradizionali di politica estera. Ma mentre nel passato era almeno chiara l'impostazione di fondo - adesione tanto entusiasta quanto supina all'amministrazione Bush e freddezza, se non aperta ostilità, verso l'Unione europea - l'attuale governo mostra invece una fragilità e una incoerenza inedite. L'aspetto più sorprendente viene proprio dalla Farnesina. Dal ritorno di Franco Frattini alla guida della nostra diplomazia dopo lunghi anni come commissario a Bruxelles ci si aspettava una azione coerente e ben definita. E invece i passi falsi e le gaffes si sono ripetuti a scadenza regolare: dall'infelice gestione balneare al sole delle isole tropicali della crisi georgiana dell'agosto scorso, agli interventi dalle stazioni sciistiche in tuta sportiva durante l'attacco israeliano a Gaza, per finire con la frettolosa retromarcia di una improvvisata visita a Teheran fuori da accordi con gli alleati. A queste debolezze ministeriali, di gestione, si aggiungono, ben più gravi, quelle di indirizzo politico. È qui che emergono le contraddizioni interne e l'assenza di un strategia da parte del governo. Il dossier russo è uno dei più preoccupanti per la lenta e continua degradazione delle condizioni democratiche interne a quel paese. A dispetto di tutte le cautele dei nostri alleati l'Italia continua a giocare una sua partita 'personale' potremmo dire visti i rapporti intimi, 'di letto', che legano Berlusconi e Putin. L'improvvisata del presidente del consiglio ad Istanbul alla firma dell'accordo tra Russia e Turchia per il gasdotto alternativo a quello sponsorizzato dall'Unione europea evidenzia che l'Itala, su un tema così centrale come la sicurezza energetica continua ad agire in solitaria, indifferente alle scelte adottate in sede europea ed atlantica.
 
Ma l'aspetto più inquietante viene dalla esplicita dissociazione della Lega dagli impegni militari all'estero. Il provincialismo del Carroccio si è manifestato appieno in questi giorni reclamando il tutti a casa dall'Afghanistan e dagli altri teatri di crisi. Il tutto senza uno straccio di motivazioni, contrariamente a quanto articolato dalle componenti pacifiste e antimilitariste della sinistra radicale che tanto hanno indignato per anni i corifei neocons.

Poiché la Lega è ben più influente dei Turigliatto del governo Prodi, e poiché le risposte del ministro degli Esteri, della Difesa e dello stesso premier sono state impercettibili, l'opposizione dovrebbe trascinare il governo alle Camere per riferire sulla politica estera e sulle missioni militari all'estero. Anche perché l'immagine internazionale dell'Italia è al punto più basso dal dopoguerra. Chiunque legga i quotidiani e i settimanali stranieri, ad eccezione di quelli russi, vede l'irrisione se non addirittura il disprezzo con cui è trattato il nostro capo del governo - e di conseguenza tutto il paese. Se a tutto ciò aggiungiamo anche una politica estera autarchica e disinvolta, e oltretutto priva del sostegno dell'amico Bush, l'Italia non può che scivolare verso l' irrilevanza nei rapporti internazionali. E non può uscirne con l'attuale assetto di governo.

(21 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Il futuro dei partiti
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2009, 10:00:20 pm
Il futuro dei partiti

di Piero Ignazi


La loro forza non sta più nel numero degli iscritti ma nella loro capacità di aprirsi a simpatizzanti ed elettori. Ma con un rischio  Ségolène RoyalIn tutte le democrazie mature i partiti soffrono di una crisi di legittimità. I cittadini contestano con sempre maggiore durezza le loro manchevolezze sia in termini di efficienza e rispondenza - non sono più in grado di interpretare le domande della società civile e di offrire risposte convincenti e/o realizzabili - che di onestà e trasparenza - curano solo i loro interessi trincerandosi dietro paraventi impenetrabili. Queste accuse riflettono sentimenti esasperati di estraneità e di alienazione rispetto alla politica, eppure sono così diffuse da suscitare la preoccupazione dei politici e la riflessione degli studiosi.

Al congresso annuale dei politologi americani svoltosi a Toronto la scorsa settimana, la crisi dei partiti è stata affrontata nei suoi diversi aspetti. Al centro di molte relazioni che guardavano soprattutto all'esperienza europea vi era il rapporto leadership-iscritti-elettori. I partiti americani, dal canto loro, fanno eccezione perché non hanno la stessa concezione dell'iscritto e del suo ruolo come 'agente' del partito nel territorio. Quelli europei, invece, hanno fondato la loro legittimità e la loro ragion d'essere nell'inquadrare, e così rappresentare, ampi strati della popolazione. Seguendo il vecchio mito del partito di massa novecentesco, più numerosi erano gli iscritti, più legittimo e più forte era il partito. Tutto ciò aveva senso all'epoca della rivoluzione industriale quando il numero 'era' la forza. Ma nella società post-industriale e post-moderna questi parametri non valgono più. La forza dei partiti non sta più nelle loro quantità, bensì nelle risorse che riescono ad estrarre dallo Stato, sia direttamente in termini di finanziamenti, strutture e personale, sia indirettamente attraverso la lottizzazione. Senza alcun dubbio oggi i partiti sono più forti di un tempo perché dispongono di più risorse e controllano più direttamente le politiche pubbliche. Ma sono giganti dai piedi d'argilla perché, oltre ad aver perso iscritti, hanno perso credito.

Per recuperare la loro posizione i maggiori partiti europei hanno deciso di agire su due leve: da un lato delegare maggiori poteri agli iscritti e dall'altro aprirsi alla società civile, ai simpatizzanti e agli elettori. Anche i partiti britannici, tra i più potenti e pervasivi di tutte le democrazie occidentali, hanno riconosciuto la difficoltà a utilizzare solo il canale interno, quello che passa attraverso i militanti. Per connettersi direttamente con la cittadinanza hanno aperto canali di comunicazione come il 'Let's talk' dei laburisti, 'giurie dei cittadini' su temi scottanti, blog più o meno ufficiali, e reti di simpatizzanti come i 'Friends' dei conservatori e i 'Supporters' dei liberaldemocratici e dei laburisti. Ultimamente i conservatori sono andati anche oltre. Dopo aver rotto una tradizione secolare di imposizione vellutata delle candidature e aver coinvolto gli iscritti locali, da quest'anno hanno introdotto una sorta di primarie aperte per scegliere i propri candidati alle elezioni. La stessa procedura, dopo un lungo e infuocato dibattito, è stata riconfermata anche dal partito socialista francese proprio la scorsa settimana.

L'apertura alla società civile solleva però un altro problema: qual è il ruolo dell'iscritto? Se gli viene tolto il potere di selezione dei candidati e dei leader e anche le grandi scelte politiche vengono sottoposte al giudizio dei simpatizzanti attraverso blog e referendum elettronici, che senso ha iscriversi? In effetti il dilemma dei partiti contemporanei si concentra tutto qui. Per recuperare consenso e fiducia si aprono alla società, ma in tal modo sguarniscono ancora di più le loro fila, finendo quindi per essere di nuovo accusati di aver perso contatto con i cittadini, di non riscuotere più la loro fiducia e quindi, alla fine, di non vantare più alcuna legittimità. Una sorta di circolo vizioso, di trappola, nella quale rischiano di precipitare.

La soluzione che alcuni individuano consiste nell'affidare le sorti del partito a una leadership più o meno carismatica. Ma questo è un rimedio peggiore del male, in paesi a debole cultura liberal-democratica come il nostro. Un'altra via di uscita consiste nel bilanciamento tra una membership attiva e gratificata perché dotata di strumenti e poteri di intervento, e una leadership in grado di stimolare la partecipazione dell'opinione pubblica senza smobilitare i propri militanti. Una strategia che stimoli il rapporto diretto con i cittadini e il ruolo dell'iscritto riduce il rischio di ricacciare il partito nel girone infernale degli indesiderabili. Un rischio che invece il Pd sta correndo.

(10 settembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Le due destre al Governo
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2009, 11:12:52 am
Le due destre al Governo

di Piero Ignazi

C'è quella movimentista di Brunetta, Sacconi e Gasparri e quella di regime di Tremonti e Letta
 

Renzo de Felice, il grande storico del fascismo, distingueva tra 'fascismo movimento ' e 'fascismo regime'. Quest'ultimo costituiva la normalizzazione delle tensioni rivoluzionarie, la riduzione corporativa dei conflitti sociali, l'armonizzazione - e clericalizzazione - della società, il suo imborghesimento 'panciafichista'. Il primo rappresenta, per de Felice, l'essenza vera, il filo rosso che segna tutta la storia del ventennio: è il fascismo delle origini e del crepuscolo, quello 'sociale' che punta al cambiamento, alla novità, alla 'rivoluzione', che si contrappone tanto alla borghesia quanto al proletariato, che diffida del vecchio establishment e che individua sempre nuovi nemici. Nerbo del fascismo-movimento furono, come dice lo storico, "i ceti medi emergenti (...) quei settori della piccola borghesia che aspiravano ad una propria maggiore partecipazione e direzione della vita sociale e politica nazionale, quei settori che non riconoscevano più alla classe dirigente tradizionale e a quella politica in specie, né la capacità né la legittimità di governare. (...) Volevano affermare la loro funzione, la loro cultura e il loro potere politico contro la borghesia e il proletariato".

Mutatis mutandis queste categorie si possono oggi applicare alla destra berlusconiana. Sia ben chiaro: non si vuol dire che le idee, i valori, i programmi del berlusconismo siano assimilabili al fascismo storico. Sarebbe una sciocchezza. Tuttavia nel mondo politico che ruota attorno al Cavaliere, tanto nel PdL quanto nella Lega, serpeggiano due tendenze assimilabili alle categorie del 'movimento' e del 'regime'. Quella di movimento ha i suoi alfieri nei Brunetta e nei Gasparri, nei Sacconi e nella Gelmini, passando per i leghisti di complemento. Questi personaggi adottano tematiche e stili comunicativi aggressivi che mobilitano il proprio elettorato additando loro i 'nemici' del popolo che tramano contro gli interessi della nazione: l'opposizione, ovviamente, ma anche i 'poteri forti', i sindacati, e quel poco di stampa indipendente residua, nonché categorie specifiche come i magistrati, gli insegnanti e il pubblico impiego in genere, vale a dire le categorie che non votano a destra. Il loro linguaggio oscilla dall'irrisorio al protervo, salvo ripiegare sul vittimismo aggressivo se contrastati con durezza. Inoltre, la protezione assicurata dai media consente loro di sparare menzogne a raffica - si vedano i puntuali riscontri sul sito de lavoce.info - senza timori di smentite che, semmai, arrivano a pagina 40 in corpo 6, dopo qualche giorno.
Ma la protezione maggiore è assicurata dal grande capo. Il Click here to find out more!

Cavaliere in persona identifica il tipo ideale del movimentismo di destra: sempre all'attacco, rovesciando delegittimando a piè sospinto gli avversari che vogliono il male del paese, che coltivano la cultura della morte, che tifano per la crisi, piccona continuamente regole e prassi, garanzie ed equilibri tra i poteri, al fine di introdurre un regime personalistico-plebiscitario.

Dal movimentismo della destra promana un desiderio di rivalsa, di rivincita e di affermazione che ricorda da vicino le pulsioni dei ceti medi in ascesa descritti da de Felice. Ceti che si identificano oggi nel lavoro autonomo in tutte le sue mille varianti, dai micro-imprenditori ai consulenti di ogni tipo, dai commercianti agli artigiani.
Ceti esplosi vent'anni fa e che già allora chiedevano un riconoscimento e una 'loro' rappresentanza. Il crollo della Dc li ha portati naturaliter verso il nuovismo di destra il cui discorso arrivava diritto al cuore e al portafoglio di questi ceti. Ceti che detestano la borghesia per i suoi 'lombi opimi' e anche, più o meno palesemente, per la sua cultura (parola che fa metter mano alla pistola dalle parti del berlusconismo di movimento), e che disprezzano o temono a seconda delle circostanze il proletariato sindacalizzato, quello che ancora rivendica diritti e retribuzioni. Ceti che vogliono il loro posto a tavola e nella stanza dei bottoni per acquisire e/o mantenere la ricchezza accumulata in questi anni selvaggi spesso a scapito del lavoro salariato.

A questo berlusconismo di movimento, vera anima della destra italiana, se ne affianca uno, assai minoritario, di 'regime', più pacato e morbido. Il suo cantore è Giulio Tremonti e il suo mentore Gianni Letta. Come tutte le forze di stabilizzazione intende smussare ed ammansire. Non disdegna la faccia feroce all'occorrenza, ma riesce sempre a recuperare grazie ad un sapiente dosaggio di diplomazie e contatti.

In questo schema svaniscono molti ex An. Troppo 'tradizionali' e 'pro-stato' per seguire il movimentismo, troppo 'antagonisti' per seguire il clerical-tremontismo.
A loro non rimane che seguire un percorso altro, quello del consevatorismo moderno intrapreso da Gianfranco Fini e del tutto alieno ad entrambe le tendenze della destra berlusconiana. E vedremo chi avrà più filo da tessere.

(01 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. La pretesa impunità
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2009, 11:16:22 am
La pretesa impunità

di Piero Ignazi


La supremazia assoluta, senza contrappesi, della volontà popolare prefigura una distorsione in senso populista della nostra democrazia liberale 

Il berlusconismo-movimento, quella tendenza aggressiva e irruente della destra che punta al sovvertimento delle regole e delle prassi, si è dispiegato in tutta la sua potenza di fuoco nei giorni successivi alla sentenza della Corte Costituzionale sul lodo Alfano. Le argomentazioni con cui viene portato l'assalto ricalcano gli artifici retorici tipici del populismo contemporaneo, in particolare l'assolutizzazione del popolo e l'idolatria del leader che interpreta i suoi voleri (contro i quali ogni opposizione è, per definizione, illegittima).

Questa impostazione si riflette nella rivendicazione di una legittimità popolare 'diretta' del presidente del Consiglio, come fossimo in una democrazia presidenziale. Argomento inconsistente per una serie di motivi. Il primo è che siamo tuttora e a pieno titolo in una democrazia parlamentare, e quindi le modalità di formazione e dissoluzione del governo non sono cambiate di una virgola dal 1948 ad oggi. Ergo, il governo entra in carica quando viene votato dalla maggioranza dei parlamentari delle due camere: non quando lo grida il popolo a Pontida, lo indicano i sondaggi, o lo 'suggeriscono' gli elettori i quali, sia ben chiaro, votano una lista, non un candidato.

E invece i corifei del centro-destra e qualche distratto commentatore sostengono che la nuova legge elettorale, avendo affiancato alla lista di un partito anche il nome del candidato premier, garantisce a quest'ultimo una legittimità popolare che il parlamento non può disattendere. Ovviamente così non è. Innanzitutto perché si fa riferimento a una innovazione introdotta da una legge ordinaria - qual è la legge elettorale - come se questa potesse incidere sul testo costituzionale. Una contraddizione lampante che ricorda la favola di Esopo, del lupo e dell'agnello. Inoltre, essendo l'Italia una
Repubblica parlamentare, è il parlamento l'organo che legittima il governo, non altri. Tant'è che in democrazie parlamentari più solide della nostra, pur avendo anch'esse - informalmente in Gran Bretagna, e formalmente in Germania - una chiara indicazione del candidato premier, il parlamento ha mandato a casa più volte dei premier non graditi. E nessuno si è sognato di gridare al tradimento della volontà popolare. Solo la curvatura populista della politica italiana può consentire di far circolare impunemente simili corbellerie.

Il secondo tipo di argomentazione dei movimentisti berlusconiani riguarda l''impunità' assoluta del premier. Nessuno lo può giudicare, sembra di sentir cantare di nuovo. Anche qui si dimentica uno dei principi fondanti della democrazia liberale: nessuno è sopra legge. Mentre il maniscalco vessato dal re di Prussia gridava: "Ci sarà pure un giudice a Berlino" che mi renda giustizia, tant'era la sua fiducia nel valore universale delle norme, oggi in Italia nessuno può invocare un giudice per il Cavaliere, perché, in quanto unto dalla volontà popolare (sic!), solo il popolo può giudicarlo.

Infine, l'ultimo colpo di maglio per smantellare il sistema va assestato alla Corte Costituzionale. Già, a cosa servono quei vecchi parrucconi? Perché nel dopoguerra sono state introdotte in tutta Europa le corti costituzionali sul modello della Corte suprema americana? La risposta è semplice: per controllare e porre un freno al potere politico; per evitare che, forte della sua legittimazione popolare, esso debordi; per non ripetere l'esperienza dei fascismi europei arrivati al potere grazie al voto e al consenso popolare e poi terribilmente 'debordati'. In sostanza, per impedire la dittatura della maggioranza.

La supremazia assoluta, senza contrappesi e contropoteri, della volontà popolare issata sugli stendardi e gridata a piena voce dai forzaleghisti prefigura una distorsione in senso populista della nostra democrazia liberale. Questo non è uno scontro sulle 'politiche', sempre negoziabili; riguarda i principi fondamentali del sistema, che non sono negoziabili. Il loro snaturamento implica un cambio di 'regime politico'. È ora che tutti se ne rendano conto. E prendano partito. Perché questo è il vero discrimine che separa i liberaldemocratici dai populisti, come insegnava un maestro del pensiero liberale e del costituzionalismo moderno, Nicola Matteucci.

(22 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Perché tra politica e fede la Chiesa ha scelto la politica
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2009, 12:05:23 pm
Una questione di potere

di Piero Ignazi

Il crocefisso nelle scuole è catalogato al pari della lavagna e dei gessetti.

Perché tra politica e fede la Chiesa ha scelto la politica
 

Principi e consuetudini a volte coincidono, a volte divergono. La sentenza della Corte europea dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo - che non ha nulla a che fare con l'Unione europea e la sua Corte di Giustizia - sulla presenza del crocefisso nelle sedi pubbliche li mette in rotta di collisione.

Quanto ai principi, non c'è quasi nessuno che non renda omaggio formale alla separazione tra Stato e Chiesa e non riconosca che lo Stato deve essere laico. Anche le gerarchie ecclesiastiche sembrano sostenere queste linee guida, ma le infiorettano di argomenti così capziosi e di specificazioni così peculiari da giungere poi a conclusioni paradossali: come quando venne sostenuto che l'esposizione del crocefisso nelle aule scolastiche non ledeva alcun diritto o sensibilità religiosa perché era una espressione della laicità dello Stato. Un ragionamento degno delle dotte e finissime discussioni bizantine sul sesso degli angeli.

Di fronte alla virulenza delle polemiche sulla sentenza della Corte europea si rafforza il sospetto che laicità dello Stato e separazione tra Stato e Chiesa non vengano prese sul serio e che si tributi loro solo un riconoscimento superficiale. Se invece questi fondamenti dello Stato moderno venissero tenuti in conto per ciò che essi significano, il richiamo ad evitare la commistione tra spazio pubblico e simboli religiosi non susciterebbe alcuno scandalo. Sarebbe una semplice, tranquilla e serena deduzione logica.

Per quale motivo il simbolo di una specifica religione, benché di gran lunga maggioritaria, dovrebbe 'occupare' gli spazi pubblici che per definizione sono di tutti e che perciò non devono essere 'segnati' da alcun elemento che connoti una religione piuttosto che un'altra? Apparentemente non se ne vedono. A meno di negare i principi della laicità e della separazione. Ma così, per ora, non è. La Chiesa si limita a qualificare e delimitare lo spazio della laicità, non a negarla in toto. E si appiglia alle consuetudini derubricando il crocefisso a simbolo culturale. Non vi è dubbio alcuno che la presenza del crocefisso costituisca una 'abitudine', un elemento del paesaggio e dell'arredo. Tant'è che nelle scuole è catalogato come suppellettile al pari della lavagna e dei gessetti.

La consuetudine della sua presenza si scontra con l'affermazione di un principio.

Ma è un caso degno di una così corale levata di scudi? Perché questa astiosa mobilitazione contro la Corte europea dei Diritti dell'Uomo i cui giudici sono stati descritti, seguendo la moda lanciata da Silvio Berlusconi (tanto per non dimenticare quanto profondo sia il solco che il Cavaliere lascia nella cultura politica italiana), come degli incompetenti e degli ignoranti? Innanzitutto perché dei principi non ci si cura: come in tante altre sfere della vita pubblica nazionale, le norme generali diventano sempre à la carte quando premono forti interessi e forti gruppi di interesse.

La Chiesa italiana, gruppo d'interesse quant'altri forte, conduce da tempo una offensiva tambureggiante contro la laicità dello Stato e tenta di tappare la bocca ai suoi critici tacciandoli di 'laicismo', neologismo inventato ad hoc proprio per stigmatizzare. In questo caso la generale sensibilità affettiva per il crocefisso è servita per mettere ancora più nell'angolo laici e non credenti.

Tacitando anche quei cattolici che dei simboli - spesso abusati e sfregiati - non sanno che farsene per esprimere la loro fede.

Tra la politica e la fede, la Chiesa ha scelto la politica potendo contare su una autorità pubblica compiacente e servizievole. Grazie a tale appoggio la Chiesa potrà imporre la sua presenza anche alla minoranza di non credenti e di altri perché, come è stato scritto senza suscitare reazione alcuna, la sentenza della Corte europea esprime "una concezione estrema del rapporto tra i diritti dei pochi e la sensibilità dei molti". A seguire questo ragionamento ne discende che i diritti dei pochi devono essere 'affievoliti' o magari anche dimenticati se offendono la sensibilità della maggioranza.

Aspettiamo solo che ai laici rimasti ancora in circolazione - anzi, ai laicisti, ovviamente - sia appiccicata una bella stella gialla. Intanto, giusto per far capire come ci si deve comportare, i cattolicissimi e caritatevoli compagni di classe hanno già provveduto a riempire di botte il ragazzo in nome del quale è stato fatto il ricorso alla Corte europea. Dei Diritti dell'Uomo, apparentemente.

(12 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Quelle inutili riforme
Inserito da: Admin - Dicembre 09, 2009, 04:45:23 pm
Quelle inutili riforme

di Piero Ignazi


Mettere mano alla Costituzione non serve se non cambia la cultura politica del Paese  Umberto BossiLe modifiche alla Costituzione segnano sempre un passaggio epocale. Non per nulla sono rarissime nei sistemi democratici consolidati e, per lo più, riguardano elementi di contorno piuttosto che l'assetto dei poteri. Quando invece ridisegnano l'architettura istituzionale di un sistema, come nel caso della Francia del 1958, il cambiamento è tale da assurgere a vero e proprio passaggio di regime, dalla IV alla V Repubblica. Ma per effettuare cambiamenti di tale genere ci devono essere condizioni adeguate, e cioè una situazione di crisi: pressioni esterne destabilizzanti e/o minacce interne distruttive che generano una domanda ineludibile di cambiamento. Aveva senso mettere mano alla Costituzione dopo il 1994 in quanto 'il sistema di potere democristiano' (non la sola Dc) si era disintegrato ed erano apparsi nuovi, inediti, attori politici che necessitavano di una sorta di 'costituzionalizzazione'.

Ma ora, a 15 anni dal grande cambio, che senso ha parlare di riforme istituzionali? Eppure l'idea di una 'grande riforma' torna ad occupare la scena. Come se la soluzione della crisi politica stesse in una nuova Costituzione. No: al di là dei contenuti di qualsivoglia proposta, è illusorio pensare che buone istituzioni mutino significativamente la politica nazionale. Quello che deve cambiare per invertire la rotta di collisione - anzi, per limitare i danni della collisione, violenta, già in atto - è la cultura politica di questo Paese. Fintantoché domina uno spirito di fazione che ci conduce ad una guerra civile a bassa intensità, con ministri della Repubblica che urlano insulti a intere categorie sociali - Bondi nei confronti degli intellettuali, Gelmini nei confronti degli insegnanti , Alfano nei confronti dei magistrati, Brunetta urbi et orbi - per finire con un presidente del Consiglio che taccia di antinazionale l'opposizione e di golpisti gli altri poteri dello Stato, ogni innovazione istituzionale perde di senso. Perché mancano le basi culturali comuni per fondare regole condivise, perché c'è una parte del Paese, alimentata ed allo stesso tempo espressa dalla destra, che ha in dispetto i principi su cui dovrebbe fondarsi una democrazia civica e civile.

Ai descamisados del populismo berlusconiano non interessa nulla di rispetto delle competenze, di senso del limite, di equilibrio e separatezza di poteri. Vogliono tutto e subito. Godendo di un vantaggio competitivo rilevantissmo - il potere mediatico, e solo chi è in malafede non riconosce questo stato di fatto - pensano di approfittare della contingenza per ritagliare un sistema a loro immagine e somiglianza, cioè estendendo i poteri di decisione a scapito di quelli di controllo.

Se poi andiamo nel dettaglio delle proposte che circolano per quale ragione dovremmo, per esempio, attuare la trasformazione dello Stato da unitario in federale? Perché mai dovremmo accodarci ad un progetto che beneficia solo una piccola forza politica locale che a stento ha raccolto il 10 per cento dei voti? Una forza politica, tra l'altro, che colleziona disastri uno sull'altro: dalla Malpensa difesa come simbolo della forza trainante del Nord operoso e ormai abbandonata come un hangar dismesso, alle ronde presentate come una domanda corale del popolo indifeso poi risoltesi in un flop da Guinness dei primati, dal basta con le sanatorie e il lassismo delle sinistre alla ennesima sanatoria, peraltro fallita, per le badanti e le colf straniere. Eppure nonostante tutti questi fiaschi - e tacciamo per amor di patria le censure di tutti gli organismi internazionali sul trattamento degli immigrati e degli zingari - la Lega continua a dettare l'agenda delle riforme istituzionali mettendo al primo posto il federalismo.

E la sinistra che fa? Si adegua ovviamente, perché nelle raffinate menti dei suoi strateghi accodarsi alla Lega sul piano delle riforme porterebbe a chissà quali benefici politici. Ma non basta. Oggi il Pd si dice anche disposto a collaborare volenterosamente. Presenta bozze, progetti, documenti, organizza incontri pubblici e conciliaboli privati. Forse, se ritornasse al come e perché la Commissione Bicamerale naufragò, si ricorderebbe che è molto rischioso tentare accordi con chi è molto più bravo di te nell'arte della contrattazione. Ne consegue che occorre andare con piedi di piombo, idee chiare e condizioni irrinunciabili. Il segretario del PD ha posto come condizione pregiudiziale la rinuncia al processo breve. Messa così sembra un ostacolo insuperabile. Ma c'è da scommettere che si arriverà ad un compromesso che salverà la sostanza a Berlusconi - una qualche forma di impunità - e la faccia al PD. Cosa vale di più tra la sostanza e la faccia?

(04 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Via i politici dalla TV
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2009, 03:33:49 pm
Via i politici dalla TV

di Piero Ignazi


Sempre presenti in ogni trasmissione in cerca di visibilità e di vittoria sugli avversari, con urla, insulti, denigrazioni. E così allontanano i cittadini dalla politica
 
Sembra passato un secolo dallo strepitoso successo editoriale del libro 'La Casta' e dalle affollate manifestazioni organizzate da Beppe Grillo. Eppure era solo due anni fa, autunno 2007. Il clima è cambiato. La rabbia che sembrava montare contro tutta la classe politica, reclamando un rivoluzionamento in stile Tangentopoli, è stata abilmente incanalata, e sfruttata, dalla destra. Era il governo Prodi, era il centro-sinistra, erano tutti quei partiti e partitini i 'forchettoni' degli anni Duemila che succhiavano sangue dalle casse pubbliche alimentate dai soldi del povero ed onesto contribuente. Gli altri non avevano bisogno.

Come si poteva pensare che l'uomo più ricco d'Italia si avvalesse dei privilegi dei politici ordinari? E così, la sua immagine di Creso si stese come un manto protettivo su tutti gli intrallazzi e le ruberie della destra. Ragion per cui la casta venne identificata con la sinistra; e anche questo portò il suo contributo alla sconfitta del 2008.

Dopo le elezioni politiche non s'è più parlato di tagliare i privilegi della casta, quasi fosse scomparsa. Invece è sempre lì. Sempre presente, e in maniera ossessiva. In ogni tipo di programma televisivo e radiofonico, dal varietà all'approfondimento culturale, dall'intrattenimento allo sport, non manca mai un politico. A volte sono una truppa di cinque o sei, più i collegamenti audio e video per non far sentir soli i telespettatori.

L'invadenza è soffocante: sempre le stesse facce che piantonano il video più volte alla settimana, oltre a disporre di un microfono compiacente in tutti telegiornali pubblici e privati. Questa occupazione militare degli spazi radio-televisivi produce una serie di effetti negativi sulla fiducia dei cittadini nel sistema politico e sulla stessa lotta politica.

Innanzitutto l'overdose televisiva di politici, e di politica gridata, produce sia assuefazione che, strettamente correlati ad essa, disinteresse e disincanto: "Sono ancora quelli lì, dicono sempre le stesse cose.".

Conduttori e programmatori sanno bene che non c'è male peggiore della ripetitività, ma non possono sottrarsi al diktat della politica. Anche quelle trasmissioni che avevano bandito i politici - 'L'infedele' de La 7 e il Gr mattutino di Radiotre - alla fine hanno capitolato.

L'altro effetto negativo, ancora più grave, è la radicalizzazione del conflitto politico. Ad ogni trasmissione il politico deve cercare di 'bucare lo schermo' di dire - o fare - qualcosa che lo renda visibile, che lo distingua, e che, soprattutto, lo veda 'vincente' nei confronti del proprio avversario. Questi due obiettivi - visibilità e vittoria - portano ad una esasperazione di toni e ad una aggressività distruttiva: bisogna urlare più forte, spararla più grossa, schiacciare l'avversario. E quindi, la televisione diventa la ribalta per promuovere se stessi più che per comunicare idee e proposte; diventa un ring dove darsele di santa ragione più che una agorà di dibattito pubblico.

Infine, il veleno più sottile della sovraesposizione mediatica è la disinibizione assoluta. A forza di calcare le scene e di non avere mai dei freni, i politici si abbandonano ad ogni esternazione da bar, con l'idea di essere così più a contatto con il popolo, immaginandolo rozzo e volgare come loro.

Nemmeno un conduttore della qualità di Lamberto Sposini ha potuto arginare uno scatenato Ignazio La Russa che, in 'La vita in diretta' del 4 novembre 2009, arriva a gridare, lui ministro della Difesa, "possono morire, ma il crocefisso non lo toglieremo dalle scuole"; aggiungendo, elegantemente, "sono incazzatissimo".

La perdita dei freni inibitori e l'abbassamento del linguaggio facilita l'insulto, le urla, la denigrazione, e conduce ad una rissa continua. I guasti della invasione mediatica dei politici incidono a più livelli: favoriscono la disaffezione dei cittadini infastiditi per la loro onnipresenza e accentuano il distacco dalla politica e dal sistema; innescano un processo di maggiore radicalizzazione del conflitto politico; degradano il linguaggio e lo spirito pubblico fornendo pessimi modelli di comportamento. La rimozione massiccia dei politici dalla tv e il loro confinamento in precise riserve jacobelliane è la condizione sine-qua-non per ri-civilizzare la politica italiana.

(22 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Rosarno Burning
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2010, 09:55:19 am
Rosarno Burning

di Piero Ignazi

Il Ku Klux Klan con la coppola che va a caccia degli immigrati e uno Stato che tollera lavoro nero, caporalato e sfruttamento
 
Rosarno Burning? Come nelle piantagioni di cotone dell'Alabama e del Mississippi ai bei tempi del Ku Klux Klan, anche la piana degli aranci di Rosarno risuona degli spari dei bravi e onesti cittadini bianchi, decisi a far capire a questi negri qual è il loro ruolo: lavorare 12 ore per una miseria, sempre che se lo meritino altrimenti una bella legnata e via dalle scatole, nascondersi in tuguri ammassati come bestie, e portare sempre rispetto a chi gli dà lavoro. E se ti prendono a fucilate, zitto e mosca. Non ti azzardare a protestare perché altrimenti sono guai grossi.

Quello che è successo a Rosarno supera ogni peggiore fantasia. Ben peggio di quanto si verificò l'anno scorso in Campania quando a Castelvolturno spararono nel mucchio o per divertimento criminale o per mandare un preciso avvertimento. Allora, quasi nessuno si schierò coi malavitosi. A Rosarno, invece, abbiamo assistito a scene di caccia all'uomo da profondo Sud americano. Il Ku Klux Klan con la coppola è dilagato, indisturbato. Quelli dalla pelle nera sono diventati selvaggina da cacciare a piacimento: come i leprotti evocati del sindaco leghista di Treviso Giancarlo Gentilini, animali che si possono tranquillamente impallinare. In fondo, se lo ha detto un amatissimo sindaco di una civilissima città del Nord, i calabresi devono essere da meno?

L'odio versato a piene mani in questi anni dalla destra forzaleghista contro gli immigrati sta dando i suoi frutti. Gli immigrati sono diventati agli occhi di tanti dei 'non-uomini'. Lo hanno detto e ripetuto testualmente anche i cittadini di Rosarno: "Quelli sono bestie". E le bestie pericolose si abbattono. Come ci vuol poco a scendere lungo la scala della disumanità. Ma che 'uomini' sono quelli che sfruttano in maniera bestiale la fame degli immigrati, quelli che chiedono 50 euro per una stanza da dividere in dieci, quelli che ammazzano di botte uno che chiede di essere pagato? I reportage di
Fabrizio Gatti su 'L'espresso' tre anni fa avevano denunciato tutto questo, ma l'inerzia del centrosinistra, indignato quanto imbelle, e poi del centrodestra, menefreghista se non connivente, ha lasciato le cose come stavano.

Lo schiavismo alla pommarola continua a proliferare nelle campagne e nei cantieri di tutto il Sud. Un tempo, c'erano militanti di sinistra e sindacalisti coraggiosi, le cui tombe punteggiano tutta la Sicilia, a cercare di sottrarre la povera gente alle violenze dei 'caporali' e dei loro mandanti; oggi c'è il deserto. Per tante ragioni. Perché gli immigrati non votano, perché sono ancora meno mobilitabili contro l'ingiustizia dei cafoni di Carlo Levi, perché la criminalità organizzata si è estesa e rafforzata (anche se in Sicilia ha 'piegato il capo in attesa che passi la piena' seguendo il celebre detto mafioso), perché di uomini e partiti combattivi se n'è persa traccia. Eppoi perché i nostri valori di riferimento sono cambiati: l'egemonia culturale della destra - mentre c'è ancora chi rimesta la vecchia minestra dell'egemonia culturale della sinistra - ha spazzato via i principi fondanti della democrazia repubblicana: l'uguaglianza degli uomini, il riconoscimento di diritti naturali, la fraternità e la solidarietà.

Soprattutto, pietà l'è morta. Guai ai vinti. I vinti, oggi, sono gli ultimi della scala sociale, i poveri e gli immigrati. Per loro c'è carità pelosa (indigna ancora la social card tremontiana) o emarginazione totale. Comunque, non devono farsi né vedere né sentire. Se invece si arrabbiano arriva un ministro dell'Interno a dire che abbiamo tollerato troppo.

Ma cosa abbiamo tollerato, onorevole Maroni? Il caporalato, il lavoro nero, lo sfruttamento feroce, il controllo criminale del territorio, forse? Sì, tutto ciò è stato tollerato troppo a lungo: questo avrebbe dovuto dire, in un paese civile, un ministro della Repubblica.

L'illegalità diffusa e le condizioni inumane in cui è costretta questa nuova 'schiuma della terra' devono invece essere occultate, minimizzate, sopite. Tenute lontane dagli occhi dell'opinione pubblica. Non a caso, con solerzia illuminante, a tre giorni dagli incidenti già venivano demolite le baracche in cui avevano trovato una sistemazione (indecente) le centinaia di lavoratori immigrati. Così si è evitato il rischio che qualche televisione non omologata portasse nelle case immagini dissonanti rispetto alla propaganda governativa.

Il politicamente corretto della destra, la 'neoligua' orwelliana in cui siamo sempre più avvolti, recita che immigrato equivale a reato, diritto ad editto, e fraternità ad animosità.

(14 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Diverse candidature
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2010, 10:48:07 am
Diverse candidature

di Piero Ignazi

Mentre il Pd, anche a rischio di divisioni, coinvolge gli elettori nel Pdl a decidere è solo Berlusconi
 

Le modalità con le quali si stanno definendo le candidature delle regionali oscillano tra due estremi: si va dalla nomina dall'alto - il vertice del partito decide e la base obbedisce - fino alla competizione aperta, alla base, tra candidati di uno stesso partito. Con una differenza sostanziale, però. Solo nel centrosinistra, per quanto non sempre e dovunque, si selezionano le candidature affidandosi alle decisioni degli iscritti e/o degli elettori delle regioni coinvolte. In particolare il Pd avrebbe nel suo statuto (art. 18,19, 20) l'obbligo di ricorrere alle primarie sia per il presidente della Regione che per le altre cariche.

Benché sia all'opera una commissione per le modifiche statutarie, il vincolo rimane tuttora valido. Quindi, ad eccezioni delle regioni in cui si ricandida il presidente uscente, come in Piemonte ed Emilia-Romagna (in questa circostanza per indire le primarie bisogna raccogliere un elevato numero di firme), il Pd avrebbe dovuto organizzare ovunque una consultazione tra i propri sostenitori. Invece, dopo esservi stato trascinato dall'abilità politica di Nichi Vendola in Puglia, ed esserne uscito maluccio, il Partito democratico preferisce seguire il metodo classico della ricerca del consenso interno attraverso consultazioni informali.

Questo raffreddamento degli entusiasmi 'primariali' non incontra forti opposizioni interne. Evidentemente è in atto una riflessione sia sul significato simbolico che sulle modalità pratiche di utilizzo di questo strumento. Le ragioni che hanno indotto ad additare le primarie rimangono valide: aprire i partiti, renderli più trasparenti e rispondenti all'opinione pubblica, fare piazza pulita di comportamenti oligarchici, e restituire la parola ai simpatizzanti e agli elettori. Una domanda, questa, che viene da lontano, che è diffusa in tutte le democrazie occidentali, e alla quale i grandi partiti europei hanno risposto coinvolgendo gli iscritti - ma solo in pochi casi anche gli elettori - nella scelta dei candidati alle cariche pubbliche, dei dirigenti del partito e delle politiche.

Al Pd conviene calibrare meglio l'adozione di questo strumento per evitare di smobilitare i propri iscritti e terremotare la propria organizzazione. Un rischio che ha raggiunto l'apice nella barocca procedura per l'elezione del segretario, quando il voto degli iscritti doveva essere confermato da quello degli elettori, come se i primi fossero figli di un Dio minore.

Se i crucci del Pd sono dovuti ad un eccesso di entusiasmo per il pan-partecipazionismo, il centrodestra soffre del male contrario. Nella massima tranquillità, tanto la Lega quanto il PdL, continuano ad esercitare metodi di nomina dall'alto con decisioni 'arbitrarie' da parte dei rispettivi leader. Mentre nella Lega sarebbe previsto un passaggio delle candidature in Consiglio federale, nel PdL, anche in base allo statuto, è il presidente, cioè Berlusconi, a decidere in assoluta autonomia e discrezionalità. Nessuno può presentarsi se non ottiene l'avallo del capo. L'ordine procede dall'alto al basso, e la base ubbidisce prontamente.

Questa assenza di democrazia all'interno dei partiti del centrodestra non sembra interessare né ai diretti interessati né agli opinion-maker. Abbiamo letto filippiche contro l'oligarchia del Pd, mentre è calato un silenzio assordante sull'autocrazia di Lega e PdL. E soprattutto all'interno di questi partiti vige una supina accettazione di questa modalità verticistica. Evidentemente il culto del capo ha permeato tutta la membership leghista e pidiellina, con la conseguenza di sminuire il valore della partecipazione interna e del dissenso.

Ai candidati del PdL non basta però mostrare una assoluta fedeltà e devozione al leader. In coerenza con un tratto ormai caratterizzante della cultura politica berlusconiana, i candidati del PdL devono avere una immagine appealing. Passata la buriana delle Noemi e delle escort, da quelle parti si ritorna a proporre soubrette e belle donne, e a cacciare dalle liste, con tanto di dileggio, chi non esibisca un fisico esteticamente pregevole. L'emarginazione di un candidato per le sue 'orecchie a sventola' (è il caso di Claudio Ricci, sindaco di Assisi ) è ancora più insultante delle candidature delle giovani avvenenti. Siamo alla stigmatizzazione delle caratteristiche fisiche: oggi le orecchie a sventola, domani magari il naso camuso o la pelle nera. Che questo proto-razzismo passi quasi inosservato o venga semplicemente citato come una curiosità, dimostra tutta la regressione del nostro vivere civile e politico.

(04 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Pdl in crisi d'identità
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2010, 10:55:45 am
Pdl in crisi d'identità

di Piero Ignazi

Il partito è in preda a una guerra per bande che sembra preludere a un crollo di regime
 

Dalle intercettazioni sulle attività della Protezione civile arroganza del potere e affarismo familistico debordano senza freni. Solo grazie alla diffusione di questi colloqui la realtà della vita politico-affaristica nazionale - uno spicchio appena, comunque - viene svelato a una opinione pubblica ignara. Ignara di tante bassezze ma da tempo sospettosa e insofferente. L'ondata antipolitica dell'autunno 2007, che travolse il governo Prodi e il centrosinistra perché, secondo una vulgata abilmente costruita, lì c'erano i politici di professione e quindi i reprobi, è pronta a montare di nuovo, e questa volta dirigendosi a destra.

Ciò che alimenta la disaffezione non è più l'indifferenza e il disinteresse come nel passato, bensì la rabbia e il disgusto. Sono spinte passionali, facili a prendere fuoco. Per questo il presidente del Consiglio e lo stesso Guido Bertolaso stanno correndo così affannosamente ai ripari. Addirittura con l'invocazione di norme anticorruzione più severe (ma chi le ha annacquate negli ultimi anni?) e con l'esclusione dei corrotti dalle liste elettorali. In un fiat il centrodestra passa dalla rivendicazione dell'autonomia e della superiorità della politica rispetto alla magistratura - un ritornello ossessivo degli ultimi anni - al 'codex dipietrianus' della immacolatezza penale dei candidati.

Un passaggio di 180 gradi troppo brusco per essere digerito dalla classe politica del Pdl. Dov'è finita la 'legittimazione popolare' che rendeva intoccabile il politico? E l'immunità parlamentare? E il giustizialismo della sinistra e dei pm? Tutte vecchie bubbole ormai, fatte scoppiare da Berlusconi per paura della marea montante dell'indignazione popolare (eh sì, proprio lei, 'l'indignazione', vilipesa e irrisa fino a ieri, come fosse una mania di quegli isterici della sinistra).

Le risate nella notte del terremoto rimarranno impresse indelebilmente nelle mente degli elettori: e saranno messe in conto al centrodestra. Ma invece di seguire il leader nella sua rincorsa a una riverniciatura etico-morale del partito buona parte dei dirigenti pidiellini preferiscono affilare i coltelli e prepararsi alla divisione delle spoglie.

La guerra per bande che si sta scatenando nel partitone di governo sembra preludere ad un crollo di regime. La leadership dispone ancora di risorse in abbondanza per tenere unito il partito; ma il clima è lontano mille miglia da quello trionfante di un anno fa. Il Popolo della libertà non registra solo una battuta d'arresto nel consenso popolare, una perdita di feeling con l'opinione pubblica: crisi fisiologiche che si possono superare tranquillamente. In realtà si trova sull'orlo di una crisi di identità. Rischia di smarrire le ragioni 'esistenziali' della sua costituzione. Al di là dell'identificazione assoluta in Silvio Berlusconi e dell'odio coriaceo verso tutto ciò che odori di sinistra, il Pdl è un magma indistinto dove non solo circolano ispirazioni e pulsioni diverse, ma sono tutte di un profilo sbiadito. Se si allenta il collante della leadership, il partito si sfilaccia: e questo a causa di una debole identità collettiva più che di uno scontro di forti identità contrapposte.

Cosa è il Popolo della liberà oggi? Un alfiere del libero mercato? Basterebbe la vicenda Alitalia per rispondere con un sonoro no; al resto ci pensa il colbertismo tremontiano, le cui opere mirabili sono picconate dalla corrosiva analisi di un gruppo di giovani economisti di stanza negli Usa: 'Tremonti. Istruzioni per il disuso' (edizioni Ancora del Mediterraneo).

Un difensore dei valori morali tradizionali e cristiani? Beh, l'estate delle escort e le sue appendici invernali hanno messo una pietra sopra a questa bizzarria, anche se le infinte prebende concesse alla Chiesa gli evitano interventi critici da parte delle gerarchie.

Un roccioso guardiano della legge e dell'ordine? Con il dilagare della corruzione tra i suoi politici e l'assenza di una qualsivoglia politica di integrazione degli immigrati - Rosarno e via Padova non sono che la punta di un iceberg - la sua faccia feroce si scompone in mille rughe.

Silvio Berlusconi ha dato corpo e rappresentanza a pulsioni vitalistiche e insofferenti di regole che premevano da tempo nella società e che cercavano qualcosa di nuovo rispetto alla politica tradizionale (a lungo identificata nella sinistra): ma non ha creato una identità politico-culturale che vada al di là della sua persona. La talpa finiana, dopo aver lavorato sottotraccia, alla fine, potrebbe riemergere come un'ancora di salvezza.

(25 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Il ministero dell'amore
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2010, 06:41:48 pm
Il ministero dell'amore

di Piero Ignazi


Odio e Amore. Bene e Male. Berlusconi agisce su potenti leve pre-politiche per ottenere consenso
 

Nell'universo concentrazionario immaginato da George Orwell in '1984', vi era una istituzione che più di ogni altra 'incuteva un autentico terrore': il ministero dell'Amore. Era l'unico privo di finestre perché nulla doveva trapelare all'esterno. Ai contatti con il mondo provvedeva il ministero della Verità, dove si cancellava la memoria delle notizie sgradite e se ne confezionavano di verosimilmente false. Solo il partito poteva decretare quando il vero era falso, e il falso vero.

Tutto questo suona familiare nel paese di Berluscandia. Non è vero il ritardo degli apparatniki pidiellini nel presentare le liste, non è vera la mancanza di timbri e bolli, non è vera la nonviolenza dei radicali (anzi, ecco un 'vero' scoop: sono i radicali i violenti, non i nostalgici del manganello). La realtà non esiste in sé: si materializza solo quando filtra dagli alambicchi comunicativi di Palazzo Chigi.

Così nasce e si impone il 'benpensare': eliminando i fatti sgradevoli e diffondendo urbi et orbi la loro 'giusta' versione. L'allucinante conferenza stampa del presidente del Consiglio che ribaltava su giudici e avversari politici la responsabilità dei pasticci commessi dai dirigenti del suo partito si attaglia perfettamente allo schema orwelliano. D'un colpo, appena annunciato, il benpensare berlusconiano diventa norma e i più diligenti dei suoi fidi si precipitano in tv a propagarlo, esaltando nordcoreanamente la nuova verità offerta dal capo ai poveri di spirito. E chi aveva dubitato, raddoppia l'impeto e l'entusiasmo. Per riconfermare la propria fedeltà. Perché il capo non sbaglia mai.

Ma il Grande Fratello non solo è l'unica fonte di verità: è anche e soprattutto fonte inesauribile d'amore, anzi è l'amore in sé e per sé. Infatti, come grondano d'amore le parole sue - e dei suoi seguaci - quando si rivolge agli avversari! Con quanta soavità e gentilezza li tratta! Questa continua inversione della realtà, questa continua manomissione dei fatti, costruisce uno scenario tanto fittizio quanto plausibile agli occhi di molti.

Perché? Perché agisce su potenti leve pre-politiche. Affinché lo scenario imposto dal Grande Fratello diventi credibile, va scatenata una gigantesca energia emotiva che diriga affettivamente l'attenzione, e poi l'adesione, alle parole del capo. Ogni richiamo a dati di fatto empiricamente verificabili, ogni ragionamento logico-razionale, ogni analisi critica, vengono travolti dalla potenza evocativa dei riferimenti mitico-simbolici al bene e al male. Tutto viene ridotto alla divisione del mondo tra chi ama e chi odia. Cioè alla massima semplificazione possibile delle categorie interpretative del reale, quelle che ogni persona, anche la meno articolata, utilizza per orientarsi nel mondo.

Adottando categorie dotate di valenze affettive così forti, che trascendono quelle cognitive-razionali, nel momento in cui vengono traslate in politica creano identificazioni e fedeltà solidissime. Staccarsene produce un trauma affettivo oltre ad uno spaesamento: se non sono più nel bene, vuol dire che sprofondo nel male?

La degradazione della politica italiana passa anche da questo riduzionismo etico-politico. La incanala lungo una strada di odio ideologico che pensavamo di aver lasciato alle spalle alla fine degli anni Settanta, quando esistevano i nemici del popolo o i nemici della nazione a seconda degli orientamenti politici.

Ci sono voluti i lunghi anni di piombo per riconoscere che il Sistema imperialistico delle multinazionali dei brigatisti era una ridicola stupidaggine, e che le cospirazioni comuniste contro la parte sana della nazione erano deliri di fanatici nostalgici. C'è voluto quel buissimo periodo per ritornare ad una politica magari noiosa e piatta, ma decentemente rispettosa delle posizioni degli altri, una politica dove nessuno si impossessava più del bene contro il male, dove nessuno brandiva più la spada dell'arcangelo Gabriele per schiacciare il drago impuro e maligno.

Ora, il ministero dell'Amore torna ad imporsi sulla scena. Come il Winston Smith di '1984', anche noi che resistiamo al 'buonvolere' del Grande Fratello, alla fine, dopo innumerevoli lavaggi del cervello minzoliniani, saremo costretti ad arrenderci?

(18 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Il ministero dell'amore
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2010, 04:36:25 pm
Il ministero dell'amore

di Piero Ignazi

Odio e Amore. Bene e Male.

Berlusconi agisce su potenti leve pre-politiche per ottenere consenso
 

Nell'universo concentrazionario immaginato da George Orwell in '1984', vi era una istituzione che più di ogni altra 'incuteva un autentico terrore': il ministero dell'Amore. Era l'unico privo di finestre perché nulla doveva trapelare all'esterno. Ai contatti con il mondo provvedeva il ministero della Verità, dove si cancellava la memoria delle notizie sgradite e se ne confezionavano di verosimilmente false. Solo il partito poteva decretare quando il vero era falso, e il falso vero.

Tutto questo suona familiare nel paese di Berluscandia. Non è vero il ritardo degli apparatniki pidiellini nel presentare le liste, non è vera la mancanza di timbri e bolli, non è vera la nonviolenza dei radicali (anzi, ecco un 'vero' scoop: sono i radicali i violenti, non i nostalgici del manganello). La realtà non esiste in sé: si materializza solo quando filtra dagli alambicchi comunicativi di Palazzo Chigi.

Così nasce e si impone il 'benpensare': eliminando i fatti sgradevoli e diffondendo urbi et orbi la loro 'giusta' versione. L'allucinante conferenza stampa del presidente del Consiglio che ribaltava su giudici e avversari politici la responsabilità dei pasticci commessi dai dirigenti del suo partito si attaglia perfettamente allo schema orwelliano. D'un colpo, appena annunciato, il benpensare berlusconiano diventa norma e i più diligenti dei suoi fidi si precipitano in tv a propagarlo, esaltando nordcoreanamente la nuova verità offerta dal capo ai poveri di spirito. E chi aveva dubitato, raddoppia l'impeto e l'entusiasmo. Per riconfermare la propria fedeltà. Perché il capo non sbaglia mai.

Ma il Grande Fratello non solo è l'unica fonte di verità: è anche e soprattutto fonte inesauribile d'amore, anzi è l'amore in sé e per sé. Infatti, come grondano d'amore le parole sue - e dei suoi seguaci - quando si rivolge agli avversari! Con quanta soavità e gentilezza li tratta! Questa continua inversione della realtà, questa continua manomissione dei fatti, costruisce uno scenario tanto fittizio quanto plausibile agli occhi di molti.

Perché? Perché agisce su potenti leve pre-politiche. Affinché lo scenario imposto dal Grande Fratello diventi credibile, va scatenata una gigantesca energia emotiva che diriga affettivamente l'attenzione, e poi l'adesione, alle parole del capo. Ogni richiamo a dati di fatto empiricamente verificabili, ogni ragionamento logico-razionale, ogni analisi critica, vengono travolti dalla potenza evocativa dei riferimenti mitico-simbolici al bene e al male. Tutto viene ridotto alla divisione del mondo tra chi ama e chi odia. Cioè alla massima semplificazione possibile delle categorie interpretative del reale, quelle che ogni persona, anche la meno articolata, utilizza per orientarsi nel mondo.

Adottando categorie dotate di valenze affettive così forti, che trascendono quelle cognitive-razionali, nel momento in cui vengono traslate in politica creano identificazioni e fedeltà solidissime. Staccarsene produce un trauma affettivo oltre ad uno spaesamento: se non sono più nel bene, vuol dire che sprofondo nel male?

La degradazione della politica italiana passa anche da questo riduzionismo etico-politico. La incanala lungo una strada di odio ideologico che pensavamo di aver lasciato alle spalle alla fine degli anni Settanta, quando esistevano i nemici del popolo o i nemici della nazione a seconda degli orientamenti politici.

Ci sono voluti i lunghi anni di piombo per riconoscere che il Sistema imperialistico delle multinazionali dei brigatisti era una ridicola stupidaggine, e che le cospirazioni comuniste contro la parte sana della nazione erano deliri di fanatici nostalgici. C'è voluto quel buissimo periodo per ritornare ad una politica magari noiosa e piatta, ma decentemente rispettosa delle posizioni degli altri, una politica dove nessuno si impossessava più del bene contro il male, dove nessuno brandiva più la spada dell'arcangelo Gabriele per schiacciare il drago impuro e maligno.

Ora, il ministero dell'Amore torna ad imporsi sulla scena. Come il Winston Smith di '1984', anche noi che resistiamo al 'buonvolere' del Grande Fratello, alla fine, dopo innumerevoli lavaggi del cervello minzoliniani, saremo costretti ad arrenderci?

(19 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Bossi e L'opa sul Pdl
Inserito da: Admin - Aprile 10, 2010, 11:14:29 pm
Bossi e L'opa sul Pdl

di Piero Ignazi

Per il partito di Berlusconi e Fini si è aperta la 'competition' con il Carroccio per l'egemonia nel centro-destra
 

Il centro-destra supera con piglio sicuro lo scoglio delle elezioni regionali. Dilaga nella pianura padana, riconquista il regno del Sud con l'eccezione della Puglia (ma solo perché si è presentato diviso) e, ovviamente, del ridotto lucano, rosicchia voti nelle regioni rosse. Meglio di così era difficile fare, anche se questa volta sono state le liste minori a fare lo sgambetto al centro-sinistra in alcune sfide cruciali, così come lo fecero al centrodestra nelle regionali del 2005 e soprattutto alle politiche del 2006. Il centrodestra scoppia di salute, quindi? In realtà non sembra proprio, né in termini elettorali né sul piano politico. I voti alle liste di partito sommate a quelle di sostegno ai candidati presidenti lo collocano sotto il 50 per cento, con il centrosinistra appena dietro di qualche punto - sempre che i grillini siano iscrivibili al centrosinistra, il che è tutt'altro che sicuro (si veda l'articolo di Fausto Anderlini in questo numero). Ma sono soprattutto i rapporti interni allo schieramento, e al Pdl stesso, a essere messi in tensione dall'esito delle urne.

Il trionfo di re Umberto ha provocato onde anomale con conseguenze ancora tutte da vedere. Berlusconi non avrebbe problemi a siglare un patto d'acciaio con Bossi, eventualmente ma non necessariamente officiato da Giulio Tremonti. Del resto, come ha più volte sottolineato Edmondo Berselli, l'essenza vera del centrodestra risiede nel 'forzaleghismo': un impasto di liberismo a parole e di lassez-faire sfrenato e darwinista a spese dello Stato e dei più deboli, di insofferenza per le regole e le istituzioni e di una pratica gladiatoria della politica, di perbenismo e di rozzezza , di un indifferentismo etico e di un moralismo baciapile. Il tutto condotto attraverso una colonizzazione selvaggia di tutte le risorse possibili, figlia di un tribalismo politico rivestito da spoil system. Se ne accorgeranno le banche e le aziende pubbliche e partecipate ad ogni livello cosa significa il nuovo che avanza. Ma dall'abbraccio tra i due leader il Cavaliere potrebbe uscirne ammaccato. Per una ragione molto semplice: perché non ha truppe fedeli. Ha soldi a palate e può comprare qualche dirigente locale o nazionale, come ha già fatto in altre circostanze. Ma i leghisti hanno ormai fiutato l'odore inebriante del potere e non si faranno abbindolare da 40 denari. Lo schema del 1994-95 non è replicabile; e anche allora fallì. Il rischio di Berlusconi è quello di diventare, nel medio periodo, ostaggio del
Carroccio. Ma forse al settantatreenne Cavaliere il futuro del proprio partito non interessa più tanto. Basta che gli garantiscano il Quirinale per pensionarsi senza patemi giudiziari.

Tuttavia il rafforzamento della impronta leghista sul Popolo della libertà grazie al viatico Berlusconi-Tremonti apre anche spazi di dimensioni inattese per 'la faccia nascosta' del Pdl, quel ceto politico moderato che da tempo mugugna senza osare alzare la testa.

Non si tratta solo dei fedelissimi di Gianfranco Fini, bensì di tutti quelli che non considerano il Pdl un vuoto a perdere, preso e gettato dal leader a suo insindacabile piacimento, e che non gradiscono l'influenza concessa alla Lega. Se l'abbraccio di B&B si stringe davvero allora Fini potrebbe passare da una posizione di testimonianza 'cultural-politica' come quella adottata fin qui, ad una esplicita candidatura ad incarnare un'altra versione della destra. E non fuori dal Pdl, bensì dentro il partito.

Il mutato rapporto di forza tra i due partiti del centrodestra rilancia la competizione interna al Popolo della libertà perché la denuncia della deriva forzaleghista trova ora orecchie molto più sensibili e attente. Non tutti vogliono fare la fine di Brunetta. L'esito imprevisto delle urne sta quindi nel ritorno, o forse dell'inizio vero e proprio, della 'politica' all'interno di un partito che l'aveva espunta da sé per la sua configurazione carismatica .

Non a caso Berlusconi, 'incredibile visu', ha convocato gli organismi collettivi nazionali del Pdl. Forse è alle viste un vero dibattito politico nel partito di maggioranza: di fronte al rischio dell'egemonizzazione leghista, dell'Opa più o meno ostile sul partito da parte delle camice verdi, tutti quelli che vivono di politica incominciano ad interrogarsi su quale sia il progetto 'autonomo' del Pdl e chi sia il leader più adatto a guidarlo nella 'competition' che si è ormai aperta con il Carroccio per l'egemonia nel centrodestra.

(08 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Una sfida al forzaleghismo
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2010, 11:31:50 pm
Una sfida al forzaleghismo

di Piero Ignazi

È apprezzato più del Cavaliere, ma esiste un elettorato moderato sensibile e attento alle posizioni del presidente della Camera, Fini?
 

Il conflitto tra Fini e Berlusconi riflette due diverse proposte politiche. Il presidente della Camera, con un percorso accidentato e non rettilineo, è ormai giunto a identificarsi nel conservatorismo dei leader moderati oggi al governo in Germania e Francia, e domani forse in Gran Bretagna. Piccoli segni indicano una consonanza e un riconoscimento reciproco. Ad esempio, il presidente francese Nicolas Sarkozy partecipò all'ultimo congresso di An nel 2002 e Fini ha scritto la prefazione all'edizione italiana del libro-manifesto del presidente francese. Manifestazioni di simpatia che non si esprimono certo verso il Cavaliere - al di là degli obblighi diplomatici nei confronti di un rappresentante ufficiale del governo italiano - e men che meno verso Bossi.

D'altro lato Silvio Berlusconi incarna la versione populista, aggressiva e rancorosa del neo-conservatorismo: una versione molto più vicina alla destra Usa della Sarah Palin e del movimento del Tea Party che non ai Tory britannici pro-establishment, rispettosi dei diritti delle minoranze, attenti alla coesione sociale e naturaliter intrisi di fair play politico.

Questa divaricazione cultural-politica non si traduce in un dibattito aperto all'interno del Pdl. Per due ragioni. Innanzitutto le dinamiche degli 'interna corporis' del Popolo della libertà tendono ad appiattire, e spesso a svilire, il confronto delle idee e delle proposte . La sua natura patrimonial-carismatica, cui consegue una concentrazione di poteri formali e di risorse sostanziali (ed extra-politiche) nelle mani del leader tali da sovrastare incommensurabilmente ogni altro possibile contendente, favorisce un atteggiamento di conformismo, con punte di vera e propria adulazione. Sono molti i parlamentari Pdl che in privato mugugnano scontenti della sudditanza alla Lega ma di fronte alle armi suadenti, o contundenti, del Cavaliere chinano la testa e si allineano, dato che ogni fremito di contestazione porta al suicidio politico.

Per aprire una breccia in questo resistentissimo pack siberiano Fini deve quindi superare l'handicap del differenziale di risorse in mano al presidente del Consiglio. L'unica arma a disposizione del presidente della Camera consiste nell'apprezzamento dell'opinione pubblica che, da anni, lo vede prevalere su Berlusconi. Ma tale risorsa è difficilmente spendibile all'interno se non viene sostenuta da un progetto preciso e da solide gambe.

Il secondo handicap sta nella 'sostanza' della proposta politica finiana. Apparentemente non ci sarebbe nulla di più normale nel voler orientare la destra verso posizioni 'moderate', pro-business e rispettose delle regole e degli equilibri istituzionali, ancorata ai valori nazionali e aperta al cambiamento, all'Europa, al mondo. Il punto è che la destra forzaleghista, di cui il berlusconismo non è che una declinazione, è assolutamente eccentrica nel panorama delle forze conservatrici dei paesi di democrazia consolidata.

Il problema si restringe allora ad un interrogativo: esiste un elettorato moderato sensibile e attento alle posizioni di Fini, oppure 15 anni di radicalizzazione continua del conflitto politico e di demonizzazione degli avversari condotta da Berlusconi - e da Bossi - ha ristretto a poca cosa quel tipo di elettorato? Quando gli elettori di centrodestra digeriscono tranquillamente le falsificazioni della realtà propalate dal presidente del Consiglio sul "complotto della sinistra - e di quei violenti di radicali - che vogliono impedire la presentazione delle liste del Pdl a Roma", o accettano tranquillamente il saldarsi della alleanza con Bossi sorvolando sugli amorosi sensi tra il leader della Lega e il criminale Milosevic all'epoca della guerra del Kosovo, oppure la devota partecipazione dello stato maggiore leghista alla messa degli adepti del vescovo lefebvriano Williamson, antisemita e negazionista dell'Olocausto, tutto ciò indica una elevata refrattarietà al discorso finiano.

Infine, questa situazione è figlia anche di una tempistica sbagliata. L'accelerazione nello scontro con Berlusconi nasce troppo tardi perché Fini non si è curato di mantenere stretta la propria organizzazione, e fin da prima dell'unificazione è finita in gran parte nell'orbita di chi ha risorse infinite da offrire sia sul terreno politico che su quello economico; d'altro canto, si sviluppa troppo presto perché, per riconvertire in senso moderato la destra berlusconiana ed ora forzaleghista, è necessaria una lunga opera maieutica di conversione a temi e stili ben diversi da quelli con i quali essa è stata nutrita per più di un quindicennio.

(22 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it


Titolo: Piero IGNAZI. Una sfida al forzaleghismo
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 12:10:31 am
Una sfida al forzaleghismo

di Piero Ignazi

È apprezzato più del Cavaliere, ma esiste un elettorato moderato sensibile e attento alle posizioni del presidente della Camera, Fini?
 
I l conflitto tra Fini e Berlusconi riflette due diverse proposte politiche. Il presidente della Camera, con un percorso accidentato e non rettilineo, è ormai giunto a identificarsi nel conservatorismo dei leader moderati oggi al governo in Germania e Francia, e domani forse in Gran Bretagna. Piccoli segni indicano una consonanza e un riconoscimento reciproco. Ad esempio, il presidente francese Nicolas Sarkozy partecipò all'ultimo congresso di An nel 2002 e Fini ha scritto la prefazione all'edizione italiana del libro-manifesto del presidente francese. Manifestazioni di simpatia che non si esprimono certo verso il Cavaliere - al di là degli obblighi diplomatici nei confronti di un rappresentante ufficiale del governo italiano - e men che meno verso Bossi.

D'altro lato Silvio Berlusconi incarna la versione populista, aggressiva e rancorosa del neo-conservatorismo: una versione molto più vicina alla destra Usa della Sarah Palin e del movimento del Tea Party che non ai Tory britannici pro-establishment, rispettosi dei diritti delle minoranze, attenti alla coesione sociale e naturaliter intrisi di fair play politico.

Questa divaricazione cultural-politica non si traduce in un dibattito aperto all'interno del Pdl. Per due ragioni. Innanzitutto le dinamiche degli 'interna corporis' del Popolo della libertà tendono ad appiattire, e spesso a svilire, il confronto delle idee e delle proposte . La sua natura patrimonial-carismatica, cui consegue una concentrazione di poteri formali e di risorse sostanziali (ed extra-politiche) nelle mani del leader tali da sovrastare incommensurabilmente ogni altro possibile contendente, favorisce un atteggiamento di conformismo, con punte di vera e propria adulazione. Sono molti i parlamentari Pdl che in privato mugugnano scontenti della sudditanza alla Lega ma di fronte alle armi suadenti, o contundenti, del Cavaliere chinano la testa e si allineano, dato che ogni fremito di contestazione porta al suicidio politico.

Per aprire una breccia in questo resistentissimo pack siberiano Fini deve quindi superare l'handicap del differenziale di risorse in mano al presidente del Consiglio. L'unica arma a disposizione del presidente della Camera consiste nell'apprezzamento dell'opinione pubblica che, da anni, lo vede prevalere su Berlusconi. Ma tale risorsa è difficilmente spendibile all'interno se non viene sostenuta da un progetto preciso e da solide gambe.

Il secondo handicap sta nella 'sostanza' della proposta politica finiana. Apparentemente non ci sarebbe nulla di più normale nel voler orientare la destra verso posizioni 'moderate', pro-business e rispettose delle regole e degli equilibri istituzionali, ancorata ai valori nazionali e aperta al cambiamento, all'Europa, al mondo. Il punto è che la destra forzaleghista, di cui il berlusconismo non è che una declinazione, è assolutamente eccentrica nel panorama delle forze conservatrici dei paesi di democrazia consolidata.

Il problema si restringe allora ad un interrogativo: esiste un elettorato moderato sensibile e attento alle posizioni di Fini, oppure 15 anni di radicalizzazione continua del conflitto politico e di demonizzazione degli avversari condotta da Berlusconi - e da Bossi - ha ristretto a poca cosa quel tipo di elettorato? Quando gli elettori di centrodestra digeriscono tranquillamente le falsificazioni della realtà propalate dal presidente del Consiglio sul "complotto della sinistra - e di quei violenti di radicali - che vogliono impedire la presentazione delle liste del Pdl a Roma", o accettano tranquillamente il saldarsi della alleanza con Bossi sorvolando sugli amorosi sensi tra il leader della Lega e il criminale Milosevic all'epoca della guerra del Kosovo, oppure la devota partecipazione dello stato maggiore leghista alla messa degli adepti del vescovo lefebvriano Williamson, antisemita e negazionista dell'Olocausto, tutto ciò indica una elevata refrattarietà al discorso finiano.

Infine, questa situazione è figlia anche di una tempistica sbagliata. L'accelerazione nello scontro con Berlusconi nasce troppo tardi perché Fini non si è curato di mantenere stretta la propria organizzazione, e fin da prima dell'unificazione è finita in gran parte nell'orbita di chi ha risorse infinite da offrire sia sul terreno politico che su quello economico; d'altro canto, si sviluppa troppo presto perché, per riconvertire in senso moderato la destra berlusconiana ed ora forzaleghista, è necessaria una lunga opera maieutica di conversione a temi e stili ben diversi da quelli con i quali essa è stata nutrita per più di un quindicennio.

(23 aprile 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/una-sfida-al-forzaleghismo/2125704/18


Titolo: Piero IGNAZI. Se Obama chiama Giorgio
Inserito da: Admin - Giugno 04, 2010, 06:47:27 pm
Se Obama chiama Giorgio

Piero Ignazi

Per l'amministrazione americana il presidente Napolitano è il garante della nostra politica estera. Ecco perché
 

L'invito di Barack Obama al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha colto di sorpresa per i tempi irritualmente stretti richiesti dall'amministrazione democratica per organizzare la visita di Stato. Altrettanto irrituali per un incontro a livello non-governativo sono stati l'agenda fittissima e il taglio politico degli incontri. Quasi scontata invece, ma pur sempre significativa, la cordialità con la quale è stato accolto il presidente.

Tempi stretti e un programma politicamente densissimo riflettono, oltre che una considerazione particolare per il capo dello Stato italiano, trasparenti preoccupazioni degli Usa per il corso degli eventi in Italia. Gli Stati Uniti sono sempre più inquieti per la disinvoltura delle relazioni bilaterali e personali del nostro governo. Ad impensierire non sono solo i rapporti informali di Silvio Berlusconi con Vladimir Putin, chiaramente preferito al presidente russo Dmitry Medvedev benché quest'ultimo sia più aperto e modernizzante; lasciano perplessi anche l'ostentata cordialità con il dittatore di Tripoli (un conto è normalizzare le relazioni, un altro appaltargli il controllo dell'immigrazione e farlo scorrazzare per Roma con la sua corte per una settimana), l'affabilità con l'autocrate bielorusso Aleksandr Lukashenko, la recente apertura di credito nei confronti del Venezuela di Hugo Chávez.

Di fronte a questa sorta di "nonchalance" nelle nostre relazioni internazionali - atteggiamento che riflette antichi vizi nazionali, dal fastidio per l'intrappolamento in alleanze non dirette da noi alla dispersione degli obiettivi - il presidente Napolitano ha assunto agli occhi dell'amministrazione Obama il ruolo di garante della continuità, atlantica ed europeista, della politica estera italiana.
La ragione è evidente: se sono i rapporti diretti e personali a determinare i nostri orientamenti in politica estera, allora ne consegue che, una volta uscito dalla Casa Bianca "l'amico George", l'atteggiamento del governo italiano può cambiare anche nei confronti dell'America. E in effetti, nella stampa di destra sta spirando un inedito vento anti-americano.

Il capo dello Stato si è presentato a Washington per fugare queste preoccupazioni (e non sappiamo quanto ci sia riuscito vista la cordialità da vecchi amici esibita dal ministro degli esteri Franco Frattini con il presidente venezuelano Chávez subito dopo gli incontri americani); in più, è stato ricevuto in qualità di "ambasciatore informale" dell'Unione europea. Il nostro presidente condivide con la regina Elisabetta II il ruolo di senior leader in Europa, ma diversamente dalla sovrana britannica ha un passato politico lunghissimo e articolato. Conosce le dinamiche dei conflitti politici interni ed internazionali. Soprattutto, è l'unico leader in carica di una generazione che ha conosciuto la guerra e le divisioni ideologiche della guerra fredda; ed ha sperimentato su di sé le contraddizioni di quegli anni, dimostrando come quelle contraddizioni possano superarsi in una ottica di convivenza civile e di reciproco rispetto, all'interno degli Stati e tra gli Stati.

Insomma, la peculiare biografia politica di Napolitano ne fa un interlocutore privilegiato degli Stati Uniti sia per i rapporti bilaterali che, ancor più, per i rapporti tra Usa ed Europa. L'europeismo spinelliano del presidente lo differenzia dalle cautele e dagli egoismi nazionali di tutti gli altri capi di governo europei. Di fronte alla crisi dell'euro, i balbettamenti di una Merkel sempre più ingobbita nella chiusura della fortezza Deutschland contro i pigs mediterranei, la paurosa crisi di identità della Francia sarkoziana, la depressione spagnola, triste come una movida bagnata e troppo ebbra, potrebbero concedere, per una volta, un ruolo trainante all'Italia. Il presidente ha rappresentato oltre Atlantico il volto europeista del Vecchio Continente con la credibilità che la sua storia gli concede.
Ma Napolitano ha solo un ruolo simbolico. Quello operativo spetta al governo Berlusconi. Purtroppo le argomentazioni con cui è stata presentata la manovra finanziaria vanno nella direzione opposta. Quando il presidente del Consiglio parla di "manovra causata dalla crisi greca e imposta dall'Europa" rinverdisce gli stereotipi anti-europei echeggiati già all'epoca dell'introduzione dell'euro (anche dal ministro Tremonti). Un orientamento lontano mille miglia dall'europeismo del Quirinale.
E così zigzagando, negli Usa crescono le perplessità sul nostro Paese.

(03 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/se-obama-chiama-giorgio/2128369/18


Titolo: Piero IGNAZI. Big bang per Silvio
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2010, 10:54:43 am
Big bang per Silvio

di Piero Ignazi

Berlusconi sta arrancando e ora deve temere più che contare su Bossi, Fini e Casini

(15 luglio 2010)

Le risorse del Cavalier Berlusconi sono innumerevoli e l'errore più grande che si possa fare è di darlo per "finito". Coloro che nel passato avevano pronosticato il suo tramonto politico sono sempre stati smentiti. Anche ora, nonostante le nubi che si addensano, il presidente del Consiglio potrebbe inventare qualche mossa spiazzante e rimettersi al centro dei giochi. Le disponibilità finanziarie illimitate e il loro utilizzo generoso e spregiudicato, il controllo dei media, il potere derivante della carica istituzionale che occupa, i mille contatti e i mille dossier di cui dispone, costituiscono un arsenale formidabile. Nessuno può muoversi su tanti piani e con tante armi.

Detto questo, però, il primo ministro sta arrancando. Sulla manovra non è riuscito a cambiare praticamente nulla se non alcuni provvedimenti dal sapore quasi provocatorio come il taglio delle tredicesime alle forze di polizia (ma altri ne restano, come il blocco dell'anzianità alle categorie sociali "nemiche"). Il ministro dell'Economia Tremonti pare divertirsi a infierire: volteggiando come un torero nell'arena, prima fa inferocire toro berluscones con mille provvedimenti-banderillas, poi, tra una veronica e l'altra, l'infilza con la blindatura europea dei conti.

Il presidente della Camera, dal canto suo, sempre più algido sul suo scranno, lo attende al varco delle intercettazioni mantenendo, in attesa dell'ora X, una apnea degna di Enzo Maiorca.

Il "fido" Bossi, come sempre, pensa ai propri interessi e sarà di nuovo il primo a dargli il bacio della morte, 16 anni dopo, se necessario (se cioè, ad esempio, l'opposizione stringesse un patto scellerato con il Carroccio del tipo, a voi il federalismo a noi la testa di Berlusconi in un governissimo per le riforme).

Infine i suoi fedelissimi si stanno compattando dietro di lui come neve al sole: ognuno con la propria corrente, e alcuni con la prospettiva di una estate al fresco, dal coordinatore del Pdl, Denis Verdini, all'amico dei mafiosi - ma solo fino al 1992 - Marcello dell'Utri.
Per fortuna c'è l'opposizione a dargli un po' di respiro. L'ottimo Bersani continua a lamentarsi che così non si può andare avanti, e in effetti molti nel Pd ne sono convinti. Di Pietro batte e ribatte sempre sullo stesso tasto, ma qualche altra nota non farebbe male, tanto per capire cosa pensa del mondo.

Rimane Pier Ferdinando Casini. Dopo il patto della crostata abbiamo quello della cassata, vista la stagione. Casini è stato convocato dall'anfitrione Vespa ad una cena con il Cavaliere, con contorno di banchieri e cardinali, forse per discutere del raffinato libretto di Paolo Prodi e Guido Rossi dedicato al "Non rubare", o forse, più prosaicamente, per invitare il leader dell'Udc a divorziare di nuovo dall'opposizione e tornare nella vecchia famiglia. Dopo un periodo di appannamento Casini torna ad essere corteggiato. Respinte le avances dalemiane di questa primavera, ora si fa sotto di nuovo il Cavaliere azzurro. A questo punto Pierferdi deve decidere se continuare la ricerca di altri pretendenti o accasarsi presso il Panopticon delle libertà vigilate.

Vista la situazione gelatinosa in cui si trova il Pdl, al nuovo venuto si aprirebbero anche spazi interessanti, tutti da giocare. Ma il suo sarebbe anche un correre in soccorso di Berlusconi, con il rischio di rafforzare lui e, di riflesso, l'opposizione interna, rimanendo così stretto in mezzo. Avrebbe invece tutt'altro respiro una corsa solitaria alla ricerca di una nuova aggregazione con energie fresche. In fondo è ora che ci sia una circolazione delle élite a destra.

La classe politica della destra è rimasta inchiodata al 1994: i leader sono sempre gli stessi da allora, e Bossi ha addirittura superato ogni record di permanenza nella poltrona di segretario tra tutti i partiti europei. Per dare un metro di paragone della stagnazione, 15 anni sono quelli che separano il primo governo centro-sinistra di Moro (1963) dal suo rapimento del 1978. Distanze abissali, dove era cambiato tutto.

Il malessere dell'area governativa segnala che siamo vicini al momento del big bang, della ridefinizione dei rapporti di forza interni alla galassia del centro-destra, un po' come accadde alla Dc e ai suoi eredi all'inizio degli anni '90. Sarebbe questa la vera fine della transizione.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/big-bang-per-silvio/2130882/18


Titolo: Piero IGNAZI. L'impossibile scalata al partito carismatico
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2010, 12:20:14 pm
L'impossibile scalata al partito carismatico

Piero Ignazi

Il conflitto tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini è destinato a ridefinire il profilo del Pdl sia sul piano organizzativo che sul piano politico. Nei partiti i cambiamenti organizzativi – ma anche le semplici richieste di cambiamenti – riflettono quasi sempre (richieste di) nuove strategie politiche. Anche in questo caso l'offensiva tambureggiante del co-fondatore del Popolo della libertà per un diverso assetto interno non si limitava a qualche modifica statutaria ma investiva l'identità stessa del partito.

Chiedere più democrazia interna e ruoli realmente paritari in un partito a configurazione simil-carismatica qual è il Pdl comporta un cambiamento di natura, un salto di specie. Significa azzerare il capitale simbolico costruito in un quindicennio da Silvio Berlusconi sulla sua figura di leader in grado di risolvere ogni problema e di superare ogni ostacolo, ribaltando previsioni e certezze acquisite. Tutta la storia del centro-destra post-Tangentopoli narra delle sue gesta, mentre gli altri, da Fini a Bossi (e a Casini, all'epoca), sono relegati al ruolo di comprimari: essenziali per governare, ma sideralmente lontani in voti e in risorse.

Date queste premesse, era evidente che la fusione di An e Forza Italia avrebbe lasciato a Fini solo un ruolo di co-partnership formale. Semmai il leader di An poteva contare su un progetto di medio periodo, e cioè conquistare il nuovo partito dal basso, utilizzando le risorse militanti che aveva portato in dote al Pdl, le uniche in cui potesse vantare un reale vantaggio su Forza Italia. Ma questo progetto presupponeva una vita di partito "normale", tradizionale, fatta di processi di selezione della classe politica pidiellina dal basso, attraverso celebrazioni di congressi ed elezioni degli organi.

In An, proprio perché è sempre stato un partito diviso in correnti (così come lo era, e ferocemente, l'antesignano Msi), una prassi del genere era moneta corrente, anche se una certa propensione al "cesarismo" era affiorata fin dal 1994. In Forza Italia, invece, la fluidità delle regole interne e il potere carismatico del fondatore hanno lasciato poco spazio a queste prassi, spesso liquidate come un residuo dei "vecchi" partiti. Ammettendo che il progetto di Fini al momento della fusione in Pdl fosse quello della conquista del basso, esso avrebbe però dovuto superare due ostacoli, organizzativi e politici: sul primo versante, la scarsa predisposizione alla "vita normale" di partito non solo da parte degli ex forzisti ma anche dei suoi, data la centralizzazione e verticalizzazione del potere interno nella stessa An; sul secondo, l'opacità di uno specifico politico-culturale di An. Questo secondo aspetto costituisce tuttora un'area grigia nell'interpretazione della crisi del Pdl.

Le ricerche condotte sugli elettorati dei due partiti negli anni precedenti alla fusione hanno evidenziato un processo di osmosi cultural-politica accelerata. Le "tradizioni" di An, che si tingevano sempre un po' troppo di nero quando emergevano (si vedano i festeggiamenti per la vittoria di Gianni Alemanno al comune di Roma), erano andate diluendo in un neoconservatorismo indistinto e inconsapevole, e quindi sostanzialmente accodato alla versione berlusconiana.

Solo ora Fini ha tracciato il profilo di partito ideologicamente distinto dal mainstream berlusconiano quando ha proposto una destra classicamente moderata-conservatrice sul registro di quelle europee, senza forzature istituzionali e appelli populistici. Nel presentare questa proposta, ha posto, inevitabilmente, anche il problema di una diversa gestione del partito. Movendosi sui due versanti – dando consistenza a una identità nuova degli ex An, identità alla quale però non aderiscono molti suoi ex sodali già sfiancati dal passaggio al post-fascismo, e insistendo su un partito meno dipendente dal (carisma del) leader – il presidente della Camera tenta un'operazione di rinnovamento interno ad alto rischio perché, ancor più del profilo ideologico, la natura di partito personal-carismatico del Pdl non può mutare senza effetti catastrofici. E di fronte al rischio di una catastrofe organizzativa ogni partito si chiude a riccio a difesa dell'esistente.

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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2010-07-30/limpossibile-scalata-partito-carismatico-080342.shtml?uuid=AYA9AVCC

Questo articolo è stato pubblicato il 30 luglio 2010 alle ore 08:03.


Titolo: Piero IGNAZI. La messa in scena è finita
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2010, 08:25:02 am
La messa in scena è finita

di Piero Ignazi

L'offerta politica della destra era irresistibile, anche perché condensata in uno slogan subliminale: "Siamo come voi".

Oggi non più

(06 agosto 2010)

Partiamo da cose minime: un ministro (Umberto Bossi) che si offre ai flash dei fotografi in un gesto osceno; un altro ministro del gentile sesso (Michela Vittoria Brambilla) che viene ritratta a seno nudo in una festa opulenta dell'establishment berlusconiano (il classico schiaffo alla miseria...); un presidente del Consiglio che ironizza volgarmente sul cognome di un deputato (Italo Bocchino). Certo, bazzecole rispetto ai gravi problemi del Paese.

Ma questi episodi non sono forse tracce, spie, dello stile e della mentalità della classe politica di governo? L'esibizione della ricchezza e dello sfarzo da un lato, la compiacenza , quasi la naturalezza, del gesto e della battuta da trivio dall'altro, sono elementi costitutivi della cultura politica del centrodestra, e come tali meritevoli di analisi più che di "condanne". Il dileggio per la "buona creanza", irrisa dall'esaltazione futuristica per le malandrinate dai cantori del berlusconismo, e l'ostentazione del privilegio dato dal denaro, non hanno mai giocato contro il centrodestra. Anzi, hanno suscitato quella simpatia servile e canagliesca, insita nel nostro carattere nazionale, per lo scherno verso tutto e tutti ad opera del potente di turno.

Alla radice del successo del forzaleghismo sta il ribaltamento dei codici di comportamento, l'autoaffermazione proteica e ribalda rispetto all'establishment, la rottura delle consuetudini e dei riti della politica, la liceità del "desiderare" senza inibizioni: in sostanza, un disagio freudiano della civiltà. Tutto ciò era forse inevitabile nel passaggio di regime dei primi anni Novanta. Erano cresciuti ceti sociali non rappresentati da alcuno, nemmeno dal socialismo craxiano, troppo vecchio intriso com'era, al suo meglio, di umori garibaldin-turatiani, per essere il cantore della nuova Italia produttiva, faber ed acquisitiva, desiderosa di conquistare il proprio posto sotto i riflettori. Solo forze nuove potevano esprimere l'energia vitale di quelle componenti sociali: in assenza di interpreti credibili dei valori repubblicani e universalistici - del resto, come poteva esserlo un partito comunista appena riverniciato, e male, di socialdemocrazia?

L'offerta politica della destra era irresistibile, anche perché condensata in uno slogan subliminale: "Siamo come voi", e non staremo con il ditino alzato a farvi vergognare dei vostri difetti, anzi. La forza del populismo berlusconiano passa per questo meccanismo di identificazione profonda con ceti medi in ascesa non riconosciuti nel loro ruolo, oltre che con una più ampia platea desiderante in senso lato. Tutto questo sembra in via di esaurimento. Insolenze verso gli avversari e disprezzo per il politically correct, offensive cultural-mediatiche sui totem della vulgata repubblicana-resistenziale e miraggi di miracoli economici, erano funzionali all'affermazione di un nuovo ceto politico, ma ora l'insistenza sullo stesso registro dimostra piuttosto che il centrodestra è entrato nel tunnel dell'autoreferenzialità. Le feste trimalcioniche e le vacanze da nababbi, condite da abbondanti sguaiataggini, entrano in dissonanza con le priorità dell'opinione pubblica.

Si guardino i dati delle tante ricerche condotte nell'ultimo anno. Quelli dell'SWG, ad esempio, ci dicono che a fine 2009 il 59 per cento degli italiani era convinto che l'Italia stesse regredendo, mentre era solo il 24 per cento nel 2000, e coloro che si ritenevano di "ceto medio" sono scesi dal 70 per cento del 2000 al 57 di oggi; inoltre, quasi i due terzi lamentano la scarsa "virtuosità" del Paese. Si sta sfarinando la base sociale - e anche culturale - del berlusconismo. Per questo la ripetizione delle messe in scena da Costa Smeralda et similia non crea più dinamiche di identificazione ma produce piuttosto cortocircuiti. Il nuovo del 1994 è al tramonto. La sua coazione a ripetere lo ha cacciato in un vicolo cieco, magari lungo, ma comunque cieco.

Le truppe finiane indicano un percorso diverso per interpretare le priorità di quei ceti sociali un tempo punta di diamante del berlusconismo ed ora alla ricerca di una nuova rappresentanza, con domande di una politica più sobria e meno ideologica, più concreta e meno arrembante. La "competition" è approdata anche a destra. E non è un problema di conflitti personali.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-messa-in-scena-e-finita/2132138/18


Titolo: Piero IGNAZI. La messa in scena è finita
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2010, 04:45:36 pm
La messa in scena è finita

di Piero Ignazi

L'offerta politica della destra era irresistibile, anche perché condensata in uno slogan subliminale: "Siamo come voi".

Oggi non più

(06 agosto 2010)

Partiamo da cose minime: un ministro (Umberto Bossi) che si offre ai flash dei fotografi in un gesto osceno; un altro ministro del gentile sesso (Michela Vittoria Brambilla) che viene ritratta a seno nudo in una festa opulenta dell'establishment berlusconiano (il classico schiaffo alla miseria...); un presidente del Consiglio che ironizza volgarmente sul cognome di un deputato (Italo Bocchino). Certo, bazzecole rispetto ai gravi problemi del Paese.

Ma questi episodi non sono forse tracce, spie, dello stile e della mentalità della classe politica di governo? L'esibizione della ricchezza e dello sfarzo da un lato, la compiacenza , quasi la naturalezza, del gesto e della battuta da trivio dall'altro, sono elementi costitutivi della cultura politica del centrodestra, e come tali meritevoli di analisi più che di "condanne". Il dileggio per la "buona creanza", irrisa dall'esaltazione futuristica per le malandrinate dai cantori del berlusconismo, e l'ostentazione del privilegio dato dal denaro, non hanno mai giocato contro il centrodestra. Anzi, hanno suscitato quella simpatia servile e canagliesca, insita nel nostro carattere nazionale, per lo scherno verso tutto e tutti ad opera del potente di turno.

Alla radice del successo del forzaleghismo sta il ribaltamento dei codici di comportamento, l'autoaffermazione proteica e ribalda rispetto all'establishment, la rottura delle consuetudini e dei riti della politica, la liceità del "desiderare" senza inibizioni: in sostanza, un disagio freudiano della civiltà. Tutto ciò era forse inevitabile nel passaggio di regime dei primi anni Novanta. Erano cresciuti ceti sociali non rappresentati da alcuno, nemmeno dal socialismo craxiano, troppo vecchio intriso com'era, al suo meglio, di umori garibaldin-turatiani, per essere il cantore della nuova Italia produttiva, faber ed acquisitiva, desiderosa di conquistare il proprio posto sotto i riflettori. Solo forze nuove potevano esprimere l'energia vitale di quelle componenti sociali: in assenza di interpreti credibili dei valori repubblicani e universalistici - del resto, come poteva esserlo un partito comunista appena riverniciato, e male, di socialdemocrazia?

L'offerta politica della destra era irresistibile, anche perché condensata in uno slogan subliminale: "Siamo come voi", e non staremo con il ditino alzato a farvi vergognare dei vostri difetti, anzi. La forza del populismo berlusconiano passa per questo meccanismo di identificazione profonda con ceti medi in ascesa non riconosciuti nel loro ruolo, oltre che con una più ampia platea desiderante in senso lato. Tutto questo sembra in via di esaurimento. Insolenze verso gli avversari e disprezzo per il politically correct, offensive cultural-mediatiche sui totem della vulgata repubblicana-resistenziale e miraggi di miracoli economici, erano funzionali all'affermazione di un nuovo ceto politico, ma ora l'insistenza sullo stesso registro dimostra piuttosto che il centrodestra è entrato nel tunnel dell'autoreferenzialità. Le feste trimalcioniche e le vacanze da nababbi, condite da abbondanti sguaiataggini, entrano in dissonanza con le priorità dell'opinione pubblica.

Si guardino i dati delle tante ricerche condotte nell'ultimo anno. Quelli dell'SWG, ad esempio, ci dicono che a fine 2009 il 59 per cento degli italiani era convinto che l'Italia stesse regredendo, mentre era solo il 24 per cento nel 2000, e coloro che si ritenevano di "ceto medio" sono scesi dal 70 per cento del 2000 al 57 di oggi; inoltre, quasi i due terzi lamentano la scarsa "virtuosità" del Paese. Si sta sfarinando la base sociale - e anche culturale - del berlusconismo. Per questo la ripetizione delle messe in scena da Costa Smeralda et similia non crea più dinamiche di identificazione ma produce piuttosto cortocircuiti. Il nuovo del 1994 è al tramonto. La sua coazione a ripetere lo ha cacciato in un vicolo cieco, magari lungo, ma comunque cieco.

Le truppe finiane indicano un percorso diverso per interpretare le priorità di quei ceti sociali un tempo punta di diamante del berlusconismo ed ora alla ricerca di una nuova rappresentanza, con domande di una politica più sobria e meno ideologica, più concreta e meno arrembante. La "competition" è approdata anche a destra. E non è un problema di conflitti personali.

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-messa-in-scena-e-finita/2132138/18


Titolo: Piero IGNAZI. Chi nomina e chi si nomina
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2010, 09:17:01 am
Chi nomina e chi si nomina

di Piero Ignazi

L'ossificazione della nostra classe politica, a destra e a sinistra, non ha riscontri in Europa

(27 agosto 2010)

L'ossificazione della classe politica italiana è frutto di due fattori convergenti: le modalità di selezione della leadership e la vischiosità delle vecchie élite, favorita peraltro dalla scarsa aggressività delle giovani leve. I percorsi di selezione della classe dirigente di un partito si valutano sulla base di due criteri: le qualificazioni necessarie per essere candidato (chi è candidabile) e il potere di scelta sui candidati (chi ha la facoltà di eleggere/nominare la leadership). Più numerosi sono i soggetti candidabili e quelli coinvolti nella decisione, maggiori sono l'apertura e l'inclusività del partito, tanto all' interno, verso la propria base, quanto nei confronti della società civile. Il ventaglio dei concorrenti ai ruoli dirigenti può spaziare da quegli iscritti che esibiscono un particolare cursus honorum (essere parlamentari, avere ricoperto varie cariche pubbliche o di partito, essere iscritti da un certo numero di anni, ecc.), fino a cittadini senza tessera che intendono comunque candidarsi.

Gli statuti di alcuni partiti non pongono alcuna limitazione alle candidature - come per l'elezione del presidente della Repubblica o per la nomina di un pontefice - rendendo implicitamente possibile l'irruzione di figure esterne. Ma questa circostanza si manifesta solo in situazioni di grandissima difficoltà dell'organizzazione partitica. (L'elezione di François Mitterrand alla testa dei socialisti francesi nel 1971 si avvicina molto a questo caso limite).

Anche il potere di decidere sulle candidature può andare dal massimo di chiusura e di verticismo - è solo il leader che decide - al massimo di inclusività e apertura verso la società civile - tutti i cittadini sono chiamati a scegliere. La linea di tendenza seguita dai maggiori partiti europei è stata quella di spostare progressivamente il baricentro del potere di nomina dagli organi ristretti di vertice verso gli iscritti, mentre per quanto riguarda i candidabili questi continuano ad essere pescati tra i dirigenti (locali o nazionali) del partito.

La situazione italiana è del tutto eccentrica - anche in questo - rispetto al panorama europeo. Tutti i partiti, ad eccezione del Pd, adottano procedure opache e "acclamatorie" per designare i leader; o meglio per confermarli di volta in volta, vista la loro inamovibilità. E, ancor peggio, il processo di selezione negli organismi dirigenti procede ormai dall'alto in basso.

La conseguenza è sotto gli occhi di tutti. Abbiamo la classe politica più vecchia e più ossificata del continente: nessuno, a parte Jean-Marie Le Pen, leader del Front National francese, supera per longevità politica alla testa del proprio partito Umberto Bossi, segretario federale della Lega dal 1991, Silvio Berlusconi, alla testa di Forza Italia-Pdl dal 1994, e Pier Ferdinando Casini anch'egli leader del Ccd-Udc dal 1994, a parte la parentesi dei cinque anni di presidenza della Camera. Anche Gianfranco Fini aveva totalizzato quasi un ventennio di conduzione del Msi-An prima di accettare la "diminutio" a cofondatore del Popolo della Libertà.

A sinistra, e specialmente nel Pds-Ds-Pd , così come nel Ppi-Margherita-Pd, invece, è stato tutto un avvicendarsi di figure diverse. Ma quello che manca ad entrambi i fronti sono nuovi dirigenti. Con un paradosso. I partiti più verticisti e chiusi come Lega e Pdl negli ultimi anni hanno messo in campo politici relativamente giovani, privi di precedenti appartenenze, nati e cresciuti politicamente nel post '94.

Al contrario, nel Pd, nonostante la vorticosa e saturnina decimazione della leadership, non è affiorato un potenziale gruppo dirigente di ricambio. Qualcuno ha avuto il suo momento di celebrità o realizzato un exploit - da Deborah Serracchiani a Matteo Renzi - ma non si vede ancora una massa critica di giovani "democrat", senza targhe pregresse, tale da prefigurare una vera e propria "circolazione dell'elite" del partito.

È proprio questo che manca al Pd: uno show-down che partendo da premesse ideali ben definite metta sotto accusa tutta la vecchia classe dirigente di ex, e si candidi ad innalzare il vessillo dei democratici, senza timidezze o retropensieri. Solo imitando i grandi innovatori, dai Willy Brandt della socialdemocrazia tedesca di fine anni Cinquanta ai Tony Blair del Labour party di metà anni Novanta, si può conquistare il potere.

La strada per farlo non passa necessariamente dalle primarie, sacro Graal illusorio del cambiamento. Passa dalle idee e soprattutto dal coraggio di sfidare gli elefanti. A destra la chiusura verticistica di quelle organizzazioni, oltre al consenso che gli attuali leader ancora riscuotono, consente di controllare e gestire il ricambio. A sinistra, invece, c'è tutta una prateria di fronte a giovani leoni e leonesse.

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Titolo: Piero IGNAZI. Quel silenzio sulla Lega
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2010, 02:13:24 pm
Quel silenzio sulla Lega

di Piero Ignazi

Le volgarità di Bossi, il crack Credinord, il flop delle ronde, gli amministratori inquisiti.

Ma nessuno ne parla più

(17 settembre 2010)

C'è una sorta di "spirale del silenzio" nei confronti della Lega Nord. Non che della Lega non si parli, tutt'altro. Ma se ne parla solo bene. Nessuno si azzarda a criticarla a muso duro. La "spirale del silenzio", espressione coniata negli anni Sessanta dalla politologa tedesca Elisabeth Noelle-Neumann, indica quel timore reverenziale a esprimere critiche nei confronti di qualcuno o qualcosa che "va per la maggiore". È la paura di apparire minoritari e fuori gioco a far scattare un atteggiamento di compiacenza-adeguamento nei confronti di ciò che si ritiene il parere dei più. In questo modo le opinioni dissenzienti ammutoliscono per non essere ostracizzate dal benpensare della maggioranza.

Oggi la Lega gode di una situazione di questo tipo. Dopo i suoi ultimi successi elettorali si è scatenata una corsa ad esaltarne le doti, anche a sinistra: dal modello di partito forte e radicato alla nuova e capace classe dirigente, dalle grandi intuizioni politiche al legame con il territorio, e via di questo passo. Alla Lega si consente tutto perché a criticarla non solo si viene coperti di insulti (e di minacce) ma si viene anche irrisi come quelli che "non hanno capito come va il mondo". Più o meno è lo stesso atteggiamento di sufficienza e di scherno che i post-sessantottini riservavano a chi non credeva nella rivoluzione imminente e nel salvifico libretto rosso di Mao.
Di conseguenza ora un ministro della Repubblica come Umberto Bossi può impunemente esibirsi in gesti volgari senza che venga chiamato dall'opinione pubblica informata o dalla classe dirigente di questo paese a renderne conto e, come minimo, ad esprimere pubbliche scuse. Ve lo immaginate il ministro di un altro paese europeo immortalato in quel gesto? E se anche accadesse, per quanti nanosecondi potrebbe rimanere in carica? Anche questo, oltre alle ormai consuete buffonate internazionali del nostro premier, ci separa e allontana dall'Occidente (in fondo i nostri migliori amici non sono Putin e Gheddafi?...).
L'assordante fanfara sulle magnifiche sorti e progressive della Lega nasconde però un crescendo di stonature. Già è stato steso un velo misericordioso sui lutti finanziari prodotti dalla Credinord, la banca della Lega fallita miseramente e rilevata da quell'ineffabile personaggio dei "furbetti del quartierino" che risponde al nome di Gianpiero Fiorani (Popolare di Lodi e AntonVeneta). Eppure Bossi adesso vuole "entrare nelle banche", cioè tornare alla vecchia lottizzazione. E nessuno fiata.

Persino la sicurezza, tema centrale dell'appeal leghista, mostra qualche crepa. La soluzione miracolista sostenuta a gran voce dal Carroccio era rappresentata dalle ronde. Dopo più di un anno sembra ne abbiano avvistata una a Varazze. Del resto, come era prevedibile, questo tema è scomparso dai telegiornali e dai quotidiani. Ovviamente non perché i reati siano crollati ma semplicemente perché sono occultati. Ilvo Diamanti ha più volte dimostrato il nesso strettissimo tra lo spazio dedicato dai mass media ai crimini e la percezione di insicurezza. Dopo essere stata al centro delle cronache per tutto il periodo del governo Prodi, ora di sicurezza non se ne parla più: Tg1 e Tg5 hanno più che dimezzato lo spazio a queste notizie. E l'opinione pubblica si mostra più tranquilla. Indipendentemente dal numero dei reati.

Altro mito leghista, è la qualità della sua classe dirigente: giovane, onesta, capace, motivata. Sono passati pochi mesi dall'ingresso trionfale in tante amministrazioni locali che già affiorano scandali, malversazioni e corruzione, oltre a pericolosi inquinamenti della malavita organizzata, come svelato dal blitz contro la 'ndrangheta nel luglio scorso. Quisquilie per i dirigenti leghisti, che badano al sodo e, soprattutto, si curano dei padani in erba. Non solo la scuola leghista di Bosina fondata dalla moglie di Bossi e presieduta dall'ex senatore leghista Dario Galli ha ricevuto quest'anno 800 mila euro di finanziamenti (mentre si tagliano fondi a quelle statali). Ma addirittura le scuole comunali diventano luoghi di indottrinamento politico: ad Adrio è stata inaugurata una scuola pubblica - di tutti - che sembra un campo di rieducazione politica, con simboli del partito impressi ovunque.
Orbene, di fronte alle volgarità, ai fallimenti e all'aggressività illiberale leghista sarebbe tempo di rompere la spirale del silenzio.

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Titolo: Piero IGNAZI. La sinistra ha perso il popolo
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2010, 12:57:31 pm
La sinistra ha perso il popolo

di Piero Ignazi

Il vero conflitto oggi in Europa non è tra moderati e progressisti, bensì tra questi ultimi e l'estrema destra

(08 ottobre 2010)

Manifestazione Pd Manifestazione PdAlla fine degli anni Novanta la sinistra dominava sul continente europeo: 14 dei 15 paesi dell'Ue pre-allargamento avevano governi a guida socialista. Il peccato originale della sinistra del nuovo secolo risale forse a quel momento. Allora si manifestò una sorta di delirio di onnipotenza, condensato nella convinzione di gestire la globalizzazione economica piegando ai propri fini (crescita e welfare) gli strumenti dell'avversario (apologia del privato e dell'individuo, deregulation e finanziarizzazione).
Questo passaggio a destra, intellettuale e politico, si poggiava su motivazioni fondate. In primo luogo, la convinzione che il modello di sviluppo dei primi trent'anni non producesse più le risorse necessarie per il mantenimento delle prospettive di crescita e benessere con cui era cresciuta la generazione del baby boom, e che quindi bisognasse cercare qualcosa di nuovo e alternativo. A sostegno di questo assunto era venuta la teorizzazione della "terza via", un autentico nuovo manifesto della socialdemocrazia europea se fosse stato seguito e adattato con coerenza invece di ridurlo ai lustrini della "cool Britannia" blairiana.

Dalla consapevolezza dell'usura del modello di welfare postbellico-keynesiano, e dal convincimento di poter attrarre cospicue fette di elettorato "borghese" con una agenda "alla terza-via", nasce l'abbandono di alcuni cardini dell'ideologia socialdemocratica. Certo, l'apertura al liberalismo sul piano dei diritti ha conquistato nuovi ceti sociali - giovani, acculturati, urbani, attivi nelle professioni intellettuali - al punto da diventare interlocutori privilegiati delle sinistre europee. Ma il disdegno delle radici e la difficoltà a coniugare la nuova agenda post-materialista con gli interessi delle classi popolari ha lacerato il tessuto sociale di tanti partiti socialisti.

Oggi il profilo socio-demografico di queste formazioni politiche non si discosta granché da quello dei partiti moderati, se non per una diversa presenza dei dipendenti (pubblici in particolare) nei primi, e dei lavoratori autonomi nei secondi. Ma in termini di fasce di reddito non c'è più l'enorme differenza di trent'anni fa. Senza mitizzare, però: il partito conservatore attraeva voti operai e popolari (il fenomeno del working class torysm), e lo stesso valeva per i gollisti francesi e per i partiti confessionali in Italia, Germania, Austria e Benelux.
Tuttavia è solo a partire dagli anni Ottanta che la stratificazione sociale interna ai grandi partiti di destra e di sinistra è andata assomigliandosi sempre più. E ciò per una mutazione interna ai partiti socialisti che hanno perso consenso tra i ceti popolari.

Dove sono andati quegli elettori? Oltre che rifugiarsi nell'astensione si sono riversati verso una nuova offerta politica, quella dell'estrema destra. Già tra fine anni Novanta e inizio anni Duemila, partiti come i liberalnazionali austriaci di Jorg Haider e il Front National francese di Jean-Marie Le Pen avevano tra i rispettivi elettorati una quota di operai superiore a quella dei partiti socialisti.
Questo fenomeno non si è arrestato con il nuovo secolo, anzi. L'11 settembre - che ha inciso più nella politica interna dei vari paesi occidentali che non nel sistema internazionale - ha immesso una tale quantità di ansia collettiva, di xenofobia e di chiusura da rendere sempre più solido il distacco dei ceti popolari dai loro referenti storici.

Su questi temi l'estrema destra esercita grande appeal, ma non ha nulla di credibile da offrire sul piano economico e sociale. Un terreno, questo, sul quale è del tutto scoperta (rarissimi i suoi elettori che credono abbia ricette efficaci), mentre con la crisi ritorna centrale la domanda di una "economia giusta".

Per quanto possa sembrare paradossale, il vero conflitto oggi in Europa non contrappone moderati a progressisti, bensì la sinistra all'estrema destra: perché la posta in gioco è la (ri)conquista del voto popolare. È per questo che dal Labour di Ed Miliband al Ps di Martine Aubry risuonano con nuova forza echi "sociali". È per questo che le parole di giustizia ed equità sociale tornano ad affacciarsi nella loro agenda politica. È per questo che anche in Italia il Pd dovrebbe riscoprire la sua vocazione popolare: per imboccare la strada di una economia ed una società "giuste".

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Titolo: Piero IGNAZI. I mille del Pd
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2010, 10:06:20 am
L'opinione

I mille del Pd

di Piero Ignazi

Il partito è percepito indefinito, incerto, paralizzato dai contrasti interni.

È necessaria una nuova rivoluzione interna che lasci spazio ai dirigenti locali e ai giovani scalpitanti

(19 novembre 2010)

Fini e i suoi occupano la scena mediatica e politica da mesi, Casini e Rutelli tessono intese con agende fitte di incontri, Vendola fa sognare la sinistra radical-chic, e non solo quella. Il Pd e il suo segretario, invece, scivolano lentamente nell'irrilevanza. Non una iniziativa, non un gesto, non una proposta. Eppure esiste ancora un popolo democratico pronto a mobilitarsi. Basti vedere la partecipazione alle primarie per il candidato sindaco di Milano che sconta appena un lieve calo rispetto al 2006, quando il centro-sinistra era sulla cresta dell'onda.

Anche se la maggioranza non ha votato per il candidato ufficiale del Pd ma ha preferito l'outsider Pisapia, la mobilitazione degli elettori al di là della cartolina precetto del partito dimostra quanto sia ampia la riserva di passione politica a sinistra. Il problema di Bersani sta nella capacità di suscitare e intercettare questa mobilitazione. Fin qui a raccogliere i frutti sono stati i concorrenti. Perché il Pd continua ad essere percepito indefinito, incerto, e attraversato da una continua lotta per bande. Qualunque cosa dica il segretario si leva immancabile il controcanto di qualcun altro, pronto a contestare, sminuire, protestare.

Persino di fronte a quello che dovrebbe essere il terreno privilegiato di qualsiasi partito di sinistra, la difesa degli interessi dei lavoratori, il partito rimane paralizzato dai contrasti interni e dalle diverse fedeltà sindacali delle sue correnti.

In questa situazione le chance di ripresa del partito sono scarse, come segnala anche la vittoria di Giuliano Pisapia. Eppure il Pd dispone di una classe politica, composta da migliaia tra amministratori locali e responsabili di partito in periferia, di esperienza e capacità quanto nessun altro partito. Mentre il PdL ha solo negli ex di An e in qualche riciclato della prima repubblica personale navigato, e la Lega affastella giovanotti ambiziosi e affamati di prebende le cui carenze emergono ogni giorno di più, il partito di Bersani gode di un serbatoio amplissimo di dirigenti sperimentati.

Questo vantaggio competitivo rispetto agli altri partiti non riesce però ad esprimere tutte le proprie potenzialità perché frenato da un gruppo dirigente, oltre che diviso, ripiegato su sé stesso. La sua autoreferenzialità si manifesta tutta nell'essere preda di conflitti che ormai oscillano tra il ridicolo e il patologico (stai con Veltroni o con D'Alema?), o che rimandano a questioni irrisolte - partito a vocazione maggioritaria o ulivista? partito di sinistra o di centrosinistra? partito socialdemocratico o democratico (e solo il cielo sa cosa significa "democratico" nella politica europea contemporanea).

Senza smontare questi cortocircuiti perversi, il flusso di innovazione, sia in termini di idee che di personale politico, rimane bloccato. Anche se Bersani ha avuto la buona intuizione di nominare in segreteria tutti quarantenni, nessuno di questi, salvo rarissime eccezioni, ha assunto una sua fisionomia riconoscibile.

Il meeting di Firenze dei "rottamatori", organizzato da Matteo Renzi e Pippo Civati, riflette e risponde a questo blocco interno. Potrà anche aver avuto qualche sbavatura narcisistica, ma la partecipazione "di massa" e il clima effervescente che si respirava alla stazione Leopolda hanno come paragoni solo l'assemblea fondativa del Pd.

Quello che è mancato a Firenze è un progetto politico che desse sostanza alla domanda di ricambio generazionale.

Quando la socialdemocrazia tedesca con il mitico congresso di Bad Godesberg e lo stesso PCI occhettiano di fine anni ottanta diedero vita a straordinarie trasformazioni politiche, lo fecero anche sulla spinta di profondi rinnovamenti generazionali. Il Pd sconta tuttora due peccati originari: essere nato senza chiarirsi fino in fondo sui "fondamentali", ed aver buttato alle ortiche, considerandolo un fallimento, il grande risultato del 2008, quando raggiunse la percentuale più alta mai toccata dalla sinistra in questo paese.
Per superare questi due handicap non basta l'onesta e generosa dedizione di una persona per bene come Bersani: è necessaria una nuova, ulteriore rivoluzione interna che lasci spazio ai "mille" dirigenti locali in attesa e ai giovani scalpitanti "leopoldini".
Il Pd , per sua fortuna, dispone di risorse umane in abbondanza. Il futuro del partito è legato alla loro capacità di "prendere il potere".

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Titolo: Piero IGNAZI. - Chi ha in mano il futuro del Pd
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2010, 05:22:16 pm
Chi ha in mano il futuro del Pd

di Piero Ignazi

Il partito è percepito indefinito, incerto, paralizzato dai contrasti interni.

È necessaria una nuova rivoluzione interna che lasci spazio ai dirigenti locali e ai giovani scalpitanti

(19 novembre 2010)

Fini e i suoi occupano la scena mediatica e politica da mesi, Casini e Rutelli tessono intese con agende fitte di incontri, Vendola fa sognare la sinistra radical-chic, e non solo quella. Il Pd e il suo segretario, invece, scivolano lentamente nell'irrilevanza. Non una iniziativa, non un gesto, non una proposta. Eppure esiste ancora un popolo democratico pronto a mobilitarsi. Basti vedere la partecipazione alle primarie per il candidato sindaco di Milano che sconta appena un lieve calo rispetto al 2006, quando il centro-sinistra era sulla cresta dell'onda.

Anche se la maggioranza non ha votato per il candidato ufficiale del Pd ma ha preferito l'outsider Pisapia, la mobilitazione degli elettori al di là della cartolina precetto del partito dimostra quanto sia ampia la riserva di passione politica a sinistra. Il problema di Bersani sta nella capacità di suscitare e intercettare questa mobilitazione. Fin qui a raccogliere i frutti sono stati i concorrenti. Perché il Pd continua ad essere percepito indefinito, incerto, e attraversato da una continua lotta per bande. Qualunque cosa dica il segretario si leva immancabile il controcanto di qualcun altro, pronto a contestare, sminuire, protestare.

Persino di fronte a quello che dovrebbe essere il terreno privilegiato di qualsiasi partito di sinistra, la difesa degli interessi dei lavoratori, il partito rimane paralizzato dai contrasti interni e dalle diverse fedeltà sindacali delle sue correnti.

In questa situazione le chance di ripresa del partito sono scarse, come segnala anche la vittoria di Giuliano Pisapia. Eppure il Pd dispone di una classe politica, composta da migliaia tra amministratori locali e responsabili di partito in periferia, di esperienza e capacità quanto nessun altro partito. Mentre il PdL ha solo negli ex di An e in qualche riciclato della prima repubblica personale navigato, e la Lega affastella giovanotti ambiziosi e affamati di prebende le cui carenze emergono ogni giorno di più, il partito di Bersani gode di un serbatoio amplissimo di dirigenti sperimentati.

Questo vantaggio competitivo rispetto agli altri partiti non riesce però ad esprimere tutte le proprie potenzialità perché frenato da un gruppo dirigente, oltre che diviso, ripiegato su sé stesso. La sua autoreferenzialità si manifesta tutta nell'essere preda di conflitti che ormai oscillano tra il ridicolo e il patologico (stai con Veltroni o con D'Alema?), o che rimandano a questioni irrisolte - partito a vocazione maggioritaria o ulivista? partito di sinistra o di centrosinistra? partito socialdemocratico o democratico (e solo il cielo sa cosa significa "democratico" nella politica europea contemporanea).

Senza smontare questi cortocircuiti perversi, il flusso di innovazione, sia in termini di idee che di personale politico, rimane bloccato. Anche se Bersani ha avuto la buona intuizione di nominare in segreteria tutti quarantenni, nessuno di questi, salvo rarissime eccezioni, ha assunto una sua fisionomia riconoscibile.

Il meeting di Firenze dei "rottamatori", organizzato da Matteo Renzi e Pippo Civati, riflette e risponde a questo blocco interno. Potrà anche aver avuto qualche sbavatura narcisistica, ma la partecipazione "di massa" e il clima effervescente che si respirava alla stazione Leopolda hanno come paragoni solo l'assemblea fondativa del Pd.
Quello che è mancato a Firenze è un progetto politico che desse sostanza alla domanda di ricambio generazionale.

Quando la socialdemocrazia tedesca con il mitico congresso di Bad Godesberg e lo stesso PCI occhettiano di fine anni ottanta diedero vita a straordinarie trasformazioni politiche, lo fecero anche sulla spinta di profondi rinnovamenti generazionali. Il Pd sconta tuttora due peccati originari: essere nato senza chiarirsi fino in fondo sui "fondamentali", ed aver buttato alle ortiche, considerandolo un fallimento, il grande risultato del 2008, quando raggiunse la percentuale più alta mai toccata dalla sinistra in questo paese.

Per superare questi due handicap non basta l'onesta e generosa dedizione di una persona per bene come Bersani: è necessaria una nuova, ulteriore rivoluzione interna che lasci spazio ai "mille" dirigenti locali in attesa e ai giovani scalpitanti "leopoldini".

Il Pd , per sua fortuna, dispone di risorse umane in abbondanza. Il futuro del partito è legato alla loro capacità di "prendere il potere".

   
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Titolo: Piero IGNAZI. Italia isolata e irrilevante
Inserito da: Admin - Dicembre 10, 2010, 10:24:38 am
Italia isolata e irrilevante

di Piero Ignazi

I rapporti di Berlusconi con Putin e dittatori vari ci hanno allontanato dagli Usa e dall'Europa

(10 dicembre 2010)

La marea di documenti lanciati in rete da WikiLeaks ha sfondato porte aperte. Contrariamente alle notizie sulle operazioni "sporche" in Iraq o in Afghanistan, messe in circolazione da WikiLeaks nei mesi scorsi e che svelavano fatti ignoti o occultati, i dispacci della diplomazia americana hanno semplicemente confermato quello che i media tradizionali avevano già raccontato su simpatie, idiosincrasie e diffidenze dei diplomatici Usa. Per quanto riguarda il nostro Paese i resoconti sulla "affidabilità" del premier Silvio Berlusconi sono crudi e taglienti. Niente di nuovo, ovviamente, per chi abbia un minimo di senso critico sull'operato del governo e del suo capo. Ma c'è da dubitare che queste informazioni sfondino il muro di omertà costruito dalle televisioni nazionali attorno al presidente del Consiglio al quale hanno dedicato, e continuano a dedicare, servizi trionfalistici sulle sue attività internazionali. Basti ricordare il capolavoro di disinformatzia operato dal Tg1 di Clemente Mimun quando, nel servizio dedicato all'intervento di Berlusconi all'Onu nel 2005, al posto della platea vuota e distratta vennero inseriti filmati di applausi scroscianti di un'altra seduta. Per una cosa del genere, in un paese civile, sarebbero cadute delle teste. Ma in Italia non era la prima volta che si faceva un "servizio" a un potente. Solo che nei confronti di Berlusconi la disinformatzia è diventata una costante.

Lo stesso canovaccio si è infatti ripetuto in occasione del discorso di Berlusconi al congresso americano del 2006, osannato come un grande successo internazionale quando invece, come messo a nudo dai documenti di WikiLeaks, fu una sceneggiata da regime con stagisti e uscieri a riempire gli scranni vuoti.

Al di là di queste miserie rimane il problema di fondo: qual è la politica estera italiana? È allineata agli standard, agli obiettivi e ai presupposti dei partner europei e degli alleati atlantici? O ancora una volta vuole le "mani nette", vuole giocare in solitaria? Il ministro degli Esteri Franco Frattini, messo alle strette sui rapporti Italia-Russia criticati dagli Usa, ha avuto uno scatto, inconsueto per la sua esperienza, quando ha scandito che "nessuno può dettare all'Italia la sua politica energetica". Una espressione che ha fatto aleggiare il fantasma di Enrico Mattei. Ma delle due l'una: o questa reazione riflette un nervo scoperto - che duole allo stesso Frattini - o più semplicemente ci sono interessi diversi tra l'Italia e i suoi alleati al di qua e al di là dall'Atlantico.
Entrambe le ipotesi sono inquietanti. La prima rinforza i sospetti che i rapporti così amichevoli tra Berlusconi e la dirigenza russa e la frequenza insolita di incontri - superiore a quella con qualsiasi altro alleato occidentale - sconfinino anche in ambiti privati. Ma ammettendo per carità di patria che così non sia, anche la seconda ipotesi non lascia tranquilli. Tutt'altro. Perché significa che l'Italia non si cura più delle compatibilità delle sue azioni rispetto alle linee guida europee e americane.
In effetti sono talmente ridotti i rapporti con i tradizionali partner dell'Ue che non stupisce l'isolamento, e l'irrilevanza, in cui ci troviamo. Il "rango" del nostro Paese sta scendendo a precipizio anche e soprattutto per la valutazione che i governi dei paesi democratici danno del presidente del Consiglio. Dopo la fase della curiosità e dell'amusement - il solito "ma come sono buffi questi italiani..." - il ritorno di Berlusconi nel 2008 è stato accolto con molta più freddezza. Le gaffe a ripetizione - inarrivabile quella con la cancelliera Angela Merkel fatta aspettare per una telefonata e, soprattutto, le scelte "irrituali" quali la visita all'ultimo dittatore europeo, il bielorusso Aleksander Lukashenko, fino ad allora tenuto ai margini dalla comunità internazionale, l'ospitalità servile a Gheddafi, oltre al sostegno incondizionato alla Russia, hanno portato a una progressiva emarginazione del nostro Paese. Rompere l'isolamento di un dittatore senza fare mai cenno ai diritti umani violati, o dimostrare grande familiarità con i leader di un paese "problematico" come la Russia (il video trasmesso da Euronews che mostra la rimpatriata a tre di Putin, Medvedev e Berlusconi in qualche dacia evidenzia una familiarità inimmaginabile con Obama o Cameron o altri leader occidentali) rende anche l'Italia un Paese problematico per gli alleati.

Non illudiamoci che la presenza dei militari italiani in Afghanistan basti a tranquillizzare Washington e le altre capitali.
Quando ci si muove in solitaria e non si ha una grande reputazione alle spalle l'esito è isolamento e irrilevanza.

   
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Titolo: Piero IGNAZI. Gelmini, riforma sciagurata
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2011, 03:20:22 pm
Gelmini, riforma sciagurata

di Piero Ignazi

Inutile girarci tanto intorno: la nuova legge sull'università è orrenda.

Per la precisione: accentratrice, impoverente, demagogica, punitiva e sostanzialmente contro il futuro degli studenti. Ecco perché

(30 dicembre 2010)

Accentratrice, pauperizzante, superflua, demagogica, punitiva, antistudentesca. Si può continuare a lungo ad elencare i difetti della legge sull'Università promossa e difesa a spada tratta dal governo Berlusconi. Una riformetta, in realtà, che cambierà poco nella vita universitaria: ma per quel poco contribuirà molto all'affossamento dell'istruzione superiore.

Punto primo: la legge Gelmini toglie autonomia alle università in quanto prevede controlli ministeriali più fitti e pervasivi, annulla la flessibilità nelle decisioni, riduce gli organi accademici a passacarte, riordina corsi e facoltà sulla base non delle esigenze dei singoli atenei ma di un modello statale unico. Infine fa entrare i privati nei consigli di amministrazioni, senza specificare né i criteri di accesso né le finalità. Almeno portassero soldi...

Punto secondo: smantella il sistema pubblico a favore delle università private. Non è uno slogan da corteo, è una tristissima realtà. Dopo l'ondata di riconoscimenti di università di ogni tipo dalla nefasta gestione Moratti, ora ci risiamo con "università" fatte in cortile equiparate alle più prestigiose istituzioni di questo Paese. E, orrore tra gli orrori, anche il mitico Cepu, quello che favoriva gli studenti ritardatari o in altre faccende affaccendati, quello il cui presidente ha dichiarato di mettere la propria struttura al servizio della campagna elettorale di Berlusconi, quello per i cui legami familiari la deputata finiana Catia Polidori ha salvato il governo; anche quello verrà riconosciuto. Il messaggio è chiaro: si può avere un titolo universitario anche frequentando atenei senza docenti e senza alcuna idea di cosa siano cultura e ricerca.

Punto terzo: la grande favola della meritocrazia. Già dalla modalità con la quale vengono immessi ope legis istituti indegni della qualifica di università si capisce quanto poco importi della meritocrazia a questo governo - che ha dimostrato ad abundantiam di apprezzare soprattutto qualità non specificamente intellettuali.

L'introduzione di un organo indipendente di valutazione degli atenei è fumo negli occhi. Era stato istituito in precedenza e poi è rimasto lettera morta. Del resto, da tempo molte università distribuiscono questionari agli studenti per avere i loro giudizi. E i curriculum dei docenti sono in Rete e accessibili a tutti. Tuttavia, al di là della dissonanza tra parole e fatti, è assai apprezzabile che il merito venga assunto quale criterio fondante della vita accademica.

Purtroppo tale criterio è invocato solo in questo campo, senza diventare il principio ispiratore di tutta la società. Se tutto il resto del Paese si muove con logiche diverse da quelle meritocratiche, privilegiando "le conoscenze" rispetto alla conoscenza, è molto, molto difficile che la meritocrazia prevalga senza macchia solo nelle università.

Ammesso tutto questo, il corpo accademico deve però fare mea culpa sul suo indulgere a logiche clientelari e baronali. Chi ha partecipato ai concorsi sa quanto è difficile scalfire questo sistema consortile. Quindi, l'ennesima riforma delle procedure di reclutamento avrà successo solo se cambieranno mentalità e prassi (anche) dei docenti. Almeno su questo, assolviamo la Gelmini.
Infine, l'elemento più importante: i finanziamenti. I governi di centrodestra hanno scientemente perseguito l'obiettivo di far morire d'inedia il sistema dell'istruzione pubblica favorendo quello privato (con il bel risultato che le nostre scuole private, uniche nei paesi Ocse, sfornano studenti meno preparati di quelle pubbliche).

Negli ultimi anni i finanziamenti all'università si sono costantemente assottigliati e altri tagli si abbatteranno ancora con il risultato di ridurre attrezzature e biblioteche, borse di studio e finanziamenti alla ricerca, partecipazione ai convegni internazionali e reclutamento di giovani leve. Senza fondi la ricerca non progredisce e l'eccellenza si allontana. E in particolare, come è ormai norma nella nostra società, viene penalizzato il reclutamento dei giovani, visto che su cinque pensionati si potrà reclutare un solo nuovo docente: esattamente il contrario di quanto sarebbe necessario.
Il futuro che questa sciagurata riforma prospetta è nerissimo e si riassume in decadecanza e impoverimento, accentramento e dequalificazione.

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http://espresso.repubblica.it/dettaglio/gelmini-riforma-sciagurata/2141482/18


Titolo: L'allarme del politologo Piero Ignazi
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2011, 06:45:28 pm
"Attenti, il peggio viene ora"

di Fabio Chiusi


«Berlusconi non si dimetterà mai. Piuttosto tenterà qualche forzatura, anche oltre la legalità. Siamo seduti su una pentola a pressione».

L'allarme del politologo Piero Ignazi

(19 gennaio 2011)

Da un lato i danni all'immagine internazionale, con il 'Financial Times' che parla in un editoriale delle accuse di concussione e prostituzione minorile a Silvio Berlusconi per il caso Ruby come di una «profonda vergogna per l'Italia». Dall'altro un Paese logorato, immobile, con i quotidiani ridotti a titolare in prima pagina «Silvio ha una fidanzata» e i berluscones che gridano un giorno sì e l'altro anche all'«attacco alla democrazia». Come se ne esce? 'L'Espresso' lo ha chiesto al politologo Piero Ignazi, docente di Politica comparata presso l'università di Bologna.

Lo scandalo Ruby. Le accuse per le stragi del '93. I processi sospesi a suon di lodi e leggi ad personam, ma ancora per poco. Berlusconi è all'angolo, ma non sembra voler mollare. Come se ne esce?
«È una situazione che può continuare all'infinito. C'è solo una cosa certa: che il presidente del Consiglio non molla mai e non ha nel suo Dna l'idea dell'uscita elegante, delle dimissioni o di accettare di farsi carico delle proprie responsabilità. Non uscirà da una porta di servizio con tranquillità, ecco».

Almeno si presenterà in Tribunale per difendersi?
«Non credo proprio. Sarebbe una novità curiosa».

Certo è che le accuse sono molto diverse, rispetto al passato.
«Sì, non si parla più di reati economico-finanziari ma di accuse a cui l'opinione pubblica è molto più sensibile».

E non sarebbe dunque nel suo interesse chiarire? «Il suo interesse faccio fatica a concettualizzarlo. Credo però che Berlusconi sarà ancora alla barra del timone, perché non è eterodiretto: è lui che guida tutti gli altri».

Niente successori?
«Non penso proprio».

Ma non è logorato o stanco, come si dice nelle intercettazioni della procura di Milano?
«Io tanto stanco e logorato in occasione di tutto il lavorio prima del 14 dicembre non l'ho visto. E' stato in grado di guidare le proprie schiere per ottenere ciò che ha ottenuto, cioè la fiducia».

E anche un gruppo di responsabilità. Un fattore di stabilità, almeno nel breve termine?
«No, non particolarmente. Perché ci sono i problemi giudiziari che incombono. Quindi non è detto che arrivando i "responsabili" non escano altri parlamentari, in direzione opposta. C'è ancora molta fluidità nell'ambito del Pdl e dei centristi».

E quindi che cosa ci attende?
«Siamo soltanto all'inizio di una situazione di scontro istituzionale che probabilmente riguarderà non solo la magistratura ma anche la presidenza della repubblica. Perché la natura del berlusconismo è questa: e cioè di considerare illegittima qualsiasi posizione indebolisca il potere dell'attuale presidente del Consiglio».

Un futuro a tinte fosche.
«Non penso la situazione possa migliorare: può solo peggiorare».

Come?
«Nell'ottica del salvare il salvabile a tutti i costi, da parte di Berlusconi e dei suoi c'è una possibile idea di qualche iniziativa al limite della legalità».

Per esempio?
«Non lo so, ma non esiste una cultura della legalità in quel mondo. Ammantandosi dell'idea di essere stati investiti con potere divino da quella minoranza di elettori che li ha votati, i berlusconiani si considerano sciolti da ogni altro legame di carattere istituzionale, da ogni equilibrio di potere. Questo può condurre a qualche forzatura extralegale».

Questo non rischia di esasperare un clima già teso, come dimostrato per esempio dalle proteste studentesche del mese scorso?
«Siamo certamente seduti su una pentola a pressione. Ma che questo possa scatenarsi contro il presidente del Consiglio lo trovo molto improbabile, per via delle capacità di condizionamento psicologico che ha sempre esercitato nei confronti dell'opinione pubblica, anche di manipolazione. Insomma, dubito che ci possa essere un assalto a palazzo Grazioli».

Sarebbe controproducente per il Paese porre fine alla vita politica di Berlusconi per via giudiziaria?
«No. La cultura politica italiana ha subito una forte involuzione, a mio avviso, su alcuni punti forti dei principi democratici. Come la divisione del potere o, su piani più specificatamente culturali, il rapporto uomo-donna. La mobilitazione del mondo femminile è stata decisamente timida a fronte di quanto è venuto fuori a partire dal caso Noemi in poi».

 
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Titolo: Piero IGNAZI. L'utopia di un patto sociale
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2011, 05:34:53 pm
L'utopia di un patto sociale

di Piero Ignazi

Non c'è personalità che possa assurgere a unificatore di un Paese così frazionato

(21 gennaio 2011)

Il voto di Mirafiori porta in superficie un sottofondo di frustrazione e di rabbia di dimensioni impreviste. Il prendere o lasciare imposto dalla Fiat ha rimandato a tempi antichi, quasi pre-industriali, tempi dei racconti dolenti di Ignazio Silone e Corrado Alvaro dove i cafoni andavano col cappello in mano a genuflettersi per un tozzo di pane. Ora Marchionne, Marcegaglia, Sacconi e newco cantante fanno festa, ma l'esito del referendum crea le condizioni per una conflittualità esasperata. Il sistema delle relazioni industriali è andato in pezzi e i tanti marchionnini d'Italia si sentiranno liberi di imporre condizioni sempre più iugulatorie visto che l'esercito di riserva si ingrossa a vista d'occhio. Solo che nessuno ha il carisma e l'aura "global" dell'ad di Fiat, né ci saranno sempre sindacalisti esperti e con la testa sulle spalle a tenere a bada i più arrabbiati.

Rischia di aprirsi una stagione di conflitti aspri in cui comunque gli operai perderanno perché i rapporti di forza sono oggi terribilmente sbilanciati e, non dimentichiamolo, c'è un governo di destra al potere. (Basta vedere il bel film sulla lotta per la parità salariale delle operaie della Ford nell'Inghilterra degli anni Sessanta - "We Want Sex"- per capire la differenza tra un governo pro-labour e un ministro del lavoro coi fiocchi come Barbara Castle, e un governo con ministri come un Sacconi e un Romani). La sconfitta dei lavoratori potrà soddisfare la pancia reazionaria di un padronato da ferriere ma inquieta tutti quelli che, anche nella classe imprenditoriale, hanno a cuore una "società giusta", come l'aveva delineata Edmondo Berselli. Anche perché l'umiliazione di un gruppo sociale produce danni di lungo periodo.

Non vedremo rivolte di piazza come a Tunisi, tuttavia la disperazione di una crisi economica che falcia i redditi e che fin qui è tamponata solo dai patrimoni accumulati dalle generazioni più anziane, porta a gesti estremi. Gesti persino autolesionisti, come il suicido di tanti piccoli imprenditori del Nord, incapaci di tirare avanti e sopraffatti dalla vergogna del fallimento. L'Italia è un paese diviso, attraversato da una quantità innumerevole di conflitti di cui quello di Torino non è che un esempio, per quanto macroscopico. Ricondurre ad unità tutto questo, iniettare mastice sociale ad un tessuto già così frammentato e a rischio di ulteriori lacerazioni, è compito da grandi leader di riconosciuta autorità morale. L'unica personalità che risponde a queste caratteristiche è il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ma il suo è un ruolo simbolico che, per quanto importante, rimane giustamente confinato in questo ambito.
Nessun altro, e men che meno il presidente del consiglio Silvio Berlusconi, può assurgere a "unificatore" di un Paese così frazionato. Lo stile da campagna elettorale permanente, l'aggressività e la faziosità quasi surreale con cui la maggioranza si rivolge all'opposizione minano ogni possibilità di intesa sopra le parti, o almeno di un coinvolgimento a un tavolo di riflessione. Invece non c'è provvedimento governativo che venga apertamente e dialogicamente contrattato con l'opposizione: prevale sempre e comunque la logica della delegittimazione e dello scontro.

L'impostazione berlusconiana è quella del conflitto permanente, e quella di Bossi prevede addirittura l'apartheid, prima i "padani" poi tutti gli altri secondo un ordine di gerarchia razziale. I toni bassi e cauti dei leghisti in questi mesi non riflettono un cambiamento della loro cultura politica; è mera tattica per portare a casa il federalismo e poi passare alla secessione.
Il bel risultato della crisi economica e del disprezzo-delegittimazione dell'unità nazionale è di trovarci a breve con tensioni sociali crescenti unite a tensioni territoriali. E tutto ciò in assenza di una autorità politica e morale che possa ricomporre i tasselli di questo quadro. Del resto persino il demiurgo più abile necessita di un consenso di fondo e corale sui principi "repubblicani". I veri responsabili, oggi, non sono quelli che affluiscono alla corte di Re Silvio per puntellarne le sorti, bensì coloro che trovano il coraggio di scuotersi dall'incantesimo berlusconiano e si propongono per un nuovo patto sociale: un patto che celebri in maniera degna i nostri 150 anni, nel segno della coesione nazionale di tutte le sue componenti, sociali, economiche e territoriali. Ma il vento sembra soffiare in direzione opposta.


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Titolo: Piero IGNAZI. Se scocca la scintilla
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2011, 03:41:13 pm
Se scocca la scintilla

dI Piero Ignazi

Solidità patrimoniale, individualismo e un'opposizione debole frenano la protesta

(11 febbraio 2011)

Come riporta l'Istat, il reddito delle famiglie italiane è calato dell'1,1 per cento nel 2008 e del 2,6 nel 2009. Nel 2009 il potere d'acquisto per abitante, e ancor più il potere d'acquisto per occupato, sono inferiori rispetto al 2000. Il risparmio delle famiglie si avvicina ormai a zero e quello nazionale, per la prima volta dal 1945, è diventato negativo. E nel 2010 andrà peggio. Questi pochi dati, oltre a quelli ben noti del calo del Pil e dell'aumento del debito pubblico e della disoccupazione, formano un quadro di grande difficoltà economica e sociale. Eppure non si registrano scoppi di protesta. I sentimenti prevalenti che le ricerche in corso registrano rimandano piuttosto a malumore, disincanto, frustrazione. Manca la rabbia. Per tre ragioni di fondo. La prima riguarda le condizioni di vita "reali" della maggioranza dei cittadini, condizioni che rimangono soddisfacenti grazie al patrimonio accumulato dalle precedenti generazioni. L'elevato tasso di risparmio nei decenni del dopoguerra ha assicurato alle famiglie italiane una proprietà diffusa della casa e un ampio stock di risparmio.


Anche se i livelli di reddito sono bassi le attuali generazioni sono protette, psicologicamente e materialmente, dal gruzzolo racimolato negli anni dalle loro famiglie di origine. Tuttavia non tutti hanno accesso al patrimonio familiare. Oltre a chi cerca di costruirlo ora, con difficoltà ben superiori rispetto al passato, vi è una fascia di cittadini che si trova ai margini o sotto la soglia di povertà relativa. Per costoro non c'è molta speranza di miglioramento in un Paese a crescita zero, o quasi. Ma nemmeno tra queste fasce impoverite o già indigenti serpeggia la protesta. E qui arriva la seconda ragione di fondo: l'assuefazione al modello culturale dominante per cui nessun altro al di fuori di se stesso è responsabile delle proprie (modeste) condizioni. L'ideologia neoconservatrice ha messo al centro del suo discorso la capacità di iniziativa individuale come unico parametro di valutazione della propria riuscita, quasi non ci fossero condizioni di partenza e risorse, rendite di posizione e privilegi acquisiti, abissalmente diseguali. Questa argomentazione punta a svuotare la dimensione collettiva: l'individuo rimane solo a contemplare la propria sconfitta.


La "reductio ad unum" delle dinamiche sociali - "la società non esiste" ripeteva Margaret Thatcher - si rivela funzionale all'adeguamento passivo al mainstream dominante: alla fine non si sa più con chi prendersela, se non con se stessi. E il cerchio del dominio - o dell'egemonia sottoculturale - è chiuso.
Infine, e questa è la terza ragione di fondo, mancano attori collettivi che esprimano e rappresentino il disagio sociale. Solo la Fiom si è proposta come collettore dell'opposizione vocale allo statu quo. Persino la Cgil stenta a presentarsi come megafono degli sconfortati. Anch'essa, come il Pd, è preda del "complesso della responsabilità": evitare toni accesi e proposte azzardate, mantenere compostezza e diffondere ragionevolezza (mentre il governo e la maggioranza si comportano in ogni occasione come una banda di descamisados). Del resto, ha ragione Pier Luigi Bersani quando dice di essere alla guida di un partito di governo temporaneamente all'opposizione: gli uomini, le idee, lo stile sono quelli del "partito naturale di governo" - come un tempo si definivano i conservatori britannici rispetto a quei parvenu dei laburisti. Però questo atteggiamento di grande responsabilità non paga. Né la classe dirigente concede attestati di stima, né gli elettori il voto. Mentre dall'altra parte piovono pietre.


La combinazione di questi tre fattori di fondo - diffusa solidità patrimoniale, individualizzazione della società e parcellizzazione delle dinamiche sociali, assenza-debolezza dei recettori organizzati - lascia l'opinione pubblica distratta e sfiduciata rispetto alla crisi in atto. Ed esprime più un senso di fastidio che una disponibilità alla mobilitazione. Eppure, il disagio c'è, anche se trattenuto e non incanalato. La quasi vittoria della Fiom a Mirafiori nonostante la gigantesca pressione esercitata sta lì a dimostralo. Non sappiamo se e quando questo disagio si trasformerà in protesta. Come tutti sono stati colti di sorpresa dalla rivoluzione democratica nei Paesi arabi, anche da noi potrebbe scoccare improvvisa e imprevedibile quella scintilla che brucia il cloroformio mediatico e, con la forza del movimento collettivo, impone una nuova agenda al potere politico.


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Titolo: Piero IGNAZI. Fli non ha colto il «momentum»
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2011, 12:00:25 pm
Fli non ha colto il «momentum»

di Piero Ignazi

Questo articolo è stato pubblicato il 15 febbraio 2011 alle ore 09:06.

   
In politica ci sono passaggi da cogliere senza esitazione, grazie al particolare clima che si è creato: gli anglosassoni lo chiamano "momentum", i nostri letterati carpe diem o attimo fuggente. Futuro e Libertà ha perso il "momentum". La fronda al Pdl di ispirazione finiana era cresciuta con il vento in poppa per tutto l'autunno scorso nonostante la risibile storiella monegasca. I luoghi di produzione intellettual-politica di quella componente, da Farefuturo alle pagine culturali del Secolo d'Italia, avevano grande eco sui media, e personaggi flamboyant come Italo Bocchino conquistavano un posto d'onore nei mille talk-show dell'etere italico. Tutto questo si è infranto contro il voto di fiducia del 14 dicembre. È stato pagato caro il colossale errore di valutazione del presidente della Camera che ha acconsentito a rimandare di oltre un mese la mozione di sfiducia al governo. Perso il "momentum" della spinta innovativa e dissacrante, e della contemporanea apnea del presidente del Consiglio, le grandi risorse - economiche, seduttive, politiche - a disposizione di quest'ultimo hanno consentito a Berlusconi il recupero in extremis.

Il congresso di fondazione di Futuro e Libertà si è svolto quindi, inevitabilmente, in tono minore. Non a caso i maggiori quotidiani nazionali non hanno offerto all'evento nemmeno un richiamo in prima pagina. Eppure, anche se il nuovo partito non può fungere, nell'immediato, da magnete per i delusi del Pdl, non gli mancano chance nel medio periodo. Ma deve percorrere la classica traversata del deserto. E soprattutto evitare le insidie di questa fase di riflusso. La prima è quella di farsi trascinare da un antiberlusconismo furioso, comprensibile all'indomani della sconfitta politica di dicembre ma poco produttivo per il prosieguo del partito. Un conto era una critica dura al presidente del Consiglio fatta "in prima persona" dall'interno del centro-destra, un conto aderire al coro antiberlusconiano condotto da altri. Se Futuro e Libertà seguisse questa seconda strada perderebbe la sua ragion d'essere, e cioè quella di rappresentare una alternativa "interna" al centro-destra: con stile, tematiche e prospettive del tutto diverse da quelle imposte dall'asse Berlusconi-Bossi, ma pur sempre d'impronta moderata, di destra. La seconda insidia è rappresentata dal terzo polo. L'accordo con Casini subito dopo il voto del 14 dicembre era comprensibile per reggere l'urto della sconfitta, ma appare una via corta, poco redditizia politicamente. Pierferdinando Casini ha altri obiettivi, in sintonia con la (sua) storia proporzionalista dove valevano le rendite di posizione e le collocazioni strategiche, più che le progettualità chiare e definite. Qui Fli rischia di essere risucchiata in una visione "centrista" mentre dovrebbe riaffermare la sua appartenenza ad uno schieramento - il centro-destra - all'interno del quale condurre una opposizione di merito e di contenuti oltre che di linguaggio e di modi.

Il progetto di europeizzare - e moderare - la destra italiana è ora tutto in salita. Non solo per la difficoltà causata da una polarizzazione ideologica estrema. Ma anche per una indeterminatezza del profilo ideologico-culturale. Mentre la relazione d'apertura di Adolfo Urso ha fatto risuonare temi consonanti con l'elettorato moderato quali il senso dello stato, l'unità nazionale, la difesa delle istituzioni e del loro decoro, il senso della misura, il rispetto per gli avversari, la prospettata emarginazione dello stesso Urso lascia perplessi sulla volontà del partito di seguire questa strada. Eppure questi temi, desueti rispetto allo scontro in atto tra governo e opposizione, indicano una possibile via d'uscita dalla glaciazione politica in cui parte dell'elettorato di centro-destra è ristretto.

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Titolo: Piero IGNAZI. Troppi leader nessun leader
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2011, 05:55:01 pm
Troppi leader nessun leader

di Piero Ignazi

Roberto Saviano sarebbe il personaggio giusto. Come Lo Bello o don Ciotti.

Invece l'elettorato che si sta mobilitando non si riconosce nei dirigenti del centro sinistra logorati dalla lunga militanza ai vertici dei partiti

(25 febbraio 2011)

Ma sul bacio politico Berlusconi ha fatto scuola durevole, mostrando come si dimostrino mediaticamente utili le affettuosità sia con gli amici premier, da Putin a Bush, sia con i sodali italiani. Lo batte in quantità soltanto Salvatore Cuffaro, presidente della regione Sicilia, non a caso detto vasa vasa. Cuffaro bacia tutti, centinaia di baci a centinaia di estranei, ogni giorno, da una vita. E lo teorizza pure. Nel libro 'Il coraggio della politica' scrive: "Il bacio è simbolo di una capacità di umanizzare la politica che non si lascia assorbire da nessun formalismo e dalla differenza dei suoli sociali". Un'arma elettorale insomma, ma anche un modo sicuro per neutralizzare l'infortunio, se tra migliaia di baci ce ne scappasse uno sospetto (Andreotti docet).

Altro caposcuola e responsabile del bacio a tutti i costi è Roberto Benigni, Una giornata importante quella del "se non ora quando", il 13 febbraio. Tante persone in tante piazze d'Italia a sfilare per la dignità delle donne e contro la miseria politico-morale del Presidente del Consiglio. Ancora una volta emerge un'ampia fascia di elettorato disponibile a mobilitarsi per buone cause e obiettivi precisi. Ma questa energia non riesce a trasformarsi in consenso politico per l'opposizione. I partiti di centrosinistra non sanno (cor)rispondere a una società liberal che non sopporta più la volgarità di questo governo e dei suoi componenti. In primo luogo mancano dei leader in sintonia con queste sensibilità.
Se volesse buttarsi in politica Roberto Saviano sarebbe il "suitable Boy", il personaggio giusto: un giovane che riflette voglia di pulizia, senso del bene comune, spirito legalitario, con la credibilità di chi ha la vita segnata dal proprio impegno civile. E con lui tanti altri, meno noti al grande pubblico, da Ivanhoe Lo Bello, il presidente della Confindustria siciliana che ha messo al bando gli associati che si piegano al pizzo, all'inesauribile don Luigi Ciotti sempre in prima fila a difendere gli ultimi. I dirigenti del centrosinistra sono invece usurati dalla loro lunga militanza ai vertici dei rispettivi partiti.

Una militanza onorevole per tanti aspetti, ma che li ha inevitabilmente allontanati dalla società, complice la demonizzazione dell'organizzazione di partito ritenuta, sulla scia del berlusconismo montante, una zavorra démodé. Nemmeno il tanto celebrato Nichi Vendola ha le antenne posizionate sulla lunghezza d'onda delle pulsioni liberal del 13 febbraio con quel suo marchio d'Italia antica, da festa del santo patrono, e di trasgressione casereccia, da "ciceri e tria". Quel suo insieme di zolfo e olio santo, con tanto di bacio materno e assoluzione, riflette una cultura popolare profonda e radicata, ma lontana mille miglia da quella delle piazze del "se non ora quando". Anche i due leader più credibili (in questa fase) del centrosinistra, Rosy Bindi e Sergio Chiamparino, hanno piombo sulle ali. Rosy Bindi sconta una difficoltà a parlare a quell'Italia secolarizzata che rifiuta il berlusconismo anche in nome di una società liberale e aperta e non solo per ragioni etiche. Mentre il sindaco di Torino pecca per eccesso di pragmatismo tanto da dar l'impressione di rincorrere l'avversario sul suo terreno piuttosto che di contrastarlo con visioni alternative. E di giovani non ce n'è alle viste (e questo vale anche per il lucignolo dell'azione cattolica, Matteo Renzi).
Ma la carenza di leadership può essere superata dalla forza delle idee. Eppure persino di fronte alla crisi il centrosinistra balbetta. Ad esempio, che ne è del reddito minimo universale, di recente introdotto anche in Francia? Che ne è della difesa della scuola pubblica e delle risorse alla ricerca? Mentre persino in Portagallo non hanno decurtato le spese in questo settore, l'opposizione non sa come reagire alla pioggia di napalm scaricata dal duo Tremonti-Gelmini sul sistema scolastico pubblico di ogni ordine e grado. E del conflitto di interessi e del monopolio mediatico-pubblicitario del Cavaliere? Poiché dovrebbe esser ormai chiaro a tutti che passa di lì l'egemonia berlusconiana, sarebbe tempo che il Pd e gli altri partiti stilassero una proposta seria ed equilibrata da porre al centro dell'agenda politica. Ma, più in generale, il centrosinistra stenta a tracciare il profilo di una società "ideale e possibile".

La giustizia sociale è ancora la stella polare o un ferrovecchio travolto dalle sane forze del mercato? Il welfare è ancora l'asse portante di una democrazia matura oppure va lasciato spazio solo alla carità? La società plurale è un valore o è meglio rinchiudersi nei propri ridotti localistici? E infine, di fronte all'anti-italianità della Lega e alle timidezze del Pdl doveva aspettare il cavallo bianco di Roberto Benigni per farsi paladino della bandiera nazionale? Il cortocircuito tra un società inquieta e insoddisfatta ma anche disponibile a mobilitarsi, e partiti culturalmente astenici e succubi della vulgata neoconservatrice nonché privi di leadership all'altezza, rimane in tutta la sua drammaticità.

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Titolo: Piero IGNAZI. Pd, adesso fuori le idee
Inserito da: Admin - Marzo 05, 2011, 04:48:23 pm
Pd, adesso fuori le idee

di Piero Ignazi

Scuola pubblica. Reddito minimo. Risorse alla ricerca. Conflitto di interessi. Governo dei mercati. Unità nazionale. Ora che il berlusconismo sta finendo, serve una proposta politica seria per una società 'ideale e possibile'

(25 febbraio 2011)

Una giornata importante quella del "se non ora quando", il 13 febbraio. Tante persone in tante piazze d'Italia a sfilare per la dignità delle donne e contro la miseria politico-morale del Presidente del Consiglio. Ancora una volta emerge un'ampia fascia di elettorato disponibile a mobilitarsi per buone cause e obiettivi precisi. Ma questa energia non riesce a trasformarsi in consenso politico per l'opposizione. I partiti di centrosinistra non sanno (cor)rispondere a una società liberal che non sopporta più la volgarità di questo governo e dei suoi componenti.

In primo luogo mancano dei leader in sintonia con queste sensibilità. Se volesse buttarsi in politica Roberto Saviano sarebbe il "suitable Boy", il personaggio giusto: un giovane che riflette voglia di pulizia, senso del bene comune, spirito legalitario, con la credibilità di chi ha la vita segnata dal proprio impegno civile. E con lui tanti altri, meno noti al grande pubblico, da Ivanhoe Lo Bello, il presidente della Confindustria siciliana che ha messo al bando gli associati che si piegano al pizzo, all'inesauribile don Luigi Ciotti sempre in prima fila a difendere gli ultimi. I dirigenti del centrosinistra sono invece usurati dalla loro lunga militanza ai vertici dei rispettivi partiti.

Una militanza onorevole per tanti aspetti, ma che li ha inevitabilmente allontanati dalla società, complice la demonizzazione dell'organizzazione di partito ritenuta, sulla scia del berlusconismo montante, una zavorra démodé. Nemmeno il tanto celebrato Nichi Vendola ha le antenne posizionate sulla lunghezza d'onda delle pulsioni liberal del 13 febbraio con quel suo marchio d'Italia antica, da festa del santo patrono, e di trasgressione casereccia, da "ciceri e tria". Quel suo insieme di zolfo e olio santo, con tanto di bacio materno e assoluzione, riflette una cultura popolare profonda e radicata, ma lontana mille miglia da quella delle piazze del "se non ora quando". Anche i due leader più credibili (in questa fase) del centrosinistra, Rosy Bindi e Sergio Chiamparino, hanno piombo sulle ali. Rosy Bindi sconta una difficoltà a parlare a quell'Italia secolarizzata che rifiuta il berlusconismo anche in nome di una società liberale e aperta e non solo per ragioni etiche. Mentre il sindaco di Torino pecca per eccesso di pragmatismo tanto da dar l'impressione di rincorrere l'avversario sul suo terreno piuttosto che di contrastarlo con visioni alternative. E di giovani non ce n'è alle viste (e questo vale anche per il lucignolo dell'azione cattolica, Matteo Renzi).

Ma la carenza di leadership può essere superata dalla forza delle idee. Eppure persino di fronte alla crisi il centrosinistra balbetta. Ad esempio, che ne è del reddito minimo universale, di recente introdotto anche in Francia? Che ne è della difesa della scuola pubblica e delle risorse alla ricerca? Mentre persino in Portagallo non hanno decurtato le spese in questo settore, l'opposizione non sa come reagire alla pioggia di napalm scaricata dal duo Tremonti-Gelmini sul sistema scolastico pubblico di ogni ordine e grado. E del conflitto di interessi e del monopolio mediatico-pubblicitario del Cavaliere? Poiché dovrebbe esser ormai chiaro a tutti che passa di lì l'egemonia berlusconiana, sarebbe tempo che il Pd e gli altri partiti stilassero una proposta seria ed equilibrata da porre al centro dell'agenda politica. Ma, più in generale, il centrosinistra stenta a tracciare il profilo di una società "ideale e possibile".

La giustizia sociale è ancora la stella polare o un ferrovecchio travolto dalle sane forze del mercato? Il welfare è ancora l'asse portante di una democrazia matura oppure va lasciato spazio solo alla carità? La società plurale è un valore o è meglio rinchiudersi nei propri ridotti localistici? E infine, di fronte all'anti-italianità della Lega e alle timidezze del Pdl doveva aspettare il cavallo bianco di Roberto Benigni per farsi paladino della bandiera nazionale? Il cortocircuito tra un società inquieta e insoddisfatta ma anche disponibile a mobilitarsi, e partiti culturalmente astenici e succubi della vulgata neoconservatrice nonché privi di leadership all'altezza, rimane in tutta la sua drammaticità.

 
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Titolo: Piero IGNAZI. Che vergogna l'Italia voltafaccia
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2011, 05:17:19 pm
Che vergogna l'Italia voltafaccia

di Piero Ignazi

Una politica estera personalistica e velleitaria. Che ha portato il governo di Roma dai baciamano ai bombardamenti nel giro di pochi mesi.
Senza nemmeno uno straccio di autocritica da parte di Berlusconi

(18 marzo 2011)

La crisi libica ha messo in luce sia l'improvvisazione e il dilettantismo della politica estera del governo Berlusconi sia le sue divisioni. Nell'arco di pochi giorni, dopo aver usato al Colonnello Gheddafi la cortesia di "non disturbarlo" nei primi momenti della rivolta, il nostro governo ha abbandonato il ras di Tripoli in fretta e furia bollandolo con giudizi taglienti e ultimativi, fino a definirlo, per bocca del Ministro degli Esteri Franco Frattini, "un uomo finito".

La rapidità con cui è stato compiuto il voltafaccia si spiega con l'imbarazzo per l'eccessiva familiarità dimostrata negli ultimi anni con il regime libico. A onor del vero, tutti i paesi occidentali, una volta che la Libia era stata riammessa nel consesso internazionale, si sono precipitati a fare affari con Gheddafi. Ma solo noi abbiamo riservato accoglienze principesche alla Guida della Jamahiria. Solo noi abbiamo siglato onerosi patti di cooperazione con clausole riguardanti anche il settore militare. Solo noi abbiamo concordato un pattugliamento misto delle coste marittime instaurando di fatto una cooperazione militare. Solo noi abbiamo appaltato senza condizioni o controlli la gestione dei flussi migratori (e i reportage di Fabrizio Gatti su questo giornale hanno ben documentato il disastro umanitario causato dall'aver affidato ai libici il "lavoro sporco").

Questa politica accondiscendente nei confronti del Colonnello è stata ora sostituita da una politica di fermezza, in linea con i partner europei e occidentali. Ma il governo è diviso su questo passaggio ed è prevedibile che, con l'avanzata verso la Cirenaica delle forze lealiste, i contrasti all'interno della maggioranza aumenteranno. L'invito, a metà strada tra il ridicolo e l'offensivo, formulato dal ministro dell'Interno Roberto Maroni all'indirizzo degli Stati Uniti di "darsi una calmata" quando prospettavano l'uso della forza contro Tripoli, fa sorgere il sospetto che alla Lega, sotto sotto, la vittoria di Gheddafi non dispiaccia. Del resto, se per il Carroccio l'interesse nazionale coincide con il blocco dell'immigrazione a ogni costo, allora la sopravvivenza del dittatore libico supera ogni remora dettata da principi morali e azzera ogni vincolo con i partner europei e occidentali.

Il conflitto tra l'invocazione del primato dell'interesse nazionale (economico, militare, di sicurezza, di prestigio, di influenza e quant'altro) e il perseguimento di principi e valori etico-politici (la promozione della democrazia, il rispetto dei diritti umani) è una costante della politica estera. La crisi libica ha messo in tensione questi due principi.

Il governo Berlusconi, e non da questa legislatura, aveva sbandierato l'intenzione di perseguire una politica più assertiva e attenta agli interessi nazionali, accusando, tra l'altro, l'Unione europea di mortificare le nostre aspirazioni. Questa politica si è concretizzata nelle "amicizie" verso regimi autoritari e di dubbia democrazia, da Lukashenko a Gheddafi passando per Putin, e ha gettato alle ortiche considerazioni etico-politiche di rispetto dei diritti umani. Nelle ultime settimane il richiamo all'ordine impartito dagli alleati è stato recepito dal presidente del Consiglio e dal ministro degli Esteri. I principi di promozione della democrazia e di difesa delle popolazioni civili sono tornati in prima fila. Ma non è detto che la Lega, animata da una visione nazionalista e parrocchiale per cui "il sacro suolo della patria va difeso dalle orde straniere", si adegui.

La conseguenza ultima della crisi libica non sta solo nell'affondamento della politica personalista e velleitaria del Cavaliere ma anche nella perdita di coesione interna alla maggioranza, con il Carroccio pronto a stendere la mano al ritorno del Colonnello (nell'interesse nazionale ovviamente).

 
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Titolo: Piero IGNAZI. È Napolitano il baluardo dell'onorabilità italiana
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2011, 04:37:12 pm
È Napolitano il baluardo dell'onorabilità italiana

di Piero Ignazi

Non si può sperare che le decine e decine di articoli che i più prestigiosi giornali occidentali dedicano da alcuni anni alla politica italiana, e soprattutto al nostro Governo, non lascino traccia nelle classi dirigenti degli altri Paesi. L'immagine che viene veicolata in questi articoli è quella di una nazione "inadeguata": priva cioè di progettualità e convinzioni, di tensione etica e di autostima, di coesione e di serietà; ma, sopra ogni cosa, priva di un personale politico a livello della sfida. Le conseguenze di questa percezione internazionale sono essenzialmente due.
La prima è emersa nelle ultime settimane con l'isolamento e la malcelata insofferenza che l'Unione Europea e i singoli Paesi europei hanno riservato alle richieste del ministro degli Interni Roberto Maroni sulla questione immigrati. Ad aggravare la situazione ha contribuito il fatto che il ministro Maroni sia un leader del partito più "euroscettico" del sistema partitico italiano. E dire per anni le peggio cose sull'Unione Europea - fino a definirla un "sistema totalitario nazista" - o denunciare sistematicamente le "interferenze" della Ue nel nostro cortile di casa (fra l'altro facendo ostruzionismo al mandato d'arresto europeo) non garantisce una calorosa accoglienza a Bruxelles.

Era quindi illusorio e dilettantesco pensare di poter imporre ai partner europei una diversa gestione del problema immigrati da un giorno all'altro senza aver creato le condizioni necessarie - il coalition building per usare un'espressione gergale. Tutto ciò ignorando che la Ue discute da anni della questione e che l'Italia non è certo il primo Paese a subire improvvise ondate migratorie. Infatti le altre nazioni europee hanno avuto facile gioco a ricordare le decine di migliaia - e nel caso della Germania le centinaia di migliaia - d'immigrati accolti senza tanti strepiti (né va dimenticato che il 27 gennaio 2011 il Consiglio d'Europa aveva denunciato l'Italia per le sue «ripetute violazioni delle Convenzione europea dei diritti dell'uomo in merito ai richiedenti asilo»).

La seconda conseguenza della perdita di credibilità internazionale consiste nell'inedita attività di supplenza, rispetto alle deficienze governative, esercitata da altre istituzioni nazionali, a incominciare dalla Presidenza della Repubblica. Sempre più di frequente è il Presidente Giorgio Napolitano ad ergersi per difendere il prestigio e l'onorabilità nazionale. La stima pressoché universale che lo circonda - si pensi alle specialissime attenzioni che gli sono state riservate nel suo viaggio negli Usa - diventa una sorta di scudo protettivo per il nostro Paese; e il suo europeismo di lunga data fornisce una garanzia per gli altri membri dell'Unione Europea.

L'intervento "protettivo" del Presidente non vale solo sul fronte esterno, ma anche su quello interno. La divisività estrema tra i partiti e l'asprezza del conflitto politico hanno forzato Napolitano a un'opera di "responsabilizzazione istituzionale" con il continuo richiamo ai principi fondanti della Costituzione. Non a caso sia l'opinione pubblica sia gli stessi attori politici si rivolgono alla Presidenza con una frequenza incomparabile rispetto al passato.

Napolitano si trova ora a fronteggiare una doppia crisi: da un lato si amplia a macchia d'olio la perdita di autorevolezza e affidabilità del nostro Paese verso l'esterno; dall'altro la rissosità politica, alimentata anche e soprattutto dallo spirito fazioso di chi ha responsabilità di governo, e quindi collettive, indebolisce la fiducia dei cittadini nelle istituzioni (e le ultime nomine governative non ne hanno incrementato la reputazione). In questa situazione è inevitabile fare appello all'unica figura autenticamente super partes e dotata di un prestigio personale da tutti riconosciuto. Al Presidente spetta quindi una delicatissima quanto indispensabile opera di "supplenza" per far letteralmente sopravvivere questo Paese.

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Titolo: Piero IGNAZI. Eppure gli altri ne hanno accolti più di noi
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2011, 05:30:07 pm
Eppure gli altri ne hanno accolti più di noi

di Piero Ignazi

Il governo accusa l'Ue di aver lasciato sola l'Italia di fronte ai migranti.

Ma dimentica di non aver fatto nulla quando Grecia, Svezia o Germania erano investite da ondate ben più ampie


(15 aprile 2011)

Finché si naviga in acque tranquille, anche un governo di qualità modeste come l'attuale può mantenere in equilibrio i propri rapporti internazionali. E' quando scoppiano le crisi che emergono i limiti. Nel nostro caso hanno il segno del dilettantismo e del provincialismo.

In questi mesi il ministro dell'Interno Roberto Maroni si è rivelato o un incapace totale, che non prevede che la rivoluzione dei gelsomini tunisina del 17 gennaio (tre mesi fa!) porterà un aumento di migranti dalle coste nordafricane, e non attrezza Lampedusa, luogo principe di attracco, per accoglierli e trasferirli; oppure uno spregiudicato che gioca sulla pelle della povera gente - migranti e lampedusani - per creare allarme sociale e diffondere così il messaggio xenofobo della Lega.

Messo di fronte alle proprie inettitudini e alle proprie responsabilità il ministro degli Interni ha incominciato a incolpare l'Unione europea per "averci lasciati soli a fronteggiare l'invasione". A parte l'ironia insita in questi lamenti - l'esponente del partito più anti-europeo, in prima fila nel lanciare accuse e insulti all'Ue, che va a pietire aiuti da Bruxelles - la realtà è ben altra. Sul fronte dei migranti l'Italia non è in credito con gli altri Paesi europei, tutt'altro.

In primo luogo l'agenzia dell'Ue che si occupa della sicurezza delle frontiere, Frontex, su richiesta del nostro governo, ha anticipato al 20 febbraio l'operazione Hermes di pattugliamento comune delle coste e ha inviato 20 funzionari in supporto alle attività di accoglienza dei migranti.

In secondo luogo, se guardiamo al numero di immigrati e di rifugiati politici vediamo che siamo noi a dover andare in soccorso degli altri Paesi. Mentre nei primi nove mesi del 2010 il flusso degli immigranti illegali provenienti dal Mediterraneo e sbarcato sulle nostre coste era diminuito del 65 per cento rispetto all'anno prima (da 8.289 a 2.866), quello via terra, al confine tra Turchia e Grecia, era schizzato da 6.607 a 31.186, a cui vanno aggiunti altri 27.030 migranti che arrivavano in territorio ellenico dall'Albania (fonte Frontex).

Grazie ai lager di Gheddafi nel deserto, Lampedusa ha respirato, ma la Grecia è scoppiata. Bene, qual è stata la solidarietà dell'Italia? Si è offerto il nostro Paese di accogliere i migranti arrivati in Grecia come ora Maroni e gli altri ministri richiedono queruli ai partner europei? Meglio stendere un velo.

Se poi passiamo alla categoria dei rifugiati politici la nostra situazione rispetto agli altri Paesi peggiora ulteriormente. Secondo l'agenzia Onu che si occupa dei richiedenti asilo (Unhcr) nel 2010 l' Italia è scesa dal 5 posto del 2008 al 14 posto per numero di richiedenti asilo (8.200).

Per fare un confronto, non solo grandi Paesi come Francia e Germania ne hanno accolti molti di più (47.800 e 41.300 rispettivamente), ma altrettanto hanno fatto Paesi piccoli: 31.800 la Svezia, 19.900 il Belgio, 13.300 l'Olanda, 11 mila l'Austria e 10.300 la Grecia (http://www.unhcr.org/4d8 c5b109.html).
Da queste cifre si ricavano due considerazioni. La prima è che negli anni del governo Berlusconi l'Italia ha sigillato le proprie frontiere con accordi vergognosi chiudendo l'accesso anche a chi fuggiva da regimi dittatoriali. La seconda è che lo standard internazionale di una nazione si valuta anche dalla sua capacità di fronteggiare le crisi, senza piagnucolare in cerca di aiuto, soprattutto quando non ci si è curati dei problemi altrui: delle decine di migliaia di migranti arrivati in Svezia o in Grecia, non ne abbiamo accolto mezzo.

Per insipienza o calcolo politico di bassa Lega, anche in questa occasione il governo italiano ha fatto di tutto per abbassare la nostra già non eccelsa considerazione internazionale. (E a questo proposito, vorrebbe il ministro degli Esteri Franco Frattini spiegare la genesi e rapidissima morte del fantomatico piano italo-tedesco per risolvere la crisi libica?).

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Titolo: Piero IGNAZI. Italia, il 'dispotismo suadente'
Inserito da: Admin - Maggio 13, 2011, 10:27:15 pm
La denuncia

Italia, il 'dispotismo suadente'

di Piero Ignazi

Nel nostro Paese non c'è una dittatura autoritaria. Ma un annebbiamento orwelliano delle coscienze. Basato sul populismo e sulla persuasione mediatica, Come uscirne?

Il dialogo sulla democrazia tra Gustavo Zagrebelsky ed Ezio Mauro

(06 maggio 2011)

La democrazia ha vinto la sfida contro i totalitarismi del xx secolo, contro le religioni politiche del fascismo e del comunismo. Non ha ancora vinto del tutto quella contro i fondamentalismi religiosi che sono emersi negli ultimi decenni. Ma ormai questi sono già da tempo lungo una china discendente, e la primavera araba ha assestato loro un colpo mortale. Dalle masse in rivolta nel Mediterraneo e nel Medio Oriente risuonano parole del vocabolario politico occidentale come libertà, diritti, giustizia, elezioni libere, uguaglianza, oltre a un più ottocentesco "pane e lavoro", mentre latita il linguaggio clericalislamico.

Ma le vittorie non sono mai definiti­ve. Lo ricordano a più riprese Ezio Mauro e Gustavo Zagrebelsky nel loro dialogo, ricco e denso, in uscita ora da Laterza, "La Felicità della Democra­zia". Oggi le democrazie sono messe in crisi da loro stesse, dalle loro debolezze e inefficienze, contraddizioni e pigrizie. Il nemico che le attacca viene dal loro interno, dalle «promesse mancate» sug­gerite della democrazia stessa: questo nemico interno è il populismo.

E' l'in­soddisfazione per il funzionamento ef­fettivo dei sistemi democratici che spin­ge alla vittoria i partiti populisti, come le recenti elezioni in Olanda e in Finlan­dia dimostrano. Anche il nostro paese non è immune da questa tendenza, tut­t'altro. Insieme all'Ungheria, pur con tutti i distinguo del caso, siamo l'unica nazione europea governata da partiti di impronta populista. Lega Nord e Pdl sono entrambi assimilabili a questa im­postazione per l'esaltazione del leader, per il manicheismo, la contrapposizio­ne esasperata e fideistica noi/loro, l'os­sessione per la cospirazione, il disprez­zo per le regole e i poteri terzi, e dulcis in fundo l'esaltazione del popolo come giudice ultimo e unzione suprema della legittimità.

C'è però uno specifico italico in que­sto quadro: l'inversione del principio per cui nessuno è al di sopra delle leg­gi. La produzione seriale di norme ad hoc a favore del presidente del Consi­glio Silvio Berlusconi ha fatto sì che non sia più il potere a inchinarsi alle leggi ma viceversa siano le leggi che si inchinano al potere.

Torna così d'attualità l'ammoni­mento di Montesquieu, per il quale «tutto sarebbe perduto se il medesimo uomo facesse le leggi, ne eseguisse i co­mandi e giudicasse delle infrazioni». Percorrendo questa china scivoliamo, dolcemente, verso un «dispotismo suadente» secondo l'efficace espres­sione di Mauro e Zagrebelsky: non un regime autoritario e ferocemente coer­citivo bensì un annebbiamento orwel­liano delle coscienze. Detto ciò rimane un interrogativo, fastidioso.

Perché solo in Italia il po­pulismo ha travol­to gli argini e affa­scina tanta parte dell'elettorato? Il populismo in ver­sione italica viene da lontano, si nu­tre di molte fonti, ed è un'altra, ama­ra, «rivelazione» della nazione. Il lungo filo rosso che attraversa tanta parte della storia nazionale è quello dell'antidemocrazia, incarnatasi va­riamente nel clericalismo, nel fasci­smo, nel comunismo e nel sovversivi­smo rosso­nero sia dei primi del Nove­cento sia degli anni di piombo. C'è una carenza storica di cultura politica libe­ral­democratica alla base del successo berlusconian­bossiano. Potestà della legge, universalismo delle norme e dei diritti, equilibrio dei poteri, e anche ri­spetto del cittadino, sono state le stel­le polari di pochi nel secolo scorso. I molti che hanno occupato posizioni maggioritarie durante il regime repub­blicano non se ne sono curati più di tanto: avevano altre priorità, dal pa­trocinio di interessi clerical­corporati­vi immersi in un sistema clientelare, al­la lotta di classe contro la democrazia borghese. Se avessero alzato lo sguar­do ai principi del costituzionalismo li­berale, la cedevolezza al «dispotismo suadente» di marca berlusconiana sa­rebbe state ben più contenuta.

 
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Titolo: Piero IGNAZI. Il pifferaio sepolto dalle sue macerie
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2011, 10:23:49 am
L'opinione

Il pifferaio sepolto dalle sue macerie

di Piero Ignazi

Il tonfo del forzaleghismo è innanzitutto frutto degli errori, delle inadeguatezze e anche della volgarità del centrodestra

(20 maggio 2011)

Di fronte a un ministro e leader politico come Umberto Bossi che si esibisce in gesti osceni e in volgarità da postribolo (La Lega ce l'ha...) o da patibolo (Gli immigrati da accogliere a cannonate), e ad un presidente del Consiglio che si trastulla in giochi a luci rosse con giovinette prezzolate, una parte della società civile ha detto basta. Silenziosamente, in punta di piedi, ma con l'arma letale della scheda elettorale. Ha ragione Piero Bassetti, icona della borghesia imprenditoriale milanese cattolica e progressista, in prima linea nel sostegno a Giuliano Pisapia, a definire Milano e l'Italia un campo di macerie, morali e materiali. Di fronte a tanto sfascio, ceti un tempo attratti dal pifferaio magico di Arcore non si sono rifugiati nell'astensione, né hanno premiato l'evanescente Terzo polo. Si sono rivolti all'opposizione. Quindi non solo il centrosinistra ha rimobilitato quella parte del suo elettorato che dopo il 2008 era passata all'astensione (la crescita della partecipazione a Milano e in altre città segnala questa inversione di tendenza, così come, per converso, il calo di quasi 20 punti nel numero dei votanti a Trieste spiega il tracollo della destra); ha anche conquistato nuovi consensi, tutt'altro che "spaventati" dal cosiddetto estremismo dei suoi candidati.

Eppure, secondo alcuni, il risultato è una vittoria di Pirro per il Pd. In realtà, sostengono costoro guardando a Milano, Napoli e Cagliari, si sono affermati i candidati "radicali". L'asse interno al centrosinistra si è quindi spostato a sinistra. E quindi la borghesia si ritrarrà nel suo alveo naturale terrorizzata dai rossi! Queste interpretazioni sembrano versioni soft della calunnia morattiana nei confronti di Pisapia: in fondo, gratta gratta, trovi la spranga e la P38 in mano a questi "comunisti".

Su un piano diverso, ma non meno obliquo, si muove lo schema di un Pd prigioniero dei ricatti di un Vendola o di un Di Pietro, uno schema che richiama lo stigma lanciato da Berlusconi contro Prodi pupazzo e ventriloquo di D'Alema. Quanto c'è di vero in questa interpretazione? Intanto, grazie alla tranquilla tenacia padano-emiliana di Bersani il Pd ha gestito senza traumi e rancori le sconfitte dei propri candidati e, in linea di massima, ha appoggiato lealmente quelli altrui. Questo atteggiamento cooperativo vale molto di più di dichiarazioni d'intesa, tavoli allargati, bozze programmatiche e papelli vari. E' nel fuoco delle sfide che si costruiscono e si consolidano le alleanze. L'abbraccio di Boeri a Pisapia fotografa senza bisogno di commenti questo nuovo spirito coalittivo. Rimane però il dato di una inedita frammentazione nel centrosinistra dove, alla sinistra del Pd, si muovono tre attori di dimensioni non lillipuzziane: i vendoliani di Sel, i dipietristi dell'Idv (con la complicazione De Magistris) e i grillini del Movimento 5 Stelle. Formazioni diverse ma unite da alcuni tratti comuni, tratti che coinvolgono anche il Pd: difesa dei diritti delle persone e delle genti, richiamo alla legalità, tensione ambientalista (meno per l'Idv però), riconoscimento del merito e delle competenze, apertura all'innovazione. Poi vi sono temi, importanti, sui quali divergono dal partito di Bersani; ad esempio, sulla politica internazionale ed economica si oscilla da un certo utopismo tra i grillini a una sostanziale indifferenza per l'Idv.

A ogni modo, il centrosinistra si ripropone ora sotto forma di "sinistra plurale", con un partito pivot affiancato da tre partner minori. Con una certa dose di wishful thinking potrebbe essere questo il format del nuovo Ulivo di cui ha parlato di recente Prodi. Una forza differenziata al proprio interno, non egemonizzata da nessuno, che fa della sua articolazione una virtù e non una zavorra, replicando a parti invertite lo schema che in questi lustri ha favorito il centrodestra.

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Titolo: Piero IGNAZI. Pd, non sbagliare di nuovo
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 12:45:08 pm
Pd, non sbagliare di nuovo

di Piero Ignazi

In campagna elettorale il partito di Bersani ha avuto molti meriti, tra cui quello di appoggiare candidati non suoi.

Ora però sta tornando la tentazione del tatticismo, dei calcoli e delle manovre. Ecco perché sarebbe un errore catastrofico

(02 giugno 2011)

L'attenzione dei media in questi ultimi mesi (ma anche negli ultimi anni) si è sempre concentrata su Silvio Berlusconi. Quasi ogni giorno i titoli di apertura dei maggiori quotidiani nazionali erano dedicati al leader del PdL. Le sue dichiarazioni, i suoi interventi, erano diventati un vero e proprio benchmark della politica nazionale. Inevitabile, quindi, attribuirgli l'onore della sconfitta - anche se la vera perdente in questa tornata amministrativa è la Lega. Se è la destra che ha perso le elezioni, alla sinistra, e in primis al Pd, vanno però riconosciuti alcuni meriti.

Il primo merito del Pd è quello di avere accettato e difeso candidati non suoi. Quando a Milano, dopo una competizione correttissima e di grande spessore progettuale, alle primarie si è affermato Giuliano Pisapia, il Pd non ha ceduto alla tentazione di tirare i remi in barca e di lasciare al suo destino un candidato "estremista". Insensibile agli avvertimenti di cassandre fuori registro il partito di Bersani si è mobilitato a fianco dell'"intruso". Per una volta le delizie del frazionismo e della demonizzazione del nemico interno hanno lasciato il posto allo spirito di collaborazione. Ora, dato che gli elettori mal sopportano i litigi interni ai partiti e alle coalizioni, e appena sentono odore di burrasca si allontanano, il "modello Milano" dovrebbe imporsi nei rapporti tra il partito maggiore e i suoi alleati.

Il secondo merito è quello di avere enfatizzato il proprio essere alternativo al centrodestra. Hanno fatto bene Bersani e gli altri a infischiarsene dell'accusa di anti-berlusconismo, trattandola come una stupidaggine, quale in effetti è. Come attestano i più recenti studi sul comportamento di voto, gli elettori sono attratti in primo luogo da una proposta politica chiara, dai contorni precisi, netti, ben identificabili: l'opposizione al sistema di valori e alla politica del governo e del suo capo, in nome di valori e politiche alternative, risponde al bisogno di identità dell'elettorato di sinistra.

Ammettendo che il Pd abbia raggiunto un livello accettabile di consenso interno, abbia gestito con saggezza il rapporto con i partner di centrosinistra, abbia meglio definito il suo ruolo di partito cardine dell'opposizione, i suoi prossimi passi dovrebbero essere in sintonia con queste positive premesse.
Invece sta riaffiorando una strategia contraddittoria, tutta "politicista", che pensa a giocare di sponda con la Lega pur di abbattere il governo. Il Pd e i suoi antenati hanno talvolta pensato di guadagnare posizioni e consensi lavorando per file interne nello schieramento nemico. Qualora il partito di Bersani seguisse questa strada, commetterebbe un errore catastrofico.

In primo luogo, perché annebbierebbe il suo ruolo di leader intransigente dell'opposizione. I molti che sono tornati a votare a sinistra lo hanno fatto proprio perché vogliono cambiare pagina, e detestano anche solo il sospetto di trasformismi e manovre parlamentari.

In secondo luogo, perché fornirebbe ossigeno al suo avversario più ostico e insidioso. I dirigenti del Pd sembrano dimenticare che la Lega è stata in grado di sottrarre voti popolari negli anni scorsi agitando fantasmi e paure. Ridarle spazio di manovra proprio ora significa rimetterla in carreggiata, pronta a fare ulteriori danni alla sinistra. Infine, di fronte ai (dis)valori che la Lega agita, del tutto simili a quelli a cui fa riferimento Marine Le Pen in Francia, un partito democratico e di sinistra non può che alzare un muro; altrimenti legittimerebbe chi parla di Zingaropoli, di invasione musulmana, di cannonate agli immigrati, e mantiene tra i suoi ranghi l'europarlamentare Mario Borghezio, ammiratore di Radko Mladic, il carnefice di Sebrenica.

Meglio che il Pd non disperda il nuovo vento del Nord nelle paludi del tatticismo e si proponga piuttosto come portabandiera di uno schieramento alternativo. Con saggezza e generosità.


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Titolo: Piero IGNAZI. E l'opera educativa di Napolitano non ha trovato sponde
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2011, 05:27:15 pm
L'Italia corporativa gli sopravviverà

di Piero Ignazi

Il declino di Berlusconi non basta per cambiare l'avversione verso ciò che è pubblico, collettivo.

E l'opera educativa di Napolitano non ha trovato sponde

(14 settembre 2011)

Un tempo venivano chiamate Cassandre. Negli anni della "prima repubblica" questo titolo spettò al leader repubblicano Ugo La Malfa perché non si stancava di ammonire quanto forte fosse il dualismo economico italiano, quanto disinvoltamente fossero sperperate le risorse, quanto distorta si rivelasse la crescita economica, quanto fragile rimanesse la democrazia. E soprattutto, concludeva invariabilmente La Malfa, l'Italia "vive al di sopra dei suoi mezzi".

Nella cupa estate della grande crisi quelle parole sono tornate di piena attualità. Ci siamo svegliati dall'illusione di passare indenni sulla cresta dello tsunami finanziario come surfisti provetti. Fino all'altro ieri, l'ottimismo della volontà (o dell'irresponsabilità) berlusconiano ha continuato a immettere nell'opinione pubblica messaggi rassicuranti sullo stato delle nostra economia, sulla tenuta dei conti, sulla ripresa produttiva, sulla ridotta disoccupazione, e via sorridendo.

Non poteva essere altrimenti. Berlusconi è l'icona di un'Italia gaia e spensierata, che spazia dal ritornello del "no problem" all'àncora rugginosa dello stellone che tutto aggiusta. Ci sono troppi elementi tipici della nostra cultura politica riassunti nella sua parabola personale per potersene sbarazzare con un'alzata di spalle. Il suo declino non comporta "necessariamente" un cambio radicale di quella mentalità e di quella cultura antropologica e politica da cui è emerso il capo del governo.
Come è stato detto tante volte, se un costruttore e concessionario pubblico - altro che imprenditore - ha avuto un tale successo politico è perché ha intercettato desideri, pulsioni e visioni del mondo radicate in tante pieghe della società italiana e cementate da interessi corposi.

Quella componente dell'opinione pubblica che lo ha sostenuto è stata certo attratta da una confezione ammaliante della sua proposta politica, ma più di tutto valeva il contenuto. Vale a dire: non si dissolve da un momento all'altro quell'ampia fascia di elettorato che "ha creduto" alla narrazione forzaleghista.
Costoro sono tuttora convinti che i sindacati siano la rovina d'Italia, che il Sud costituisca una zavorra da lasciare andare al suo destino, che lavorare duro sia giusto ma i soldi debbano rimanere attaccati alle dita, che i dipendenti pubblici siano dei fannulloni, che gli immigrati siano dei delinquenti, e che lo Stato rappresenti tutto sommato un nemico, o quanto meno un impaccio.
Sarebbe illusorio pensare che una volta eclissatosi il grande imbonitore l'Italia si risvegli sobria e virtuosa, piena di spirito civico e di senso dello Stato. Il nostro è un paese di corporazioni e di particolarismi.
L'opera educativa compiuta dal presidente Giorgio Napolitano soprattutto in quest'anno celebrativo può aver schiuso alcuni cuori e alcune menti, ma non poteva azzerare quei sentimenti di diffidenza secolare verso tutto ciò che è pubblico e collettivo e quell'aspirazione a coltivare il rifugio del particolarismo.

Del resto, il presidente è rimasto praticamente solo in questa operazione. L'opposizione, vuoi per un malinteso senso di rispetto istituzionale, vuoi per una sua fragilità politico-ideale, non ha offerto quella narrazione alternativa dei destini del Paese che poteva rinforzare il messaggio unitario e propositivo del presidente.
Eppure per indebolire il consenso al berlusconismo e ai suoi riferimenti ideologico-valoriali, l'opposizione non ha altra strada che offrire un progetto di lungo periodo per un "nuovo risorgimento". Un progetto che insista sulla consapevolezza che facciamo parte di una comunità nazionale con vincoli e finalità condivisi(bili) e che abbiamo di fronte un gigantesco lavoro di ricostruzione, su ogni piano. Un progetto, in sostanza, che riporti l'Italia al senso della realtà e del limite.
Per troppo tempo il nostro Paese si è tappato le orecchie quando le pur miti Cassandre di questi anni indicavano i pericoli di una spensieratezza finanziaria e di un decadimento civico e morale. Ora ne paghiamo le conseguenze.

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Titolo: Piero IGNAZI. Ma davvero possono rifare la Dc?
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2011, 04:39:17 pm
Opinione

Ma davvero possono rifare la Dc?

di Piero Ignazi

Tutto questo agitarsi attorno alla formazione di un nuovo partito dei cattolici non tiene conto del potenziale elettorato.

Che sarebbe molto diverso, se non antitetico, nel Nord Italia e nel Mezzogiorno

(06 ottobre 2011)

L'Italia è tuttora la terra d'elezione del cattolicesimo. Lo è sia per la dimensione organizzativa della Chiesa in termini di numero di religiosi, di parrocchie, di monasteri, di istituti e di seminari, sia per la massiccia adesione alla religione da parte dei cittadini e per la capillare presenza di movimenti e associazioni di ispirazione cattolica. Eppure, a questa grande forza e diffusione della religione, dopo il crollo della DC, non corrisponde più alcuna rappresentanza politica diretta.

Ma ora la stagione della dispersione sta per concludersi: incontri, forum, inviti autorevoli della gerarchia preludono alla formazione di un nuovo partito dei cattolici. Questa prospettiva incontra però almeno due ostacoli "nascosti", due contraddizioni di fondo: il drammatico divario Nord-Sud nella presenza dei cattolici e, connesso a questo, la diversa modalità di intendere il rapporto politica e religione nelle due parti del Paese.
La contraddizione da cui partire riguarda la diversa distribuzione territoriale dei cattolici. Le più recenti ricerche dimostrano che la secolarizzazione ha dilagato in tutte le regioni settentrionali, compreso il Triveneto.

Vi sono città in cui i matrimoni civili, indicatore principe della secolarizzazione, superano abbondantemente il 50 per cento. In sostanza, il processo di modernizzazione, una volta estesosi anche nel Nord-Est negli anni Ottanta, ha prosciugato il tradizionale bacino confessionale. Quindi al Centro-nord l'elettorato cattolico è diminuito e ha trovato altri referenti politici, in primis la Lega.
Nel Mezzogiorno, invece, modernizzazione e secolarizzazione hanno avuto una diffusione molto più lenta e non hanno prodotto un distacco altrettanto forte dai precetti della Chiesa. Se però guardiamo alla diffusione dei movimenti cattolici vediamo una distribuzione inversa: sono molto più presenti al centro-nord - anche nelle zone rosse - di quanto non lo siano al Sud.

La prima difficoltà da superare per un partito dei cattolici deriva proprio da questa contraddizione: il serbatoio naturale dei "voti" cattolici è nel Mezzogiorno perché là la secolarizzazione ha inciso di meno, però le "energie" mobilitanti sulle quali costruire un soggetto politico sono al Nord.
Questa antinomia non è del tutto inedita perché rispecchia i disequilibri genetici della Dc, benché con una grande differenza: il cuore del cattolicesimo italiano in termini non solo di presenza organizzata ma anche di adesione popolare alla religione, allora, era al Nord, nel Triveneto.

A questa difficoltà se ne associa un'altra, che la rinforza. Un nuovo partito dei cattolici si fonderebbe sull' apporto militante e di mobilitazione della società civile, disponibile prevalentemente al Nord; e queste energie sarebbero mosse prevalentemente da stimoli di ordine etico-morale. L'adesione sarebbe spinta dal desiderio di riaffermare la centralità di una visione del mondo ispirata alla ricchezza, profondità e poliedricità del pensiero cattolico. Una adesione che rifletterebbe sul terreno politico l'impegno nel sociale.

Al Sud, in assenza (relativa) di queste energie attive nei movimenti cattolici si riaffaccerebbe un altro tipo di adesione, assai più tradizionale: come nella Dc degli ultimi decenni, una adesione poco ispirata da motivazioni spirituali, poco trainata dai movimenti, poco stimolata da incentivi "non materiali". Il maggior serbatoio di elettori cattolici (presente nel Mezzogiorno) è anche quello più adagiato su un rapporto "strumentale" con la politica. Il nascituro partito dei cattolici dovrà confrontarsi con questa antinomia: essere un partito di grandi numeri rivolgendosi al Sud dove la religione è più diffusa ma la politica meno "idealista", o essere un partito di testimonianza forte rivolgendosi al Nord dove i cattolici sono in ritirata nei numeri ma all'avanguardia nell'impegno civile.


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Titolo: Piero IGNAZI. La borghesia si è svegliata o no?
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2011, 11:33:33 pm
La borghesia si è svegliata o no?

di Piero Ignazi

Per quindici anni si sono riparati sotto l'ala di un palazzinaro disinvolto che prometteva loro di tutto.

Adesso sono delusi e sconcertati, ma chissà se hanno il coraggio di andare fino in fondo

(27 ottobre 2011)

Lo ricordava Massimo Cacciari nel suo articolo sul numero scorso dell'Espresso: questo paese ha bisogno di una classe imprenditoriale, erede dello spirito borghese. Nulla di più vero e di più urgente. Però qualche dubbio si affaccia sulla reale consistenza e sulla possibile traduzione "politica" di questo ethos. Quanto il capitalismo italiano si è autorappresentato come forza trainante, culturalmente e civilmente, di questo paese al fine di condurlo per mano verso il "progresso"? Uno sguardo rapido e disincantato al nostro dopoguerra evidenzia una propensione del capitalismo alla connivenza più che al confronto-contrasto con la politica: i detentori del potere erano blanditi in pubblico per ottenere provvidenze e protezioni dallo stato, ma disprezzati in privato.

Questo rapporto di mutua convenienza e di scambio - sostegno in cambio di aiuti vari - ha indebolito la consapevolezza di sé della classe imprenditoriale. Negli ultimi vent'anni, dopo aver lasciato andare alla deriva i vecchi partiti, la borghesia, quasi spaventata di tanto ardore, si è rifugiata sotto l'ala berlusconiana: come se un palazzinaro e un concessionario di beni pubblici rappresentasse la punta di lancia dello spirito imprenditoriale e non invece quello di un capitalismo protetto e disinvolto (per usare un eufemismo).

Da qualche tempo però c'è del nuovo nell'aria. Dapprima sono affiorate coraggiose iniziative individuali come quella del rifiuto del pizzo e dell'omertà condotta dal presidente degli industriali siciliani Ivan Lo Bello, e poi fatta propria dalla Confindustria, alla quale sono seguite analoghe prese di posizione in altre parti d'Italia: iniziative che hanno fornito al mondo imprenditoriale uno spessore etico e civile inedito. Poi, con un crescendo di insofferenza e di mugugni per lo "stile" di governo, è esploso il dissenso contro l'inerzia e l'inefficacia dell'"attività" di governo.

In un paese normale il ritiro della delega di buona parte della classe imprenditoriale avrebbe effetti devastanti su un governo che si vanta di rappresentare soprattutto quel ceto sociale. In Italia, invece, il governo continua a macinare voti di fiducia uno dietro l'altro. Viviamo il paradosso di una maggioranza sfiduciata da parte del suo elettorato di riferimento - quello di cui più si vantava e in cui più voleva identificarsi, benché il grosso dei voti venissero dalle casalinghe anziane e dai pensionati che passano la loro giornata alla televisione - ma che resiste grazie alle più sconce manovre di corridoio. Il mercimonio di prebende e favori a destra e a manca (ultimi arrivati i radicali pronti a fornire un'altra stampella al Cavaliere e a raggiungere l'indimenticato Capezzone?) consente la sopravvivenza al governo ma ne favorisce il distacco dall'opinione pubblica at large.

Non è solo il ceto imprenditoriale a essere sconcertato per la vista corta e la passività del governo ma tutto l'elettorato che si vede ribaltata di 180 gradi l'immagine dell'uomo del fare, del rappresentante della società civile ostile al "teatrino della politica". Proprio lui diventa l'alfiere massimo della "politique politicienne", degli accordi sottobanco in parlamento, della sopravvivenza nel bunker a ogni costo, dell'attaccamento alla sedia. In questa fase Berlusconi interpreta tutto il peggio della cosiddetta vecchia politica; e tutti i peggiori stereotipi dell'antipolitica trovano linfa in ogni suo passo, dal perseguimento degli affari propri alla difesa degli amici e dei potenti, dalla grevità dell'eloquio al disinteresse per il bene collettivo. Per dire la parola fine manca solo un'opposizione (più) credibile alla quale i referenti sociali tradizionali del centro-destra ora in uscita - borghesia imprenditoriale in testa - possano rivolgersi.

 
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Titolo: Piero IGNAZI. Scaricato dalle partite Iva
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2011, 10:56:59 pm
Opinione

Scaricato dalle partite Iva

di Piero Ignazi

Autonomi, professionisti, imprenditori. Hanno puntato su Berlusconi per cercare l'autoaffermazione individuale.

Ma la crisi ha fatto saltare il rapporto tra quei ceti e il leader che si erano scelti

(17 novembre 2011)

L'epoca berlusconiana è tramontata. Il logorio della sua immagine, l'inefficacia dei suoi governi, la fragilità della sua creatura politica sono alcuni dei motivi che hanno condotto all'epilogo. A questi ne va aggiunto un altro, che ha agito sottotraccia: il mutamento nella conformazione e negli orientamenti del blocco sociale che lo ha sempre sostenuto. Il successo iniziale del Cavaliere, e la sua resilienza successiva, si spiegano con modificazioni profonde e di lungo periodo sia nelle strutture socio-economiche sia nei riferimenti culturali e valoriali della società italiana.
Nel corso degli anni Ottanta l'Italia si scopre sempre più secolarizzata e laicizzata. Non tanto in senso stretto, cioè allontanandosi dalla Chiesa e dal suo magistero; più in generale, dimostra una crescente insofferenza per sistemi di relazioni sociali e visioni del mondo "chiusi". Il senso di irrigidimento e irrigimentamento, proprio di un Paese costretto dentro due ideologie forti (le due chiese, cattolica e comunista) e dentro gerarchie sociali stringenti, viene intaccato dal decennio dei movimenti collettivi. Ma il lungo '68 aveva solo scalfito la superficie e contagiato componenti sociali metropolitane e acculturate.

Tuttavia aveva gettato un seme. Aveva instillato nella mentalità collettiva l'idea della "liberazione" individuale e dell'autoaffermazione: una sorta di individualismo primordiale che, benché si collegasse con l'antica tradizione italica del "particulare", non si rintanava nel familismo e nel calore protettivo del maso chiuso ma invece si proiettava all'esterno. Favoriti anche dalla rottura della cappa plumbea degli anni Settanta nel periodo successivo gli italiani scoprono il fascino dell'affermazione del sé. In piena sintonia con la diffusione dei valori post-materialisti in tutto l'Occidente anche in Italia gli individui pongono al centro del loro orizzonte di vita le pulsioni individuali e relegano in un angolo interessi e identità collettive. Nel nostro Paese si assiste però a una curvatura particolare di questa spinta. Rimane asfittica la tendenza libertaria, che altrove troverà rispondenza nei partiti Verdi, e si sviluppa ipertroficamente la tendenza acquisitiva. La "liberazione" dai referenti cultural-ideologici e sociali tradizionali si esprime soprattutto sul versante dell'economico. E' su questo terreno che gli italiani vogliono "affermarsi". L'esplosione delle partite Iva, delle professioni di ogni genere e tipo, dell'imprenditoria indica la direzione economicista del mutamento in corso. A questo sommovimento i vecchi partiti non sanno - né possono - rispondere. A problemi nuovi rispondono partiti nuovi. In primis la Lega, ma la sua piega etno-regionalista le tarpa le ali. Deve irrompere l'icona di quel tempo, l'innovatore di uno dei totem più anchilosati e pervasivi dell'immaginario italiano - la televisione - per rappresentare, direttamente, l'effervescenza individualista-acquisitiva (con punte di narcisismo) della società.

Una volta sfruttata la finestra di opportunità offerta dal collasso dei vecchi partiti e imposta l'immagine dell'"homo novus" e dell'interprete più accreditato dell'Italia fattiva e operosa - di contro ai parassiti del settore pubblico - il gioco è fatto. Berlusconi sutura il rapporto incrinato tra società e politica.

La sutura produrrà una iper-calcificazione politica dividendo l'Italia in due schieramenti mutuamente nemici. Questa contrapposizione radicale, continuamente alimentata da produzioni simboliche e da provvedimenti legislativi partigiani, ha retto finché la nave andava. La crisi ha fatto saltare la sutura. Ha rotto il rapporto tra quei ceti sociali e il Cavaliere. Anche i sostenitori del centrodestra avvertono ora la drammaticità di uno Stato assente, sia in senso identitario sia in termini di fornitore di servizi, uno Stato scientemente picconato in questi decenni. E non è un caso che si rifugino dietro l'unica figura che lo "incarna" ancora , il presidente Giorgio Napolitano. Silvio Berlusconi esce di scena perché coloro che lo avevano plebiscitato hanno (finalmente) compreso, e a velocità crescente negli ultimi mesi, l'inadeguatezza della sua proposta politica nei nuovi tempi che si sono drammaticamente aperti.

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Titolo: Piero IGNAZI. Perché Bersani si è sacrificato
Inserito da: Admin - Dicembre 17, 2011, 11:23:58 am
Opinioni

Perché Bersani si è sacrificato

di Piero Ignazi

Il leader del Pd ha rinunciato alle elezioni, che avrebbe vinto, per sostenere il governo Monti.

Ma ora è alle prese con i conflitti interni, dalla Cgil ai giovani "democrat". E con la possibile ripresa della destra

(08 dicembre 2011)

Il Partito democratico si renderà conto con il passare dei giorni di aver buttato al vento un'occasione storica per tornare al governo a vele spiegate. I fischi e i cori che hanno accompagnato Silvio Berlusconi alla sua uscita da Palazzo Chigi erano il segno del tramonto di un'epoca. Anche osservatori equilibrati come Stefano Folli hanno visto in quelle manifestazioni un tratto tipico della "fine dei regimi".

Il Pd aveva quindi tutto l'interesse a chiudere una volta per tutte la partita con l'avversario sfidandolo alle urne. E tutti i sondaggi mostravano che il risultato era acquisito con qualsiasi tipo di alleanza fosse andato al voto. Ma un meritorio senso dello Stato, simboleggiato da uno slogan degno dei 150 anni - "prima l'Italia poi il Pd" - ha messo in quarantena la possibilità di un rapido ritorno al governo.

In più, e anche per questo, si apre un futuro denso di incognite per il partito di Bersani. Tanto sul piano interno che su quello esterno. All'esterno, il tempo che separerà la caduta di Berlusconi dalle prossime elezioni, a meno che non siano ravvicinatissime, consentirà al centrodestra di rifarsi una verginità, di mondarsi del peccato di aver portato il Paese sull'orlo della catastrofe. Ancor peggio, la Lega, corresponsabile in tutto e per tutto delle scelte del governo, raccoglierà i frutti di una campagna demagogica di taglio antisistemico, contro tutto e tutti.

In questo ribaltamento e annebbiamento di ruoli il Pd non può più giocare in tutta scioltezza la carta dell'opposizione e dell'alternativa al governo della destra: ogni partito si presenta all'opinione pubblica con una sua punta critica rispetto al nuovo esecutivo. Così, l'immagine del Pd sbiadisce. A meno che non decida di ingoiare qualunque rospo e di sostenere comunque Monti nella speranza di ricavare il benefit politico del successo nel risanamento e rilancio del Paese ad opera del professore.

Poi vengono i problemi interni. Il primo riguarda il rapporto con il sindacato. Mentre il Pd ha dato fiducia a Monti, la Cgil fin dalle prime battute si è mostrata molto scettica. Ora, con una manovra in cui i richiami all'equità del neo premier ("Chi ha dato meno dovrà dare di più") si sono scoloriti, il Pd si trova a far fronte a un sindacato all'attacco. E non solo la Cgil, visto che anche Bonanni e Angeletti si sono svegliati dal letargo. Del resto, sindacati che hanno quasi la metà dei loro iscritti nei pensionati diventano ipersensibili quando si parla di pensioni.

Il secondo problema interno del Pd è meno visibile e meno immediato. Si proietta sul medio periodo. Non riguarda lo scontro correntizio, bensì ne rappresenta la negazione, per certi aspetti. Il vero conflitto interno che monta è quello generazionale, di cui Matteo Renzi rappresenta solo l'epifenomeno più spettacolare e narcisistico. C'è invece un largo strato di giovani quadri intermedi - dai dirigenti delle sedi territoriali ai rappresentanti negli enti locali - che si sono impegnati in politica sull'onda dell'Ulivo e sono allergici alle identità politico-ideologiche pregresse.

Questa generazione "democrat" non sopporta più gli scontri di corrente vecchi di vent'anni. Vede quanto il partito sia appesantito dalle sue "culture originarie" e, per questo, quanto appaia datato, vecchio, non al passo con i tempi. Non a caso il Pd è sottorappresentato nelle fasce giovanili, dove morde invece il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo (il cui peso è costantemente sottostimato, come si è visto alle regionali in Molise). Poiché molti elettori grillini vengono dal Pd a contrastare questo deflusso i più attrezzati sarebbero proprio i nuovi quadri, che però rimangono nelle retrovie. In conclusione, sfuocato il ruolo di oppositore, impervio quello di sponsor di Monti, insoddisfatti sindacati e nuove leve, per Bersani non si preannunciano tempi facili.


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Titolo: Piero IGNAZI. Monti, fin qui hai un po' deluso
Inserito da: Admin - Gennaio 06, 2012, 09:57:58 am
Opinione

Monti, fin qui hai un po' deluso

di Piero Ignazi

Sì, ha raccolto le ceneri di un disastro. D'accordo, almeno ha parlato di equità. Ma si è mosso nel solco della Destra Storica: fredda, incapace di farsi sentire vicina alla vaste fasce di Paese che vivono il disagio sociale

(28 dicembre 2011)

Il governo Monti nasce da due diverse pressioni: una interna al sistema politico e l'altra esterna, di natura internazionale. La spinta più forte, quella che ha fatto catalizzare il consenso su un governo nuovo e "tecnico", di esperti, è venuta dall'esterno: dalla crisi economica, dalla sfiducia dei mercati, dall'offuscamento della nostra immagine (i grandi media internazionali definivano senza remore Berlusconi come joker, clown, buffoon...), e quindi dalla nostra debolezza in ambiti decisionali cruciali dell'Unione Europea e degli organismi internazionali. La pressione esterna non derivava solo da una disistima per il profilo buffonesco di Berlusconi; originava dalla inettitudine e dall'ignavia del governo di fronte alla crisi, un atteggiamento che ben si riassumeva nell'inconcludente filosofeggiare di Giulio Tremonti e nelle battute da bar del Presidente del Consiglio su ristoranti pieni et similia.

E' di fronte a questa continua fuga dalla realtà che è maturata la spinta interna al cambiamento. Buona parte di quella classe dirigente e di quei ceti sociali che a lungo ha sostenuto o sopportato il centrodestra, alla fine, ha ritirato la delega. E il governo si è avvitato in una spirale di disfacimento con fuoriuscite, sconfessioni e voti negati. Berlusconi non si è dimesso per un atto di responsabilità come lui stesso e suoi megafoni vanno cianciando: si è dimesso perché non aveva più la maggioranza.

Il governo Monti ha raccolto le ceneri, avviato il risanamento dei conti pubblici ed aperto un gigantesco cantiere di riforme.

Il nuovo premier ha introdotto nel lessico politico un termine abbandonato da tutti, anche dai partiti di sinistra: equità. Mentre di rigore e di crescita se n'è parlato ad abundantiam in questi anni, di equità, vale a dire di giustizia sociale, si erano perse le tracce. In effetti per la prima volta da decenni si è cercato, con qualche probabilità di successo, di intaccare anche gli alti redditi (non quelli altissimi che sono protetti da "firewall" troppo sofisticati per essere raggiunti, quanto meno nel breve periodo). I prelievi sulla ricchezza mobile, sulle seconde case con tanto di rivalutazione catastale, sui capitali scudati sono interventi che nemmeno il "governo di Vasto" avrebbe avuto l'ardire di attuare. Certo, la mannaia contributiva e regolativa sulle pensioni è calata pesantissima. Lì non ci sono stati sconti. Fasce sociali tutt'altro che privilegiate hanno contribuito al risanamento in maniera più che proporzionale rispetto a chi gode di redditi elevati.

Questo intervento ha inquinato il buon proposito dell'equità? Lo si vedrà dai prossimi provvedimenti. E' su terreni più ampi rispetto alla logica emergenziale dei primi passi che si potrà misurare il grado riformista, innovatore e "giusto" del governo Monti.

Per ora, l'impressione è che questo esecutivo si muova nel solco della Destra Storica, di una classe politica dedita al bene comune e consapevole della "dimensione" dell'impresa, ma forse, come quei padri della patria, a volte un po' lontana dal pulsare delle emozioni. Esistono aree di insoddisfazione sconfinate in questo Paese che vanno dalle piccole imprese strozzate dai crediti inesigibili, anche dallo Stato, ai disoccupati meridionali che piangono l'arresto dei camorristi, dai giovani senza lavoro e senza speranza ai cinquantenni in mobilità. E la lista potrebbe continuare, ovviamente. A tutti costoro il governo deve non solo fornire una risposta ai loro bisogni (e già questa è una impresa) ma esprimere, simbolicamente, una "vicinanza": convincerli che ci si occupa della loro sorte senza altri interessi, differentemente dal passato. In una ottica di discontinuità rispetto ad un mondo luccicante di escort, festini e affaristi.

Per questo il pranzo tra Monti e Berlusconi, al di fuori di una cornice ufficiale, costituisce tanto un passo falso nello stile quanto una rilegittimazione incomprensibile del responsabile del disastro. Il governo Monti è nato in antitesi non in continuità con quello passato. Che si comporti di conseguenza.

 
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Titolo: Piero IGNAZI. Basta scorie nel governo Monti
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2012, 10:16:59 am
Basta scorie nel governo Monti

di Piero Ignazi

L'esecutivo del professore piace perché privilegia la competenza sui partiti.

Ma anche lì, ci sono i cascami della vecchia classe dirigente che sopravvive a ogni cambio di stagione.

Se vuole essere credibile, il premier se ne deve liberare

(23 gennaio 2012)
 
Con il governo Monti è entrata in scena una diversa classe dirigente, quella degli esperti, dei portatori di conoscenza. Le competenze dei componenti del governo vengono da aule universitarie, amministrazioni pubbliche, aziende private, studi professionali, non dalle stanze dei partiti. Questo, in alcuni casi, costituisce un deficit quanto a capacità di negoziazione, gestione dei conflitti, uso della retorica, movenze sul filo dell'ambiguità, modalità note ai politici di professione di ogni latitudine. In altri casi costituisce un valore in termini di chiarezza di intenti, di profondità analitica e di rispondenza alle domande dei cittadini e a finalità e interessi generali.

In un momento in cui l'opinione pubblica dimostra una stanchezza estenuata verso la politica, la non-politicità e il professionismo impolitico del governo compensano, e di molto, l'inesperienza partitica. La luna di miele del governo si è fondata su questi elementi innovativi (ai quali vanno aggiunti l'insofferenza per lo stile da avanspettacolo del precedente governo e la legittimazione fornita dall'avallo attivo del Quirinale). Ma per mantenere e consolidare il feeling positivo con l'opinione pubblica, il governo, nell'immediato, deve superare (tra i tanti) due ostacoli.

Il primo deriva dall'offuscamento di immagine derivante dalla presenza di figure, nelle pieghe del governo e nel milieu che gli ruota intorno, che stridono con quell'aura di rinnovamento, serietà e pulizia efficacemente simboleggiata dalla prima conferenza stampa del governo Monti. Emerge il timore di un'eccessiva continuità con il passato. I tipici vizi di una classe dirigente di lungo corso, avvezza ai cambi di stagione, al cumulo di cariche e di posizioni, ai conflitti di interesse ramificati e radicati, all'impermeabilità alle diverse maggioranze politiche, alla contiguità/consuetudine con il potere e alla leggerezza di alcuni comportamenti sono affiorati nell'ambiente governativo. Più che i curriculum vitae infarciti di studi d'eccellenza, qui valgono ancora le frequentazioni di salotti e palazzi (e consigli di amministrazione).

Quanto rivelato nelle scorse settimane stona con l'immagine di serietà e seriosità del governo Monti e attenua la discontinuità con il passato. Mentre una sua grande risorsa sta proprio nella distanza di sicurezza dal costume politico "romano" di intrecci e intrallazzi. Perché non "liberalizzare" anche gli accessi alle alte cariche pubbliche de-burocratizzando il reclutamento e rompendo l'intreccio politico-clientelare d'alto bordo e salottiero? Perché non fare piazza pulita di navigati routiers del potere ministeriale?

Certo, più semplice a dirsi che a farsi, soprattutto se si pensa al secondo ostacolo del governo Monti: l'incerto e ondivago sostegno politico. Il Pdl non appoggia apertamente e fino in fondo quasi nessuna iniziativa di Monti: oscilla tra semplici puntualizzazioni e dissensi radicali. In realtà lavora a un logoramento del governo per evitare che acquisti troppa sicurezza e indipendenza. E soprattutto che dimostri cosa significa essere "moderato", parola di cui il Cavaliere e i suoi hanno abusato senza ritegno. Il Pd è più allineato. Ha persino digerito l'intervento sulle pensioni che ha colpito il suo elettorato di riferimento, dipendenti pubblici e privati di ogni livello. Ma non fa di quest'impegno una vetrina. Sostiene a bassa voce, quasi non volesse farlo sapere. Con la conseguenza di lasciare al Terzo polo la bandiera della sponsorship convinta al governo. Che è un po' troppo poco.

Monti ha bisogno di un consenso parlamentare più deciso. Con i prossimi provvedimenti, inevitabilmente, scontenterà qualcuno più di altri. A quel punto dovrà avere la forza di imporsi e, al limite, di scegliere interlocutori preferenziali. Per questo è necessario che si ripulisca dalle scorie che ne indeboliscono il prestigio.

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Titolo: Piero IGNAZI. Cosa c'è nella testa di B.
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2012, 05:03:32 pm
Politica

Cosa c'è nella testa di B.

di Piero Ignazi

Non si candiderà più come premier, ma non se ne va affatto a casa. Anzi: vuole condizionare la politica italiana ancora a lungo. Come? Mettendo alle corde un centrosinistra già diviso, riconquistando i moderati e le categorie infastidite da Monti, continuando a occupare la Rai. Ecco con quali obiettivi

(14 febbraio 2012)

Siamo proprio sicuri che Silvio Berlusconi sia fuori dai giochi? Che il suo allontanamento da Palazzo Chigi a suon di fischi e lazzi abbia sancito la sua definitiva uscita di scena? Gli ultimi eventi fanno pensare il contrario. Il voto alla Camera sulla responsabilità personale dei magistrati che ha ricompattato la vecchia maggioranza forzaleghista e la levigata intervista al "Financial Times", quel giornale che lo aveva trattato come uno Schettino alla rovescia ingiungendogli un "Scenda da quella nave, per diana!", ha riportato il Cavaliere alla centralità perduta. Il suo partito, pur diviso in mille cricche e attraversato da odi feroci, non è ancora sull'orlo dell'implosione. Soprattutto, non sta decomponendosi nella direzione prevista, e da molti auspicata: chi minaccia di fare le valigie non sono i moderati filo-governativi bensì gli ex An e qualche altro "descamisado" senza etichetta.

Se questi propositi bellicosi si concretizzassero, salterebbe l'assetto bipolare del sistema (che tuttora tiene) e andremmo a una tripartizione dello spazio politico. E cioè, ammesso che la sinistra rimanga nella fissa nella sua configurazione attuale, vi sarebbe una nuova componente "radicale" di destra (ex-An e Lega) e un corpaccione moderato, con un Berlusconi in versione rotonda e benpensante pronto a riannodare i fili con il centro e persino con Fini. Ecco perché Berlusconi è così accomodante con il governo, così responsabile e dialogico.

Il sostegno a Monti, esplicito a parole e contrattato nei corridoi, produce anche ottimi risultati. Grazie alle pressioni del PdL le liberalizzazioni, partite con grandi squilli di tromba, si sono ridotte a una fotocopia in sedicesimo di quanto fecero Prodi e Bersani nel 2006. I veti incrociati delle mille lobby hanno trovato audience e comprensione da parte del Pdl che ha così riannodato i fili con quei settori della società civile che lo avevano abbandonato alla fine dello scorso anno. Anche il tema dell'equità, grande ed esaltante novità della discesa in campo del governo tecnico, è scomparso sotto la neve. E' rimasta, e per fortuna, la martellante campagna anti-evasione. Ma vedremo quanto resisterà all'offensiva contro lo "stato di polizia tributaria" già innescata dalla destra. Infine, a dimostrazione di quanto sensibile si sia dimostrato il governo di fronte alla difesa degli interessi primari del Cavaliere - le tv, ovviamente - da Palazzo Chigi e dintorni non è venuta una parola sulle nomine di marca forzaleghista in Rai.

Ora, entra nella fase finale la discussione sul mercato del lavoro. Nel governo non aleggia un clima pro-labour. Anzi, stupisce sentir ripetere la litania dell'articolo 18 come fattore inibente degli investimenti, quando contano ben più l'assenza dello Stato in intere regioni del Mezzogiorno, la lentezza della giustizia civile, il costo delle infrastrutture, i vincoli burocratici.

Come dimostrano i giuslavoristi non politicizzati, il licenziamento per motivi economici è perfettamente possibile in Italia: non è invece possibile gettare sulla strada uno solo perché antipatico e di idee politiche diverse. In un paese con una classe imprenditoriale ben più rozza di quanto non appaia ai piani alti delle rappresentanze confindustriali (vogliamo ricordare la prassi delle lettere di dimissioni firmate in bianco imposte alle giovani dipendenti a rischio maternità, proibite per legge dal governo Prodi e riammesse da Berlusconi?) dobbiamo augurarci che "queste" garanzie non solo rimangano ma vengano estese. Perché se si ritiene che licenziare "senza giusta causa" sia giusto, allora rassegniamoci ad avere un governo, certo perbene e serio, ma di destra, a trazione Pdl.

Con il risultato che il Pdl centra tre obiettivi: si riqualifica come un partito responsabile presso quell'opinione pubblica moderata che lo aveva lasciato; riprende contatto con il suo serbatoio elettorale di riferimento dimostrando che è in grado di addolcire la medicina delle liberalizzazioni e dell'equità fiscale, e di mettere all'angolo i sindacati; mette alle corde il Pd che si è speso per Monti senza aver ottenuto nulla.

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Titolo: Piero IGNAZI. Non si può fare a meno dei partiti
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2012, 04:21:50 pm
Non si può fare a meno dei partiti

di Piero Ignazi

Il governo Monti ha avuto due effetti: l'oblio dei guasti di Berlusconi e la condanna delle forze politiche.

Che invece restano le uniche strutture di aggregazione del consenso. E che sono più forti di quanto non sembri

(01 marzo 2012)

Il cambio di tono e di stile apportato dal governo Monti alla politica italiana produce effetti a 360 gradi. Alcuni erano prevedibili altri assai meno. La delegittimazione dei partiti da parte degli esperti faceva parte degli esiti inevitabili. I de profundis intonati ai partiti peccano però di precipitazione. Per tre ragioni. La prima è che i partiti continuano a essere le strutture fondamentali attraverso le quali si articola e si aggrega il consenso. Certo, non esauriscono le modalità con cui i cittadini possono partecipare alle decisioni fondamentali. I referendum, le azioni dirette attivate dai movimenti sociali (ultimi esempi, gli Indignados e Occupy Wall Street), i blog e l'agorà elettronica sono forme aggiuntive ma non alternative alla politica praticata dai partiti. Finché non si arriverà all'elezione alle cariche politiche tramite sorteggio, modalità già sperimentata in Islanda due anni fa per nominare i 25 costituenti, o non si diffonderà la "democrazia deliberativa" - un processo decisionale fondato su una discussione approfondita, dialogica e "oggettiva" di un campione rappresentativo di cittadini - i partiti rimangono al centro della scena. Per mancanza di alternative.

Ma non solo. La sopravvivenza dei partiti dipende anche dalla constatazione che oggi, contrariamente a quanto si dice, non sono più deboli rispetto a un tempo. Avranno meno iscritti e meno sedi ma dispongono in abbondanza di soldi, di personale, di competenze, di reti di relazioni, di strutture. E continuano a determinare o a influenzare le nomine in una pluralità di enti, commissioni, consigli. Grazie alle loro risorse materiali e alla loro penetrazione nella società civile i partiti mantengono il centro della scena.

La terza ragione, più nobile se vogliamo, è che i partiti creano al loro interno uno "spazio di eguaglianza": le differenze personali in termini di risorse economiche, di capitale culturale, di centralità sociale, che inducono uno squilibrio nelle relazioni tra le persone, si appiattiscono all'interno dei partiti. Le diseguaglianze sociali vengono riequilibrate consentendo anche a chi non è provvisto di risorse economiche di svolgere una funzione dirigente e di occupare cariche. Certo, questa funzione equalizzatrice è andata appannandosi negli ultimi decenni, in Italia come altrove. Si è riaffacciata una tendenza al neo-notabilato di cui, mutatis mutandis, il governo Monti rappresenta una incarnazione, seppure involontaria. Ma "l'autorità della democrazia", come ha scritto recentemente il filosofo politico David Estlund, non si può fondare solo sulla competenza dell'esperto.

Poi il governo Monti ha avuto anche un effetto del tutto imprevisto, benché in linea con il nostro costume nazionale: l'oblio immediato dei guasti e delle responsabilità del passato. Il governo precedente, e più specificatamente il suo capo, vengono ogni giorno di più assolti da ogni manchevolezza e perdonati per le loro incapacità. Non solo. Tutta la classe dirigente del Pdl ripete all'unisono che Silvio Berlusconi ha fatto "volontariamente" un passo indietro per il bene del Paese pur disponendo della maggioranza e pur essendo stato "insediato" a Palazzo Chigi dal voto degli italiani. Ovviamente tutto ciò è falso come l'ottone: il Cavaliere è stato costretto alle dimissioni suo malgrado, dalla liquefazione della sua maggioranza, oltre che dal discredito interno e internazionale. Ma il clima da union sacrée per la salvezza della patria favorisce l'amnesia e consente ricostruzioni fantasiose come queste. L'ottima stampa di cui gode il governo Monti ha quindi un effetto paradosso: invece di rimarcare la distanza siderale tra il governo del bunga bunga e l'odierna serietà-seriosità dei professori, stende un velo sul passato. Ha ragione l'avvocato Mills: l'Italia è un Paese cattolico, e qui si perdona tutto.

Insomma, dopo 100 giorni il governo Monti incide su più fronti: da un lato solleva e redime (il Cavaliere) e dall'altro condanna e affossa (i partiti). Per vie impreviste la buona stella sorge ancora ad Arcore.

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Titolo: Piero IGNAZI. Non sono partiti, sono locuste
Inserito da: Admin - Marzo 24, 2012, 03:04:53 pm
Polemica

Non sono partiti, sono locuste

di Piero Ignazi

All'ultimo giro sono state 94 (avete letto bene: 94) le liste che hanno goduto di finanziamenti pubblici.

Quelle che erano associazioni di cittadini con un comune ideale sono diventate solo imprese.

Anzi, macchine da soldi a spese dello Stato

(23 marzo 2012)

Non riusciamo a toglierci dalla testa un'immagine ricevuta, consolatoria quanto le favole: che i partiti politici siano, come lo erano nel passato, delle organizzazioni attive, dedite al bene comune, disinteressate, parsimoniose, presenti ovunque e rigurgitanti di attivisti pronti a diffondere il verbo. Un concentrato di virtù, insomma.

Si potrà sorridere di questa raffigurazione oleografica ma gran parte dell'opinione pubblica quando parla di partiti cade in uno stato schizofrenico: per loro sono angeli e demoni allo stesso tempo. Da un lato, richiamano ancora, per riflesso in un mitico e lontano passato, quegli edificanti tratti di cui sopra, dall'altro sono tutto il contrario e meritano ogni vituperio, tant'è che meno del 10 per cento li considera organizzazioni degne di fiducia.

Certo, molte delle funzioni e delle caratteristiche dei partiti si sono isterilite: perché non servono più. Questo per la semplice ragione che è mutata radicalmente la società che ha fatto da levatrice ai partiti di massa. Quelle condizioni di segmentazione sociale in gruppi omogenei, di vite ordinate su ritmi standard lavoro-casa, di divertimenti collettivi e non individualizzati, di infinitamente minore benessere, di rigide stratificazioni in condizioni occupazionali ben definite e condivise da grandi numeri, si sono esaurite da molti decenni. Quella società industriale è tramontata e siamo entrati nell'era post-industriale, cioè nella società dei servizi, del lavoro fondato sulla conoscenza e sull'interazione con gli altri più che sulla capacità e la fatica manuale. Con al centro l'individuo, e non più soggetti collettivi.

Come hanno reagito i partiti di fronte a questo cataclisma che minava le loro fondamenta? Cercando riparo laddove potevano trovarlo: nello Stato. Per reggere alla perdita di contatto con una società alla quale non sono più "adatti", i partiti hanno ceduto alla tentazione di usare le risorse pubbliche a loro favore. Passo dopo passo si sono incistati nelle pieghe dell'amministrazione e del settore pubblico dell'economia. Laddove vi erano burocrazie dotate di forte spirito di corpo, come in Francia, o dove l'economia di Stato era di dimensioni ridotte o, infine, dove l'ethos collettivo impediva arrembaggi troppo scomposti, i partiti hanno mantenuto le distanze. In un Paese come il nostro, patria della "clientela e parentela", con un'amministrazione permeabilissima e un ampio settore pubblico, i partiti si sono trasformati in locuste. Ma oltre ai benefit indiretti di una lottizzazione selvaggia hanno preteso anche denaro sonante dalle casse dello Stato.

Il flusso di denaro pubblico che arriva oggi ai partiti italiani supera di molte lunghezze quello che viene dalle donazioni dei privati, dalle tessere e dalle altre attività di autofinanziamento. I partiti tutti sono "dipendenti" dallo Stato per il loro funzionamento. Senza quei soldi scomparirebbero. Anzi, siamo arrivati al paradosso che i partiti sono vere e proprie "macchine da soldi". Oggi fondare un partito equivale ad avviare una start up di successo: la generosità del rimborso elettorale (un euro per ogni cittadino elettore per i cinque anni della legislatura anche se questa si chiude in anticipo) e la rilassatezza dei criteri di accesso (almeno l'1 per cento o l'elezione di un parlamentare) hanno riempito le casse anche di formazioni minuscole. La prova di quanto sia redditizio presentarsi alle elezioni, a ogni livello, dalle europee alle regionali, viene dal numero delle liste ammesse al rimborso: dalle 30 del 2001 siamo passati alle 94 del 2008.

Come le stagioni, i partiti non sono più quelli di una volta. Stanno cambiando ma non sanno bene come. Nel frattempo si rincantucciano nello Stato approfittando smodatamente delle sue risorse.

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Titolo: Piero IGNAZI. Nella Lega non cambierà nulla
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2012, 04:16:15 pm
Nella Lega non cambierà nulla

di Piero Ignazi

Il Carroccio è nato e ha avuto successo come movimento xenofobo, populista, antidemocratico.

E non c'è nessun motivo di credere che Maroni toccherà questa formuletta magica, che è uguale a quella di Le Pen in Francia

(12 aprile 2012)

Il più longevo segretario di partito di tutta l'Europa occidentale ha ceduto lo scettro. Umberto Bossi lascia dopo oltre vent'anni di regno indiscusso. E' una caduta rovinosa, senza la grandezza politica di un Bettino Craxi, responsabile delle tangenti miliardarie arrivate al suo partito, ma immune da interessi personali. Craxi si erse orgoglioso e cocciuto fino alla cecità nell'invocare se non la liceità almeno la legittimità dei finanziamenti occulti e illegali, perché "così facevan tutti". Bossi frana sulle manie di grandezza e sulla voluttà del lusso della sua famiglia. Tra diplomi di studio comprati, interventi edilizi faraonici e auto di lusso, c'è un sentore da arraffamento piccolo borghese. La miseria morale di questi episodi dovrebbe finalmente lacerare il manto di ipocrisia con il quale è stata ricoperta e camuffata la politica del Carroccio. Il successo elettorale dell'ultimo decennio, e soprattutto quello degli ultimi anni, è stato letto da tanti analisti come il trionfo di una politica vicina alla gente, interprete dei "veri" bisogni dei cittadini, presente laddove emergono i lamenti degli onesti lavoratori. Molti hanno tessuto lodi al partito "radicato nel territorio" sorvolando sul carattere verticistico e antidemocratico del suo assetto interno. Basti pensare che la Lega non tiene un congresso da dieci anni!

Lo strabismo del circuito politico-mediatico nei confronti della cultura politica e della visione del mondo leghista è impressionante. Mentre una mole sempre più abbondante di studi e ricerche (Gianluca Passarelli e Dario Tuorto, "Lega e Padania. Storie e luoghi delle Camicie verdi") dimostra le somiglianze tra il Carroccio e gli altri partiti della destra populista europea, dal Front National di Marine Le Pen in giù, le cannonate da riservare ai migranti, l'incitazione ai pogrom nei campi dei Rom, l'islamofobia più scatenata, vengono derubricate a sbavature. Nei confronti della Lega e dei suoi dirigenti scattano subito tutte le giustificazioni. Anche i gesti osceni ripetutamente esibiti da Bossi quand'era ministro della Repubblica sono passati in cavalleria. Un ministro francese, tedesco o inglese che si fosse comportato allo stesso modo sarebbe stato rimosso. Da noi ci si ride sopra. Del resto, se si fosse accettato che Lega era - ed è - un partito anti-sistemico e anti-repubblicano si sarebbe messa in discussione la legittimità dei governi di centrodestra (poi, cosa ci fosse di centro nell'ultimo governo Berlusconi rimane un mistero).

La distorsione populista di questi ultimi lustri ha fatto sì che il voto, il successo elettorale, fossero l'unica ratio di legittimità. Una sorta di spada di Brenno gettata sulle urne. Invece è l'adesione ai principi fondanti del costituzionalismo liberale che fornisce legittimità a governare. E di questa adesione la Lega non ha mai dato prova. Perché la sua ideologia, favolette celtiche a parte, è imbevuta di xenofobia, chiusura e separatezza. Che poi ci sia qualche amministratore leghista che si è ben comportato non importa, così come il riformismo dei comunisti emiliani degli anni Cinquanta non implicava che il Pci fosse un partito pro-sistema.

Per quanto possa apparire paradossale, l'uscita di scena di Bossi non cambia nulla nella Lega, a meno di una divisione interna tra Lega Lombarda e Liga Veneta, essendo quest'ultima abbastanza infastidita dai pasticci che combinano i cugini lombardi - ai quali, non a caso, ha imposto un membro del triumvirato e il tesoriere. Non cambia nulla perché il Carroccio non ha nemmeno avviato un dibattito sui tre punti cardinali della sua politica:
1. Rimanere ancorato al suo recinto anti-sistemico proseguendo verso il fine ultimo, la secessione della Padania, oppure limitarsi a rivendicare un "normale" federalismo;

2. Conservare il suo armamentario xenofobo e populista, oppure dirigersi verso un più tradizionale moderatismo conservatore;

3. Mantenere l'appello antipolitico che raccoglie consensi trasversali oppure concentrarsi sul terreno delle politiche economiche per rappresentare gli interessi del lavoro autonomo e imprenditoriale. In ogni caso, l'epopea leghista tramonta con il suo capo.


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Titolo: Piero IGNAZI. Perché la Casta non molla
Inserito da: Admin - Maggio 19, 2012, 10:40:51 am
Opinione

Perché la Casta non molla

di Piero Ignazi

I numeri parlano chiaro: senza i contributi pubblici, i partiti perderebbero oltre il 70 per cento dei loro introiti.

E con la loro attuale crisi di credibilità, non riuscirebbero mai a ottenere contributi volontari, come in America.

Quindi resistono a oltranza (e peggiorano la crisi di credibilità)

(08 maggio 2012)

Pia illusione pensare che i partiti italiani possano fare a meno di forme di finanziamento pubblico. I partiti sono macchine complesse che macinano continuamente attività politica; e tutto ciò costa, dal mantenimento delle sedi all'acquisto di materiale, dalle spese di comunicazione e advertising allo stipendio o al rimborso delle centinaia (oppure migliaia) di persone che lavorano per il partito, e così via.

Detto questo, va però sottolineato che, in questi ultimi anni, grazie alla "generosità" dello Stato, molti partiti hanno accumulato avanzi di bilancio. Quindi, una contrazione delle dotazioni pubbliche non li ridurrebbe sul lastrico. Soprattutto farebbe tornare in auge l'idea, forse romantica ma certo non disprezzabile, che la politica non è un "mestiere" redditizio. Tanto per fare un esempio, oggi riuscire ad entrare in un "listino" alle elezioni regionali significa assicurasi un reddito da 100 mila euro netti all'anno per cinque anni, magari solo per essere esperte igieniste dentali.

A causa di questi emolumenti la classe politica della seconda Repubblica, in continuità con la degenerazione del Psi di rito ambrosiano, gode di uno stile di vita da "privilegiati", lontano dagli standard delle persone comuni. La professione del politico è stata vissuta da tanti eletti come un opportunità di arricchimento economico e non come un servizio.

Ora, di fronte alla protesta montante i partiti "dovrebbero" tagliare le risorse pubbliche che ricevono. Sgombriamo però il campo dall'idea che possano vivere solamente di contributi volontari: negli ultimi quindici anni la componente delle entrate non statali si colloca sul 25-30 per cento del totale, con una tendenza generale al calo. La Lega Nord si differenzia da tutti gli altri partiti per la capacità di autofinanziamento nettamente superiore (ma chissà cosa pensano oggi i militanti leghisti dei loro soldi andati a finanziare l'ingordigia e le spese allegre della "Family").

E' comunque vero che esistono diverse strategie e modalità per convincere i cittadini a versare soldi ai partiti. Una recente ricerca in merito di A. F. Ponce e S. Scarrow, ("Who Gives? Partisan Donations in Europe") conferma che il tax benefit, oggi invocato da molti, non è né diffuso né rilevante. Piuttosto valgono due aspetti: l'enfasi che il partito stesso mette sulla richiesta di sovvenzioni ai privati, e "l'immagine" del partito presso l'opinione pubblica, la sua credibilità e stima.

Sul primo aspetto gli autori notano che, nonostante il grande successo della campagna di fund raising di Barack Obama alle presidenziali del 2008 (tanti, piccoli contributi), i partiti europei disdegnano questa possibilità: la maggior parte dei loro Web-site non danno indicazioni su come contribuire al partito e non citano nemmeno i relativi benefici fiscali. Questa pigrizia lascia presumere una certa preoccupazione da parte dei partiti di "esporsi" al pubblico per chiedere soldi, per il semplice motivo che sono consapevoli che la loro immagine non è tale da far mettere mano al portafoglio (se non per precisi interessi).

E si torna al punto dell'immagine dei partiti. Quella dei partiti italiani è così deteriorata che difficilmente sollecita donazioni. Senza indulgere nel pauperismo, altro atteggiamento estremo da evitare - i politici sono pur sempre, a giusto titolo, parte della classe dirigente di un Paese - i partiti devono scendere dal loro mondo esclusivo e "dorato". Solo così possono recuperare credibilità e forse motivare qualcuno a finanziarli.

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Titolo: Piero IGNAZI. La fine.- B. in confusione totale
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2012, 09:58:11 am
La fine

B. in confusione totale

di Piero Ignazi

Il mondo narrato dal Cavaliere per quasi vent'anni non esiste più. Lui lo sa, come sa che Pdl è alla frutta. Ma non ha idea di cosa inventarsi.

Tanto più che anche la Lega si squaglia. Come avvenne per la Dc e il Psi nel 1994

(25 maggio 2012)

Siamo al secondo atto. Un anno fa la caduta del muro di Milano e il successo di referendum emarginati e snobbati. Oggi l'onda lunga di quel desiderio di cambiamento ha infranto altri muri. E non si fermerà qui. Il sistema partitico post-1994 è arrivato al capolinea: Pdl e Pd erano dei "residui" del big bang bipolare del 1994. Ora sono entrambi investiti dall'insofferenza verso una politica giudicata inefficiente, corrotta, "vecchia".

Il trionfalismo di Pierluigi Bersani nel commento del dopo-voto è fuori posto. Certo il Pd ha guadagnato sindaci ma i suoi voti si stanno volatilizzando. Non riesce più a trattenerli nemmeno nelle sue zone di insediamento tradizionale, e soprattutto in Emilia-Romagna, dove la Lega e i grillini avevano rosicchiato voti alle regionali del 2010. Ora l'emorragia continua verso il non-voto o di nuovo verso il MoVimento 5 Stelle. Dalla ritirata della Lega il partito di Bersani non ha recuperato nulla sotto il Po. I voti che guadagna al Nord sono di natura diversa: non sono "suoi" per antica consuetudine, bensì sono voti mobili, volatili, oggi qui domani altrove. In sostanza, il Pd non riesce a raccogliere i frutti della sua vittoria sul forzaleghismo a trazione berlusconiana.

Il mondo narrato dal Cavaliere non esiste più, travolto dalla crisi e dal bunga bunga. Lo stesso vale per le feste celtiche delle camicie verdi. Mentre la Lega è ormai fuori gioco, Berlusconi, con le risorse di cui dispone, può ritornare in una versione riveduta e corretta a condizionare la politica italiana. Non sarà più il dominus del centro-destra, ma quest'area esiste ancora. Gli elettori moderati hanno ritirato la delega a questo (impresentabile) centro-destra. Sono alla finestra ad aspettare. Angelino Alfano ha promesso "la più grande novità politica" degli ultimi vent'anni. Al netto di questa boutade fuori luogo, dal Pdl devono venire delle novità, pena l'inabissamento del partito. Ma può non bastare perché la situazione ricorda quella di vent'anni fa. Anche allora la Dc diceva che doveva cambiare, solo che nel suo percorso di rinnovamento perse per strada alcuni pezzi importanti, dalla Rete di Leoluca Orlando (corsi e ricorsi) ai Riformatori di Mario Segni. E alla fine arrivò esausta all'appuntamento del 1994. Inoltre, come la Dc vide liquefarsi il suo alleato storico, il Psi di Bettino Craxi, altrettanto il Pdl si ritrova orfano della Lega, avvitata in una crisi finale.

E' allora il momento dei centristi di Casini (incluso il movimento di Luca Montezemolo che ha ormai acceso i motori ovunque)? Le chances del leader dell'Udc si giocano sul suo rapporto con il governo. Vale a dire: da un lato, grazie al suo sostegno convinto a Monti, Casini può candidarsi a rappresentare quell'esperienza con una lista/partito infarcita di ex ministri; dall'altro, se il governo adotta provvedimenti sempre più indigesti ai fedelissimi di Berlusconi o, per altri motivi, agli ex An, Casini può raccogliere in un nuovo contenitore i transfughi moderati. In entrambe le situazioni ha di fronte a sé le praterie di un voto moderato in cerca di rappresentanza. A questo punto può ritirarsi spaventato di fronte ai grandi spazi e puntare alla rendita di posizione, invocando una nuova legge elettorale di tipo proporzionale. Così, farebbe da ago della bilancia, un ruolo che è congeniale alla sua storia politica. Oppure può "osare" e sostenere una riforma elettorale impostata sul doppio turno alla francese convincendosi che solo con questo sistema le ali più moderate di ciascun schieramento hanno la meglio sui concorrenti più radicali.

L'offerta politica per le prossime elezioni è tutta da definire. L'insoddisfazione per la politica e l'usura dei partiti tradizionali obbligano tutti a cambiare, anche per contenere l'onda grillina che continuerà a montare. A sinistra il Pd sembra il più restio a mutamenti, con tutti i rischi che ne conseguono. A destra il Pdl non sa più cosa fare. I centristi, se vogliono giocare in grande, hanno l'occasione di approfittare di un centro-destra in disarmo. Ma solo il doppio turno realizza un bipolarismo ben temperato.

 
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Titolo: Piero IGNAZI. Cosa vuol fare il Pd da grande?
Inserito da: Admin - Giugno 20, 2012, 11:21:28 pm
Opinione

Cosa vuol fare il Pd da grande?

di Piero Ignazi

Il crollo del centrodestra nei consensi non regala un solo punto percentuale in più al partito di Bersani.

Perché ai suoi vertici c'è un gruppo dirigente ancorato al secolo scorso, e terribilmente autoreferenziale

(18 giugno 2012)

In meno di un anno il rapporto tra PdL e Pd si è capovolto. Non è solo questione di numeri. Certo, la discesa del Popolo della Libertà fa impressione visto che oggi arriva, a fatica, al 20 per cento mentre il Partito democratico mantiene grosso modo le posizioni, tra un 25 e un 28 per cento. E' soprattutto l'immagine della leadership a fare la differenza. Nel PdL l'eclisse di Berlusconi ha lasciato il partito in uno stato tra il luttuoso e lo spaesato. Non c'è più il dominus che guida e rassicura. Angelino Alfano si è rivelato un semplice portavoce e i vari cacicchi pensano a organizzare, ciascuno per proprio conto, le linee di difesa dal naufragio che incombe. E gli elettori del centro-destra, abituati alle certezze granitiche ripetute ad infinitum da tutto il coro dei berluscones, di un partito afono e confuso non sanno che farsene. Infatti rimangono alla finestra in attesa di una alternativa che li rappresenti.

Al confronto, il Pd sembra una roccia. Il segretario ha ricompattato il partito e si butta nella sfida delle primarie con una serenità da "forza tranquilla". Non solo: anche i suoi riottosi alleati non stanno troppo bene. Di Pietro alza i toni perché è usurato quanto il suo contendente storico e insidiato dal grillismo; poi, dietro di lui, il vuoto (o gli Scilipoti e i De Gregorio). Vendola non esce da una nicchia radical-intimista e sostalzialmente periferica che ne azzoppa le ambizioni di leadership nazionale. Eppure, se di fronte al crollo dell'avversario storico il Pd rimane al palo, significa che qualcosa non va. Tre (almeno) sono le zavorre di Bersani.

1) La resistenza corporativa di una classe dirigente che proviene, culturalmente e politicamente, dal Novecento. Esempio: come si fa a nominare un distinto medico come Antonello Soro all'Authority per la Privacy? L'unica spiegazione plausibile è la "retribuzione" (in termini sociologici) a un politico di lungo corso, peraltro non in prima linea, e a una componente del partito (per gli appassionati di archeologia politica: ex Margherita, tendenza Ppi). Secondo esempio: come si fa a non proporre una legge che tagli i benefit ai partiti e a non adottarla subito indipendentemente dalla sua approvazione? L'elenco potrebbe continuare. A dimostrazione che il Pd si mostra terribilmente in linea con i peggiori stereotipi della partitocrazia. E su tutto ciò morde ai polpacci il MoVimento 5 Stelle, questo sì "una costola della sinistra", ma altrettanto ingestibile come l'originale - cioè la Lega nord, così definita da Massimo D'Alema.

2) Il rapporto centro-periferia. In connessione con la chiusura a riccio della classe dirigente il rapporto tra il centro e la periferia mostra le prime crepe. Gli esiti delle primarie evidenziano un impoverimento di quella che era la vera linfa vitale del partito: la sua classe dirigente locale. Quando si fanno errori clamorosi come quelli di Parma (ma è uno tra i tanti) allora vuol dire che anche in periferia il Pd non è più in contatto con la società civile. Con un'élite nazionale autoreferenziale anche i terminali locali si isteriliscono.

3) La legittimazione della leadership. Se il Pd decide che il proprio segretario, eletto appena due anni fa (non vent'anni prima come tutti gli altri), non è legittimato a rappresentare il partito per guidare la coalizione di governo, allora sarebbe tempo di buttare a mare uno statuto fin troppo fantasioso e di ripensare da cima a fondo cosa vuol fare il Pd da grande. In tutti i partiti europei sono i rispettivi leader a guidare il proprio partito o la coalizione nella sfida elettorale. E ovviamente il leader deve essere scelto dai membri del proprio partito, non dagli altri. Il centro-sinistra ha fatto ricorso alle primarie di coalizione, all'epoca, perché il candidato proposto, Romano Prodi, era un "senza partito". Ma quell'eccezione non può diventare la norma. Perché se così fosse non avrebbe più molto senso parlare di "partito".

Meglio affidarsi alla Rete, allora. Magari vien fuori qualche faccia nuova, e non necessariamente brufolosa.

   
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Titolo: Piero IGNAZI. I partiti all'ombra di Monti
Inserito da: Admin - Luglio 11, 2012, 10:04:04 am
I partiti all'ombra di Monti

di Piero Ignazi

Il premier sembrava destinato a finire la sua esperienza sotto la tutela dei vecchi politici. Invece è successo il contrario. E ora la sua presenza 'ingombrante' spaventa i leader

(10 luglio 2012)

Ormai, di Mario Monti i partiti non si libereranno facilmente. Fino alla scorsa settimana, indebolito dall'aggravarsi della crisi con conseguente, crescente riottosità da parte dei cittadini a reggere l'accresciuta imposizione fiscale, da uscite improvvide di alcuni suoi ministri e dalla difficoltà a far funzionare l' apparato amministrativo il presidente del Consiglio sembrava sul punto di consumare la sua esperienza "sotto tutela". Il più baldanzoso di tutti nella carica contro il governo Monti era il redivivo Berlusconi. Al vecchio Cavaliere non pareva vero potersi vendicare di chi l'aveva disarcionato e riprendere a manovrare per linee interne contando su vecchi compagni di strada, come la Lega, e su sponde impreviste, come Antonio Di Pietro.

BERLUSCONI, e con lui molti altri, non hanno però ancora capito che l'arena nazionale non è più il solo "spazio" nel quale si valuta la politica di un esecutivo. Esiste anche una sfera globale i cui giudizi sono sempre più influenti. In quest'ambito i vari governi nazionali sono giudicati in base a un gioco di rimandi tra l'immagine del paese e quella dei suoi leader. Un paese di prima grandezza, solido ed efficiente ma rappresentato da un leader inadeguato abbassa sensibilmente lo standing internazionale della nazione e ne indebolisce l'influenza. La presidenza di Nicolas Sarkozy esemplifica bene questo squilibrio: una nazione rilevante come la Francia ha perso gradualmente di peso nell'arena internazionale proprio a causa della contraddittorietà e inconsistenza del suo presidente. Allo stesso modo, ma in maniera ben più drammatica, la lunga presenza di Silvio Berlusconi alla guida dell'Italia ne ha disastrosamente offuscato l'immagine. Il nostro "downgrading" non inizia improvvisamente l'estate scorsa quando, in effetti, poco era cambiato per far scatenare da un giorno all'altro la speculazione. Semplicemente, da molti anni nella community globale si erano riaffacciati i peggiori stereotipi dell'italiano furbo e pasticcione, affarista e inaffidabile, corrotto e levantino. A un certo momento qualcuno ha detto basta e si è rotta la diga.

MARIO MONTI RAPPRESENTA tutto il contrario agli occhi della comunità internazionale. Ma non è semplice invertire una tendenza al "downgrading". Per dissipare diffidenze e dissolvere stereotipi serve tempo. E anche occasioni speciali, circostanze fortunate. Il Consiglio europeo di Bruxelles del 28-29 giugno ha fornito una di queste preziose opportunità. L'attenzione di tutta la comunità degli affari era concentrata su quell'evento e lì è emerso come protagonista (e vincitore) il presidente Monti. Di fronte a questo successo internazionale l'arena della politica interna rimpicciolisce. I partiti si ritrovano ridimensionati, ricondotti a una condizione di "marginalità" rispetto al governo. I propositi più bellicosi della destra forza-leghista, in versione riveduta e ridotta, per ora, rientrano. Allo stesso tempo, le forze più responsabili del centro e della sinistra, che hanno continuato a difendere il governo, guadagnano spazio. Monti, pur dovendo contare ancora sul voto del Pdl, non può far finta di non vedere o sentire la differenza di toni e giudizi tra destra e centro-sinistra. Dovrebbe prenderne atto. E distinguere anche chi nel Pdl ha atteggiamenti concilianti e chi vuole invece sfasciare tutto. Il governo oggi è più forte. Si è ricreata una situazione da nuovo inizio. Può finalmente prendere quelle decisioni che fin qui ha rimandato per mancanza di convinzione o coraggio: tagliare rendite e privilegi, sprechi e ruberie, evasioni ed elusioni; favorire merito e intrapresa, giustizia e legalità, risparmio e lavoro. Ora è lecito attendersi uno scatto in avanti.

   
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Titolo: Piero IGNAZI. Bersani, non fare come Occhetto
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2012, 04:30:58 pm
Opinione

Bersani, non fare come Occhetto

di Piero Ignazi

Nel '94 il leader del Pds veniva da elezioni locali vincenti, era dato in testa dai sondaggi e aveva messo in piedi una coalizione pronta ad acchiappare tutto. Poi finì come sappiamo. Ora il Pd rischia di fare la stessa fine

(11 settembre 2012)

Il Pd vede materializzarsi lo spettro del 1994 giorno dopo giorno. Allora il maggior partito della sinistra, il Pds, aveva costruito una coalizione destinata (così sembrava) a vincere le elezioni politiche dopo i ripetuti successi alle comunali in tutte le grandi città, Milano esclusa. Era la "gioiosa macchina da guerra" di Achille Occhetto. Anche oggi il Pd si avvia verso la prossima scadenza elettorale nella convinzione di essere il vincitore designato. Invece ci sono molte incognite lungo il percorso. Almeno quattro.

Una riguarda il campo avverso. La preannunciata implosione del Pdl si è rivelta più un wishful thinking (un pio desiderio, in altri termini) che un'ipotesi concreta. Il ritorno in campo di Silvio Berlusconi ha azzerato tutte le velleità di vita autonoma dei vari sub-leader. Con le buone o le cattive, il Cavaliere ha convinto ex An e moderati in perenne sofferenza a convivere ancora con lui. E ha archiviato il rapporto con l'amico Umberto Bossi per annodare legami cordiali con il nuovo gruppo dirigente leghista. La sicumera ostentata da Roberto Formigoni al convegno di Comunione e liberazione è rivelatrice del buon feeling con Bobo Maroni. La rinnovata unità del vecchio centro-destra che capacità di attrazione avrà sulle nuove liste moderate e centriste pronte a schierarsi?

LA SECONDA INCOGNITA si chiama Mario Monti. Il presidente del Consiglio ha ripetutamente affermato che la sua esperienza politica (di governo) si chiuderà alla fine della legislatura e non c'è motivo di dubitare delle sue parole. Ma la politica del governo Monti non è solo una parentesi bensì costituisce un lascito. Alcune scelte sono state affrettate, inadeguate o persino illusorie (che ne è dell'equità?) ma è su di esse che ci si confronterà in campagna elettorale. Qual è il grado di «distinzione senza sconfessione» che il Pd è in grado di articolare senza perdere la faccia né spaccarsi?

A questo dilemma si connette il terzo punto: la strategia delle alleanze. Non c'è dubbio che l'elettorato e il personale politico dei democratici siano molto più vicini a Sel rispetto all'Udc. Ma oggi il Pd governa con l'Udc mentre Sel è all'opposizione. La partecipazione, convinta e sofferta allo stesso tempo, del Pd al governo Monti impedisce un abbraccio esclusivo con Vendola. La sconfessione di quell'esperienza farebbe perdere a Bersani la credibilità guadagnata in questi mesi anche a livello internazionale. La domanda che circola nelle cancellerie e nel mondo economico finanziario riguarda proprio la figura del successore di Monti. Per questo il Pd non può flirtare con chi esibisce propositi euroscettici, a incominciare dai grillini. E anche Vendola deve chiarire ogni ambiguità in merito.

INFINE LA QUARTA INCOGNITA - il nuovo (?) sistema elettorale - potrebbe rappresentare la soluzione dei problemi del Pd. Il ritorno al proporzionale e il mantenimento del Porcellum sono due sciagure. Il proporzionale produce alta frammentazione, nessuna indicazione su chi governerà, coalizioni mutevoli e instabili con una golden share in mano a Casini e ulteriori nuovi compagni di cordata. Un incubo. Il Porcellum a Bersani andrebbe benissimo: con chiunque si allei le probabilità di vittoria sono alte. Però rimane il problema di governare, che non è irrilevante. Il maggioritario a doppio turno, alla francese, è invece la soluzione ideale. Il Pd diventa l'inevitabile polo di attrazione di tutta la sinistra e allo stesso tempo può offrire spazio all'Udc in una coalizione ampia ma "gestita" dal partito maggiore senza troppi condizionamenti. Finalmente la governabilità. La posta in gioco è importante: da come il partito di Bersani affronterà le quattro incognite che gravano sul suo futuro dipende non solo il destino del Pd ma quello del nostro sistema.

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Titolo: Piero IGNAZI. Bersani, non fare come Occhetto
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 05:01:44 pm
Opinione

Bersani, non fare come Occhetto

di Piero Ignazi

Nel '94 il leader del Pds veniva da elezioni locali vincenti, era dato in testa dai sondaggi e aveva messo in piedi una coalizione pronta ad acchiappare tutto. Poi finì come sappiamo. Ora il Pd rischia di fare la stessa fine

(11 settembre 2012)

Il Pd vede materializzarsi lo spettro del 1994 giorno dopo giorno. Allora il maggior partito della sinistra, il Pds, aveva costruito una coalizione destinata (così sembrava) a vincere le elezioni politiche dopo i ripetuti successi alle comunali in tutte le grandi città, Milano esclusa. Era la "gioiosa macchina da guerra" di Achille Occhetto. Anche oggi il Pd si avvia verso la prossima scadenza elettorale nella convinzione di essere il vincitore designato. Invece ci sono molte incognite lungo il percorso. Almeno quattro.

Una riguarda il campo avverso. La preannunciata implosione del Pdl si è rivelta più un wishful thinking (un pio desiderio, in altri termini) che un'ipotesi concreta. Il ritorno in campo di Silvio Berlusconi ha azzerato tutte le velleità di vita autonoma dei vari sub-leader. Con le buone o le cattive, il Cavaliere ha convinto ex An e moderati in perenne sofferenza a convivere ancora con lui. E ha archiviato il rapporto con l'amico Umberto Bossi per annodare legami cordiali con il nuovo gruppo dirigente leghista. La sicumera ostentata da Roberto Formigoni al convegno di Comunione e liberazione è rivelatrice del buon feeling con Bobo Maroni. La rinnovata unità del vecchio centro-destra che capacità di attrazione avrà sulle nuove liste moderate e centriste pronte a schierarsi?

LA SECONDA INCOGNITA si chiama Mario Monti. Il presidente del Consiglio ha ripetutamente affermato che la sua esperienza politica (di governo) si chiuderà alla fine della legislatura e non c'è motivo di dubitare delle sue parole. Ma la politica del governo Monti non è solo una parentesi bensì costituisce un lascito. Alcune scelte sono state affrettate, inadeguate o persino illusorie (che ne è dell'equità?) ma è su di esse che ci si confronterà in campagna elettorale. Qual è il grado di «distinzione senza sconfessione» che il Pd è in grado di articolare senza perdere la faccia né spaccarsi?

A questo dilemma si connette il terzo punto: la strategia delle alleanze. Non c'è dubbio che l'elettorato e il personale politico dei democratici siano molto più vicini a Sel rispetto all'Udc. Ma oggi il Pd governa con l'Udc mentre Sel è all'opposizione. La partecipazione, convinta e sofferta allo stesso tempo, del Pd al governo Monti impedisce un abbraccio esclusivo con Vendola. La sconfessione di quell'esperienza farebbe perdere a Bersani la credibilità guadagnata in questi mesi anche a livello internazionale. La domanda che circola nelle cancellerie e nel mondo economico finanziario riguarda proprio la figura del successore di Monti. Per questo il Pd non può flirtare con chi esibisce propositi euroscettici, a incominciare dai grillini. E anche Vendola deve chiarire ogni ambiguità in merito.

INFINE LA QUARTA INCOGNITA - il nuovo (?) sistema elettorale - potrebbe rappresentare la soluzione dei problemi del Pd. Il ritorno al proporzionale e il mantenimento del Porcellum sono due sciagure. Il proporzionale produce alta frammentazione, nessuna indicazione su chi governerà, coalizioni mutevoli e instabili con una golden share in mano a Casini e ulteriori nuovi compagni di cordata. Un incubo. Il Porcellum a Bersani andrebbe benissimo: con chiunque si allei le probabilità di vittoria sono alte. Però rimane il problema di governare, che non è irrilevante. Il maggioritario a doppio turno, alla francese, è invece la soluzione ideale. Il Pd diventa l'inevitabile polo di attrazione di tutta la sinistra e allo stesso tempo può offrire spazio all'Udc in una coalizione ampia ma "gestita" dal partito maggiore senza troppi condizionamenti. Finalmente la governabilità. La posta in gioco è importante: da come il partito di Bersani affronterà le quattro incognite che gravano sul suo futuro dipende non solo il destino del Pd ma quello del nostro sistema.

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Titolo: Piero IGNAZI. Ma non lasciate il M5S alla destra
Inserito da: Admin - Dicembre 07, 2012, 04:37:12 pm
Opinione

Ma non lasciate il M5S alla destra

di Piero Ignazi

Il successo delle primarie rivela che la sinistra può sfidare con successo l'onda di disprezzo verso i partiti. Purché abbandoni quello sdegno altezzoso verso le (molte) persone che trovano in Grillo qualcosa di buono

(29 novembre 2012)

I partiti fanno tutti schifo come urla Beppe Grillo? A giudicare dall'affluenza alle primarie del centro-sinistra sembra proprio di no.
La partecipazione di più di 3 milioni di persone mette un freno alla polemica anti-partitica di cui si è fatto interprete principe il comico genovese: quando ci sono occasioni per partecipare alle scelte in modo diretto, trasparente e pulito i cittadini rispondono ancora.
Forti di questo successo il Pd e i suoi alleati possono affrontare l'onda grillina con maggiore tranquillità. Ed evitare di dipingere il M5S per quello che non è. Infatti, contro Grillo partono subito due accuse: populista e antipolitico. Sbagliate entrambe. Pur muovendosi sul filo della contrapposizione manichea, della divisione netta in due mondi separati e incomunicabili - noi buoni e loro cattivi - e rifiutando la logica della mediazione che è il cuore della politica, Grillo non definisce le istituzioni un ostacolo alla realizzazione della vera democrazia.
Certo, strapazza i partiti ed esalta i cittadini però non crede che la loro volontà debba imporsi al di là dei meccanismi istituzionali rappresentativi, né che la loro voce sia solo quella del capo.

FORSE PURE GRILLO NASCONDE pulsioni autoritarie, tuttavia le sue scomuniche - ingiustificabile quella sessista contro Federica Salsi - riflettono anche la difficoltà e lo spaesamento nel gestire una "cosa" che cresce esponenzialmente. E' il classico percorso dei movimenti. In questa fase tumultuosa non sorprende il verticismo del M5S, né che si intrecci con espressioni estreme della democrazia di base, quali le assemblee dei militanti che danno ogni sei mesi il voto agli eletti. Pan-partecipazionismo, rispondenza alla base, tentativi di democrazia deliberativa convivono, per ora, con la struttura di comando monocratica e auto-legittimata del capo. Ma dovranno arrivare a una definizione dei ruoli, sperabilmente democratica e bottom up.

Anche l'accusa di antipolitica non morde. Il sentimento antipolitico è tipico del qualunquismo, di chi rifiuta la politica in toto e la rifugge come una attività sporca e disonorevole in favore vuoi di un capo carismatico vuoi di un governo di tecnici - basta un bravo ragioniere al comando, diceva Guglielmo Giannini dell'Uomo Qualunque negli anni Quaranta. L'antipolitica non prevede partecipazione attiva, mobilitazione, impegno: è sinonimo di deresponsabilizzazione, di delega totale a fronte di un'attività, quella politica, considerata lontana, complessa e fastidiosa. Tutto il contrario dell'attivismo civico dei grillini.

PASSANDO AI CONTENUTI, dove si colloca Grillo? A destra o a sinistra? Chi abbia seguito nel tempo il suo blog ritrova molti tratti tipici della cosiddetta new politics degli anni Ottanta: ambiente, qualità della vita, consumatori, partecipazione attiva, critica ai partiti burocratizzati e autoreferenziali. Tutti temi tipici dei partiti verdi europei. Questo nocciolo classico è arricchito dalle tematiche dell'accesso alla rete, del digital divide, del copyright, che riecheggiano, anche qui con variazioni e sfumature, nei Pirati scandinavi e tedeschi. Va aggiunta una sensibilità per i diritti civili, dalla questione immigrazione alle brutalità poliziesche nelle manifestazioni, ai diritti sociali colpiti dalla crisi.

Nel suo insieme, M5S esprime quelle tendenze post-materialiste che dopo l'inabissamento dei verdi e dei radicali non hanno più avuto rappresentanza. E le esprime con la radicalità e l'asprezza tipica dei nuovi arrivati sulla scena politica. Grillo e i suoi saranno attori rilevanti del sistema partitico. Meglio che il centro-sinistra dismetta lo sdegno altezzoso con cui li tratta e ne comprenda le aspirazioni che provengono dal suo stesso mondo. Fin qui M5S ha drenato voti soprattutto dal centro-sinistra, ma non solo. Con la sua espansione elettorale ora attira consensi trasversali, mobilitati dal disgusto e dalla rabbia contro la classe politica. E questi sentimenti si annidano prevalentemente a destra. Con il grimaldello antipartitocratico Grillo erode il blocco elettorale del centro-destra. E' il primo a riuscirci in vent'anni. Rifiutare ogni rapporto con M5S con il rischio di non ancorare a sinistra questi voti in libera uscita sarebbe un'altra occasione persa.

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Titolo: Piero IGNAZI. Com'è finito male Monti
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2013, 10:50:25 am
Com'è finito male Monti

di Piero Ignazi

Abbandonata la sobrietà, il premier uscente sta facendo una campagna elettorale con la tuta mimetica. Pensa così di sottrarre voti a Berlusconi o a Grillo, invece sta solo danneggiatndo la sua reputazione

(06 febbraio 2013)

Da vent'anni, anche in Italia, si è affermata una logica di alternanza tra schieramenti contrapposti. Mario Monti sta cercando di rompere questo schema. Fin da subito si è proposto come il federatore degli scontenti del bipolarismo, facendo appello ai veri riformisti del centro-destra e del centro-sinistra. Ma il suo invito è stato raccolto da pochissime personalità. Soprattutto, non ha sfondato a destra. Questa scarsa adesione, dovuta anche alle esitazioni del Professore nel "salire" in campo, dando così tempo al Cavaliere per recuperare i suoi, ha mandato all'aria le prospettive di una rapida riconfigurazione del sistema partitico. Solo se Monti avesse attratto una componente significativa di esponenti pidiellini l'ipotesi strategica di un nuovo fronte moderato avrebbe preso corpo. Ora, invece, il centro si trova stretto tra le due coalizioni "tradizionali".

Per rompere questa tenaglia l'ex rettore della Bocconi ha abbandonato il loden per indossare la tuta mimetica del combattente. Un ruolo che non gli si addice. Lo stile sobrio e misurato era la sua cifra identificativa. Abbandonarsi a espressioni tipiche della lotta politica, inevitabilmente sanguigne e a volte volgari, deturpa la sua immagine. Se Monti non si distingue più dagli altri per ragionevolezza ed equilibrio perde quell'aura di competenza e serietà che gli è valsa tanti riconoscimenti. La sua mutazione, però, non riguarda tanto la perdita dell'aplomb, quanto i contenuti che sta proponendo.

L'Agenda Monti era, grosso modo, in continuità con le linee programmatiche del governo da lui presieduto. La campagna elettorale che sta conducendo va invece in tutt'altra direzione. Prendiamo il caso del fisco. Dopo aver posto in cima alle emergenze nazionali la questione dell'evasione fiscale, e aver delegittimato con forza tutte le "scuse" avanzate dagli evasori, ora sembra essersene dimenticato. Equitalia viene lasciata sola di fronte alle accuse di terrorismo fiscale e si disconosce la paternità del redditometro. In più, Monti partecipa al balletto delle promesse di riduzione delle tasse, ivi compresa l'Imu, sconfessando implicitamente la validità di una imposta sulla casa. In sostanza, insegue Pdl e Lega sul loro terreno, senza avere la forza o il coraggio di mantenere la barra dritta su una posizione di autentico rigore. L'altro disconoscimento di uno dei tratti innovativi del montismo riguarda l'equità, corollario alla lotta all'evasione. L'idea che chi più ha più dà, si è persa per strada. Nemmeno l'insistenza dell'amministrazione Obama su questo punto ha fatto breccia nel Professore.

Abbandonati questi punti di convergenza oggettivi con il programma del centro-sinistra, Monti ha aperto il fuoco contro il Pd accusandolo di essere succube della triade diabolica Fassina-Vendola-Camusso.

Questo atteggiamento conflittuale nei confronti della sinistra riflette due intenti diversi. Da un lato può essere la cartina di tornasole dell'anima moderata-conservatrice di Monti, fedele all'ortodossia neoliberista senza tenere in conto i disastri prodotti e le autocritiche più autorevoli: da ultimo il rapporto del direttore del Research department del Fmi, Oliver Blanchard, che ammette gli errori di sottovalutazione della contrazione del reddito provocato delle misure di austerità imposte. In quest'ottica, Monti rappresenta la vera alternativa alla sinistra e solo l'anomalia forzaleghista lo obbliga a una "faticosa" e poco gratificante collocazione centrista.

D'altro lato questa curvatura moderata può tingersi di necessità tattica per conquistare quell'elettorato di destra ancora indeciso se astenersi o ritornare all'ovile (o votare Grillo). Anche se l'80 per cento degli ex elettori di destra non danno un buon giudizio sul governo tecnico è quello il bacino cui attingere.

Qualunque siano i motivi della mutazione del Professore, rivelatori o tattici, in ogni caso Monti perde l'appeal del leader tutto concentrato sulla risoluzione dei problemi del paese. Diventa uno dei contendenti della campagna elettorale. E, finora, senza distaccarsene né per stile né per contenuti.

   
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Titolo: Piero IGNAZI. Pier Luigi, lascia stare
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2013, 12:03:22 pm
Opinione

Pier Luigi, lascia stare

di Piero Ignazi

Il segretario ha il merito di aver imboccato la via del rinnovamento e dell'ascolto del suo elettorato. Ma lo ha fatto troppo tardi e ora c'è chi può interpretare questa strategia meglio di lui

(27 marzo 2013)

Il Partito Democratico ha una strada obbligata per uscire dall'impasse in cui si ritrova: sfidare il Movimento 5 Stelle, sia obbligandolo a scegliere nelle aule parlamentari, sia incalzandolo sul suo stesso terreno della riforma della politica per recuperare quegli elettori che sono passati al partito di Grillo per "protesta".

Non che il M5S sia un partito di sola protesta. Chi seguiva il blog di Beppe Grillo vedeva proliferare una miriade di iniziative locali, circoscritte e concrete, incentrate soprattutto su temi ambientali e della vivibilità quotidiana. Questo associazionismo di base, che si nutre dell'informazione, risonanza e aggregazione che la Rete può offrire, ha un profilo da "responsabilità civica". Gli amici di Mario Monti non si sentano defraudati del loro titolo di civici a 24 carati: in realtà è nell'associazionismo di base più che nei circoli ristretti dell'establishment che oggi si esprime il desiderio-bisogno dei cittadini di riprendere in mano il loro destino.

Le componenti più attive di questi gruppi locali costituiscono l'ossatura militante del M5S, quella più partecipante e critica. A costoro si sono poi aggiunte valanghe di elettori, attratti dalle invettive palingenetiche del guru genovese.
Il consenso è arrivato da ogni sponda politica, a 360 gradi, protestando contro tutto e tutti; ma nel fondo si intravede in filigrana un atteggiamento di sfiducia nei confronti della sinistra tradizionale che ha tradito speranze e attese.

Per recuperare consenso il Pd non può che puntare in quella direzione. Lì ci sono i suoi elettori delusi. E sono molti. L'inseguimento affannoso di Monti e lo scusarsi continuo per l'alleanza con il bolscevico di Bari poteva soddisfare ambienti economici e influenti opinion-makers, ma smagava vastissime platee di potenziali elettori. Il Pd non aveva capito quanto fosse forte la domanda di cambiamento e di radicalità nell'opinione pubblica. Ora sembra aver colto il messaggio: le candidature di Laura Boldrini e di Pietro Grasso alla presidenza di Camera e Senato vanno nella direzione giusta. Aprono una breccia nei grillini e scalfiscono la diffidenza dei suoi ex sostenitori. Una volta imboccata questa strada, difficilmente il Pd potrà tornare indietro, vale a dire riprendere il corteggiamento centrista o addirittura pensare ad accordi con Berlusconi.


Un altro governo di unità nazionale caldeggiato a gran voce dal Pdl proprio per uscire dall'isolamento in cui si ritrova, è implausibile: sarebbe suicida che proprio adesso il Pd rinunci al conflitto di interessi e al falso in bilancio, dopo che per tutta la campagna elettorale è stato inchiodato alla sua inerzia su questi temi. Quindi se Bersani vuole stanare i grillini dal loro infantilismo istituzionale e dalle loro contraddizioni politiche non gli rimane che procedere nel rinnovamento; un rinnovamento che dovrà avere - come già dimostra - una curvatura radicale.

In questo quadro, le azioni di Matteo Renzi, invocato fino a ieri come l'ancora di salvezza, sono in ribasso. Il sindaco di Firenze si era accreditato come l'uomo della trasversalità che poteva attrare consensi da destra e dal centro. Una ipotesi, questa, che non prevedeva né il 25 per cento di voti al M5S, né il collasso del Pdl. Restringere ulteriormente la destra già oggi al suo minimo storico e ben lontana dai trionfi di cinque anni fa, è impossibile.

Forse qualcosina si può rosicchiare dai centristi in disfacimento. Ma il grosso dell'elettorato contendibile sta dalle parti dei grillini. E quindi: qual è l'appeal di Renzi nei confronti della platea degli arrabbiati e dei delusi? Rinnovando-rottamando la classe dirigente del Pd, e proponendo una agenda d'attacco e di riforma della politica, l'usato sicuro di Bettola ha ingranato una nuova marcia. Anche se poi sbanda alla curva di Palazzo Chigi, la strategia del recupero di quel 25 per cento non cambia. Qualcun altro la può interpretare meglio, ma il campo
è aperto.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/pier-luigi-lascia-stare/2203317/18


Titolo: Piero IGNAZI. Pier Luigi, lascia stare
Inserito da: Admin - Aprile 02, 2013, 12:23:42 pm
Pier Luigi, lascia stare

di Piero Ignazi

Il segretario ha il merito di aver imboccato la via del rinnovamento e dell'ascolto del suo elettorato. Ma lo ha fatto troppo tardi e ora c'è chi può interpretare questa strategia meglio di lui

(27 marzo 2013)

Il Partito Democratico ha una strada obbligata per uscire dall'impasse in cui si ritrova: sfidare il Movimento 5 Stelle, sia obbligandolo a scegliere nelle aule parlamentari, sia incalzandolo sul suo stesso terreno della riforma della politica per recuperare quegli elettori che sono passati al partito di Grillo per "protesta".

Non che il M5S sia un partito di sola protesta. Chi seguiva il blog di Beppe Grillo vedeva proliferare una miriade di iniziative locali, circoscritte e concrete, incentrate soprattutto su temi ambientali e della vivibilità quotidiana. Questo associazionismo di base, che si nutre dell'informazione, risonanza e aggregazione che la Rete può offrire, ha un profilo da "responsabilità civica". Gli amici di Mario Monti non si sentano defraudati del loro titolo di civici a 24 carati: in realtà è nell'associazionismo di base più che nei circoli ristretti dell'establishment che oggi si esprime il desiderio-bisogno dei cittadini di riprendere in mano il loro destino.

Le componenti più attive di questi gruppi locali costituiscono l'ossatura militante del M5S, quella più partecipante e critica. A costoro si sono poi aggiunte valanghe di elettori, attratti dalle invettive palingenetiche del guru genovese.
Il consenso è arrivato da ogni sponda politica, a 360 gradi, protestando contro tutto e tutti; ma nel fondo si intravede in filigrana un atteggiamento di sfiducia nei confronti della sinistra tradizionale che ha tradito speranze e attese.

Per recuperare consenso il Pd non può che puntare in quella direzione. Lì ci sono i suoi elettori delusi. E sono molti. L'inseguimento affannoso di Monti e lo scusarsi continuo per l'alleanza con il bolscevico di Bari poteva soddisfare ambienti economici e influenti opinion-makers, ma smagava vastissime platee di potenziali elettori. Il Pd non aveva capito quanto fosse forte la domanda di cambiamento e di radicalità nell'opinione pubblica. Ora sembra aver colto il messaggio: le candidature di Laura Boldrini e di Pietro Grasso alla presidenza di Camera e Senato vanno nella direzione giusta. Aprono una breccia nei grillini e scalfiscono la diffidenza dei suoi ex sostenitori. Una volta imboccata questa strada, difficilmente il Pd potrà tornare indietro, vale a dire riprendere il corteggiamento centrista o addirittura pensare ad accordi con Berlusconi.

Un altro governo di unità nazionale caldeggiato a gran voce dal Pdl proprio per uscire dall'isolamento in cui si ritrova, è implausibile: sarebbe suicida che proprio adesso il Pd rinunci al conflitto di interessi e al falso in bilancio, dopo che per tutta la campagna elettorale è stato inchiodato alla sua inerzia su questi temi. Quindi se Bersani vuole stanare i grillini dal loro infantilismo istituzionale e dalle loro contraddizioni politiche non gli rimane che procedere nel rinnovamento; un rinnovamento che dovrà avere - come già dimostra - una curvatura radicale.

In questo quadro, le azioni di Matteo Renzi, invocato fino a ieri come l'ancora di salvezza, sono in ribasso. Il sindaco di Firenze si era accreditato come l'uomo della trasversalità che poteva attrare consensi da destra e dal centro. Una ipotesi, questa, che non prevedeva né il 25 per cento di voti al M5S, né il collasso del Pdl. Restringere ulteriormente la destra già oggi al suo minimo storico e ben lontana dai trionfi di cinque anni fa, è impossibile.

Forse qualcosina si può rosicchiare dai centristi in disfacimento. Ma il grosso dell'elettorato contendibile sta dalle parti dei grillini. E quindi: qual è l'appeal di Renzi nei confronti della platea degli arrabbiati e dei delusi? Rinnovando-rottamando la classe dirigente del Pd, e proponendo una agenda d'attacco e di riforma della politica, l'usato sicuro di Bettola ha ingranato una nuova marcia. Anche se poi sbanda alla curva di Palazzo Chigi, la strategia del recupero di quel 25 per cento non cambia. Qualcun altro la può interpretare meglio, ma il campo
è aperto.

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Titolo: Piero IGNAZI. Ma io dico: bravo Bersani
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2013, 11:42:43 pm
Opinioni

Ma io dico: bravo Bersani

di Piero Ignazi

Dopo le elezioni, il segretario è stato umile e coraggioso nel confronto con il M5S. Eppure nel partito è scattato il riflesso automatico dell'accordo con la destra. Che porterebbe solo catastrofi

(16 aprile 2013)

In questa fase post-elettorale si continua a rimuovere la realtà dei fatti; e ciò genera (almeno) tre illusioni. La prima riguarda il rifiuto del nuovo, dell'imprevisto, dell'inedito, come se ci trovassimo ancora inchiodati al vecchio schema centro-destra contro contro-sinistra. Nulla di più lontano dalla realtà. I due schieramenti alternativi che si sono combattuti per questi vent'anni sono stati travolti dallo tsunami grillino.

Qualche dato per vedere meglio la dimensione "storica" di questo risultato. Il Movimento 5 Stelle è il primo partito in sei regioni, in 50 province e in 2.697 comuni (33,6 per cento), appena dietro il Pd, che è primo in 2.799 comuni (34,9), e distanziando nettamente il Pdl, in testa in 2013 comuni (25,1) secondo elaborazioni dell'Istituto Cattaneo). In questo ventennio soltanto Forza Italia nel 2001, e Pd e Pdl, a loro volta fusioni di più partiti, avevano ottenuto più voti del M5S. (La Lega, tanto per segnalare il suo precipitoso declino, è prima in appena 267 comuni, che rappresentano il 3,3 per cento del totale). Sono forse voti in libera uscita, soprattutto dal Pd, ma non è detto che ritornino tutti all'ovile soprattutto se il buon pastore prende la strada sbagliata. Sono voti che esprimono frustrazione e insofferenza ma anche voglia di cambiamento.

L'unico ad averlo capito è il cireneo Bersani che ha avuto l'umiltà e il coraggio di rivolgersi a loro senza quella supponenza tante volte rimproverata alla sinistra. Il segretario del Pd ha seguito le orme di quei (pochi) leader della sinistra d'un tempo che erano andati a dialogare con il movimento studentesco ricevendo, inevitabilmente, una montagna di sberleffi e insulti. Curioso che nessuno abbia messo in rilievo che nell'arroganza infantile dei capigruppo grillini risuonava la stessa tracotanza di chi, all'epoca, veleggiava fiero a guidare la rivoluzione proletaria e scherniva gli imborghesiti rappresentanti della sinistra storica. Corsi e ricorsi della politica.

Invece di apprezzarne l'apertura e la mancanza di alterigia, Bersani è stato rimproverato e ulteriormente irriso. Con i grillini, invece, bisognava parlare ?€“ e bisogna insistere - perché loro, non il sopravvissuto Berlusconi, rappresentano il nuovo, quanto si è smosso nella società italiana. Il linguaggio del M5S potrà irritare (l'idolatrato Bossi era forse un damerino della politica?), tuttavia l'anima corrosa e stanca dell'Italia si è indirizzata verso di loro. Invece monta all'interno del Pd il riflesso catto-comunista del compromesso storico in versione riveduta e corretta: le grandi forze responsabili che si uniscono per il bene del paese.
E qui arriva la seconda illusione, e cioè che il Pdl sia una forza politica affidabile e "presentabile". Se lo si considera tale, allora era sbagliata l'interpretazione del berlusconismo come responsabile dello sfascio economico-sociale, e anche etico, di questo paese. Quindi, che i sostenitori dell'incontro con Berlusconi facciano ammenda dei loro errori passati.

La terza illusione è che il centro-destra e il Pdl rappresentino ancora l'altra metà dell'elettorato, l'unica controparte in campo. Non è più così. Il Pdl è un partito in disarmo, quasi scomparso al nord e rifugiatosi in Puglia (governatore Vendola, qualche mea culpa?), in Campania, nel Lazio esclusa Roma, e in qualche altra zona sparsa qua e là. Solo la sprovvedutezza o i calcoli interessati di qualche dirigente democrat possono riportarlo a galla.

Ottimo esempio di questa pulsione suicida è lo scambio Quirinale-Palazzo Chigi, dove i "responsabili" del Pd offrono agli avversari una posizione sicura per sette anni in cambio di un appoggio di qualche mese a un governo rachitico. Non a caso Renzi e i suoi sono favorevoli a questa ipotesi. Un accordo con il Pdl significa un ritorno al passato, al vecchio, cosa che consentirebbe al sindaco di Firenze di presentarsi poi come la vera novità rispetto alla solita contrapposizione tra Pd e Pdl. Qualora andasse in porto questa operazione, il futuro è disegnato: un centro riformista guidato da Renzi contro una opposizione radicale guidata da Grillo. De gustibus...

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Titolo: Piero IGNAZI. Il Pd ha perso la sinistra
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2013, 11:20:25 pm

Opinione

Il Pd ha perso la sinistra

di Piero Ignazi

Nei prossimi mesi, inevitabilmente, gli italiani che hanno votato democratico per 'smacchiare il giaguaro' si rivolgeranno altrove. Quanti saranno, ancora non si sa. Ma il M5S è pronto a fare il pieno

(06 maggio 2013)

Pier Luigi Bersani Pier Luigi BersaniGli attori politici tradizionali continuano a non prendere atto del cambiamento tellurico avvenuto nella politica italiana: la sua scomposizione in partes tres. All'inizio, Pier Luigi Bersani ha cercato di farvi fronte, peraltro maldestramente e poco convintamente, ma subito è rimasto schiacciato tra i custodi dell'ortodossia bipolare e le arroganze imberbi e isteriche dei grillini. A parte quella parentesi sfortunata, tutti si muovono come nulla fosse successo, come ai vecchi tempi della contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra. La sopravvivenza di questo schema mentale, oltre al servilismo dei media e alla improntitudine degli avversari, oltre alle risorse del suo padre padrone (chi sarà il prossimo de Gregorio?), ha consentito al Pdl di rimanere al centro della scena.

In quale altro paese al mondo un partito che perde sei milioni di voti e precipita dal 37 al 21 per cento continuerebbe a godere dell'ammirazione sconfinata non solo dei suoi membri ma anche di quella degli avversari e di buona parte degli "osservatori"? Vi immaginate un leader britannico, francese o inglese ancora in sella ed omaggiato dopo una tale catastrofe? Tant'è per spiegare ancora una volta l'eccezionalità italiana. Che comunque si è arricchita di altro aspetto, forse destinato a diffondersi in Europa.

Mentre il berlusconismo è un prodotto italico che solo da noi poteva attecchire vista la possibilità di concentrare tanti poteri nelle mani di una persona sola (e ci sono soi-disant liberali che sostengono il Cavaliere...) e l'irrilevanza di ogni criterio etico-morale nell'opinione pubblica, il grillismo può invece fare scuola. Il suo impasto antipolitico-postmaterialista, che coniuga insoddisfazione e rabbia nei confronti di un sistema politico-economico inefficiente e corrotto con proposte ecologico-solidali (dall'energia rinnovabile al salario di cittadinanza), tocca le corde di un'opinione pubblica europea disincantata, insoddisfatta ma non "arretrata" . Mentre i populismi di destra attraggono le componenti culturalmente più tradizionaliste e socialmente più marginali, il populismo postmaterialista del M5S pesca anche tra elettori giovani e con buon livello di istruzione. La produzione a getto continuo di iperboli e insulti da parte di Beppe Grillo e il suo stile da irriverente joker, oltre a una rappresentanza parlamentare al di sotto di ogni immaginazione - dalla biliosa maestrina Lombardi al pingue arruffone Crimi - rischiano ora di relegare il M5S nel folkloristico. Con la conseguenza che gli altri attori continuano a comportarsi come se i grillini non ci fossero, come se non rappresentassero un quarto dell'elettorato.

Come si è visto, il primo a subire le conseguenze di questa ottusità è stato proprio il Pd. E infatti, dopo essersi ritratto sdegnato da una possibile intesa con il M5S su un nome condiviso ?€“ e ce n'erano, eccome - , la "ditta", ormai in fallimento, è andata a genuflettersi di fronte a Berlusconi. Certo, lo streaming di Bersani bruciava ancora. Ma questo atteggiamento di chiusura fa perdere al Pd il contatto con un mondo non pregiudizialmente ostile alla sinistra, semmai popolato di delusi e arrabbiati da recuperare. E lo si lascia veleggiare con il vento in poppa nelle acque dell'opposizione.

L'incombente, e ulteriore, governo di emergenza che rimastica la vecchia maggioranza montiana (se Mario Monti non si fosse fatto contagiare dal virus della politica un governo di questo genere sarebbe stato fatto in un battibaleno...) dovrà fronteggiare una contestazione parlamentare di sinistra ben più vivace rispetto al passato. Mentre la Lega non ha più voce né rilievo, e forse farà parte del coro, il M5S ha tutta l'energia dei nuovi movimenti. Ovviamente, il bersaglio prediletto di questa opposizione sarà il Partito democratico. Forse il Pd sottovaluta la pressione congiunta che viene da nuovi antagonisti privi di ogni stigma di sinistra radical old style e dalla sua stessa base.


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Titolo: Piero IGNAZI. Il Pd ha perso la sinistra
Inserito da: Admin - Maggio 24, 2013, 11:10:14 am
Opinione

Il Pd ha perso la sinistra

di Piero Ignazi

Nei prossimi mesi, inevitabilmente, gli italiani che hanno votato democratico per 'smacchiare il giaguaro' si rivolgeranno altrove.
Quanti saranno, ancora non si sa. Ma il M5S è pronto a fare il pieno

(06 maggio 2013)

Gli attori politici tradizionali continuano a non prendere atto del cambiamento tellurico avvenuto nella politica italiana: la sua scomposizione in partes tres. All'inizio, Pier Luigi Bersani ha cercato di farvi fronte, peraltro maldestramente e poco convintamente, ma subito è rimasto schiacciato tra i custodi dell'ortodossia bipolare e le arroganze imberbi e isteriche dei grillini. A parte quella parentesi sfortunata, tutti si muovono come nulla fosse successo, come ai vecchi tempi della contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra. La sopravvivenza di questo schema mentale, oltre al servilismo dei media e alla improntitudine degli avversari, oltre alle risorse del suo padre padrone (chi sarà il prossimo de Gregorio?), ha consentito al Pdl di rimanere al centro della scena.

In quale altro paese al mondo un partito che perde sei milioni di voti e precipita dal 37 al 21 per cento continuerebbe a godere dell'ammirazione sconfinata non solo dei suoi membri ma anche di quella degli avversari e di buona parte degli "osservatori"? Vi immaginate un leader britannico, francese o inglese ancora in sella ed omaggiato dopo una tale catastrofe? Tant'è per spiegare ancora una volta l'eccezionalità italiana. Che comunque si è arricchita di altro aspetto, forse destinato a diffondersi in Europa.

Mentre il berlusconismo è un prodotto italico che solo da noi poteva attecchire vista la possibilità di concentrare tanti poteri nelle mani di una persona sola (e ci sono soi-disant liberali che sostengono il Cavaliere...) e l'irrilevanza di ogni criterio etico-morale nell'opinione pubblica, il grillismo può invece fare scuola. Il suo impasto antipolitico-postmaterialista, che coniuga insoddisfazione e rabbia nei confronti di un sistema politico-economico inefficiente e corrotto con proposte ecologico-solidali (dall'energia rinnovabile al salario di cittadinanza), tocca le corde di un'opinione pubblica europea disincantata, insoddisfatta ma non "arretrata" . Mentre i populismi di destra attraggono le componenti culturalmente più tradizionaliste e socialmente più marginali, il populismo postmaterialista del M5S pesca anche tra elettori giovani e con buon livello di istruzione. La produzione a getto continuo di iperboli e insulti da parte di Beppe Grillo e il suo stile da irriverente joker, oltre a una rappresentanza parlamentare al di sotto di ogni immaginazione - dalla biliosa maestrina Lombardi al pingue arruffone Crimi - rischiano ora di relegare il M5S nel folkloristico. Con la conseguenza che gli altri attori continuano a comportarsi come se i grillini non ci fossero, come se non rappresentassero un quarto dell'elettorato.

Come si è visto, il primo a subire le conseguenze di questa ottusità è stato proprio il Pd. E infatti, dopo essersi ritratto sdegnato da una possibile intesa con il M5S su un nome condiviso ?€“ e ce n'erano, eccome - , la "ditta", ormai in fallimento, è andata a genuflettersi di fronte a Berlusconi. Certo, lo streaming di Bersani bruciava ancora. Ma questo atteggiamento di chiusura fa perdere al Pd il contatto con un mondo non pregiudizialmente ostile alla sinistra, semmai popolato di delusi e arrabbiati da recuperare. E lo si lascia veleggiare con il vento in poppa nelle acque dell'opposizione.

L'incombente, e ulteriore, governo di emergenza che rimastica la vecchia maggioranza montiana (se Mario Monti non si fosse fatto contagiare dal virus della politica un governo di questo genere sarebbe stato fatto in un battibaleno...) dovrà fronteggiare una contestazione parlamentare di sinistra ben più vivace rispetto al passato. Mentre la Lega non ha più voce né rilievo, e forse farà parte del coro, il M5S ha tutta l'energia dei nuovi movimenti. Ovviamente, il bersaglio prediletto di questa opposizione sarà il Partito democratico. Forse il Pd sottovaluta la pressione congiunta che viene da nuovi antagonisti privi di ogni stigma di sinistra radical old style e dalla sua stessa base.

 
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Titolo: Piero IGNAZI. E la destra sta peggio di tutti
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2013, 04:22:27 pm
Opinione

E la destra sta peggio di tutti

di Piero Ignazi

Berlusconi sembrava tornato più forte di prima. Ma non è così, la crisi del sistema coinvolge anche lui.

E l'analisi dei flussi in corso in questi mesi lo conferma

(23 maggio 2013)


I casi sono due: o il berlusconismo era finito nel novembre del 2011 oppure si era solo chiusa una parentesi. Molti di coloro che avevano sancito la chiusura di un ciclo avevano sottolineato che tramontava un modo di intendere la politica (commistione di interessi privati e pubblici), l'indifferenza/insofferenza per i check and balance tra le istituzioni (demonizzazione e marginalizzazione della magistratura, ed esaltazione del governo contro il parlamento), uno "stile di vita" incompatibile con la funzione (dalle cene eleganti di Arcore ai rapporti con faccendieri vari, da Lavitola in giù), l'irrilevanza a livello di Unione europea e internazionale (isolamento e persino dileggio da parte dell'establishment internazionale). Il governo Monti, pur con i numerosi errori dovuti all'inesperienza e una certa hybris tecnocratica, ci aveva fatto uscire dall'emergenza economica e democratica.

Il terremoto elettorale e la disastrosa gestione post-elezioni del Pd hanno fatto cambiare opinione a molti. Lecito, ovviamente, ma fino a un certo punto. Non è che gli errori di Bersani stendano un velo d'oblio sull'essenza del berlusconismo. Se si vanno a leggere quei giudizi non c'è nulla che non possa essere sottoscritto ancora oggi. Risolto il conflitto d'interessi? Diventato più istituzionale il Pdl dopo gli assalti al Palazzo di giustizia di Milano? Orientato a difendere interessi generali e di sviluppo duraturo con il ricatto sull'Imu? Ma non scherziamo.

Anche se all'apparenza il berlusconismo sembra tornato più bello che pria grazie all'insperato ritorno al governo, così non è. Se si analizzano con calma i dati elettorali il futuro della destra non è per nulla roseo. I 6 milioni di voti persi dal Pdl, più il milione e mezzo abbondante perso dalla Lega, portano la destra al suo minimo dal 1994, addirittura sotto il 30 per cento. Inoltre il Pdl perde la sua storica egemonia nel Nord: lì, in nessuna provincia è primo. E' diventato un partito meridionale: cioè resiste in quelle aree dove più forte è la volalitilità elettorale (oggi qui, domani da un'altra parte) e dove più acuta è la sensibilità a interpretazioni ad hoc delle norme (fisco, abusivismo edilizio, contributi pensionistici) e alla difesa del posto di lavoro pubblico. Non proprio il massimo della modernità.

Ma, soprattutto, è l'appello populistico e "novatore" del berlusconismo, vero motore dei suoi successi, che non può più sfondare. Le sue prospettive di sviluppo sono bloccate dal Movimento 5 Stelle. Il successo di Beppe Grillo non va derubricato a fenomeno passeggero. Le basi del consenso dei grillini sono solide perché ben difficilmente il governo Letta-Alfano potrà recuperare lo scontento e la disaffezione alla politica, la rabbia e la frustrazione dovuta all'impoverimento generalizzato.

La sfiducia nei confronti del sistema ha raggiunto livelli elevatissimi. E ha trovato un nuovo interprete "credibile". Fino a che non cambieranno alcuni fondamentali - ma né la classe politica sta dando prova di innovazione e cambiamento, né l'economia può migliorare nel breve periodo, né la giustizia sociale diffondersi - l'appello anti-establishment dei grillini raccoglierà consensi, forse non così ampi ma certo consistenti. E chi ha abbandonato Berlusconi per Grillo per quale motivo tornerebbe indietro, visto che quest'ultimo veicola un messaggio dello stesso tenore, pur con alcune varianti?

Alla fine, mentre Il Pd, agendo sulla leva del rinnovamento generazionale interno e della maggior radicalità può recuperare frange di elettori di sinistra che non ne possono più dei richiami (alla fine, masochisti) alla "responsabilità", il Pdl ha esaurito la sua spinta propulsiva. Può difendere un recinto del 30-35 per cento ma i sogni di gloria coltivati in questo ventennio sono alle spalle. Anche perché, chiusa la parentesi del governo Letta, la destra non ha più sponde. E dovrà reinventarsi. Allora, al confronto, la crisi del Pd sembrerà uno zuccherino.


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Titolo: Piero IGNAZI. Al gran mercato delle riforme
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2013, 04:45:28 pm


Opinioni

Al gran mercato delle riforme

di Piero Ignazi

Tra sistema di governo e legge elettorale non c'è alcun collegamento.
Il centrodestra cerca di far passare questa stramba teoria perché è diviso al suo interno.
Sarebbe meglio occuparsi dei contrappesi per il presidenzialismo

(13 giugno 2013)

Dopo l'ulteriore rimprovero del presidente Giorgio Napolitano di «aver pestato per mesi acqua nel mortaio», una riforma delle istituzioni verrà. Però le premesse non sono incoraggianti. Prendiamo il caso del rapporto tra sistema di governo e sistema elettorale. Solo in un dibattito politico dominato da una cultura giuridico-formale in cui gli scienziati politici non trovano posto (ed è vergognoso che nella commissione governativa dei 35 vi siano appena due politologi e non sia stato nemmeno invitato un maestro come Giovanni Sartori, autore di fondamentali saggi anche sull'architettura istituzionale delle democrazie) può farsi largo la bizzarra idea che ci sia un collegamento necessario tra norme elettorali e tipo di regime.

I sistemi elettorali sono , solo e soltanto, meccanismi di trasformazione di voti in seggi. Ce ne sono di mille tipi, anche se si dividono in due grandi famiglie: proporzionale, che privilegia la rappresentanza di tutte le opinioni presenti in una società, e maggioritaria, che distorce in qualche misura la rappresentanza ma, premiando i partiti maggiori, "dovrebbe" favorire la governabilità. Ora, mentre è chiaro l'effetto di potenziale frammentazione con un sistema proporzionale, non è affatto garantito l'effetto di maggiore "governabilità" con il maggioritario: i tormenti del governo di David Cameron in Gran Bretagna, patria del maggioritario, sono lì a dimostrarlo.

Il sistema elettorale che più di tutti contempera le due esigenze è il maggioritario a doppio turno perché, da un lato, pur riducendo la frammentazione, consente la presenza in parlamento di partiti non estremisti (e così, emarginando le estreme, rafforza il sistema democratico) e, dall'altro, fornisce grande legittimità all'eletto che, proprio grazie al secondo turno, alla fine conquista spesso il consenso di più della metà dei votanti. Quindi, con il doppio turno si ottiene: riduzione della frammentazione ma mantenimento della rappresentatività della società, marginalizzazione delle estreme e moderazione delle forze maggiori, pressione alla formazione di coalizioni stabili, alta legittimazione degli eletti e rapporto diretto con le loro basi elettorali. I benefici di questo sistema sono indubbi eppure il Pdl non lo vuole. Perché l'esperienza dice che il suo elettorato si perde per strada quando deve scegliere un candidato piuttosto che seguire la sirena berlusconiana.

Evidentemente tra le diverse componenti del centro-destra non è mai circolato buon sangue e, piuttosto che sostenere un candidato diverso dal proprio beniamino, gli altri elettori andavano al mare. E' sulla base di questa considerazione tattica e utilitaristica che il Pdl chiede di avere in cambio del doppio turno il presidenzialismo (in qualunque salsa condito). Con quest'ottica da mercato delle vacche non si va lontano. E infatti i soloni del centro-destra tentano di argomentare l'esistenza di un rapporto necessitato tra sistema elettorale e forma di governo e cioè che al doppio turno debba corrispondere il (semi)presidenzialismo. Semmai c'è da chiedersi se oggi in Italia sia possibile introdurre un regime presidenzialistico. In realtà tutti, persino il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello (voce dal sen fuggita?), ritengono che non si possa introdurre un tale sistema se prima non si fa una legge seria sul conflitto di interessi. Giusto. Ma se un leader politico influente come Daniela Santanchè si appresta, nel silenzio generale, a integrare alla sua società di concessionaria di pubblicità anche l'acquisto di alcuni periodici della Rcs, vuol dire che non c'è alcuna convinzione che il potere politico non possa concentrare nelle sue mani anche quello economico e quello mediatico.

La cultura politico-istituzionale italiana è ancora molto distratta verso questi aspetti. Non ha assorbito la lezione del costituzionalismo anglosassone dei pesi e contrappesi. Il mortaio di Napolitano ha molti ingredienti da pestare, ma che ci siano quelli giusti e nelle dosi corrette.

 
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Titolo: Piero IGNAZI. Potere e cittadini: tutto cambia
Inserito da: Admin - Luglio 16, 2013, 06:18:17 pm
Opinioni

Potere e cittadini: tutto cambia

di Piero Ignazi

Dalla Turchia al Brasile, dagli Usa all'Europa, è scoppiata una crisi epocale nel rapporto tra popoli e governi.

Un fossato fatto di 'rabbia' e 'disgusto'. Da noi, per ora, si traduce in astensionismo e voti al M5S. Ma poi?

(04 luglio 2013)

I paesi che stanno raggiungendo un elevato livello di sviluppo socio-economico devono fronteggiare domande nuove da parte dei loro cittadini. Oltre alla richiesta di maggiore e più diffuso benessere - a volte, ma non sempre, associata ad aspirazioni di giustizia sociale - i cittadini di quei paesi scendono per le strade per chiedere "più democrazia". I giovani turchi di Gezi Park e Piazza Taksim così come i loro omologhi brasiliani di San Paolo e Rio de Janeiro, al di là dei motivi contingenti delle proteste, chiedono innanzitutto di essere ascoltati e di ricevere risposte dai governanti.

Chiedono, in sostanza, che il sistema politico sia ricettivo e rispondente, e quindi che accresca la "qualità" della democrazia. Lo stesso avviene, mutatis mutandis, anche nei paesi di democrazia consolidata: gli studenti britannici che protestavano per l'aumento delle tasse universitarie nell'inverno 2011, o il movimento di Occupy Wall Street con le sue filiazioni in tutta Europa, non sono così distanti nel loro impulso a manifestare dai loro coetanei nei paesi di recente prosperità. Quello che emerge in forme diverse e varie parti del mondo è una sottile e corrosiva critica ai fondamenti del nostro sistema sia per manifesta incapacità dei politici, sia per delegittimazione del principio di rappresentanza e del mandato a governare.

Se i leader politici non "ascoltano" e non "rispondono" , il fossato tra governanti e governati non fa che allargarsi. Questa situazione fotografa lo stato attuale del nostro sistema . Il calo di partecipazione alle ultime elezioni è stato considerato da molti come un sintomo di questa sfiducia. In parte può esserlo ma solo se lo si connette con altri segnali del disagio dell'opinione pubblica. Il sentimento prevalente nei confronti della politica (come rivela un sondaggio della Swg effettuato a metà giugno) è quello della "rabbia" seguito dappresso da quello del "disgusto". Per la precisione il 40 per cento e il 38 per cento degli italiani esprimono in misura prioritaria questi sentimenti che, non a caso, si ritrovano soprattutto tra gli elettori del Movimento 5 Stelle e tra gli astensionisti. Da dove origina questa disaffezione ormai trasformata in aperta ostilità?

Non tanto dalla crisi economica: certamente esaspera ma da sola non spiega questo rigetto rancoroso della politica. Viene piuttosto dalla perdita di fiducia nella classe dirigente, di cui la classe politica è la componente più vistosa. L'opinione pubblica percepisce "dolorosamente" la mancanza di prospettive, acuita dall'assenza di leader che sappiano interpretare lo stato d'animo collettivo e indicare credibilmente una via di uscita, e la debolezza etico-morale dei governanti e di molte altre figure e istituzioni pubbliche (basti pensare alla crisi di credibilità della Chiesa coinvolta in scandali sessuali e finanziari).

La domanda di moralità e rigore dopo il ventennio del lassismo berlusconiano è travolgente: emerge in maniera sorprendente sia da quel 51 per cento di italiani che mettono al primo posto l'onestà quale requisito indispensabile per far ripartire il paese, sia dal marchio di infamia che circonda gli evasori, considerati i peggiori nemici della nostra società, addirittura sopra la criminalità organizzata e anche, con ampio distacco, politici e banche, per molto tempo individuati come la causa di tutti i mali (dati Swg).

Queste richieste si collocano sulla stessa lunghezza d'onda dei giovani che manifestano in altre parti del mondo. Rispondervi è una necessità per la buona salute del sistema democratico. Lasciarle inevase fa aumentare a livelli devastanti il potenziale di protesta. Di qui la necessità di una nuova classe dirigente e politica all'altezza della sfida. Tanto in politica quanto nella società civile devono affermarsi figure in grado di coniugare ascolto, affidabilità e progettualità.


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Titolo: Piero IGNAZI. Ma con Marina il Pdl è morto
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2013, 05:09:02 pm

Opinione

Ma con Marina il Pdl è morto

di Piero Ignazi

La scelta ereditaria sarebbe una soluzione di trincea. Che impedirebbe a lungo la nascita di una destra normale in Italia. E rinchiuderebbe il partito dei Berlusconi in un elettorato 'innamorato' ma sempre più di nicchia

All'interno del centro-destra circola con insistenza l'ipotesi che la figlia primogenita di Silvio Berlusconi, Marina, sia destinata a succedere al padre alla guida del Pdl, o di quello che sarà. Questa soluzione nordcoreana alle difficoltà del "Grande leader e dell'Eterno presidente" farà ancora una volta sorridere di commiserazione gli osservatori stranieri e forse solleverà qualche inquietudine anche all'interno del Popolo della libertà.

Nel partito ci sono legioni di fan di Silvio, elettori, militanti e dirigenti, che dipendono in toto da Berlusconi per mille canali affettivi, simbolici, politici ed economici. Senza il riferimento al Cavaliere e alle sue risorse costoro non saprebbero a che santo votarsi. Si aprirebbe di fronte a loro una voragine profonda proprio perché è stato elevatissimo l'investimento emozionale-ideale (e in certi casi materiale) nel fondatore. La mistica creata in questi lustri sulle imprese economiche e politiche del Grande leader è stata di una efficacia unica in Occidente.

L'OCCULTAMENTO e/o la mistificazione della realtà, ovviamente consentita dalla disponibilità di un impero mediatico, ha isolato in un mondo patafisico quei milioni di elettori che si sono intimamente identificati in Berlusconi; ma non ha mai "trascinato" quei milioni di moderati che, non sapendo a chi rivolgersi, finivano per turarsi il naso e sostenere il più forte partito nemico della sinistra. Molti di questi hanno abbandonato il Cavaliere alle ultime elezioni infliggendogli la più sonora sconfitta che un partito italiano abbia subìto in tutta la nostra storia elettorale (e poi c'era chi parlava di vittoria del Pdl dopo le elezioni...). Sconfitta confermata alle elezioni municipali di maggio che ha fatto scomparire il Popolo della libertà da tutte le grandi città.

I dirigenti pidiellini, locali e nazionali, più consapevoli di questa crisi guardano con orrore alla successione dinastica. Perché il passaggio del testimone da padre in figlia si scontra contro un ostacolo insuperabile: svela definitivamente la natura personale del partito e il suo inestricabile intreccio con gli interessi aziendali. Mentre sul Cavaliere si poteva costruire una narrazione efficace e persino mitizzante perché spunti reali ne esistevano in abbondanza, sulla figlia questa operazione non è possibile. Se quindi avvenisse tale passaggio il Pdl non solo perderebbe quei consensi trasversali che erano tutti attratti dall'aura eroica del leader, ma verrebbe azzoppata la possibilità di diventare un normale partito moderato. In fondo lo scontro sordo e sotterraneo dentro il Pdl si riassume in questo dilemma: confidare ancora nelle risorse del Cavaliere anche attraverso la sua discendenza biologica o andare oltre il berlusconismo, come qualcuno aveva osato suggerire alla fine dell'anno scorso.

PER QUANTO POSSA SEMBRARE ovvia la risposta, anche la seconda ipotesi deve fronteggiare un grande ostacolo: la ridefinizione di un'agenda politica che si depuri del populismo anti-europeo e delle sue tentazioni anti-istituzionali. Impresa non facile dopo vent'anni di deserto culturale. Eppure è un'impresa potenzialmente di successo visto che un partito conservatore di stampo europeo può contare sul consenso dei tanti moderati senza casa sia a livello parlamentare sia nell'elettorato. Le due sfide all'egemonia berlusconiana portate da Gianfranco Fini e Mario Monti fallirono clamorosamente nell'immediato, ma hanno "devastato" il campo del nemico. Se il Pdl ha perso più di 6 milioni di voti e continua a perderne nelle elezioni locali, lo si deve anche alla demistificazione messa in atto da quei tentativi. L'erosione del consenso al Pdl formato Berlusconi e figli è destinata a durare perché è venuto meno l'appeal della proposta originaria tuttora intrisa di una politica vecchia di vent'anni. Senza un ripensamento della sua ragion d'essere il Pdl rimane isolato nel suo ridotto del 25-30 per cento, senza alcuna possibilità né di espansione né di alleanze. Cambiando, altre componenti in cerca di aggregazione, da Casini a Montezemolo, possono essere coinvolte.

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Titolo: Piero IGNAZI. E il Pd è sempre più senz'anima
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2013, 05:13:17 pm
Opinione

E il Pd è sempre più senz'anima

di Piero Ignazi

Anche le incertezze degli ultimi giorni, così come ai tempi dell'elezione per il Quirinale, ci presentano l'immagine di un partito afono e inconcludente, sempre intimidito appena la destra fa la voce grossa

(11 settembre 2013)

Fin qui i democratici non possono vantare successi nel governo di emergenza presieduto da Enrico Letta. Benché il premier si sforzi di indicare quante buone cose ha fatto - e in effetti qualcosa c'è, pensiamo soprattutto agli interventi sui beni culturali - nessuno riesce a identificare un qualche provvedimento governativo targato Pd.
Il problema però non riguarda tanto Letta, quanto piuttosto il partito, tuttora afono e inconcludente.

Quali sono le sue priorità, i suoi obiettivi irrinunciabili, le mete da raggiungere? Anche nella campagna elettorale, al di là di una, peraltro giusta, invocazione di iniziative per "il lavoro", le idee forza mancavano. Lo stesso vale oggi, e a maggior ragione, per il programma di governo. Il Pd è arrivato alla formazione dell'esecutivo come un bove avviato al macello, a testa bassa, pieno di vergogna per lo spettacolo sconfortante delle elezioni presidenziali. Dopo quelle défaillances aveva esaurito ogni energia propositiva. O meglio, se avesse proposto gli otto punti del "governo del cambiamento" tentato da Bersani all'indomani delle elezioni, non avrebbe mai raggiunto un accordo con il Pdl. In effetti i termini dell'equazione sono proprio questi.

Come si conciliano progetti e visioni della società così diversi? Se prevalesse una condivisone di finalità sistemiche, uno stesso senso dello Stato e delle istituzioni, forse sarebbe possibile raggiungere un onorevole compromesso. Ma la nostra situazione è del tutto diversa. La destra, da quando ha assunto la maschera berlusconiana, non ha mai riconosciuto legittimità agli avversari. Il Pd e suoi progenitori non hanno mai saputo reagire con fermezza alle aggressioni della destra. Hanno vissuto questi anni quasi intimiditi e impacciati, proprio come figli di un dio minore. Anche ora, la partecipazione così di basso profilo al governo riflette, oltre agli errori dell'ultimo anno, quella condizione politico-psicologica. Si direbbe che pitoni e pitonesse abbiano una grande capacità di incantamento sui leader democratici. A questo punto il risveglio non può che passare da un radicale rinnovamento interno per riprendere contatto con l' elettorato perduto (e non perderne ancora). Incominciando dal riconoscere e valorizzare i suoi punti di forza. Che sono essenzialmente due: l'esistenza - verrebbe da dire la resistenza - di un tessuto organizzativo ramificato e ancora mobilitabile (basta andare ad una festa dell'Unità, o democratica che dir si voglia, per rendersene conto); la rete degli amministratori locali.

Queste due risorse non sono in contatto perché è sempre stato privilegiato un rapporto verticale tra base e vertice piuttosto che uno orizzontale tra militanti ed eletti. Inoltre, per un malinteso senso di autonomia gli eletti locali del Pd e dei partiti predecessori si sono addirittura vantati della loro indipendenza nei confronti del partito. Invece, è indispensabile un rapporto di collaborazione-consultazione continua tra rappresentanti e aderenti al partito.

Ovviamente gli eletti rispondono a tutta la cittadinanza, ma altrettanto ovviamente agiscono lungo linee programmatiche che sono espressione di una parte, quella che li ha votati. E per realizzarla al meglio hanno bisogno di essere in stretto contatto con i propri sostenitori. Questa modalità di interazione non può che rivitalizzare il partito e, lungo questa strada, gli eletti locali divengono il perno di una rinnovata organizzazione. Non ha alcun senso l'antitesi tra partito degli eletti e partito dei militanti di cui si è parlato nel passato. Un partito rinnovato utilizza queste risorse al meglio.

Il destino del Pd dipende dalla realizzazione di questa inedita integrazione. E dalla capacità di convinzione di chi guiderà questo processo. Anche il governo Letta, per quel tanto che resisterà, potrà profittarne.

 
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Titolo: Piero IGNAZI. Il network party che ha in mente Grillo
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2013, 06:27:29 pm
Piero Ignazi
Potere&Poteri

Il network party che ha in mente Grillo

Il leader del M5S non può permettere che gli eletti del suo partito facciano politica in modo tradizionale. Il suo obiettivo è un altro: la conquista del potere e un movimento pilotato dalla Rete. Un progetto che sarebbe dirompente
   
Con il passare dei mesi il contrasto tra il duo Grillo-Casaleggio e i parlamentari 5 Stelle è destinato ad aumentare. I punti di contrasto non riguardano i singoli problemi, oggi il reato di immigrazione clandestina, domani qualche altro provvedimento. Riguardano le diverse logiche politiche e organizzative che guidano le due componenti.

La cabina di regia genovese ha in mente un progetto ambizioso che si muove su due binari: la costruzione di una nuova modalità di presenza e azione nelle istituzioni, e la conquista di un ancor più largo consenso. I parlamentari più passano i mesi più sono attratti, e coinvolti, dalle prassi, dalle regole, dall’ambiente parlamentare. In una certa misura cercano di sottrarvisi, di creare clamore e di rompere le norme di comportamento, ma inesorabilmente saranno risucchiati dalla forza dell’istituzione. La loro riottosità non è certo nuova, esiste da sempre nelle assemblee rappresentative. Per limitarci ad anni recenti l’irruzione in Parlamento dei rappresentanti dei movimenti di sinistra libertaria come i radicali italiani o i Verdi tedeschi avevano portato scompiglio in quelle aule. L’atteggiamento provocatorio nel linguaggio e nel gesto, oltre che nell’abbigliamento (la salopette di Emma Bonino al posto degli austeri tailleur o i jeans di Joschka Fischer al posto del vestito a giacca), non rappresenta una grande novità. Poi, queste intemperanze sfumano e perdono la loro carica dissacrante. Anche i parlamentari 5 Stelle, pur entrati in Parlamento da appena nove mesi, hanno già dato qualche segno di “socializzazione” all’ambiente parlamentare. Tra questi, spicca la presentazione e l’approvazione del loro emendamento alla Bossi-Fini sul reato di immigrazione clandestina: per la prima volta i parlamentari grillini sono entrati nel vivo del dibattito politico e hanno ottenuto un successo politico.

Questa vittoria poteva convincere i 5 Stelle che si può far politica senza essere soltanto dei megafoni della rete. E quindi avviare un percorso di autonomizzazione dal fondatore del movimento. Proprio per frenare il processo di parlamentarizzazione del gruppo l’intervento del duo Grillo-Casaleggio è stato immediato e tranchant. La strategia di Grillo non può permettere la solidificazione di interessi contingenti: tutto il movimento deve essere concentrato sulla “conquista del potere” (che farsene di un misero 25 per cento?) e sulla realizzazione di un nuovo modello di democrazia. Benché si possa comprendere il delirio di onnipotenza che deriva dall’aver creato dal nulla il primo partito sul territorio italiano, la prospettiva di andare oltre, verso percentuali ancora maggiori, non è implausibile in una fase di ulteriore destrutturazione del sistema partitico e di perdurante crisi economica. La crisi del centro-destra e soprattutto della Lega è stata un manna per il M5S, alle ultime elezioni: se ora si aggiunge anche lo sfaldamento del Pdl, si aprono autostrade di voti per Grillo. Per questo gli elettori moderati non possono essere spaventati da un’alleanza con la sinistra su un tema così sensibile come l’immigrazione (e domani l’amnistia). Quindi Grillo vuole avere le mani libere per espandere il proprio consenso.

Ma questo è solo un lato della medaglia. L’altro aspetto riguarda il nuovo concetto di rappresentanza in qualche modo profilato dal guru genovese. Finora il M5S si connota come un classico “cyber-party”, gestito verticalmente, nel quale i tradizionali meccanismi di controllo sono sostituiti con quelli elettronici. Se invece l’ipotesi grillina è quella di passare a un vero “network party”, in cui i rapporti tra i membri della community sono orizzontali e paritari, allora anche le logiche della rappresentanza cambiano. Questa è una sfida dirompente, ben diversa dalle tirate umorali sul blog. Su cui si potrebbe aprire un interessante dibattito: le forme di rappresentanza nell’era dell’Itc. Acuendo però la tensione tra la tradizionale forma di rappresentanza parlamentare e la sottomissione dei parlamentari all’interazione continua con la base (oltre che ai diktat di Grillo).
16 ottobre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2013/10/16/news/il-network-party-che-ha-in-mente-grillo-1.137831


Titolo: Piero IGNAZI. Presidente un po’ troppo supplente
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2013, 04:39:05 pm
Piero Ignazi
Potere&Poteri

Presidente un po’ troppo supplente
Napolitano si muove sempre nell’interesse generale. Ma deve stare attento a rimanere super partes. Escludendo le opposizioni dal vertice sulla legge elettorale si è assunto un ruolo diretto. Che stona
   
Che il sistema politico italiano viva da tempo una situazione di anormalità è chiaro a tutti. La prima grande anomalia, è stato detto mille volte, riguarda la concentrazione abnorme di potere - economico, mediatico e politico - in una sola persona, Silvio Berlusconi. Questa anomalia ha sempre sconcertato gli osservatori stranieri che si chiedevano perché mai non vi si poneva rimedio. Ma, come si vede, non ne siamo ancora venuti a capo.

Purtroppo negli ultimi tempi si sta aggiungendo un’altra distorsione al buon funzionamento del nostro sistema politico: l’alterazione dei rapporti tra le istituzioni, e in particolare il ruolo sempre più incisivo, per non dire invasivo, della presidenza della Repubblica. Al presidente Napolitano vanno riconosciuti grandissimi meriti in questi otto anni difficili: solo la sua autorità morale ha riscattato l’Italia dall’ignominia internazionale negli anni bui del tardo berlusconismo. L’invenzione del governo Monti ha letteralmente salvato il Paese in uno dei momenti più critici della storia repubblicana. È quindi fuor di dubbio che il presidente si muova nell’interesse generale. Infatti, solo per spirito di servizio e amor di patria ha accettato di rimanere al Quirinale dopo il disastro compiuto dai parlamentari del Pd nelle votazioni per la presidenza della Repubblica

IL PRESIDENTE NAPOLITANO ha impostato il suo nuovo mandato su due binari: assicurare un governo al Paese e facilitare le riforme istituzionali, a incominciare da quella elettorale. Ha così colmato il vuoto politico post-elettorale. Riconosciuti questi meriti, sarebbe però dimostrazione di sudditanza e di piaggeria non mettere l’accento anche su alcune sbavature del suo operato recente.

In linea generale, il presidente interviene con una frequenza inusitata nel dibattito politico, con note ufficiali e ufficiose, discorsi, brevi interviste, rapide battute. Inevitabilmente queste prese di posizione incidono sul dibattito politico, laddove invece la presidenza dovrebbe rimanere estranea. Anche gli incontri con gli esponenti politici sono diventati di routine; hanno perso quel carattere solenne e un po’ speciale che avevano un tempo.

E PROPRIO SU QUESTO terreno il presidente ha commesso un passo falso. L’invito al governo e ai partiti che lo sostengono per discutere della legge elettorale ha offuscato il ruolo super partes della presidenza. L’esclusione delle opposizioni, soprattutto nel momento in cui si affronta un tema che riguarda le regole del gioco, ha dato un’impronta eccessivamente e indebitamente filogovernativa al Quirinale. È vero che il garante del governo Letta-Alfano è Giorgio Napolitano, ma mostrare una preferenza per le forze politiche di governo rispetto alle opposizioni quando si discute di riforme così sensibili come la legge elettorale crea un clima poco propizio al raggiungimento di un consenso generale. Certo, l’iniziativa del presidente è conseguente alla lentezza dei lavori della commissione Affari costituzionali del Senato che sta discutendo (anche) della riforma elettorale; ma di questa lentezza sono responsabili tutti, e quindi tutti dovevano essere convocati e richiamati all’ordine. E lasciare poi al Parlamento l’onere di risolvere le divergenze e arrivare a una decisione condivisa. Col suo intervento, invece, il Quirinale è diventato un attore-motore del processo riformatore: ha assunto un ruolo e una responsabilità (troppo) diretti.

Queste sbavature presidenziali derivano dal vuoto di “capacità” politica, vale a dire dalla inerzia politico-culturale dei partiti. Di fronte a un parlamento e a un governo deboli, esito di partiti debolissimi, inevitabilmente interviene in supplenza l’unica istituzione forte e legittima oggi in campo. La presidenza agisce in condizioni eccezionali e compie un’opera difficile e delicata, non esente da rischi anche perché inedita. Nessuno si è trovato in queste situazioni, se non per un brevissimo periodo il presidente Scalfaro nell’infuriare di Mani Pulite. Per questo, anche i migliori, anche con le migliori intenzioni, a volte sbagliano.

06 novembre 2013 © Riproduzione riservata
Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2013/10/30/news/presidente-un-po-troppo-supplente-1.139520


Titolo: Piero IGNAZI. Chissà che sistema di voto vuole il Pd
Inserito da: Admin - Novembre 30, 2013, 05:24:26 pm
Piero Ignazi
Potere&Poteri

Chissà che sistema di voto vuole il Pd

Si oscilla tra Porcellum al quadrato e Mattarellum. I cui difetti sembrano miracolosamente spariti. Invece il doppio turno alla francese è stato accantonato per effetto dei consueti tatticismi
   
Per fortuna il Porcellum al quadrato, il sistema elettorale messo a punto da Pd, Sel e Scelta civica nella commissione Affari costituzionali del Senato, è stato bocciato. Era una proposta indigeribile e anche un po’ truffaldina. Indigeribile perché oltre a mantenere la distorsione del premio - una concezione aberrante delle logiche di rappresentanza - lasciava intatte sia le liste bloccate sia la differenza di attribuzione dei seggi tra Camera e Senato. Truffaldina perché spacciava per “doppio turno” non il sistema francese ma la ripetizione del voto tra le prime due coalizioni se nessuna superava il 40 per cento dei voti. Ora si volta pagina. In questi giorni sembra ritornato in voga il Mattarellum, il sistema misto (tre quarti maggioritario, un quarto proporzionale) con cui abbiamo votato dal 1994 al 2001.

Ma ci siamo dimenticati dei difetti? La complicazione dello “scorporo” con conseguente nascita delle liste civetta, il mantenimento di una logica proporzionale, l’àncora di salvataggio per i candidati eccellenti grazie alla doppia presentazione (maggioritario e proporzionale). Si continua invece a sorvolare con una leggerezza sospetta sulla ipotesi che ufficialmente dovrebbe accomunare tutto il Pd: il maggioritario uninominale a doppio turno, come quello adottato in Francia per l’elezione dei parlamentari (il “vero” doppio turno). Sui suoi meriti molto è stato già detto e scritto. Per riprendere l’appello in favore di tale sistema, promosso dal capostipite della scienza politica italiana, Giovanni Sartori, e firmato da oltre cento scienziati politici, il vero doppio turno presenta una serie di indiscutibili meriti, cruciali per migliorare la rappresentanza politica e il rapporto cittadini-istituzioni.

In breve: la legittimità degli eletti è alta perché essi necessitano di percentuali elevate per vincere , anche superiori al 50 per cento quando lo scontro si riduce solo a due contendenti nel secondo turno; la frammentazione è contenuta perché per accedere al secondo turno bisogna superare uno sbarramento che (seguendo l’esempio francese) dovrebbe essere intorno al 15 per cento dei votanti - e allo stesso tempo nessuno è escluso in partenza perché il candidato di un partito minore ma ben radicato territorialmente e ben considerato può superare il primo turno e cercare poi il sostegno dei partiti maggiori al secondo; l’elezione diretta di un candidato rinforza il rapporto tra elettori ed eletti e allo stesso tempo evita le degenerazioni insite in un sistema con preferenze; la necessità di assicurare un largo sostegno ai propri candidati spinge i partiti a creare alleanze che prefigurano le coalizioni governo.

Nessun sistema è perfetto, però dato il contesto italiano questa ipotesi costituisce di gran lunga la soluzione migliore. Ma come spesso accade nel nostro paese, le soluzioni limpide e chiare non hanno buona fama né buona sorte. Il Pd sembra seguire lo stesso percorso intrapreso nelle trattative per l’elezione del presidente della Repubblica. Incontri, accordi, scambi con gli altri partiti e soprattutto con l’ex Pdl per arrivare a una qualche sintesi. Con questo atteggiamento, peraltro benemerito e generoso, non fa che complicarsi la vita e perder tempo. A meno che questo non sia il vero fine della ragnatela tessuta in questi mesi, il Pd deve ora indicare la sua preferenza sulla quale obbligare gli altri a scegliere. In questo compito non è certo aiutato da Matteo Renzi che si rifugia in una formuletta, “il sindaco d’Italia”, che in sé non significa nulla. Infatti, se si discute di un sistema elettorale per eleggere i parlamentari e non il presidente del consiglio, allora il sindaco di Firenze deve chiarire che vuole eleggere 630 sindaci d’Italia, tanti quanti sono i seggi della Camera (più i 315 al Senato). Altrimenti parla d’altro, e cioè dell’elezione del premier sul modello adottato in Israele negli anni Novanta e poi subito abbandonato per la sua totale impraticabilità. Ma questo, appunto, è un altro discorso, che va al di là della riforma elettorale. Alla fine , rimane che il Pd, pur disponendo della maggioranza assoluta alla Camera, non ha la convinzione o il coraggio di presentare una sua proposta. In questo modo sarà solo chi lo rappresenta a essere accusato dell’inazione e della mancata riforma.
25 novembre 2013 © Riproduzione riservata

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Titolo: Piero IGNAZI. Grillo non ci ha salvato dai forconi
Inserito da: Admin - Dicembre 28, 2013, 11:44:15 pm
Piero Ignazi

Potere&Poteri
Grillo non ci ha salvato dai forconi

La protesta credeva di aver trovato uno sbocco nel voto al Movimento 5 Stelle. Che però ha tradito le attese rivelandosi incapace di tradurre i suoi slogan in iniziative politiche. E così sono arrivate le manifestazioni di piazza. Ma il Pd non ha da consolarsi
   
La protesta è arrivata. Anni di riduzione dei redditi, di limatura dei patrimoni, di disoccupazione e inoccupazione hanno eroso la pace sociale. La pace politica era tramontata nel febbraio di quest’anno con il voto al Movimento 5 Stelle. In quella occasione la rabbia nei confronti di una politica imbelle e di politici forchettoni era stata raccolta da Beppe Grillo. Grazie a lui e al suo movimento la protesta si è incanalata, volente o nolente, in un alveo istituzionale. Va ancora una volta riconosciuto, come già venne fatto in queste pagine ben prima che lo sostenesse lo stesso Grillo, che il voto al M5S ha offerto una valvola di sfogo pacifica agli arrabbiati. Solo che, dopo il voto, è venuto il nulla. L’attività parlamentare dei grillini è stata, ed è, incommensurabilmente inferiore alle attese. L’unica iniziativa di spessore, l’abolizione del reato di clandestinità, che per una volta aveva raccolto il consenso del Pd e di altri partiti, venne subito sconfessata dai dioscuri genovesi. Per il resto, si segnalano solo strepiti e radicalismi.

La mancanza di uno straccio di risultato indebolisce l’appeal del M5S nei confronti delle frange più esasperate e anti-sistemiche. Se anche Grillo viene ricoperto di “vaffa” non ci sono più argini. E infatti, esaurita la carta politica, consumata la speranza (e l’illusione) che nuovi e puliti rappresentati portassero la rivoluzione in Parlamento, non rimane che la piazza. In questi ultimi giorni la protesta è esplosa come un classico movimento sociale, privo di una vera leadership e di interpreti autorizzati, magmatico e confuso, ribellistico e barricadiero. Si presenta allo stato embrionale, ancora limitato a pochi partecipanti. Può esaurirsi in pochi giorni con qualche altra fiammata o può ingrossarsi fino a coinvolgere altre categorie sociali. Finché il sindacato rimane alla finestra e la sua base non dà segni di irrequietezza è probabile che la protesta si esaurisca e i forconi rientrino a casa. Tutt’altro scenario nel caso in cui si incrinasse la pace sindacale. Ma è un’ipotesi remota perché chi protesta oggi lo fa proprio perché non ha rappresentanza. Sono padroncini e partite Iva, commercianti e artigiani. Mentre rimangono ancora di riserva quei lavoratori un tempo definiti atipici e oggi più semplicemente - e drasticamente – precari. Il sindacato non è riuscito negli ultimi anni a dare voce alle categorie del lavoro precario. Lo smantellamento del lavoro salariato, avviato “scientemente” dai neoliberisti e sostanzialmente accettato per pura dabbenaggine anche dalla sinistra, non solo ha rinsecchito l’area dei dipendenti a tempo indeterminato ma ha creato mille figure professionali diverse, spezzando così ogni ipotesi di solidarietà collettiva e ogni capacità di rappresentanza. E ora i sindacati hanno perso i contatti con i segmenti più periferici e marginali della società da un lato, e con quell’enorme serbatoio di lavoro parcellizzato, temporaneo e precario dall’altro. Questa apnea sindacale rispetto al mondo che c’è fuori delle residue fabbriche rende possibile il montare di un movimento sociale anti istituzionale. Qualunque sia l’esito della mobilitazione dei forconi, è evidente che la protesta ha abbandonato la via dell’espressione politica e si è trasferita nelle piazze.

Ma se Grillo ha sostanzialmente fallito e Berlusconi è patetico a pensare di potere cavalcare questo movimento, spetta alla nuova leadership del Pd e al governo de-berlusconizzato trovare una strada per rispondere alla mobilitazione di questa massa indistinta di spaesati dalla crisi. Perché quando una società entra in tensione, lo stato di stress che ne deriva da qualche parte “deve” trovare sbocco. E per quanto Pd e governo parlino da tempo della priorità del lavoro non è ancora stato presentato quel progetto che possa riaccendere la speranza. Il balletto indecente sull’Imu, le timidezza sulla detassazione e sul cuneo fiscale, la non-riforma del mercato del lavoro impediscono a questa maggioranza di offrirsi come interpreti del malessere. Con il rischio che i meno garantiti non guardino più ai partiti di sinistra ma alle formazioni populiste, un tempo incarnate dal forza-leghismo, oggi dal grillismo.

27 dicembre 2013 © Riproduzione riservata

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Titolo: Piero IGNAZI. Alfano decida cosa fare da grande
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2014, 05:51:05 pm
Piero Ignazi
Potere&Poteri

Alfano decida cosa fare da grande
Le scissioni in Italia hanno poco successo. Eppure il Nuovo centro democratico una possibilità ce l’ha: presentarsi agli elettori come una destra moderata, fedele agli ideali del Ppe. Prima però deve fare i conti con il berlusconismo
   
Poche scissioni hanno avuto fortuna nella storia dei partiti italiani. La più celebre, fortunata elettoralmente ma famigerata politicamente, fu quella comunista, nel 1921, durane il congresso del Partito socialista italiano. Nel dopoguerra furono ancora i socialisti al centro di devastanti conflitti interni: i socialdemocratici di Saragat abbandonarono il Psi di Nenni nel 1947 (e poi, dopo la riunificazione, se ne andarono di nuovo nel 1969) e nel 1964 fu la volta dei massimalisti del Psiup, contrari al centro-sinistra. Infine toccò al Pci, quando si trasformò in Pds dopo la caduta del Muro, subire la fuoriuscita dei nostalgici di Rifondazione comunista. Anche negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a spaccature a divisioni: nessuna di queste ha resistito a lungo. Futuro e Libertà, creatura di Gianfranco Fini, aveva le caratteristiche per potersi radicare: un leader riconosciuto e di prima grandezza, un retroterra organizzativo, una cultura politica ben distinta dalla casa madre. Ma gli errori tattici e strategici lo hanno perduto.

Ultimo arrivato è il Nuovo centro destra (Ncd) di Angelino Alfano. Per la formazione nata da una scissione del Pdl il futuro si presenta incerto. Al Ncd mancano un leader di provata esperienza politica (Alfano non ha il curriculum di Fini), una classe dirigente legata a lui da antiche fedeltà e, soprattutto, una visione politico-ideologica ben definita, riconoscibile e alternativa rispetto alla formazione di origine. In compenso il Ncd asserisce, in un sito peraltro drammaticamente povero di contenuti, di aver raccolto l’adesione di 2.500 amministratori locali (molti, in effetti) e ha organizzato un meeting di fondazione con molti partecipanti, naturalmente entusiasti. Al di là di tutto ciò, il suo asset consiste nella collocazione strategica: è indispensabile per la sopravvivenza del governo. Per Letta, una garanzia. Se il Ncd si stacca crolla tutto e non si ritorna certo indietro: le larghe intese sono morte e sepolte (e si spera sia così anche in futuro). Di rapporti civili con Grillo non ce n’è nemmeno l’ombra e quindi l’unica alternativa sono nuove elezioni. Letta e Alfano sono legati come fratelli siamesi. Se vogliono proseguire devono accettare di buon grado una netta curvatura “democrat” dell’azione di governo.

Finora il Pd è rimasto paralizzato in un’inevitabile anoressia politica post-bersaniana. Non sapeva cosa dire e cosa fare e si era rifugiato dietro Letta e Napolitano per limitare i danni. Ora il partito ha una nuova e scalpitante leadership che intende imprimere il proprio marchio al dibattito politico e di conseguenza all’attività dell’esecutivo. L’iniziativa di Renzi per una legge elettorale (per quanto siano molto discutibili i progetti presentati) dimostra che vuole avere a disposizione un’arma letale con cui condizionare la coalizione governativa. A questo punto il Ncd deve decidere cosa fare, indipendentemente dal sostegno al governo: darsi una prospettiva di lungo periodo con una definizione politico-culturale più precisa che accolga i valori del Partito popolare europeo e apra una riflessione critica sul berlusconismo; oppure chiudere la parentesi governativa e rientrare nell’orbita berlusconiana come la frangia più presentabile di una galassia che continua a ruotare intorno al Cavaliere, comunque sempre disposto ad accogliere le pecorelle smarrite...

La scelta di Alfano e soci aveva una motivazione “strumentale”: mantenere in vita l’esecutivo. Lecitissima, ma con questo solo appiglio non si riscuotono molti consensi nell’elettorato: va sostenuto da un progetto, da valori e giudizi distinti rispetto all’esperienza passata. Forse i legami personali e politici con il mondo berlusconiano e col Cavaliere in prima persona non sono stati recisi o chiaramente definiti. Ma questo è il momento delle scelte. Il Ncd ha l’opportunità di presentarsi come un’alternativa moderata, di destra, libera dall’imprinting berlusconiano. Se non la coglie, rischia l’estinzione. In fondo persino nel partito gollista si fanno i conti in maniera critica con la presidenza di Nicolas Sarkozy. Cosa trattiene dal farlo con il berlusconismo?

15 gennaio 2014 © Riproduzione riservatA

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2014/01/08/news/alfano-decida-cosa-vuol-fare-da-grande-1.148107


Titolo: Piero IGNAZI. Pd, ossia partito democristiano
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2014, 05:27:23 pm
Piero Ignazi
Potere&Poteri

Pd, ossia partito democristiano
È in corso una mutazione genetica dei democratici.
Matteo Renzi vira al centro e l’incontro con Silvio Berlusconi è tattico: disarmare l’avversario per conquistare le sue truppe. Come fece Togliatti con il qualunquista Giannini
   

È in corso una mutazione genetica nel Pd? Forse sì. Partiamo dalle poltrone. I duellanti del Pd, Matteo Renzi ed Enrico Letta provengono dalla tradizione democristiana e il reclutamento della classe dirigente nazionale e locale installa in posti chiave ex boy scout di fede para-democristiana sia per discendenza diretta, sia per linea acquisita attraverso la filiera Lusi-Rutelli. Giusto l’evangelico proposito di uccidere il vitello grasso quando i figliol prodighi ritornano all’ovile. Ma analoga attenzione andrebbe riservata ad altre tradizioni politiche. Invece, lo sgarbo riservato da Renzi al congresso di Sel rifiutando l’invito rivoltogli indica abbastanza chiaramente qual è il “verso” del segretario Pd: barra al centro. Del resto, i delegati renziani al Congresso di dicembre si collocano in maggioranza proprio al centro dello schieramento politico, ben lontani dall’orientamento più di sinistra degli elettori delle primarie, come risulta dall’inchiesta condotta da Paolo Natale, pubblicata sul sito web de Il Mulino. Il problema è che fare le alleanze per le giunte locali (si voterà in 39 comuni, questa primavera) sarà un bel rebus se va avanti così. Con chi stringerà accordi il partito democratico: con Dudù? - per riprendere l’espressione del segretario Renzi. Finora il Pd governa nella maggioranza delle città grandi e medie grazie ad ampie coalizioni aperte a sinistra.

Forse ora la nuova segreteria pensa di poter vincere sempre e comunque da sola. Non sarà facile nemmeno con la legge elettorale cucinata nelle trattorie fiorentine perché dovrà contrastare un centro-destra ampio, che da Forza Italia si estende ai Fratelli d’Italia in via di rinforzo con tutte le anime sparse nostalgiche, alla Lega che al momento buono scende sempre a miti consigli, e persino al Ncd di Alfano che difficilmente potrà allearsi con il Pd visti gli schiaffoni che sta prendendo da Renzi e l’ostilità alla sinistra della sua potenziale base elettorale. Eppure l’attivismo renziano sembra escludere intese o alleanze di antico conio. Allora la strategia è proprio quella di tentare il colpo grosso: rimettere in sella il partito a vocazione maggioritaria di veltroniana memoria. Certo, il Pd ha ancora un serbatoio di iscritti e un potenziale di mobilitazione inarrivabile agli altri partiti; ma non basta perché non è detto che queste risorse si mantengano inalterate. A forza di primarie aperte, perché mai uno deve iscriversi se poi non ha nemmeno il potere di scegliere i propri dirigenti e candidati? A meno di non voler fare dell’iscritto un semplice donatore di fondi come per una qualsiasi Onlus, è necessario offrirgli qualche incentivo in più. Quali non è dato sapere.

Ammettiamo però che fiutando l’odore della vittoria - la ragione principale per cui è stato plebiscitato Renzi alle primarie - il partito non si squagli. Come attrarre allora tanti nuovi elettori?

Risposta: puntando al centro, per fare del Pd la nuova Dc della terza repubblica. L’incontro con Berlusconi può essere visto in questa ottica. Mentre sotto un profilo etico-politico è stato inopportuno e soprattutto sguaiato per l’enfasi accordatagli (tutt’altra cosa se lo avesse convocato ufficialmente e pubblicamente come tutti gli altri, invece di riservargli una corsia preferenziale), sotto un profilo tattico l’intento potrebbe essere quello di “disarmare” l’avversario per conquistare le sue truppe. Così come Palmiro Togliatti incontrò Guglielmo Giannini, il leader dei qualunquisti del primo dopoguerra, e andando nella tana del leone dimostrò che aveva denti di carta, altrettanto tenta di fare Renzi con Berlusconi, benché i denti del caimano siano ben più affilati. In questo progetto il partito democratico non può che andare incontro ad una mutazione genetica: piazzato al centro, con un partito fluido e una nuova classe dirigente, interessato a rinverdire i fasti fanfaniani e demitiani di subordinazione dell’economia pubblica alla politica visto l’interessamento di Renzi per prossime nomine, il partito da “democratico” è in via di trasformazione in “democristiano”.

04 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2014/01/29/news/pd-ossia-partito-democristiano-1.150418


Titolo: Piero IGNAZI. Se Alfano diventa Ghino di Tacco
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2014, 07:49:59 am
Piero Ignazi
Potere&Poteri

Se Alfano diventa Ghino di Tacco
Il Nuovo centro destra può giocare, come il Psi di Craxi, su due tavoli: stare al governo e usare l’arma di ricatto del ritorno con Berlusconi. Un atteggiamento che porta benefici solo nel breve ma non costruisce una politica di respiro
   
Se Renzi ha avuto in questi giorni la sua grande occasione non è da meno quella che si offre ad Alfano. L’oggetto misterioso Nuovo Centro Destra, composto tutto di transfughi berlusconiani. per lo più di orientamento cattolico-ciellino, entra nel gioco politico per la prima volta in piena autonomia. Con Letta fungeva da stampella, e doveva reggere l’onta della sua nascita “poltronista”, per mera convenienza ministeriale. Ora, invece, il Ncd si presenta come formazione autonoma capace di trattare e contrattare con il presidente designato su ogni punto, dal programma ai ministeri (e forse oltre, pensando alla pioggia di nomine nei vari enti pubblici da definire). A ben vedere la posizione di Alfano e soci è molto confortevole.

Benché non godano di buona stampa e dalle file berlusconiane gli insulti siano all’ordine del giorno, oggi hanno guadagnato una posizione centrale nello scacchiere politico. Un loro spostamento a destra o al centro altera in maniera determinante gli equilibri politici. Lo strabismo moderato di Renzi ne ha fatto degli interlocutori fondamentali visto che il segretario del Pd di Sel non si cura affatto. E questo nonostante che il partito di Vendola fosse alleato del Partito Democratico in campagna elettorale. Detto en passant: presentarsi alle elezioni con un partner per ottenere il premio di maggioranza e poi scaricarlo, questo è il vero vulnus democratico, altro che il cambio di leader in corsa, perfettamente legittimo (e praticato) nei regimi parlamentari.

Accettando di sostituire Letta alla guida del governo dall’oggi al domani, Renzi non può che confermare la precedente maggioranza. Non ha altri spazi di manovra. L’unica alternativa ad un fallimento del suo tentativo sarebbero le elezioni. Ma, per quanto possa rigettare su altri la responsabilità del precipitare della crisi, per il leader del Pd lo smacco sarebbe enorme. E Alfano potrebbe tornare tranquillamente a casa Berlusconi che fa la voce grossa contro i reprobi che lo abbandonano, ma è pronto ad allargare le braccia sorridendo a 32 denti se le pecorelle smarrite ritornano all’ovile. Casini docet. Il Ncd può alzare il prezzo e tenere Renzi sulla corda riesumando Ghino di Tacco - l’auto raffigurazione del Psi craxiano pronto ad intervenire in maniera corsara contro i propri alleati. Questo atteggiamento porta benefici a breve termine, ma non costruisce una politica di respiro. Per avere una vita autonoma e un futuro politico il partito di Alfano deve caratterizzarsi come quel partito moderato che Berlusconi non è mai riuscito ad incarnare, così come, peraltro, i residuati centristi di ogni tipo (che ne è infatti delle celebrate convention cattoliche di Todi, foriere di una aurea rinascita democristiana?) .

I segnali di un percorso in questa direzione non sono chiari. L’opposizione feroce ai provvedimenti di “civiltà” sui nuovi assetti familiari come le unioni omosessuali, che in tutta Europa anche i partiti conservatori promuovono, indica un radicamento del Ncd in territori molto conservatori e forse addirittura più arretrati di quanto potrebbe emergere in Forza Italia. Ovviamente la connotazione confessionale della classe dirigente alfaniana spinge in quella direzione. Ma se poi aggiungiamo anche l’opposizione allo ius soli per i nuovi migranti e una chiusura sulla depenalizzazione della cannabis, il quadro ipermoderato del Nuovo centro destra prende forma. A questo punto la partnership con il Pd può giustificarsi solo sul piano dell’emergenza, della necessità di assicurare al Paese un governo dell’economia che, in un’ottica ben più filoeuropea rispetto a Forza Italia, rimetta in sesto il Paese. È questo il terreno necessitato della rinnovata alleanza di governo. Il Ncd sembra quindi voler marcare la propria diversità tradizionalista-confessionale verso sinistra, e la propria diversità responsabile, moderata ed europeista verso destra. Questa potrebbe essere una strategia vincente nel medio periodo per il partito di Alfano e per il governo Renzi. In attesa, però, che il Ncd decida da che parte stare.

27 febbraio 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2014/02/19/news/se-alfano-diventa-ghino-di-tacco-1.153948


Titolo: Piero IGNAZI. Renzi in Europa, ma non per lamentarsi
Inserito da: Admin - Aprile 11, 2014, 11:33:22 pm
Piero Ignazi
Potere&Poteri


Per convincere gli alleati a Bruxelles non serve alzare la voce o mostrare i muscoli. Il ricordo dei tentativi falliti di Berlusconi e Tremonti è ancora fresco. L’unica strada possibile per Matteo è mostrarsi davvero affidabile
   
Nei rapporti internazionali più del peso economico o, come si sarebbe detto un tempo, della potenza militare, vale una risorsa immateriale: la reputazione. Lo storico handicap italiano è proprio quello di una reputazione claudicante dovuta ad una scarsa affidabilità.

Dai giri di valzer all’8 settembre, le oscillazioni dei nostri governanti in tema di alleanze e di mantenimento degli accordi hanno impresso sull’Italia lo stigma di un paese che considera gli impegni presi “à la carte”: variabili e mutevoli a seconda delle circostanze. Se a questo aggiungiamo i frequenti cambi di governo, e quindi le diverse personalità che hanno incarnato la nostra politica estera, il problema di identificare un interlocutore affidabile da parte degli altri paesi aumenta esponenzialmente.

Sul piano internazionale la fine della guerra fredda non ha modificato le nostre linee guida di politica estera e quindi atlantismo ed europeismo sono rimaste le stelle polari anche se con enfasi diverse, calibrate sul colore politico delle coalizioni di governo che si sono succedute negli ultimi vent’anni. A un centro-sinistra fortemente impegnato nel progetto europeo e fedele all’alleanza atlantica si è alternato un centro-destra sbilanciato sulla sponda atlantica per compensare lo scarso feeling in sede Ue. Tuttavia, anche il latente euroscetticismo della coppia Berlusconi-Bossi nulla ha potuto di fronte ai vincoli dei trattati e delle norme adottate in sede comunitaria. Per fortuna, ovviamente. Senza quei vincoli il peronismo mediterraneo di stampo berlusconiano ci avrebbe condotto su una china argentina, come già alcuni analisti, nel gennaio 2011, al meeting annuale di Davos, preconizzavano.

Però la virtuosità imposta ai nostri conti pubblici (sfasciati) ha un costo, riassumibile in minor risorse da investire. Questo crea tensioni e impazienze. La disinvoltura finanziaria del centro-destra giustamente ne soffriva, ma altrettanto ne soffrono i tentativi di rilancio dell’economia attraverso investimenti e spese prefigurati dall’attuale governo. L’unica strada per poter rimodulare in altra forma alcune voci di spesa è quella di trovare un consensus generalizzato tra i partner europei. Si tratta cioè di creare una coalizione di interessi che faccia pressione, nelle sedi proprie, su quei governi che rimangono scettici sulla capacità di conciliare rigore e crescita nei paesi in maggiore difficoltà. E, per convincere gli altri, la reputazione di nazione “seria e affidabile” è fondamentale.

Per sua fortuna Matteo Renzi arriva dopo Mario Monti ed Enrico Letta, due leader tra i più stimati in Europa e soprattutto nelle istituzioni comunitarie. Il terreno è stato quindi ben preparato, ma il ricordo delle uscite improvvide di Berlusconi e Tremonti è ancora ben vivo nelle memorie delle cancellerie europee. Quelle posture assertive e protonazionaliste esibite dal nostro presidente del Consiglio nei primi incontri europei rischiano di richiamare le posizioni di quella coppia infausta e non la serietà dei suoi immediati predecessori. Le sue dichiarazioni burbanzose sull’Europa che deve cambiare sono controproducenti a Bruxelles, dove è meglio lasciar lavorare la diplomazia. E lo sono, anche e soprattutto, sul piano interno. Perché inevitabilmente sollecitano il sentimento di diffidenza e distacco verso l’Europa.

Di fronte ad un arco di forze euroscettiche quanto mai ampio, che va da Grillo a Berlusconi passando per la Lega e altri gruppi minori, il Pd e il governo devono innalzare senza remore gli ideali europeisti. Una politica lamentosa o rivendicativa nei confronti dell’Ue porta acqua al mulino degli avversari, oltre a far di nuovo inarcare sopraccigli a Bruxelles. Il Pd rischia un tonfo alle prossime elezioni europee se non si smarca dal coro antieuropeo. Non è seguendo la corrente euroscettica grillina che si sottraggono voti al M5S, tutt’altro: così facendo si dimostra che la loro posizione era corretta. Grinta e coraggio non mancano alla leadership di Renzi: li dimostri andando contro la corrente. Come mostrano le elezioni locali in Francia, le forze populiste sono in crescita. Vanno contrastate, non blandite.
03 aprile 2014 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2014/03/26/news/renzi-in-europa-ma-non-per-lamentarsi-1.158572


Titolo: Piero IGNAZI. Toh, è tornata la lotta di classe
Inserito da: Admin - Aprile 25, 2014, 05:49:27 pm
Piero Ignazi
Potere&Poteri

Toh, è tornata la lotta di classe
Poveri contro ricchi. Esclusi contro inclusi. Sono le fratture sociali più gravi, a giudizio degli italiani. La retorica populista ha saputo sfruttarle. Ora sono al centro dello scontro fra Grillo e Renzi. Che però ha un vantaggio...

Esistono fratture profonde che attraversano e dividono la società italiana in gruppi sociali contrapposti? Se pensiamo alla nostra storia e ci ricordiamo che siamo il popolo dei guelfi e ghibellini, dei Capuleti e Montecchi e dei mille campanili è probabile che la risposta sia positiva. In effetti, la politica italiana degli ultimi vent’anni porta il segno della conflittualità estrema e della divisività. E, detto en passant, è grave la responsabilità di quei leader politici che hanno fatto di tutto per approfondire i solchi tra i partiti, delegittimando costantemente gli avversari.

Un sondaggio condotto dall’Swg su questo tema offre un quadro illuminante delle divisioni che i cittadini ritengono più intense. A fronte di una serie di gruppi sociali posti in contrapposizione - ad esempio, operai/imprenditori, laici/cattolici, giovani/vecchi - gli intervistati dovevano indicare quanto forte fosse, a loro giudizio, il confitto tra ciascuna di queste coppie, in una scala da un minimo di 1 a un massimo di 10. Le contrapposizioni più nette rivelano la resistenza dei vecchi conflitti e l’emergere prepotente dei nuovi. Infatti, in cima a tutto troviamo, a pari merito, sia la storica frattura di classe (vista in termini tradizionali, operai/imprenditori, e in termini più generici, poveri/ricchi), sia la nuova frattura che attraversa l’Europa e l’Italia da almeno due decenni, quella populista, rappresentata dalle dicotomie popolo/élite ed esclusi/inclusi. Lotta di classe e conflitto socio-economico da un lato, contrapposizione populista tra chi sta in alto e chi sta in basso dall’altro, focalizzano l’attenzione e definiscono lo “spazio” dove si concentra la lotta politica.

La difesa degli interessi di classe è sempre stata, e in parte lo è ancora, la bandiera dei partiti socialisti.
Negli ultimi anni si è affievolito il richiamo di classe dei partiti di sinistra i quali hanno subìto l’offensiva neoconservatrice e liberista senza essere in grado di reagire efficacemente. Eppure, questo conflitto è ancora al centro della sensibilità dei cittadini. Certo, viene declinato anche in termini meno “politicamente corretti” come antagonismo tra ricchi e poveri, ma la questione del divario, abissale, delle condizioni economiche nelle società contemporanee viene tuttora considerata la più importante di tutte.
A questa visione dei contrasti più laceranti che attraversano il Paese si affianca, con una intensità simile, un antagonismo di taglio diverso, tra popolo ed élite, rinforzato da quello tra inclusi ed esclusi. La retorica populista, in Italia veicolata dal forza-leghismo, altrove da partiti estremisti come il Fronte nazionale di Marine Le Pen, ha fatto breccia: è diventata un criterio interpretativo delle società, semplificatorio ma di grande efficacia.

Chi riesce quindi a interpretare queste due coppie di conflitti, sul versante di classe e su quello populista, ha in mano le chiavi del successo elettorale. Silvio Berlusconi, insieme a Umberto Bossi, ha dominato la scena per lungo tempo perché rappresentava larga parte di chi “stava in basso” e dell’uomo qualunque, contrapposti all’establishment. Ora che il richiamo forzaleghista si è esaurito, è Beppe Grillo che dà voce, - ed è una voce ancor più potente - a questa divisione. Dall’altra parte dello schieramento politico Matteo Renzi tenta una operazione ambiziosa: colmare il fossato tra una rappresentanza tradizionale della sinistra - vedasi il feeling con la Fiom di Maurizio Landini e gli 80 euro in busta paga a operai e piccola borghesia - e la platea degli esclusi dando loro in pasto nemici vari, dagli alti burocrati ai professoroni, dai manager pubblici milionari agli stessi politici appollaiati sui loro scranni nelle Province o nel Senato. Il confronto tra Grillo e Renzi riflette proprio le più acute priorità e sensibilità dell’opinione pubblica. Entrambi combattono su toni populisti, con diverso grado di sguaiataggine, ovviamente; ma Renzi gode di un vantaggio competitivo, se lo sa giocare: quello della tradizione socialista.

21 aprile 2014 © Riproduzione riservata

DA - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2014/04/16/news/toh-e-tornata-la-lotta-di-classe-1.161351


Titolo: Piero IGNAZI: “Chi sono i populisti? Lega e Forza Italia. M5s difende le regole”
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2015, 04:44:44 pm
Piero Ignazi: “Chi sono i populisti? Lega e Forza Italia. M5s difende le regole”
Il professore di Politica Comparata dell’Università di Bologna: "Nel Movimento 5 Stelle manca l'elemento fondamentale del populismo, cioè il disprezzo della democrazia rappresentativa.
Non è così per il partito di Salvini e per gran parte di Fi"

di F. Q. | 30 agosto 2015

In una lettera inviata al Fatto Quotidiano, Beppe Grillo scrive che il populismo è “un atteggiamento sostenibile in politica soltanto se l’attore è al governo”. Aggiunge che la “Lega è populista”, mentre definisce M5s “difficilmente catalogabile” come tale. Abbiamo sentito cosa ne pensano Elisabetta Gualmini, politologa e vicepresidente della Regione Emilia Romagna e Piero Ignazi, professore di Politica comparata dell’Università di Bologna.

Che cos’è davvero il populismo? Per Piero Ignazi, accademico e politologo, è qualcosa di molto diverso dalla definizione comune. Lo stesso Grillo, nel definirlo, lo ha confuso con la demagogia che, si sa, “è una costante dei governi”.

Professor Ignazi, che differenza c’è tra demagogia e populismo?
Demagogia è ciò che, con un termine poco comune, si può definire “politica delle sovrapromesse”: promettere tutto, anche quello che non ci si può permettere, e cercare facili benefici nel breve periodo che però non abbiano alcun impatto sul lungo periodo. È il comportamento delle opposizioni che annunciano “quando saremo al governo faremo grandi cose” o quello di chi cerca di farsi eleggere promettendo ciò che sa già non potrà mantenere.

Il populismo?
È un atteggiamento basato su una mentalità che tende a dividere il mondo in due componenti: i buoni da un lato, i cattivi dall’altro. Con una forte componente moralista secondo cui i cattivi sono corrotti, prepotenti, d’élite mentre tra i buoni c’è il popolo disingannato, maltrattato dall’establishment, dall’élite culturale e mediatica. E l’unico modo per risolvere questa divisione è affidarsi alle virtù taumaturgiche di un capo che interpreta i bisogni della gente comune e sconfigge le pratiche della minoranza che opprime per i suoi interessi. Quindi c’è un leader salvifico e c’è una visione manichea, tra puri e impuri, corrotti e onesti.

A cosa conduce questa visione della realtà?
Al disconoscimento della democrazia rappresentativa, alla nascita di un rapporto diretto tra leader e popolo. Per questo il termine oggi ha un’accezione negativa che indica la democrazia rappresentativa e le leggi come qualcosa di fastidioso. Non contano le norme, non contano le regole nè le istituzioni: solo il volere del popolo, interpretato dal leader. Ma anche la demagogia è un elemento negativo, non virtuoso. Poi c’è il problema di come definire il Movimento 5 stelle. Ho un’opinione molto diversa dalla maggioranza. Non ritengo il Movimento 5 stelle sia populista.

Perché?
Il movimento di Grillo rende omaggio alle regole e alle norme, non pensa di trascenderle. Le vuole cambiare, le vuole modificare, migliorare magari, ma non vuole alterarle o cancellarle nè irriderle. Ne tiene conto. Ha una cultura politica legalistica atipica per i movimenti populisti che, di solito, sono molto più barricadieri. Resta, forse, la visione manichea, quella che nel giudicare atteggiamenti, opinioni, situazioni formula giudizi secondo un’opposizione radicale di vero e falso, bene e male, senza offrire alternative né ammettere sfumature. Però manca nel movimento di Grillo un elemento fondamentale del populismo

Quale?
Il disprezzo della democrazia rappresentativa. Inoltre, è un sostenitore della non violenza e contempla diversi obiettivi, non solo immigrazione e tasse. La Lega, ad esempio è populista, così come lo è stato gran parte di Forza Italia.

E allora perché ci si ostina a definirlo un movimento populista?
Perché è solo un’etichetta facile da applicare.

Di Virginia Della Sala

Da Il Fatto Quotidiano del 29 agosto 2015

Aggiornato da Redazione Web il 30 agosto 2015 alle ore 13.18
di F. Q. | 30 agosto 2015

da - http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/08/30/piero-ignazi-chi-sono-i-populisti-lega-e-forza-italia-m5s-difende-le-regole/1993649


Titolo: PIERO IGNAZI. Un nuovo sistema elettorale per rilegittimare la politica e i ...
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 22, 2018, 05:50:43 pm
Un nuovo sistema elettorale per rilegittimare la politica e i partiti
Anche le prossime elezioni probabilmente non vedranno alcuno schieramento ottenere la maggioranza dei seggi.
Un modo per risolvere il problema potrebbe essere quello di adottare il sistema elettorale francese, il maggioritario a doppio turno con ballottaggio

Di PIERO IGNAZI *
22 febbraio 2018

Questo è un articolo dell'Atlante elettorale della Società Italiana di Studi Elettorali (Sise) che - in collaborazione con Repubblica - offre ai lettori una serie di uscite settimanali in vista delle elezioni politiche del 2018. La Sise promuove dal 1980 la ricerca nel campo delle elezioni, delle scelte di voto e del funzionamento dei sistemi elettorali. L'Associazione si avvale del contributo di giuristi, sociologi, storici e scienziati della politica, con l'obiettivo di favorire la discussione attraverso l'organizzazione di convegni di taglio accademico aperti anche al contributo di politici e commentatori.

È molto probabile che dopo le elezioni ci troveremo di fronte ad un impasse, in quanto nessuno schieramento avrà ottenuto la maggioranza dei seggi. A meno che non si registri, ancora una volta, qualche transumanza da uno schieramento all'altro nelle aule parlamentari.

Del resto, la pratica del cambio di casacca si è così radicata nel nostro parlamento da non suscitare più il minimo scandalo. Chi voleva partiti destrutturati e centrati sugli elettori ha avuto ciò che ha predicato anche se, forse, non si aspettava un esito così 'devastante'; ma con uno sguardo lungo, alla Carlo Tullio Altan, si poteva ben vedere quali sono le costanti del far politica in Italia. In fondo, i partiti organizzati sono stati una parentesi. Ed hanno resistito a lungo nel dopoguerra grazie - mi si permetta il paradosso - all'esperienza del totalitarismo fascista. Ma oggi, nell'era della fluidità e della liquidità, tutto ritorna, e così il notabilato d'antan si attaglia bene a strutture partitiche sempre più permeabili alle risorse individuali che ciascun dirigente può portare in dote. Come se ne esce per rilegittimare la politica e i partiti?

I punti su cui agire sono molti, da una più pervasiva intrusione della legge nell'attività dei partiti stessi a modalità di finanziamento premiali e non punitive (come invece è stato fatto con l'attuale norma: un cedimento al peggior populismo), da criteri vincolanti per la selezione della classe dirigente a meccanismi che rendano effettiva la responsabilità degli eletti. E l'elenco potrebbe continuare.

Qui mi limito a suggerire un intervento sul sistema elettorale riproponendo un'ipotesi che Luciano Bardi, Oreste Massari e il sottoscritto, sotto l'egida di Giovanni Sartori, presentammo all'attenzione dei politologi (con una ampia ricezione) e dei parlamentari (con qualche gentile attenzione, ma senza alcuna implementazione) alla fine del 2014. Si tratta della introduzione del sistema elettorale francese, il maggioritario a doppio turno con ballottaggio. Perché cambiare ancora? E perché rivolgersi proprio Oltralpe?

In primo luogo perché l'attuale sistema elettorale è del tutto screditato: viene disconosciuto anche dai suoi padri e si dimostrerà del tutto inadatto a garantire la rappresentatività e a favorire la governabilità. Tutti convengono che vada modificato.

In secondo luogo perché il sistema maggioritario a doppio turno, oltre ad aver dato buona prova di sé in Francia, presenta alcuno almeno quattro vantaggi:
- riduce la frammentazione partitica;
- favorisce la costruzione di maggioranze alternative;
- legittima l'eletto con una ampia percentuale di votanti;
- facilita un rapporto diretto e potenzialmente più "fiduciario" tra cittadini e rappresentanti.
 
Se vogliamo entrare più in dettaglio, il sistema francese:
- non deprime la competizione, perché nessuno parte necessariamente sconfitto: al primo turno un brillante candidato di un piccolo partito può superare la soglia di sbarramento, e poi se la "giocherà";
- pur consentendo una competizione equa anche ai partiti minori non favorisce la frammentazione, in quanto la soglia di sbarramento punisce le liste velleitarie; ovviamente la soglia di sbarramento deve essere elevata, pari almeno al 15% dei votanti;
- facilita le aggregazioni tra i partiti al fine di presentare un candidato comune tanto al primo turno (per superare lo sbarramento) quanto e soprattutto al secondo turno (per vincere);
- porta alla luce del sole e definisce prima del voto tali alleanze, prefigurando in tal modo le future coalizioni governative;
- rinsalda, con il voto a un candidato nel collegio uninominale, il rapporto tra elettori e rappresentanti;
- fornisce maggiore legittimazione ai parlamentari in quanto essi sono eletti, nei loro collegi, con una quota di consensi elevata e, come insegna il caso francese, spesso a maggioranza assoluta.
 
Il sistema maggioritario a doppio turno appare quindi il più adatto a contenere la frammentazione, a rafforzare i rapporti fiduciari con gli eletti, a favorire la formazione di coalizioni e a scegliere una coalizione per il governo, consentendo una competizione bipolare e una democrazia dell'alternanza. Tutte caratteristiche che molti elettori e molti politici dicono di perseguire. Eppure solo il Pd, come in precedenza il Pds e i Ds, si è schierato a favore di questo sistema. Mentre a destra, Lega e Forza Italia - ma non Alleanza Nazionale che sostenne nel 1999 il referendum per l'abolizione della parte proporzionale del Mattarellum - si sono sempre opposti perché venivano penalizzati negli scontri uninominali. Di qui lo stallo. Ora però c'è un altro attore, il Movimento 5 Stelle. Che tuttavia predilige un sistema proporzionale. Una predilezione incomprensibile visto che, come è stato detto, i 5 Stelle sono una "macchina da ballottaggio". Ma proprio per questo, forse, possono cambiare orientamento.
 
* Piero Ignazi è professore di Scienza Politica presso l'Università di Bologna

© Riproduzione riservata 22 febbraio 2018

Da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni2018/2018/02/22/news/un_nuovo_sistema_elettorale-189366797/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S2.5-T2