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Autore Discussione: MAURIZIO MOLINARI  (Letto 71596 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Giugno 08, 2013, 06:12:01 pm »

spettacoli
08/06/2013

In un plico di appunti i segreti sulla morte di Marylin Monroe

Nei documenti raccolti dall’investigatore privato Fred Otash relazioni d’amore e litigi nascosti della diva di Hollywood

Maurizio Molinari
corrispondente da NEW YORK


Fra i documenti su Marylin Monroe raccolti dall’investigatore privato Fred Otash ci sono anche gli appunti su una registrazione, fatta nel giorno della sua morte, da cui si evince che aveva una relazione con Robert Kennedy, fratello dell’allora presidente John Fitzgerald. 

A rivelarlo è l’”Hollywood Reporter” che ha ricevuto gli appunti dalla figlia dello scomparso Otash intenzionata in questa maniera a rispondere alle accuse di inaffidabilità nei confronti del padre sollevate dallo scrittore noir James Ellroy. Nei nuovi documenti resi disponibili, risalenti al periodo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, c’è anche la trascrizione della conversazione avuta dall’attore Rock Hudson con la moglie, che lo sfida ad ammettere la sua omosessualità, mentre un altro nastro riguarda l’audio di un presunto rapporto sessuale fra Marylin e John F. Kennedy.

Ma l’elemento di maggiore novità viene da una registrazione che Otash nei suoi appunti afferma di aver fatto dentro la casa di Marylin Monroe poco prima che morisse. Nell’audio, secondo gli appunti di Otash, si sente Marylin litigare con animosità con Robert Kennedy e Peter Lawford, lamentandosi del fatto che veniva “scambiata fra loro come se fosse un pezzo di carne”. Marylin attacca frontamente entrambi gli uomini, contestandogli il fatto di “aver mancato le promesse fatte durante le relazioni sentimentali”. “Marylin strilla mentre loro tentano di farla tacere” continua il testo degli appunti, secondo cui “Robert Kennedy prende un cuscino e glielo mette sulla faccia per impedire che i vicini ascoltino le urla” e quando Marylin si calma “la prima cosa che vuole fare è andarsene, uscire di casa”. La mattina dopo, a decesso avvenuto in circostanze che continuano a far discutere gli storici, Lawford chiamò Otash chiedendgli di andare nella casa e rimuovere ogni prova del litigio. E’ da allora, secondo la ricostruzione di “Hollywood Report”, che i nastri sull’ultimo giorno di vita del sex-symbol sarebbero scomparsi.


da - http://lastampa.it/2013/06/08/spettacoli/in-un-plico-di-appunti-i-segreti-sulla-morte-di-marylin-monroe-jgIhnl62XbAKtiRrew7vLJ/pagina.html
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« Risposta #91 inserito:: Giugno 16, 2013, 09:08:40 am »

Editoriali
15/06/2013

Putin sfida le esitazioni di Barack

Maurizio Molinari


Con la decisione di armare i ribelli Barack Obama vuole impedire a Bashar Assad di riconquistare Aleppo, annientare l’opposizione e restare al potere di una Siria trasformata in atollo iraniano. Se lo scorso anno il Presidente americano aveva messo il veto sugli aiuti militari ai ribelli ed ora cambia idea, chiedendo alla Cia di consegnarli in fretta, è perché allora Assad barcollava mentre adesso vede concretamente la possibilità di imporsi nello scontro militare. L’affluire di migliaia di Hezbollah libanesi, soldati del regime e miliziani del Baath attorno ad Aleppo è l’avvisaglia della battaglia forse decisiva nella guerra civile che dura da oltre due anni ed ha superato le 90 mila vittime.

 

Dallo scorso luglio l’antica perla dell’Impero Ottomano sulla Via della Seta è per il 60 per cento in mano agli insorti. Si tratta della città più popolosa della Siria, nodo strategico della dorsale sunnita. Assad vuole riprenderla ripetendo in grande stile la tattica con cui ha espugnato l’assai più piccola ma altrettanto strategica Qusayr: accerchiamento asfissiante con le truppe regolari e i miliziani, massicci bombardamenti da cielo e terra, offensiva frontale della fanteria di Hezbollah, che non prende prigionieri.

Le analisi militari che Pentagono e intelligence hanno recapitato nella «war room» della Casa Bianca non danno troppe speranze ai ribelli, male armati e ancor peggio organizzati. C’è però una finestra di tempo per scongiurare la restaurazione di Assad perché i 190 kmq di quartieri densamente popolati Aleppo suggeriscono che la battaglia sarà più lunga e cruenta di quanto avvenuto nei 35 kmq di una Qusayr semideserta. Questa finestra di tempo era l’«ultima opportunità per evitare un altro Ruanda, una nuova Bosnia», come ha detto Bill Clinton memore degli errori compiuti alla Casa Bianca, e Obama ha deciso di sfruttarla facendo propri i suggerimenti dei suoi consiglieri liberal neo-interpreti dell’interventismo umanitario degli Anni Novanta: Susan Rice, Samantha Power e John Kerry. Il superamento della «linea rossa» dell’uso dei gas contro i civili come motivo per armare i ribelli si richiama proprio ai precedenti dei Balcani: l’America si muove per proteggere i civili quando il dittatore di turno è determinato a compiere le stragi più orrende. 

 

Ma quella di Obama è una scelta venata dall’incertezza sulle armi da fornire perché il Presidente che ha posto fine alla guerra in Iraq e farà altrettanto con quella in Afghanistan si oppone ad un coinvolgimento dell’America in un altro conflitto. E’ frenato dall’altra anima dell’amministrazione: la realpolitik di Chuck Hagel e Tom Donilon che lo ammoniscono sui rischi che le armi Usa possano finire al Fronte Nusra, affiliato ad Al Qaeda. Obama non vuole inviare soldati, limita i tipi di armamenti da consegnare ed esita sulla «no fly zone» invocata con forza dal repubblicano John McCain perché implicherebbe massicci bombardamenti sulle difese anti-aeree di Damasco, frutto di 40 anni di cooperazione militare russa.

 

La scommessa di Obama è di far leva sulla necessità di proteggere i civili dai gas di Assad per dar vita ad una coalizione internazionale a sostegno dei ribelli - composta da europei, turchi e arabi sunniti - a partire dal summit del G8 che lunedì si apre in Irlanda del Nord. La presenza in Siria, secondo insistenti indiscrezioni, di consiglieri francesi e britannici che addestrano i ribelli all’uso delle armi saudite e qatarine arrivate attraverso Giordania e Turchia lascia intendere che la cooperazione militare è più avanzata di quanto si possa immaginare. Ma ad ostacolare il tentativo di Obama di salvare Aleppo c’è il più determinato degli alleati di Assad: la Russia di Vladimir Putin ironizza sui gas inesistenti, paragona queste «bugie» e quelle «dette da George W. Bush sulle armi di distruzione in Iraq» e lascia intendere che al G8 ripeterà senza remore il veto pro-Damasco già più volte espresso all’Onu.

 

L’energia con cui Mosca protegge Assad svela un progetto strategico ambizioso. «Putin sta dimostrando al Medio Oriente che difende i suoi alleati mentre Obama li liquida, come fatto con l’egiziano Mubarak» riassume un alto diplomatico arabo a Washington, secondo il quale il Cremlino sfrutta la crisi siriana per tornare protagonista in una regione dove ha continuamente perso terreno sin dalla fine della Guerra Fredda. D’altra parte Teheran, regista politico-militare del sostegno ad Assad, ha un obiettivo da potenza regionale: sconfiggere i ribelli per consegnare la Siria di un Raiss indebolito nelle mani di Hezbollah e farne il tassello di un’alleanza filo-sciita che inizia a Beirut, passa per Damasco, continua nella Baghdad governata da Nuri al-Maliki e termina proprio in Iran. Sostenendo Assad, Putin si candida interlocutore privilegiato di questa potenziale alleanza, destinata a mettere sulla difensiva alleati e interessi di Washington dal Canale di Suez agli Stretti di Hormuz.

da - http://lastampa.it/2013/06/15/cultura/opinioni/editoriali/putin-sfida-le-esitazioni-di-barack-rTiYdN9P8RthtDZBhsBhVP/pagina.html
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« Risposta #92 inserito:: Luglio 28, 2013, 05:13:46 pm »

economia
28/07/2013 - SCONFITTA L’IPOTESI DEL NABUCCO CHE AVREBBE ATTRAVERSATO L’EUROPA DELL’EST.

Premiata anche la maggiore efficienza della nostra rete

Il gas del Caspio sceglie la via dell’Adriatico

Accordo con l’Azerbaijan

Il metanodotto Tap che passa dall’Italia sarà un’alternativa alle forniture russe

Maurizio Molinari
corrispondente da new york


Il gas azero arriverà in Europa attraverso l’oleodotto trans-adriatico riducendo la dipendenza del Vecchio Continente dalla Russia e ridefinendo la posizione dell’Italia, non più alleata di ferro di Mosca negli equilibri energetici. Il Trans-Adriatic Pipeline (Tap) è stato scelto dal consorzio che gestisce il giacimento azero Shah Deniz e a partire dal 2019 porterà ogni anno 16 miliardi di metri cubi di gas - di cui 10 miliardi azeri e 6 turchi - attraverso Georgia, Turchia, Albania e Grecia fino all’Italia, da dove entrerà nella rete di distribuzione europea. 

 

Arriva così a compimento il progetto iniziato con l’inaugurazione nel 2006 dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan di creare una via di alimentazione energetica per l’Europa alternativa a quelle russe. Le amministrazioni Bush e Obama sono state protagoniste di sforzi continui per frenare la dipendenza dell’Europa dalla Russia e Washington vede nell’accordo fra il consorzio azero e il Tap quella che il Dipartimento di Stato descrive come «una nuova fonte di approvvigionamento del gas per l’Europa» e un passo verso «la diversificazione delle risorse e il rafforzamento della sicurezza energetica».

 

«Gli Stati Uniti considerano l’importanza del corridoio meridionale del gas in un contesto più vasto» aggiunge il Dipartimento di Stato, con un riferimento ai timori avuti sulle conseguenze negative per la Nato della dipendenza europea dalla Russia. Ciò che più conta per Washington è che, secondo una stima del German Marshall Fund, il Tap è destinato a modificare nel medio-termine l’equilibrio fra fornitori di gas dell’Europa perché se al momento il 34% del fabbisogno viene da fonti interne, il 23% dalla Russia e il 21 dalla Norvegia ora Oslo è destinata a strappare quote di mercato a Mosca. 

 

Il Tap vede in posizione dominante la norvegese Statoil, che è anche uno dei maggiori operatori di Shah Deniz, affiancata dalla svizzera Axpro e dalla tedesca E.On Ruhrgas. Ma se la Norvegia si rivela l’alleato più importante di Washington su estrazione e trasporto del gas, è l’Italia ad avere rilevanza nella distribuzione per via dell’importanza delle sue infrastrutture - considerate fra le più efficienti in Europa - destinate ad essere lo sbocco all’Ue. Proprio le infrastrutture italiane hanno consentito al Tap di prevalere rispetto al gasdotto concorrente Nabucco Ovest che avrebbe attraversato l’Est con costi più alti ed affidabilità minore. 

 

Ciò comporta un riposizionamento dell’Italia di Enrico Letta nel «grande gioco» dell’energia rispetto quanto avvenuto fino al 2011, quando Obama mostrava contrarietà per scelte dei governi Berlusconi considerate troppo favorevoli a Mosca. «Andrò a Baku in Azerbaijan, l’altro punto cardinale del gasdotto che porta energia dal Caspio all’Adriatico, un fatto straordinario» ha detto ieri il premier soddisfatto dell’accordo. Marta Dassù, viceministro degli Esteri con delega al gasdotto, ha spiegato invece come «grazie al Tap l’Italia possa ambire ad avere una posizione strategica in Europa nella distribuzione del gas» e che «sarà costruita una bretella per portare il gas in Bulgaria e nei Balcani contribuendo alla riduzione della dipendenza dalla Russia anche dei Paesi dell’Est».

 

La «diversificazione delle fonti in Europa» è una partita che apre a molti sviluppi: dalla possibilità, al momento teorica, che l’oleodotto azero possa essere collegato ai giacimenti in Iraq ed Iran fino all’arrivo dello shale gas Usa. «La revisione delle restrizioni all’esportazione di gas liquido Usa verso Europa e Asia - recita un rapporto dell’American Security Project - è destinata a ridurre la loro dipendenza dalla Russia». 

da - http://lastampa.it/2013/07/28/economia/il-gas-del-caspio-sceglie-la-via-delladriatico-rEdhpK45L8DCCsIjtNsJhO/pagina.html
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« Risposta #93 inserito:: Settembre 01, 2013, 11:35:56 am »

Esteri
01/09/2013

Così i deputati hanno imbrigliato il presidente Usa

Le prove raccolte non sono bastate a smuoverli

Maurizio Molinari
corrispondente da new york


I briefing dell’intelligence non bastano a convincere i leader del Congresso e Barack Obama si piega alla richiesta scritta di oltre 200 deputati, democratici e repubblicani, di chiedere un voto sull’uso della forza prima di attaccare la Siria. 

Incalzato da sondaggi negativi secondo cui il 50% degli americani è contro l’intervento, contestato pubblicamente da 54 deputati dell’ala liberal del suo partito e sfidato dal repubblicano John Boehner, presidente della Camera, a «chiedere al popolo americano» l’assenso all’attacco, Obama ha tentato di fronteggiare i dissensi con una maratona senza precedenti di briefing di intelligence a favore dei leader di Capitol Hill.

Giovedì la Casa Bianca ha realizzato un’inedita videoconferenza con 27 senatori e deputati di entrambi i partiti, disseminati in più angoli della nazione per via delle ferie, venerdì il Segretario di Stato John Kerry e il vicepresidente Joe Biden hanno incontrato i vertici degli opposti schieramenti a Camera e Senato, e ieri mattina è stato il presidente in persona, affiancato da alti funzionari dell’intelligence, a spiegare ai repubblicani John Boehner e Mitch McConnell, come ai democratici Harry Reid e Nancy Pelosi, i contenuti top secret dei memorandum di intelligence che hanno spinto la Casa Bianca a decidere l’intervento militare.

Obama era convinto che tale offensiva di incontri e rivelazioni avrebbe piegato le resistenze del Congresso di Washington. E, secondo il tam tam di Washington, Kerry e Biden lo avevano rassicurato in materia, in forza di decenni di esperienza a Capitol Hill. Ma in realtà l’esito è stato opposto: i leader democratici e repubblicani hanno espresso apprezzamento per il lavoro dell’intelligence, e anche aspra condanna per l’attacco con i gas da parte di Assad, ma senza fare passi indietro sulla richiesta di un voto dell’aula. Facendo valere il dettato della Costituzione relativo ai poteri di guerra. Anche la fedelissima Nancy Pelosi, dopo molte esitazioni, ha dimostrato di condividere le parole dell’acerrimo avversario Boehner: «Bisogna dimostrare leadership presidenziale e chiarire i fondamenti della nostra politica per ottenere il sostegno del popolo americano e del Congresso ad ogni tipo di azione contro la Siria». «Sono 12 anni che il Congresso è impegnato a difendere la sicurezza degli americani - ha aggiunto Boehner, riferendosi al periodo trascorso dall’11 settembre - e sappiamo cosa significa entrare in guerra». 

Sul fronte opposto Barbara Lee, combattiva deputata democratica della California, ha tuonato a nome dei 54 liberal già protagonisti della coalizione contro la guerra in Iraq: «La condanna per l’uso delle armi chimiche non deve precipitarci in una guerra ingiusta». Assediato da un’inedita coalizione di conservatori e liberal e con i sondaggi che indicano al 79% il numero dei favorevoli al voto del Congresso, Obama ha percepito il pericolo di passare alla Storia per aver commesso sulla Siria l’errore che George W. Bush non fece sull’Iraq, quando chiese a Capitol Hill di esprimersi. Ma non è tutto: sulla scelta del presidente pesa anche l’opinione del Pentagono perché i comandi militari ritengono possibile una rappresaglia siriana-iraniana dopo l’intervento e dunque disporre di un’autorizzazione del Congresso consente di avere maggiori margini di manovra nella gestione delle operazioni. La conseguenza per Obama è affrontare una sfida tutta in salita: entro il 9 settembre, quando il Congresso tornerà a riunirsi dopo la pausa estiva, dovrà convincere l’America della necessità di attaccare Assad «con un intervento limitato e senza l’invio di truppe». Per riuscirci si affida ad un messaggio che investe la sua idea della proiezione dell’America nel mondo: «Se accettiamo l’uso delle armi chimiche come potremo batterci contro la proliferazione nucleare e il terrorismo?». 

Resta da vedere se troverà i voti di cui ha bisogno. Una sconfitta ne fiaccherebbe la leadership, facendolo diventare un’«anatra zoppa» con un anno di anticipo sulle elezioni di medio termine per il rinnovo del Congresso che coincidono con l’inizio del tramonto della forza politica del presidente rieletto. Al termine della difficile giornata il presidente è andato a rilassarsi giocando a golf con Biden a Fort Belvoir. 


da - http://lastampa.it/2013/09/01/esteri/cos-i-deputati-hanno-imbrigliato-il-presidente-usa-kETpcP2l7NglPtQBamoErO/pagina.html
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« Risposta #94 inserito:: Settembre 07, 2013, 07:27:53 pm »

Editoriali
07/09/2013

Mosca, prove di leadership sugli emergenti

Maurizio Molinari


Il G20 esce dal summit di San Pietroburgo trasformato dalla crisi siriana nel nuovo terreno di scontro fra Stati Uniti e Russia. Si tratta di una svolta brusca, dalle conseguenze imprevedibili. 

Convocato in fretta e furia a Washington nel novembre 2008 per fronteggiare la devastante crisi finanziaria, trasformato dal summit di Londra del 2009 nella cabina di regia della globalizzazione e riuscito a Pittsburgh nel 2010 a strappare al G8 il titolo di «maggiore foro dell’economia mondiale», il G20 deve la propria forza alla scelta di Stati Uniti, Europa e Giappone di sedersi allo stesso tavolo con le economie emergenti per concordare le ricette del la crescita. 

 

Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica sono così divenute protagoniste interessate del benessere dell’Occidente, e viceversa. Ma questa formula della crescita nel XXI secolo si è arenata nelle sale del Palazzo di Costantino dove l’anfitrione russo ha sfruttato la crisi siriana per riconsegnare a Mosca la possibilità di guidare un’alleanza internazionale. E’ dalla dissoluzione dell’Urss che il Cremlino ha tale nostalgia, Putin l’ha espressa in più occasioni ed ieri è riuscito, per la prima volta, a enumerare pubblicamente i Paesi che preferiscono Mosca e Washington in un voluto show di forza politica. Elencando «Cina, India, Indonesia, Argentina, Brasile...» Putin si è mostrato raggiante, soprattutto perché sembra sicuro di aver trovato la formula vincente per mettere sulla difensiva Washington su scala globale. «L’attacco alla Siria fa temere a tutti il rallentamento della crescita e ad ogni Paese piccolo di essere aggredito da una potenza» dice Putin in una riedizione dell’anticolonialismo di metà Novecento, modellato su un XXI secolo che vede moltiplicarsi le nazioni in cerca di spazio, prestigio e prosperità sulla scena internazionale. Gli orizzonti di Putin e Barack Obama non potrebbero dunque essere più diversi. Il Presidente americano vuole punire Bashar Assad per aver usato i gas contro i civili - primo dittatore ad averlo fatto dopo Saddam Hussein nel 1988 a Halabja - con l’intento di scongiurare il rischio di altri despoti e tiranni attirati dalla possibilità di ricorrere ad armi di distruzione di massa per reprimere il dissenso interno o aggredire i Paesi vicini. E’ un obiettivo che rientra nella visione che Washington ha dei prossimi 30-50 anni dove la globalizzazione dell’economie è minacciata da terrorismo ed armi di distruzione di massa. Per questo accelera nella preparazione dell’intervento contro Assad. L’agenda del capo del Cremlino invece è tutt’altra, punta a una trasformazione radicale degli equilibri internazionali tentando di costringere al tramonto la primazia strategia esercitata dagli Stati Uniti dall’indomani della fine della Guerra Fredda. Ecco perché schierarsi fra Mosca e Washington conta per ogni capitale, europea o meno, assai più della disputa sulla legittimità di attaccare Assad per i gas adoperati a Damasco il 21 agosto. 

 

Nel duello di San Pietroburgo fra Putin e Obama, evidenziato da scambi di sguardi gelidi al summit e posizionamenti di navi da guerra nel Mediterraneo Orientale, ciò che colpisce è la scelta di Pechino. Xi Jinping si è schierato con Putin, ma evitando la sfida aperta a Obama. La Cina affianca il proprio veto pro-Assad all’Onu a quello di Putin ma poi Xi smorza i toni, parla con Obama di scambi commerciali, investimenti hi-tech e lotta ai cambiamenti climatici. Dando l’impressione di considerare il duello siriano più come un residuo del secolo passato che la genesi dei equilibri di quello nuovo, oramai inoltrato. Resta l’interrogativo su come sarà cambiato il G20 quando tornerà a incontrarsi a Brisbane in Australia nel novembre 2014 ovvero se questo forum resisterà all’impatto dell’intervento siriano oramai in arrivo.

da - http://lastampa.it/2013/09/07/cultura/opinioni/editoriali/mosca-prove-di-leadership-sugli-emergenti-1tlcLtMZmFtMNjNS7Fn0EM/pagina.html
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« Risposta #95 inserito:: Settembre 14, 2013, 07:51:03 pm »

ECONOMIA & FINANZA
14/09/2013

Dalla grande crisi al nuovo boom

La rinascita di Wall Street

Timori per la fine degli acquisti della Fed. Summers verso il posto di Bernanke

Maurizio Molinari
corrispondente da New York


la riduzione dell’acquisto di titoli da parte della Federal Reserve, la nomina del successore di Ben Bernanke e il raggiungimento del tetto del debito minacciano di innescare nelle prossime settimane una tempesta d’autunno destinata a mettere a dura prova tanto i mercati finanziari che
l’amministrazione Obama. 

La decisione della Federal Reserve sul «quantitative easing» è attesa per mercoledì al termine della riunione di 48 ore che, secondo l’opinione prevalente degli analisti, porterà a ridurre da 85 a 75 miliardi l’ammontare mensile di titoli acquistati. Si tratta del primo passo della «strategia di uscita» preannunciata al Congresso di Washington da Bernanke, presidente della Fed, alla luce dei progressi della ripresa. 

 

Andrew Wilkinson, capo economista di Miller Tabak & Co., ritiene che «Bernanke inizierà a tagliare» nonostante il dato sulla vendita al dettaglio di agosto - cresciuta appena dello 0,2 rispetto alla previsione del doppio - «perché il momento favorevole per l’economia resta intatto». Ciò non toglie tuttavia che sui mercati l’annuncio della Fed sollevi forti timori dopo i continui rialzi delle scorse settimane. Che hanno portato il Dow Jones, a cinque anni dal tracollo post-Lehman, a toccare i nuovi massimi di sempre.

Un indicatore in materia viene dall’oro, sceso ai minimi dell’ultimo mese portando al 20 per cento il calo da gennaio. «ll mercato si sta prendendo una pausa - osserva David Govett, capo dei metalli preziosi a Marex Spectron Group - e la pressione continuerà ad aumentare dopo la scelta della Fed». 
 
 

A temere di più sono i mercati delle materie prime delle economie emergenti, i cui leader - dal Brasile all’India - continuano a chiedere «prudenza» a Bernanke nel timore di brusche ricadute sui rispettivi Pil. Ad aggravare l’incertezza sull’impatto finanziario del taglio al «quantitative easing» c’è lo scenario dell’imminente cambio della guardia alla guida della Fed. 

 

La notizia rimbalzata ieri da Tokyo sulla decisione del presidente Barack Obama di nominare Larry Summers già la prossima settimana ha obbligato la Casa Bianca a una raffica di smentite, precisando che «la scelta avverrà entro alcune settimane» e «il nome non è stato deciso». Al Congresso più senatori, democratici e repubblicani, sono determinati ad opporsi alla conferma dell’ex ministro del Tesoro di Bill Clinton, ritenendolo responsabile di aver allentano i controlli bancari e avallato il «far west dei derivati» ponendo le basi per l’indebolimento del sistema finanziario che ha portato alla crisi del 2008. Da qui l’appello di 350 economisti, guidati dal premio Nobel Joseph Stiglitz, recapitato in fretta e furia alla Casa Bianca per chiedere a Obama di nominare Janet Yellen, attuale vice di Bernanke. 

 

Lo scenario di un duello aperto con il Congresso sul successore di Bernanke preoccupa la Casa Bianca non solo perché sarà il nuovo presidente della Fed a dover portare a termine la strategia di uscita dal «quantitative easing» ma anche perché si somma ad un’altra battaglia in arrivo a Capitol Hill. In questo caso la data è certa perché il 1° ottobre l’America raggiungerà il tetto dell’indebitamento federale consentito per legge e senza un’intesa fra Casa Bianca e leader repubblicani sull’aumento potrebbe verificarsi lo scenario della serrata governativa più volte sventata da Obama come anche di un devastante default finanziario a metà ottobre, capace di azzerare i progressi della ripresa.

 

Per dare luce verde all’aumento del tetto del debito i repubblicani di John Boehner, presidente della Camera, chiedono di ritardare ulteriormente l’entrata in vigore della riforma della Sanità ma la Casa Bianca non sembra per ora disposta a cedere. 

da - http://lastampa.it/2013/09/14/economia/dalla-grande-crisi-al-nuovo-boom-la-rinascita-di-wall-street-Br9InnVQVQjLz0Fwv3zyJI/pagina.html
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« Risposta #96 inserito:: Settembre 26, 2013, 05:04:13 pm »

Esteri
24/09/2013

Onu, Rohani tende la mano a Obama: “Possiamo fare l’accordo sul nucleare”

Il presidente iraniano al debutto: «Teheran non è una minaccia».

Ma salta l’incontro con Barack

Maurizio Molinari
CORRISPONDENTE DA NEW YORK


“Non siamo una minaccia, il nostro nucleare è pacifico, possiamo raggiungere un accordo con gli Stati Uniti”: il neopresidente iraniano Hasan Rohanì sfrutta il discorso all’Assemblea Generale dell’Onu per tendere la mano all’America di Barack Obama. “Ho ascoltato Obama, possiamo procedere verso un nuovo orizzonte” dice Rohanì, invitando però gli Stati Uniti a “cambiare mentalità”, rinunciando all’”approccio della Guerra Fredda in base al quale c’è sempre uno superiore ad un altro”.

Teheran cerca un rapporto fra eguali con Washington e giudica “ingiuste le sanzioni che colpiscono la popolazione”. Il messaggio a Washington è sulla “volontà di risolvere la questione nucleare” anche se nella sostanza Rohanì ripete la posizione già in più occasioni sostenuta dal predecessore Mahmud Ahmadinejad: “Abbiamo un programma pacifico, non vogliamo l’atomica, l’arricchimento dell’uranio è un nostro diritto”. Rohanì si dice anche contrario all’intervento militare in Siria. Poco prima Obama aveva definito “concilianti” le posizioni espresse da Teheran, sottolineando però il bisogno di “metterle alla prova e verificarle” perché le sanzioni internazionali “nascono dai comportamenti dell’Iran” ovvero le quattro risoluzioni votate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu per bloccare un programma sospettato di avere una natura militare. Dietro le quinte sfuma l’incontro fra Obama e Rohanì. Per la Casa Bianca “sono gli iraniani a non essere pronti”. Rohanì ha invece incontrato il capo dell’Eliseo, Francois Hollande.

da - http://lastampa.it/2013/09/24/esteri/onu-rohani-si-rivolge-a-obama-possiamo-fare-laccordo-sul-nucleare-lzIucgDBigx0qjY4prnY5I/pagina.html
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« Risposta #97 inserito:: Settembre 26, 2013, 05:05:08 pm »

Esteri

24/09/2013 - 68° assemblea generale dell’Onu

Ciclone Rohani a New York


Aperture sul nucleare, scarcerazione dei dissidenti e dialogo con Obama

Il presidente iraniano è il protagonista più atteso della settimana all’Onu

Maurizio Molinari
corrispondente da new york


Barack Obama non esclude di incontrarlo, François Hollande si prepara a farlo, Benjamin Netanyahu ne teme le trappole, fra i plenipotenziari all’Onu non si parla che di lui, nei centri studi di Manhattan fervono i preparativi per i suoi discorsi e il «New York Times» riassume quanto sta avvenendo con un editoriale: «Tutti gli occhi questa settimana saranno su di lui».

Il protagonista indiscusso della nuova sessione dell’Assemblea dell’Onu che si apre oggi è Hassan Rohani, nuovo presidente della Repubblica islamica dell’Iran, sbarcato ieri a New York con una delegazione ristretta e un intento dichiarato: «Riapriamo il negoziato sul nucleare per arrivare alla fine delle sanzioni». Partendo da Teheran, Rohani ha picchiato duro «contro chi ha diffuso l’immagine di un Iran che persegue le armi di distruzione di massa» riferendosi, secondo i reporter iraniani, non agli Stati Uniti bensì a Mahmoud Ahmadinejad. E in effetti gesti, parole e decisioni delle ultime settimane hanno sottolineato la volontà di distinguersi dal predecessore: gli auguri per Rosh Ha-Shanah, il capodanno ebraico, la liberazione di oppositori interni, la facilitazione dell’accesso al Web, la condanna dell’uso delle armi chimiche in Siria e l’intenzione di negoziare sul nucleare puntano a cancellare la recente memoria del presidente che negava l’Olocausto, predicava la distruzione di Israele e usava toni bellicosi sul nucleare.
 
Diplomatici americani ed europei parlano di una «offensiva del sorriso» che in alcuni evoca il debutto del sovietico Mikhail Gorbaciov sulla scena internazionale, i grandi network lo presentano al pubblico Usa come il protagonista della «maggiore apertura dell’Iran all’Occidente dalla rivoluzione khomeinista» e il portavoce della Casa Bianca dice che «non è escluso» l’«incontro casuale» con Obama dentro il Palazzo di Vetro. John Kerry, Segretario di Stato, conferma che vedrà il collega iraniano Mohammad Zarif assieme ai plenipotenziari degli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con l’intento di «ottenere impegni seri» sul rispetto delle quattro risoluzioni Onu che impongono a Teheran di bloccare un programma nucleare di cui si sospetta la natura militare. «Ciò che accomuna Obama e Rohani in questa fase – spiega l’iranista Trita Parsi – è il bisogno di risultati politici lampanti». 

Ma Benjamin Netanyahu, premier israeliano, teme il riavvicinamento Usa-Iran e avverte: «Rohani vi sta tendendo una trappola come fece la Nord Corea otto anni fa» al fine di guadagnare tempo per raggiungere l’atomica e mettere il mondo davanti al fatto compiuto. In una rara convergenza con Gerusalemme, Henry Kissinger suggerisce prudenza a Obama: «Capisco la tentazione di incontrare Rohani ma sarebbe meglio avere prima un risultato diplomatico perché Teheran mette grande energia nel programma nucleare».

da - http://lastampa.it/2013/09/24/esteri/ciclone-rohani-a-new-york-s7sWluBosHqy82yNOaULwM/pagina.html
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« Risposta #98 inserito:: Settembre 28, 2013, 05:07:22 pm »

Economia
27/09/2013 - IL FONDO VEBA CHIEDE CINQUE MILIARDI PER LA SUA QUOTA, IL LINGOTTO PUNTA A SPENDERNE AL MASSIMO QUATTRO

Braccio di ferro sull’Ipo Chrysler

La casa americana avverte: il gruppo Fiat potrebbe ridurre l’impegno negli Usa

Maurizio Molinari
CORRISPONDENTE DA NEW YORK


Sergio Marchionne minaccia di ridurre l’impegno di Fiat in Chrysler ma il fondo Veba ribadisce la richiesta da 5 miliardi di dollari ed entrambi rafforzano gli schieramenti: da un lato con Ron Bloom, vicepresidente di Lazard e dall’altro con Deutsche Bank. Operatori di Wall Street ed analisti del mercato dell’auto assistono con il fiato sospeso a quello che James Press, ex vicepresidente di Chrysler, definisce «un duello all’Ok Corral» evocando la più classica delle sfide della frontiera.

 

L’oggetto del contendere è il 41,5 per cento di azioni Chrysler detenute da Veba, il fondo pensionistico del sindacato dei dipendenti dell’auto United auto workers, che vuole venderle a Fiat - che controlla il 58,5 - per non meno di 5 miliardi di dollari trovandosi davanti Marchionne, disposto a sborsare almeno un miliardo di meno. In assenza di un’intesa, Veba minaccia di vendere una parte della propria quota sul mercato e Marchionne con la scelta di prepararsi all’Ipo di Chrysler fa capire di essere pronto a raccogliere la sfida. Perciò Chrysler afferma: «Fiat ci ha informato che sta riconsiderando costi e benefici di un’ulteriore espansione delle relazioni con noi» su più tavoli ovvero «allocazione di capitali, investimenti e luoghi degli impianti». 

 

E’ una maniera per far capire a Veba che lo scontro frontale può spingere Fiat a rivedere l’impegno in Chrysler che ha consentito alla casa di Detroit si risollevarsi fino al punto di tornare a gareggiare con le rivali sul mercato Usa. Si spiega così anche quando dice John Elkann, presidente di Fiat, da Milano: «C’è un percorso che è stato definito, Veba ha il diritto di portarlo avanti e dunque Chrysler si sta impegnando a portare avanti l’Ipo» ma se «l’Ipo ci sarà, ci sono due società e questo è diverso da una società sola». Spiega Erik Gordon, economista dell’Università del Michigan: «Se Veba pensava di mettere Marchionne sulla difensiva ora si trova davanti alla contromossa» e il duello è sul filo di lana «perché se il valore dell’Ipo è troppo basso perde Veba mentre se sale oltre quanto Marchionne vuole pagare, lo espone al rischio di uscite maggiori». Richard Hilgert, analista di Morningstar che segue da vicino Fiat-Chrysler, ritiene che «l’Ipo in realtà potrebbe non avvenire perché non è né nell’interesse di Fiat né in quello del fondo Veba» e dunque «stiamo assistendo ad una danza negoziale che porterà ad un accordo». 
 
 

 

Alla scelta di Veba di minacciare la vendita delle azioni Chrysler sul mercato Fiat ribatte che se lo facesse oggi finirebbe per ricavarne una cifra assai inferiore al suo obiettivo. Il braccio di ferro si arricchisce di nuovi attori perché Marchionne arruola Ron Bloom, ex consigliere di Obama sul salvataggio dell’auto, per negoziare con il fondo sindacale mentre Veba sceglie come consigliere Deutsche Bank per prepararsi al mercato. Anche di questo Marchionne ha discusso con Enrico Letta durante una cena a New York, che ha visto il ceo di Fiat-Chrysler sostenere il premier: «E’ una persona forte, spero che continui». 

 da - http://lastampa.it/2013/09/27/economia/braccio-di-ferro-sullipo-chrysler-Wy8l1riwivPSBwV4nvWe3M/pagina.html
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« Risposta #99 inserito:: Novembre 22, 2013, 08:05:52 pm »

15/11/2013
Quei minuti che fermarono la  Storia


Il 22 novembre 1963 il Presidente John Fitzgerald Kennedy venne ucciso a Dallas.

Il corteo, la folla, gli spari, il pianto di   Jacqueline: ecco come andò

Maurizio Molinari
corrispondente da New York

Quell’autunno del 1963 John F. Kennedy è impegnato a preparare la prossima campagna presidenziale. Non ha ancora annunciato l’intenzione di ricandidarsi ma ha già deciso di farlo. In settembre ha fatto tappa in nove Stati dell’Ovest in meno di una settimana parlando di educazione, sicurezza nazionale e pace nel mondo. In ottobre è stato a Boston e Filadelfia. In novembre si concentra su Florida e Texas. Il 21 novembre parte per un tour di 48 ore in cinque città texane. Jacqueline, che raramente lo accompagna, è con lui: è la prima volta che si fanno vedere assieme in pubblico dopo la perdita del piccolo Patrick, in agosto. Iniziano da San Antonio, poi Houston, pernottano a Forth Worth. Il 22 novembre è l’ultimo giorno di vita del 35° presidente americano.

8.45 Kennedy parla a 5000 persone davanti all’Hotel Texas di Forth Worth, l’intento è sanare la spaccatura dei democratici texani fra il vicepresidente Lyndon Johnson e il senatore Ralph Yarborough.

9.00 Finito quello che sarà l’ultimo discorso in pubblico, Kennedy torna nell’Hotel Texas per incontrare un gruppo di imprenditori. Gli regalano cappelli e stivali da cowboy.

10.40 Kennedy e Jacqueline lasciano l’Hotel Texas per l’aeroporto. Il Presidente dice allo sceriffo della Terrant County: «Vivete in un luogo straordinario, tenetelo tale».

11.38 L’Air Force One con i Kennedy, i Johnson, il governatore John Connally e la moglie Nellie atterra all’aeroporto Love Fied di Dallas. Alle 12.30 Kennedy deve parlare al Trade Mart.

11.40 Una folta folla accoglie i Kennedy. Si fermano a stringere le mani. Molti i cartelli di benvenuto. Entusiasmo per la First Lady, che riceve un mazzo di rose. Sventolano drappi confederati.

11.45 La limousine presidenziale lascia il Love Field con i Kennedy e i Connally. JFK chiede delle condizioni atmosferiche e in ragione della bella giornata sceglie di viaggiare su una Lincoln scoperta. A guidarla è l’agente speciale Bill Greer. Tre macchine dietro c’è l’auto di Johnson. Il corteo deve percorrere i 16 km di distanza fino al Trade Mart, passando per Dallas.

11.50 La limo attraversa Lee Park diretta a Dallas. All’incrocio fra Lemmon Avenue e Lomo Alto Drive Kennedy ferma l’auto per salutare un gruppo di bambini sulla strada.

12.25 Il corteo attraversa il centro di Dallas. Da Ervay Street a Main Street due ali di gente circondano il corteo. È una folla amichevole, entusiasta, quasi invade le strade, obbliga il corteo a rallentare da 20 a 5 miglia orarie. Nellie Connally dice a Jfk: «Presidente, non potete dire che Dallas non vi ami».

12.29 Lasciata la Main Street, i motociclisti della polizia, l’auto di testa e la limo del presidente girano a destra verso Houston Street e poi a sinistra per Elm Street. Sulla destra c’è Dealey Plaza, uno spazio aperto, con pochi spettatori. Passano davanti al Texas School Book Depository.

12.30 Un suono taglia l’aria. La scorta immagina lo scoppio di un tubo di scappamento o a un fuoco d’artificio. L’unico che pensa subito ad un fucile è John Connally, esperto cacciatore. Kennedy sembra girarsi a sinistra. Otto secondi dopo i suoni di altri due proiettili. La testa del Presidente rimbalza all’indietro. Alcuni frammenti del cranio raggiungono il vestito della First Lady. L’agente Clint Hill balza sulla limo che si dirige a tutta velocità verso il Parkland Hospital.

12.35 La polizia ispeziona l’edificio del Texas School Book Depository dove, al sesto piano, c’è una finestra aperta.

12.36 La limo con Kennedy arriva al Parkland Hospital. Jacqueline ripete «hanno ucciso mio marito, hanno ucciso mio marito».

12.37 Nel reparto di emergenza quattro dottori operano Kennedy e elle il dottor Tom Shires descrive ai media le ferite di Kennedy.

13.30 Il portavoce della Casa Bianca, Malcolm Kilduff, annuncia la morte di Kennedy, che ha 46 anni. In realtà è avvenuta 30 minuti prima ma il portavoce ha aspettato che Lyndon Johnson arrivasse a bordo dell’Air Force One. Walter Cronkite, dagli schermi della Cbs, dà la notizia alla nazione tradendo commozione: «Da Dallas, Texas, il presidente Kennedy è morto».

13.30 La polizia interviene a Oak Cliff, incrocio fra 10° Street e Patton Street per l’uccisione dell’agente J.D. Tippit.

13.50 Viene arrestato Lee Harvey Oswald, un ex marine che ha vissuto in Urss, al Texas Theater. È entrato senza biglietto. Il rivenditore di auto usate Ted Callaway afferma di aver visto Oswald fuggire dal luogo dove Tippit è stato ucciso. Oswald al mattino ha lavorato al Texas School Book Depository, poi è andato a casa e ha preso una pistola prima della morte di Tippit. Oswald viene accusato di aver sparato i tre colpi contro Jfk con un fucile calibro 38 dotato di mirino telescopico.

14.08 L’auto con la salma del Presidente lascia l’ospedale diretta l’Air Force One. Jacqueline prende posto sul retro, con la bara.

14.15 La salma di Kennedy viene caricata sull’Air Force One. Il vicepresidente Johnson ha dato ordine di non decollare fino all’arrivo di Jacqueline e della salma. Bisogna smantellare quattro poltrone dell’Air Force One per fare spazio alla bara.

14.38 Lyndon Johnson, con a fianco Jacqueline Kennedy, giura sull’Air Force One come nuovo presidente. A raccogliere il giuramento è il giudice Sarah Hughes. È Robert Kennedy, ministro della Giustizia, a suggerire a Johnson di giurare prima di decollare.

14.50 Durante il volo Lyndon Johnson e la moglie chiamano la madre di Kennedy, Rose, per farle le condoglianze.

17.00 Sulla pista di Andrews Jacqueline, per mano a Robert Kennedy, guarda la bara del marito caricata su un’autoambulanza per essere portata al Bethesda Hospital per l’autopsia.

23 novembre. Oswald compare davanti al giudice a Dallas e viene incriminato per gli omicidi di Kennedy e dell’agente Tippit.

24 novembre. Oswald viene portato nel sotterraneo del quartier generale della polizia di Dallas per essere trasferito in prigione. Davanti ha una folla di agenti, reporter e cameramen, Jack Ruby si fa largo e colpisce a morte Harvey Lee Oswald con una pistola calibro 38. Subito arrestato, afferma di averlo fatto per rabbia contro l’assassino del Presidente. Condannato e detenuto, Ruby morirà nel 1967 per un tumore.

Da - http://lastampa.it/2013/11/15/esteri/speciali/jfk-50-anni-dopo/approfondimenti/quei-minuti-che-fermarono-la-storia-rCQVbtKJmEgG9Wg1nOdymL/pagina.html
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« Risposta #100 inserito:: Novembre 25, 2013, 04:26:14 pm »

Editoriali
25/11/2013 -Rrestroscena

Quattro anni di diplomazia segreta

Maurizio Molinari

L’accordo di Ginevra è frutto della diplomazia segreta iniziata da Obama nella primavera 2009 e condotta da diplomatici di carriera e in pensione, oppositori iraniani, centri studi di New York, consiglieri della Casa Bianca, lettere a Khamenei, viaggi segreti a Teheran di collaboratori di Ban Ki-moon e i buoni uffici del Sultano dell’Oman, accelerando i contatti da marzo, quando il presidente iraniano era ancora Ahmadinejad. 

A riassumere il capitolo meno noto della diplomazia dell’amministrazione Obama è stato il luogo della Casa Bianca scelto per annunciarne il successo: la State Dining Room, con alle spalle il grande ritratto di Abramo Lincoln. Proprio a Lincoln infatti Obama si riferì nel discorso di insediamento a Washington, il 20 gennaio 2009, ispirandosi alla sua scelta di «cooperare con i nemici» dopo la vittoria nella guerra civile per mandare un messaggio esplicito all’Iran: «Tenderemo la mano, se voi aprirete il pugno». 

Poche settimane dopo quel discorso Obama invia al Leader Supremo Khamenei la prima delle lettere - sarebbero almeno due - per suggerire un dialogo diretto sul nucleare. Le rivolte di piazza in Iran contro la rielezione di Ahmadinejad, nel giugno seguente, raggelano gli sforzi ma oggi sappiamo che «Khamenei vi reagì con grande interesse». È su tale base che, dal 2010, a tessere il dialogo sono tre inviati Usa: William Burns, numero 2 del Dipartimento di Stato, Jacke Sullivan, consigliere per la sicurezza di Joe Biden, e Puneet Talwar, consigliere della Casa Bianca. Lavorano in parallelo, puntando a creare più canali con i collaboratori di Khamenei - da cui dipende il programma nucleare - con il risultato di tessere una rete che sfrutta ogni possibile apertura. L’ex portavoce iraniano sul nucleare Hossein Mousavian, che insegna a Princeton dopo aver lasciato Teheran, diventa l’interlocutore di Susan Rice, oggi consigliere per la sicurezza, suggerendo i nomi degli esperti più vicini a Khamenei ed anche più competenti sulla materia. Ad offrire la piattaforma per gli incontri è il Sultato dell’Oman, Qaboos bin Said al Said, sfruttando il negoziato sulla liberazione di due giovani americani detenuti in Iran per suggerire a Teheran di «discutere anche di altro». Quando si tratta di andare in Iran, per accertarsi che i messaggeri di Khamenei siano credibili, a farlo è Jeffrey Feltman, ex diplomatico Usa a fianco di Ban Ki-moon con i gradi di vicesegretario generale Onu, e ciò consente di creare un canale stabile. Del quale Obama tace al Congresso e soprattutto gli alleati - sauditi e israeliani - più ostili a Teheran. In marzo, quando a Teheran c’è ancora Ahmadinejad, Obama punta su un’accelerazione scommettendo sulla svolta alle presidenziali. Burns, Sullivan e Talwar - veterano dell’amministrazione Bush - in Oman e altrove nel Golfo iniziano a redigere le prima bozze con gli inviati di Khamenei. La vittoria di Hasan Rohanì dà coraggio a Washington e il passo successivo - la telefonata con Obama durante l’Assemblea Generale dell’Onu - ha come mediatori Suzanne DiMaggio, vicepresidente dell’Asia Society, e Valerie Jarrett, la più stretta consigliera di Obama, nata a Shiraz da genitori americani e amica di Michelle. I 15 minuti di conversazione sono la luce verde per puntare a Ginevra ed è solo adesso che Obama informa gli altri leader del Gruppo 5+1, gli israeliani e i sauditi. Ecco perché il negoziato sul contenzioso decennale si è concluso in meno di 20 giorni. Ma non è finita: nei prossimi sei mesi i canali segreti Obama-Khamenei dovranno cementare con «gesti bilaterali» l’applicazione delle intese sul nucleare. 

Da - http://lastampa.it/2013/11/25/cultura/opinioni/editoriali/quattro-anni-di-diplomazia-segreta-naCeUPHF6hlpLhgLQQtWmK/pagina.html
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« Risposta #101 inserito:: Dicembre 04, 2013, 11:18:16 am »

Economia

03/12/2013 - il manager parla al consiglio per le relazioni fra Italia e Stati Uniti
Marchionne: “L’Italia deve scegliere tra il sistema Usa e quello tedesco”
Il ceo di Fiat-Chrysler: per il Paese l’importante è avere un governo stabile


Al termine di due giorni di lavori del Consiglio per le relazioni fra Italia e Stati Uniti che co-presiede, Marchionne affronta i temi dell’economia iniziando dal negoziato sul Trattato su libero commercio di beni e investimenti fra Usa e Ue

Maurizio Molinari
inviato a Washington

«Per l’Italia non è più tempo di compromessi, bisogna scegliere fra i sistemi economici americano e tedesco»: a dirlo è Sergio Marchionne, ceo di Fiat-Chrysler, auspicando per il nostro Paese un «governo stabile» e «riforme simili a quelle che consentono alla Spagna di attirare investimenti stranieri».

Al termine di due giorni di lavori del Consiglio per le relazioni fra Italia e Stati Uniti che co-presiede, Marchionne affronta i temi dell’economia iniziando dal negoziato sul Trattato su libero commercio di beni e investimenti fra Usa e Ue. «Può essere importante per togliere ostacoli agli scambi» osserva, ricordando che «al governo Monti avevamo chiesto di superare gli ostacoli interni ed esterni al commercio». 

Ciò che più conta per l’Italia è però avere un «governo stabile» capace di «attirare gli investimenti» con riforme simili a «quelle realizzate dalla Spagna» al fine di «compiere una scelta netta» fra «i sistemi economici di Germania è Stati Uniti che sono opposti» con «quello americano che cresce il doppio».

Da - http://lastampa.it/2013/12/03/economia/marchionne-litalia-deve-scegliere-tra-il-sistema-americano-e-quello-tedesco-dtT7B9Y2arhFNx1Z6XDzdN/pagina.html
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« Risposta #102 inserito:: Gennaio 19, 2014, 05:55:50 pm »

Esteri
19/01/2014

Silicon Valley in riva al Mediterraneo
In Israele un polo hi-tech a 15 minuti da Tel Aviv è la capitale delle start-up.
Qui giovani imprenditori e creativi attirano investimenti da Apple, Facebook e Google.
“La Storia ci fa mettere in discussione e le incertezze del Medio Oriente ci obbligano a moltiplicare  le invenzioni di successo”

Maurizio Molinari
inviato a Air port city

Chi vuole affacciarsi sulla Silicon Valley d’Israele può farlo dal numero 1 della Hasharon Street. Siamo a 15 minuti di auto da Tel Aviv, meno di un’ora da Gerusalemme o Haifa, praticamente nel centro delle tre maggiori regioni economico-industriali di Israele.

È qui che sorge Air Port City, il «business park» vetrina dell’Information Technology che ha trasformato lo Stato ebraico nella nazione delle start-up attirando negli ultimi due anni almeno 14 miliardi di investimenti da parte dei giganti dell’economia digitale. È un complesso di edifici e padiglioni dove gli eventi si succedono a ritmi serrati, punto d’incontro fra innovatori e investitori. Il prossimo sarà a metà febbraio. CleanTech è l’unica fiera internazionale della tecnologia ecocompatibile e quest’anno vedrà oltre 600 aziende israeliane presentare i loro gioielli. Cartelli pubblicitari in loco e inserzioni online illustrano l’evento in giapponese, cinese, coreano e inglese preannunciando da dove è attesa la maggioranza degli imprenditori stranieri. 

Ad accompagnarci fra i padiglioni con l’allestimento quasi terminato è Denes Ban, ceo di OurCrowd Venture ovvero il talent scout delle start-up. Quest’anno Ban ha raccolto 31 milioni di dollari per offrire a 30 giovani imprenditori hi-tech la possibilità di affacciarsi sul mercato globale staccando assegni da 1 milione di dollari. OurCrowd è il fondo di investimento più attivo del Paese ed è anch’esso una star-up perché somma crowdfunding e venture capital. «Esaminiamo ogni start-up, su quello che ci convince investiamo con il crowdfunding offrendo ad ogni persona di partecipare - spiega Ban - e poi raccogliamo venture capital come gli altri fondi».

In questa maniera miliardari e singoli cittadini, israeliani o non, possono diventare inconsapevolmente soci di una stessa azienda. È una dinamica che spiega il proliferare di giovani aziende ad alto tasso tecnologico nei settori più diversi, in un mercato nazionale che continua a espandersi a ritmi da capogiro. Moment.me, creata da Ronny Ekayam e Eilon Tirosh, misura in tempo reale sul web la popolarità di un evento di interesse: che si tratti del giuramento di Barack Obama, di una partita del Real Madrid o del proprio matrimonio, consente di sapere in quanti sulla Rete hanno seguito - o stanno seguendo - un evento, di persona o attraverso conversazioni sui social network.

Lia Kislev è la creatrice di WiShi - «Wear it, Share it» - un hub digitale che tiene aggiornati su cosa c’è nell’armadio delle amiche o degli amici - per poter condividere i capi di abbigliamento, moltiplicando le possibilità di vestirsi e trasformando gli abiti in un collage di amicizie. Con Wix, Vered Avrahami offre la possibilità di creare un’azienda online e al momento la piattaforma conta 42 milioni di utenti registrati in tutto il mondo, gestiti con sedi a Tel Aviv, San Francisco, New York, Dnepropetrovsk e Vilnius. 

Matan Peled, ex comandante di ricognitori della Marina militare, con Winward permette di monitorare ciò che avviene sulla superficie degli Oceani scoprendo «ogni tipo di anomalie» che possono celare naufragi, barche di terroristi o concorrenza sleale mentre con SimilarWeb Boaz Sasson e Natalie Halimi paragonano i siti sulla base degli accessi dal Desktop, tracciando delle classifiche di popolarità che riservano sorprese. A dimostrarlo è il fatto che, senza calcolare accessi da cellulari e iPad, proprio SimilarWeb ha svelato in agosto che Google ha nella sola America più contatti di singoli utenti che Yahoo nel mondo intero: 9,4 miliardi contro 2,4 miliardi. Nessuna sorpresa se i giganti dell’economia digitale gareggiano nello shopping israeliano. 

Negli ultimi due anni Google, Apple, Intel, Ibm e Cisco hanno fatto acquisizioni pubbliche per 4 miliardi di dollari ma Zack Weisfeld, top manager di Microsoft in Israele, ritiene che «calcolando gli accordi non annunciati si arriva a 14 miliardi di dollari di acquisizioni dal 2012». Con gli ultimi 18 mesi in crescita: Facebook ha acquistato Onavo per 200 milioni di dollari, Apple ha fatto lo stesso con PrimeSense versando 345 milioni di dollari e Google ha sborsato ben 1 miliardo di dollari per avere Waze, l’applicazione che informa sul traffico nelle strade basandosi sul dialogo interattivo fra gli automobilisti. Sono queste le ultime notizie che arrivano dalla «Start Up Nation» descritta nel libro di Dan Senor e Saul Singer nel 2009 quando Israele già vantava il maggior numero di aziende straniere quotate sul Nasdaq. 

Sulla genesi di questo fenomeno Asaf Peled, ceo del colosso dell’informazione digitale FTBpro, osserva: «Sono le incertezze del Medio Oriente ad aver determinato la moltiplicazione di invenzioni di successo». Denes Ban riassume tale originale dinamica in tre fattori convergenti. Primo: «Israele è di per sè una start-up perché è stato creato dal nulla grazie agli immigrati e si trova dall’inizio in una situazione unica, con un mercato interno assai ridotto e intorno nazioni nemiche, ostili, trovandosi obbligato a interagire su scala globale». Secondo: «La formazione culturale ebraica perché il Talmud, studiato negli ultimi 4000 anni, insegna a mettere sempre tutto in dubbio, contestando lo status quo, così come il principio del “Tikun Olam”, la riparazione del mondo, spinge costantemente a operare correzioni». Terzo: «Il servizio militare nazionale perché l’esercito israeliano porta ragazzi di 23-24 anni a conoscere la tecnologia più avanzata esistente così come ad assumersi responsabilità insolite in situazioni di alto rischio» oltre al fatto che «i nostri soldati sono noti per contestare i superiori quando ritengono sbagliati gli ordini e ciò contribuisce a svilupparne il carattere di leader».

Proprio a quest’ultima caratteristica fa riferimento Tal Slobodkin, manager di Cisco System in Israele, spiegando che dal 1998 Cisco ha acquistato 11 start-up israeliane e ha investito in altre 22 «trattandosi di aziende rilevanti nei settori di networking, gestione dei Big Data, sicurezza e video» attingendo alle conoscenze di numerosi ex ufficiali. Nulla da sorprendersi se Guy Pross è fra gli imprenditori più ricercati in Sud Corea: la sua start-up North 31° - la collocazione geografica di Israele - promuove l’uso dell’Information Technology a favore delle infrastrutture. «Che si tratti di trasporti, energia o acqua è lo scambio di tecnologia la strada da seguire - dice Pross -consentire alle start-up di andare oltre le applicazioni e migliorare le infrastrutture». Il termine che Pross adopera per descrivere questa nuova frontiera è «innovazioni mid-tech». Un esempio viene da TaKaDu, che ha sviluppato il software capace di raccogliere Big Data sugli acquedotti - grazie ad un sofisticato sistema di sensori - per intervenire ed eliminare le perdite di acqua potabile che ammontano, ogni anno, al 25 per cento del totale.

Da - http://lastampa.it/2014/01/19/esteri/silicon-valley-in-riva-al-mediterraneo-jKQqAhYhYW2shM0CHtMZlL/pagina.html
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« Risposta #103 inserito:: Febbraio 10, 2014, 05:24:27 pm »

Esteri
07/02/2014

Unità 8200, l’Nsa israeliana che sforna milionari hi-tech
Gli ex soldati cibernetici conquistano la Silicon Valley
Una società israeliana anti-attacchi di pirati informatici

Maurizio Molinari
corrispondente da Gerusalemme

È la più numerosa unità dell’esercito israeliano ma il nome del comandante è segreto, ha la base in un’installazione del Negev di cui esistono poche immagini, combatte la guerra cibernetica e sforna tycoon dell’hi-tech: stiamo parlando della task force 8200, l’equivalente della National Security Agency (Nsa) americana, da cui proviene un numero crescente di Ceo degli start up protagonisti del boom digitale dello Stato ebraico.

Creata in maniera rudimentale nel 1952, grazie ad alcune attrezzature che avanzavano all’esercito americano, l’«unità per la raccolta dati» dell’intelligence israeliana resta un segreto fino al 2010 quando Amos Yadlin, capo dei servizi segreti militari, ne svela l’esistenza in anticipo di qualche mese sulle ammissioni iraniane sui virus Stuxnet e Stars che aggrediscono gli impianti nucleari di Teheran causando gravi danni e ritardi che saranno attribuiti dal «New York Time» alla cooperazione fra Nsa e unità 8200. Da quel momento le informazioni filtrano con il contagocce: la base di 8200 si trova nel deserto del Negev, i suoi compiti sono protezione dagli attacchi cibernetici, blitz digitali contro i nemici e raccolta di megadati.

Da qui la curiosità per la moltiplicazione dei veterani che si affermano nel settore dell’hi-tech, le cui esportazioni annuali ammontano a 25 miliardi di dollari ovvero un quarto del totale. Si tratta di un universo di oltre cinquemila aziende e circa 230 mila dipendenti fra i quali spiccano nomi come quello di Yair Cohen, l’ex generale che è stato comandante dell’unità 8200 e ora guida l’intelligence cibernetica di Elbit System, uno dei giganti della Difesa.

Fra i suoi ex commilitoni ci sono Yehuda e Zonhar Zisapel, che hanno creato e venduto dozzine di start up per centinaia di milioni di dollari, così come Aharon Zeevi Farkash, anch’egli ex capo della 8200, che lasciata la divisa ha fondato Fts21, lo start up mirato a seguire i gusti degli adolescenti. Yossi Vardi, che creò nel 1969 la prima azienda di software in Israele, afferma che «l’unità 8200 ha creato più milionari nell’hi-tech di qualsiasi università israeliana». Aziende digitali come Nice, Converse e Check Point sono state fondate da veterani della 8200 grazie all’esperienza maturata nella gestione della più avveniristica tecnologia. I giganti globali cercano di assicurarsi prodotti e cervelli frutto dell’unità 8200, come ha fatto Ibm acquistando per oltre 800 milioni di dollari Trusteer, un provider di cybersicurezza cloud per istituzioni finanziarie.

Il segreto di Trusteer è un software capace di identificare sofisticate minacce alla sicurezza consentendo alla clientela di operare in maniera analoga alla protezione delle infrastrutture strategiche - trasporti, energia e banche - dal cyberterrorismo. Micky Boodaei, ceo di Trusteer, riconosce all’unità 8200 di essere divenuta un «incubatore di start up di qualità» e per Farkas ciò si spiega con il fatto che «il modello organizzativo dell’intelligence cibernetica incoraggia a pensare con la propria testa, innovando in continuazione».

Per Yuval Diskin, ex capo della sicurezza interna di Israele, «la necessità di sviluppare la cybersicurezza nasce dal fatto che non ci possiamo permettere di aspettare il domani in quanto le minacce più sofisticate battono alle nostre porte». E le potenzialità cibernetiche «rientrano nella dottrina militare israeliana - conclude - basata su attacchi preventivi e tentare di combattere in territorio nemico».

Da - http://lastampa.it/2014/02/07/esteri/unit-lnsa-israeliana-che-sforna-milionari-hitech-pulHeVzZdAkDvIdwcPv2dI/pagina.html
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« Risposta #104 inserito:: Giugno 01, 2014, 04:43:23 pm »

Editoriali
01/06/2014

Dialogo con i nemici: è la dottrina Obama
Maurizio Molinari

Con lo scambio fra cinque detenuti di Guantanamo e l’ostaggio americano Bowe Bergdahl, Barack Obama sigla il primo patto con i taleban.

Il presidente Usa legittima il nemico contro cui l’America combatte dall’ottobre 2001 e porta alle estreme conseguenze la dottrina multilateralista sulla politica di sicurezza illustrata nel discorso di West Point. 

Il patto con i taleban è frutto di un negoziato segreto di almeno sei mesi teso non solo a liberare il soldato Bergdahl, prigioniero da cinque anni, ma anche ad aprire un dialogo con la guerriglia afghana in vista della fine delle operazioni militari a Kabul: la Casa Bianca è consapevole che il successore di Hamid Karzai sarà vulnerabile sulla sicurezza e cerca interlocutori anche fra i suoi nemici giurati per scongiurare l’incubo di un Afghanistan di nuovo in fiamme. In questa maniera Obama legittima l’avversario jihadista, alleato di Al Qaeda, contro cui l’America intervenne in reazione agli attacchi all’11 settembre 2001, confermando la strategia del dialogo con l’Islam fondamentalista che ha visto Washington sostenere in Egitto i Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi. Ad evidenziarlo è il ruolo di mediatore del Qatar: un emirato messo all’indice dalle monarchie Golfo per i legami con i Fratelli Musulmani che ottiene invece adesso, grazie a Obama, un successo di immagine grazie a cui rompe l’isolamento arabo. Sono mosse che descrivono la volontà del presidente Usa di inoltrarsi con decisione sulla strada del multilateralismo illustrato giovedì a West Point: l’America non si limita a ripugnare gli interventi militari per risolvere le crisi ma rilancia con forza il dialogo con i nemici. Come conferma anche la volontà di raggiungere entro luglio un’intesa sul programma nucleare dell’Iran di Hassan Rouhani.

Resta da vedere quali saranno le conseguenze di tale approccio per la credibilità dell’America. Obama sbarca domani a Varsavia in un’Europa dell’Est che gli contesta eccessi di timidezza con Vladimir Putin sull’Ucraina in maniera assai simile a come i più stretti alleati arabi gli rimproverano il mancato intervento contro Bashar Assad in Siria. Nel momento in cui coglie un primo concreto risultato del dialogo con i nemici, perseguito con costanza sin dal discorso del primo giuramento a Washington il 20 gennaio 2009, Obama si trova obbligato a fare i conti con lo scontento crescente dei propri alleati che, dal Baltico a Hormuz, sono intimoriti da una Casa Bianca meno determinata a difenderli.

Da - http://lastampa.it/2014/06/01/cultura/opinioni/editoriali/dialogo-con-i-nemici-la-dottrina-obama-Llbh8OSGa7UbTuNPtfKVRK/pagina.html
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