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Autore Discussione: CURZIO MALTESE. La verità dell'ex  (Letto 40425 volte)
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« inserito:: Settembre 28, 2007, 10:59:27 pm »

CRONACA

L'otto per mille, le scuole, gli ospedali, gli insegnanti di religione e i grandi eventi

Ogni anno, dallo Stato, arrivano alle strutture ecclesiastiche circa 4 miliardi di euro

I conti della Chiesa ecco quanto ci costa

 di CURZIO MALTESE


"Quando sono arrivato alla Cei, nel 1986, si trovavano a malapena i soldi per pagare gli stipendi di quattro impiegati". Camillo Ruini non esagera. A metà anni Ottanta le finanze vaticane sono una scatola vuota e nera. Un anno dopo l'arrivo di Ruini alla Cei, soltanto il passaporto vaticano salva il presidente dello Ior, monsignor Paul Marcinkus, dall'arresto per il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. La crisi economica è la ragione per cui Giovanni Paolo II chiama a Roma il giovane vescovo di Reggio Emilia, allora noto alle cronache solo per aver celebrato il matrimonio di Flavia Franzoni e Romano Prodi, ma dotato di talento manageriale. Poche scelte si riveleranno più azzeccate.

Nel "ventennio Ruini", segretario dall'86 e presidente dal '91, la Cei si è trasformata in una potenza economica, quindi mediatica e politica. In parallelo, il presidente dei vescovi ha assunto un ruolo centrale nel dibattito pubblico italiano e all'interno del Vaticano, come mai era avvenuto con i predecessori, fino a diventare il grande elettore di Benedetto XVI.

Le ragioni dell'ascesa di Ruini sono legate all'intelligenza, alla ferrea volontà e alle straordinarie qualità di organizzatore del personaggio. Ma un'altra chiave per leggerne la parabola si chiama "otto per mille". Un fiume di soldi che comincia a fluire nelle casse della Cei dalla primavera del 1990, quando entra a regime il prelievo diretto sull'Irpef, e sfocia ormai nel mare di un miliardo di euro all'anno. Ruini ne è il dominus incontrastato. Tolte le spese automatiche come gli stipendi dei preti, è il presidente della conferenza episcopale, attraverso pochi fidati collaboratori, ad avere l'ultima parola su ogni singola spesa, dalla riparazione di una canonica alla costruzione di una missione in Africa agli investimenti immobiliari e finanziari.

Dall'otto per mille, la voce più nota, parte l'inchiesta di Repubblica sul costo della chiesa cattolica per gli italiani. Il calcolo non è semplice, oltre che poco di moda. Assai meno di moda delle furenti diatribe sul costo della politica. Il "prezzo della casta" è ormai calcolato in quattro miliardi di euro all'anno. "Una mezza finanziaria" per "far mangiare il ceto politico". "L'equivalente di un Ponte sullo Stretto o di un Mose all'anno".

Alla cifra dello scandalo, sbattuta in copertina da Il Mondo e altri giornali, sulla scia di La Casta di Rizzo e Stella e Il costo della democrazia di Salvi e Villone, si arriva sommando gli stipendi di 150 mila eletti dal popolo, dai parlamentari europei all'ultimo consigliere di comunità montane, più i compensi dei quasi trecentomila consulenti, le spese per il funzionamento dei ministeri, le pensioni dei politici, i rimborsi elettorali, i finanziamenti ai giornali di partito, le auto blu e altri privilegi, compresi buvette e barbiere di Montecitorio.

Per la par condicio bisognerebbe adottare al "costo della Chiesa" la stessa larghezza di vedute. Ma si arriverebbe a cifre faraoniche quanto approssimative, del genere strombazzato nei libelli e in certi siti anticlericali.

Con più prudenza e realismo si può stabilire che la Chiesa cattolica costa in ogni caso ai contribuenti italiani almeno quanto il ceto politico. Oltre quattro miliardi di euro all'anno, tra finanziamenti diretti dello Stato e degli enti locali e mancato gettito fiscale. La prima voce comprende il miliardo di euro dell'otto per mille, i 650 milioni per gli stipendi dei 22 mila insegnanti dell'ora di religione ("Un vecchio relitto concordatario che sarebbe da abolire", nell'opinione dello scrittore cattolico Vittorio Messori), altri 700 milioni versati da Stato ed enti locali per le convenzioni su scuola e sanità. Poi c'è la voce variabile dei finanziamenti ai Grandi Eventi, dal Giubileo (3500 miliardi di lire) all'ultimo raduno di Loreto (2,5 milioni di euro), per una media annua, nell'ultimo decennio, di 250 milioni. A questi due miliardi 600 milioni di contributi diretti alla Chiesa occorre aggiungere il cumulo di vantaggi fiscali concessi al Vaticano, oggi al centro di un'inchiesta dell'Unione Europea per "aiuti di Stato". L'elenco è immenso, nazionale e locale. Sempre con prudenza si può valutare in una forbice fra 400 ai 700 milioni il mancato incasso per l'Ici (stime "non di mercato" dell'associazione dei Comuni), in 500 milioni le esenzioni da Irap, Ires e altre imposte, in altri 600 milioni l'elusione fiscale legalizzata del mondo del turismo cattolico, che gestisce ogni anno da e per l'Italia un flusso di quaranta milioni di visitatori e pellegrini. Il totale supera i quattro miliardi all'anno, dunque una mezza finanziaria, un Ponte sullo Stretto o un Mose all'anno, più qualche decina di milioni.

La Chiesa cattolica, non eletta dal popolo e non sottoposta a vincoli democratici, costa agli italiani come il sistema politico. Soltanto agli italiani, almeno in queste dimensioni. Non ai francesi, agli spagnoli, ai tedeschi, agli americani, che pure pagano come noi il "costo della democrazia", magari con migliori risultati.

Si può obiettare che gli italiani sono più contenti di dare i soldi ai preti che non ai politici, infatti se ne lamentano assai meno. In parte perché forse non lo sanno. Il meccanismo dell'otto per mille sull'Irpef, studiato a metà anni Ottanta da un fiscalista all'epoca "di sinistra" come Giulio Tremonti, consulente del governo Craxi, assegna alla Chiesa cattolica anche le donazioni non espresse, su base percentuale. Il 60 per cento dei contribuenti lascia in bianco la voce "otto per mille" ma grazie al 35 per cento che indica "Chiesa cattolica" fra le scelte ammesse (le altre sono Stato, Valdesi, Avventisti, Assemblee di Dio, Ebrei e Luterani), la Cei si accaparra quasi il 90 per cento del totale. Una mostruosità giuridica la definì già nell'84 sul Sole 24 Ore lo storico Piero Bellini.

Ma pur considerando il meccanismo "facilitante" dell'otto per mille, rimane diffusa la convinzione che i soldi alla Chiesa siano ben destinati, con un ampio "ritorno sociale". Una mezza finanziaria, d'accordo, ma utile a ripagare il prezioso lavoro svolto dai sacerdoti sul territorio, la fatica quotidiana delle parrocchie nel tappare le falle sempre più evidenti del welfare, senza contare l'impegno nel Terzo Mondo. Tutti argomenti veri. Ma "quanto" veri?

Fare i conti in tasca al Vaticano è impresa disperata. Ma per capire dove finiscono i soldi degli italiani sarà pur lecito citare come fonte insospettabile la stessa Cei e il suo bilancio annuo sull'otto per mille. Su cinque euro versati dai contribuenti, la conferenza dei vescovi dichiara di spenderne uno per interventi di carità in Italia e all'estero (rispettivamente 12 e 8 per cento del totale). Gli altri quattro euro servono all'autofinanziamento. Prelevato il 35 per cento del totale per pagare gli stipendi ai circa 39 mila sacerdoti italiani, rimane ogni anno mezzo miliardo di euro che il vertice Cei distribuisce all'interno della Chiesa a suo insindacabile parere e senza alcun serio controllo, sotto voci generiche come "esigenze di culto", "spese di catechesi", attività finanziarie e immobiliari. Senza contare l'altro paradosso: se al "voto" dell'otto per mille fosse applicato il quorum della metà, la Chiesa non vedrebbe mai un euro.

Nella cultura cattolica, in misura ben maggiore che nelle timidissime culture liberali e di sinistra, è in corso da anni un coraggioso, doloroso e censuratissimo dibattito sul "come" le gerarchie vaticane usano il danaro dell'otto per mille "per troncare e sopire il dissenso nella Chiesa". Una delle testimonianze migliori è il pamphlet "Chiesa padrona" di Roberto Beretta, scrittore e giornalista dell'Avvenire, il quotidiano dei vescovi. Al capitolo "L'altra faccia dell'otto per mille", Beretta osserva: "Chi gestisce i danari dell'otto per mille ha conquistato un enorme potere, che pure ha importantissimi risvolti ecclesiali e teologici". Continua: "Quale vescovo per esempio - sapendo che poi dovrà ricorrere alla Cei per i soldi necessari a sistemare un seminario o a riparare la cattedrale - alzerà mai la mano in assemblea generale per contestare le posizioni della presidenza?". "E infatti - conclude l'autore - i soli che in Italia si permettono di parlare schiettamente sono alcuni dei vescovi emeriti, ovvero quelli ormai in pensione, che non hanno più niente da perdere...".

A scorrere i resoconti dei convegni culturali e le pagine di "Chiesa padrona", rifiutato in blocco dall'editoria cattolica e non pervenuto nelle librerie religiose, si capisce che la critica al "dirigismo" e all'uso "ideologico" dell'otto per mille non è affatto nell'universo dei credenti. Non mancano naturalmente i "vescovi in pensione", da Carlo Maria Martini, ormai esiliato volontario a Gerusalemme, a Giuseppe Casale, ex arcivescovo di Foggia, che descrive così il nuovo corso: "I vescovi non parlano più, aspettano l'input dai vertici... Quando fanno le nomine vescovili consultano tutti, laici, preti, monsignori, e poi fanno quello che vogliono loro, cioè chiunque salvo il nome che è stato indicato". Il già citato Vittorio Messori ha lamentato più volte "il dirigismo", "il centralismo" e "lo strapotere raggiunto dalla burocrazia nella Chiesa". Alfredo Carlo Moro, giurista e fratello di Aldo, in uno degli ultimi interventi pubblici ha lanciato una sofferta accusa: "Assistiamo ormai a una carenza gravissima di discussione nella Chiesa, a un impressionante e clamoroso silenzio; delle riunioni della Cei si sa solo ciò che dichiara in principio il presidente; i teologi parlano solo quando sono perfettamente in linea, altrimenti tacciono".

La Chiesa di vent'anni fa, quella in cui Camillo Ruini comincia la sua scalata, non ha i soldi per pagare gli impiegati della Cei, con le finanze scosse dagli scandali e svuotate dal sostegno a Solidarnosc. La cultura cattolica si sente derisa dall'egemonia di sinistra, ignorata dai giornali laici, espulsa dall'universo edonista delle tv commerciali, perfino ridotta in minoranza nella Rai riformata. Eppure è una Chiesa ancora viva, anzi vitalissima. Tanto pluralista da ospitare nel suo seno mille voci, dai teologi della liberazione agli ultra tradizionalisti seguaci di monsignor Lefebrve. Capace di riconoscere movimenti di massa, come Comunione e Liberazione, e di "scoprire" l'antimafia, con le omelie del cardinale Pappalardo, il lavoro di don Puglisi a Brancaccio, l'impegno di don Italo Calabrò contro la 'ndrangheta.
Dopo vent'anni di "cura Ruini" la Chiesa all'apparenza scoppia di salute. È assai più ricca e potente e ascoltata a Palazzo, governa l'agenda dei media e influisce sull'intero quadro politico, da An a Rifondazione, non più soltanto su uno. Nelle apparizioni televisive il clero è secondo soltanto al ceto politico. Si vantano folle oceaniche ai raduni cattolici, la moltiplicazione dei santi e dei santuari, i record di audience delle fiction di tema religioso. Le voci di dissenso sono sparite. Eppure le chiese e le sagrestie si svuotano, la crisi di vocazioni ha ridotto in vent'anni i preti da 60 a 39 mila, i sacramenti religiosi come il matrimonio e il battesimo sono in diminuzione.

Il clero è vittima dell'illusoria equazione mediatica "visibilità uguale consenso", come il suo gemello separato, il ceto politico. Nella vita reale rischia d'inverarsi la terribile profezia lanciata trent'anni fa da un teologo progressista: "La Chiesa sta divenendo per molti l'ostacolo principale alla fede. Non riescono più a vedere in essa altro che l'ambizione umana del potere, il piccolo teatro di uomini che, con la loro pretesa di amministrare il cristianesimo ufficiale, sembrano per lo più ostacolare il vero spirito del cristianesimo". Quel teologo si chiamava Joseph Ratzinger.

(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

(28 settembre 2007)
da repubblica.it
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 04, 2007, 11:27:59 pm »

ESTERI

Il messaggio di Ratzinger al nuovo ambasciatore d'Italia presso il Vaticano

"La Chiesa non è un agente politico, ma ha interesse al bene della comunità politica"

Il Papa: "La Chiesa non mira a vantaggi economici e potere"

Nessun accenno diretto alle polemiche delle ultime settimane

"Il vincolo di collaborazione fra Santa Sede e Italia è stretto"

 
CITTA' DEL VATICANO - "La Chiesa non si propone mire di potere, né pretende privilegi o vantaggi economici e sociali". Così Benedetto XVI nel messaggio al nuovo ambasciatore d'Italia presso la Santa Sede, Antonio Zanardi Landi, che questa mattina ha presentato le sue credenziali al Papa. Parole, quelle del Papa, pronunciate a un mese dalla querelle innescata dalla decisione della Commissione Ue, di chiedere al governo italiano chiarimenti sul regime fiscale della Chiesa. Da Ratzinger anche un richiamo al Concordato, quando afferma che "la Chiesa cattolica chiede di essere considerata per la sua specifica natura e di poter svolgere liberamente la sua peculiare missione per il bene non solo dei propri fedeli, ma di tutti gli italiani". E alle "grandi sfide" che "caratterizzano l'età postmoderna", fra cui "la difesa della vita umana in ogni sua fase".

"La Chiesa non è un agente politico". Benedetto XVI cita il suo intervento al Convegno ecclesiale, che si è svolto a Verona nell'ottobre del 2006, e usa le identiche parole di allora per ribadire che "la Chiesa non è, e non intende essere un agente politico", ma "nello stesso tempo ha un interesse profondo per il bene della comunità politica, la cui anima è la giustizia, e le offre a un duplice livello il suo contributo specifico".

"Riaffermare indipendenza di Stato e Chiesa". Il Pontefice sottolinea il principio secondo cui "la comunità politica e la Chiesa sono indipendenti", principio "autorevolmente presentato anche dalla Costituzione della Repubblica italiana", e nel quale "vengono riaffermate sia l'indipendenza e la sovranità dello Stato e della Chiesa, sia la reciproca collaborazione per la promozione dell'uomo e del bene dell'intera comunità nazionale". Nel perseguire tale obiettivo, aggiunge il Papa, "la Chiesa non si propone mire di potere, né pretende privilegi o aspira a posizioni di vantaggio economico o sociale. Suo solo scopo è servire l'uomo, ispirandosi alle parole e all'esempio di Gesù".

"L'Italia difenda la vita". Il Papa non fa alcun cenno diretto agli attacchi subìti nelle ultime settimane dal fronte politico e da quello giornalistico, e anzi definisce "stretti" i "vincoli di cooperazione" che "caratterizzano i rapporti" tra la Santa Sede e l'Italia. Infine, formula l'auspicio che il Paese sappia "custodire gelosamente l'eredità culturale e spirituale che lo contraddistingue, e che fa parte integrante della sua storia". La fedeltà alle proprie radici, aggiunge, "sia ancor più stimolo a affrontare in modo adeguato le grandi sfide che contarassegnano l'età post-moderna: tra queste mi limito a citare la difesa della vita umana in ogni sua fase, la tutela dei diritti della persona e della famiglia, la costruzione di un mondo solidale, il rispetto del creato, il dialogo interculturale e interreligioso".

"Sì al progresso, ma con valori umani e cristiani". L'Italia deve continuare "sulla via dell'autentico progresso", ma sempre "promuovendo i valori umani e cristiani", che costituiscono "un irrinunciabile patrimonio ideale e che hanno dato vita alla sua cultura e alla sua storia civile e religiosa".

(4 ottobre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Ottobre 25, 2007, 05:09:59 pm »

CRONACA

L'ultimo dato ufficiale (2001): 650 milioni di stipendi agli insegnanti che nel frattempo sono diventati più di 25mila: di questi 14mila di ruolo

Religione, il dogma in aula un'ora che vale un miliardo

La Spagna studia la revisione degli accordi con la Chiesa

In Italia invece non se ne parla neppure

di CURZIO MALTESE



L'ultima ondata di bullismo nelle scuole ha convinto il governo a istituire dal prossimo anno due ore di educazione civica obbligatoria, chiamata Cittadinanza e Diritti Umani, in ogni ordine d' insegnamento, dalle materne ai licei. Durissima la protesta dei vescovi, che hanno parlato di "catechismo socialista" e invitato le associazioni di insegnanti e genitori cattolici a scendere in piazza e avvalersi dell'obiezione di coscienza. Il presidente del consiglio ha risposto in televisione che, nel rispetto totale della maggioranza cattolica del paese, la laicità dello Stato resta un valore fondante della democrazia e l'educazione civica non è né può essere in competizione con l'ora facoltativa di religioni (cattolica come ebraica, islamica o luterana) già prevista nei programmi. Il premier ha aggiunto di voler confermare i tagli ai finanziamenti delle scuole private cattoliche e non, definiti "un ritorno alla legalità costituzionale" rispetto alla politica del precedente governo di destra. A questo punto forse il lettore si sarà domandato: ma dov' ero quando è successo tutto questo? In Italia. Mentre la vicenda naturalmente si è svolta altrove, nella Spagna del governo Zapatero, otto mesi fa. Il braccio di ferro fra stato laico e vescovi è andato avanti e oggi il governo spagnolo studia addirittura una revisione del Concordato del 1979. Una realtà lontana da noi.

Nelle scuole italiane, più devastate dal bullismo di quelle spagnole, l'ora di educazione civica è abolita nelle primarie e quasi inesistente nelle superiori. Lo Stato in compenso si preoccupa di tutelare il più possibile l'ora di religione, al singolare: cattolica. Quanto ai finanziamenti alle scuole private cattoliche, in teoria vietati dall'articolo 33 della Costituzione ("Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato"), l'attuale governo di centrosinistra, con il ministro Fioroni all'Istruzione, è impegnato al momento a battere i record di generosità stabiliti ai tempi di Berlusconi e Letizia Moratti.

L'ora facoltativa di religione costa ai contribuenti italiani circa un miliardo di euro all'anno. E' la seconda voce di finanziamento diretto dello Stato alla confessione cattolica, di pochi milioni inferiore all'otto per mille. Ma rischia di diventare in breve la prima. L'ultimo dato ufficiale del ministero parla di 650 milioni di spesa per gli stipendi agli insegnanti di religione, ma risale al 2001 quando erano 22 mila e tutti precari. Ora sono diventati 25.679, dei quali 14.670 passati di ruolo, grazie a una rapida e un po' farsesca serie di concorsi di massa inaugurati dal governo Berlusconi nel 2004 e proseguita dall'attuale.

Il regalo del posto fisso agli insegnanti di religione è al centro d' infinite diatribe legali. Per almeno due ordini di ragioni. La prima obiezione è di principio. L'ora di religione è un insegnamento facoltativo e come tale non dovrebbe prevedere docenti di ruolo. Per giunta, gli insegnanti di religione sono scelti dai vescovi e non dallo Stato. Ma se la diocesi ritira l'idoneità, come può accadere per mille motivi (per esempio, una separazione), lo Stato deve comunque accollarsi l'ex insegnante di religione fino alla pensione.

L'altra fonte di polemiche è la disparità di trattamento economico fra insegnanti "normali" e di religione. A parità di prestazioni, gli insegnanti di religione guadagnano infatti più dei colleghi delle materie obbligatorie. Erano già i precari della scuola più pagati d' Italia. Nel 1996 e nel 2000, con due circolari, i governi ulivisti avevano infatti deciso di applicare soltanto agli insegnanti di religione gli scatti biennali di stipendio (2,5 per cento) e di anzianità previsti per tutti i precari della scuola da due leggi, una del 1961 e l'altra del 1980. Il vantaggio è stato confermato e anzi consolidato con il passaggio di ruolo, a differenza ancora una volta di tutti gli altri colleghi.

L'inspiegabile privilegio ha spinto prima decine di precari e ora centinaia di insegnanti di ruolo di altre materie a promuovere cause legali di risarcimento. Nel caso, per nulla remoto, in cui le richieste fossero accolte dai tribunali del lavoro, lo Stato dovrebbe sborsare una cifra valutabile fra i due miliardi e mezzo e i tre miliardi di euro. A parte le questioni economiche e legali, chiunque ricordi che cos' era l'ora di religione ai suoi tempi e oggi chiunque trascorra una mattinata nella scuola dei figli non può evitare di porsi una domanda. Vale la pena di spendere un miliardo di euro all'anno, in tempi di tagli feroci all'istruzione, per mantenere questa ora di religione? Uno strano ibrido di animazione sociale e vaghi concetti etici destinati a rimanere nella testa degli studenti forse lo spazio d' un mattino. Pochi cenni sulla Bibbia, quasi mai letta, brevi e reticenti riassunti di storia della religione.

In Europa il tema dell'insegnamento religioso nelle scuole pubbliche è al centro di un vivace e colto dibattito, ben al di sopra delle vecchie risse fra clericali e anticlericali. Nello stato più laico del mondo, la Francia, il regista Regis Debray, amico del Che Guevara e consigliere di Mitterrand, a suo tempo ha rotto il monolitico fronte laicista sostenendo l'utilità d' inserire nei programmi scolastici lo studio della storia delle religioni. In Gran Bretagna la teoria del celebre biologo Roger Dawkins ("L'illusione di Dio"), ripresa dallo scienziato Nicholas Humprey, secondo il quale "l'insegnamento scolastico di fatti non oggettivi e non provabili, come per esempio che Dio ha creato il mondo in sei giorni, rappresenta una violazione dei diritti dell'infanzia, un vero abuso", ha suscitato un ricco dibattito pedagogico. Ma è un fatto, sostiene Dawkins, che "noi non esitiamo a definire un bambino cristiano o musulmano, quando è troppo piccolo per comprendere questi argomenti, mentre non diremmo mai di un bambino che è marxista o keynesiano, Con la religione si fa un'eccezione".

In Germania, Spagna, perfino nella cattolicissima Polonia di Karol Woytjla, il dibattito non si è limitato alle pagine dei giornali ma ha prodotto cambiamenti nelle leggi e nei programmi scolastici, come l'inserimento di altre religioni (Islam e ebraismo, per esempio) fra le scelte possibili o la trasformazione dell'ora di religione in storia delle religioni comparate, tendenze ormai generali nei sistemi continentali. In Italia ogni timido tentativo di discussione è stroncato sul nascere da una ferrea censura. L'ora di religione cattolica è un dogma. La sola ipotesi di affiancare all'ora di cattolicesimo altre religioni, come avviene in tutta Europa con le sole eccezioni di Irlanda e dell'ortodossa Cipro, procura un immediata patente di estremismo, anticlericalismo viscerale, lobbismo ebraico o addirittura simpatie per Al Quaeda. Quanto ad abolirla, come in Francia, è un'ipotesi che non sfiora neppure le menti laiche.

Gli unici ad avere il coraggio di proporlo sono stati, come spesso accade, alcuni intellettuali cattolici. Lo scrittore Vittorio Messori, per esempio: "Fosse per me cancellerei un vecchio relitto concordatario come l'attuale ora di religione. In una prospettiva cattolica la formazione religiosa può essere solo una catechesi e nelle scuole statali, che sono pagate da tutti, non si può e non si deve insegnare il catechismo. Lo facciano le parrocchie a spese dei fedeli~ Perciò ritiriamo i professori di religione dalle scuole pubbliche e assumiamoli nelle parrocchie tassandoci noi credenti".

Messori non manca di liquidare anche gli aiuti di Stato alle scuole cattoliche, negati per mezzo secolo dalla Democrazia Cristiana, inaugurati con la legge 62 del 10 marzo 2000 dal governo D' Alema con Berlinguer all'Istruzione, dilagati nel periodo Berlusconi-Moratti (con il trucco dei "bonus" agli studenti per aggirare la Costituzione) e mantenuti dall'attuale ministro Fioroni, con giuramento solenne davanti alla platea ciellina del meeting di Rimini. "Lo Stato si limiti a riconoscere che ogni scuola non statale in più consente risparmio di danaro pubblico e di conseguenza conceda sgravi fiscali. Niente di più".

Il cardinale Carlo Maria Martini, da arcivescovo di Milano, aveva dichiarato che l'ora di religione delle scuole italiane doveva ritenersi inutile o anche "offensiva", raccomandando di raddoppiarla e farne una materia seria di studio oppure lasciar perdere. La Cei ha sempre risposto che l'ora di religione è un successo, raccoglie il 92 per cento di adesioni, a riprova delle profonde radici del cattolicesimo in Italia. Ma se la Cei ha tanta fiducia nei fedeli non si capisce perché chieda (e ottenga dallo Stato) che l'ora di religione sia sempre inserita a metà mattinata e mai all'inizio o alla fine delle lezioni, come sarebbe ovvio per un insegnamento facoltativo. Perché chieda (e sempre ottenga) il non svolgimento nei fatti dell'ora alternativa. In molte materne ed elementari romane ai genitori è stato comunicato che i bambini di 5 o 6 anni non iscritti all'ora di religione "potevano rimanere nei corridoi". Prospettiva terrorizzante per qualsiasi madre o padre.

D' altra parte la sicurezza ostentata dai vescovi si scontra con l'allarme lanciato nella relazione della Cei dell'aprile scorso sul progressivo abbandono dell'ora di religione, con un tasso di rinuncia che parte dal 5,4 delle elementari e arriva al 15,4 per cento delle superiori (con punte del 50 non solo nelle regioni "rosse" come la Toscana o l'Emilia-Romagna ma anche in Lombardia e nelle grandi città), man mano che gli studenti crescono e possono decidere da soli. Alla fine nessun argomento ufficiale cancella il dubbio. L'ora di religione, così com' è, costituisce davvero un insegnamento del catechismo ("che in ogni caso ciascuno si può portare a casa con poche lire" ricordava don Milani) o non piuttosto un altro miliardo di obolo di Stato a san Pietro?
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

(25 ottobre 2007)
da repubblica.it
« Ultima modifica: Ottobre 30, 2007, 04:37:12 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Ottobre 29, 2007, 06:47:25 pm »

Oggi 29 ottobre 2007, 6 ore fa

Navarro-Valls si impappina al Tg1. E paga la penitenza ad “Avvenire”

Ieri 28 ottobre 2007, 16.14.48 | Sandro Magister


Domenica 28 ottobre Joaquín Navarro-Valls ha ricevuto a Potenza il “Premio Basilicata” per non meglio precisati meriti di “letteratura spirituale e poesia religiosa”.

Ma prima di ritirare il premio, l’ex portavoce di Giovanni Paolo II ha dovuto pagare penitenza col giornale della conferenza episcopale italiana, “Avvenire”.

A far infuriare il direttore di “Avvenire”, Dino Boffo, era stata, giovedì 25 ottobre, un’intervista rilasciata da Navarro negli studi del Tg1 delle 20. L’intervista riguardava le inchieste pubblicate da “la Repubblica” sui “privilegi” finanziari della Chiesa italiana. Polemica rincarata, la mattina di quello stesso giovedì, da un editoriale del direttore di “la Repubblica”, Ezio Mauro, contro uno spicciativo “Finiamola!” pronunciato il giorno prima dal segretario di stato vaticano, cardinale Tarcisio Bertone.

Ebbene, intervistato dal Tg1, il sorridente Navarro – che da quando ha cambiato mestiere è anche columnist di “la Repubblica” – non proferì una sola parola a difesa delle ragioni della Chiesa.

Apriti cielo. La mattina dopo il direttore di “Avvenire”, in un editoriale di risposta a “la Repubblica”, infilò una riga al veleno contro Navarro:

“L’elenco di errori, omissioni e verità parziali è lunghissimo, e tale resta purtroppo anche dopo l’intervento di Navarro-Valls ieri sera al Tg1…”.

Era facile, a quel punto, indovinare che Navarro avrebbe proceduto a una riparazione della malefatta.

La riparazione è apparsa su “Avvenire” di domenica 28 ottobre. In un’intervista nella quale Navarro dichiara che la Chiesa non ha “privilegi” ma opera con grande efficacia, in piena trasparenza e col larghissimo consenso dei cittadini italiani.

Non solo. Fin dal titolo l’intervista è presentata da “Avvenire” come un doveroso completamento a quanto non detto da Navarro al Tg1.

E per prima cosa Navarro, con la cenere sul capo, pronuncia l’atto di discolpa:

“Pochi giorni fa sono stato intervistato dal telegiornale di Raiuno su questi argomenti. Mi era sembrato in quel momento che la priorità fosse quella di evitare toni polemici, soprattutto di tipo personale, cercando di ragionare con calma. Ma ci sono anche questioni di merito, sulle quali è bene evitare imprecisioni, che non giovano a nessuno”.

“Vediamo allora di ragionare sui dati oggettivi”, lo incalza l’intervistatore.

“Appunto. E il primo mi sembra proprio questo: la Chiesa in Italia non gode di alcun privilegio”. Eccetera, eccetera.


da magister.blogautore.espresso.repubblica.it
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« Risposta #4 inserito:: Novembre 10, 2007, 10:21:21 am »

CRONACA

Lo straordinario business dei pellegrinaggi cresce del 20% all'anno. Aerei selezionati conventi a 5 stelle.

E l'extraterritorialità consente guadagni esentasse

Turisti nel nome di Dio un affare da 5 miliardi

di CURZIO MALTESE


DAL BLOG di papa Ratzinger, ufficioso ma benedetto dal Santo Padre, si legge: "Nell'era del low cost, l'Opera Romana Pellegrinaggi si adegua". La ricerca di Dio si affida a voli rigorosamente a basso costo. Il Boeing 707-200 della flotta Mistral, fondata nel 1981 dall'attore Bud Spencer, e ora targato Orp, è decollato il 27 agosto da Roma con destinazione Lourdes.
I pellegrini, 148 fra i quali l'invitato Luciano Moggi, hanno intrapreso il viaggio spirituale supportati da una guida d'eccellenza: il cardinale Camillo Ruini. Il rettore della Pontificia Università Lateranense ha elargito la sua benedizione ai devoti. All'ingresso, le hostess in completo giallo e blu, spilla del Vaticano e fazzoletto giallo al collo, accolgono i passeggeri e li accompagno al posto. Sul poggiatesta si legge: "Cerco il tuo volto Signore".

È nato insomma con un lancio pubblicitario in grande stile l'accordo fra il Vaticano e la Mistral nel settore del turismo della fede. Per una "ricerca di Dio con voli rigorosamente a basso costo", la Chiesa si affida al testimonial Luciano Moggi, all'epoca già rinviato a giudizio, e alla chiacchierata compagnia delle Poste Italiane. La Mistral, fondata da Bud Spencer e salvata durante il governo Berlusconi con un'operazione giudicata fuori mercato perfino da alcuni parlamentari della destra e ancora oggi avvolta nel mistero.

Un'interrogazione del deputato di An Vincenzo Nespoli sul perché le Poste sborsavano fino a quindici volte il valore nominale delle azioni Mistral, per fare oltrettutto concorrenza all'Alitalia in crisi, non ebbe mai risposta dal governo. Il patto fra Mistral e Opera Romana Pellegrinaggi per trasportare il primo anno 50 mila pellegrini italiani verso i santuari d'Europa e Terra Santa, con la previsione di arrivare a 150 mila nel 2008 (centocinquantesimo anniversario dell'apparizione di Fatima) non è che la punta dell'iceberg di un affare gigantesco: il turismo religioso. Quasi sempre esentasse.

Il turismo è il primo settore commerciale del mondo per espansione, terzo per margini di profitti dietro il petrolio e il traffico di armi. In Italia, una delle principali mete del pianeta, la chiesa cattolica è di gran lunga il dominus del settore. Secondo l'indagine Trademark la chiesa cattolica controlla ogni anno un traffico di 40 milioni di presenze, 19 milioni di pernottamenti, 250 mila posti letto in quasi 4 mila strutture. Il volume d'affari supera i 5 miliardi di euro all'anno, il triplo del fatturato dell'Alpitour, primo tour operator italiano. In cima alla piramide organizzativa del turismo cattolico sta l'Opera Romana Pellegrinaggi, che ha convenzioni con 2500 agenzie e una rete con migliaia di referenti sul territorio.

L'Opr è presieduta da Camillo Ruini, Vicario di Roma, con Liberio Andreatta già amministratore delegato e ora vice presidente, alle dirette dipendenze della Santa Sede. A fianco dell'Opr svolge un ruolo importante l'Apsa, l'amministrazione patrimoniale della Santa sede, che gestisce gli immobili della Chiesa e spesso gli utili alberghieri. Entrambe le società hanno sede nella Città del Vaticano, godono dunque di un regime di extraterritorialità che significa in pratica non dover presentare bilanci e sfuggire alle leggi italiane in materia fiscale, di igiene, prevenzione eccetera.

In più, in tutte le convenzioni fra l'Orp e i clienti, esiste un comma (16) che rimanda "per tutte le eventiali controversie" alla "legge fondamentale dello Stato della Città del Vaticano". E qual è la legge fondamentale della Città del Vaticano? Questa, che su qualsiasi controversia legale, civile o penale, l'ultima parola spetta al Papa. Il turista cattolico o no, ma in ogni caso al novanta per cento cittadino italiano, che volesse reclamare contro il servizio offerto, dovrebbe dunque aspettare la parola definitiva del Santo Padre. Nonostante questo, lo Stato italiano favorisce in vari modi l'Orp, patrocinata anche dal ministero delle Comunicazioni.

L'extraterritorialità del resto è una regola piuttosto diffusa per le attività commerciali della Chiesa, come nella sanità privata. L'ospedale pediatrico romano del Bambin Gesù, per fare un esempio, notissimo ai genitori della capitale, riceve numerosi finanziamenti statali e della Regione Lazio. Ma né l'amministrazione statale né quella regionale hanno il potere di rivedere gli accordi col Bambin Gesù perché ogni modifica deve essere trattata direttamente dal ministro degli Esteri con il Vaticano.

In un settore ricco e in forte espansione come il turismo, l'extraterritorialità si traduce in un formidabile ombrello fiscale. Non si tratta soltanto dell'Ici non pagata per alberghi, ristoranti, bar di proprietà degli enti ecclesiastici. Ma anche del mancato gettito di Irpef, Ires, Irap e altre imposte. Su questo lungo elenco di privilegi fiscali, non soltanto sull'Ici, la commissione europea ha chiesto da tempo chiarimenti al governo italiano. I lavoratori delle "case religiose", sempre più spesso veri e propri alberghi rintracciabili sul circuito commerciale normale, sono spesso suore o preti o volontari o legati da contratti anomali di collaborazione. Quindi la Chiesa non deve pagare le imposte sul lavoro dipendente.

Nel sito della Cei, a questo proposito, si legge negli ultimi tempi una ricorrente lamentela per il fatto che, visti gli indici di crescita, la catena turistica religiosa deve ricorrere sempre più spesso al personale "esterno". "Il personale esterno non garantisce le stesse prestazioni" di suore e preti, pretende di essere pagato per gli straordinari e cerca di introdurre tutele sindacali. Sia pure con i limiti enormi di libertà imposti dalla giurisdizione pontificia. I privilegi fiscali della Chiesa si traducono in un vantaggio sulla concorrenza e nella possibilità di praticare prezzi fuori mercato.

Se il settore turistico cresce ovunque in Italia, l'espansione di quello religioso ha tratti spettacolari, con un aumento di quasi il venti per cento all'anno.
Nel volgere di quattro o cinque anni il volume d'affari potrebbe sfondare il tetto dei 10 miliardi di euro. Non si tratta soltanto di turismo "povero" o "low cost". "Sono ormai un centinaio i monasteri-alberghi entrati nei network Condè-Nast, Relais & Chateaux o Leading Hotel of the world" scrive il Sole 24 Ore. Ma si tratti di due, tre, quattro o cinque stelle, i prezzi sono sempre inferiori alla concorrenza, grazie alle minori spese.

Abbiamo parlato nelle puntate scorse dell'hotel delle Brigidine, 190 euro a notte, ma in una zona dove un quattro o cinque stelle costa quasi il doppio. I casi soltanto nella capitale sono decine. Dai Carmelitani di Castel Sant'Angelo, che offrono camere con frigobar, tv satellitare e aria condizionata a 120 euro, fino ai "tre stelle" a 60 o 70 euro. La spendida abbazia di Chiaravalle alle porte di Milano costa 300 euro, ma è un cinque stelle a tutti gli effetti. Lo stesso vale per le celebri Orsoline di Cortina e per il monastero di Camaldoli nell'aretino, mete di turismo intellettuale, culturale e politico d'alto bordo.

Se si scende al livello del turismo di massa, i prezzi calano ma il fatturato esplode. E lo stato italiano favorisce in ogni modo. Con le esenzioni e con i finanziamenti diretti. I 3.500 miliardi di lire versati dall'erario alla Chiesa per il Giubileo sono serviti in buona parte a riorgazzare la rete di accoglienza turistica. Ma quella pioggia di soldi non si è mai davvero fermata. In varie forme, governo ed enti locali continuano a sovvenzionare la rete alberghiera religiosa. Per il rilancio dell'antica Via Francigena, che nel medioevo collegava Roma a Canterbury, l'ultimo finanziamento statale è stato di 10 milioni di euro.
Ma bisogna aggiungere le centinaia di contributi degli enti locali. Visto il successo, l'Orp ha deciso di rilanciare anche altri pellegrinaggi: il Commino di Sigerico, da Milano a Roma; la Via dell'Est, che da Venezia attraversa Romagna e Umbria; l'antico cammino del Sud da Roma a Otranto. L'ultimo con un passaggio d'obbligo al santuario di San Giovanni Rotondo, il cui boom turistico ha messo di gran lunga in secondo piano le recenti rivelazioni sui dubbi di Giovanni Paolo XXIII a proposito della santità di Padre Pio, i suoi rapporti con le fedeli e l'origine reale delle stimmate.

In tutti questi progetti non c'è stato comune o provincia o regione o comunità montane, governata da destra o da sinistra, che non si sia accollata finanziamenti, agevolazioni fiscali, oneri di ristrutturazione. Non stupisce insomma che l'Opera Romana Pellegrinaggi allarghi di settimana in settimana il raggio d'azione. Il 2007 è stato l'anno dei voli della fede in Europa e Terra Santa. Il 2008 sarà l'anno dello sbarco nel mercato americano con il progetto "Christian World Tour". "Fra il 2008 e il 2009 - dichiara l'amministratore delegato dell'Orp, padre Cesare Atuire - i progetti saranno estesi all'America Latina e all'Oriente, in particolare Cina, India e Filippine". Tutto "rigorosamente low cost".
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

(10 novembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #5 inserito:: Dicembre 21, 2007, 06:59:32 pm »

POLITICA

IL COMMENTO

I sette minuti del padrone

di CURZIO MALTESE

 
Per capire cos'è stata la politica ai tempi di Berlusconi un saggio serve meno di una telefonata di sette minuti fra il "Presidente" e "Agostino" che chiunque può scaricare dal sito di Repubblica e L'espresso.
Ancora una volta un'intercettazione disvela per caso il vero volto del potere in Italia. Ancora una volta gli intercettati, Berlusconi in testa, reagiscono lamentando la violazione della privacy, senza mai entrare nel merito dei contenuti. Devastanti.

Andiamo alla scena. Protagonisti il presidente, naturalmente Berlusconi, e Agostino Saccà, direttore della fiction Rai, l'uomo più potente della prima azienda culturale italiana, in teoria il capo della concorrenza a Mediaset. I rapporti sono chiari dal "pronto". Saccà dà del "lei" a Berlusconi e lo chiama sempre "presidente". Berlusconi risponde con il "tu" a Saccà, lo chiama "Agostino" e lo tratta come i servi ai tempi di Swift.

Nei sette irresistibili minuti di conversazione, dai quali forse un giorno una Rai libera trarrà finalmente una bella fiction, si mescolano generi teatrali, perlopiù comici, e argomenti. Si parla di televisioni, attrici raccomandate e politica. Senza soluzione di continuità perché sono la stessa cosa.

"Agostino" declama dall'ingresso in scena la sua natura di servo contento. Batte le mani al padrone, che fa il ritroso, lo gratifica di "uomo più amato d'Italia" ("lei colma un vuoto nel Paese, anche emotivamente"), usa il "noi" di parte per vantare la sua fedeltà. "Abbiamo mantenuto la maggioranza nel consiglio d'amministrazione Rai". Quindi, sempre in posizione genuflessa, il servo Agostino porta idealmente la bocca dalla scarpina rialzata del signore all'orecchio per sussurrargli i nomi dei traditori. Non quello "stronzo" di Urbani, come pensa il signore ma "i nostri alleati", An e Lega, "che hanno spaccato la maggioranza per un piatto di lenticchie". Lo implora di "richiamarli all'ordine".

Il Presidente prende nota e passa alle comande di giornata. Ha bisogno che vada avanti la fiction sul Barbarossa ("Bossi mi fa una testa tanta..."). Il fido Agostino acconsente con entusiasmo, ma segnala che il regista Renzo Martinelli ha creato problemi vantandosi troppo con la Padania. Il Martinelli è uno di quegli intellettuali molto di sinistra con eccellenti rapporti a destra e con Mediaset, eppure sempre liberi e alternativi e "contro", checché ne dicano alcuni moralisti borghesi di merda. Nella sintesi di Saccà, a tratti acuta, "un vero cretino".
Comunque non c'è problema, assicura il boss Rai. La fiction s'ha da fare "perché poi Barbarossa è Barbarossa, Legnano è Legnano". Argomenti inoppugnabili. Senza contare l'autocitazione. Saccà è infatti il geniale inventore dello slogan "perché Sanremo è Sanremo". D'altra parte, insiste il servitore, il padrone è così modesto, così liberale, gli chiede sempre tanto poco che è un piacere contentarlo.

"Per la verità, ogni tanto ti chiedo di donne", lo corregge Berlusconi, introducendo la seconda comanda. Si tratta di piazzare la solita Elena Russo e una certa Evelina Manna, per conto di un senatore della maggioranza di centrosinistra col quale Berlusconi tratta la caduta di Prodi. "Io la chiamo operazione libertà" chiarisce Berlusconi, che quando non racconta barzellette, rivela un involontario ma formidabile sense of humour.

Esaudito il terzo desiderio, il genio Saccà, invece di rientrare nella lampada, come nella tradizione, continua a profondersi in inchini e profferte di servigi. Tanto che perfino Berlusconi si stufa e lo liquida.

L'intercettazione è allegata all'inchiesta per cui Berlusconi è indagato con l'accusa di corruzione per la Rai e per il mercato dei voti, come ha rivelato Giuseppe D'Avanzo su Repubblica. In Italia, per effetto del combinato disposto di riforme di giustizia promosse da destra e da sinistra, si sa che i processi a imputati eccellenti finiscono tutti in prescrizione. In assenza di una verità processuale, le intercettazioni servono dunque nella pratica a farsi un'idea del Paese: e l'ascolto, fornisce anche un'idea sulle persone.
Il Paese degli Agostini e dei Berlusconi è una nazione dove la politica non governa nulla, tranne la televisione. Al singolare, perché la telefonata tra il leader della destra e Saccà rivela come il sistema berlusconiano sia una vera "struttura delta" che controlla l'universo Tv. Per necessità, il padrone della televisione è diventato il padrone della politica. Usa l'una per fare l'altra e viceversa.

Ci sarebbe un sistema semplice per interrompere questa perenne fonte di corruzione. Prendere un canestro, ficcarvi dentro in bussolotti una ventina di leggi europee sui sistemi televisivi, quindi estrarne a sorte una. Questo sistema, che rispecchia più o meno la logica seguita per discutere la riforma elettorale, non è mai stato preso in considerazione. Per quanto la riforma televisiva figurasse nei programmi del centrosinistra, prima e seconda versione.

I leader del centrosinistra, comunque si chiamino, alla fine s'innamorano dell'idea di poter trattare con Berlusconi, portatore di un conflitto d'interessi così gigantesco e pervasivo, accordi istituzionali "nell'interesse della collettività". Ora, l'interesse di Berlusconi per la collettività è ben illustrato dal suo dialogo con il boss della tv pubblica. Non si tratta di demonizzare i patti fra destra e sinistra. Se per esempio la sinistra e una parte di destra si trovassero finalmente ad approvare una decente e sempre più urgente riforma della Rai e dei monopoli televisivi, saremmo in prima fila a festeggiare il valore "bipartisan" dell'accordo. Ma allora si rischierebbe davvero di voltar pagina, di cambiare una politica che così com'è farà schifo ma garantisce a tutti un posto al sole, una fiction, una quota raccomandati e fidanzati, il proprio Saccà pronto ad esaudire i desideri.

(21 dicembre 2007)

da repubblica.it
« Ultima modifica: Luglio 14, 2008, 11:12:08 am da Admin » Registrato
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« Risposta #6 inserito:: Gennaio 28, 2008, 11:10:21 am »

CRONACA

L'Istituto Opere Religiose è la banca del Vaticano.

In deposito 5 miliardi di euro

Ai correntisti offre rendimenti record, impermeabilità ai controlli e segretezza totale

Scandali, affari e misteri tutti i segreti dello Ior

di CURZIO MALTESE


 LA CHIESA cattolica è l'unica religione a disporre di una dottrina sociale, fondata sulla lotta alla povertà e la demonizzazione del danaro, "sterco del diavolo". Vangelo secondo Matteo: "E' più facile che un cammello passi nella cruna dell'ago, che un ricco entri nel regno dei cieli". Ma è anche l'unica religione ad avere una propria banca per maneggiare affari e investimenti, l'Istituto Opere Religiose.

La sede dello Ior è uno scrigno di pietra all'interno delle mura vaticane. Una suggestiva torre del Quattrocento, fatta costruire da Niccolò V, con mura spesse nove metri alla base. Si entra attraverso una porta discreta, senza una scritta, una sigla o un simbolo. Soltanto il presidio delle guardie svizzere notte e giorno ne segnala l'importanza. All'interno si trovano una grande sala di computer, un solo sportello e un unico bancomat. Attraverso questa cruna dell'ago passano immense e spesso oscure fortune. Le stime più prudenti calcolano 5 miliardi di euro di depositi. La banca vaticana offre ai correntisti, fra i quali come ha ammesso una volta il presidente Angelo Caloia "qualcuno ha avuto problemi con la giustizia", rendimenti superiori ai migliori hedge fund e un vantaggio inestimabile: la totale segretezza. Più impermeabile ai controlli delle isole Cayman, più riservato delle banche svizzere, l'istituto vaticano è un vero paradiso (fiscale) in terra. Un libretto d'assegni con la sigla Ior non esiste. Tutti i depositi e i passaggi di danaro avvengono con bonifici, in contanti o in lingotti d'oro. Nessuna traccia.

Da vent'anni, quando si chiuse il processo per lo scandalo del Banco Ambrosiano, lo Ior è un buco nero in cui nessuno osa guardare. Per uscire dal crac che aveva rovinato decine di migliaia di famiglie, la banca vaticana versò 406 milioni di dollari ai liquidatori. Meno di un quarto rispetto ai 1.159 milioni di dollari dovuti secondo l'allora ministro del Tesoro, Beniamino Andreatta. Lo scandalo fu accompagnato da infinite leggende e da una scia di cadaveri eccellenti. Michele Sindona avvelenato nel carcere di Voghera, Roberto Calvi impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra, il giudice istruttore Emilio Alessandrini ucciso dai colpi di Prima Linea, l'avvocato Giorgio Ambrosoli freddato da un killer della mafia venuto dall'America al portone di casa.

Senza contare il mistero più inquietante, la morte di papa Luciani, dopo soli 33 giorni di pontificato, alla vigilia della decisione di rimuovere Paul Marcinkus e i vertici dello Ior. Sull'improvvisa fine di Giovanni Paolo I si sono alimentate macabre dicerie, aiutate dalla reticenza vaticana. Non vi sarà autopsia per accertare il presunto e fulminante infarto e non sarà mai trovato il taccuino con gli appunti sullo Ior che secondo molti testimoni il papa portò a letto l'ultima notte.
Era lo Ior di Paul Marcinkus, il figlio di un lavavetri lituano, nato a Cicero (Chicago) a due strade dal quartier generale di Al Capone, protagonista di una delle più clamorose quanto inspiegabili carriere nella storia recente della chiesa. Alto e atletico, buon giocatore di baseball e golf, era stato l'uomo che aveva salvato Paolo VI dall'attentato nelle Filippine. Ma forse non basta a spiegare la simpatia di un intellettuale come Montini, autore della più avanzata enciclica della storia, la Populorum Progressio, per questo prete americano perennemente atteggiato da avventuriero di Wall Street, con le mazze da golf nella fuoriserie, l'Avana incollato alle labbra, le stupende segreterie bionde e gli amici di poker della P2.

Con il successore di papa Luciani, Marcinkus trova subito un'intesa. A Karol Wojtyla piace molto quel figlio di immigrati dell'Est che parla bene il polacco, odia i comunisti e sembra così sensibile alle lotte di Solidarnosc. Quando i magistrati di Milano spiccano mandato d'arresto nei confronti di Marcinkus, il Vaticano si chiude come una roccaforte per proteggerlo, rifiuta ogni collaborazione con la giustizia italiana, sbandiera i passaporti esteri e l'extraterritorialità. Ci vorranno altri dieci anni a Woytjla per decidersi a rimuovere uno dei principali responsabili del crac Ambrosiano dalla presidenza dello Ior. Ma senza mai spendere una parola di condanna e neppure di velata critica: Marcinkus era e rimane per le gerarchie cattoliche "una vittima", anzi "un'ingenua vittima".

Dal 1989, con l'arrivo alla presidenza di Angelo Caloia, un galantuomo della finanza bianca, amico e collaboratore di Gianni Bazoli, molte cose dentro lo Ior cambiano. Altre no. Il ruolo di bonificatore dello Ior affidato al laico Caloia è molto vantato dalle gerarchie vaticane all'esterno quanto ostacolato all'interno, soprattutto nei primi anni. Come confida lo stesso Caloia al suo diarista, il giornalista cattolico Giancarlo Galli, autore di un libro fondamentale ma introvabile, Finanza bianca (Mondadori, 2003). "Il vero dominus dello Ior - scrive Galli - rimaneva monsignor Donato De Bonis, in rapporti con tutta la Roma che contava, politica e mondana. Francesco Cossiga lo chiamava Donatino, Giulio Andreotti lo teneva in massima considerazione. E poi aristocratici, finanzieri, artisti come Sofia Loren. Questo spiegherebbe perché fra i conti si trovassero anche quelli di personaggi che poi dovevano confrontarsi con la giustizia. Bastava un cenno del monsignore per aprire un conto segreto".

A volte monsignor De Bonis accompagnava di persona i correntisti con i contanti o l'oro nel caveau, attraverso una scala, in cima alla torre, "più vicino al cielo". I contrasti fra il presidente Caloia e De Bonis, in teoria sottoposto, saranno frequenti e duri. Commenta Giancarlo Galli: "Un'aurea legge manageriale vuole che, in caso di conflitto fra un superiore e un inferiore, sia quest'ultimo a soccombere. Ma essendo lo Ior istituzione particolarissima, quando un laico entra in rotta di collisione con una tonaca non è più questione di gradi".

La glasnost finanziaria di Caloia procede in ogni caso a ritmi serrati, ma non impedisce che l'ombra dello Ior venga evocata in quasi tutti gli scandali degli ultimi vent'anni. Da Tangentopoli alle stragi del '93 alla scalata dei "furbetti" e perfino a Calciopoli. Ma come appare, così l'ombra si dilegua. Nessuno sa o vuole guardare oltre le mura impenetrabili della banca vaticana.

L'autunno del 1993 è la stagione più crudele di Tangentopoli. Subito dopo i suicidi veri o presunti di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, la mattina del 4 ottobre arriva al presidente dello Ior una telefonata del procuratore capo del pool di Mani Pulite, Francesco Saverio Borrelli: "Caro professore, ci sono dei problemi, riguardanti lo Ior, i contatti con Enimont...". Il fatto è che una parte considerevole della "madre di tutte le tangenti", per la precisione 108 miliardi di lire in certificati del Tesoro, è transitata dallo Ior. Sul conto di un vecchio cliente, Luigi Bisignani, piduista, giornalista, collaboratore del gruppo Ferruzzi e faccendiere in proprio, in seguito condannato a 3 anni e 4 mesi per lo scandalo Enimont e di recente rispuntato nell'inchiesta "Why Not" di Luigi De Magistris. Dopo la telefonata di Borrelli, il presidente Caloia si precipita a consulto in Vaticano da monsignor Renato Dardozzi, fiduciario del segretario di Stato Agostino Casaroli. "Monsignor Dardozzi - racconterà a Galli lo stesso Caloia - col suo fiorito linguaggio disse che ero nella merda e, per farmelo capire, ordinò una brandina da sistemare in Vaticano. Mi opposi, rispondendogli che avrei continuato ad alloggiare all'Hassler. Tuttavia accettai il suggerimento di consultare d'urgenza dei luminari di diritto. Una risposta a Borrelli bisognava pur darla!". La risposta sarà di poche ma definitive righe: "Ogni eventuale testimonianza è sottoposta a una richiesta di rogatoria internazionale".

I magistrati del pool valutano l'ipotesi della rogatoria. Lo Ior non ha sportelli in terra italiana, non emette assegni e, in quanto "ente fondante della Città del Vaticano", è protetto dal Concordato: qualsiasi richiesta deve partire dal ministero degli Esteri. Le probabilità di ottenere la rogatoria in queste condizioni sono lo zero virgola. In compenso l'effetto di una richiesta da parte dei giudici milanesi sarebbe devastante sull'opinione pubblica. Il pool si ritira in buon ordine e si accontenta della spiegazione ufficiale: "Lo Ior non poteva conoscere la destinazione del danaro".

Il secondo episodio, ancora più cupo, risale alla metà degli anni Novanta, durante il processo per mafia a Marcello Dell'Utri. In video conferenza dagli Stati Uniti il pentito Francesco Marino Mannoia rivela che "Licio Gelli investiva i danari dei corleonesi di Totò Riina nella banca del Vaticano". "Lo Ior garantiva ai corleonesi investimenti e discrezione". Fin qui Mannoia fornisce informazioni di prima mano. Da capo delle raffinerie di eroina di tutta la Sicilia occidentale, principale fonte di profitto delle cosche. Non può non sapere dove finiscono i capitali mafiosi. Quindi va oltre, con un'ipotesi. "Quando il Papa (Giovanni Paolo II, ndr) venne in Sicilia e scomunicò i mafiosi, i boss si risentirono soprattutto perché portavano i loro soldi in Vaticano. Da qui nacque la decisione di far esplodere due bombe davanti a due chiese di Roma". Mannoia non è uno qualsiasi.

E' secondo Giovanni Falcone "il più attendibile dei collaboratori di giustizia", per alcuni versi più prezioso dello stesso Buscetta. Ogni sua affermazione ha trovato riscontri oggettivi. Soltanto su una non si è proceduto ad accertare i fatti, quella sullo Ior. I magistrati del caso Dell'Utri non indagano sulla pista Ior perché non riguarda Dell'Utri e il gruppo Berlusconi, ma passano le carte ai colleghi del processo Andreotti. Scarpinato e gli altri sono a conoscenza del precedente di Borrelli e non firmano la richiesta di rogatoria. Al palazzo di giustizia di Palermo qualcuno in alto osserva: "Non ci siamo fatti abbastanza nemici per metterci contro anche il Vaticano?".

Sulle trame dello Ior cala un altro sipario di dieci anni, fino alla scalata dei "furbetti del quartierino". Il 10 luglio dell'anno scorso il capo dei "furbetti", Giampiero Fiorani, racconta in carcere ai magistrati: "Alla Bsi svizzera ci sono tre conti della Santa Sede che saranno, non esagero, due o tre miliardi di euro". Al pm milanese Francesco Greco, Fiorani fa l'elenco dei versamenti in nero fatti alle casse vaticane: "I primi soldi neri li ho dati al cardinale Castillo Lara (presidente dell'Apsa, l'amministrazione del patrimonio immobiliare della chiesa, ndr), quando ho comprato la Cassa Lombarda. M'ha chiesto trenta miliardi di lire, possibilmente su un conto estero".

Altri seguiranno, molti a giudicare dalle lamentele dello stesso Fiorani nell'incontro con il cardinale Giovanni Battista Re, potente prefetto della congregazione dei vescovi e braccio destro di Ruini: "Uno che vi ha sempre dato i soldi, come io ve li ho sempre dati in contanti, e andava tutto bene, ma poi quando è in disgrazia non fate neanche una telefonata a sua moglie per sapere se sta bene o male".
Il Vaticano molla presto Fiorani, ma in compenso difende Antonio Fazio fino al giorno prima delle dimissioni, quando ormai lo hanno abbandonato tutti. Avvenire e Osservatore Romano ripetono fino all'ultimo giorno di Fazio in Bankitalia la teoria del "complotto politico" contro il governatore. Del resto, la carriera di questo strano banchiere che alle riunioni dei governatori centrali non ha mai citato una volta Keynes ma almeno un centinaio di volte le encicliche, si spiega in buona parte con l'appoggio vaticano. In prima persona di Camillo Ruini, presidente della Cei, e poi di Giovanni Battista Re, amico intimo di Fazio, tanto da aver celebrato nel 2003 la messa per il venticinquesimo anniversario di matrimonio dell'ex governatore con Maria Cristina Rosati.

Naturalmente neppure i racconti di Fiorani aprono lo scrigno dei segreti dello Ior e dell'Apsa, i cui rapporti con le banche svizzere e i paradisi fiscali in giro per il mondo sono quantomeno singolari. E' difficile per esempio spiegare con esigenze pastorali la decisione del Vaticano di scorporare le Isole Cayman dalla naturale diocesi giamaicana di Kingston, per proclamarle "missio sui iuris" alle dirette dipendenze della Santa Sede e affidarle al cardinale Adam Joseph Maida, membro del collegio dello Ior.

Il quarto e ultimo episodio di coinvolgimento dello Ior negli scandali italiani è quasi comico rispetto ai precedenti e riguarda Calciopoli. Secondo i magistrati romani Palamara e Palaia, i fondi neri della Gea, la società di mediazione presieduta dal figlio di Moggi, sarebbero custoditi nella banca vaticana. Attraverso i buoni uffici di un altro dei banchieri di fiducia della Santa Sede dalla fedina penale non immacolata, Cesare Geronzi, padre dell'azionista di maggioranza della Gea. Nel caveau dello Ior sarebbe custodito anche il "tesoretto" personale di Luciano Moggi, stimato in 150 milioni di euro. Al solito, rogatorie e verifiche sono impossibili. Ma è certo che Moggi gode di grande considerazione in Vaticano. Difeso dalla stampa cattolica sempre, accolto nei pellegrinaggi a Lourdes dalla corte di Ruini, Moggi è da poco diventato titolare di una rubrica di "etica e sport" su Petrus, il quotidiano on-line vicino a papa Benedetto XVI, da dove l'ex dirigente juventino rinviato a giudizio ha subito cominciato a scagliare le prime pietre contro la corruzione (altrui).

Con l'immagine di Luciano Moggi maestro di morale cattolica si chiude l'ultima puntata dell'inchiesta sui soldi della Chiesa. I segreti dello Ior rimarranno custoditi forse per sempre nella torre-scrigno. L'epoca Marcinkus è archiviata ma l'opacità che circonda la banca della Santa Sede è ben lontana dallo sciogliersi in acque trasparenti. Si sa soltanto che le casse e il caveau dello Ior non sono mai state tanto pingui e i depositi continuano ad affluire, incoraggiati da interessi del 12 per cento annuo e perfino superiori. Fornire cifre precise è, come detto, impossibile. Le poche accertate sono queste. Con oltre 407 mila dollari di prodotto interno lordo pro capite, la Città del Vaticano è di gran lunga lo "stato più ricco del mondo", come si leggeva nella bella inchiesta di Marina Marinetti su Panorama Economy. Secondo le stime della Fed del 2002, frutto dell'unica inchiesta di un'autorità internazionale sulla finanza vaticana e riferita soltanto agli interessi su suolo americano, la chiesa cattolica possedeva negli Stati Uniti 298 milioni di dollari in titoli, 195 milioni in azioni, 102 in obbligazioni a lungo termine, più joint venture con partner Usa per 273 milioni.

Nessuna autorità italiana ha mai avviato un'inchiesta per stabilire il peso economico del Vaticano nel paese che lo ospita. Un potere enorme, diretto e indiretto. Negli ultimi decenni il mondo cattolico ha espugnato la roccaforte tradizionale delle minoranze laiche e liberali italiane, la finanza. Dal tramonto di Enrico Cuccia, il vecchio azionista gran nemico di Sindona, di Calvi e dello Ior, la "finanza bianca" ha conquistato posizioni su posizioni. La definizione è certo generica e comprende personaggi assai distanti tra loro. Ma tutti in relazione stretta con le gerarchie ecclesiastiche, con le associazioni cattoliche e con la prelatura dell'Opus Dei. In un'Italia dove la politica conta ormai meno della finanza, la chiesa cattolica ha più potere e influenza sulle banche di quanta ne avesse ai tempi della Democrazia Cristiana.
(Hanno collaborato Carlo Pontesilli e Maurizio Turco)

(26 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #7 inserito:: Marzo 14, 2008, 05:45:11 pm »

POLITICA

IL COMMENTO

Il richiamo della foresta

di CURZIO MALTESE


Sarà la convinzione d'avere il sole della vittoria in tasca. Saranno l'età e i chilometri: alla quinta campagna elettorale il repertorio fatalmente si avvizzisce. Sarà che Berlusconi è sempre stato così, ma insomma il livello di gaffes ciniche e volgari assemblato dal Cavaliere in due settimane di campagna elettorale sembra eccessivo perfino agli amanti del genere.

Persi i grandi alibi del sogno e dell'anticomunismo, a Berlusconi sono rimaste soltanto le barzellette. L'intera sua campagna assomiglia a una barzelletta, del genere greve. L'altra sera al Tg2, a una ragazza precaria che gli poneva un problema serio ("Come si può metter su una famiglia con 600 euro al mese?") il candidato premier del centrodestra ha consigliato di sposare Berlusconi junior o "un tipo del genere", un figlio di miliardario. Di fronte al gelo dello studio, il grande comunicatore ha poi improvvisato una risposta seria delle sue, cioè lievemente meno cialtrona.

Non si era ancora spenta l'eco della candidatura di Ciarrapico, giustificata da Berlusconi più o meno così: d'accordo, è un fascista ma possiede giornali "che servono". Il verbo è da intendersi in senso largo. Il passaggio logico in cui il primo editore d'Italia dava per scontato che i giornalisti siano servi dei loro padroni è sfuggito alla già rinomata categoria. Ma in molti pagheremmo una cifra, come si dice a Milano, per vedere Berlusconi ripetere il concetto ai leader del partito popolare europeo, che ieri hanno chiarito di non essere disposti ad accogliere nostalgici di Mussolini.

Poco prima il Cavaliere, per tener fede ai propositi di fair play elettorale, s'era messo a stracciare in pubblico il programma del Pd. La campagna era cominciata peraltro con una solenne presa per i fondelli dei suoi elettori, intorno alla vicenda della candidatura di Clemente Mastella. Berlusconi aveva ammesso di aver offerto la candidatura a Mastella, ai tempi in cui questi era ancora nel centrosinistra, ma d'aver poi deciso di non onorare la promessa, "perché secondo i sondaggi, ci farebbe perdere dall'otto al dieci per cento". Anche qui è passato inosservato il passaggio logico per cui un quarto degli elettori del Pdl sarebbero tanto imbecilli da non distinguere fra un gesto politico convinto, magari dettato da scrupoli etici, e una trovata opportunistica.

Nella democrazia americana, che Berlusconi cita da una vita a modello, una qualsiasi di queste gaffes, per usare un eufemismo, avrebbe comportato l'immediata fine della carriera politica. In Italia, per fortuna sua ma non nostra, offendere le donne, i media, gli avversari e perfino l'intelligenza dei propri elettori, non è considerato grave. Neppure o soprattutto dagli interessati. E' possibile, anzi probabile, che Berlusconi non abbia perso un solo voto dei suoi, né di donne, né di giornalisti, né fra i molti antipatizzanti dell'ex Guardasigilli. Ci sono ben altri problemi, come ripete il Cavaliere. Per esempio la questione della spazzatura a Napoli, per la quale lui stesso non ha fatto nulla nei sette anni di governo.

Il tratto più sorprendente è come Berlusconi, ormai il più anziano leader in attività d'Italia e fra i più anziani del mondo, in tanti anni non abbia raggiunto un grado minimo di dimestichezza con il linguaggio democratico. Il linguaggio che accomuna in Europa e in Nord America tutti i capi di partito, conservatori o progressisti, con sporadiche eccezioni populiste, fenomeni in genere di breve durata o di limitato consenso.

Il richiamo della foresta in lui è sempre più forte di tutto, perfino in una campagna elettorale nata all'insegna della moderazione e, in teoria almeno, vinta in partenza dal centrodestra. Al cinismo berlusconiano il Paese è mitridatizzato da anni. Non manca chi lo considera, fra seguaci e avversari, con divertimento. Si accettano già scommesse sulle barzellette e le battute che il capo potrà sfornare quando incontrerà da premier il primo presidente donna o il primo presidente nero degli Stati Uniti. Tanto, ci saranno sempre "ben altri problemi". Ma se non si riesce a cambiare nemmeno la forma, figurarsi la sostanza.


(14 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #8 inserito:: Giugno 22, 2008, 09:32:07 am »

L'ANALISI

Il morso del Caimano

di CURZIO MALTESE

 

È un po' ingenuo, anzi molto, stupirsi che Berlusconi sia tornato Caimano. Se esiste una persona fedele a se stessa, oltre ogni umana tentazione di dubbio o di noia, questa è il Cavaliere. Era così già molto prima della discesa in politica, con la sua naturale carica eversiva, il paternalismo autoritario, l'amore per la scorciatoia demagogica e il disprezzo irridente per ogni contropotere democratico, a cominciare dalla magistratura e dal giornalismo indipendenti, l'insofferenza per le regole costituzionali, appresa alla scuola della P2.

Il problema non è mai stato quanto e come possa cambiare Berlusconi, che non cambia mai. Piuttosto quanto e come è cambiata l'Italia, che in questi quindici anni è cambiata moltissimo. In parte grazie all'enorme potere mediatico del premier.

Ogni volta che Berlusconi ha conquistato Palazzo Chigi ha provato a forzare l'assetto costituzionale e per prima cosa ha attaccato con violenza la magistratura. Lo ha fatto nel 1994 con il decreto Biondi, primo atto di governo; nel 2001, quando i decreti d'urgenza sulla giustizia furono presentati prima ancora di ricevere la fiducia; e oggi. Con una escalation di violenza nei toni e, ancor di più, nei contenuti dei provvedimenti.

Il pacchetto giustizia di oggi è più eversivo della Cirami e del lodo Schifani, a sua volta più eversivi del "colpo di spugna" del '94. Ma, alla crescente forza delle torsioni imposte da Berlusconi agli assetti democratici, ha corrisposto una reazione dell'opinione pubblica sempre più debole. Nel '94 la rivolta contro la "salva-ladri" azzoppò da subito un governo destinato a durare pochi mesi. Nel 2001 i "girotondi" inaugurarono una stagione di movimenti, con milioni di persone nelle piazze, che si tradussero fin dal primo anno in una serie di pesanti sconfitte elettorali per la maggioranza di centrodestra, pure larghissima in Parlamento.

La terza volta, questa, in presenza di un tentativo ancora più clamoroso di far saltare i cardini della magistratura indipendente, la reazione è molto debole. L'opposizione, accantonate le illusioni di dialogo, annuncia una stagione di lotte, ma non ora, in autunno. La cosiddetta società civile sembra scomparsa dalla scena. I magistrati sono gli unici a ribellarsi con veemenza, ma sembrano isolati, almeno nei sondaggi. Quasi difendessero la propria corporazione e non i diritti e la libertà di tutti, così come l'hanno disegnata i padri della Costituzione.

Ecco che la questione non è che cosa sia successo a Berlusconi (nulla), ma che cosa è successo al Paese. Siamo davvero diventati un "paese un po' bulgaro", come si è lasciato sfuggire il demiurgo pochi giorni fa? La risposta, purtroppo, è sì.

In questo quarto di secolo che non ha cambiato Berlusconi, l'Italia è cambiata molto e in peggio, il tessuto civile e sociale si è logorato, il senso comune è stato modellato su pulsioni autoritarie. Molti discorsi che si sentono negli uffici, nei bar, sulle spiagge oggi, da tutti e su tutto, si tratti di immigrazione o di giustizia, di diritti civili come di religione, di Europa o di sindacati, nell'Italia del '94 sarebbero stati inimmaginabili.

Il berlusconismo è partito dalla pancia di un Paese dove la democrazia non si è mai compiuta fino in fondo, per mille ragioni (ragioni di destra e di sinistra), ma ora ha invaso tutti gli organi della nazione ed è arrivato al cervello. La mutazione genetica della società italiana è evidente a chi ci guarda da fuori. Perfino negli aspetti superficiali, di pelle: non eravamo mai stati un popolo "antipatico", com'è oggi. Più seriamente, il ritorno di Berlusconi al potere e le sue prime e devastanti uscite hanno evocato i peggiori fantasmi sulla scena internazionale.

Si tratta però di vedere se il "caso Italia" è tale anche per gli italiani. Se nell'opinione pubblica esistano ancora quei reagenti democratici che hanno impedito nel '94 e nel 2001 la deriva, più o meno morbida, verso un regime. I segnali sono contraddittori, la partita è aperta. Certo, in questi decenni la forza d'urto del populismo berlusconiano è andata crescendo, così come la presa su pezzi sempre più ampi di società. Non si tratta soltanto di potere delle televisioni o dell'editoria, ma di una vera e propria egemonia culturale. E sorprende che nell'opposizione, gli ex allievi di Gramsci, ancora oggi, a distanza di tanto tempo, non comprendano i meccanismi e la portata della strategia in atto.

Altro che "l'onda lunga" di craxiana memoria. Anche loro, purtroppo, non cambiano mai. Si erano illusi (ancora!) di trasformare Berlusconi in uno statista, offrendogli un tavolo di trattative. S'illudono (ancora!) di poter resistere con la politica del "giù le mani" e con l'arroccarsi nelle regioni rosse, che sono già rosa pallido e rischiano prima o poi di finire grigie o nere. In attesa di tempi migliori.

Non ci saranno tempi migliori per l'opposizione. Bisogna trovare qui e ora il coraggio di proposte forti e alternative al pensiero unico dominante, invenzioni in grado di suscitare dibattito e bucare così la plumbea egemonia "bulgara" dell'agenda governativa. Bisogna farsi venire qualche idea, anzi molte, una al giorno, per svegliare l'opinione pubblica democratica dal torpore ipnotico con cui segue gli scatti in avanti di Berlusconi. Lo stesso torpore ipnotico che coglie la preda davanti alle mosse del caimano. Che alla fine, attacca.

(21 giugno 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #9 inserito:: Luglio 10, 2008, 05:11:43 pm »

POLITICA IL COMMENTO

Show-business sul palco

di CURZIO MALTESE

 
ROMA - Manifestazioni come quella di Piazza Navona dell'altro giorno sono show business. Servono a sfogare i sentimenti di un pubblico di spettatori, servono ai protagonisti a vendere merci sul mercato: libri, dvd, spettacoli teatrali. Non servono a cambiare le cose. Quindi non sono politica. I guai cominciano se si scambia lo show business per politica e lo si prende sul serio.

Quando Beppe Grillo o Sabina Guzzanti o altri comici sanno di dover intervenire a una manifestazione pubblica, riuniscono i loro autori e chiedono un "pezzo" efficace. Un testo per una riunione politica è diverso da un testo comico per il teatro, ma segue regole rigide. Non dev'essere serio ma neppure troppo divertente: sarebbe un errore. Si bruciano belle battute del repertorio, che è giusto riservare al pubblico pagante dei teatri e dei palazzetti. Oltretutto, se la gente ride troppo, pensa. E se pensa non si scalda abbastanza, non urla. Bisogna dunque tenere alto il livello dell'emozione e "spararle grosse". Contro un bersaglio non scontato. Altrimenti non si fa notizia. Occorre anche valutare se alla manifestazione parteciperanno altri comici, come nel caso di piazza Navona. In tal caso il livello di fuoco aumenta, perché si corre il rischio di essere oscurati dalla concorrenza, in gergo televisivo "impallati".

La logica è simile a quella che si segue per lanciare un film o un libro in una comparsata televisiva importante, uno show del sabato sera o il festival di Sanremo. È inutile parlare del prodotto in sé, perché il pubblico se lo aspetta e si perde l'effetto sorpresa. Benigni, quando doveva lanciare un film, non andava a parlare del film da Baudo o dalla Carrà ma s'inventava memorabili performances, tipo toccare gli attributi di Baudo o palpare le curve della Raffaella nazionale, con gran successo di promozione. Non tutti naturalmente, parlando di sesso o di altri temi "bassi" - penso al magnifico "Inno del corpo sciolto" - mostrano il talento di poeta contadino di Roberto. Le allusioni sessuali comunque funzionano sempre, soprattutto in Italia. Un altro trucco è attaccare un bersaglio imprevisto e in teoria intoccabile. Insomma, se Grillo o la Guzzanti si fossero limitati ad attaccare Berlusconi, nessuno ne avrebbe parlato. Per questo, hanno spostato l'obiettivo sul presidente della Repubblica e sul Papa.

Nulla è lasciato al caso. Si tratta di strategie calcolate, testi scritti e riscritti, trucchi del mestiere di grandi teatranti. Stiamo parlando di professionisti. Dello spettacolo. Scambiati per professionisti della politica. Da un punto di vista morale saranno discutibili. Ma che c'entrano la morale o la politica? In Italia, nel volgere di pochi secoli, si è finalmente capito che etica e politica sono separate. Per la verità, lo si è capito fin troppo. Un giorno si capirà che anche politica e spettacolo sono campi separati. Per ora, il giorno è lontano.

Gli eventi creati di Beppe Grillo, dai Vaffa Day in poi, non sono azioni politiche. Il fine non è cambiare le cose, ma accrescere la popolarità del protagonista. Basterebbe un po' di lucida attenzione per comprenderlo. Purtroppo, chi vi partecipa e chi li osteggia non brilla in lucidità. La maggior parte dei bersagli di Grillo sono irrilevanti, innocui oppure marginali. Che importanza volete che abbia la presenza di diciotto parlamentari condannati in Parlamento, su mille, quando ce ne sono stati in passato due, tre, cinque volte tanti e 200 inquisiti? D'altra parte se la presenza in politica di un pregiudicato fosse un tema così importante, i seguaci di Grillo non si affiderebbero a lui, che ha una condanna definitiva e ricopre un ruolo politico, per quanto improprio, assai più importante dei diciotto messi assieme. Lo stesso discorso vale per altri obiettivi, come il doppio mandato, l'ordine dei giornalisti, i finanziamenti ai giornali di partito. Tutte storture, tutte battaglie condivisibili, s'intende, ma quisquilie. Nel caso del referendum sulla legge Gasparri non si tratta di una quisquilia, ma è ancora peggio. È un suicidio politico. Se si votasse oggi, quel referendum sarebbe una catastrofe per l'opposizione e un trionfo per Berlusconi.

Ma la cosa più probabile è che il referendum non si faccia, per fortuna. Nessuna delle altre proposte avrà poi uno sbocco politico. Che senso ha dunque sbattersi tanto? Senso politico, nessuno. Ma il comico ha enormemente aumentato il proprio seguito, pubblico, clientela. Dico subito che trovo indegno e ridicolo ogni moralismo in proposito. Grillo è un uomo di spettacolo, è grottesco giudicarlo sulla base di un metro politico o etico. In più, se guadagna tanto, se lo merita. Ha fatto scelte coraggiose che gli hanno impedito di accedere alla principale fonte di arricchimento degli attori, la televisione pubblica e privata. È giusto che si cerchi altre audience. Il blog è la principale alternativa e lui lo ha intuito fra i primi. Ma se fosse un po' più sincero, dovrebbe ammettere che il suo blog non è tanto uno strumento di lotta politica e confronto di opinioni (peraltro, sono tutti d'accordo) quanto un fenomenale punto vendita di merci autoprodotte. O quanto meno è l'uno e l'altro. Grillo è dotato di un altro talento tipico dei comici, la scelta dei tempi. I suoi interventi sono ottimamente calibrati. Non frequenti, non distanti.

Appena calano l'attenzione e le vendite, ecco l'evento, il vaffanculo col botto mediatico. Nelle settimane successive, le vendite e la popolarità schizzeranno di nuovo alle stelle. Gli altri hanno capito e lo imitano. Oggi la frase che gli agenti di spettacolo si sentono ripetere più spesso dagli attori, ma ormai perfino da registi, scrittori e professori di diritto comparato col saggio in uscita, è "facciamo una cosa alla Grillo, facciamo un gran casino". S'intende, per lanciare il prodotto. I più avveduti o i più aristocratici, come Nanni Moretti, si sono sottratti per tempo alla trappola.

L'interesse delle persone di spettacolo a usare eventi politici a fini di popolarità e commerciali è insomma piuttosto evidente. Come dovrebbero essere chiare le analogie di meccanismo e di linguaggio fra queste tecniche e il populismo berlusconiano. Misteriosa è invece la ragione per cui i politici e gli organizzatori si prestino a queste operazioni di marketing, dalle quali hanno tutto da perdere. Paolo Flores ha il grande merito di aver avviato con la manifestazione del Palavobis del 2002 la stagione dei movimenti che, negli anni successivi, riempì le piazze italiane di milioni di persone. Da storico e filosofo di valore, può stimare lui stesso l'abissale distanza che separa la sobria e feconda forza politica del Palavobis di allora con la sguaiata impotenza di Piazza Navona. L'ultima adunata non avvierà una stagione di protesta. Al contrario, può aver contribuito a stroncarla sul nascere.

I toni, i modi, l'eco mediatica per quanto parziale e magari ingiusta dell'evento, hanno contribuito a rafforzare il disegno del "nemico" berlusconiano. Il quale da anni cerca di rovesciare la questione centrale della criminalità delle classi dirigenti italiane nel suo contrario, l'emarginazione fra gli estremisti di chi difende la magistratura e i valori della Costituzione. Con gli insulti di piazza Navona gli si è reso un enorme favore.

Quanto ad Antonio Di Pietro, non gode forse degli stessi strumenti culturali di Flores, ma ha di sicuro fiuto politico. Capirà prima o poi che la strada in cui si è messo porta a un finale scontato: Grillo in cima alle classifiche dei best sellers e l'Italia dei Valori allo 0,5 per cento dei voti. Perché prima o poi gli toccherà dissociarsi, anzi ha già cominciato, e sarà bollato come codardo e venduto.

Ma in questo scambio di favori ed equivoci fra primedonne, l'unico aspetto che davvero intristisce è l'inganno del pubblico. Le persone che sono andate a Piazza Navona da cittadini e si sono ritrovati spettatori, come sempre. Hanno applaudito un idolo che attaccava un altro idolo. Portando a casa la sera il tacito, amaro dubbio che le cose non cambieranno. E come potrebbero? A colpi di eventi? Gli show servono a consolare, non a cambiare la realtà. Lo show di Berlusconi, che rimane l'inventore del metodo, si rappresenta da quindici anni e l'Italia è il paese meno cambiato al mondo. Soltanto ogni giorno un po' più volgare, ignorante e incattivito. È la politica che cambia le cose, e quella non c'è più.

(10 luglio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Ottobre 24, 2008, 10:26:09 am »

SCUOLA & GIOVANI   

Roma, l'Onda occupa senza nostalgie.

Non ci sono le assemblee oceaniche del '68 né le tensioni violente del '77.

"Movimento più partecipato degli ultimi trent'anni"

L'ira dei ragazzi miti "Berlusconi ci teme"

"Ho 22 anni, e vivo ogni giorno sotto ricatto. Ora sono stufo. Finalmente posso respirare"

di CURZIO MALTESE


 ROMA - "Sai cosa c'è? Alla fine uno si rompe le balle di avere paura. Ho 22 anni e vivo ogni giorno a sotto ricatto. Paura di non farcela a riscattare tutti i crediti, del contratto da precario in scadenza, di non poter più pagare l'affitto e dover tornare dai miei, di non trovare un vero lavoro dopo la laurea, della crisi mondiale e dell'aumento delle bollette. Campo a testa china e tiro avanti sperando che domani sia migliore. Ma se mi dicono che domani non c'è più, l'hanno tagliato nella finanziaria, allora basta. Non mi spaventa più Berlusconi che dice di voler mandare la polizia. Non mi spaventa nulla, sono stufo. E finalmente, respiro". Marco è uno degli studenti della Sapienza che occupano la facoltà di Lettere. È lui ad aver proposto in assemblea alla Sapienza lo striscione che oggi è su tutte le facoltà occupate d'Italia: "Io non ho paura", in risposta alle minacce di Berlusconi, al solito smentite. "Non scrivere leader, che mi sfottono. Promesso?".

Sono le nove e sulla Roma autunnale è calata un'improbabile notte di primavera. Improbabile come questo movimento, nato nel momento peggiore, cresciuto oltre ogni previsione, senza neppure il tempo di darsi un nome. Per trovarlo hanno indetto un referendum sul sito della rivolta universitaria, www.UniRiot.org, e l'ha spuntata "Onda anomala". In breve, "l'onda", "noi dell'onda" dicono, come fossero contradaioli.

Avete presente il '68, il '77? Altra storia. L'arrivo alla facoltà occupata è confortante o deludente per chi ha in mente e negli occhi la Sapienza delle assemblee oceaniche sessantottine o il teatro di guerra della cacciata di Lama. C'è un gran silenzio. Si sentono echi di radiocronache di pallone, autoambulanze lontane, perfino un coro classico che prova nella facoltà di Fisica. Pochi ragazzi nella piazza, sui viali qualche sperduto capannello. Vuoi vedere che è la solita montatura nostalgica di un '68 che non può tornare? Ma dentro le aule, i dipartimenti brulicano di centinaia di ragazzi che discutono, studiano, lavorano al computer, organizzano le manifestazioni del gran giorno, oggi, davanti al Senato. Tessono reti in tutta Italia ed è un bollettino di guerra: "Ore 11: Occupata Roma Tre! Ore 15: occupata Ingegneria! Ore 19: occupata l'Orientale di Napoli!". E poi Firenze, Cagliari, Napoli, Bologna: "Stiamo vincendo!". Giancarlo Ruoco, capo dipartimento di Fisica, 49 anni, un passato giovanile nei movimenti, osserva: "Il paragone di numeri col '77 è improponibile, ma di sicuro questo è il movimento studentesco più partecipato degli ultimi trent'anni. Non c'è Pantera o protesta contro la riforma Moratti che tenga. Allora eravamo quasi più docenti che studenti in piazza. Ora sono il doppio, il triplo, e sembrano decisi ad andare fino in fondo"

Quando i telegiornali della sera hanno diffuso il diktat poliziesco di Berlusconi, i ragazzi più grandi hanno brindato con birre e applausi, fra gli sguardi perplessi e intimoriti delle matricole. Che c'è da festeggiare se il premier minaccia manganellate? "Il fatto è che gli stiamo mettendo paura, noi a loro. È la reazione scomposta di uno che si sente debole, che non si aspettava tutto questo, non ha una strategia e pensa di risolvere al solito modo, con la polizia, come si trattasse di rifiuti, camorra o periferie insicure". Chi parla è Luca, 23 anni, un'ottima laurea in lettere a Milano, venuto a Roma per specializzarsi in filologia romanza. È di Monza: "Perfino lì hanno cacciato la Gelmini da un comizio, e non se l'aspettava. A Monza, dov'è nata la Lega, cinquant'anni di Dc. Non hanno proprio capito che la politica non c'entra, la sinistra qui non comanda niente. Quando è venuta la ragazza mandata da Veltroni (Giulia Innocenzi, ndr), chiaramente in vista della manifestazione di sabato, le abbiamo strappato i volantini. La Cgil ha cercato di mettere il cappello sul movimento e li abbiamo costretti ad arrotolare le bandiere rosse. Per me il Pd significa poco, l'opposizione è inesistente, Berlusconi non è chissacché, non mi suscita nessun sentimento. È soltanto un vecchio che fa discorsi vecchi. Insomma, qui non c'entra la politica, c'entra la vita. Il mio futuro, quello di Francesco, Vanessa, Ilaria...".

"La mia vita attuale è questa. Studio come un pazzo per finire in fretta e bene, lavoro in un call center, dormo in una camera a 500 euro al mese. E sopporto pure che un Padoa- Schioppa o un Brunetta o una Gelmini mi diano del bamboccione o del fannullone. Ma non che taglino i fondi all'università per fare affari con l'Alitalia, aiutare la Fiat o le banche dei loro amici. La crisi io non la pago. Questa settimana di proteste è stata la più bella esperienza di questi anni. Si respira, si parla, si discute dei sogni, del futuro. Penso sia un mio diritto. Ai vostri tempi era magari diverso. I corsi universitari duravano mesi, avevi sempre gli stessi compagni, gli stessi professori. In ufficio o in fabbrica eri solidale con l'altro operaio o impiegato. Ora io seguo decine di corsi dove non incontro mai le stesse persone e poi lavoro in un call center dove il mio vicino di scrivania cambia sempre, a ogni turno, senza contare che abbiamo tutti le cuffie e non c'è neppure la pausa caffè. In questi giorni ho alzato la testa, mi sono guardato intorno, ho conosciuto studenti da tutta Italia, mi sento vivo".

E' un rivolta di bravi ragazzi, della nostra meglio gioventù. Non è una rivolta contro i padri, come furono le altre, ma di giovani che prendono sul serio le parole dei padri. Vogliono studiare, uscire di casa, fare carriera per meriti e non per conoscenze, crescere insomma e scoprono che in Italia non è possibile. Non è possibile per un giovane essere "normale". Da qui la rabbia di questi ragazzi miti. Anche un po' secchioni. Luca e altri, con Francesco e Vanessa, ieri ospiti di Santoro, hanno tirato l'alba a studiare la legge Gelmini nei minimi particolari, scovando un'infinita serie di contraddizioni. Un bel lavoro e anche una lezione per l'opposizione parlamentare che deve aspettare la Gabanelli per accorgersi della norma salvamanager infilata nel decreto Alitalia. "La legge è piena di cazzate" mi spiegano "Taglia i fondi per la ricerca, che in Italia è l'uno per cento del Pil contro il tre della media europea e del trattato di Lisbona. Riduce il numero dei ricercatori che da noi sono tre ogni mille abitanti, contro l'obiettivo di otto. Non taglia le sedi universitarie, che in Italia sono 115, più di una per provincia, con decine di corsi frequentati da un solo studente. Soltanto Roma ha sedi decentrate a Civitavecchia, Rieti, Pomezia: Ma quelle rispondono a interessi clientelari".

Ilaria, che incontro a Fisica, "ci vediamo sotto la lapide di Fermi", snocciola dati statistici come formule, sospira e conclude: "Non che m'interessi più di tanto, perché fra un anno vado in Inghilterra. Però mi sembra giusto dirlo, protestare finché si può". Il Dipartimento di Fisica, quello di Fermi e Amaldi, è il fiore all'occhiello della gloriosa e ormai sfasciata Sapienza. E' quarta nelle classifiche europee, fra le prime dieci del mondo, dentro un'università che non compare neppure fra le prime cento. La fuga dei cervelli all'estero è la norma e cresce di anno in anno.

Nell'"Onda" Fisica è stato il laboratorio creativo. Il corpo docente, fra i migliori d'Italia, ha appoggiato senza riserve la protesta. "Tanto con l'appello contro la lectio magistralis del Papa ci aveva già criminalizzato. Peggio non può succedere". Fernando Ferroni, professore di fisica delle particelle elementari, presidente dell'istituto nazionale di fisica nucleare, uno degli scienziati che ha collaborato all'accensione dell'Lhc al Cern di Ginevra, è solidale ma pessimista sulle sorti dell'Onda: "Hanno ragione da vendere ma il clima culturale è il peggiore possibile. Non c'è sensibilità per questioni complesse come la formazione, la ricerca. Il governo fa discorsi primitivi, insensati ma efficaci. L'opposizione ne sa poco o nulla. Non ha capito la portata del disegno. Qui stanno dismettendo l'istruzione pubblica, un pezzo per volta. E' una cosa mai successa in nessuna parte del mondo civile. Negli Stati Uniti, il paese più malato di iper capitalismo, l'università pubblica rimane ancora fortissima. Uno studente di Fisica può scegliere di pagare quattromila dollari a Berkeley o quarantamila a Stanford, ma la qualità è la stessa, alla fine si spartiscono lo stesso numero di premi Nobel. Per non parlare dell'Europa. Qui invece fra pochi anni l'istruzione pubblica, di questo passo, sarà relegata alla marginalità, alla serie B, a quelli che non possono permettersi di meglio. Il tema è enorme, tocca l'essenza dei diritti di cittadinanza, ma temo che non passerà. Criminalizzeranno la protesta, faranno scoppiare qualche incidente, e i media andranno dietro l'onda, l'altra, quella del potere. Bisognerebbe bucare questo muro di conformismo, ma come?"

Gli studenti si sono posti il problema d'"inventarsi qualcosa di nuovo", ne discutono in assemblea, su Internet, chiedono idee, consigli. "L'importante è evitare paragoni col passato, gli slogan in rima, le bandiere della politica, le stesse forme di lotta di fronte alle quali la gente dice "l'ho già visto"e passa oltre" spiega Laura, 23 anni, delegata alla comunicazione di Fisica. "Ci siamo inventati le lezioni in pubblico, con la lavagna a Piazza Farnese, un successo con i passanti che si fermavano a chiedere. Venerdì (oggi, ndr) saremo a Montecitorio".

Sono rimasti a discutere le nuove forme di lotta fino alle tre, poi è entrato Stefano con le birre. "Che ha fatto la Roma?" "Lasciamo perdere... Aò, ma la volete smettere col dibattito? E fateve 'na birra, 'na canna, che so". Bisogna fare la colletta per i cornetti. Che cosa? "Al picchettaggio offriamo cornetti agli studenti che vogliono entrare. Li hai mai visti i picchetti con i cornetti? Lo voglio vedere Berlusconi che manda l'esercito. A noi non ci fregano con le provocazioni, non ci vedrai mai fare questo". E mostra il gesto della P38". Chissà se non li fregano. Quarant'anni fa era cominciato con le colazioni ai bambini poveri, i sit-in pacifici, il clima da "Fragole e sangue", ingenuo e fiducioso. Fino alla prima carica della polizia. Stefano prende la chitarra, sono ormai le tre, per tenere sveglia la truppa. Nella musica sono conservatori, l'eterno rock, i vecchi cantautori, da De Andrè a Ligabue, che ormai viaggia per i cinquanta. Alle quattro crolla pure il cantante, qualcuno si rinchiude nei sacchi a pelo, altri s'infrattano, qualcuno riprende a discutere fino all'alba, a parlare dei propri sogni, come tutti a vent'anni, mentre il sole sorge sempre da un'altra parte.

(24 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #11 inserito:: Ottobre 27, 2008, 03:17:24 pm »

POLITICA   

Segnale forte ai leader: gli slogan e gli striscioni raccontano il disagio e la protesta crescente di milioni di italiani

Da San Giovanni al Circo Massimo

Quella folla è l'Italia in rivolta

Molte le analogie, a ruoli invertiti, con la manifestazione di Berlusconi del 2006 contro il governo Prodi

di CURZIO MALTESE


 Finalmente, in piazza. Presto o tardi? L'Altan di giugno: "Si va in piazza in autunno" "A che ora?". Il Massimo Cacciari di ieri: "E' una manifestazione fatta con cinque mesi d'anticipo". Sembra sempre impossibile mettere insieme le tante anime del centrosinistra. Ma Veltroni c'è riuscito. Presto o tardi, erano moltissimi, una marea che ha riempito l'enorme Circo Massimo oltre ogni previsione.

Il Partito Democratico, con appena un anno di vita, per giunta assai travagliata, a soli sei mesi da una sconfitta tremenda e in fondo a un tunnel di depressione, ha dimostrato, anzitutto a sé stesso, di poter mobilitare più persone di qualsiasi altra forza politica europea e forse occidentale. Per il Pd la giornata di ieri vale come l'atto fondante delle primarie e forse di più. E' il segnale forte dell'elettorato di andare avanti, magari con più coraggio. Molto più coraggio. E perché no? Con un po' d'allegria.

La piazza del 25 ottobre ha due soli paragoni possibili negli anni recenti. Con altre due piazze della capitale che hanno cambiato il corso della storia: la manifestazione della Cgil nel marzo del 2002 e il comizio di Berlusconi a Piazza San Giovanni nel dicembre del 2006. Il parallelo con la piazza di Cofferati ha ossessionato, com'era ovvio, la vigilia. E' lo stesso il teatro, d'immensa suggestione, il Circo Massimo. E' lo stesso il clima politico. Il governo Berlusconi viaggiava sulle ali di una lune di miele seguita a un'ampia vittoria, l'opposizione pareva annichilita. E' identico l'organizzatore, il mitico Achille Passoni, ex Cgil e ora senatore Pd, una specie di mago delle piazze.

Perfino l'ingombrante presente di Sergio Cofferati nel retropalco, garantiva il tocco decisivo di revival. Quella manifestazione, come questa, fu la risposta coraggiosa e vincente di una grande forza in grave difficoltà, la Cgil, scelta dal governo dell'epoca come capro espiatorio della crisi e martellata da una poderosa campagna mediatica. Il successo della giornata rovesciò il clima politico, decretò la fine della luna di miele governativa.

Dimostrò la fragilità del decisionismo berlusconiano quando si tratta di passare dall'immagine, dalla facciata, alle azioni concrete e serie nel corpo sociale, come la sciagurata guerra sull'articolo 18.

In realtà sono molte anche le analogie, sia pure a ruoli invertiti, con la San Giovanni del 2006. Un capolavoro politico di Berlusconi, fra i più notevoli della sua parabola. Nel momento di maggiore crisi del centrodestra, a pochi mesi dalla sconfitta elettorale e in piena bagarre dentro il Polo, con Casini che manifestava altrove e parlava apertamente di fine del berlusconismo, l'ormai settantenne Cavaliere rovesciò il tavolo con un colpo spettacolare. In un solo giorno dimostrò da un lato agli alleati l'inevitabilità della propria leadership e dall'altra all'avversario l'intatto fascino esercitato dal suo populismo su milioni d'italiani. "L'asso pigliatutto" era il titolo del commento di Eugenio Scalfari. San Giovanni fu il primo e decisivo passo di un'efficacissima strategia che riportò Berlusconi a Palazzo Chigi in appena un anno e mezzo.

Walter Veltroni non ha oggi all'interno del suo campo la forza e l'ascendente del Berlusconi del 2003 e il suo avversario è assai più compatto e deciso, rispetto all'arlecchinesca coalizione che sosteneva, si fa per dire, l'ultimo governo Prodi. Ma la folla del Circo Massimo gli ha fornito uno strumento formidabile per cambiare la storia. A patto di servirsene. I temi, le parole, gli slogan erano ieri davanti ai suoi occhi. Scritti sugli striscioni, urlati dalla gente, sottolineati dagli applausi ogni volta che il discorso dal palco li toccava o sfiorava.

Là davanti. Non dietro, sul palco dov'era schierata la nomenclatura e dove da quindici anni si esaurisce il dibattito politico del centrosinistra. Ma fra le persone normali. Come nel 2002 il governo Berlusconi sta scivolando sulla buccia di banana di una battaglia ideologica. All'epoca fu l'attacco al sindacato, attraverso l'insensato (anche da un punto di vista economico) assalto all'articolo 18. Oggi il governo è partito alla guerra contro il mondo della scuola, considerato riserva di caccia della sinistra.
Senza rendersi conto di aver creato in poche settimane un fronte di protesta assai più ampio e trasversale del previsto. Un fronte che va dagli studenti universitari ai professori, ai maestri, fino al cuore delle famiglie. Non è una lotta politicamente etichettata. Al Circo Massimo c'erano più giovani del solito ma sarebbe truffaldino sostenere che vi fossero masse di studenti, semmai molti insegnanti e genitori mobilitati in questi mesi contro i tagli scolastici. E tuttavia la protesta della scuola è politica, vera politica.

Altrettanto politico è il disagio crescente di milioni d'italiani né di destra né di sinistra che si vedono ogni giorno scippare un pezzo di stato sociale pagato con le tasse, per finanziare improbabili ricette da vecchio capitalismo di stato, rottamazioni, salvataggi di banche, ponti in odore di mafia e oscure cordate tipo Alitalia.

Basta ascoltare il disagio. "Ascoltare" è uno dei verbi più usati nei discorsi dell'idolo di Veltroni, Barack Obama. Non solo di Veltroni. "Obama, Obama" è il grido che ha salutato ieri il bellissimo, appassionato discorso di Jean Renet Bilongo, un uomo del Camerun che vive a Castel Volturno. Il genio del senatore Barack Obama è stato l'aver ascoltato per anni il disagio del ceto medio e averlo tradotto in politica, riuscendo a far passare soprattutto un concetto, uno solo ma decisivo: l'inadeguatezza dei repubblicani ad amministrare la crisi economica.

Ora, l'inadeguatezza di Berlusconi è un dato scontato in tutto il mondo, tranne che in Italia. Nella battuta più felice del discorso, Veltroni ha fatto notare che se Merkel, Sarkozy o Gordon Brown avessero detto le stesse follie sparse dal nostro premier lungo tutta la crisi, ci sarebbero state reazioni enormi all'estero. "Mentre se le dice Berlusconi non succede nulla, perché sanno chi è". Lo sa anche il quaranta per cento degli italiani. Bisogna convincere qualcun altro. Da oggi sarà un po' meno difficile. In ogni caso la risposta della piazza dice che non è impossibile.

(26 ottobre 2008)

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« Risposta #12 inserito:: Ottobre 28, 2008, 07:57:36 pm »

SCUOLA & GIOVANI    IL RACCONTO.

Viaggio nelle scuole elementari emiliane che l'Ocse indica come le migliori in assoluto

Tra le maestre imitate ovunque "Berlusconi ha fatto male i conti"

di CURZIO MALTESE


BOLOGNA - A New York sono sorte negli ultimi dieci anni scuole materne ed elementari che copiano quelle emiliane perfino negli arredi. Via i banchi, le classi prendono l'aria delle fattorie reggiane che ispirarono Loris Malaguzzi, con i bambini impegnati a impastare dolci sui tavolacci di legno, le foglie appese alle finestre per imparare a conoscere i nomi delle piante.
Si chiama "Reggio approach", un metodo studiato in tutto il mondo, dall'Emilia al West, con associazioni dal Canada all'Australia alla Svezia.

Se la scuola elementare italiana è, dati Ocse, la prima d'Europa, l'emiliana è la prima del mondo, celebrata in centinaia di grandi reportage, non soltanto la famosa copertina di Newsweek del '91 o quello del New York Times un anno fa, e poi documentari, saggi, tesi di laurea, premi internazionali. Non stupisce che proprio dalle aule del "modello emiliano", quelle doc fra Reggio e Bologna, sia nata la rivolta della scuola italiana. La storia dell'Emilia rossa c'entra poco.

A Bologna di rosso sono rimaste le mura, tira forte vento di destra e sul voto di primavera incombono i litigi a sinistra e l'ombra del ritorno di Guazzaloca. "C'entra un calcolo sbagliato della destra, che poi fu lo stesso errore dell'articolo 18", mi spiega Sergio Cofferati, ancora per poco sindaco. "Il non capire che quando la gente conosce una materia, perché la vive sulla propria pelle tutti i giorni, allora non bastano le televisioni, le favole, gli slogan, il rovesciamento della realtà. Le madri, i padri, sanno come lavorano le maestre. E se gli racconti che sono lazzarone, mangiapane a tradimento, si sentono presi in giro e finisce che s'incazzano".

Che maestre e maestri emiliani siano in gamba non lo testimonia soltanto un malloppo alto così di classifiche d'eccellenza, o la decennale ripresa della natalità a Bologna, unica fra le grandi città italiane e nonostante le mamme bolognesi siano le più occupate d'Italia. Ma anche il modo straordinario in cui sono riusciti in poche settimane a organizzare un movimento di protesta di massa.

Stasera in Piazza Maggiore, alla fiaccolata per bloccare l'approvazione dei decreti sulla scuola, sono attese decine di migliaia di persone. "È il frutto di un lavoro preparato con centinaia di assemblee e cominciato già a metà settembre, da soli, senza l'appoggio di partiti o sindacati che non si erano neppure accorti della gravità del decreto", dice Giovanni Cocchi, maestro.

Il 15 ottobre Bologna e provincia si sono illuminate per la notte bianca di protesta che ha coinvolto 15 mila persone, dai 37 genitori della frazione montana di Tolè, ai tremila di Casalecchio, ai quindicimila per le strade di Bologna. Genitori, insegnanti, bambini hanno invaso la notte bolognese, ormai desertificata dalle paure, con bande musicali, artisti di strada, clown, maghi, fiaccole, biscotti fatti a scuola e lenzuoli da fantasmini, il logo inventato dai bimbi per l'occasione. Ci sarebbe voluto un grande regista dell'infanzia, un Truffaut, un Cantet o Nicholas Philibert, per raccontarne la meraviglia e l'emozione. C'erano invece i giornalisti gendarmi di Rai e Mediaset, a gufare per l'incidente che non è arrivato.

Perché stavolta la caccia al capro espiatorio non ha funzionato? Me lo spiega la giovane madre di tre bambini, Valeria de Vincenzi: "Non hanno calcolato che quando un provvedimento tocca i tuoi figli, uno i decreti li legge con attenzione. Io ormai lo so a memoria. C'è scritto maestro "unico" e non "prevalente". C'è scritto "24 ore", che significa fine del tempo pieno. Non c'è nulla invece a proposito di grembiulini e bullismo".

Il fatto sarà anche che le famiglie vogliono bene ai maestri, li stimano. Fossero stati altri dipendenti statali, non si sarebbe mosso quasi nessuno. Marzia Mascagni, un'altra maestra dei comitati: "La scuola elementare è migliore della società che c'è intorno e le famiglie lo sanno. Con o senza grembiule, i bambini si sentono uguali, senza differenze di colore, nazionalità, ceto sociale. La scuola elementare è oggi uno dei luoghi dove si mantengono vivi valori di tolleranza che altrove sono minacciati di estinzione, travolti dalla paura del diverso".

Come darle torto? Ci volevano i maestri elementari per far vergognare gli italiani davanti all'ennesimo provvedimento razzista, l'apartheid delle classi differenziate per i figli d'immigrati. Rifiutato da tutti, nei sondaggi, anche da chi era sfavorevole alla schedatura dei bimbi rom. "Certo che il problema esiste", mi dicono alla scuola "Mario Longhena", un vanto cittadino, dove è nato il tempo pieno "ma bastava non tagliare i maestri aggiuntivi d'italiano".

E se domani il decreto passa comunque, nel nome del decisionismo a tutti i costi? "Noi andiamo avanti lo stesso", risponde il maestro Mirko Pieralisi. "Andiamo avanti perché indietro non si può. Non vogliono le famiglie, più ancora di noi maestri. Ma a chi la vogliono raccontare che le elementari di una volta erano migliori? Era la scuola criticata da Don Milani, quella che perdeva per strada il quaranta per cento dei bambini, quella dell'Italia analfabeta, recuperata in tv dal "Non è mai troppo tardi" del maestro Manzi".

Ve lo ricordate il maestro Alberto Manzi? Un grande maestro, una grande persona. Negli anni Sessanta fu calcolato che un milione e mezzo d'italiani sia riuscito a prendere la licenza elementare grazie al suo programma. Poi tornò a fare il maestro, allora con la tv non si facevano i soldi. Nell'81 fu sospeso dal ministero per essersi rifiutato di ritornare al voto. Aveva sostituito i voti con un timbro: "Fa quel che può, quel che non può non fa". È morto dieci anni fa. Altrimenti, sarebbe stasera a Piazza Maggiore.

(28 ottobre 2008)


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« Risposta #13 inserito:: Ottobre 30, 2008, 11:23:47 am »

SCUOLA & GIOVANI   

Caschi, passamontagna e bastoni. E quando passa Cossiga un anziano docente urla: "Contento ora?"

Un camion carico di spranghe e in piazza Navona è stato il caos

La rabbia di una prof: quelli picchiavano e gli agenti zitti

di CURZIO MALTESE

 

AVEVA l'aria di una mattina tranquilla nel centro di Roma. Nulla a che vedere con gli anni Settanta. Negozi aperti, comitive di turisti, il mercatino di Campo dè Fiori colmo di gente. Certo, c'era la manifestazione degli studenti a bloccare il traffico. "Ma ormai siamo abituati, va avanti da due settimane" sospira un vigile. Alle 11 si sentono le urla, in pochi minuti un'onda di ragazzini in fuga da Piazza Navona invade le bancarelle di Campo dè Fiori. Sono piccoli, quattordici anni al massimo, spaventati, paonazzi.

Davanti al Senato è partita la prima carica degli studenti di destra. Sono arrivati con un camion carico di spranghe e bastoni, misteriosamente ignorato dai cordoni di polizia. Si sono messi alla testa del corteo, menando cinghiate e bastonate intorno. Circondano un ragazzino di tredici o quattordici anni e lo riempiono di mazzate. La polizia, a due passi, non si muove.

Sono una sessantina, hanno caschi e passamontagna, lunghi e grossi bastoni, spesso manici di picconi, ricoperti di adesivo nero e avvolti nei tricolori. Urlano "Duce, duce". "La scuola è bonificata". Dicono di essere studenti del Blocco Studentesco, un piccolo movimento di destra. Hanno fra i venti e i trent'anni, ma quello che ha l'aria di essere il capo è uno sulla quarantina, con un berretto da baseball. Sono ben organizzati, da gruppo paramilitare, attaccano a ondate. Un'altra carica colpisce un gruppo di liceali del Virgilio, del liceo artistico De Chirico e dell'università di Roma Tre. Un ragazzino di un istituto tecnico, Alessandro, viene colpito alla testa, cade e gli tirano calci. "Basta, basta, andiamo dalla polizia!" dicono le professoresse.

Seguo il drappello che si dirige davanti al Senato e incontra il funzionario capo. "Non potete stare fermi mentre picchiano i miei studenti!" protesta una signora coi capelli bianchi. Una studentessa alza la voce: "E ditelo che li proteggete, che volete gli scontri!". Il funzionario urla: "Impara l'educazione, bambina!". La professoressa incalza: "Fate il vostro mestiere, fermate i violenti". Risposta del funzionario: "Ma quelli che fanno violenza sono quelli di sinistra". C'è un'insurrezione del drappello: "Di sinistra? Con le svastiche?". La professoressa coi capelli bianchi esibisce un grande crocifisso che porta al collo: "Io sono cattolica. Insegno da 32 anni e non ho mai visto un'azione di violenza da parte dei miei studenti. C'è gente con le spranghe che picchia ragazzi indifesi. Che c'entra se sono di destra o di sinistra? È un reato e voi dovete intervenire".

Il funzionario nel frattempo ha adocchiato una telecamera e il taccuino: "Io non ho mai detto: quelli sono di sinistra". Monica, studentessa di Roma Tre: "Ma l'hanno appena sentito tutti! Chi crede d'essere, Berlusconi?". "Lo vede come rispondono?" mi dice Laura, di Economia. "Vogliono fare passare l'equazione studenti uguali facinorosi di sinistra". La professoressa si chiama Rosa Raciti, insegna al liceo artistico De Chirico, è angosciata: "Mi sento responsabile. Non volevo venire, poi gli studenti mi hanno chiesto di accompagnarli. Massì, ho detto scherzando, che voi non sapete nemmeno dov'è il Senato. Mi sembravano una buona cosa, finalmente parlano di problemi seri. Molti non erano mai stati in una manifestazione, mi sembrava un battesimo civile. Altro che civile! Era stato un corteo allegro, pacifico, finché non sono arrivati quelli con i caschi e i bastoni. Sotto gli occhi della polizia. Una cosa da far vomitare. Dovete scriverlo. Anche se, dico la verità, se non l'avessi visto, ma soltanto letto sul giornale, non ci avrei mai creduto".

Alle undici e tre quarti partono altre urla davanti al Senato. Sta uscendo Francesco Cossiga. "È contento, eh?" gli urla in faccia un anziano professore. Lunedì scorso, il presidente emerito aveva dato la linea, in un intervista al Quotidiano Nazionale: "Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand'ero ministro dell'Interno (...) Infiltrare il movimento con agenti pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto della polizia. Le forze dell'ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti all'ospedale. Picchiare a sangue, tutti, anche i docenti che li fomentano. Magari non gli anziani, ma le maestre ragazzine sì".

È quasi mezzogiorno, una ventina di caschi neri rimane isolata dagli altri, negli scontri. Per riunirsi ai camerati compie un'azione singolare, esce dal lato di piazza Navona, attraversa bastoni alla mano il cordone di polizia, indisturbato, e rientra in piazza da via Agonale. Decido di seguirli ma vengo fermato da un poliziotto. "Lei dove va?". Realizzo di essere sprovvisto di spranga, quindi sospetto. Mentre controlla il tesserino da giornalista, osservo che sono appena passati in venti. La battuta del poliziotto è memorabile: "Non li abbiamo notati".

Dal gruppo dei funzionari parte un segnale. Un poliziotto fa a un altro: "Arrivano quei pezzi di merda di comunisti!". L'altro risponde: "Allora si va in piazza a proteggere i nostri?". "Sì, ma non subito". Passa il vice questore: "Poche chiacchiere, giù le visiere!". Calano le visiere e aspettano. Cinque minuti. Cinque minuti in cui in piazza accade il finimondo. Un gruppo di quattrocento di sinistra, misto di studenti della Sapienza e gente dei centri sociali, irrompe in piazza Navona e si dirige contro il manipolo di Blocco Studentesco, concentrato in fondo alla piazza. Nel percorso prendono le sedie e i tavolini dei bar, che abbassano le saracinesche, e li scagliano contro quelli di destra.

Soltanto a questo punto, dopo cinque minuti di botte, e cinque minuti di scontri non sono pochi, s'affaccia la polizia. Fa cordone intorno ai sessanta di Blocco Studentesco, respinge l'assalto degli studenti di sinistra. Alla fine ferma una quindicina di neofascisti, che stavano riprendendo a sprangare i ragazzi a tiro. Un gruppo di studenti s'avvicina ai poliziotti per chiedere ragione dello strano comportamento. Hanno le braccia alzate, non hanno né caschi né bottiglie. Il primo studente, Stefano, uno dell'Onda di scienze politiche, viene colpito con una manganellata alla nuca (finirà in ospedale) e la pacifica protesta si ritrae.

A mezzogiorno e mezzo sul campo di battaglia sono rimasti due ragazzini con la testa fra le mani, sporche di sangue, sedie sfasciate, un tavolino zoppo e un grande Pinocchio di legno senza più una gamba, preso dalla vetrina di un negozio di giocattoli e usato come arma. Duccio, uno studente di Fisica che ho conosciuto all'occupazione, s'aggira teso alla ricerca del fratello più piccolo. "Mi sa che è finita, oggi è finita. E se non oggi, domani. Hai voglia a organizzare proteste pacifiche, a farti venire idee, le lezioni in piazza, le fiaccolate, i sit in da figli dei fiori. Hai voglia a rifiutare le strumentalizzazioni politiche, a voler ragionare sulle cose concrete. Da stasera ai telegiornali si parlerà soltanto degli incidenti, giorno dopo giorno passerà l'idea che comunque gli studenti vogliono il casino. È il metodo Cossiga. Ci stanno fottendo".

(30 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #14 inserito:: Novembre 07, 2008, 10:15:00 am »

IL COMMENTO

L'immagine peggiore

di CURZIO MALTESE



I bookmakers in questi casi non accettano scommesse. Da mesi, in previsione dell'evento storico dell'altra notte, si aspettava la prima gaffe di Silvio Berlusconi sul colore della pelle del nuovo presidente americano. Il Cavaliere non delude mai le peggiori aspettative e la battuta è arrivata. L'unica sorpresa è la tempistica. Ad appena ventiquattr'ore dall'elezione il premier se n'è uscito con la storia di Obama "abbronzato". Non è la solita cafonata alla quale ci ha abituato e ci siamo ormai rassegnati da lustri. È una definizione grondante di razzismo.

Il peggior razzismo, quello semi inconsapevole e quindi assai autoindulgente che dilaga in Italia, fra la preoccupazione del resto del mondo. Una malattia sociale che un governo responsabile dovrebbe combattere, invece di sguazzarci con gusto.

Scontata la gaffe, ovvia la reazione. In simili frangenti Berlusconi adotta due reazioni standard. La prima: non l'ho mai detto. È la più assurda, ma paradossalmente efficace (in Italia). Come fai a discutere con uno che nega se stesso? La seconda è: l'ho detto ma non avete capito.

Stavolta ha usato questa. "Abbronzato era un complimento, una carineria" ha spiegato ai soliti cronisti bolscevichi. "E se non lo capite, allora andate a fare...". Sommando così carineria a carineria.

S'intende che "andare a fare" è detto con affetto. Con eguale affetto i giornalisti potrebbero ricambiare l'invito, ma probabilmente le giustificazioni valgono solo dall'alto verso il basso.

Non stiamo a farla lunga. Non si tratta solo di vergogna. Chi ne ha ancora la forza? È piuttosto la disperazione di essere ogni volta precipitati in questo indegno pollaio. Gli elettori americani in un giorno hanno cambiato la storia del mondo. L'avvento del figlio di un africano alla Casa Bianca sta spingendo miliardi di persone, pur nel mezzo di una crisi spaventosa, a interrogarsi sui valori profondi della democrazia, la più straordinaria conquista dell'umanità, in fondo a un cammino secolare di sangue e intolleranza. E il contributo dell'Italia berlusconiana a questo grandioso dibattito qual è? Questa miserabile trovata, volgare e razzista, senza neppure il coraggio dell'assunzione di responsabilità o la dignità di porgere le scuse.

Non bastava la sortita a caldo del ministro Gasparri, il quale, confondendo le proprie ossessioni di ex fanatico fascista con la competenza internazionale, aveva commentato "sarà contento Bin Laden". Ci voleva pure lo strazio supplementare della "battuta" di Berlusconi, che ha ormai girato il mondo, con danno enorme per il Paese. In pochi minuti infatti la rete ha deluso la speranza residua, che non lo prendessero sul serio, come altre volte. Come siamo abituati a fare qui, rassegnati a non scandalizzarci per lo scandalo, a non chiamare fascismo il fascismo, razzismo il razzismo.

C'era stata la rincorsa provinciale ad appropriarsi di Obama. Tutti si proclamano o cercano l'Obama italiano, a destra e a sinistra. Quando in Italia un Barack Obama non avrebbe neppure il diritto di voto. I figli d'immigrati, 440 mila fra nati e cresciuti qui, non sono considerati cittadini italiani, per via del medievale ius sanguinis. Lo ricordiamo nell'ipotesi, piuttosto remota, in cui fra le centinaia di obamisti dell'ultima ora si trovasse un politico serio. Ecco l'occasione per proporre finalmente una legge civile in materia d'immigrazione.

A cominciare dal presidente del Consiglio, i cui molti cantori hanno illustrato nei giorni scorsi alle masse ammirate le straordinarie analogie fra Berlusconi e Obama. Come non scorgere, del resto, l'assoluta comunanza delle due parabole. Il figlio di un pastore kenyano che arriva alla Casa Bianca a soli 47 anni e promette di cambiare il mondo. E l'uomo più ricco d'Italia che a 72 anni, con il solo aiuto del novanta per cento dei media da lui controllati, torna a Palazzo Chigi, dopo aver cambiato i capelli. È naturale che Berlusconi abbia adottato Obama, ripromettendosi di dargli presto "buoni consigli". Incrociamo le dita perché non avvenga, nell'interesse stesso del premier. Non si sa come la Casa Bianca potrebbe reagire a una frase del tipo: "Vieni, abbronzato, che ti spiego come non farsi processare".

Che fare? Vergognarsi per loro, ridere, piangere. Fingiamo pure che tutto sia normale. Però quanto stringe il cuore ascoltare il nobile discorso dello sconfitto McCain: "Il popolo ha scelto. Ho avuto l'onore di salutare il nuovo presidente degli Stati Uniti. È una giornata storica". Non si potrebbe avere un giorno un conservatore come questo a capo della destra italiana, anche di seconda mano?

(7 novembre 2008)
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