LA-U dell'OLIVO
Novembre 27, 2024, 04:09:34 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 4 5 [6] 7
  Stampa  
Autore Discussione: Piero IGNAZI.  (Letto 59331 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #75 inserito:: Dicembre 07, 2012, 04:37:12 pm »

Opinione

Ma non lasciate il M5S alla destra

di Piero Ignazi

Il successo delle primarie rivela che la sinistra può sfidare con successo l'onda di disprezzo verso i partiti. Purché abbandoni quello sdegno altezzoso verso le (molte) persone che trovano in Grillo qualcosa di buono

(29 novembre 2012)

I partiti fanno tutti schifo come urla Beppe Grillo? A giudicare dall'affluenza alle primarie del centro-sinistra sembra proprio di no.
La partecipazione di più di 3 milioni di persone mette un freno alla polemica anti-partitica di cui si è fatto interprete principe il comico genovese: quando ci sono occasioni per partecipare alle scelte in modo diretto, trasparente e pulito i cittadini rispondono ancora.
Forti di questo successo il Pd e i suoi alleati possono affrontare l'onda grillina con maggiore tranquillità. Ed evitare di dipingere il M5S per quello che non è. Infatti, contro Grillo partono subito due accuse: populista e antipolitico. Sbagliate entrambe. Pur muovendosi sul filo della contrapposizione manichea, della divisione netta in due mondi separati e incomunicabili - noi buoni e loro cattivi - e rifiutando la logica della mediazione che è il cuore della politica, Grillo non definisce le istituzioni un ostacolo alla realizzazione della vera democrazia.
Certo, strapazza i partiti ed esalta i cittadini però non crede che la loro volontà debba imporsi al di là dei meccanismi istituzionali rappresentativi, né che la loro voce sia solo quella del capo.

FORSE PURE GRILLO NASCONDE pulsioni autoritarie, tuttavia le sue scomuniche - ingiustificabile quella sessista contro Federica Salsi - riflettono anche la difficoltà e lo spaesamento nel gestire una "cosa" che cresce esponenzialmente. E' il classico percorso dei movimenti. In questa fase tumultuosa non sorprende il verticismo del M5S, né che si intrecci con espressioni estreme della democrazia di base, quali le assemblee dei militanti che danno ogni sei mesi il voto agli eletti. Pan-partecipazionismo, rispondenza alla base, tentativi di democrazia deliberativa convivono, per ora, con la struttura di comando monocratica e auto-legittimata del capo. Ma dovranno arrivare a una definizione dei ruoli, sperabilmente democratica e bottom up.

Anche l'accusa di antipolitica non morde. Il sentimento antipolitico è tipico del qualunquismo, di chi rifiuta la politica in toto e la rifugge come una attività sporca e disonorevole in favore vuoi di un capo carismatico vuoi di un governo di tecnici - basta un bravo ragioniere al comando, diceva Guglielmo Giannini dell'Uomo Qualunque negli anni Quaranta. L'antipolitica non prevede partecipazione attiva, mobilitazione, impegno: è sinonimo di deresponsabilizzazione, di delega totale a fronte di un'attività, quella politica, considerata lontana, complessa e fastidiosa. Tutto il contrario dell'attivismo civico dei grillini.

PASSANDO AI CONTENUTI, dove si colloca Grillo? A destra o a sinistra? Chi abbia seguito nel tempo il suo blog ritrova molti tratti tipici della cosiddetta new politics degli anni Ottanta: ambiente, qualità della vita, consumatori, partecipazione attiva, critica ai partiti burocratizzati e autoreferenziali. Tutti temi tipici dei partiti verdi europei. Questo nocciolo classico è arricchito dalle tematiche dell'accesso alla rete, del digital divide, del copyright, che riecheggiano, anche qui con variazioni e sfumature, nei Pirati scandinavi e tedeschi. Va aggiunta una sensibilità per i diritti civili, dalla questione immigrazione alle brutalità poliziesche nelle manifestazioni, ai diritti sociali colpiti dalla crisi.

Nel suo insieme, M5S esprime quelle tendenze post-materialiste che dopo l'inabissamento dei verdi e dei radicali non hanno più avuto rappresentanza. E le esprime con la radicalità e l'asprezza tipica dei nuovi arrivati sulla scena politica. Grillo e i suoi saranno attori rilevanti del sistema partitico. Meglio che il centro-sinistra dismetta lo sdegno altezzoso con cui li tratta e ne comprenda le aspirazioni che provengono dal suo stesso mondo. Fin qui M5S ha drenato voti soprattutto dal centro-sinistra, ma non solo. Con la sua espansione elettorale ora attira consensi trasversali, mobilitati dal disgusto e dalla rabbia contro la classe politica. E questi sentimenti si annidano prevalentemente a destra. Con il grimaldello antipartitocratico Grillo erode il blocco elettorale del centro-destra. E' il primo a riuscirci in vent'anni. Rifiutare ogni rapporto con M5S con il rischio di non ancorare a sinistra questi voti in libera uscita sarebbe un'altra occasione persa.

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ma-non-lasciate-il-m5s-alla-destra/2195698/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #76 inserito:: Febbraio 09, 2013, 10:50:25 am »

Com'è finito male Monti

di Piero Ignazi

Abbandonata la sobrietà, il premier uscente sta facendo una campagna elettorale con la tuta mimetica. Pensa così di sottrarre voti a Berlusconi o a Grillo, invece sta solo danneggiatndo la sua reputazione

(06 febbraio 2013)

Da vent'anni, anche in Italia, si è affermata una logica di alternanza tra schieramenti contrapposti. Mario Monti sta cercando di rompere questo schema. Fin da subito si è proposto come il federatore degli scontenti del bipolarismo, facendo appello ai veri riformisti del centro-destra e del centro-sinistra. Ma il suo invito è stato raccolto da pochissime personalità. Soprattutto, non ha sfondato a destra. Questa scarsa adesione, dovuta anche alle esitazioni del Professore nel "salire" in campo, dando così tempo al Cavaliere per recuperare i suoi, ha mandato all'aria le prospettive di una rapida riconfigurazione del sistema partitico. Solo se Monti avesse attratto una componente significativa di esponenti pidiellini l'ipotesi strategica di un nuovo fronte moderato avrebbe preso corpo. Ora, invece, il centro si trova stretto tra le due coalizioni "tradizionali".

Per rompere questa tenaglia l'ex rettore della Bocconi ha abbandonato il loden per indossare la tuta mimetica del combattente. Un ruolo che non gli si addice. Lo stile sobrio e misurato era la sua cifra identificativa. Abbandonarsi a espressioni tipiche della lotta politica, inevitabilmente sanguigne e a volte volgari, deturpa la sua immagine. Se Monti non si distingue più dagli altri per ragionevolezza ed equilibrio perde quell'aura di competenza e serietà che gli è valsa tanti riconoscimenti. La sua mutazione, però, non riguarda tanto la perdita dell'aplomb, quanto i contenuti che sta proponendo.

L'Agenda Monti era, grosso modo, in continuità con le linee programmatiche del governo da lui presieduto. La campagna elettorale che sta conducendo va invece in tutt'altra direzione. Prendiamo il caso del fisco. Dopo aver posto in cima alle emergenze nazionali la questione dell'evasione fiscale, e aver delegittimato con forza tutte le "scuse" avanzate dagli evasori, ora sembra essersene dimenticato. Equitalia viene lasciata sola di fronte alle accuse di terrorismo fiscale e si disconosce la paternità del redditometro. In più, Monti partecipa al balletto delle promesse di riduzione delle tasse, ivi compresa l'Imu, sconfessando implicitamente la validità di una imposta sulla casa. In sostanza, insegue Pdl e Lega sul loro terreno, senza avere la forza o il coraggio di mantenere la barra dritta su una posizione di autentico rigore. L'altro disconoscimento di uno dei tratti innovativi del montismo riguarda l'equità, corollario alla lotta all'evasione. L'idea che chi più ha più dà, si è persa per strada. Nemmeno l'insistenza dell'amministrazione Obama su questo punto ha fatto breccia nel Professore.

Abbandonati questi punti di convergenza oggettivi con il programma del centro-sinistra, Monti ha aperto il fuoco contro il Pd accusandolo di essere succube della triade diabolica Fassina-Vendola-Camusso.

Questo atteggiamento conflittuale nei confronti della sinistra riflette due intenti diversi. Da un lato può essere la cartina di tornasole dell'anima moderata-conservatrice di Monti, fedele all'ortodossia neoliberista senza tenere in conto i disastri prodotti e le autocritiche più autorevoli: da ultimo il rapporto del direttore del Research department del Fmi, Oliver Blanchard, che ammette gli errori di sottovalutazione della contrazione del reddito provocato delle misure di austerità imposte. In quest'ottica, Monti rappresenta la vera alternativa alla sinistra e solo l'anomalia forzaleghista lo obbliga a una "faticosa" e poco gratificante collocazione centrista.

D'altro lato questa curvatura moderata può tingersi di necessità tattica per conquistare quell'elettorato di destra ancora indeciso se astenersi o ritornare all'ovile (o votare Grillo). Anche se l'80 per cento degli ex elettori di destra non danno un buon giudizio sul governo tecnico è quello il bacino cui attingere.

Qualunque siano i motivi della mutazione del Professore, rivelatori o tattici, in ogni caso Monti perde l'appeal del leader tutto concentrato sulla risoluzione dei problemi del paese. Diventa uno dei contendenti della campagna elettorale. E, finora, senza distaccarsene né per stile né per contenuti.

   
© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/come-finito-male-monti/2199464/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #77 inserito:: Marzo 29, 2013, 12:03:22 pm »

Opinione

Pier Luigi, lascia stare

di Piero Ignazi

Il segretario ha il merito di aver imboccato la via del rinnovamento e dell'ascolto del suo elettorato. Ma lo ha fatto troppo tardi e ora c'è chi può interpretare questa strategia meglio di lui

(27 marzo 2013)

Il Partito Democratico ha una strada obbligata per uscire dall'impasse in cui si ritrova: sfidare il Movimento 5 Stelle, sia obbligandolo a scegliere nelle aule parlamentari, sia incalzandolo sul suo stesso terreno della riforma della politica per recuperare quegli elettori che sono passati al partito di Grillo per "protesta".

Non che il M5S sia un partito di sola protesta. Chi seguiva il blog di Beppe Grillo vedeva proliferare una miriade di iniziative locali, circoscritte e concrete, incentrate soprattutto su temi ambientali e della vivibilità quotidiana. Questo associazionismo di base, che si nutre dell'informazione, risonanza e aggregazione che la Rete può offrire, ha un profilo da "responsabilità civica". Gli amici di Mario Monti non si sentano defraudati del loro titolo di civici a 24 carati: in realtà è nell'associazionismo di base più che nei circoli ristretti dell'establishment che oggi si esprime il desiderio-bisogno dei cittadini di riprendere in mano il loro destino.

Le componenti più attive di questi gruppi locali costituiscono l'ossatura militante del M5S, quella più partecipante e critica. A costoro si sono poi aggiunte valanghe di elettori, attratti dalle invettive palingenetiche del guru genovese.
Il consenso è arrivato da ogni sponda politica, a 360 gradi, protestando contro tutto e tutti; ma nel fondo si intravede in filigrana un atteggiamento di sfiducia nei confronti della sinistra tradizionale che ha tradito speranze e attese.

Per recuperare consenso il Pd non può che puntare in quella direzione. Lì ci sono i suoi elettori delusi. E sono molti. L'inseguimento affannoso di Monti e lo scusarsi continuo per l'alleanza con il bolscevico di Bari poteva soddisfare ambienti economici e influenti opinion-makers, ma smagava vastissime platee di potenziali elettori. Il Pd non aveva capito quanto fosse forte la domanda di cambiamento e di radicalità nell'opinione pubblica. Ora sembra aver colto il messaggio: le candidature di Laura Boldrini e di Pietro Grasso alla presidenza di Camera e Senato vanno nella direzione giusta. Aprono una breccia nei grillini e scalfiscono la diffidenza dei suoi ex sostenitori. Una volta imboccata questa strada, difficilmente il Pd potrà tornare indietro, vale a dire riprendere il corteggiamento centrista o addirittura pensare ad accordi con Berlusconi.


Un altro governo di unità nazionale caldeggiato a gran voce dal Pdl proprio per uscire dall'isolamento in cui si ritrova, è implausibile: sarebbe suicida che proprio adesso il Pd rinunci al conflitto di interessi e al falso in bilancio, dopo che per tutta la campagna elettorale è stato inchiodato alla sua inerzia su questi temi. Quindi se Bersani vuole stanare i grillini dal loro infantilismo istituzionale e dalle loro contraddizioni politiche non gli rimane che procedere nel rinnovamento; un rinnovamento che dovrà avere - come già dimostra - una curvatura radicale.

In questo quadro, le azioni di Matteo Renzi, invocato fino a ieri come l'ancora di salvezza, sono in ribasso. Il sindaco di Firenze si era accreditato come l'uomo della trasversalità che poteva attrare consensi da destra e dal centro. Una ipotesi, questa, che non prevedeva né il 25 per cento di voti al M5S, né il collasso del Pdl. Restringere ulteriormente la destra già oggi al suo minimo storico e ben lontana dai trionfi di cinque anni fa, è impossibile.

Forse qualcosina si può rosicchiare dai centristi in disfacimento. Ma il grosso dell'elettorato contendibile sta dalle parti dei grillini. E quindi: qual è l'appeal di Renzi nei confronti della platea degli arrabbiati e dei delusi? Rinnovando-rottamando la classe dirigente del Pd, e proponendo una agenda d'attacco e di riforma della politica, l'usato sicuro di Bettola ha ingranato una nuova marcia. Anche se poi sbanda alla curva di Palazzo Chigi, la strategia del recupero di quel 25 per cento non cambia. Qualcun altro la può interpretare meglio, ma il campo
è aperto.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/pier-luigi-lascia-stare/2203317/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #78 inserito:: Aprile 02, 2013, 12:23:42 pm »

Pier Luigi, lascia stare

di Piero Ignazi

Il segretario ha il merito di aver imboccato la via del rinnovamento e dell'ascolto del suo elettorato. Ma lo ha fatto troppo tardi e ora c'è chi può interpretare questa strategia meglio di lui

(27 marzo 2013)

Il Partito Democratico ha una strada obbligata per uscire dall'impasse in cui si ritrova: sfidare il Movimento 5 Stelle, sia obbligandolo a scegliere nelle aule parlamentari, sia incalzandolo sul suo stesso terreno della riforma della politica per recuperare quegli elettori che sono passati al partito di Grillo per "protesta".

Non che il M5S sia un partito di sola protesta. Chi seguiva il blog di Beppe Grillo vedeva proliferare una miriade di iniziative locali, circoscritte e concrete, incentrate soprattutto su temi ambientali e della vivibilità quotidiana. Questo associazionismo di base, che si nutre dell'informazione, risonanza e aggregazione che la Rete può offrire, ha un profilo da "responsabilità civica". Gli amici di Mario Monti non si sentano defraudati del loro titolo di civici a 24 carati: in realtà è nell'associazionismo di base più che nei circoli ristretti dell'establishment che oggi si esprime il desiderio-bisogno dei cittadini di riprendere in mano il loro destino.

Le componenti più attive di questi gruppi locali costituiscono l'ossatura militante del M5S, quella più partecipante e critica. A costoro si sono poi aggiunte valanghe di elettori, attratti dalle invettive palingenetiche del guru genovese.
Il consenso è arrivato da ogni sponda politica, a 360 gradi, protestando contro tutto e tutti; ma nel fondo si intravede in filigrana un atteggiamento di sfiducia nei confronti della sinistra tradizionale che ha tradito speranze e attese.

Per recuperare consenso il Pd non può che puntare in quella direzione. Lì ci sono i suoi elettori delusi. E sono molti. L'inseguimento affannoso di Monti e lo scusarsi continuo per l'alleanza con il bolscevico di Bari poteva soddisfare ambienti economici e influenti opinion-makers, ma smagava vastissime platee di potenziali elettori. Il Pd non aveva capito quanto fosse forte la domanda di cambiamento e di radicalità nell'opinione pubblica. Ora sembra aver colto il messaggio: le candidature di Laura Boldrini e di Pietro Grasso alla presidenza di Camera e Senato vanno nella direzione giusta. Aprono una breccia nei grillini e scalfiscono la diffidenza dei suoi ex sostenitori. Una volta imboccata questa strada, difficilmente il Pd potrà tornare indietro, vale a dire riprendere il corteggiamento centrista o addirittura pensare ad accordi con Berlusconi.

Un altro governo di unità nazionale caldeggiato a gran voce dal Pdl proprio per uscire dall'isolamento in cui si ritrova, è implausibile: sarebbe suicida che proprio adesso il Pd rinunci al conflitto di interessi e al falso in bilancio, dopo che per tutta la campagna elettorale è stato inchiodato alla sua inerzia su questi temi. Quindi se Bersani vuole stanare i grillini dal loro infantilismo istituzionale e dalle loro contraddizioni politiche non gli rimane che procedere nel rinnovamento; un rinnovamento che dovrà avere - come già dimostra - una curvatura radicale.

In questo quadro, le azioni di Matteo Renzi, invocato fino a ieri come l'ancora di salvezza, sono in ribasso. Il sindaco di Firenze si era accreditato come l'uomo della trasversalità che poteva attrare consensi da destra e dal centro. Una ipotesi, questa, che non prevedeva né il 25 per cento di voti al M5S, né il collasso del Pdl. Restringere ulteriormente la destra già oggi al suo minimo storico e ben lontana dai trionfi di cinque anni fa, è impossibile.

Forse qualcosina si può rosicchiare dai centristi in disfacimento. Ma il grosso dell'elettorato contendibile sta dalle parti dei grillini. E quindi: qual è l'appeal di Renzi nei confronti della platea degli arrabbiati e dei delusi? Rinnovando-rottamando la classe dirigente del Pd, e proponendo una agenda d'attacco e di riforma della politica, l'usato sicuro di Bettola ha ingranato una nuova marcia. Anche se poi sbanda alla curva di Palazzo Chigi, la strategia del recupero di quel 25 per cento non cambia. Qualcun altro la può interpretare meglio, ma il campo
è aperto.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/pier-luigi-lascia-stare/2203317/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #79 inserito:: Aprile 18, 2013, 11:42:43 pm »

Opinioni

Ma io dico: bravo Bersani

di Piero Ignazi

Dopo le elezioni, il segretario è stato umile e coraggioso nel confronto con il M5S. Eppure nel partito è scattato il riflesso automatico dell'accordo con la destra. Che porterebbe solo catastrofi

(16 aprile 2013)

In questa fase post-elettorale si continua a rimuovere la realtà dei fatti; e ciò genera (almeno) tre illusioni. La prima riguarda il rifiuto del nuovo, dell'imprevisto, dell'inedito, come se ci trovassimo ancora inchiodati al vecchio schema centro-destra contro contro-sinistra. Nulla di più lontano dalla realtà. I due schieramenti alternativi che si sono combattuti per questi vent'anni sono stati travolti dallo tsunami grillino.

Qualche dato per vedere meglio la dimensione "storica" di questo risultato. Il Movimento 5 Stelle è il primo partito in sei regioni, in 50 province e in 2.697 comuni (33,6 per cento), appena dietro il Pd, che è primo in 2.799 comuni (34,9), e distanziando nettamente il Pdl, in testa in 2013 comuni (25,1) secondo elaborazioni dell'Istituto Cattaneo). In questo ventennio soltanto Forza Italia nel 2001, e Pd e Pdl, a loro volta fusioni di più partiti, avevano ottenuto più voti del M5S. (La Lega, tanto per segnalare il suo precipitoso declino, è prima in appena 267 comuni, che rappresentano il 3,3 per cento del totale). Sono forse voti in libera uscita, soprattutto dal Pd, ma non è detto che ritornino tutti all'ovile soprattutto se il buon pastore prende la strada sbagliata. Sono voti che esprimono frustrazione e insofferenza ma anche voglia di cambiamento.

L'unico ad averlo capito è il cireneo Bersani che ha avuto l'umiltà e il coraggio di rivolgersi a loro senza quella supponenza tante volte rimproverata alla sinistra. Il segretario del Pd ha seguito le orme di quei (pochi) leader della sinistra d'un tempo che erano andati a dialogare con il movimento studentesco ricevendo, inevitabilmente, una montagna di sberleffi e insulti. Curioso che nessuno abbia messo in rilievo che nell'arroganza infantile dei capigruppo grillini risuonava la stessa tracotanza di chi, all'epoca, veleggiava fiero a guidare la rivoluzione proletaria e scherniva gli imborghesiti rappresentanti della sinistra storica. Corsi e ricorsi della politica.

Invece di apprezzarne l'apertura e la mancanza di alterigia, Bersani è stato rimproverato e ulteriormente irriso. Con i grillini, invece, bisognava parlare ?€“ e bisogna insistere - perché loro, non il sopravvissuto Berlusconi, rappresentano il nuovo, quanto si è smosso nella società italiana. Il linguaggio del M5S potrà irritare (l'idolatrato Bossi era forse un damerino della politica?), tuttavia l'anima corrosa e stanca dell'Italia si è indirizzata verso di loro. Invece monta all'interno del Pd il riflesso catto-comunista del compromesso storico in versione riveduta e corretta: le grandi forze responsabili che si uniscono per il bene del paese.
E qui arriva la seconda illusione, e cioè che il Pdl sia una forza politica affidabile e "presentabile". Se lo si considera tale, allora era sbagliata l'interpretazione del berlusconismo come responsabile dello sfascio economico-sociale, e anche etico, di questo paese. Quindi, che i sostenitori dell'incontro con Berlusconi facciano ammenda dei loro errori passati.

La terza illusione è che il centro-destra e il Pdl rappresentino ancora l'altra metà dell'elettorato, l'unica controparte in campo. Non è più così. Il Pdl è un partito in disarmo, quasi scomparso al nord e rifugiatosi in Puglia (governatore Vendola, qualche mea culpa?), in Campania, nel Lazio esclusa Roma, e in qualche altra zona sparsa qua e là. Solo la sprovvedutezza o i calcoli interessati di qualche dirigente democrat possono riportarlo a galla.

Ottimo esempio di questa pulsione suicida è lo scambio Quirinale-Palazzo Chigi, dove i "responsabili" del Pd offrono agli avversari una posizione sicura per sette anni in cambio di un appoggio di qualche mese a un governo rachitico. Non a caso Renzi e i suoi sono favorevoli a questa ipotesi. Un accordo con il Pdl significa un ritorno al passato, al vecchio, cosa che consentirebbe al sindaco di Firenze di presentarsi poi come la vera novità rispetto alla solita contrapposizione tra Pd e Pdl. Qualora andasse in porto questa operazione, il futuro è disegnato: un centro riformista guidato da Renzi contro una opposizione radicale guidata da Grillo. De gustibus...

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ma-io-dico-bravo-bersani/2204632/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #80 inserito:: Maggio 16, 2013, 11:20:25 pm »


Opinione

Il Pd ha perso la sinistra

di Piero Ignazi

Nei prossimi mesi, inevitabilmente, gli italiani che hanno votato democratico per 'smacchiare il giaguaro' si rivolgeranno altrove. Quanti saranno, ancora non si sa. Ma il M5S è pronto a fare il pieno

(06 maggio 2013)

Pier Luigi Bersani Pier Luigi BersaniGli attori politici tradizionali continuano a non prendere atto del cambiamento tellurico avvenuto nella politica italiana: la sua scomposizione in partes tres. All'inizio, Pier Luigi Bersani ha cercato di farvi fronte, peraltro maldestramente e poco convintamente, ma subito è rimasto schiacciato tra i custodi dell'ortodossia bipolare e le arroganze imberbi e isteriche dei grillini. A parte quella parentesi sfortunata, tutti si muovono come nulla fosse successo, come ai vecchi tempi della contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra. La sopravvivenza di questo schema mentale, oltre al servilismo dei media e alla improntitudine degli avversari, oltre alle risorse del suo padre padrone (chi sarà il prossimo de Gregorio?), ha consentito al Pdl di rimanere al centro della scena.

In quale altro paese al mondo un partito che perde sei milioni di voti e precipita dal 37 al 21 per cento continuerebbe a godere dell'ammirazione sconfinata non solo dei suoi membri ma anche di quella degli avversari e di buona parte degli "osservatori"? Vi immaginate un leader britannico, francese o inglese ancora in sella ed omaggiato dopo una tale catastrofe? Tant'è per spiegare ancora una volta l'eccezionalità italiana. Che comunque si è arricchita di altro aspetto, forse destinato a diffondersi in Europa.

Mentre il berlusconismo è un prodotto italico che solo da noi poteva attecchire vista la possibilità di concentrare tanti poteri nelle mani di una persona sola (e ci sono soi-disant liberali che sostengono il Cavaliere...) e l'irrilevanza di ogni criterio etico-morale nell'opinione pubblica, il grillismo può invece fare scuola. Il suo impasto antipolitico-postmaterialista, che coniuga insoddisfazione e rabbia nei confronti di un sistema politico-economico inefficiente e corrotto con proposte ecologico-solidali (dall'energia rinnovabile al salario di cittadinanza), tocca le corde di un'opinione pubblica europea disincantata, insoddisfatta ma non "arretrata" . Mentre i populismi di destra attraggono le componenti culturalmente più tradizionaliste e socialmente più marginali, il populismo postmaterialista del M5S pesca anche tra elettori giovani e con buon livello di istruzione. La produzione a getto continuo di iperboli e insulti da parte di Beppe Grillo e il suo stile da irriverente joker, oltre a una rappresentanza parlamentare al di sotto di ogni immaginazione - dalla biliosa maestrina Lombardi al pingue arruffone Crimi - rischiano ora di relegare il M5S nel folkloristico. Con la conseguenza che gli altri attori continuano a comportarsi come se i grillini non ci fossero, come se non rappresentassero un quarto dell'elettorato.

Come si è visto, il primo a subire le conseguenze di questa ottusità è stato proprio il Pd. E infatti, dopo essersi ritratto sdegnato da una possibile intesa con il M5S su un nome condiviso ?€“ e ce n'erano, eccome - , la "ditta", ormai in fallimento, è andata a genuflettersi di fronte a Berlusconi. Certo, lo streaming di Bersani bruciava ancora. Ma questo atteggiamento di chiusura fa perdere al Pd il contatto con un mondo non pregiudizialmente ostile alla sinistra, semmai popolato di delusi e arrabbiati da recuperare. E lo si lascia veleggiare con il vento in poppa nelle acque dell'opposizione.

L'incombente, e ulteriore, governo di emergenza che rimastica la vecchia maggioranza montiana (se Mario Monti non si fosse fatto contagiare dal virus della politica un governo di questo genere sarebbe stato fatto in un battibaleno...) dovrà fronteggiare una contestazione parlamentare di sinistra ben più vivace rispetto al passato. Mentre la Lega non ha più voce né rilievo, e forse farà parte del coro, il M5S ha tutta l'energia dei nuovi movimenti. Ovviamente, il bersaglio prediletto di questa opposizione sarà il Partito democratico. Forse il Pd sottovaluta la pressione congiunta che viene da nuovi antagonisti privi di ogni stigma di sinistra radical old style e dalla sua stessa base.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-pd-ha-perso-la-sinistra/2206140/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #81 inserito:: Maggio 24, 2013, 11:10:14 am »

Opinione

Il Pd ha perso la sinistra

di Piero Ignazi

Nei prossimi mesi, inevitabilmente, gli italiani che hanno votato democratico per 'smacchiare il giaguaro' si rivolgeranno altrove.
Quanti saranno, ancora non si sa. Ma il M5S è pronto a fare il pieno

(06 maggio 2013)

Gli attori politici tradizionali continuano a non prendere atto del cambiamento tellurico avvenuto nella politica italiana: la sua scomposizione in partes tres. All'inizio, Pier Luigi Bersani ha cercato di farvi fronte, peraltro maldestramente e poco convintamente, ma subito è rimasto schiacciato tra i custodi dell'ortodossia bipolare e le arroganze imberbi e isteriche dei grillini. A parte quella parentesi sfortunata, tutti si muovono come nulla fosse successo, come ai vecchi tempi della contrapposizione tra centro-destra e centro-sinistra. La sopravvivenza di questo schema mentale, oltre al servilismo dei media e alla improntitudine degli avversari, oltre alle risorse del suo padre padrone (chi sarà il prossimo de Gregorio?), ha consentito al Pdl di rimanere al centro della scena.

In quale altro paese al mondo un partito che perde sei milioni di voti e precipita dal 37 al 21 per cento continuerebbe a godere dell'ammirazione sconfinata non solo dei suoi membri ma anche di quella degli avversari e di buona parte degli "osservatori"? Vi immaginate un leader britannico, francese o inglese ancora in sella ed omaggiato dopo una tale catastrofe? Tant'è per spiegare ancora una volta l'eccezionalità italiana. Che comunque si è arricchita di altro aspetto, forse destinato a diffondersi in Europa.

Mentre il berlusconismo è un prodotto italico che solo da noi poteva attecchire vista la possibilità di concentrare tanti poteri nelle mani di una persona sola (e ci sono soi-disant liberali che sostengono il Cavaliere...) e l'irrilevanza di ogni criterio etico-morale nell'opinione pubblica, il grillismo può invece fare scuola. Il suo impasto antipolitico-postmaterialista, che coniuga insoddisfazione e rabbia nei confronti di un sistema politico-economico inefficiente e corrotto con proposte ecologico-solidali (dall'energia rinnovabile al salario di cittadinanza), tocca le corde di un'opinione pubblica europea disincantata, insoddisfatta ma non "arretrata" . Mentre i populismi di destra attraggono le componenti culturalmente più tradizionaliste e socialmente più marginali, il populismo postmaterialista del M5S pesca anche tra elettori giovani e con buon livello di istruzione. La produzione a getto continuo di iperboli e insulti da parte di Beppe Grillo e il suo stile da irriverente joker, oltre a una rappresentanza parlamentare al di sotto di ogni immaginazione - dalla biliosa maestrina Lombardi al pingue arruffone Crimi - rischiano ora di relegare il M5S nel folkloristico. Con la conseguenza che gli altri attori continuano a comportarsi come se i grillini non ci fossero, come se non rappresentassero un quarto dell'elettorato.

Come si è visto, il primo a subire le conseguenze di questa ottusità è stato proprio il Pd. E infatti, dopo essersi ritratto sdegnato da una possibile intesa con il M5S su un nome condiviso ?€“ e ce n'erano, eccome - , la "ditta", ormai in fallimento, è andata a genuflettersi di fronte a Berlusconi. Certo, lo streaming di Bersani bruciava ancora. Ma questo atteggiamento di chiusura fa perdere al Pd il contatto con un mondo non pregiudizialmente ostile alla sinistra, semmai popolato di delusi e arrabbiati da recuperare. E lo si lascia veleggiare con il vento in poppa nelle acque dell'opposizione.

L'incombente, e ulteriore, governo di emergenza che rimastica la vecchia maggioranza montiana (se Mario Monti non si fosse fatto contagiare dal virus della politica un governo di questo genere sarebbe stato fatto in un battibaleno...) dovrà fronteggiare una contestazione parlamentare di sinistra ben più vivace rispetto al passato. Mentre la Lega non ha più voce né rilievo, e forse farà parte del coro, il M5S ha tutta l'energia dei nuovi movimenti. Ovviamente, il bersaglio prediletto di questa opposizione sarà il Partito democratico. Forse il Pd sottovaluta la pressione congiunta che viene da nuovi antagonisti privi di ogni stigma di sinistra radical old style e dalla sua stessa base.

 
© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-pd-ha-perso-la-sinistra/2206140/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #82 inserito:: Giugno 01, 2013, 04:22:27 pm »

Opinione

E la destra sta peggio di tutti

di Piero Ignazi

Berlusconi sembrava tornato più forte di prima. Ma non è così, la crisi del sistema coinvolge anche lui.

E l'analisi dei flussi in corso in questi mesi lo conferma

(23 maggio 2013)


I casi sono due: o il berlusconismo era finito nel novembre del 2011 oppure si era solo chiusa una parentesi. Molti di coloro che avevano sancito la chiusura di un ciclo avevano sottolineato che tramontava un modo di intendere la politica (commistione di interessi privati e pubblici), l'indifferenza/insofferenza per i check and balance tra le istituzioni (demonizzazione e marginalizzazione della magistratura, ed esaltazione del governo contro il parlamento), uno "stile di vita" incompatibile con la funzione (dalle cene eleganti di Arcore ai rapporti con faccendieri vari, da Lavitola in giù), l'irrilevanza a livello di Unione europea e internazionale (isolamento e persino dileggio da parte dell'establishment internazionale). Il governo Monti, pur con i numerosi errori dovuti all'inesperienza e una certa hybris tecnocratica, ci aveva fatto uscire dall'emergenza economica e democratica.

Il terremoto elettorale e la disastrosa gestione post-elezioni del Pd hanno fatto cambiare opinione a molti. Lecito, ovviamente, ma fino a un certo punto. Non è che gli errori di Bersani stendano un velo d'oblio sull'essenza del berlusconismo. Se si vanno a leggere quei giudizi non c'è nulla che non possa essere sottoscritto ancora oggi. Risolto il conflitto d'interessi? Diventato più istituzionale il Pdl dopo gli assalti al Palazzo di giustizia di Milano? Orientato a difendere interessi generali e di sviluppo duraturo con il ricatto sull'Imu? Ma non scherziamo.

Anche se all'apparenza il berlusconismo sembra tornato più bello che pria grazie all'insperato ritorno al governo, così non è. Se si analizzano con calma i dati elettorali il futuro della destra non è per nulla roseo. I 6 milioni di voti persi dal Pdl, più il milione e mezzo abbondante perso dalla Lega, portano la destra al suo minimo dal 1994, addirittura sotto il 30 per cento. Inoltre il Pdl perde la sua storica egemonia nel Nord: lì, in nessuna provincia è primo. E' diventato un partito meridionale: cioè resiste in quelle aree dove più forte è la volalitilità elettorale (oggi qui, domani da un'altra parte) e dove più acuta è la sensibilità a interpretazioni ad hoc delle norme (fisco, abusivismo edilizio, contributi pensionistici) e alla difesa del posto di lavoro pubblico. Non proprio il massimo della modernità.

Ma, soprattutto, è l'appello populistico e "novatore" del berlusconismo, vero motore dei suoi successi, che non può più sfondare. Le sue prospettive di sviluppo sono bloccate dal Movimento 5 Stelle. Il successo di Beppe Grillo non va derubricato a fenomeno passeggero. Le basi del consenso dei grillini sono solide perché ben difficilmente il governo Letta-Alfano potrà recuperare lo scontento e la disaffezione alla politica, la rabbia e la frustrazione dovuta all'impoverimento generalizzato.

La sfiducia nei confronti del sistema ha raggiunto livelli elevatissimi. E ha trovato un nuovo interprete "credibile". Fino a che non cambieranno alcuni fondamentali - ma né la classe politica sta dando prova di innovazione e cambiamento, né l'economia può migliorare nel breve periodo, né la giustizia sociale diffondersi - l'appello anti-establishment dei grillini raccoglierà consensi, forse non così ampi ma certo consistenti. E chi ha abbandonato Berlusconi per Grillo per quale motivo tornerebbe indietro, visto che quest'ultimo veicola un messaggio dello stesso tenore, pur con alcune varianti?

Alla fine, mentre Il Pd, agendo sulla leva del rinnovamento generazionale interno e della maggior radicalità può recuperare frange di elettori di sinistra che non ne possono più dei richiami (alla fine, masochisti) alla "responsabilità", il Pdl ha esaurito la sua spinta propulsiva. Può difendere un recinto del 30-35 per cento ma i sogni di gloria coltivati in questo ventennio sono alle spalle. Anche perché, chiusa la parentesi del governo Letta, la destra non ha più sponde. E dovrà reinventarsi. Allora, al confronto, la crisi del Pd sembrerà uno zuccherino.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/e-la-destra-sta-peggio-di-tutti/2207606/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #83 inserito:: Luglio 05, 2013, 04:45:28 pm »



Opinioni

Al gran mercato delle riforme

di Piero Ignazi

Tra sistema di governo e legge elettorale non c'è alcun collegamento.
Il centrodestra cerca di far passare questa stramba teoria perché è diviso al suo interno.
Sarebbe meglio occuparsi dei contrappesi per il presidenzialismo

(13 giugno 2013)

Dopo l'ulteriore rimprovero del presidente Giorgio Napolitano di «aver pestato per mesi acqua nel mortaio», una riforma delle istituzioni verrà. Però le premesse non sono incoraggianti. Prendiamo il caso del rapporto tra sistema di governo e sistema elettorale. Solo in un dibattito politico dominato da una cultura giuridico-formale in cui gli scienziati politici non trovano posto (ed è vergognoso che nella commissione governativa dei 35 vi siano appena due politologi e non sia stato nemmeno invitato un maestro come Giovanni Sartori, autore di fondamentali saggi anche sull'architettura istituzionale delle democrazie) può farsi largo la bizzarra idea che ci sia un collegamento necessario tra norme elettorali e tipo di regime.

I sistemi elettorali sono , solo e soltanto, meccanismi di trasformazione di voti in seggi. Ce ne sono di mille tipi, anche se si dividono in due grandi famiglie: proporzionale, che privilegia la rappresentanza di tutte le opinioni presenti in una società, e maggioritaria, che distorce in qualche misura la rappresentanza ma, premiando i partiti maggiori, "dovrebbe" favorire la governabilità. Ora, mentre è chiaro l'effetto di potenziale frammentazione con un sistema proporzionale, non è affatto garantito l'effetto di maggiore "governabilità" con il maggioritario: i tormenti del governo di David Cameron in Gran Bretagna, patria del maggioritario, sono lì a dimostrarlo.

Il sistema elettorale che più di tutti contempera le due esigenze è il maggioritario a doppio turno perché, da un lato, pur riducendo la frammentazione, consente la presenza in parlamento di partiti non estremisti (e così, emarginando le estreme, rafforza il sistema democratico) e, dall'altro, fornisce grande legittimità all'eletto che, proprio grazie al secondo turno, alla fine conquista spesso il consenso di più della metà dei votanti. Quindi, con il doppio turno si ottiene: riduzione della frammentazione ma mantenimento della rappresentatività della società, marginalizzazione delle estreme e moderazione delle forze maggiori, pressione alla formazione di coalizioni stabili, alta legittimazione degli eletti e rapporto diretto con le loro basi elettorali. I benefici di questo sistema sono indubbi eppure il Pdl non lo vuole. Perché l'esperienza dice che il suo elettorato si perde per strada quando deve scegliere un candidato piuttosto che seguire la sirena berlusconiana.

Evidentemente tra le diverse componenti del centro-destra non è mai circolato buon sangue e, piuttosto che sostenere un candidato diverso dal proprio beniamino, gli altri elettori andavano al mare. E' sulla base di questa considerazione tattica e utilitaristica che il Pdl chiede di avere in cambio del doppio turno il presidenzialismo (in qualunque salsa condito). Con quest'ottica da mercato delle vacche non si va lontano. E infatti i soloni del centro-destra tentano di argomentare l'esistenza di un rapporto necessitato tra sistema elettorale e forma di governo e cioè che al doppio turno debba corrispondere il (semi)presidenzialismo. Semmai c'è da chiedersi se oggi in Italia sia possibile introdurre un regime presidenzialistico. In realtà tutti, persino il ministro delle Riforme Gaetano Quagliariello (voce dal sen fuggita?), ritengono che non si possa introdurre un tale sistema se prima non si fa una legge seria sul conflitto di interessi. Giusto. Ma se un leader politico influente come Daniela Santanchè si appresta, nel silenzio generale, a integrare alla sua società di concessionaria di pubblicità anche l'acquisto di alcuni periodici della Rcs, vuol dire che non c'è alcuna convinzione che il potere politico non possa concentrare nelle sue mani anche quello economico e quello mediatico.

La cultura politico-istituzionale italiana è ancora molto distratta verso questi aspetti. Non ha assorbito la lezione del costituzionalismo anglosassone dei pesi e contrappesi. Il mortaio di Napolitano ha molti ingredienti da pestare, ma che ci siano quelli giusti e nelle dosi corrette.

 
© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/al-gran-mercato-delle-riforme/2209058/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #84 inserito:: Luglio 16, 2013, 06:18:17 pm »

Opinioni

Potere e cittadini: tutto cambia

di Piero Ignazi

Dalla Turchia al Brasile, dagli Usa all'Europa, è scoppiata una crisi epocale nel rapporto tra popoli e governi.

Un fossato fatto di 'rabbia' e 'disgusto'. Da noi, per ora, si traduce in astensionismo e voti al M5S. Ma poi?

(04 luglio 2013)

I paesi che stanno raggiungendo un elevato livello di sviluppo socio-economico devono fronteggiare domande nuove da parte dei loro cittadini. Oltre alla richiesta di maggiore e più diffuso benessere - a volte, ma non sempre, associata ad aspirazioni di giustizia sociale - i cittadini di quei paesi scendono per le strade per chiedere "più democrazia". I giovani turchi di Gezi Park e Piazza Taksim così come i loro omologhi brasiliani di San Paolo e Rio de Janeiro, al di là dei motivi contingenti delle proteste, chiedono innanzitutto di essere ascoltati e di ricevere risposte dai governanti.

Chiedono, in sostanza, che il sistema politico sia ricettivo e rispondente, e quindi che accresca la "qualità" della democrazia. Lo stesso avviene, mutatis mutandis, anche nei paesi di democrazia consolidata: gli studenti britannici che protestavano per l'aumento delle tasse universitarie nell'inverno 2011, o il movimento di Occupy Wall Street con le sue filiazioni in tutta Europa, non sono così distanti nel loro impulso a manifestare dai loro coetanei nei paesi di recente prosperità. Quello che emerge in forme diverse e varie parti del mondo è una sottile e corrosiva critica ai fondamenti del nostro sistema sia per manifesta incapacità dei politici, sia per delegittimazione del principio di rappresentanza e del mandato a governare.

Se i leader politici non "ascoltano" e non "rispondono" , il fossato tra governanti e governati non fa che allargarsi. Questa situazione fotografa lo stato attuale del nostro sistema . Il calo di partecipazione alle ultime elezioni è stato considerato da molti come un sintomo di questa sfiducia. In parte può esserlo ma solo se lo si connette con altri segnali del disagio dell'opinione pubblica. Il sentimento prevalente nei confronti della politica (come rivela un sondaggio della Swg effettuato a metà giugno) è quello della "rabbia" seguito dappresso da quello del "disgusto". Per la precisione il 40 per cento e il 38 per cento degli italiani esprimono in misura prioritaria questi sentimenti che, non a caso, si ritrovano soprattutto tra gli elettori del Movimento 5 Stelle e tra gli astensionisti. Da dove origina questa disaffezione ormai trasformata in aperta ostilità?

Non tanto dalla crisi economica: certamente esaspera ma da sola non spiega questo rigetto rancoroso della politica. Viene piuttosto dalla perdita di fiducia nella classe dirigente, di cui la classe politica è la componente più vistosa. L'opinione pubblica percepisce "dolorosamente" la mancanza di prospettive, acuita dall'assenza di leader che sappiano interpretare lo stato d'animo collettivo e indicare credibilmente una via di uscita, e la debolezza etico-morale dei governanti e di molte altre figure e istituzioni pubbliche (basti pensare alla crisi di credibilità della Chiesa coinvolta in scandali sessuali e finanziari).

La domanda di moralità e rigore dopo il ventennio del lassismo berlusconiano è travolgente: emerge in maniera sorprendente sia da quel 51 per cento di italiani che mettono al primo posto l'onestà quale requisito indispensabile per far ripartire il paese, sia dal marchio di infamia che circonda gli evasori, considerati i peggiori nemici della nostra società, addirittura sopra la criminalità organizzata e anche, con ampio distacco, politici e banche, per molto tempo individuati come la causa di tutti i mali (dati Swg).

Queste richieste si collocano sulla stessa lunghezza d'onda dei giovani che manifestano in altre parti del mondo. Rispondervi è una necessità per la buona salute del sistema democratico. Lasciarle inevase fa aumentare a livelli devastanti il potenziale di protesta. Di qui la necessità di una nuova classe dirigente e politica all'altezza della sfida. Tanto in politica quanto nella società civile devono affermarsi figure in grado di coniugare ascolto, affidabilità e progettualità.


© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/potere-e-cittadini-tutto-cambia/2210553/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #85 inserito:: Agosto 25, 2013, 05:09:02 pm »


Opinione

Ma con Marina il Pdl è morto

di Piero Ignazi

La scelta ereditaria sarebbe una soluzione di trincea. Che impedirebbe a lungo la nascita di una destra normale in Italia. E rinchiuderebbe il partito dei Berlusconi in un elettorato 'innamorato' ma sempre più di nicchia

All'interno del centro-destra circola con insistenza l'ipotesi che la figlia primogenita di Silvio Berlusconi, Marina, sia destinata a succedere al padre alla guida del Pdl, o di quello che sarà. Questa soluzione nordcoreana alle difficoltà del "Grande leader e dell'Eterno presidente" farà ancora una volta sorridere di commiserazione gli osservatori stranieri e forse solleverà qualche inquietudine anche all'interno del Popolo della libertà.

Nel partito ci sono legioni di fan di Silvio, elettori, militanti e dirigenti, che dipendono in toto da Berlusconi per mille canali affettivi, simbolici, politici ed economici. Senza il riferimento al Cavaliere e alle sue risorse costoro non saprebbero a che santo votarsi. Si aprirebbe di fronte a loro una voragine profonda proprio perché è stato elevatissimo l'investimento emozionale-ideale (e in certi casi materiale) nel fondatore. La mistica creata in questi lustri sulle imprese economiche e politiche del Grande leader è stata di una efficacia unica in Occidente.

L'OCCULTAMENTO e/o la mistificazione della realtà, ovviamente consentita dalla disponibilità di un impero mediatico, ha isolato in un mondo patafisico quei milioni di elettori che si sono intimamente identificati in Berlusconi; ma non ha mai "trascinato" quei milioni di moderati che, non sapendo a chi rivolgersi, finivano per turarsi il naso e sostenere il più forte partito nemico della sinistra. Molti di questi hanno abbandonato il Cavaliere alle ultime elezioni infliggendogli la più sonora sconfitta che un partito italiano abbia subìto in tutta la nostra storia elettorale (e poi c'era chi parlava di vittoria del Pdl dopo le elezioni...). Sconfitta confermata alle elezioni municipali di maggio che ha fatto scomparire il Popolo della libertà da tutte le grandi città.

I dirigenti pidiellini, locali e nazionali, più consapevoli di questa crisi guardano con orrore alla successione dinastica. Perché il passaggio del testimone da padre in figlia si scontra contro un ostacolo insuperabile: svela definitivamente la natura personale del partito e il suo inestricabile intreccio con gli interessi aziendali. Mentre sul Cavaliere si poteva costruire una narrazione efficace e persino mitizzante perché spunti reali ne esistevano in abbondanza, sulla figlia questa operazione non è possibile. Se quindi avvenisse tale passaggio il Pdl non solo perderebbe quei consensi trasversali che erano tutti attratti dall'aura eroica del leader, ma verrebbe azzoppata la possibilità di diventare un normale partito moderato. In fondo lo scontro sordo e sotterraneo dentro il Pdl si riassume in questo dilemma: confidare ancora nelle risorse del Cavaliere anche attraverso la sua discendenza biologica o andare oltre il berlusconismo, come qualcuno aveva osato suggerire alla fine dell'anno scorso.

PER QUANTO POSSA SEMBRARE ovvia la risposta, anche la seconda ipotesi deve fronteggiare un grande ostacolo: la ridefinizione di un'agenda politica che si depuri del populismo anti-europeo e delle sue tentazioni anti-istituzionali. Impresa non facile dopo vent'anni di deserto culturale. Eppure è un'impresa potenzialmente di successo visto che un partito conservatore di stampo europeo può contare sul consenso dei tanti moderati senza casa sia a livello parlamentare sia nell'elettorato. Le due sfide all'egemonia berlusconiana portate da Gianfranco Fini e Mario Monti fallirono clamorosamente nell'immediato, ma hanno "devastato" il campo del nemico. Se il Pdl ha perso più di 6 milioni di voti e continua a perderne nelle elezioni locali, lo si deve anche alla demistificazione messa in atto da quei tentativi. L'erosione del consenso al Pdl formato Berlusconi e figli è destinata a durare perché è venuto meno l'appeal della proposta originaria tuttora intrisa di una politica vecchia di vent'anni. Senza un ripensamento della sua ragion d'essere il Pdl rimane isolato nel suo ridotto del 25-30 per cento, senza alcuna possibilità né di espansione né di alleanze. Cambiando, altre componenti in cerca di aggregazione, da Casini a Montezemolo, possono essere coinvolte.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/ma-con-marina-il-pdl-e-morto/2213272
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #86 inserito:: Settembre 15, 2013, 05:13:17 pm »

Opinione

E il Pd è sempre più senz'anima

di Piero Ignazi

Anche le incertezze degli ultimi giorni, così come ai tempi dell'elezione per il Quirinale, ci presentano l'immagine di un partito afono e inconcludente, sempre intimidito appena la destra fa la voce grossa

(11 settembre 2013)

Fin qui i democratici non possono vantare successi nel governo di emergenza presieduto da Enrico Letta. Benché il premier si sforzi di indicare quante buone cose ha fatto - e in effetti qualcosa c'è, pensiamo soprattutto agli interventi sui beni culturali - nessuno riesce a identificare un qualche provvedimento governativo targato Pd.
Il problema però non riguarda tanto Letta, quanto piuttosto il partito, tuttora afono e inconcludente.

Quali sono le sue priorità, i suoi obiettivi irrinunciabili, le mete da raggiungere? Anche nella campagna elettorale, al di là di una, peraltro giusta, invocazione di iniziative per "il lavoro", le idee forza mancavano. Lo stesso vale oggi, e a maggior ragione, per il programma di governo. Il Pd è arrivato alla formazione dell'esecutivo come un bove avviato al macello, a testa bassa, pieno di vergogna per lo spettacolo sconfortante delle elezioni presidenziali. Dopo quelle défaillances aveva esaurito ogni energia propositiva. O meglio, se avesse proposto gli otto punti del "governo del cambiamento" tentato da Bersani all'indomani delle elezioni, non avrebbe mai raggiunto un accordo con il Pdl. In effetti i termini dell'equazione sono proprio questi.

Come si conciliano progetti e visioni della società così diversi? Se prevalesse una condivisone di finalità sistemiche, uno stesso senso dello Stato e delle istituzioni, forse sarebbe possibile raggiungere un onorevole compromesso. Ma la nostra situazione è del tutto diversa. La destra, da quando ha assunto la maschera berlusconiana, non ha mai riconosciuto legittimità agli avversari. Il Pd e suoi progenitori non hanno mai saputo reagire con fermezza alle aggressioni della destra. Hanno vissuto questi anni quasi intimiditi e impacciati, proprio come figli di un dio minore. Anche ora, la partecipazione così di basso profilo al governo riflette, oltre agli errori dell'ultimo anno, quella condizione politico-psicologica. Si direbbe che pitoni e pitonesse abbiano una grande capacità di incantamento sui leader democratici. A questo punto il risveglio non può che passare da un radicale rinnovamento interno per riprendere contatto con l' elettorato perduto (e non perderne ancora). Incominciando dal riconoscere e valorizzare i suoi punti di forza. Che sono essenzialmente due: l'esistenza - verrebbe da dire la resistenza - di un tessuto organizzativo ramificato e ancora mobilitabile (basta andare ad una festa dell'Unità, o democratica che dir si voglia, per rendersene conto); la rete degli amministratori locali.

Queste due risorse non sono in contatto perché è sempre stato privilegiato un rapporto verticale tra base e vertice piuttosto che uno orizzontale tra militanti ed eletti. Inoltre, per un malinteso senso di autonomia gli eletti locali del Pd e dei partiti predecessori si sono addirittura vantati della loro indipendenza nei confronti del partito. Invece, è indispensabile un rapporto di collaborazione-consultazione continua tra rappresentanti e aderenti al partito.

Ovviamente gli eletti rispondono a tutta la cittadinanza, ma altrettanto ovviamente agiscono lungo linee programmatiche che sono espressione di una parte, quella che li ha votati. E per realizzarla al meglio hanno bisogno di essere in stretto contatto con i propri sostenitori. Questa modalità di interazione non può che rivitalizzare il partito e, lungo questa strada, gli eletti locali divengono il perno di una rinnovata organizzazione. Non ha alcun senso l'antitesi tra partito degli eletti e partito dei militanti di cui si è parlato nel passato. Un partito rinnovato utilizza queste risorse al meglio.

Il destino del Pd dipende dalla realizzazione di questa inedita integrazione. E dalla capacità di convinzione di chi guiderà questo processo. Anche il governo Letta, per quel tanto che resisterà, potrà profittarne.

 
© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/e-il-pd-e-sempre-piu-senzanima/2214427/18
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #87 inserito:: Novembre 01, 2013, 06:27:29 pm »

Piero Ignazi
Potere&Poteri

Il network party che ha in mente Grillo

Il leader del M5S non può permettere che gli eletti del suo partito facciano politica in modo tradizionale. Il suo obiettivo è un altro: la conquista del potere e un movimento pilotato dalla Rete. Un progetto che sarebbe dirompente
   
Con il passare dei mesi il contrasto tra il duo Grillo-Casaleggio e i parlamentari 5 Stelle è destinato ad aumentare. I punti di contrasto non riguardano i singoli problemi, oggi il reato di immigrazione clandestina, domani qualche altro provvedimento. Riguardano le diverse logiche politiche e organizzative che guidano le due componenti.

La cabina di regia genovese ha in mente un progetto ambizioso che si muove su due binari: la costruzione di una nuova modalità di presenza e azione nelle istituzioni, e la conquista di un ancor più largo consenso. I parlamentari più passano i mesi più sono attratti, e coinvolti, dalle prassi, dalle regole, dall’ambiente parlamentare. In una certa misura cercano di sottrarvisi, di creare clamore e di rompere le norme di comportamento, ma inesorabilmente saranno risucchiati dalla forza dell’istituzione. La loro riottosità non è certo nuova, esiste da sempre nelle assemblee rappresentative. Per limitarci ad anni recenti l’irruzione in Parlamento dei rappresentanti dei movimenti di sinistra libertaria come i radicali italiani o i Verdi tedeschi avevano portato scompiglio in quelle aule. L’atteggiamento provocatorio nel linguaggio e nel gesto, oltre che nell’abbigliamento (la salopette di Emma Bonino al posto degli austeri tailleur o i jeans di Joschka Fischer al posto del vestito a giacca), non rappresenta una grande novità. Poi, queste intemperanze sfumano e perdono la loro carica dissacrante. Anche i parlamentari 5 Stelle, pur entrati in Parlamento da appena nove mesi, hanno già dato qualche segno di “socializzazione” all’ambiente parlamentare. Tra questi, spicca la presentazione e l’approvazione del loro emendamento alla Bossi-Fini sul reato di immigrazione clandestina: per la prima volta i parlamentari grillini sono entrati nel vivo del dibattito politico e hanno ottenuto un successo politico.

Questa vittoria poteva convincere i 5 Stelle che si può far politica senza essere soltanto dei megafoni della rete. E quindi avviare un percorso di autonomizzazione dal fondatore del movimento. Proprio per frenare il processo di parlamentarizzazione del gruppo l’intervento del duo Grillo-Casaleggio è stato immediato e tranchant. La strategia di Grillo non può permettere la solidificazione di interessi contingenti: tutto il movimento deve essere concentrato sulla “conquista del potere” (che farsene di un misero 25 per cento?) e sulla realizzazione di un nuovo modello di democrazia. Benché si possa comprendere il delirio di onnipotenza che deriva dall’aver creato dal nulla il primo partito sul territorio italiano, la prospettiva di andare oltre, verso percentuali ancora maggiori, non è implausibile in una fase di ulteriore destrutturazione del sistema partitico e di perdurante crisi economica. La crisi del centro-destra e soprattutto della Lega è stata un manna per il M5S, alle ultime elezioni: se ora si aggiunge anche lo sfaldamento del Pdl, si aprono autostrade di voti per Grillo. Per questo gli elettori moderati non possono essere spaventati da un’alleanza con la sinistra su un tema così sensibile come l’immigrazione (e domani l’amnistia). Quindi Grillo vuole avere le mani libere per espandere il proprio consenso.

Ma questo è solo un lato della medaglia. L’altro aspetto riguarda il nuovo concetto di rappresentanza in qualche modo profilato dal guru genovese. Finora il M5S si connota come un classico “cyber-party”, gestito verticalmente, nel quale i tradizionali meccanismi di controllo sono sostituiti con quelli elettronici. Se invece l’ipotesi grillina è quella di passare a un vero “network party”, in cui i rapporti tra i membri della community sono orizzontali e paritari, allora anche le logiche della rappresentanza cambiano. Questa è una sfida dirompente, ben diversa dalle tirate umorali sul blog. Su cui si potrebbe aprire un interessante dibattito: le forme di rappresentanza nell’era dell’Itc. Acuendo però la tensione tra la tradizionale forma di rappresentanza parlamentare e la sottomissione dei parlamentari all’interazione continua con la base (oltre che ai diktat di Grillo).
16 ottobre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2013/10/16/news/il-network-party-che-ha-in-mente-grillo-1.137831
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #88 inserito:: Novembre 13, 2013, 04:39:05 pm »

Piero Ignazi
Potere&Poteri

Presidente un po’ troppo supplente
Napolitano si muove sempre nell’interesse generale. Ma deve stare attento a rimanere super partes. Escludendo le opposizioni dal vertice sulla legge elettorale si è assunto un ruolo diretto. Che stona
   
Che il sistema politico italiano viva da tempo una situazione di anormalità è chiaro a tutti. La prima grande anomalia, è stato detto mille volte, riguarda la concentrazione abnorme di potere - economico, mediatico e politico - in una sola persona, Silvio Berlusconi. Questa anomalia ha sempre sconcertato gli osservatori stranieri che si chiedevano perché mai non vi si poneva rimedio. Ma, come si vede, non ne siamo ancora venuti a capo.

Purtroppo negli ultimi tempi si sta aggiungendo un’altra distorsione al buon funzionamento del nostro sistema politico: l’alterazione dei rapporti tra le istituzioni, e in particolare il ruolo sempre più incisivo, per non dire invasivo, della presidenza della Repubblica. Al presidente Napolitano vanno riconosciuti grandissimi meriti in questi otto anni difficili: solo la sua autorità morale ha riscattato l’Italia dall’ignominia internazionale negli anni bui del tardo berlusconismo. L’invenzione del governo Monti ha letteralmente salvato il Paese in uno dei momenti più critici della storia repubblicana. È quindi fuor di dubbio che il presidente si muova nell’interesse generale. Infatti, solo per spirito di servizio e amor di patria ha accettato di rimanere al Quirinale dopo il disastro compiuto dai parlamentari del Pd nelle votazioni per la presidenza della Repubblica

IL PRESIDENTE NAPOLITANO ha impostato il suo nuovo mandato su due binari: assicurare un governo al Paese e facilitare le riforme istituzionali, a incominciare da quella elettorale. Ha così colmato il vuoto politico post-elettorale. Riconosciuti questi meriti, sarebbe però dimostrazione di sudditanza e di piaggeria non mettere l’accento anche su alcune sbavature del suo operato recente.

In linea generale, il presidente interviene con una frequenza inusitata nel dibattito politico, con note ufficiali e ufficiose, discorsi, brevi interviste, rapide battute. Inevitabilmente queste prese di posizione incidono sul dibattito politico, laddove invece la presidenza dovrebbe rimanere estranea. Anche gli incontri con gli esponenti politici sono diventati di routine; hanno perso quel carattere solenne e un po’ speciale che avevano un tempo.

E PROPRIO SU QUESTO terreno il presidente ha commesso un passo falso. L’invito al governo e ai partiti che lo sostengono per discutere della legge elettorale ha offuscato il ruolo super partes della presidenza. L’esclusione delle opposizioni, soprattutto nel momento in cui si affronta un tema che riguarda le regole del gioco, ha dato un’impronta eccessivamente e indebitamente filogovernativa al Quirinale. È vero che il garante del governo Letta-Alfano è Giorgio Napolitano, ma mostrare una preferenza per le forze politiche di governo rispetto alle opposizioni quando si discute di riforme così sensibili come la legge elettorale crea un clima poco propizio al raggiungimento di un consenso generale. Certo, l’iniziativa del presidente è conseguente alla lentezza dei lavori della commissione Affari costituzionali del Senato che sta discutendo (anche) della riforma elettorale; ma di questa lentezza sono responsabili tutti, e quindi tutti dovevano essere convocati e richiamati all’ordine. E lasciare poi al Parlamento l’onere di risolvere le divergenze e arrivare a una decisione condivisa. Col suo intervento, invece, il Quirinale è diventato un attore-motore del processo riformatore: ha assunto un ruolo e una responsabilità (troppo) diretti.

Queste sbavature presidenziali derivano dal vuoto di “capacità” politica, vale a dire dalla inerzia politico-culturale dei partiti. Di fronte a un parlamento e a un governo deboli, esito di partiti debolissimi, inevitabilmente interviene in supplenza l’unica istituzione forte e legittima oggi in campo. La presidenza agisce in condizioni eccezionali e compie un’opera difficile e delicata, non esente da rischi anche perché inedita. Nessuno si è trovato in queste situazioni, se non per un brevissimo periodo il presidente Scalfaro nell’infuriare di Mani Pulite. Per questo, anche i migliori, anche con le migliori intenzioni, a volte sbagliano.

06 novembre 2013 © Riproduzione riservata
Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2013/10/30/news/presidente-un-po-troppo-supplente-1.139520
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #89 inserito:: Novembre 30, 2013, 05:24:26 pm »

Piero Ignazi
Potere&Poteri

Chissà che sistema di voto vuole il Pd

Si oscilla tra Porcellum al quadrato e Mattarellum. I cui difetti sembrano miracolosamente spariti. Invece il doppio turno alla francese è stato accantonato per effetto dei consueti tatticismi
   
Per fortuna il Porcellum al quadrato, il sistema elettorale messo a punto da Pd, Sel e Scelta civica nella commissione Affari costituzionali del Senato, è stato bocciato. Era una proposta indigeribile e anche un po’ truffaldina. Indigeribile perché oltre a mantenere la distorsione del premio - una concezione aberrante delle logiche di rappresentanza - lasciava intatte sia le liste bloccate sia la differenza di attribuzione dei seggi tra Camera e Senato. Truffaldina perché spacciava per “doppio turno” non il sistema francese ma la ripetizione del voto tra le prime due coalizioni se nessuna superava il 40 per cento dei voti. Ora si volta pagina. In questi giorni sembra ritornato in voga il Mattarellum, il sistema misto (tre quarti maggioritario, un quarto proporzionale) con cui abbiamo votato dal 1994 al 2001.

Ma ci siamo dimenticati dei difetti? La complicazione dello “scorporo” con conseguente nascita delle liste civetta, il mantenimento di una logica proporzionale, l’àncora di salvataggio per i candidati eccellenti grazie alla doppia presentazione (maggioritario e proporzionale). Si continua invece a sorvolare con una leggerezza sospetta sulla ipotesi che ufficialmente dovrebbe accomunare tutto il Pd: il maggioritario uninominale a doppio turno, come quello adottato in Francia per l’elezione dei parlamentari (il “vero” doppio turno). Sui suoi meriti molto è stato già detto e scritto. Per riprendere l’appello in favore di tale sistema, promosso dal capostipite della scienza politica italiana, Giovanni Sartori, e firmato da oltre cento scienziati politici, il vero doppio turno presenta una serie di indiscutibili meriti, cruciali per migliorare la rappresentanza politica e il rapporto cittadini-istituzioni.

In breve: la legittimità degli eletti è alta perché essi necessitano di percentuali elevate per vincere , anche superiori al 50 per cento quando lo scontro si riduce solo a due contendenti nel secondo turno; la frammentazione è contenuta perché per accedere al secondo turno bisogna superare uno sbarramento che (seguendo l’esempio francese) dovrebbe essere intorno al 15 per cento dei votanti - e allo stesso tempo nessuno è escluso in partenza perché il candidato di un partito minore ma ben radicato territorialmente e ben considerato può superare il primo turno e cercare poi il sostegno dei partiti maggiori al secondo; l’elezione diretta di un candidato rinforza il rapporto tra elettori ed eletti e allo stesso tempo evita le degenerazioni insite in un sistema con preferenze; la necessità di assicurare un largo sostegno ai propri candidati spinge i partiti a creare alleanze che prefigurano le coalizioni governo.

Nessun sistema è perfetto, però dato il contesto italiano questa ipotesi costituisce di gran lunga la soluzione migliore. Ma come spesso accade nel nostro paese, le soluzioni limpide e chiare non hanno buona fama né buona sorte. Il Pd sembra seguire lo stesso percorso intrapreso nelle trattative per l’elezione del presidente della Repubblica. Incontri, accordi, scambi con gli altri partiti e soprattutto con l’ex Pdl per arrivare a una qualche sintesi. Con questo atteggiamento, peraltro benemerito e generoso, non fa che complicarsi la vita e perder tempo. A meno che questo non sia il vero fine della ragnatela tessuta in questi mesi, il Pd deve ora indicare la sua preferenza sulla quale obbligare gli altri a scegliere. In questo compito non è certo aiutato da Matteo Renzi che si rifugia in una formuletta, “il sindaco d’Italia”, che in sé non significa nulla. Infatti, se si discute di un sistema elettorale per eleggere i parlamentari e non il presidente del consiglio, allora il sindaco di Firenze deve chiarire che vuole eleggere 630 sindaci d’Italia, tanti quanti sono i seggi della Camera (più i 315 al Senato). Altrimenti parla d’altro, e cioè dell’elezione del premier sul modello adottato in Israele negli anni Novanta e poi subito abbandonato per la sua totale impraticabilità. Ma questo, appunto, è un altro discorso, che va al di là della riforma elettorale. Alla fine , rimane che il Pd, pur disponendo della maggioranza assoluta alla Camera, non ha la convinzione o il coraggio di presentare una sua proposta. In questo modo sarà solo chi lo rappresenta a essere accusato dell’inazione e della mancata riforma.
25 novembre 2013 © Riproduzione riservata

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/potere-e-poteri/2013/11/21/news/chissa-che-sistema-di-voto-vuole-il-pd-1.142088
Registrato
Pagine: 1 ... 4 5 [6] 7
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!