LA-U dell'OLIVO
Novembre 26, 2024, 08:05:06 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 2 3 [4] 5
  Stampa  
Autore Discussione: CURZIO MALTESE. La verità dell'ex  (Letto 43434 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #45 inserito:: Agosto 06, 2010, 02:53:00 pm »

L'ANALISI

La catastrofe da evitare

di CURZIO MALTESE

Nella storia d'Italia le pagliacciate tendono a finire in tragedia. Lo scoppio della bolla del berlusconismo era prevedibile e previsto, ma purtroppo non dal soggetto in teoria più interessato: l'opposizione. La rocambolesca eppure annunciata fine della maggioranza ha colto il campo avversario ancora una volta diviso, lacerato fra le solite cento anime, incapace non soltanto di esprimere da subito un'alternativa per il futuro, ma finanche di elaborare una strategia comune per i prossimi mesi.

Di Pietro e Vendola vorrebbero andare alle elezioni subito, Casini chiede da mesi un governo di larghe intese, il Pd invece vorrebbe ma non può. Le elezioni anticipate subito, con questa legge elettorale, sarebbero appunto il modo di trasformare la farsa in catastrofe. Un voto in autunno, inedito per la storia repubblica, avrebbe un solo vincitore, Berlusconi, e un perdente altrettanto sicuro. Non i dirigenti dell'opposizione, che seguiterebbero a campare benissimo, magari felici di uno o due punti percentuali guadagnati. Ma il Paese, consegnato con le mani legate all'attacco feroce della speculazione internazionale, col rischio di finire stavolta davvero come la Grecia. D'altra parte, senza l'appoggio della Lega, è impraticabile oggi la strada di un nuovo ribaltone. Una maggioranza da Di Pietro a Fini, passando per il Pd e Casini, sarebbe debole politicamente e numericamente, destinate a breve e grama vita. E allora?

L'unica strada logica è che l'opposizione, tutta l'opposizione, mettendo da parte gli interessi di bottega, si unisca per garantire una maggioranza con un programma limitato a pochi punti, in modo da evitare nell'immediato il pericolo di bancarotta e preparare la strada a elezioni regolari. O quasi regolari, visto che il controllo delle televisioni rimarrebbe comunque in gran parte in mano a uno dei contendenti.
Per far questo il primo passo è approvare con la nuova maggioranza una legge elettorale decente, al posto dell'attuale "porcata". Le ipotesi sono molte e tutte migliori dell'attuale. Si tratta di restituire agli elettori la possibilità di scegliersi i candidati, com'è ovvio. Ma soprattutto si tratta di scegliere se l'Italia è matura per un bipolarismo autentico o se è meglio tornare al proporzionale. Entrambe  ne sono migliori del ridicolo e ora fallimentare tentativo d'imitazione del bipolarismo che ha dominato la presunta seconda repubblica. Quello che abbiamo avuto in Italia dal '94 a oggi non è bipolarismo. è un referendum periodico su un leader, uno scontro fra berlusconiani e anti berlusconiani. Del bipolarismo come lo conoscono le democrazie occidentali mancano le fondamenta. Per esempio il riconoscersi da parte di entrambi gli schieramenti nei valori costituzionali, in regole condivise. Per esempio la serena autonomia dei poteri di controllo, dall'informazione alla magistratura, che da noi sono o asserviti o minacciati. Un falso bipolarismo come il nostro non poteva che produrre ondate di trasformismo, centinaia di cambi di casacca impensabili nelle altre democrazie occidentali. Non c'è stata una legislatura conclusa dalla stessa maggioranza indicata al principio dagli elettori. Come avrebbe potuto, del resto?

L'unico valore che ha legato finora il centrodestra è l'obbedienza a Berlusconi. Chiunque si allontani dal dogma dell'obbedienza al leader viene per questo espulso dal cerchio magico e diffamato come un criminale. È successo a turno a tutti i principali alleati, nessuno escluso: da Bossi a Follini, da Casini a Fini. Ma se Casini o Fini domani mattina tornassero a inchinarsi, sarebbero riabilitati con tutti gli onori. Vogliamo chiamarla democrazia? Sull'altro fronte le maggioranze hanno retto soltanto sulla base dell'emergenza anti berlusconiana. Non appena questo collante veniva meno in un singolo partito, per ideologia o per convenienza, crollava l'intero castello.

Questa versione miserabile e peronista del bipolarismo è ora al capolinea, come testimoniano le crisi parallele dei due soggetti che lo incarnavano, il Pdl e il Pd. Se si vuole evitare che il collasso di un sistema politico sbagliato coincida con il collasso del Paese, bisogna muoversi ora e subito. Costruire un campo politico che, nella migliore delle ipotesi, ponga le basi per un futuro davvero bipolare e occidentale della politica italiana. Oppure scegliere di tornare al passato, alla prima repubblica che tanto non è mai finita, a non voler essere ipocriti. Magari con il buon senso di imporre un serio sbarramento per scongiurare l'avvento di altri nani e ballerine sulla scena. Il cast è già completo.

(06 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/06/news/maltese-6101201/?ref=HREA-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #46 inserito:: Settembre 05, 2010, 10:12:49 pm »

L'ANALISI

Dal dietrofront al mercato dei seggi

di CURZIO MALTESE


DAL video messaggio di Berlusconi ai suoi venditori o promotori arrivano una notizia buona e una cattiva, ma entrambe grottesche. La buona novella è che il premier ha deciso di rinunciare alla legge sul processo breve. La cattiva è che ha deciso di inaugurare un altro fronte in difesa del porcellum elettorale, a lui gradito proprio per questo.

Gli consente, per esempio, di promettere un seggio sicuro ai traditori di Fini, al di là della volontà degli elettori. Un elogio della porcata. Cominciamo dalla buona notizia. Dopo tre mesi sprecati a far barricate in Parlamento, in piena crisi economica, il premier si arrende e annuncia il ritiro del «processo breve». Una «norma giusta e anzi assolutamente doverosa» ha spiegato «che però la sinistra e i suoi giornali hanno fatto diventare uno scandalo». Com'è noto, il principio di non contraddizione è sospeso nel suo caso da molti anni. La verità è che la legge non sarebbe mai passata.

Grazie non tanto alla timida sinistra e a (pochissimi) giornali, ma alla rivolta morale di larghissima parte dell'opinione pubblica. Una rivolta che ha avuto come riferimento non un partito o uno schieramento, ma la Costituzione stessa e il suo custode, il presidente della Repubblica. È la seconda volta, in pochi mesi, che Berlusconi deve accantonare un progetto eversivo per la spontanea ribellione dell'opinione pubblica. Era già accaduto con la legge sulle intercettazioni.

Ogni volta i berluscones hanno ripetuto come un mantra «non ci faremo condizionare o spaventare dalle piazze». Pare invece che siano le sole in grado di condizionarli spaventarli, assai più della incerta opposizione parlamentare. Naturalmente è presto per cantare vittoria. Berlusconi tornerà alla carica con altri lodi, altre leggi ad personam, altri trucchi scaturiti dal cilindro dell'avvocato Ghedini. Ma almeno è scongiurato il rischio di danneggiare decine di migliaia di cittadini per fornire il salvacondotto a uno. Nella guerra fra guardie e ladri i secondi in Italia sono già abbastanza avvantaggiati, anche senza altri regali e condoni.

L'altra notizia, messaggio, pizzino o come si vuole chiamarlo, è indirizzato dal Cavaliere ai possibili finiani di ritorno o riporto. Se insomma torneranno dal padrone, magari con un bastoncino fra i denti, Berlusconi assicura loro un posto garantito nelle liste elettorali. Questo in virtù della legge elettorale, che Berlusconi stesso, due minuti dopo dipinge come un capolavoro di democrazia. Di fronte a uscite come queste si capisce la crisi della satira in Italia. È comunque un merito, da parte del presidente del consiglio, aver illustrato con chiarezza agli italiani perché la legge elettorale va cambiata subito.

Non solo è una legge fallimentare, che ha prodotto finora una legislatura durata appena venti mesi, un'altra già da rottamare e probabilmente, in caso di voto anticipato, ne sfornerebbe una terza destinata a durare pochi mesi. Non solo perché, come ha scritto Giovanni Sartori sul Corriere, con il 30 per cento dei voti un polo potrebbe comunque ottenere la maggioranza assoluta. Ma infine perché consegna nelle mani di quattro o cinque leader di partito il potere di nominare centinaia di parlamentari, trasformando i rappresentanti del popolo in servi agli ordini di un capo.

(05 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/05/news/mercato_seggi-maltese-6769516/?ref=HREA-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #47 inserito:: Settembre 16, 2010, 10:16:43 am »

IL COMMENTO

I guardiani del talk show

di CURZIO MALTESE

L'Ufficio Facce, geniale metafora di Beppe Viola ed Enzo Jannacci, dopo quarant'anni diventa realtà in Rai. Nel nuovo codice per i talk show firmato da Mauro Masi, quello del "nemmeno in Zimbabwe", è contemplato anche il controllo della direzione generale sulle espressioni del pubblico in studio.

Una smorfia, un mezzo sorriso di troppo e, oplà, la trasmissione viene chiusa per sempre. Figurarsi con gli applausi o i fischi. L'atteggiamento corretto del pubblico, secondo il codice "da Masi", sarebbe l'imitazione delle sagome di cartone già usate dalla Triestina calcio per colmare i vuoti in tribuna. Muti, sordi, immobili.
Con l'avvento di Annozero, in programma da giovedì prossimo, era scontato che Masi battesse un colpo. Meno scontato era che il direttore generale lo battesse sulla propria testa. Il presunto regolamento sottoposto all'approvazione del cda Rai è più sciocco che vergognoso. In pratica, è la sfrontata e quasi puerile ricerca di un pretesto qualsiasi per chiudere i talk show, quello di Santoro anzitutto, nell'anno del probabile voto anticipato.

Siamo molto oltre lo Zimbabwe, vicino al Minculpop fascista. Nel regolamento redatto in stretto burocratese, sono previste anche altre "correzioni" alla fortunata formula dei talk show, in particolare di Annozero. Per esempio, il solito tentativo di affiancare un opinionista di destra a Marco Travaglio, che nello schema sarebbe troppo di sinistra, probabilmente a sua insaputa. L'ipotesi è agonisticamente
divertente. In fondo non sarebbe male vedere Travaglio, ormai bravissimo in tv, distruggere ogni giovedì sera il Sallusti di turno. Ma soprattutto è interessante il principio. Perché, se si tratta di garantire "in ogni caso il pluralismo nell'informazione Rai", allora si apre subito un altro fronte. A chi tocca il ruolo di controbattere agli editoriali bulgari di Augusto Minzolini?

Come si vede, la mossa del direttore generale telecomandato da Arcore, è tanto arrogante quanto dilettantesca. La pretesa di stabilire un controllo di vertice sull'autonomia delle testate giornalistiche Rai da parte del direttore generale è infondata ai limiti della bizzarria. Sarebbe come se l'amministratore delegato di un gruppo editoriale si arrogasse il diritto di decidere i titoli in prima pagina. Se pure il cda Rai, in una crisi di autostima, decidesse di approvare il codice Masi, non se ne farebbe comunque nulla. I conduttori, Floris e Santoro in testa, potrebbero rifiutarsi di applicarlo, leggi alla mano. Da subito i comitati di redazione delle testate Rai, quasi all'unanimità, hanno bollato le norme come "scelte estemporanee e senza progetto, che avranno effetti devastanti sulla qualità dell'offerta Rai".

Quella di Berlusconi, di cui Masi è soltanto una protesi, è la mossa disperata di un potere alle corde. Un potere ormai in declino nella società e dunque arroccato nella trincea di partenza, nel bunker televisivo. Spiace soltanto che a fare le spese di questa strategia del bunker sia la principale azienda culturale italiana. La Rai sarà l'ultima vittima del berlusconismo. Non si rendono conto, i dirigenti di viale Mazzini, che appena si aprono nuovi spazi d'informazione il popolo del telecomando scappa sul satellite, da Mentana, ovunque si respiri aria di libertà. E invece di contrastare questa fuga, si adoperano per rendere l'immagine della tv di Stato ancora più bolsa, angusta e servile. Se i consiglieri d'amministrazione Rai avessero un minimo di dignità professionale, piuttosto che discutere il codice Masi dovrebbero avere il coraggio di mettere all'ordine del giorno la richiesta di dimissioni di un direttore generale che sta avviando l'azienda di viale Mazzini verso il fallimento. O il patrono della Rai ha da essere sempre don Abbondio?

(16 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/16/news/guardiani_talk_show-7123019/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #48 inserito:: Ottobre 19, 2010, 06:42:19 pm »

IL COMMENTO

di CURZIO MALTESE

UNA premessa. In molte aziende italiane, anche piccole, è ormai una prassi, mutuata dagli americani, quella di sottoporre il personale da assumere a test attitudinali e d'intelligenza.

E ora passiamo alla prima azienda culturale italiana, la Rai, e al suo direttore generale, Mauro Masi.

Dopo aver provato senza successo la chiusura di Annozero, con il maldestro alibi di una sanzione a Michele Santoro, e dopo gli sfortunati tentativi di non far andare in onda Report di domenica scorsa, l'intraprendente massimo dirigente di viale Mazzini è stato colto da un'altra idea geniale: fermare il programma di Fabio Fazio e Roberto Saviano. Con un altro dei suoi astutissimi e infallibili artifici, il blocco dei contratti degli ospiti. A cominciare dal primo, un nome di scarso richiamo, Roberto Benigni. Pensate l'acutezza dell'uomo. Non potendo cancellare dal palinsesto un programma che si presenta come l'evento dell'anno e un formidabile affare pubblicitario per l'azienda, in tempi di vacche magrissime, il direttore generale agisce indirettamente, boicottando i compensi agli ospiti, giudicati incongrui. Si tratta infatti di un pugno di premi Nobel o alle brutte premi Oscar, più qualche rockettaro come Bono, i quali pretendono di essere pagati come e addirittura più di veline, tronisti, ospiti della casa del Grande Fratello o artisti del circo di Lele Mora. Con questo movente di forte impronta etica, ipotizza il Masi, nessuno sospetterà che lui invece voglia semplicemente censurare i contenuti del programma di Fazio e Saviano. Che vertono su temi quali la mafia, la camorra, la 'ndrangheta, la corruzione, le speculazioni sui terremoti, l'evasione fiscale. Tutti argomenti, al solo nominarli, grondanti un implicito e odioso antiberlusconismo. Purtroppo, caro direttore generale, non sarà facile sviare i sospetti. La gente, si sa, è maliziosa.

Esaurita la riserva di indignazione, si seguono gli esperimenti di censura di Mauro Masi con sincera curiosità. Ce la farà stavolta il nostro di viale Mazzini ad adempiere agli ordini dei suoi superiori? Masi si muove infatti su una linea sottile e sospesa nel vuoto. Dietro lo spinge il padrone, che vorrebbe cancellare i programmi con uno schiocco delle dita, come avrà visto fare dai governi modello dei paesi a lui più cari, dalla Bielorussia alla Libia ad Antigua (lo Zimbabwe ha smentito). Davanti il povero Masi deve affrontare alcuni impacci, dalla Costituzione ai regolamenti interni Rai, dal codice civile alla Corte dei Conti. L'ultima, per esempio, un giorno potrebbe interessarsi dell'operato e della responsabilità personale di un dirigente di un'azienda pubblica la cui mission, come si dice fra manager, sembra essere la guerra agli unici programmi Rai di qualità e di altissima resa economica.

Come un povero Mephisto, il direttore generale finora, cercando di ottenere il male, ha comunque operato per il bene. Nel senso che oltre a non chiudere un bel nulla ha garantito alle trasmissioni messe all'indice un formidabile lancio. Il caso più recente e meritevole ha riguardato la puntata di Report con il servizio sulla villa da Scarface di Berlusconi ad Antigua. Senza l'affannosa richiesta di non mandare in onda nulla, partita dalla corte di Berlusconi, cinque milioni e mezzo d'italiani non avrebbero mai seguito un magnifico programma di autentico giornalismo. Un'oasi di serietà nella melma di dossier confezionati ad arte che si tenta di far passare per informazione. Dopo mesi e mesi trascorsi a discutere di pettegolezzi mai provati sulla casetta di 55 metri quadri a Montecarlo venduta (forse) sottocosto da Fini al cognato (sempre forse), ecco un bel villone da almeno venti milioni comprato sicuramente dal presidente del Consiglio, sicuramente attraverso società off shore, in un paradiso fiscale e con i fondi depositati in una banca svizzera indagata per riciclaggio. Pochi minuti di libero giornalismo sulle reti di Stato sono bastati per riportare l'Italia fra le nazioni normali.

Certo, un paese normale non lo siamo. Il sogno è durato lo spazio di una serata televisiva. Sappiamo tutti che Berlusconi non sarà mai costretto a spiegare in Parlamento o su Internet lo scandalo di Antigua. Così come sappiamo che tutti i telegiornali e i giornali che hanno chiesto per tre mesi a Gianfranco Fini di chiarire il piccolo affare di Montecarlo, nel nome della trasparenza delle istituzioni, non avranno mai il coraggio di rivolgere la stessa richiesta al premier, per una vicenda cento volte più grave. Secondo la natura ipocrita del doppiopesismo, gli scandali di Berlusconi non sono scandali, da chiarire nel merito, ma complotti della Spectre.

Ma forse non siamo (ancora) un paese come la Bielorussia o la Libia. Le censure di Masi-Berlusconi naufragano nel ridicolo e il programma di Saviano, piaccia o no, andrà in onda lo stesso. Poi magari ci penserà il solerte Bruno Vespa a metterlo sotto processo, come ha fatto ieri sera con Annozero, in una grottesca trasmissione alla presenza di Masi e, questa sì, senza contraddittorio. "Fuori luogo", secondo lo stesso presidente Rai, Garimberti. Un po' anche fuori di testa.
 

(19 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/10/19/news/la_voce_del_padrone-8208412/?ref=HREC1-2
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #49 inserito:: Novembre 15, 2010, 10:06:04 am »


L'ANALISI

L'occasione della sinistra

di CURZIO MALTESE

Le decine di migliaia di votanti che hanno sfidato una giornata d'inferno per scegliere lo sfidante di Letizia Moratti, sono una delle poche buone notizie della vita pubblica in questi mesi. E questo anche se erano di meno rispetto alle primarie precedenti. Sono una buona notizia perché segnalano che la politica non è soltanto trame di palazzo, guerre televisive, macchine del fango e altre porcherie, ma soprattutto libertà e partecipazione, come cantava un grande milanese onorario, Giorgio Gaber. Ma poi perché la partita milanese, da qui alle comunali, è destinata a riscrivere i destini nazionali.
 
Come sempre, viene da dire. Tanto per cominciare, le primarie milanesi sono la prova generale delle primarie nazionali del centrosinistra. Quasi uno scontro per procura fra Bersani e Vendola, che infatti si sono spesi anima e corpo nel sostengo ai rispettivi candidati, Stefano Boeri e Giuliano Pisapia. Vendola è addirittura piombato a Milano alla vigilia del voto per il comizio finale di Pisapia, con mossa tanto teatrale quanto efficace. In una battaglia all'ultimo voto, ha vinto Pisapia.
Ma il Pd non dovrebbe pentirsi di queste primarie, semmai riflettere. A Milano, come in Puglia e a Firenze, le candidature del Pd pagano l'ambiguità delle scelte o delle non scelte, la distanza crescente dei gruppi dirigenti dagli umori dell'elettorato. A parte queste diatribe interne al centrosinistra, le primarie di ieri hanno avuto un sicuro effetto positivo: la prova di vitalità della sinistra milanese che deve uscire dall'angolo e risorgere.

La sinistra si era ritirata da Milano, ovvero dalla trincea più moderna del Paese, negli anni Ottanta, ed è stato un modo rapido per uscire dalla storia italiana. Queste primarie, belle, nervose e vivaci, con candidati di qualità presi dal mondo delle professioni, l'avvocato Giuliano Pisapia, l'architetto Stefano Boeri, il costituzionalista Valerio Onida e il fisico Michele Sacerdoti, hanno restituito al centrosinistra milanese dignità, smalto e appeal persi nel tempo e fra mille errori.

Il candidato espresso dal voto di oggi potrebbe avere per la prima volta da molto tempo una possibilità concreta di battere la destra.
Lo testimoniano anche il nervosismo del sindaco Moratti, le divisioni interne fra Lega e Pdl, la tentazione del terzo polo di candidare l'ex sindaco Albertini. Da feudo del centrodestra, Milano può così tornare ad essere un laboratorio centrale della vita politica italiana.
Un laboratorio che potrebbe decretare fra quattro mesi la fine del berlusconismo, così come ne aveva salutato la nascita. Attraverso il libero voto e non per un'alchimia di palazzo. Da oggi si torna a Milano per capire dove andrà il Paese, com'è stato in tutte le svolte decisive della storia repubblicana, dalla Liberazione al primo centrosinistra, da Tangentopoli all'invasione leghista e alla nascita della seconda repubblica. Era questa la speranza di una Milano democratica che per tanti anni ha assistito allo scempio di cattive amministrazioni populiste e reazionarie senza perdere mai la voglia di combattere. Era la speranza di gente come Riccardo Sarfatti, la personalità che forse si è più spesa per arrivare alle primarie milanesi ed è morto due mesi fa in un incidente stradale, senza poter vedere il risultato dei propri sforzi.

Un grande milanese, Sarfatti, una bella persona.

(15 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/15/news/maltese_milano-9119476/?ref=HRER1-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #50 inserito:: Novembre 17, 2010, 09:06:08 am »

LA POLEMICA

Via dal teatrino della televisione

di CURZIO MALTESE


"Vieni via con me" era la più bella canzone italiana ed è ora il titolo di una trasmissione piena di difetti, come ha notato la critica laureata. Ma chi se ne frega. È un evento storico, segnala la morte del berlusconismo televisivo.
Il prodromo, l'archetipo, l'ideologia, il fondamento degli ultimi vent'anni di politica. Un programma che batte il Grande Fratello non soltanto con uno strepitoso Benigni, che sarebbe comprensibile, ma con don Gallo e le storie dei rom o della 'ndrangheta dell'hinterland milanese, non è un fenomeno di costume, ma la spia di una svolta della società italiana.

Il teatrino della televisione è l'antefatto del teatrino della politica, bersaglio preferito di Berlusconi. Nel bene o nel male, nel teatrino della politica stanno accadendo cose importanti e nuove, come la crisi finale del berlusconismo. Nel teatrino televisivo è invece tutto immobile da vent'anni, almeno all'apparenza. Il berlusconismo impera, dal Tg1 ai quiz, all'ultimo programma per casalinghe del mattino o del pomeriggio. Tutti i talk show, anche quelli alternativi e "contro", sono monopolizzati da una compagnia di giro formata al massimo da venti persone che campano negli studi congiunti Rai-Mediaset e trasmigrano da un canale all'altro, da Vespa a Santoro a Ballarò, formando un'unica marmellata. Dal punto di vista stilistico, non dei contenuti per carità, questo rende Annozero altrettanto bolsa di Porta a Porta. L'operaio in sciopero, la cittadinanza in rivolta, il disoccupato napoletano sono soltanto la scenografia esterna, le comparse di contorno dell'interminabile, incomprensibile e in definitivo inutile pollaio da studio.

Il primo merito di "Vieni via con me" è di rompere questa rappresentazione. Non c'è teatrino. Si possono vedere e ascoltare davvero personaggi e temi espulsi da anni dalla televisione. Ligabue e i rom, Benigni e la laicità dello Stato, don Gallo e la prostituzione da strada, Paolo Rossi e l'immigrazione. Non a caso, i meno efficaci l'altra sera erano i temutissimi Fini e Bersani. La solita guerra censoria del berlusconismo è stavolta particolarmente grottesca e inefficace perché è chiaro a tutti, anche agli elettori del centrodestra, che "Vieni via con me" a differenza di altri programmi "proibiti" non conduce battaglie politiche, ma sociali. Ed è un'altra ragione per cui rappresenta un'oasi dal teatrino politico-televisivo.

Non saprei neppure dire se è televisione nuova o vecchissima, post berlusconiana o magari pre berlusconiana, con sapori di Rai d'una volta, Barbato e Biagi, TvSette e "Non è mai troppo tardi". È piena di difetti, si diceva. Lenta, a tratti pedante, ossessionata dagli elenchi, politicamente troppo corretta. Roberto Saviano spiega la 'ndrangheta in Lombardia come il maestro Manzi spiegava la grammatica, in maniera quasi ingenua, che può far ridere i giornalisti che si occupano di questi argomenti da decenni. Ma siccome Saviano porta queste conoscenze da specialisti a nove milioni d'italiani, come con Gomorra a decine di milioni di lettori, siamo noi a far ridere. L'unica cosa che si può fare con Saviano è di ringraziarlo, volergli bene e proteggerlo con la popolarità dalla ferocia dei suoi nemici. Quelli con i kalashnikov e gli altri in doppiopetto.

Roberto Maroni è un buon ministro degli interni, seriamente impegnato nella lotta alle mafie. Ma quando per amore di bandiera nega il dato storico dello sviluppo della 'ndrangheta anche nella Lombardia leghista e rifiuta anche soltanto di discuterne, non diciamo d'indagare, si comporta da politicante da quattro soldi.
Il successo di "Vieni via con me" va comunque oltre queste polemiche e i tentativi di censura. È l'epifania di un cambiamento negli umori del Paese. Con una tv di servizio pubblico da anni Settanta, il programma d'arte varia di Fazio e Saviano ha intercettato paradossalmente un bisogno di nuovi codici e linguaggi; ha ricondotto alla platea Rai un pubblico giovane e colto che da tempo aveva abbandonato disgustato le reti pubbliche per fuggire ovunque, da Mentana a Sky. È stata una piccola, imprevedibile rivoluzione televisiva. Dopo tanti anni, certo. Ma non è mai troppo tardi.

(17 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/17/news/maltese_saviano-9190847/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #51 inserito:: Novembre 29, 2010, 11:59:14 am »

IL CASO

Fazio: "Italiani vogliono nuova tv, la Rai no"

Oggi l'ultimo atto di "Vieni via con me"

di CURZIO MALTESE

 
L'ELENCO. Dieci milioni di spettatori, oltre il trenta per cento di share, cifre superiori al Grande Fratello per un programma fieramente antitelevisivo. I politici usati dalla tv e non viceversa. Un fronte di critiche trasversali, da Grillo a Libero, e un altrettanto trasversale successo di pubblico. La signora Welby che fa più ascolti del festival di Sanremo, gli sfollati dai campi rom più dell'Isola dei Famosi. Nel nome della più bella canzone di Paolo Conte si è compiuta una rivoluzione nel costume televisivo.

Fabio Fazio, allora un'altra tv è possibile e quindi un'altra Italia?
"Con la volontà rispondo sì, con la ragione no. Diciamo che un'altra tv è desiderata da milioni d'italiani. Ma la reazione dell'establishment politico-televisivo è stata tale da farmi pensare che sia troppo presto. La Rai non sopporta che la tv pubblica diventi strumento di un vero dibattito sociale, culturale. L'hanno permesso perché non se n'erano accorti, non se l'aspettavano. E nemmeno noi. Ma la prossima volta sarà impossibile".

Karl Kraus diceva: la satira che il potere riesce a capire, viene giustamente censurata. Vale anche per "Vieni via con me". Al principio erano soltanto preoccupati che parlaste di Berlusconi, e invece...
"Non l'abbiamo quasi mai nominato, tolta la prima puntata. Siamo il primo programma già nel dopo Berlusconi".

Nonostante questo, vi sono saltati addosso tutti. Perché?
"Abbiamo fatto una tv riformista e non c'è cosa che spaventi più del riformismo. La rissa a somma zero di altri talk show in fondo è del tutto innocua".

Era un programma non ideologico, Saviano e lei non lo siete, gli ospiti hanno raccontato storie. La signora Welby e il signor Englaro hanno raccontato tragedie di famiglia. Come si spiega che il cda Rai abbia chiesto di far replicare a un'esperienza di vita con un comizio ideologico di un movimento integralista cattolico?
"Accettare quella replica dei Pro Vita avrebbe significato ammettere che Mina Welby e Beppe Englaro avevano parlato in favore della morte. Non esiste direttiva Rai che possa impormi un'assurdità del genere".

Più che un programma, siete stati il fenomeno sociale di queste settimane, insieme alla lotta universitaria. Anche la vostra era una specie di "occupazione"?
"Il parallelo mi piace e mi è piaciuto che gli studenti abbiano adottato nelle lotte lo strumento dell'elenco. Sono segnali che sta accadendo qualcosa di profondo nella società italiana, che parte dai due luoghi principali di formazione dell'opinione pubblica, la scuola e la televisione. E riguarda i valori, l'identità".

Se dovesse citare due valori di questo cambiamento?
"Legalità e laicità. Sono le basi di partenza di ogni patto civile, i materiali con i quali si costruisce una comunità. In questi anni sono stati attaccati e derisi, hanno trasformato l'uno in giustizialismo e l'altro in laicismo. Eppure nell'opinione pubblica sono valori più importanti di quanto si pensi. Saviano è amato perché incarna il bisogno di legalità di un pezzo di Paese disgustato dalla corruzione, dal malaffare, dalla rassegnazione a convivere con le mafie".

Come si spiega che decine d'inchieste sulla 'ndrangheta al Nord non siano riuscite a smuovere un decimo di un racconto di Roberto Saviano?
"La narrazione è più libera dell'inchiesta. Roberto ha questo dono del divulgatore e poi è un trentenne, appartiene a un generazione non ideologica. Poi certo il programma ha avuto un effetto Sanremo. Dopo quegli ascolti, tutti dovevano intervenire. Ma se questo ha finalmente portato la discussione politica su temi concreti, come la 'ndrangheta in Lombardia, i diritti civili, l'integrazione degli immigrati, beh, vivaddio".

Avete intercettato il bisogno di una lingua diversa in tv. Niente talk show, niente conduttore domatore, tempi lenti, argomenti difficili. Chi si aspettava questo seguito?
"Siamo partiti per fare il 12 per cento. Il 15 sarebbe già stato un successo. È arrivato il 30. Perché non lo capisco neppure io. Dai dati ho capito soltanto che una grande fetta di pubblico è in realtà un non pubblico, gente che non accendeva mai il televisore. In termini politici abbiamo recuperato l'astensionismo di massa. Che evidentemente non era indifferenza, ma ribellione alla tv del pollaio, al finto dibattito dove uno dice una cosa, l'altro lo interrompe con il contrario e alla fine non s'è capito nulla, non è successo nulla. Con gli autori abbiamo pensato a una cerimonia. Una cosa certo poco televisiva, semmai teatrale. Fondata sul valore della parola nuda. Un format post o pre berlusconiano, và a sapere. L'unico precedente linguistico era Celentano, i suoi silenzi, la rottura del rito attraverso un altro rito".

Lei quando si è emozionato di più?
"Quando Gemmi Sufali ha letto le ragioni per cui le piace essere italiana. Era una delle bambine sbarcate a Bari dall'Albania con la nave Vlora nel '91. Vent'anni dopo quell'inferno c'è questa ragazza intelligente, carina, entusiasta di un Paese meraviglioso, il suo e nostro".

Elenco. Vuole ringraziare qualcuno?
"Roberto Saviano, gli autori, Benigni che ci ha permesso di rompere il ghiaccio alla grande. Il pubblico, naturalmente. Quelli che mi hanno insegnato il mestiere, da Guglielmi a Biagi a tanti altri".

Vuole ringraziare anche qualcuno che non dovrebbe?
"Ma certo. Il dottor Masi, che ha commentato: gli ascolti non sono tutto. L'editore che di sicuro da domani mi chiederà di mettere a frutto il successo per nuovi programmi. Buona, vero?".

Avete fatto saltare il banco, e ora? Che cosa farà dopo un'avventura come questa?
"Una lunga vacanza. Un viaggio. No, un programma comico". 

(29 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/29/news/fazio_italiani_vogliono_nuova_tv_la_rai_no_oggi_l_ultimo_atto_di_vieni_via_con_me-9629281/?ref=HRER2-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #52 inserito:: Novembre 30, 2010, 05:34:36 pm »

IL RITRATTO

Il Balzac del cinema

di CURZIO MALTESE


"Se dovessi essere costretto a una vita che non è vita, la farei finita anch'io". Mario Monicelli me lo disse anni fa, a casa sua nel rione Monti. Erano i giorni del caso Welby. Sembrava più una presa di posizione intellettuale di un grande laico che non una confessione personale. A novant'anni era ancora bellissimo, elegante, ironico, sempre dentro qualche battaglia. L'altro giorno era ancora in piazza a protestare contro i tagli alla cultura. Questa notte ha deciso lui dove mettere la parola fine. Con Monicelli se ne va un genio e un maestro del cinema, anche se entrambe le definizioni l'avrebbero fatto sorridere.

"Appartengo ancora a una generazione dove si diventava registi di cinema soltanto perché non si era capaci di scrivere un bel romanzo. Potendo scegliere, avrei continuato a cercare d'imitare Dostoevskji". Si è ucciso come il padre Tomaso, giornalista di gran talento. Da giornalista aveva cominciato anche Mino e diceva di non aver mai smesso. Sempre curioso, polemico, informatissimo, divoratore di notizie grandi e piccole.

Nessuno come Monicelli ha indagato tanto e descritto meglio gli italiani dal dopoguerra a oggi. E' stato il nostro Balzac, l'autore di una gigantesca commedia umana degli italiani, attraverso decine di film, spesso capolavori. Titoli e storie che conoscono tutti, entrati nel linguaggio comune per descrivere l'oroscopo dei caratteri nazionali. L'elenco mette i brividi, dagli inizi col Totò di "Guardie e Ladri" a "I soliti ignoti", da "La grande guerra" a "I Compagni", e poi "L'Armata Brancaleone", "Amici miei", "I nuovi mostri", "Il marchese del Grillo", "Speriamo che sia femmina". Senza contare i film definiti minori dalla critica, come "Risate di gioia" o "Romanzo popolare", che da soli valgono più di alcune decine di presunti capolavori da festival.

Monicelli ha inventato la commedia all'italiana nel '58 con "I soliti ignoti" e ne ha dichiarato la fine vent'anni dopo con "Il borghese piccolo piccolo". In mezzo ha fabbricata l'unica epica di cui disponiamo, tragicomica, amorale, ma grande. Da parte sua, era quanto di più lontano dai suoi personaggi si potesse immaginare. Anti retorico, moralista, sempre a schiena dritta, con un profondo credo nei suoi valori laici, socialisti, libertari, antropologicamente antifascista. E' paradossale che un anti italiano tanto fieramente minoritario abbia ottenuto un tale immenso successo. Frutto, secondo Monicelli, anche di un significativo fraintendimento. "Ho quasi sempre descritto personaggi mostruosi. All'estero si stupiscono che gli italiani li trovino tanto simpatici".

Non credeva nella religione. Diceva che gli sarebbe piaciuto credere negli dei greci perché erano tanti, cialtroni ma allegri, mentre "il dio della Bibbia è in assoluto uno dei personaggi più cupi della letteratura mondiale". Sul set dell'ultimo film, "Le rose del deserto", girato a novant'anni, in condizioni ambientali eroiche anche per un trentenne, confessò di non avere paura della morte, ma del giorno in cui avrebbe smesso di lavorare. Come sempre, era la verità.

(30 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/2010/11/30/news/balzac_cinema-9670361/?ref=HRER3-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #53 inserito:: Dicembre 02, 2010, 12:13:56 pm »

Addio a Mario Monicelli

De te fabula narratur.

Conversazione con Mario Monicelli di Curzio Maltese


Mezzo secolo di storia ‘italiota’ tra generosità collettiva e ‘soliti mostri’

L’Italia della ricostruzione e quella del boom, l’Italia dei perdenti e quella dei furbi, l’Italia solidale e quella che non si vergogna, l’Italia mostruosa, brancaleona, solita nota: un dialogo con il regista che ha scritto la storia della commedia all’italiana (e del cinema tout court).

Conversazione con Mario Monicelli di Curzio Maltese, da MicroMega 7/2006


Curzio Maltese: Girare un film a novant’anni [Le rose del deserto] è un’impresa eroica. Dev’esserci stata una spinta, un’urgenza nel recuperare un pezzo della nostra storia. Perché ti è venuta voglia di raccontare la guerra degli italiani in Libia del ’40-’43?
Mario Monicelli: Gli italiani andavano a piedi, non avevano carri armati, non avevano cibo, non avevano niente. Si dibattevano in mezzo alla sabbia e alle dune. Correvano avanti e indietro. La guerra era un continuo correre disperatamente in mezzo alla sabbia del deserto, come quei poveracci che stavano in Russia e che, anche loro, correvano avanti e indietro in mezzo alle paludi. Questa era la guerra per gli italiani. Io poi la guerra l’ho fatta e so com’erano le cose. Sono stato mobilitato nel ’40. Avevo 24 anni. Mi hanno mandato in Albania. La situazione era esattamente come quella del 1915-’18. Benché quella fosse una guerra di posizione in trincea, comunque stavi sempre nel freddo, nel caldo, non vestito, non armato, affamato. Eravamo senza una guida, in balia di rapporti politici trasversali, di sopraffazioni e conflitti fra i vari generali e i vari politici. La vita di ciascuno di noi era in mano a questi personaggi.
Maltese: È la tragedia finale del regime, prima del grande risveglio del dopoguerra, nel quale il cinema ha un ruolo centrale, unico. Voi protagonisti ne eravate consapevoli?
Monicelli: Per nulla. È tutto sorprendente. L’Italia che aveva perso la guerra malamente è diventata all’improvviso la nazione principe del cinema, grazie al neorealismo che ha rovesciato la struttura e il linguaggio del cinema. Negli anni Trenta non si immaginava che il cinema fosse importante. Per fortuna, erano importanti la letteratura, la musica, la pittura. Il cinema era considerato un fenomeno popolare da baraccone. Ma nel dopoguerra, improvvisamente, il cinema fu considerato quasi come fosse l’unica fonte della cultura. Oggi tutti i ragazzi vogliono occuparsi solo di cinema. Credono di potersi divertire dedicandosi ad un’attività che non richiede molto studio e fatica. Ormai la cultura è identificata con il cinema. E questo è vergognoso.
Maltese: Una volta hai detto che il cinema lo facevano quelli che non riuscivano a diventare romanzieri...
Monicelli: Perché io volevo essere un romanziere. Mi piaceva Flaubert, avrei voluto srivere come Dostoevskij. Mi sono accorto però abbastanza rapidamente – perché non sono del tutto stupido – che era meglio abbandonare questa ambizione. E ho ripiegato sul cinema, che comunque mi piaceva. Mi interessava entrare nel mondo che vedevo da ragazzino. Sono del ’15, e perciò vedevo il cinema muto, sono stato educato con quel cinema lì.
Maltese: Anche Fellini, quando gli chiedevano dei film che l’avevano più influenzato, citava Maciste. Nei fatti però il cinema diventa l’arte dominante e l’Italia gioca una parte straordinaria. A mettere in fila i titoli del cinema italiano dal ’46 alla fine degli anni Sessanta c’è da perdere la testa. Ogni anno una raffica di capolavori. Ci sono stati film, e tra questi i tuoi, che hanno addirittura inventato dei generi che prima non esistevano, e che poi sono stati copiati in tutto il mondo. Da I soliti ignoti all’Armata Brancaleone, chi aveva mai pensato di costruire un film su una banda di disgraziati in cerca di fortuna? Il road movie passa per un genere americano ma nasce da Il sorpasso di Dino Risi. I vitelloni di Fellini viene rifatto ogni dieci anni in Italia, da Moretti a Muccino, e non solo da noi. La dolce vita inaugura un genere di film senza plot, apre la strada a tutti gli Altman che verranno dopo. Come si spiega questa stagione di creatività e coraggio in un paese in genere tradizionalista, al traino di mode e culture straniere?
Monicelli: Tutto nasce dal neorealismo. È una rivoluzione culturale vera. Con il neorealismo l’Italia si è trasformata nel paese faro della cultura, una specie di terra promessa. Pensa a Rossellini che va negli Stati Uniti e ne ritorna portandosi via la loro stella, Ingrid Bergman. Noi che lavoravamo nel cinema eravamo esaltati dal successo che aveva l’Italia. Eravamo un gruppo di trenta o forse quaranta fra autori, sceneggiatori e qualche attore. L’importanza che si dava al nostro cinema ci stupiva, ma eravamo anche divertiti, lusingati e ben contenti di questo fatto.
Maltese: A parte il cinema, quello è stato un periodo straordinario anche nella pittura, nell’architettura, nel design. L’Italia si traforma da nazione museo, custode di bellezza antica, a fabbrica di bellezza contemporanea.
Monicelli: Quello è stato anche al di fuori dell’arte un periodo fecondo. Però è durato appena cinque o sei anni. Credo sia stato il momento più straordinario della nostra storia recente. E vorrei aggiungere che è anche stato il momento più onesto che abbia vissuto l’Italia. Tutti erano felici di dover ricostruire, e di dover lavorare per questo. Si viveva male o modestamente, ma prevaleva l’allegria e la volontà di fare. La gran parte degli italiani abitavano in due o tre in modeste camere ammobiliate, cercando di arrangiarsi. Ma c’era un sentire collettivo: l’Italia si stava ricostruendo. Poi, non so come, questo spirito si è perso. Forse si è perso con l’industrializzazione, con il boom, quando è cominciata la maledizione della Fiat. Quella di allora era un’Italia rurale, fatta per un 70 per cento di contadini e per un 25 per cento di muratori. L’emigrazione in Piemonte e in Lombardia è stata una grande iattura. Sono comparsi i cartelli con sopra scritto: «Vietato affittare ai cani e ai terroni». Insomma, da quei quattro o cinque anni meravigliosi è scaturita di nuovo un’Italia di perdenti.
Maltese: Sì, ma perdenti non poetici, cattivi, furbi. La tua equazione fra furbi e perdenti è illuminante. Negli anni del boom l’italiano è un eroe del fare, l’italiano furbo verrà inventato più tardi. Sono i truffatori di Il bidone di Fellini, il Gassman del Sorpasso che è un perdente mascherato da vincitore. Proprio nel Sorpasso si racconta la perdita dell’innocenza, la morte di Trintignant è la fine di una certa Italia onesta, perfino ingenua. Rimane soltanto il furbastro, che poi diventerà il protagonista di tutta la commedia all’italiana.
Monicelli: Da un certo punto in poi ha avuto inizio la corruzione, la prevaricazione. Si è cominciato a barare su tutto. Abbiamo visto anche recentemente che cosa è successo nel calcio. Si trattano da eroi dei bari. Per paradosso, ad esaltarli sono quegli stessi tifosi che rinunciavano al pacchetto di sigarette per andare alla partita o per giocare al Totocalcio, mentre i loro eroi si giocavano le partite alterandole. Il furbo italiano è contento di essere un truffatore e si vanta di esserlo. In qualche modo riesce ad essere anche una figura simpatica, come può però essere simpatico Sordi. Ma accade soltanto in Italia, attenzione. L’italiano di Sordi ha un fondo repellente. Fa ridere rappresentando un italiano repellente. Non a caso all’estero non riescono a capire come Sordi possa essere un attore a cui gli italiani danno tanta importanza. A loro non fa ridere. Fa orrore.
Maltese: Sordi si è rivelato fino in fondo in Un borghese piccolo piccolo, o anche in Il Marchese del Grillo, ovvero in personaggi orrendi, autentici mostri. Ma anche quello di Il vedovo, che dice al fattore: «Mi raccomando, fammeli lavorà ’sti bambini», come fa a essere simpatico?
Monicelli: Perché nel fondo l’italiano è un mostro. È un furbetto che può anche uccidere se qualcuno in un certo momento gli dà uno spintone.
Maltese: Dietro l’apparente bonarietà c’è la crudeltà. Vorrei tornare all’Italia onesta del dopoguerra, più felice e capace di progredire.
Monicelli: Quell’Italia era collaboratrice, solidale, sopravvissuta a una guerra persa, che era stata atroce e sbagliata. Gli italiani non sapevano in quale misura erano stati oppressi dal fascismo. Applaudivano se dovevano applaudire. Da quelle macerie è nata però la libertà, che gli italiani non conoscevano. La libertà all’inizio li ha resi euforici, li ha resi allegri e felici di essere vivi. Tutti eravamo contenti di appartenere alla gioventù che si era liberata dal fascismo e dalla guerra.
Maltese: Come hai vissuto il periodo delle inchieste di Tangentopoli? Te lo chiedo perché sei stato uno di quelli che avevano raccontato nei film la corruzione prima ancora che la rivelassero le inchieste dei giudici.
Monicelli: In molti abbiamo raccontato quell’Italia prima che emergesse dalle inchieste giudiziarie: l’ha raccontata Germi e l’hanno raccontata tanti altri. In quel periodo ero contentissimo. Del resto, ero e resto un fan del magistrato Borrelli. Anzi, vorrei che ce ne fossero cinquanta, di Borrelli. Speravo che Mani Pulite non finisse mai, che dilagasse e che alla fine si compisse veramente una pulizia spettacolare. E invece c’è stato quello che c’è stato.
Maltese: C’è un tratto che, secondo me, rivela una difficoltà del cinema italiano contemporaneo. Gli italiani furbi dei film di allora erano più brillanti degli italiani furbi di oggi, che sono molto banali. In questo scarto c’è il passaggio dalla commedia all’italiana ai Vanzina – con tutta la simpatia per i Vanzina. Immagino che tu legga le intercettazioni. Avrai visto che parlano tutti con la stessa lingua, che sembra la lingua di Boldi e di De Sica. Parlano tutti in modo volgarissimo, sia che si tratti del mancato re o di Ricucci. È il quadro di una piccola borghesia televisiva, piccola in senso culturale più che economico, totalmente omologata e quindi anche poco interessante da raccontare. Non è un caso che le nuove commedie italiane siano incomprensibili oltre confine.
Monicelli: Esibiscono una lingua volgare perché è il loro segno distintivo, che li rende tutti uguali e tutti colpevoli. È l’esibizione di un’appartenenza. Fa parte di quello stesso fondo morale che esibiva Craxi, quando diceva che rubavano tutti. Coinvolgere tutti è la cosa più bassa e più volgare, e anche più corrotta, che si dia.
Maltese: Una figura costante dei tuoi film è l’italiota. Ora, secondo me, Luciano Moggi è un italiota fantastico, una fotografia impeccabile di questo tipo umano. Poteva essere il personaggio di una tua sceneggiatura. Tutti sapevano, tra l’altro, che faceva quel mestiere non capendo granché di calcio.
Monicelli: Tutti erano d’accordo e speravano di entrare in quel pus, anche gli «eroi» di Berlino. Il problema è che questo pus esiste dappertutto. L’indignazione che abbiamo per il calcio, che in fondo è un settore poco importante, dovremmo averla nei riguardi di molte cose. Ti faccio un esempio personale. Io voto Rifondazione comunista. Ebbene, ti fanno credere che le cose si svolgono in una certa maniera; tu vai, segui, speri, e ti dici: va bene, aiutiamo, votiamo, applaudiamo, parliamo, sentiamo, testimoniamo. Ma poi Rifondazione comunista non rifonda un bel niente. Anche Rifondazione è un partito che vuole prevaricare sugli altri. Io però non faccio il politico; e forse per me è facile indignarsi.
Maltese: Sostanzialmente il mestiere del politico dovrebbe essere quello di migliorare la vita delle persone. Tra l’altro, è un potere euforizzante, perché può migliorare veramente la vita delle persone normali.
Monicelli: Che sono le persone oneste. E tuttavia bisogna stare attenti: anche queste stesse persone oneste sono potenzialmente corrotte. Basta che si presenti loro l’occasione di usare dei mezzi disonesti per migliorare la propria condizione, qualunque essa sia, dalla più miserabile alla più alta, e pochissimi si tireranno indietro. Questa è la verità. Io ho pietà di questi personaggi, mi fanno ridere. In I soliti ignoti, in Brancaleone trovi tutte storie nelle quali il miglioramento passa attraverso mezzi anomali. Brancaleone vuole addirittura conquistare un feudo! Ciò che accomuna tutti questi personaggi è che l’unica via che vedono è la prevaricazione, l’inganno, l’espediente.
Maltese: S’insiste molto oggi sulla retorica della patria. A me dà molto fastidio. Come dici mezza parola di critica, sei anti-italiano. Ma la categoria degli anti-italiani è una categoria meravigliosa: da Dante Alighieri in poi comprende tutti: Leopardi, Manzoni, d’Azeglio... La nostra grande letteratura fino a Flaiano e a Pasolini è costituita da anti-italiani. In realtà, l’anti-italiano dimostra un vero amore per il paese, un amore sofferto e critico. Ci sono degli anti-italiani nel cinema? Io non ne vedo.
Monicelli: I Visconti, i De Sica erano talmente vincenti nel mondo che potevano permettersi di essere contro in Italia, di non piegarsi. Nel cinema italiano c’è stato un momento felicissimo quando i vari Germi, Antonioni e non solo loro erano sulla cresta dell’onda. Questi autori potevano anche ergersi a difensori dell’onestà. La loro libertà era possibile però solo perché erano estremamente vincenti, avevano un loro seguito di pubblico. Se questa condizione manca, subito nasce la necessità di concertare.
Maltese: Mentre prima c’era un’egemonia culturale del Partito comunista sul cinema, che però, a ben vedere, era più un’egemonia dei cineasti sul Partito comunista, oggi la situazione è del tutto cambiata. Oggi il rapporto è da raccomandato a padrone, mentre allora il rapporto era di influenza. Mi viene in mente il tuo film I compagni. Quello è un film che rappresenta una sinistra italiana che in realtà non c’era più.
Monicelli: Io mi riferivo a Costa, a Treves, che non erano comunisti, ma socialisti. Io sono stato socialista, poi con Craxi, naturalmente, me ne sono andato. Ma alla fine dell’Ottocento l’Italia aveva dei socialisti seri, che erano espressione di un’Italia generosa. Sono loro che hanno introdotto gli scioperi. Questi socialisti erano spesso dei borghesi o anche dei piccolo-borghesi. Si sono sforzati di mettere insieme i proletari e i contadini, che allora erano degli sbandati, per far loro acquisire una coesione di gruppo, e renderli solidali tra loro. Volevano riscattare in qualche maniera la condizione in cui versavano, facendo loro capire che insieme avrebbero potuto ottenere dei risultati. Avevano le idee chiare e una morale solida: e se uno ha le idee chiare e una morale solida non può sbagliare.
Maltese: C’era allora la spinta a rendersi portatori dell’interesse di tutti e non solo del proprio esclusivo interesse. È il caso di uno spirito inedito per la storia politica italiana, che è per lo più dominata da un’attenzione al «particolare». La classe operaia aveva la generosità di pensare non solo alle proprie rivendicazioni, ma al miglioramento generale. Poi però la politica italiana è tornata a esprimere una rassegnazione al sistema generale. Rispetto al paradigma italiano, come collochi tu una figura come quella di Berlinguer?
Monicelli: Berlinguer era, per così dire, un folle: ha creduto che si potesse invitare gli italiani ad essere onesti, a risparmiare, a non volere troppo, a pagare le tasse. E meno male che è morto, sennò l’avrebbero ammazzato! I suoi militanti, i suoi compagni, dicevano che sbagliava tutto perché quelle cose, secondo loro, non si potevano dire agli italiani, per giunta proprio nel momento in cui il Partito comunista poteva vincere la battaglia elettorale contro la Democrazia cristiana. Berlinguer era un personaggio politico anomalo.
Maltese: Come spieghi il fatto che i tuoi film sono popolari?
Monicelli: Sono popolari, secondo me, perché raccontano la condizione umana dei perdenti. E l’Italia è fatta di perdenti. E allora, se uno racconta questi perdenti con un certo affetto, il risultato piace, diverte. Io poi cerco di far divertire. Nei miei film c’è sempre un gruppo di persone che cercano di migliorare la loro condizione: un gruppo di povera gente, siano essi contadini, proletari, donne o disperati dell’anno Mille. I miei personaggi vogliono migliorare la loro condizione cercando di sfondare una cassaforte o di conquistare un feudo o di lavorare un’ora di meno, come in I compagni. E in questo falliscono sistematicamente, perché sono inadeguati all’impresa. L’inadeguatezza diverte, però fa anche pena e induce alla pietà. La condizione umana degli italiani è solo quella di essere dei perdenti. Cercano di migliorare la loro condizione perché questa è, per la stragrande maggioranza, una condizione di povertà.
Maltese: Gli italiani hanno anche la capacità di dividersi sempre. C’è una battuta di Brancaleone che, secondo me, raccoglie tutta la storia italiana: «Andate pur’anco voi senza meta, ma da un’altra parte». Ecco: questa è la realtà dell’alleanza elettorale, dell’Ulivo e non di meno della destra: tutto è un andare senza meta, ma ciascuno da un’altra parte.
Monicelli: Ognuno si crea il suo feudo, il suo partito...
Maltese: I film italiani che hanno avuto più successo, che hanno vinto degli Oscar, parlano di italiani che in realtà non esistono più. Tornatore, Salvatores, Benigni, tutti rappresentano gli italiani del dopoguerra o di prima della guerra. Sembra che gli italiani contemporanei non siano interessanti.
Monicelli: Sarebbero anche interessanti, sono infatti degli italiani mostruosi. Il problema però è che se uno mette in scena Berlusconi, Bondi, Cicchitto, Adornato, Fini, arriva sempre in ritardo. Quando esce il film, la realtà ha superato la parodia. La realtà oggi supera la satira. L’indignazione che vuoi produrre non basta mai. Arranchiamo dietro i fatti. Una volta non era così, gli italiani erano più stabili. Oggi il cinema non riesce a star dietro alla cronaca.
Maltese: Però voi avete fatto una cronaca profonda. Io faccio il giornalista ma ho capito meglio la realtà andando a vedere un film che attraverso un’inchiesta. La commedia italiana ha raccontato la corruzione di Tangentopoli molto prima che il sistema fosse scoperchiato dai magistrati. Non dico che gli autori di cinema debbano fare i profeti, però l’intuizione di un artista è più profonda di quella di un giornalista. È un’intuizione che percepisce non solo che le cose accadono, ma anche dove vanno a finire.
Monicelli: E che cosa può accadere adesso di peggio di quello che è già accaduto? Non so veramente cosa possiamo immaginare io e i miei amici sceneggiatori. Tu che fai il giornalista, cosa puoi immaginare di peggio di quello che sta accadendo o che è accaduto fino a poco tempo fa, facendo finta che oggi non accada più?
Maltese: Che effetto ti ha fatto avere come presidente del Consiglio un personaggio dei tuoi film? Anche se forse un po’ iperbolico, Berlusconi, in fondo, è un personaggio di alcuni tuoi film.
Monicelli: Il cinema italiano ha sempre fatto delle metafore, anticipando forse delle cose, ma non ha mai rappresentato dei personaggi reali, pensando che fossero anche vedibili e divertenti. Da chi lo fai interpretare Berlusconi? Il cinema italiano non ha mai rappresentato le cose per cronaca, bensì per metafora: Sordi si vendeva un occhio per sopravvivere. Queste sono le mostruosità di questo paese.
Maltese: In realtà Sordi si vende l’occhio come Berlusconi fonda il partito. È una scelta disperata. Solo che più tardi è diventato possibile fondare un partito.
Monicelli: È la legge del mercato. La cosa più micidiale che esita.
Maltese: Che cosa è veramente cambiato nella vita e nella testa degli italiani? Alcune cose sono rimaste, altre si sono trasformate. Forse i rapporti con le donne sono cambiati rispetto a prima. Ma c’è una specie di antropologia eterna che tra l’altro riproduce una specie di fascismo permanente. E poi c’è qualcosa che invece si muove, che muta. In che cosa, secondo te, gli italiani sono profondamente diversi da quelli raccontati nella commedia all’italiana?
Monicelli: Credo che oggi manchi la pietà che c’era un tempo. Una volta, c’era pietà tra gli italiani, c’era solidarietà verso chi aveva bisogno. Lo si faceva senza spendersi troppo, intendiamoci, però c’era un momento di solidarietà. Comunque, la pietà era parte della nostra educazione. Adesso credo proprio che la pietà sia sparita. Sembra una stupidaggine, ma una volta le armi non si maneggiavano; chi maneggiava le armi era già considerato una persona poco raccomandabile. Adesso non è più così. Il fatto che uno maneggi delle armi va bene a tutti. Una volta uno che usciva dal carcere era effettivamente finito. Era meglio quando c’era il marchio…
Maltese: Perché?
Monicelli: Perché la comunità poteva difendersi. Il fatto che uno avesse meritato il carcere significava che non era una persona raccomandabile.
Maltese: Durante Tangentopoli i suicidi erano dovuti alla vergogna. Gli indagati di oggi – che sono indagati per fatti gravi, non inferiori a quelli – non pensano minimamente a vergognarsi. Come li beccano, anzi, cominciano a fare la morale al prossimo, diventano quasi dei guru. E i giornali, senza non dico la minima decenza ma almeno senso dell’ironia, titolano: «Previti all’attacco», «Moggi accusa il sistema», «Ricucci si ribella».
Monicelli: Chiamano i fotografi per farsi fotografare quando escono dal carcere.
Maltese: La vergogna è sparita e la rivendicazione del proprio crimine neanche stupisce, è la norma.
Monicelli: L’avere ottenuto un vantaggio imbrogliando qualcuno è un titolo di merito conclamato. La filosofia degli italiani ormai è questa.
Maltese: I registi italiani, anche quelli che hanno più talento degli altri, non hanno la stessa voglia di cercarsi un pubblico, di comunicare, che avevate voi. Al terzo film già citano se stessi. Hanno una loro nicchia di pubblico e continuano a rivolgersi solo a quella.
Monicelli: Un autore vuol essere visto, capito, letto o ascoltato. Noi della commedia all’italiana eravamo molto popolari subito nel dopoguerra, ma i critici ci trattavano come spazzatura. Spesso non ci recensivano nemmeno. Era sempre a causa del rigore di Alicata, del rigore del vecchio Partito comunista. Se uno affrontava un tema sociale, si dedicava a una cosa molto seria, impegnata. Non si pensava minimamente che si potesse far sorridere occupandosi di temi sociali, perché far sorridere era già inquinare tutto. Chi faceva dei film divertenti, era in partenza da escludere. Significava che non faceva cose serie. E infatti era così, non facevamo cose serie. Noi volevamo catturare il pubblico. Se questa era l’accusa, era un’accusa vera. Noi eravamo contenti quando avevamo catturato il pubblico.
Maltese: Nella cultura italiana la sottovalutazione del comico è una costante. Swift in Italia sarebbe stato immediatamente confinato ad autore minore. Sergio Saviane, che è stato un grandissimo giornalista, è già dimenticato, e comunque non veniva mai considerato un grande giornalista, perché aveva un talento satirico formidabile.
Monicelli: Questa diffidenza per il genere comico non è solo italiana.
Maltese: Però in Francia Molière è Molière. E poi lo scandalo per il Nobel a Dario Fo c’è stato solo in Italia.
Monicelli: Nelle rassegne, nei festival, persiste dovunque una forte preclusione per il comico. Il fatto di far ridere, o che un film possa essere popolare, ha evidentemente qualche cosa che non va.
Maltese: Tornando agli italioti, uno degli aspetti più straordinari della commedia all’italiana è l’aver descritto quel tratto tipico del fascismo che è l’inventarsi una gloria che non esiste. L’Armata Brancaleone è analoga al revisionismo italiano: l’idea di riscrivere la storia inventandosi una gloria che non c’è. Così come Brancaleone si inventa una gloria che non esiste, Mussolini s’inventava l’impero, Berlusconi la sua irresistibile ascesa, Bossi la Padania dei celti, l’ampolla magica e il dio Po. Questa è tutta commedia all’italiana, il poveraccio che s’ammanta di un eroismo immaginario. Tra l’altro, ove vi fosse stata, la Padania sarebbe stata alleata di Roma ladrona, contro gli imperatori tedeschi.
Monicelli: Tutto discende dal fatto che in Italia non c’è stata una Riforma, ma c’è stata la Controriforma senza che ci sia stata la Riforma. È stata una cosa incredibile. Immagina la vittoria della Controriforma contro una Riforma che in Italia non c’è mai stata. È stata vinta una battaglia che nessuno ha combattuto.
Maltese: A proposito di controriforme, che effetto vi hanno fatto questi anni in cui politici e giornalisti di sinistra hanno contribuito a criticare l’antifascismo come valore, a smontare la Resistenza come momento della storia italiana di cui andare orgogliosi?
Monicelli: Non ci si è mai occupati in modo adeguato della Resistenza né nel teatro, né nel cinema, e neanche nella letteratura, a parte Fenoglio. Eppure è l’unica cosa che abbiamo di cui potremmo veramente vantarci. Non solo non è stata apprezzata la Resistenza, ma sono venuti subito quelli che hanno detto che quelli di Salò erano dei bravi ragazzi. E i morti sono tutti uguali. Non è vero: fascisti e combattenti per la libertà sono diversi anche da morti. Ma è andata a finire così. La Resistenza è stata messa in disparte, non è stata più celebrata. Anche perché sembrava che fosse una pagina della storia di questo paese troppo intelligente, e generosa.
Maltese: In fondo a un decennio di revisionismo dominante sui media, i cittadini però sono andati a votare in massa un «No» alla pretesa di cambiare la Costituzione antifascista.
Monicelli: Ma è stato anche un modo per liberarsi di questa destra, di Berlusconi. Gli italiani l’hanno votato con un plebiscito. Ma poi in verità non è piaciuto. Ed è venuta fuori tutta la mediocrità di quell’avventura, se ne sono allontanati anche quelli che sono disposti a tutto pur di essere sul carro del vincitore.
Maltese: Un problema italiano è quello di diventare adulti. È un tema ricorrente del nostro cinema, dal Fellini dei Vitelloni a Germi e a te in Amici miei. Ora, la difficoltà a diventare adulti è profondamente legata alla struttura della famiglia italiana.
Monicelli: Ho fatto un film, Parenti serpenti, che era una farsa. La farsa è un genere meraviglioso, molto difficile perché va molto a fondo. Pur non essendo realistica, nella farsa c’è sempre una verità che va a fondo, come nella farsa di Chaplin e di Buster Keaton. Ora, la verità di quella farsa era la famiglia. Ma la colpa è delle donne. Adesso le donne, le ragazze, le signore, si lamentano che non trovano uomini. Ma questi uomini che non trovano sono quelli che loro da mamme hanno tenuto in casa, e che non vogliono far uscire, e che hanno accudito e curato e tenuto fino a 30-35 anni, senza mai farli crescere. Gli uomini italiani sono dei bambini non cresciuti per colpa delle donne. Che poi si lamentano perché trovano degli uomini che non sono cresciuti. Al contrario, le figlie femmine si possono anche mandare via: e loro infatti maturano, affrontano la vita molto più degli uomini, con più coraggio e con più grinta.
Maltese: L’idea che Berlusconi esibisca in continuazione la mamma, mamma Rosa, spiega molte cose di Berlusconi. Il suo narcisismo clinico deriva da quella mamma lì. È evidente che la mamma lo ha esaltato in ogni sua attività.
Monicelli: Ma Berlusconi la esibisce anche perché è convinto che gli italiani sono contenti se il loro Presidente, la loro guida, è legato alla mamma e che si rivolga alla mamma per prendere da lei le cose giuste, gli affetti, il modo di comportarsi verso gli altri. Berlusconi era convinto che quello fosse il lato debole degli italiani.
Maltese: Io non ricordo nessun altro leader politico al mondo che abbia parlato così tanto della mamma come Berlusconi. Mamma Rosetta è presente in un discorso politico su due. Ma alla fine, perché i personaggi pubblici italiani, tutti, sono soltanto delle variazioni dei personaggi di Alberto Sordi, insomma protagonisti da commedia?
Monicelli: La commendia è la nostra nascita. La lingua italiana nasce dalla Commedia di Dante, che poi si è chiamata Divina commedia. Ed è una pagliacciata di Boccaccio: perché «Divina», a che serve? L’opera di Dante si chiamava La Commedia. E nella Commedia avviene tutto, tutto. Noi veniamo dalla commedia e la nostra vera natura è «la Commedia». La commedia continua nella Mandragola. E anche qui cose turche. Nella commedia italiana ci sono sempre turpitudini. Poi c’è la commedia dell’arte, in cui i servitori cercano di difendersi dal padrone che li vuole sopraffare e che, a loro volta, rubacchiano. La commedia all’italiana non l’abbiamo mica inventata noi del dopoguerra. Magari! Viene da lontano. La commedia all’italiana viene dalla Commedia di nostro padre Dante.
Maltese: Forse bisognerebbe aggiungere anche zio Goldoni. Il cinema ruba in continuazione da Goldoni, senza dirlo. Però nella commedia nobile c’era un coraggio eccezionale. Dante è uno che prende il suo papa, Bonifacio VIII, e lo sbatte all’inferno, ne parla come di un dannato. Questo nel 1300. Ora vorrei capire se fra gli eroi della satira contemporanea, sempre pronti a vantare il proprio coraggio, ce n’è uno capace di tanto con Ratzinger.
Monicelli: Prima o poi arriverà, e forse torneremo a divertirci col cinema.

(a cura di Giovanni Perazzoli)
http://temi.repubblica.it/micromega-online/de-te-fabula-narratur-conversazione-con-mario-monicelli-di-curzio-maltese/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #54 inserito:: Dicembre 12, 2010, 04:26:24 pm »

IL COMMENTO

Una boccata di democrazia

Folla, colori, allegria, il sole e le piazze romane.

Ci voleva una giornata di sana democrazia per respirare fra i miasmi di una politica ridotta all'orrido cinepanettone parlamentare recitato da onorevoli macchiette in vendita.

di CURZIO MALTESE

Per distrarsi dallo spettacolo di un grande paese in mano al voto degli ultimi due voltagabbana arruolati da Di Pietro. È un sollievo incontrare le facce di un'Italia diversa, reale. Quanti erano? Chissà. Se Berlusconi giurava di aver superato i due milioni la primavera scorsa, allora qui dovrebbero essere cinque o sei. Basta confrontare le foto di piazza San Giovanni dall'alto. Fuori dalla contabilità di fantasia, comunque una marea. Ma più dei numeri conta l'emozione di veder sfilare i ragazzi dell'Aquila accanto ai precari dello spettacolo, i ricercatori e i migranti, i maestri elementari e i cassintegrati, da tutta Italia, con cento dialetti e un milione di storie.

Una gran bella giornata. Tanto bella quanto probabilmente inutile. A questa politica del paese reale importa poco o nulla. I giochi si fanno altrove, nei palazzi del potere berlusconiano. Quanti se n'è comprati? Quanti ne comprerà nelle prossime 48 ore? Nel retropalco di piazza San Giovanni, mentre parla Bersani, gli specialisti sfoderano il pallottoliere. Dario Franceschini, che di solito ci azzecca («comunque più di Di Pietro» è la battuta), sostiene che il fronte della sfiducia è ancora sopra di due voti. «Se Guzzanti passa di là, siamo pari».

L'unica certezza è che non vi sarà un solo parlamentare, un singolo esponente del popolo, che cambierà idea perché uno, due o cinque milioni d'italiani sono scesi in piazza. Badano ad altre cose, consulenze, contratti in scadenza, rielezione, pensioni, mutui, ipoteche, debiti. La manifestazione di ieri non servirà a dare una spallata al governo Berlusconi. Ma può dare una scossa di fiducia al Partito Democratico, da mesi paralizzato da un paradosso. Il berlusconismo perde colpi, ma il principale partito d'opposizione non guadagna consensi, al contrario scivola nei sondaggi. Perché, se ha potenziale elettorale che supera il quaranta per cento? Perché, se ogni chiamata alla piazza raccoglie milioni di adesioni, quando in tutte le democrazie occidentali mezzo milione di persone in corteo costituiscono un record?

Il Pd è a un bivio storico, di fronte a una scelta difficile, che merita rispetto. Alle prese con un problema assai più profondo di quanto appaia dalle risse fra la ventina di aspiranti segretari. Il Pd deve scegliere se diventare un partito come tutti gli altri, ovvero il comitato elettorale di un leader forte e carismatico. Oppure rimanere l'ultimo partito collegiale sulla scena.

Nel suo bel discorso Bersani, assai più efficace in piazza che in televisione, ha rivendicato con orgoglio la diversità del Pd. «Non vogliamo creare passione per una persona, ma per la Repubblica». È cosa buona e giusta da dirsi, nobile. Bisogna vedere se è anche attuale. Nell'Italia berlusconizzata, ma non solo, i partiti sono la narrazione di un capo. Oggi il Pd, con tutta la fatica e il dolore affrontato per separarsi dalle proprie radici, il Pci e la Dc, si trova a perdere voti nei confronti di Vendola e Casini, rispettivamente un ex comunista e un ex democristiano, entrambi poco ex, i quali semplicemente hanno capito due o tre cose in più su come funziona la comunicazione politica nei tempi moderni. Nell'Italia del 2010 il Pd è un partito che appare fermo al Novecento, mentre il resto del mondo è entrato da tempo nel Duemila. Oppure è regredito all'Ottocento, chissà, ma in ogni caso sta altrove.

All'orizzonte del Pd oggi non esiste un leader carismatico. L'ultimo giovane pretendente l'hanno appena beccato a confabulare in segreto ad Arcore, lui sostiene per il bene di Firenze. Ma anche se si presentasse Obama in persona, il Pd per come è strutturato non accetterebbe mai di diventare il partito di un leader. Gli unici ad averci provato in questi anni, Prodi e Veltroni, sono finiti presto. Sia pure dopo aver raccolto molti più consensi delle direzioni collegiali. Ad ascoltare la gente di San Giovanni, la base del Pd non avrebbe dubbi sulla scelta da compiere. C'è il rischio che la metà delle persone scese in piazza all'appello di Bersani, in caso di primarie si precipitino a votare Vendola. Forse domani cambierà tutto, se cadrà Berlusconi. Ma per far finire il berlusconismo, più che un governo tecnico, servirebbe allora la rivoluzione invocata dal grande Mario Monicelli.

(12 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/12/news/maltese_manifestzione-10097911/?ref=HREC1-3
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #55 inserito:: Dicembre 18, 2010, 11:02:47 am »

IL COMMENTO

Cosa vogliono quei ragazzi

di CURZIO MALTESE

La sera del 13 dicembre, vigilia del voto di fiducia e degli scontri di piazza del Popolo, l'ho passata alla Sapienza per discutere con gli studenti che cosa sarebbe successo il giorno dopo. Soprattutto sul come i media avrebbero trattato la rivolta degli studenti. La paura era il remake di Genova 2001. Zone rosse, black bloc, infiltrati e no, botte da orbi. In questo modo le ragioni del movimento sarebbero state completamente oscurate dal dibattito sulla violenza, come poi ha scritto Roberto Saviano.

I media si sarebbero volentieri accodati, alcuni per servilismo, altri per sensazionalismo, altri ancora per il riflesso condizionato di paragonare ogni movimento giovanile al passato. Nel 2001, fra i fumi dei lacrimogeni veri e gli altri a mezzo stampa, la strategia ha funzionato benissimo e l'Italia ha perso una grande occasione di modernità. Basta rileggersi i documenti del movimento no global dell'epoca sulla finanza internazionale, le bolle speculative, la privatizzazione dell'acqua, il clima o l'evoluzione del mercato agricolo per capire quanto fossero profetiche, acute, attuali quelle analisi. Tanto più degne d'attenzione delle quattro fesserie di circostanza e delle mille menzogne esalate durante il G8 da Bush e dagli altri potenti della terra. Ma si discusse soltanto degli atti di pochi violenti e dei discorsi vacui del potere.

Fra dieci anni potremmo pentirci di non aver ascoltato le ragioni degli studenti italiani, la loro protesta che è anzitutto contro il declino dell'Italia. Una battaglia che dovrebbe riguardare tutti, giovani e anziani, partiti e sindacati, destra e sinistra, imprenditori e lavoratori. Riguarda molto gli altri giovani di piazza del Popolo, i ragazzi in divisa, ventenni che spesso non hanno trovato altri lavori e misurano sulla propria pelle che cosa significhi aver studiato più dei colleghi anziani per avere meno soldi in busta paga e minori possibilità di carriera. Ragazzi in divisa che infatti, come si vede dai filmati, non avevano alcuna voglia di usare i manganelli. Il declino non riguarda soltanto l'Italia, ma l'Europa intera. E infatti la protesta degli studenti esplode in tutte le capitali d'Europa. La differenza è che soltanto in Italia, la nazione dove il declino è peggiore, si considera la protesta un mero problema di ordine pubblico, una faccenda poliziesca.

Qui non si tratta di una riforma buona o cattiva. Sarebbe facile smontare i due o tre slogan populisti e volgari sui quali si fonda la difesa della legge Gelmini. La guerra ai baroni? La riforma concentra il massimo del potere nelle mani dei rettorati, il Gotha del baronato. La lotta agli sprechi, ai troppi assunti, agli stipendi clientelari che fagocitano tutte le risorse? Su questo punto è difficile rimanere calmi. Il maggior spreco clientelare nella storia della scuola pubblica, il più costoso degli ultimi vent'anni, è stata l'assunzione di massa di ventimila insegnanti di una materia facoltativa, la religione, decisa da un governo Berlusconi per garantirsi l'appoggio dei vescovi. Spreco, vergogna, insulto alla Costituzione e alla meritocrazia, visto che gli insegnanti di religione non debbono affrontare un concorso, ma soltanto essere segnalati dalla curia. Ma questo è davvero il meno.

Il vero problema è che per la prima volta da secoli in Europa avanza una generazione "meno". Una generazione che avrà meno opportunità, mobilità sociale, in concreto meno consumi, automobili, case, strade, pensioni, perfino forse aspettative di vita, nonostante i progressi della scienza, di quanto ne abbiano avute i padri. È la questione dell'epoca ed è gigantesca, inedita. Ed è tanto più evidente in Italia, avanguardia del declino europeo. La politica, i sindacati, le associazioni industriali e finanche la Chiesa non dovrebbero occuparsi d'altro. Invece si occupano soltanto d'altro. Tutti dovremmo essere grati a questi ragazzi perché ci ricordano che abbiamo un futuro e dobbiamo sceglierlo. Invece molti e forse la maggioranza sono grati all'idiota che picchia un poliziotto a terra, al delinquente che incendia una camionetta o sfonda un bancomat, a chiunque armato di un bastone ci permetta il lusso di non pensare, come ricordava Saviano. Oggi come nel 2001, dopo Genova. Dopo Genova ci sono stati i crack finanziari, la peggiore crisi dal dopoguerra, il crollo dei prezzi agricoli, la privatizzazione dei grandi acquedotti. E adesso, brava gente allevata coi dibattiti televisivi, che cosa deve accadere per svegliarsi?

(18 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/cronaca/2010/12/18/news/commento_maltese-10343067/?ref=HRER1-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #56 inserito:: Gennaio 11, 2011, 04:16:39 pm »

IL COMMENTO

Un marziano a Roma

di CURZIO MALTESE

SIAMO alle comiche finali, come direbbe il suo ex capo, Gianfranco Fini. L'ultima trovata di Gianni Alemanno, sindaco per caso della capitale, sarebbe quella di chiamare come vice Guido Bertolaso, il Capitan Terremoto appena pensionato dalla Protezione civile.

Un colpo di teatro che dovrebbe risollevare l'immagine dell'amministrazione capitolina, in caduta libera. Il sondaggio annuale del Sole 24 Ore indica Alemanno fra i sindaci meno amati d'Italia, soltanto un'incollatura davanti ai casi disperati del palermitano Cammarata e della napoletana Russo Iervolino. Con tutte le perplessità che evoca la figura di Bertolaso, si tratterebbe in ogni caso di un passo avanti. Indietro, del resto, era difficile compierne. Da tre anni i romani assistono al bizzarro esperimento di una grande capitale dell'umanità governata da una curva di ultras della politica. Un pugno di ex camerati del Fronte della Gioventù romano, più parenti e amici, proiettati da un destino crudele (e dall'imbecillità degli avversari politici) verso una missione impossibile. Governare una città che ha la popolazione e il bilancio di un piccolo stato europeo, e la storia di molti messi insieme. Per qualche tempo i romani, anche chi non l'aveva votato, ha sperato che Alemanno e i suoi potessero farcela. Così come si tifa allo stadio per una squadra di terza categoria giunta in finale. Ma ora il fallimento è conclamato e perfino ammesso.

Gianni Alemanno è stato per tre anni il sindaco marziano di Roma, senza un rapporto vero con la città.
Distante, impaziente, forse persino deluso da una vittoria insperata che gli ha negato una più comoda poltrona di ministro, alle prese con problemi troppo più grandi di lui. Circondato per giunta da una compagnia di fedelissimi, pronti a sfoderare il pugnale per difenderlo, magari in cambio di un posto per il cognato o la prozia, ma del tutto inadeguati a compiti di governo. Ha svolto il compito di malavoglia, eccitato soltanto dalla possibilità di fare ogni tanto annunci d'ispirazione marinettiana, come la demolizione di Tor Bella Monaca, l'abbattimento delle opere di Meyer o il gran premio di Formula Uno all'Eur. E dire che s'era guadagnato il voto con la critica alla "politica spettacolo di Veltroni". Prima della cultura, dei festival, dei concertoni e concertini, diceva Alemanno, bisogna pensare alle buche nelle strade, alla criminalità, all'economica cittadina. La cultura infatti è quasi azzerata, ma non così le buche e i buchi in bilancio. I romani, tolleranti ma non fessi, se ne sono accorti e gli indici di popolarità sono crollati. Al disastro finale ha pensato la rapinosa compagnia dei collaboratori, con una serie di scandali all'insegna del "tengo famiglia".

Ora il marziano sindaco pensa di rimontare affiancandosi un marziano vice, ancora più bravo a fare annunci mirabolanti in televisione. Si tratta comunque, già dal nome, dell'ammissione di uno stato d'emergenza. Se fallisce anche la mossa Bertolaso, si può provare col mago Silvan e Harry Potter. Oppure dimettersi e fare posto a uno del mestiere. Tanto una poltrona da ministro ad Alemanno non gliela toglie nessuno. E al governo l'incompetenza non è un problema.

(11 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/11/news/marziano_roma-11071944/?ref=HREC1-3
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #57 inserito:: Marzo 13, 2011, 05:09:29 pm »

IL CASO

Le piazze e la Costituzione

Nel Paese c'è una minoranza che non si riconosce nei valori della Carta e c'è una maggioranza che invece vorrebbe vedere applicato il patto fondante della Patria. Questo è il vero conflitto

di CURZIO MALTESE


IL TRICOLORE e la Costituzione, l'inno di Mameli e "Bella ciao". Le cento piazze italiane hanno sapute leggere, fin dai simboli, la storia di questi anni, l'essenza della scontro politico in atto da quindici anni. Assai meglio di quanto non sappiano fare i partiti.
Nei 150 anni di unità, l´Italia, al prezzo di immani tragedie, è riuscita a darsi una sola vera e grande patria. Questa patria è la Costituzione antifascista. Le altre idee di patria, dal fascismo in su o in giù, sono state piccole, miserabili e funeste.

Da quindici anni la lotta politica non è quella che si racconta, fra una destra e una sinistra quasi altrettanto immaginarie, almeno secondo i parametri delle altre democrazie. Tanto meno fra berlusconismo e anti berlusconismo, categorie al pari esagerate rispetto all´esiguità e a tratti il grottesco del personaggio.

Il cuore del conflitto sta altrove, fra un´Italia di larga e compatta minoranza che non crede ai valori della Costituzione, non li pratica e vorrebbe cancellarli, e un´Italia maggioritaria, ma divisa, che si riconosce nel patto fondante della Repubblica e vorrebbe vederlo finalmente applicato. Era questa la fotografia politica del Paese nel ´94, subito dopo la discesa in campo di Berlusconi, confermata dai referendum costituzionali del 2006, e tale rimane ancora oggi. In mezzo, il grumo di poteri ideologicamente anticostituzionali che ora chiamiamo col nome di un ricco imprenditore che si è adoperato con ogni strumento culturale, politico, economico per attaccare e distruggere le basi stesse del patto democratico. Senza risparmiare nessuno dei valori fondanti, dal ripudio della guerra alla prevalenza dell´interesse pubblico sul privato, dalla separazione dei poteri alla laicità dello Stato, al ruolo di garante costituzionale del Presidente della Repubblica. Anche attraverso l´azione parallela di un revisionismo storico che punta al massimo e blasfemo scopo di equiparare i partigiani e i repubblichini di Salò.

Se domani, per ipotesi, sparisse Berlusconi, il conflitto non cambierebbe nella sostanza di una virgola. Diventerebbe soltanto più limpido, sgombrato dalle nebbie del populismo mediatico. Lasciando più spazio alla Lega, cioè alla forza che con schiettezza identifica l´attacco alla Costituzione antifascista con l´attacco all´unità del Paese. Come avviene già in questi tempi di berlusconismo agonizzante, in cui è la Lega l´autentico motore politico dell´azione di governo.

Questa è la posta in gioco. Così l´hanno illustrata le cento piazze d´Italia, con la semplice forza dei simboli, degli inni e delle duecento parole con le quali i padri costituenti hanno scritto la prima parte della Carta. In modo che proprio tutti possano comprenderla, anche coloro che continuano a non volerlo fare. Così l´hanno percepita e spiegata di recente artisti come Roberto Benigni o Roberto Saviano, e
l´hanno trasformata in racconto popolare. Il giorno in cui i partiti dell´opposizione sapranno capire e spiegare la posta in gioco con altrettanta chiarezza, sarà un gran bel giorno per la democrazia italiana.

(13 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #58 inserito:: Aprile 16, 2011, 10:08:04 pm »

LA POLEMICA

Quei vergognosi manifesti sui brigatisti in Procura

di CURZIO MALTESE

La scritta "Via le Br dalle procure" appesa davanti al Palazzo di Giustizia di Milano evoca alla memoria immagini che hanno segnato una generazione. Il corpo del giudice Emilio Alessandrini, massacrato dai proiettili di Prima Linea nel centro di Milano, dopo aver accompagnato il figlio a scuola.

Il sangue di Vittorio Bachelet, assassinato dalle Br, sparso sulle scalinate della Sapienza di Roma. Lo sguardo delle mogli, dei figli, dei genitori ai funerali dei tanti magistrati uccisi dal terrorismo. Il presidente del Consiglio, teorico dell'equazione fra magistrati e brigatisti, ha di sicuro l'età, ma non la decenza, per ricordare quei fatti. Per quanto, certo, all'epoca fosse già molto distratto dai propri affari.

Mentre i suoi coetanei magistrati rischiavano e a volte sacrificavano la vita nella lotta per la democrazia, contro la mafia e il terrorismo, Berlusconi infatti si portava in casa un boss mafioso e trafficava con l'assistenza del fido Marcello Dell'Utri a caccia di capitali. Ma perfino un personaggio così, che la stampa estera definisce "tragico clown", potrebbe ogni tanto fare appello alla propria natura di uomo, quindi di padre, fratello, per capire che quella propaganda è uno schiaffo al dolore di altri padri, figli, fratelli, colpiti da un lutto terribile.

In fondo, anche i brigatisti avevano cominciato con le parole, le scritte davanti a Palazzo di Giustizia, i volantini contro i magistrati "servi della borghesia" e "boia di Stato". Le pallottole sono arrivate dopo anni di violenza verbale. Una volta stabilito che i magistrati erano uguali ai boia, agli assassini, perché non agire di conseguenza? Ma non è nemmeno questo il punto.

La questione è che abbiamo nostalgia di una politica che ispiri sentimenti normali. Normali per la politica, dov'è contemplato la polemica, anche la più aspra, con l'avversario. Ma non la vergogna e il ribrezzo che suscitano questi spettacoli. Il presidente del Consiglio ha da molto tempo un conto aperto con la giustizia. Non potendo difendersi nei processi e avendo la fortuna (per lui) di vivere nel paese più corrotto dell'Occidente, si difende dai processi con ogni mezzo. Dispone di una maggioranza cortigiana disposta a votare qualsiasi legge ad personam e finanche a dichiarare agli atti il falso, come nel caso della "nipote di Mubarak", pur di mantenersi al potere. A tutto questo siamo ormai abituati. Non rassegnati, ma abituati. Quello a cui non si riesce ad abituarsi è alla pretesa dei delinquenti d'infangare gli onesti, alla volontà dei ladri di mettere in galera le guardie. Al rovesciamento totale della realtà, che è la premessa di ogni regime totalitario. Gli animali che accusano di brigatismo le prime vittime del terrorismo, i magistrati, non sono moralmente tanto lontani dai razzisti che accusavano gli ebrei di tramare lo sterminio degli ariani. Sono soltanto, per fortuna, assai più ridicoli.

(16 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/16/news/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #59 inserito:: Maggio 29, 2011, 05:47:42 pm »

IL RACCONTO

L'autoironia dal web alla piazza la campagna allegra della sinistra

Crozza dà il via sulla bat-casa, poi un diluvio di gag in Rete. Sul blog di Red Ronnie, sostenitore della Moratti, tanti messaggi sarcastici. Un cortometraggio irride gli incubi di un elettore che immagina Milano in mano ai "rossi"

di CURZIO MALTESE

L'autoironia dal web alla piazza la campagna allegra della sinistra Un fotogramma del corto satirico "Il favoloso mondo di Pisapie"
Esplode un arcobaleno in piazza del Duomo, dopo la tempesta. Scoppia la voglia di ridere di Milano, in fondo a una campagna mai così brutta, sporca e cattiva. Ma poi è stato davvero così? Gli insulti fanno sempre notizia.

Ma la vera novità della campagna per il sindaco di Milano, almeno nelle ultime settimane verso il ballottaggio, è stato il ritorno di un'arma fra le meno frequentate dalla politica italiana: l'ironia. Sulle magliette arancioni dei ragazzi in piazza del Duomo. "Sono senza cervello". "Milano libera tutti". Nelle radio, nei capannelli, nei bar, soprattutto sulla rete, a fiumi, come antidoto ai veleni della televisione. È accaduto di colpo, come una liberazione. Il film horror della destra si è rovesciato in uno "Scary movie" da sbellicarsi. Le accuse sempre più gravi e incredibili mosse al mite Giuliano Pisapia si sono ribaltate, attraverso la parodia, nella principale fonte di propaganda a suo favore.

Il più riuscito esempio di questa parodia della paura è il video oggi più cliccato su Internet. "Il favoloso mondo di Pisapie", un cortometraggio gioiello. Pochi minuti in cui si raccontano i tormenti e gli incubi di un elettore indeciso che prova a immaginarsi la Milano in mano ai "rossi". Pisapia che ringrazia dai manifesti gli amici di Al Qaida, consegna le chiavi della Torre Velasca ai centri sociali, accoglie sulle rive dei navigli le barche dei clandestini. In una Milano dove i multisala proiettano soltanto film di
Nanni Moretti, i parchi pullulano di omosessuali tossicomani, gli impiegati del Comune distribuiscono eroina zona per zona, si paga l'Ecopass anche per andare a Sesto San Giovanni. Fino all'inevitabile chiusura con furto d'auto.

Il clima alla Tarantino, anzi da vecchio film con Luc Merenda ("Milano trema...") era un'occasione troppo ghiotta per le schiere di comici impegnati col candidato di sinistra. Dal principio alla fine la satira, da Dario Fo all'ultimo blogger, è stata un elemento fondamentale della campagna milanese, per quanto ignorato dai media a caccia di titoloni. Fino ai molti sorrisi della serata di chiusura, sul palco del Duomo, con la parodia papale di Lella Costa ("Quando tornate a casa, date una carezza ai vostri figli e dite loro che la manda Pisapia"), le imitazioni di Marcorè, la verve di Bisio, l'elenco esilarante in finto stile Saviano di Massimo Cirri sui motivi per non votare Pisapia: "Primo, ha inventato le zanzare...".

Il vero comico sceso in campo nel voto di Milano non è stato Beppe Grillo, sempre meno divertente. Piuttosto Maurizio Crozza, dal quale infatti Pierluigi Bersani ha deciso di chiudere la campagna, con un duetto memorabile in cui il segretario del Pd, con tempi comici perfetti, ha accettato di ripetere le celebri frasi fatte luogocomuniste. E dunque "ragazzi, non siamo mica qui a tagliare i bordi ai toast", "non siamo qui a spalmare l'Autan sulle zanzare", "a smacchiare i giaguari", "a mettere i pannelli fotovoltaici alle lucciole" e via delirando.

A Crozza va del resto il merito d'aver colto per primo, a Ballarò, le potenzialità comiche della strategia della paura. Quando per esempio, dopo aver illustrato le cattive abitudini dell'avvocato mariuolo ("Era lì che svitava un'autoradio..."), ha lanciato l'appello: "Ma è possibile che con un simile delinquente in giro per Milano, Batman se ne stia a casa e non intervenga?".

Perché la vera svolta umoristica della campagna di Milano è venuta, come spesso capita, da un fatto vero. La scoperta della bat-casa del bat-figlio della bat-sindaco Letizia Moratti. Una vicenda che ha rovesciato il clima cittadino. Non solo e non tanto per la portata dell'abuso edilizio, quanto per il fragoroso abuso di cattivo gusto. Davanti a quelle immagini del loft da Gotham City, al dark tinello e alla piscina d'acqua di mare, si poteva scegliere se scandalizzarsi o scoppiare a ridere e i milanese hanno optato per la seconda ipotesi.
Da allora è scattata la rivoluzione dell'ironia, la mossa da judoka che ha usato l'aggressività dell'avversario per restituirla come boomerang comico. Il blog di Red Ronnie, sostenitore della Moratti e diffusore di terrificanti leggende metropolitane sull'avversario "comunista", è stato invaso di messaggi grotteschi. Una piccola antologia del buonumore, con in cima l'anonimo rapper di "Non trovo più Red Ronnie, l'ha preso Pisapia". La parodia è diventata l'unica forma efficace di reazione ai colpi troppi bassi di una politica troppo volgare e menzognera per esser più presa sul serio. Per le strade di Milano tutti, perfino qualche elettore di destra, s'è messo a canticchiare le parodie musicali di Elio e Le Storie Tese o della ormai mitica Sora Cesira di "Incarcerabile", variazione di Laura Pausini dedicata naturalmente a lui e ai suoi incubi: "Perché se vince Pisapia/ temo tu debba andare via".

È presto per dire se da Milano partirà la risata capace di seppellire la politica della paura e del rancore. Negli ultimi anni l'ironia, tanto più contro Berlusconi, non ha portato fortuna. A cominciare dal Mino Martinazzoli del '94, che al Cavaliere sventolante fantasmagorici sondaggi ("Il 65 per cento degli italiani mi vuole premier"), aggiungeva: "Risulta anche che il 99 per cento dei cinesi lo voglia imperatore". Ma i tempi cambiano, il vento politico fa il suo giro, i linguaggi invecchiano e soprattutto la rete, Facebook, Twitter, i blog fanno sembrare decrepita le risse televisive. E questa sì è una novità seria.
 

(29 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/05/29/news/
Registrato
Pagine: 1 2 3 [4] 5
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!