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Autore Discussione: ALDO CAZZULLO.  (Letto 144331 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Ottobre 25, 2010, 09:09:04 am »

IL PDL E FINI

I divorziandi della Libertà

Il divorzio da Fini si sta rivelando per Berlusconi più complicato di quello da Veronica. Tra marito e moglie, se non altro, c'è una trattativa in corso. Ma il presidente del Consiglio e il presidente della Camera neppure si parlano. È tutto un fiorire di sedicenti pontieri, secondo i quali un incontro prima o poi si farà, ma per il momento «è prematuro». Come se fosse normale che il premier non parli con quello che è ormai diventato il capo di uno dei tre partiti che sostengono il governo.
La tregua che pareva intravedersi sul Lodo Alfano è durata il tempo di un weekend. Ad Asolo, Fini ha provocato Berlusconi in ogni modo possibile: ha evocato il governo tecnico, oltretutto in presenza del suo massimo teorico, D'Alema, già artefice del ribaltone del '95; e ha precisato che il Lodo Alfano non può essere prorogabile. Come a dire che Berlusconi non potrà salire da Palazzo Chigi alla presidenza della Repubblica senza passare al vaglio dei magistrati. Il messaggio è chiaro: Fini già ragiona pensando alla prossima legislatura, e avverte il Cavaliere che non potrà contare sui voti dei suoi parlamentari per il Quirinale. Anche Berlusconi si attrezza per il lungo periodo, badando a mettere in sicurezza sia la fedina penale sia le aziende.

Però, mentre pensano al futuro, entrambi trascurano il presente. Che purtroppo non è tranquillo e sereno come lo si vorrebbe. La bufera della crisi internazionale è tutt'altro che passata. Proprio mentre il sistema economico italiano è chiamato al massimo sforzo per coniugare produttività e occupazione, competitività e coesione sociale, gli imprenditori rischiano di dover fare a meno del sostegno di una politica che si occupa d'altro. Il Pdl dà chiari segni di implosione, ultimo il partito del Sud di Micciché: nato come contraltare alla Lega, appare il sintomo della disgregazione degli attuali partiti. Mentre nel campo avverso si vagheggia una coalizione da Fini a Vendola, da Casini a Di Pietro, pensata come unica risorsa per contrastare il Cavaliere ma che potrebbe rivelarsi per lui un elisir di lunga vita.

L'unica via d'uscita è che Berlusconi e Fini chiariscano quali sono le loro intenzioni. Il logoramento reciproco non conviene a nessuno. Tanto meno al Paese. Nei governi di coalizione un modo per convivere si può sempre trovare: la Prima Repubblica può fornirne un intero catalogo. Craxi e De Mita, per fare solo un esempio, non si amavano più di quanto si amino oggi Berlusconi e Fini; eppure i loro partiti hanno governato insieme per un decennio. Prima i duellanti si incontreranno, come suggeriscono i loro consiglieri più avveduti, meglio sarà. Il proseguimento della legislatura resta la soluzione migliore. Se invece entrambi ritengono inevitabili le elezioni, tanto vale che trovino il coraggio di dirlo al Paese, e di assumersene le conseguenze.

Aldo Cazzullo

25 ottobre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_ottobre_25/cazzullo_856b40b2-dff6-11df-a41e-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #91 inserito:: Novembre 02, 2010, 06:37:16 pm »

L'ANTICIPAZIONE

La Padania degli orologi a cucù*

di Aldo Cazzullo

La pianura padana, nel suo complesso, può essere considerata una piccola patria. Non c'è dubbio che esista una certa continuità culturale da Torino a Trieste. La grande valle del Po non è solo ricca, dinamica, laboriosa. È anche uno scrigno di tesori d’arte e di cultura. È una delizia percorrerla lungo le tre direttrici: quella del grande fiume, che dalla longobarda Pavia porta alle torri di Cremona e agli affreschi di Mantova e Ferrara; quella, più a nord, dell'autostrada che da Milano sale alla Bergamo medievale, scende nella Brescia rinascimentale e razionalista, prosegue per Verona, Vicenza, Padova, Venezia; e quella, più a sud, lungo la via Emilia, «una strada antica come l’uomo / segnata ai bordi dalle fantasie di un Duomo » come canta Francesco Guccini, che è nato a Modena e ben conosce la cattedrale su cui Wiligelmo scolpì non solo la Bibbia ma anche re Artù, le sirene e un intero bestiario medievale, compresa la volpe che si finge morta per mangiarsi i galli che vorrebbero seppellirla; e poi le figure dei dodici mesi simboleggiati dai lavori dei contadini, che qualche anno dopo Benedetto Antelami avrebbe scolpito in forme più raffinate a Parma. La Padania, in qualche modo, esiste. Ma non può sostituire l’Italia; né avrebbe senso senza il resto d’Italia. Sarebbe una parola vuota, un flatus vocis, un suono vano. Che cosa sarebbe il Nord senza la Toscana, senza la lingua comune e il Rinascimento, senza Dante e Brunelleschi? E senza Roma, senza la classicità e il cattolicesimo, senza i cesari e i papi? Che cosa sarebbe la letteratura italiana senza i siciliani, senza Verga, De Roberto, Pirandello, Brancati, Tomasi di Lampedusa, Sciascia, Bufalino, Consolo, giù sino a Camilleri? Che cosa saremmo noi tutti senza quella straordinaria fucina di miti e simboli che è Napoli, talmente vitale che all'estero la confondono con l'Italia stessa, il sole, il mare, la pizza, la smorfia, Pulcinella, ma anche la musica e l'arte, il cinema di Totò e il teatro di Eduardo? Il Sud è spesso sentito al Nord, e non solo dai leghisti, come una palla al piede; e in effetti di risorse ne ha inghiottite parecchie. Il Sud spesso si sente impoverito e sfruttato dal Nord; e in effetti senza il lavoro degli operai meridionali l'industria padana non sarebbe la stessa. La verità è che il Nord, senza il Sud, sarebbe deprivato di senso (e viceversa, si intende). Gli italiani cinefili amano tirarsi su il morale citando una celebre battuta del film Il terzo uomo di Carol Reed, sceneggiato da Orson Welles e Graham Greene: «In Italia, sotto i Borgia, per trent'anni hanno avuto assassini, guerre, terrore e massacri e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera hanno avuto amore fraterno, cinquecento anni di pace e di democrazia e cosa hanno prodotto? L'orologio a cucù». Ecco, la Padania sarebbe, appena un po' più grande, il paese degli orologi a cucù.

*Tratto dal libro «Viva l'Italia! Risorgimento e resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione»

25 ottobre 2010
© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://corrieredelveneto.corriere.it/veneziamestre/notizie/politica/2010/25-ottobre-2010/padania-orologi-cucu*-1704021988910.shtml
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« Risposta #92 inserito:: Novembre 03, 2010, 09:57:39 pm »

LA SCONFITTA-SIMBOLO

Obama perde anche la «sua» Chicago

Democratici battuti nell'Illinois, seggio del presidente


Chicago è caduta. Nessuno nella folla che il 4 novembre 2008 festeggiava la vittoria di Obama a Grant Park, sotto i grattacieli più belli al mondo, avrebbe immaginato che due anni dopo la roccaforte sarebbe crollata. Invece è successo. «Turatevi il naso e votate democratico» titolava ieri il Chicago Reader, quotidiano rivale del conservatore Tribune. Appello tardivo. Il seggio al Senato che fu di Obama è ora del repubblicano Mark Kirk, eroe imbroglione, che ha vinto per un semplice motivo: il suo rivale democratico, Alexi Giannoulias, era considerato più imbroglione ancora. Kirk si è inventato un curriculum da soldato glorioso: decorato come «ufficiale dell’anno»; veterano della prima guerra del Golfo; ferito in Iraq. Non è vero niente, hanno replicato dal fronte avverso: l’onorificenza non è andata a lui ma al suo reparto, durante la prima guerra del Golfo Kirk era riservista in Maryland, e nell’elenco dei feriti in Iraq non risulta. Purtroppo il democratico Giannoulias, 33 anni, poteva vantare solo il fallimento della banca di famiglia, oltre a qualche partita a basket con l’amico Obama e a una certa somiglianza con Nicholas Cage giovane. Negli ultimi spot ha mandato avanti la mamma. Kirk ha invece portato a Chicago Scott Brown, l’ex istruttore di fitness noto per le sue foto sulle riviste femminili prima di conquistare a sorpresa il seggio che fu di Ted Kennedy in Massachussets, altro Stato tradizionalmente democratico. E con i democratici Brown ha votato, contro l’ostruzionismo repubblicano al piano per l’occupazione. «Lavorerò con il presidente Obama» è stato l’ultimo messaggio di Kirk.

SGRETOLAMENTO - Qui non ci sono i Tea party. Ai repubblicani non serve alzare la voce. Basta cogliere lo sgretolamento della macchina democratica: la spietata, corrotta ma un tempo efficientissima «Chicago machine», di cui Obama è l’ultimo prodotto. Una storia politica si chiude. La saga di Richard Daley, sindaco dall’89, figlio e omonimo del Richard Daley che governò dal ’55 al ’76 e fece votare anche i morti pur di accontentare il patriarca Joseph Kennedy – «ok Joe, daremo una mano a quel tuo ragazzo» – e decidere le presidenziali del 1960. Ora Daley junior si è ritirato. Per il Comune si vota a febbraio, e i democratici schierano il capo dimissionario dello staff di Obama, Rahm Emanuel, detto Rahmbo per l’eleganza dei modi. Anche lui rischia. Perché la «Chicago machine» è impazzita. Quando Obama è diventato presidente, toccava al governatore, Rod Blagojevich, indicare il sostituto al Senato. Il «serbo» mise la carica all’asta: arrestato. Oggi fa la pubblicità ai «Wonderful Pistachios»: gli arriva una valigetta, lui la apre avido, e anziché i dollari spunta una marea di pistacchi. Lo spot non ha giovato al suo vice e successore, Pat Quinn, che ha faticato sino all'ultimo per battere il repubblicano Bill Brady. Il motivo è semplice. Lo Stato dell’Illinois ha debiti per 13 miliardi di dollari, non paga i fornitori, non trova i soldi per gli interessi. Quinn ha proposto di aumentare le tasse, Brady di tagliare le spese. Tiene Mike Madigan, potente speaker della Camera dell’Illinois che ha piazzato la figlia Lisa come procuratore generale. Fuori gioco ormai Jesse Jackson junior, figlio e omonimo del leader nero: l’hanno beccato con l’amante, per giunta bianca, e la comunità afroamericana non l’ha perdonato.

COLPO DURISSIMO - Non è soltanto un mondo che finisce. È un mito neonato, quello di Obama, che subisce un colpo durissimo. Al presidente viene rimproverato di aver trasferito la «Chicago machine» alla Casa Bianca. Il ministro dell’Istruzione, Arne Duncan, anche lui ex giocatore di basket, era l’amministratore delle scuole pubbliche di Chicago, gravate di debiti. Alla Giustizia è andato un altro Fob, «Friend of Barack»: Eric Holder. La donna più vicina a Obama è Valerie Jarret, cresciuta all’ombra del sindaco Daley. I suoi primi grandi finanziatori sono «chicagoans»: John Rogers – il presidente ha sistemato alla Casa Bianca la sua ex moglie Desirée -; Penny Pritzker, proprietaria della catena di hotel Hyatt e nel 2008 capo del comitato per la raccolta fondi; Christie Hefner, figlia dell’editore di Playboy; Marty Nesbitt, pure lui giocatore di basket, finanziere, marito di Anita Blanchard, l’ostetrica che ha fatto nascere Sasha e Malia Obama. Sarebbe di Chicago pure Hillary Clinton, che però ha seguito altre strade. Vuole invece tornare qui David Axelrod, l’artefice del miracolo del 2008, pronto a lasciare la Casa Bianca per lavorare a un altro miracolo: far rivincere Obama nel 2012.

PRECEDENTI - La missione è possibile, e non solo perché i repubblicani avanzano ma sono privi di un leader. I precedenti indicano che si può ancora fare. Clinton perse 54 seggi alla Camera alle elezioni di mid-term del '94, e due anni dopo fu rieletto. Truman ne perse 55 nel '46, e vinse a sorpresa nel ’48 (il giornale che titolò «Dewey sconfigge Truman» era il Chicago Tribune). Il record è di Roosevelt: nel ’38 perse 72 seggi alla Camera, e vinse la Seconda guerra mondiale. Ma «Obama non è Roosevelt» ricordava ieri l’editoriale del Wall Street Journal. L’America sembra pentita di aver affidato il comando a un uomo affascinante, dalla storia straordinaria, ma che non aveva mai amministrato uno Stato o anche solo una pizzeria. Figlio della città più sanguigna d’America: i mattatoi da cui uscivano le bistecche dei pionieri, le guerre di mafia negli anni di Al Capone e Sam Giancana, le teste fracassate dei pacifisti alla convention democratica del 1968, le bare gettate via dal cimitero dei neri per rivendere le tombe – è successo l’anno scorso -; e stanotte un verdetto crudele, che potrà ancora essere ribaltato, ma può anche essere letto come un segno del declino dell’America e dei suoi idoli.

Aldo Cazzullo

03 novembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/esteri/speciali/2010/elezioni-usa-2010/notizie/cazzullo-caduta-chicago-obama_a5137056-e717-11df-a903-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #93 inserito:: Dicembre 01, 2010, 05:36:48 pm »

LA CHIESA TEME UNA ROTTURA

La fragile unità del nostro paese


Domani si apre a Roma un significativo convegno sull'unità d'Italia, che vedrà - oltre al ritorno sulla scena pubblica di Dino Boffo - l'intervento di studiosi e del presidente del comitato per le celebrazioni, Giuliano Amato.

Il promotore però non è lo Stato italiano. È il leader storico dei vescovi, Camillo Ruini.

Sono molti i segni dell'attenzione della Chiesa ai 150 anni. La presenza del segretario di Stato, Tarcisio Bertone, il 20 settembre scorso a Porta Pia, per la prima volta dal 1870. L'appello all'unità e a un federalismo solidale del nuovo capo dei vescovi, Angelo Bagnasco, ripetuto la settimana scorsa alla Camera, nell'incontro con ottanta parlamentari di ogni partito. Anche i giornali cattolici si occupano non solo dell'anniversario ma della discussione politico-culturale che vi è sottesa. Avvenire ha dedicato una serie di articoli alle sofferenze dei cattolici nel Risorgimento, ma senza accenti polemici. Il Messaggero di Sant'Antonio, uno dei periodici più diffusi d'Europa, dedica la copertina dell'ultimo numero ai 150 anni.

E anche un quotidiano concentrato sulle vicende internazionali più che su quelle interne italiane, come l'Osservatore Romano, mostra un'attenzione al dibattito sul Risorgimento e anche sulla Resistenza che non si spiega solo con la storia familiare del suo direttore Gian Maria Vian è nipote di Ignazio, che della Resistenza cattolica fu l'eroe: militante della Fuci con Moro e Andreotti, sottotenente dell'esercito, fu il primo a salire in montagna, sopra Boves: i nazifascisti uccisero il parroco del paese e impiccarono Vian a Torino.

La Chiesa considera da tempo superata quella frattura con lo Stato unitario che alcuni suoi zelanti interpreti vorrebbero riaprire l'Osservatore ha rievocato la decisione di Paolo VI, che sciolse i corpi militari proprio nel centenario di Porta Pia. Mostra un approccio sereno a fatti laceranti, che richiederebbero qualche revisione sul fronte laico: è vero che Pio IX dopo le iniziali aperture fu avversario dell'unificazione e della nuova Italia; è vero pure che da parte «piemontese» vi furono accanimenti ed eccessi, se si pensa che fu soppresso pure il convento di San Francesco ad Assisi, uno dei simboli dell'identità italiana.

Soprattutto, la Chiesa mostra di aver compreso che l'unità nazionale è davvero in pericolo, così come la coesione sociale. È paradossale che lo stesso timore non sia così diffuso tra i laici o nella società civile. Forse per non dispiacere alla Lega e per percorrere facili suggestioni revisioniste. Negli ultimi anni, tutte le secessioni europee sono riuscite, con esiti drammatici nei Balcani e comunque dolorosi in Europa centrale. Altri Paesi, come il Belgio, non riescono né a separarsi né a riunificarsi. L'idea delle gerarchie ecclesiastiche è che dividere gli italiani sia molto più difficile, ma forse non impossibile; e che la questione non vada sottovalutata. Paradossalmente, a salvare quel Risorgimento che fu fatto contro la Chiesa potrebbe essere proprio la Chiesa.

Aldo Cazzullo

01 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/10_dicembre_01/cazzullo_fragile-unita-paese_2fdf96b8-fd13-11df-a940-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #94 inserito:: Dicembre 27, 2010, 12:44:51 pm »

Il ministro: «È grave che problemi seri si trasformino in problemi di donne»

«In questo Pdl sono a disagio C'è un clima da caccia all'untore»

La Prestigiacomo: ridicola e mortificante l'accusa di infedeltà



«Sono stata in silenzio per quattro giorni. E sono stati quattro giorni di disagio».

Per il voto contrario del Parlamento, ministro Prestigiacomo?
«Quell'episodio, grave, è stato in parte chiarito. Con Cicchitto ci siamo spiegati, grazie anche al dottor Letta. Ma certo non mi aspettavo di leggere, sul Giornale della famiglia Berlusconi, una ricostruzione dei fatti alterata, e un editoriale offensivo, palesemente ispirato da qualcuno che fa il direttore occulto...».

Si riferisce a Daniela Santanché?
«Sì. Un attacco personale, basato su fango».

Ancora la sua amicizia con Fini?
«Lasciamo perdere. È stato un piccolo replay del trattamento Boffo. Pieno di falsità. Innanzitutto: non è vero che l'altro giorno alla Camera ho pianto. È vero che piansi sette anni fa, in consiglio dei ministri, dopo una discussione con Berlusconi. Non l'altro giorno. Ed è grave che un problema serissimo come quello dei rifiuti, della salute, delle ecomafie, sia trasformato in un problema di donne. E giù analisi psico-sociologiche: l'isteria, il ciclo...».

La politica italiana è maschilista?
«Qui siamo molto oltre il maschilismo, e molto peggio. Le donne in politica non sono una categoria. Ognuna ha la sua storia e le sue competenze. Se Tremonti, Alfano, La Russa hanno un problema, si parla di quello. Se ce l'hanno la Prestigiacomo, la Gelmini, la Carfagna, si parla delle donne, delle loro lacrime, dei loro nervi».

Anche altri quotidiani hanno attribuito a Berlusconi l'espressione «bambine viziate» riferita a lei e alla Carfagna.
«Conosco bene il presidente Berlusconi ed escludo che abbia detto così. So che lui è attento al merito dei problemi. Ed è consapevole sia dell'importanza della questione rifiuti, sia della mia assoluta lealtà nei suoi confronti. Non sono una yes-woman: non dico sempre di sì, dico quel che penso. Ma l'idea che io, dopo sedici anni, possa essere accusata di infedeltà sarebbe ridicola se non fosse mortificante. Non prendo lezioni di fedeltà da nessuno. Sono nata politicamente con Berlusconi, morirò politicamente con Berlusconi».

Allora perché si vuole iscrivere al gruppo misto?
«Non ho ancora deciso. Non sono un'irresponsabile. Certo in questo Pdl mi sento sempre più a disagio. Si è creata un'atmosfera da caccia all'untore, quando ormai lo scenario è chiaro: Fini e il suo partito stanno all'opposizione, noi dobbiamo cercare di aprire al centro».

E invece?
«Invece la caccia alle streghe continua. Si fa politica con la bava alla bocca. E una parla con Bocchino, e l'altra parla con quell'altro... Davvero crediamo sia il modo giusto per allargare la maggioranza?».

Lei è stata solidale con la Carfagna?
«Sì, lo sono stata e lo sono. Mara ha fatto una carriera politica veloce, ma poi ha dimostrato umiltà, si è candidata alle Regionali senza rete, senza che Berlusconi le facesse la campagna elettorale, e ha preso 50 mila voti. Non è giusto che il partito in Campania decida senza consultarla».

Anche Barbara Berlusconi ha annotato che la Carfagna non ha fatto esattamente la gavetta.
«Questo non intendo commentarlo. La specificità di Forza Italia è stata portare in Parlamento persone che non avevano mai fatto politica, e questo l'ha resa il partito più fresco, più innovativo. Io nel '94 sono entrata con Forza Italia subito in Parlamento; ma solo dopo sette anni ho fatto il ministro. Non siamo tutte uguali in quanto donne, come non sono uguali i nostri colleghi».

Niente lacrime, quindi.
«Ciò non toglie che le scene dell'altro giorno alla Camera, con deputati della maggioranza che mi insultavano e chiedevano le mie dimissioni, mi abbiano profondamente ferita. Erano tutti ex di An. La parte che dovrebbe essere minoritaria nel partito. Mi chiedo se invece non siamo noi, nati con Forza Italia, a essere finiti in minoranza».

Che cos'è successo esattamente alla Camera?
«Due giorni prima avevamo ottenuto il primo voto favorevole a Montecitorio dopo la fiducia, sul decreto rifiuti. Rappresentavo io il governo. Abbiamo concesso qualcosa al Fli, qualcosa all'Udc, qualcosa pure al Pd e all'Italia dei Valori, portando a casa il risultato. Poi mi sono ritrovata una norma, di cui non sapevo nulla, uscita guarda caso dalla commissione Lavoro, quella di Moffa, che ci teneva moltissimo...».

Una norma che sospende la tracciabilità dei rifiuti.
«L'80 per cento dei rifiuti italiani è speciale. Ed è fuori controllo. Viaggia per i fatti suoi. La documentazione è tutta cartacea, ed è facile falsificarla. Il controllo deve diventare telematico, con i dati su una chiavetta, una scatola nera sui camion, e la sorveglianza affidata ai carabinieri. Una rivoluzione. La Confindustria ci appoggia. Purtroppo molte aziende preferiscono il vecchio sistema. E dietro i rifiuti ci sono lobby potentissime».

Così la sua maggioranza le ha votato contro.
«Vanificando il lavoro di anni. Per fortuna è un disegno di legge; il modo di rimediare si trova. Ma le grida, gli insulti, quelli lasciano traccia».

Cosa chiede a Berlusconi?
«Di intervenire nel merito dei problemi. Nel partito, dove i giovani non possono essere sacrificati per sempre, dove non possono essere tre persone a fare e disfare. E nel ministero, che nel 2011 non può lavorare con un taglio al bilancio del 60 per cento. Sono riuscita a salvare i parchi, che rischiavano la chiusura. Ma per bonificare 53 siti, grandi come una regione italiana, non ho un euro. Come faccio? La logica dei tagli orizzontali è deleteria, soprattutto per un ministero disastrato come quello che ho ereditato da Pecoraro Scanio. Che aveva un viceministro e due sottosegretari. Io sono rimasta senza il mio unico sottosegretario, Menia. Lavoro 12 ore al giorno. Non merito di essere trattata così».

Dicono che sia tentata dal partito di Micciché.
«Da sempre guardo con grande attenzione al partito del Sud. Costruire un contraltare alla Lega è una grande sfida. Dentro ci sono tantissime tra le persone con cui ho iniziato a fare politica. In prospettiva - non oggi - mi sentirei a casa più che nel Pdl com'è diventato».

E la fedeltà a Berlusconi?
«Ma il partito del Sud avrà in Berlusconi il suo faro...».

Aldo Cazzullo

27 dicembre 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/politica/10_dicembre_27/in-questo-Pdl-sono-a-disagio-un-clima-da-caccia-all-untore_9669d6ce-118a-11e0-8f66-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #95 inserito:: Gennaio 20, 2011, 06:18:43 pm »


La misura perduta

L'aggressività dei toni e la durezza della sostanza del messaggio di Silvio Berlusconi non aiutano né a chiarire la vicenda né a ricomporre il quadro politico. Certo, inquieta lo spiegamento di forze per seguire le tracce di centinaia di ospiti in una casa privata; come pure la prospettiva che il Paese resti bloccato per settimane, nell'attesa di un processo da cui potrebbe non emergere una prova decisiva. Ma, lasciati alla magistratura il proprio lavoro (il premier si presenti ai giudici e non chieda di punirli) e alla politica le proprie beghe, fatte salve le garanzie dovute a tutti i cittadini, inquieta anche la rappresentazione della vita civile che stiamo dando all'estero e che lasceremo alle prossime generazioni.

Preoccupa in particolare il fatto che il capo del governo non riesca a darsi nei comportamenti personali un profilo all'altezza dei suoi doveri istituzionali e anche della sua politica della famiglia, al centro quantomeno dei programmi elettorali. Uno dei punti di forza di Berlusconi è sempre stato lo stretto rapporto con le gerarchie ecclesiastiche. Finora il sostegno della Chiesa al centrodestra non è venuto meno, per quanto le rivelazioni sulla vita privata del premier abbiano causato disagio e turbamento tra i vescovi e talvolta anche Oltretevere. Ora il direttore di Avvenire Marco Tarquinio ricorda che «quando si ricoprono incarichi di visibilità il contegno è indivisibile dal ruolo» e l'Osservatore Romano pubblica la nota che esprime le preoccupazioni del Quirinale, come a farle proprie. L'impressione però è che non bastino i segnali che vengono dai quotidiani, per quanto autorevoli. Occorrerebbe, da parte della Chiesa, una parola più esplicita. La settimana scorsa, il Papa ha espresso davanti al corpo diplomatico le sue perplessità sull'educazione sessuale nelle scuole, con un intervento giudicato molto severo anche da osservatori in sintonia con il pontificato di Benedetto XVI. Quel che emerge dalle carte dell'inchiesta di Milano non è meno inquietante, anzi.

Non è solo in questione la moralità della persona. È lo spaccato del Paese a destare sconcerto. Sono i padri che invitano le figlie a essere ancora più spregiudicate, pur di conquistare più denari e nuovi favori. È la degradazione della famiglia a valore da agitare in campagna elettorale o a grumo di interessi per approfittare dell'angosciosa solitudine del leader. Qual è l'idea del nostro Paese che stiamo trasmettendo alla comunità internazionale? Quale il modello di vita che mostriamo ai nostri figli? Quale l'immagine dell'Italia che lasceremo alle generazioni a venire? Il forte rapporto tra Stato e Chiesa, costruito anche da Berlusconi, è stato spesso criticato. Se ora arrivasse un richiamo al dovere di chiarire, di rispondere con serietà ad accuse tanto serie e di sottoporsi al giudizio della magistratura, quel rapporto darebbe un contributo prezioso non tanto al governo (che l'opposizione non ha né la forza né la voglia di far cadere), quanto al Paese.

Aldo Cazzullo

20 gennaio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_gennaio_20/la-misura-perduta-aldo-cazzullo_cf3e0116-245c-11e0-8269-00144f02aabc.shtml
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« Risposta #96 inserito:: Febbraio 13, 2011, 02:48:12 pm »

STORIA E RADICI DA RISCOPRIRE

Gli italiani contro voglia

La discussione sulla festa del 17 marzo riflette lo scetticismo con cui partiti e ambienti culturali diversi guardano ai 150 anni della nostra nazione. Il Risorgimento non è mai stato caro alla sinistra marxista, che da Gramsci in giù l'ha visto per quel che era: non una rivoluzione sociale ma una rivoluzione nazionale. È tradizionalmente stato inviso ai cattolici, perché si fece contro il Papa (per quanto la Chiesa ora guardi ai 150 anni con attenzione e rispetto). Alle idiosincrasie storiche si aggiungono quelle dei leghisti - ma non tutti - al Nord e dei neoborbonici al Sud. E contribuisce al clima da festa triste non solo la forte contrapposizione politica, ma anche l'antica tendenza all'autodenigrazione. L'intellettuale si sente anticonformista nel ripetere luoghi comuni spacciati per arditi revisionismi: meglio i briganti dei bersaglieri, meglio gli austriaci dei patrioti.

Del resto, la nostra storia viene sovente rappresentata come una sequela di calamità o al più come una vicenda fatta da altri, che non ci interessa e non ci riguarda: la Controriforma senza Riforma, la vittoria mutilata, la Resistenza tradita, i proletari senza rivoluzione; e appunto il Risorgimento incompiuto. Non a caso continuano a uscire libri «contro», che evocano il martirio del Sud, i crimini di guerra di Gaeta, le virtù di Radetzky, il «lato oscuro» del Risorgimento. Non che le pagine nere vadano occultate, anzi. Ma la festa dovrebbe essere il momento giusto per raccontare anche il lato luminoso dell'unificazione e di questi 150 anni di vita comune. E senza bisogno di libri.

In ogni famiglia c'è un personaggio che ha contribuito a fare la storia d'Italia. Il padre soldato nella Seconda guerra mondiale. Lo zio resistente nelle varie forme che la Resistenza assunse, dalle bande partigiane ai militari internati in Germania, dagli ebrei alle donne, dai sacerdoti ai civili. Il nonno cavaliere di Vittorio Veneto. L'antenato mazziniano o garibaldino o volontario delle guerre risorgimentali. Ogni famiglia custodisce un frammento della vicenda nazionale. Di cui magari non si parla mai.

A volte sono memorie tristi, che solo di recente sono diventate discorso pubblico ma di cui non si dovrebbe più avere timore, dalle persecuzioni razziali alle foibe, dalle repressioni nazifasciste alle vendette partigiane. In generale, molti reduci non amano parlare della guerra, neppure se vittoriosa; e i giovani sono spesso distratti.

Sarebbe importante che la festa del 17 marzo fosse l'occasione per ritrovare, in ogni famiglia, quel tassello di storia patria.
Custodito spesso dalle donne, che alla terra dei padri tengono anche più degli uomini. Tutti insieme, quei tasselli sono il grande racconto del nostro passato, spesso ribadito da lettere, carte, oggetti, simboli: un patrimonio prezioso, che però i nostri figli e nipoti non hanno mai visto o compreso sino in fondo. Un giorno di riposo, che divenisse l'occasione per narrare e recuperare quel che ogni famiglia ha dato al nostro Paese, gioverebbe al sentimento dell'unità nazionale più di tante celebrazioni.

Aldo Cazzullo

13 febbraio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.corriere.it/editoriali/11_febbraio_13/cazzullo_italiani_controvoglia_0d773352-374b-11e0-b09a-4e8b24b9a7d0.shtml
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« Risposta #97 inserito:: Marzo 18, 2011, 10:17:05 pm »


UNITI, ALMENO UN GIORNO

Ritroviamo l'orgoglio dell'Unità


L'Italia che oggi arriva al suo 150° compleanno, e lo celebra in Parlamento e nelle piazze, è un Paese su molti aspetti diviso. Dalla storia, e dalla geografia. Sulla memoria storica, e sugli interessi territoriali. Ma è un grande Paese, che può essere orgoglioso del contributo di bellezza, sapere, lavoro che con i suoi artisti, scienziati, emigranti ha dato all'umanità. Il Paese degli ottomila Comuni, che a ogni collina cambia accento, paesaggio, costumi e prodotti, ma che mantiene una vocazione universale: la classicità e la cristianità, i Cesari e i Papi; il Rinascimento, con cui insegnò al mondo a raffigurare e pensare le cose, e il Risorgimento, con cui si riaffacciò sulla scena internazionale. Perciò oggi è giusto festeggiare, tutti insieme; senza che questo implichi essere tutti d'accordo, condividere la stessa idea dell'Italia.

Il Risorgimento che unificò la penisola scontentò cattolici e repubblicani, e comportò una guerra civile al Sud. Anche la Costituzione nacque alla fine di un sanguinoso scontro interno. Il dopoguerra è stato segnato prima dalle contrapposizioni ideologiche, poi da quelle personali. Oggi la festa è contestata al Nord dai leghisti - anche se non da tutti - e al Sud da un movimento che sarebbe riduttivo definire neoborbonico, e presto troverà una sua forma di rappresentanza politica, una lega del Mezzogiorno. Ma Paesi considerati più patriottici del nostro hanno alle spalle divisioni anche peggiori. Gli Stati Uniti furono lacerati da una guerra civile che lasciò il Sud pressoché distrutto. I francesi si sono trucidati tra loro negli anni della Rivoluzione e della Comune. Spagna e Regno Unito si misurano da decenni con separatisti armati. Eppure i nostri vicini e alleati si riconoscono in valori comuni. Ciò che unisce è più di ciò che divide. Perché lo stesso non dovrebbe valere per noi?

Non si tratta di ricostruire in laboratorio impossibili memorie condivise, ma di riconoscere che pure noi italiani abbiamo un passato di cui possiamo andare fieri e un futuro ricco di possibilità. L'attaccamento alle piccole patrie, ai dialetti, ai Comuni è giusto e utile, è la ricchezza che il mondo globale ci chiede; e può stare assieme al legame con la patria comune che ci comprende tutti.

Ce lo insegnano Alessandro Manzoni, grande italiano e grande milanese, che compose l'ode oggi ripubblicata dal Corriere quand'era ancora cittadino austriaco. E Daniele Manin, acclamato dai veneziani che sventolavano il vessillo con il leone di San Marco e il Tricolore. Oggi ricordiamoci anche di Ciampi, quando dice di sentirsi livornese, toscano, italiano ed europeo. E di Napolitano, quando ricorda l'influenza fortissima sull'identità italiana di Napoli e l'urgenza del suo riscatto. Anche nelle nostre famiglie c'è un personaggio che ha contribuito a fare la storia d'Italia. Nel Risorgimento, nelle due Guerre mondiali, nelle varie forme che assunse la Resistenza, nella ricostruzione. Oggi raccontiamone la storia ai nostri figli e ai nostri nipoti. Ritroviamo quel frammento di memoria nazionale che ogni casa custodisce, magari in forma di lettere, cimeli, ritratti. E non temiamo le sofferenze che pure ci portiamo dietro; perché anche di quelle possiamo essere orgogliosi, anche quelle servono a costruire un futuro che oggi potrebbe apparirci meno avaro e meno incerto.

Aldo Cazzullo

17 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #98 inserito:: Marzo 29, 2011, 05:03:17 pm »

La giornata davanti al tribunale di Milano

Tra supporter e contestatori il premier risale sul predellino

MILANO - Silvio Berlusconi non è, al contrario di quanto ha detto ieri mattina sul suo Canale 5, « l’unico capo di governo al mondo che può essere processato » . Ma certo è l’unico che entra dal retro e sale al settimo piano del tribunale in montacarichi, mentre per tutto il tempo della lentissima ascensione, dell’udienza e poi della sua ostensione finale piccoli eserciti si scambiano improperi sui due marciapiedi sottostanti, tenuti a bada da poliziotti increduli ( « signore, prego, non fate così... » ).

Rispetto all’ultima volta che l’hanno visto da queste parti, otto anni fa, tutti sono un po’ più vecchi: l’avvocato Niccolò Ghedini non aveva un capello bianco, il contestatore Pietro Ricca era più magro, e lo stesso vale per cronisti, dipietristi, promotori della Libertà. L’unico che pare più giovane— meno rughe, più capelli— è lui, almeno visto da dietro i vetri scuri dell’Audi, e poi da quelli del tribunale, velati da una carta azzurrina come in guerra ai tempi dell’oscuramento. Il 17 giugno 2003, al processo Sme, Berlusconi aveva parlato due ore. Fu uno show. Entrato in aula prima dei giudici— «visto? mi fanno attendere, la mia dignità non è preservata» —, affrontò l’accusa di corruzione con un argomento inoppugnabile: perché la Fininvest avrebbe dovuto pagare i giudici banca su banca, quando il capo aveva a disposizione la sua cassa personale, «contenente centinaia e centinaia, talora un migliaio di volte, la cifra che sarebbe stata versata?» . Siccome la cifra era di 435 mila dollari, ecco il pubblico fantasticare sulle dimensioni della cassa personale di Berlusconi: caverna di Alì Babà? Deposito di zio Paperone? All’uscita Ricca, che la volta prima era stato rinviato a giudizio per avergli urlato «buffone» (o «puffone»), aggirò l’ostacolo e urlò a pieni polmoni: «Schifaniii!» .

Il premier aveva reagito declamando i numeri della persecuzione giudiziaria: «Cinquecento visite della polizia, 22 processi, mille udienze, 93 dirigenti inquisiti di cui 53 già assolti, 50 conti esteri controllati, 30 italiani...» . Nel frattempo i processi sono diventati trentuno. Ma ieri il clima era molto più dimesso. Berlusconi non ha preso la parola. Quando dopo un’ora il magistrato, Giulia Turri, di cui il Cavaliere ha avuto un’impressione favorevole, si è alzata per andare in camera di consiglio, lui è uscito a far due passi in corridoio. Al suo fianco, Daniela Santanchè, in trench arancione; nessun altro esponente del governo o del partito. Poi Berlusconi si è seduto su una panca, ha tirato fuori un pezzo di cioccolato bianco e ha fatto uno spuntino. Gli hanno offerto un caffè alla macchinetta. Quindi è tornato dentro, per l’ultima mezz’ora. Tre piani sotto, in Procura, ferveva il lavoro per il processo più atteso, sul caso Ruby. Al pianterreno un uomo in bicicletta passa davanti al gazebo azzurro, rallenta e urla: «Andate a lavorare!» , poi si alza sui pedali e schizza via.

Applaudono i dipietristi, compiaciuti dalla loro parte nel canovaccio, che pare una replica grottesca del Caimano di Moretti, molto citato. I berlusconiani reagiscono: «E voi imparate l’italiano!» .

La stanzetta dell’udienza è piccolissima, dentro non ci sono più di venti persone. Berlusconi è in prima fila, con Ghedini a destra e Nadia Alecci a sinistra, accanto a Piero Longo. Nel banco dietro, Giorgio Perroni e Filippo Dinacci, gli altri avvocati. La loro linea è che Berlusconi non sarà un santo ma non è fesso, e mai avrebbe pagato per anni milioni di euro a un capufficio acquisti infedele che avesse fatto la cresta sui telefilm americani. «La forza della verità» è lo slogan raccomandato dal premier. La sua presenza nel Palazzo di Giustizia di Milano, crocevia dell’ultimo ventennio, non ha alcuna valenza processuale ma un chiaro significato simbolico: eccomi, sono qui, non si dica che intralcio la giustizia, e ora passiamo ad altro. Le voci che arrivano dal quarto piano indicano che la lista dei personaggi chiamati a testimoniare su Ruby, nei giorni della campagna elettorale per il Comune, è quasi pronta: Mora Dario detto Lele, Fede Emilio, Rossella Carlo, Apicella Mariano e pure Hammad Reda Mohammed, interprete di Mubarak. I dipietristi hanno portato uno striscione: «Bentornato, dentro ti stanno aspettando».

Si stacca un ardito e affronta gli azzurri facendo il segno delle manette e gridando «ladri!» , per la gioia della diretta tv e lo sconcerto di un pullman di giapponesi diretto a Linate. Piero Ricca grida che la polizia gli ha rotto la telecamera: «E ora chi me la ripaga?».
I giapponesi fanno fermare il pullman per fotografare. Le agenzie trasmettono le quotazioni dei bookmaker per il processo Ruby: a 3,75 la condanna per concussione, a 1,25 l’assoluzione; a 3 la condanna per sfruttamento della prostituzione minorile, a 1,33 il proscioglimento. Scommettere su Berlusconi resta l’investimento più sicuro. Eppure, quando esce per la seconda e ultima volta dall’auletta per riguadagnare il montacarichi, ad attenderlo con la Santanchè trova solo il medico personale, Alberto Zangrillo. Nessun altro, a parte il viavai di carabinieri, magistrati, avvocati. Ci sono anche alcune vittime di errori giudiziari con cartelli al collo e Marco Bava, titolare di una sola azione Mediaset dal valore di 8 euro, che è qui per costituirsi parte civile contro Berlusconi. Lui passa di nuovo dal retro ma vuole salutare i fan. Il corteo di auto blu rallenta e la folla esulta, anziane signore prendono a bandierate in testa i fotografi che offuscano la visuale, qualcuno urla nel megafono le lodi di Silvio, ha la sua stessa voce o forse la imita. I giapponesi sono stati gli ultimi a passare, ora il traffico è bloccato, si allunga la fila dei tram in attesa. Berlusconi sale sul predellino ma non parla, saluta con la mano levata, da vicino non sembra poi così ringiovanito: il trucco pesante, i denti bianchissimi, i capelli dal colore introvabile in natura. Una signora rossa lo tranquillizza: «Non sono la Boccassini!» . I suoi lo amano di un amore sincero e lo manifestano alla Santanchè: «Dani sei la nostra Thatcher!» . Pazientissimi i poliziotti, anche se proprio non si trova chi ha rotto la telecamera a Ricca.

Berlusconi è già lontano, va a trovare il suo amico Romano Comincioli, che sta molto male. I dipietristi gli lanciano dietro le ultime maledizioni.

I passeggeri bloccati in tram passano dopo mezz’ora d’attesa, qualcuno si abbandona a gestacci liberatori rivolti a tutti.

Aldo Cazzullo

29 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #99 inserito:: Marzo 31, 2011, 05:55:58 pm »

Ieri e oggi

L'episodio del 30 aprile 1993. E l'ex leader del Psi commentò: «Tiratori di rubli»

Quel giorno davanti al «Raphaël» che portò Craxi verso l'esilio

Una nuova generazione di contestatori è tornata ad evocare Mani pulite Le monetine I manifestanti aspettarono l'ex leader socialista fuori dall'albergo e tirarono le monetine: «Vuoi pure queste?»

Differenze A rivedere le immagini Craxi appare sorpreso e incredulo, mentre La Russa incede spavaldo verso i contestatori


Se quell'altra volta Craxi avesse ascoltato il fido autista Nicola Mansi e fosse uscito dal retro dell'hotel Raphaël, non sarebbe accaduto nulla, e Mani pulite non avrebbe avuto la sua scena-simbolo. Invece il leader socialista aveva il gusto della sfida. Un giorno che due motociclisti lo affiancavano a ogni semaforo per urlargli «ladro!», lui ordinò a Nicola di chiuderli, scese, mise a segno un paio di ganci e risalì in macchina senza scomporsi. Fuori dal Raphaël però lo aspettavano in centinaia. Con le monetine. E le banconote da mille lire: «Vuoi pure queste? Bettino, vuoi pure queste?». Non era una manifestazione spontanea, molti erano militanti del Pds arringati poco prima da Occhetto in piazza Navona. «Tiratori di rubli» li chiamò Craxi. Ma si capì allora che i suoi giorni erano numerati.

Ieri è stata un'altra giornata di monetine. Una nuova generazione di contestatori è tornata a evocare Mani pulite, la commistione tra affari e politica, la frenesia per il denaro, il gusto dell'impunità, l'indignazione popolare; ma anche la contestazione organizzata, l'aggressività di strada, il populismo in favore di telecamera. La «piazza urlante che grida, che inveisce, che condanna», come la chiamò Berlusconi nel video della discesa in campo; indignando molti italiani, ma rassicurandone molti altri.

Era un'altra primavera romana - 29 aprile 1993 -, quando la Camera negò quattro delle sei autorizzazioni a procedere contro Craxi chieste dalla Procura di Milano, con il sospetto concorso di Bossi, interessato a far precipitare lo scontro. La sera stessa, Berlusconi andò in visita di rallegramento proprio al Raphaël, il delizioso albergo raccontato da Enzo Bettiza in «Mostri sacri», dove tra le ceramiche di Picasso e i grammofoni d'epoca Craxi viveva accampato come un orco all'ultimo piano, ricevendo sui tetti di Roma giornalisti e fidanzate, segretari di partiti alleati e Moana Pozzi. Il Cavaliere da una parte soffiava sul fuoco di Tangentopoli con le sue tv, dall'altra sentiva la necessità di congratulare l'amico per lo scampato pericolo (almeno così pareva). Berlusconi però ebbe l'accortezza di passare, lui sì, dal retro. Il giorno dopo, Craxi uscì dal portone principale, quello che dà sugli alberi di largo Febo; e fu sommerso dalla pioggia di monete.

Ieri La Russa ha voluto emularlo, con un pizzico di provocazione in più. In Aula, dove la rissa si è replicata con un'acrimonia non inferiore a quella della piazza, Franceschini ha accusato il ministro della Difesa di essersela cercata. La Russa si è molto indignato. A rivedere le immagini, Craxi appare un leader sorpreso e incredulo; mentre La Russa incede verso i contestatori a petto in fuori, spavaldo.

Erano i giorni in cui il vice di Bettino, Claudio Martelli, l'unico che avesse accesso al suo frigorifero, affermava di voler «restituire l'onore ai socialisti». Oggi Cicchitto, che c'era, assicura che «nel Pdl non c'è nessun Martelli». Fini del resto nel Pdl non c'è più. Eppure l'immagine di Berlusconi a Palazzo di giustizia, lunedì mattina, era quella di un uomo lasciato solo dai suoi, con l'eccezione della Santanchè, anche lei ieri puntata dai lanciatori di monete.

In quegli stessi giorni del '93, Berlusconi andava maturando la decisione di scendere in politica, proprio per non fare la fine dell'amico Bettino. Chiamò a raccolta i voti dei moderati che avevano appoggiato i governi Dc-Psi, ma non ruppe subito con i sostenitori di Mani pulite, arrivando a offrire gli Interni a Di Pietro («sei diventato matto?» gli telefonò Craxi, già ad Hammamet). L'ormai ex capo del Psi era partito per Tunisi il 21 marzo 1994, su un aereo preso in affitto tramite Giuseppe Ciarrapico. Sei giorni dopo Berlusconi vinceva le elezioni politiche. Diciotto anni dopo, siamo ancora qui con il Cavaliere e i magistrati, i processi politici e il processo breve, Bossi e i postcomunisti. E con le monetine. L'unica differenza è che gli spiccioli del '93 avevano un valore poco più che simbolico, come i biglietti da mille offerti a Craxi per sfregio. Oggi le monete sono pesanti, in ogni senso, e un euro non si butta via a cuor leggero. Siamo tutti un po' più vecchi e un po' più poveri; e neppure questo è un buon segno.

Aldo Cazzullo

31 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #100 inserito:: Aprile 17, 2011, 05:00:03 pm »

Giulia Bongiorno «Dalla maggioranza provvedimenti da Far West»

«Intese tra Fli e Pd? Niente panico Destra e sinistra categorie superate»

Di giustizia mi intendo più di Berlusconi, ma non mi ha mai ascoltato. Parlava dei suoi processi


C'è un neonato, Ian, che dorme con gli emendamenti al processo breve sotto il materasso. Dice la madre che «il pediatra mi ha detto di farlo riposare in posizione inclinata, e così...».
La madre è Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia della Camera, molto vicina a Fini. In silenzio da mesi, e non solo per la maternità. «Ora è stato il turno del processo breve, ma in precedenza la commissione Giustizia è stata occupata quasi a tempo pieno da provvedimenti analoghi. Cambia il nome, la sostanza è la stessa: si tratta sempre di provvedimenti Far West, una definizione che mi sembra rispecchi il modo in cui Berlusconi, sentendosi perseguitato dalla magistratura, si fa confezionare delle norme per farsi giustizia da sé».

Lei non lo considera perseguitato?
«Da avvocato, posso dire che la quasi totalità degli imputati è convinta di essere vittima di complotti giudiziari e quindi l'istinto di molti è scagliarsi contro la magistratura o eludere i processi. Faticosamente, si cerca di spiegargli che esistono procedure attraverso cui si accerta una responsabilità penale e che queste procedure devono essere rispettate; altrimenti si crea un sistema di giustizia fai-da-te inaccettabile e pericoloso. In questo senso, il premier non costituisce un'eccezione. L'unica, rischiosa differenza sta nel fatto che lui possiede gli strumenti per tentare davvero di farsi giustizia da sé. Ed è chiaro che se un leader, che dovrebbe essere anche un modello, organizza manifestazioni contro i giudici davanti ai tribunali o cerca di eludere i processi con le norme che fa produrre in Parlamento, gli imputati si sentono legittimati, o persino incoraggiati, a emularlo. Stiamo attenti al Far West».

Qual è il rischio?
«Che si produca una vera e propria degenerazione etica e sociale. Ricordiamoci di Andreotti, che quando fu condannato per omicidio a 24 anni dichiarò: "Credo ancora nella giustizia". Senza dubbio esistono magistrati politicizzati, e persino magistrati corrotti. Esistono anche errori giudiziari commessi in buona fede. Ma queste storture devono essere corrette con le riforme: è inconcepibile inveire contro la magistratura in blocco o costringere il Parlamento a occuparsi di norme mostruose, con uno spaventoso dispendio di tempo, energia e risorse».

Com'è trattare sulla giustizia con Berlusconi?
«Quando ne ho avuto occasione, ho notato che Berlusconi parla, non ascolta. Me ne sono stupita: è evidente che di giustizia mi intendo più di lui; credevo gli interessasse conoscere la mia opinione. Sbagliavo. Io parlavo di sistema giustizia e lui portava il discorso sui suoi processi. Ritiene che il suo status di imputato lo abbia trasformato in un esperto di giustizia. Sarebbe come rompersi più volte una gamba facendo alpinismo estremo e sentirsi poi non solo legittimati a riformare la sanità, ma anche in possesso delle credenziali per farlo; oltre che perseguitati dai medici. E non va dimenticato che il tempo destinato a queste leggi è stato sottratto ad altre mai fatte e che invece avrebbero dovuto avere priorità assoluta: quelle per rendere più efficace il sistema».

Berlusconi ha annunciato una «riforma epocale» della giustizia.
«Non ci sarà mai: perché non credo che il premier abbia a cuore il buon funzionamento della giustizia. Non vedrà la luce nemmeno la riforma sulla separazione delle carriere e del Csm: dopo mille proclami siamo ancora a semplici enunciazioni di princìpi. Al contrario, si continuerà a produrre leggine Far West».

Il processo breve passerà al vaglio della Consulta? O è incostituzionale?
«Non mi azzardo a fare previsioni, ma il testo è sicuramente caratterizzato da irragionevolezza. Essere incensurati significa non avere sentenze definitive. Quindi, teoricamente, beneficia della prescrizione breve anche chi ha decine di processi a carico, ma è finora riuscito a sfuggire a una condanna; grazie alla fortuna o ai suoi avvocati. Vedo qualche problema anche con la Convenzione Onu sulla corruzione, perché questo tipo di reati saranno certamente toccati dalla prescrizione breve. La Convenzione Onu invita i Paesi aderenti a fissare "un lungo termine di prescrizione": l'opposto di quello che accadrà in Italia».

Futuro e Libertà ha davvero un futuro? O si sta sgretolando?
«Senza dubbio ci sono stati momenti difficili, ma se mi guardo attorno non vedo gruppi senza problemi...».

Dicevate di voler cambiare la politica, siete nel mezzo di una lite interna.
«Resto convinta che l'unico modo per riconciliare i cittadini con la politica sia cambiare. Cambiare radicalmente. E in quest'ottica di rinnovamento credo che le donne saprebbero riconquistare la fiducia delle gente comune. Purtroppo rimangono confinate ai margini delle istituzioni. Da sempre sono costrette a lottare più degli uomini per affermarsi: tutto questo è ingiusto, faticoso, sbagliato, ma ha avuto il pregio di affinare le loro capacità. Dare più spazio alle donne sarebbe anche una possibilità di riscatto dall'umiliazione che il premier ha inflitto a tutte noi - e a tutti gli uomini che credono nella parità e nel rispetto - con parole e comportamenti dai quali traspare un maschilismo radicato e insultante».

 Lei crede ancora nella leadership di Fini? E al Terzo polo? Sarà mai possibile un accordo con il Pd?
«Certo mi trovo più a mio agio con alcuni del Terzo polo che con altri in cui mi sono imbattuta quando sono entrata in An. So che l'ipotesi di un accordo con il Pd getta nel panico parecchi. Personalmente, reputo superate le categorie destra e sinistra e quindi per me i no pregiudiziali sono incomprensibili. Sulla legalità, io dovrei essere etichettata come di destra; ma se parliamo di procreazione assistita, in confronto a me Enrico Letta è un chierichetto».


Aldo Cazzullo

15 aprile 2011
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« Risposta #101 inserito:: Maggio 22, 2011, 10:06:35 am »

Un po' di serietà


Se la destra pare non aver imparato la lezione del primo turno, la sinistra non ha ancora fornito ai milanesi tutte le garanzie e gli elementi per prendere una decisione importante come quella del 29 e 30 maggio. A cominciare dalla squadra di governo, dagli uomini cui potrebbe essere affidata la Milano del futuro.


Da una parte, i toni e gli argomenti della campagna per il ballottaggio non sembrano discostarsi da quelli - eccessivi - dei giorni scorsi. Non è solo questione dell'insulto di Bossi, o del periodico vicino al centrodestra che accosta Pisapia all'Anticristo. Presentare una Milano governata dalla sinistra come la capitale degli zingari, della droga, dei centri sociali e dei minareti non inficia la credibilità degli avversari, ma la propria. Demonizzare le moschee, viste dallo stesso Maroni come argine all'estremismo islamico, può portare qualche voto ma non delinea la visione di una grande città del XXI secolo. Peggio ancora le promesse dell'ultimo momento, che magari contraddicono il programma elettorale, come la marcia indietro della Moratti sull'Ecopass, o l'idea improvvisata di trasferire qualche ministero minore a Milano e a Napoli (altra città-simbolo del berlusconismo, dalla battaglia dei rifiuti alle vicissitudini personali del premier); come se lo sviluppo di due metropoli europee fosse legato a qualche centinaio di posti pubblici. Dall'altra parte, Pisapia è stato attento a non esasperare la valenza politica del voto di Milano e a non accettare la battaglia delle male parole. Ma non ha dissipato i dubbi legittimamente coltivati dai moderati milanesi; i quali, come nel resto del Paese, restano la maggioranza del corpo elettorale.


Pisapia farebbe bene non solo a precisare meglio i punti-chiave del suo programma, ma soprattutto a indicare le persone incaricate di attuarli. Non è indifferente sapere come sarebbe composta la sua squadra; così come conoscere eventuali cambiamenti in quella della Moratti (che nel frattempo farebbe bene a scusarsi per la falsa accusa al rivale). Chi si occuperà dell'economia e del bilancio di Milano? Chi dell'Expo? Chi dell'ambiente? Chi del punto di forza del progetto di Pisapia, la cultura?
La preoccupazione - espressa ieri sul Sole 24 Ore da Roberto Perotti - per l'invadenza della mano pubblica rispetto alla sussidiarietà e alle istanze liberali non è priva di fondamento, in una città come Milano abituata ad affidarsi alle energie dei privati e delle associazioni. Sapere quali siano gli uomini e le donne di Pisapia è fondamentale per capire se la sua gestione possa essere davvero riformista e coinvolgere culture e ambienti diversi dal suo, compreso quello cattolico. Se entrambi i candidati indicassero anche personalità al di fuori del loro campo, darebbero un segnale importante e faciliterebbero la decisione dei milanesi. Che avrà certo conseguenze politiche. Ma è innanzitutto la scelta del sindaco di una città che resta l'avanguardia d'Italia nel mondo.

Aldo Cazzullo

21 maggio 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #102 inserito:: Giugno 02, 2011, 05:00:47 pm »

L'ITALIA DEL 2 GIUGNO

Il volto migliore

Quale Paese troveranno i capi di Stato che stanno arrivando a Roma da tutto il mondo?

E quale Paese lasceremo alle generazioni future, ai nostri figli e ai nostri nipoti?

L'anniversario della Repubblica, nel centocinquantesimo compleanno della nazione, ci impone di affrontare queste domande. Non se ne è sottratto Mario Draghi, esprimendo per l'ultima volta le sue Considerazioni finali da Governatore della Banca d'Italia, prima di assumere la guida della Banca centrale europea. E ha dato risposte che incoraggiano. Draghi ha sì parlato di un Paese «insabbiato», impaurito dal futuro, afflitto da bassa mobilità sociale. Ma ha indicato la possibilità di un «Rinascimento politico e anche economico», con parole che evocano, oltre a Cavour, la Costituzione della Repubblica romana del 1849, poi ripresa quasi cent'anni dopo dalla Costituzione della Repubblica italiana. A Roma, per la prima volta nell'Europa liberale, si teorizzò che la libertà da sola è appena un fiato di voce, se non c'è il progresso sociale, il salario per gli operai, la scuola per i ragazzi, il lavoro per i giovani.

Il modo migliore per onorare il 2 Giugno e per accogliere gli ospiti stranieri è presentarci come un Paese unito attorno ai valori costituzionali. Il voto amministrativo ha spazzato via le velleità su una riforma della giustizia che si voleva «epocale» e in realtà, anziché colmare le gravi lacune di efficienza dei nostri tribunali, avrebbe rischiato di stravolgere l'ordinamento. Il senso delle istituzioni, gli equilibri tra i poteri, il rispetto delle regole e della legge non sono valori acquisiti per sempre; ma non sono neppure simulacri che i cittadini accettano di vedere negati o vilipesi. I 150 anni hanno dimostrato che gli italiani sono più legati alla patria di quanto amino riconoscere. Ma la patria non è esaurita dalla nazione; comprende anche lo Stato, che non può essere sentito - a maggior ragione da chi ha responsabilità istituzionali - come qualcosa di estraneo, che non ci interessa e non ci riguarda.

I leader che oggi renderanno visita a Giorgio Napolitano forse non hanno sempre maturato un'idea seria della politica italiana. Ma certo sanno bene quello che l'Italia rappresenta nei loro Paesi. La terra della bellezza, dell'arte, della cultura, della creatività. Il mondo globale, che diventa sempre più uniforme, sempre più uguale a se stesso, guarda con ammirazione al Paese delle cento città, alla Roma della classicità e della cristianità come alla Milano del lavoro e della finanza, e alla grande provincia che a ogni crinale di collina cambia accento, paesaggi, prodotti. All'estero c'è una grande domanda di Italia. Il mondo di domani, che ci fa tanta paura, è anche una grande opportunità per un Paese che sia davvero unito e non lacerato tra Nord e Sud, Padania e Roma ladrona, terroni e polentoni, né ostaggio di una politica ridotta a rissa tra partigiani di interessi privati. Un esempio è sotto gli occhi del mondo: i soldati italiani delle missioni di pace, che saranno rappresentati nella rassegna di oggi. Uomini capaci di dimostrare che è ancora vero quel che diceva Cavour parlando di Garibaldi: gli italiani sanno battersi e morire per riconquistarsi una patria; sanno sacrificare anche se stessi, certo per la loro famiglia, ma anche per il bene comune. Il 2 Giugno dovrebbe richiamare la politica e in genere coloro che partecipano alla vita pubblica a essere all'altezza di questo esempio.

Aldo Cazzullo

02 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #103 inserito:: Giugno 08, 2011, 03:56:01 pm »

Il racconto

Dalla piazza di «Samarcanda» e dalle cassette di frutta di «Milano Italia»

Sinistra televisiva, l'ossessione del Cavaliere

Tutto partì da Guglielmi e Curzi-Telekabul.

Format azzeccati e satira, con due nemici: Berlusconi e D'Alema

   
All'inizio furono i collegamenti di Samarcanda con le piazze, dove Sandro Ruotolo - «Michele, qui la gente è molto arrabbiata...» - trovava sempre qualche signore sovrappeso in canottiera che urlava: «Santoooro, il Sud ha seeete!». E fu Umberto Bossi giovane, seduto sulle cassette di frutta, che da Legnano intercalava con il suo accento altolombardo: «Veda Lerner...». (Racconta Stefano Balassone, uno dei padri di Raitre: «Quella fu una trovata perfida del regista, che fece sedere i notabili democristiani e comunisti sulle poltroncine di velluto e i leghisti sulla pancaccia di legno. Il pubblico era tutto per i "barbari"»).

Eravamo a cavallo tra gli anni Ottanta e i Novanta. E la sinistra televisiva era nata. Raccontava la fine della Prima Repubblica. E un poco contribuiva ad affrettarla. Fin dall'inizio, si intuì quali sarebbero stati i grandi nemici. Berlusconi. E D'Alema. Il proprietario della tv concorrente, poi sceso in campo a prendersi pure quella pubblica. E il simbolo della sinistra postcomunista e neoriformista, impegnata a costruire un «Paese normale» anche dialogando («inciuciando», nel gergo romanesco della tv) con il nemico.

Sinistra televisiva, l'ossessione del Cavaliere Sinistra televisiva, l'ossessione del Cavaliere    Sinistra televisiva, l'ossessione del Cavaliere    Sinistra televisiva, l'ossessione del Cavaliere    Sinistra televisiva, l'ossessione del Cavaliere    Sinistra televisiva, l'ossessione del Cavaliere    Sinistra televisiva, l'ossessione del Cavaliere    Sinistra televisiva, l'ossessione del Cavaliere

Prima ancora, i predecessori della sinistra tv erano giornalisti laici e artisti goliardi. I reportage del «socialista di Dio» Zavoli, non a caso ripescato da Walter Veltroni come presidente della commissione di vigilanza Rai. I faccia a faccia di Minoli. Le cartoline di Barbato. E L'altra domenica di Arbore, che lanciava uno sconosciuto comico pratese: Roberto Benigni. Poi vennero i comunisti. Il Pci morente ebbe la terza rete. Se ne occupò il figlio del Veltroni fondatore del primo telegiornale Rai, ritrovando gli amici del padre e sistemando un po' di giovani di sinistra. Direttore di Raitre divenne uno scrittore amico di Umberto Eco ed Edoardo Sanguineti, Angelo Guglielmi. Che a sorpresa tirò fuori un programma dopo l'altro. Chi l'ha visto, affidato a Guzzanti padre, che ancora oggi sopravvive nelle mani di un'ex del Tg3, Federica Sciarelli. Mi manda Lubrano, destinato poi a lanciare pure Marrazzo, atteso da ascese e cadute politiche. Esperimenti riusciti come Blob e altri di dubbio gusto come Cinico tv. Piero Chiambretti, vestito da postino, recapitava lettere agli indagati di Tangentopoli e una volta pure al Cossiga nel pieno delle esternazioni («il presidente mi ha dominato» riconoscerà lui). E Fabio Fazio a Quelli che il calcio mandava Paolo Brosio, non ancora folgorato dalla Madonna di Medjugorje, a chiedere ai newyorkesi attoniti dove mai andassero d'inverno le anatre di Central Park.

Poi c'era la satira. La tv delle ragazze di Serena Dandini lanciò Francesca Reggiani, Cinzia Leone che faceva il verso a Daniela Fini ancora sposata a Gianfranco non ancora divenuto sincero democratico, Stefano Masciarelli che evocava il Maurizio Mosca del Processo del lunedì, Maurizio Crozza che aveva ancora qualche capello ma già duettava con Carla Signoris. E i figli di Guzzanti. Corrado demoliva Rutelli, presentandolo come un Alberto Sordi minore: «A Silvio, ricordate degli amici...». E Sabina prendeva di mira i due cattivi: Berlusconi e D'Alema. Anzi, «Dalemoni».

Occhetto fu da Raitre molto coccolato: l'Amazzonia, Chico Mendes, la sinistra dei club, le autocritiche da Santoro con le lacrime agli occhi e il baffo fremente per le tangenti rosse. D'Alema fu sempre malvisto, con alcune eccezioni: l'altra salernitana Lucia Annunziata, pur proveniente dal movimento a sinistra del Pci, e Bianca Berlinguer, anche per ragioni dinastiche. A D'Alema non fu mai perdonata la Bicamerale e la ciambella di salvataggio lanciata a Berlusconi.

Il gusto per il kitsch, il senso della merce, il feeling con il telespettatore-consumatore: già prima della discesa in campo, il Cavaliere era l'arcinemico. Balassone lo paragonò al serial killer del Silenzio degli innocenti, che nella scena finale, mentre Jodie Foster brancola nel buio, grazie agli occhiali per la visione notturna ci vede benissimo. Dal canto suo, Berlusconi non ha mai nascosto di detestare due cose al mondo più di ogni altra: il Pci e la tv pubblica. Logico che la sinistra televisiva diventasse la sua ossessione, dall'editto di Sofia all'epurazione milionaria dell'altro ieri. Ma, nonostante i vari tentativi (Socci, Masotti, Paragone, Sgarbi), un vero anti Santoro Berlusconi non l'ha mai trovato; al punto da prendersi a Mediaset, per una breve stagione, quello vero.

A Raitre c'era anche il Giuliano Ferrara di Linea rovente. E fu proprio lui a definire Telekabul il Tg3 di Sandro Curzi. «Pessimo giornalista, grande direttore» secondo la definizione di Guglielmi. Il telegiornale de sinistra dava spazio non solo a Cossutta e a Bertinotti, ma pure alla Lega e al Msi; alle forze antisistema, ma più in generale a quanto di nuovo accadeva nel Paese. E se Santoro si collegava con le piazze del Sud, Lerner prima fece Profondo Nord, poi nell'estate del '92, in vacanza a New York, ricevette una telefonata di Guglielmi e Balassone che gli proponevano una striscia quotidiana: era Milano Italia e avrebbe raccontato la fine di un mondo, in parallelo con il settimanale satirico Cuore di Michele Serra, oggi autore di Fazio. Poi è venuto il tempo delle guest star, Travaglio e Saviano. Alla fine la dicotomia imposta da Berlusconi - o con me o contro di me - ha fatto sì che fossero considerati di sinistra non solo il talk di Giovanni Floris e quello di Lilli Gruber - divenuta anche europarlamentare come pure Santoro e Sassoli - ma pure Mentana, fondatore del Tg5, e la Bignardi, che aveva condotto (molto bene peraltro) la prima edizione del Grande fratello. E ora che l'era di Berlusconi volge al tramonto, anche la sinistra Rai si prepara a uscire di scena. O a traslocare nel terzo polo, che non si chiama più Telesogno ma La7; e sarebbe davvero una nemesi se a comprarla - come dicono tutti, anche se probabilmente non accadrà mai - fosse Carlo De Benedetti, con i soldi del Cavaliere.

Aldo Cazzullo

08 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
da - corriere.it/politica/11_giugno_08/cazzullo-sinistra-televisiva-cavaliere_599fa324-9194-11e0-9b49-77b721022eeb.shtml
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« Risposta #104 inserito:: Giugno 20, 2011, 05:19:25 pm »

Venerati dai militanti, per la prima volta in questi giorni sperimentano il distacco

I destini incrociati di Umberto e Silvio Capi e amici che la politica non dividerà

La malattia del Senatur li ha uniti nel profondo. Ora insieme vedono il declino


L'attesa messianica che circonda Pontida, alimentata dagli antiberlusconiani ormai eccitatissimi e dagli stessi leghisti pronti a chiedere il trasferimento a Monza pure del Cupolone, non ha molta ragione d'essere.

Il Bossi di oggi non ha più la forza politica e forse anche fisica per sottrarsi all'abbraccio letale di Berlusconi. Bossi; non la Lega. Le due cose per la prima volta non coincidono più; anche se oggi la scenografia del sacro prato tenterà di dimostrare il contrario.
Questo non significa che la Lega resterà sempre fedele all'alleanza con il Pdl. Ma difficilmente sarà Bossi a decidere in piena autonomia lo strappo. Perché il Senatur sa che il suo destino politico è legato al Cavaliere; e sa che difficilmente potrà sopravvivergli.

Attorno al rapporto tra i due sono nate leggende e dicerie, basate come ogni leggenda e diceria su un fondo di verità. Il patto segreto sottoscritto dal notaio. I megaconti delle cliniche svizzere. Il salvataggio di banche padane. Ma il momento in cui si è giocata davvero la partita è stato quello del dolore e della sofferenza. Dopo l'alleanza coatta del '94, la rottura di Natale, gli anni del Berluskaiser e del «mafioso di Arcore», la ricucitura del 2000, è stata la malattia di Bossi a stringere il nodo del suo patto con Berlusconi. Per un anno, l'Umberto fu condannato al silenzio. Il premier rimase vicino all'uomo e anche al leader. Dovette sacrificare Tremonti al subgoverno Fini-Follini-Casini (tutti e tre poi fatti fuori). Però quando i colonnelli leghisti si fecero avanti per trattare in prima persona con il Cavaliere, lui fu cortese con tutti ma riconobbe sempre come unico interlocutore il vecchio capo ferito; e non a caso, alla prima uscita pubblica dopo la lunga convalescenza, Bossi indicò il suo erede in quello che appariva allora un outsider assoluto, suo figlio Renzo.

Il referendum di domenica scorsa ha certificato che la presa dei due capi sui partiti da loro fondati non è più assoluta. Se personaggi miracolati da Berlusconi, come Cappellacci inventato dal nulla governatore della Sardegna o la Polverini trascinata alla vittoria nonostante la sparizione della lista Pdl, hanno disatteso le sue indicazioni, lo stesso è accaduto nella Lega, a cominciare dal Veneto. Non soltanto Zaia ha votato quattro sì. I congressi provinciali di Verona, di Vicenza e del «Veneto orientale» (provincia dell'immaginario leghista) hanno visto la sconfitta degli uomini di Bossi e la vittoria degli uomini di Tosi e di Maroni; mentre a Padova si è rinviato tutto per evitare il bis. Proprio Maroni, l'eterno delfino che nel '94 fu l'ultimo a seguire il capo nella rottura con Berlusconi - «sono nato con la Lega, morirò con la Lega» -, ora è impaziente di rompere; e sarà lui con ogni probabilità a gestire la stagione post berlusconiana e lo sbarco della Lega al Sud.

Oggi il Carroccio appare rattrappito su se stesso. Appesantito dalla lettura burocratica di una fase che si è messa improvvisamente in moto. Avvitato nella battaglia di puntiglio per i ministeri al Nord; come se l'artigianato lombardo o l'industria veneta traessero giovamento da qualche centinaia di posti pubblici in più. E il tramonto di Bossi non è meno evidente dell'eclissi di Berlusconi: un leader - e ministro - che da mesi risponde alle domande dei giornalisti con una pernacchia, il dito medio alzato, il pollice verso e altri segni di cui i miliziani forniscono poi in serata l'interpretazione autentica. Oggi a Pontida il leone tornerà a farsi sentire, e sarà accolto con l'affetto di sempre. Ma sarebbe troppo chiedergli di essere ancora lui il demiurgo della storia italiana, com'è accaduto in tutte le elezioni degli ultimi vent'anni, dal crollo democristiano del '92 alla vittoria dell'Ulivo propiziata dalla sua corsa solitaria. In questo convulso finale di stagione, è data la possibilità pure che il barbaro in canottiera esca di scena abbracciato all'uomo che tutti gli chiedono di abbattere.

ALDO CAZZULLO

19 giugno 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA
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