LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Settembre 24, 2007, 11:10:08 pm



Titolo: MAURIZIO MOLINARI
Inserito da: Admin - Settembre 24, 2007, 11:10:08 pm
Storie di carta

Maurizio Chierici


La Confederazione Internazionale Sindacale informa che nel 2006 in Colombia sono stati assassinati 76 sindacalisti. Ma la Colombia è lontana, e per di più allineata al liberismo duro: insomma, non fa notizia. Stiamo perdendo di vista cosa succede nei posti lontani. Ci tormentano altri pensieri e altre grida. Solo i ragazzi e qualche intellettuale resistono nel voler sapere, ma da chi?

Anche gli americani soffrono della stessa amnesia mentre il dollaro precipita, mutui casa allo sbando. Un’inchiesta pubblicata a Washington precisa l’oblio. Il nome dei governanti dei paesi latino-americani restano sconosciuti. Il più ricordato è naturalmente Fidel Castro anche se appena il 51% degli informati non ha saputo rispondere alla domanda se era vivo o morto; 49 americani su cento conoscono Chavez, presidente del Venezuela, con gli aggettivi che ne accompagnano le gesta sul piatto della cena davanti alla tv: «Dittatore, repressore, narcisista».

Calderon governa il Messico ed è noto al 21% del campione intervistato («per lo più messicani e latini»). Nel sonno del Mid West prevale il silenzio. Stranezza in un Paese dove gli affari sono importanti ed il Messico fa parte del Nafta, mercato comune che lo unisce a Stati Uniti e Canada. Come se gli italiani non avessero mai sentito parlare di Zapatero o Sarkozy. Anche l’Italia pensa ad altre cose. Dopo il disimpegno dei cinque anni berlusconiani e nessun ministro che attraversava il mare (con l’eccezione del senza portafoglio, emigrante Tremaglia), l’evoluzione politica resta confusa. Oltre agli affari, quasi niente. Pescando nei ricordi: nel 1984, mentre il Nicaragua poverissimo si dissanguava nella guerra scatenata dai contras finanziati con triangolazioni oscure (Oliver North e Irangate) dagli Stati Uniti di Reagan, a Managua arriva la notizia che il ministro degli esteri Andreotti lascia l’assemblea Onu di New York per un breve soggiorno in Costa Rica, accompagnato da Lamberto Dini in quel momento in bella luce nella Banca d’Italia. I giornalisti che raccontano l’agonia di un popolo stremato, volano da Managua in Costa Rica dove l’ambasciatore del Nicaragua a Roma è lì che aspetta con una lettera per il nostro ministro degli esteri. Spera nella mediazione italiana per frenare i massacri. L’ambasciatore distribuisce la lettera ai giornalisti dopo averla consegnata ad Andreotti. Ma la conferenza stampa è una delusione. Italo Moretti (Tg2), Franco Catucci (Tg1) e tutti gli altri, vogliono sapere dal ministro se la sua presenza autorizza questa speranza: «Potremmo parlarne, ma loro dovrebbero almeno farsi vivi e chiederlo». Ironia di un politico ironico. Forse aveva dimenticato la lettera in camera. Non se n’è fatto niente anche perché Andreotti e Dini si trovavano a Managua per un impegno più importante: inaugurare il supermercato Duemila aperto da Donatella Pasquali Zingone, vedova del magnate bergamasco rifugiato nel paradiso fiscale centro americano, inseguito da una bancarotta fraudolenta. Supermercato costruito anche con fondi italiani, regolarmente aggiudicati appena il Costarica, Svizzera tropicale, si è dichiarato paese sottosviluppato. Allora si diceva così. E alla Svizzera in miniatura Roma aveva attribuito quasi un terzo degli aiuti destinati al terzo mondo con salomonica divisione fra imprenditori di ispirazione democristiana e socialista.

Ora l’Italia è cambiata. Teleselezione, satelliti Tv, computer: si sa tutto di tutti. Il ministro D’Alema e il sottosegretario Donato Di Santo vanno e vengono dal continente latino: Cile, Brasile, Argentina, Venezuela, Messico. Amicizie con Lula, Lagos, la Bachelet. Non pacche sulla spalla o corna alle spalle mentre lampeggia la foto. Ne discutono i problemi derivandone analisi realistiche. Insomma, a loro non può succedere, eppure ad altri è successo. Niente supermarket e tv, ma gli approcci del turismo politico continuano. Scopro in ritardo il racconto del viaggio in Venezuela di Raffaele Bonanni, segretario nazionale della Cisl: una sorpresa. Perché Bonanni è sindacalista che viene dalla gavetta dura. Ha una visione concreta della realtà. Sa cosa vogliono dire emarginazione e fatica. Tessera Cgil che diventa Cisl nel 1972. Manovale in un cantiere della Val di Sangro, va nella Sicilia anni 80 difficile per chiunque, soprattutto per chi vuol smontare le infiltrazioni mafiose nelle opere pubbliche. Impegno che lo abitua alla tenacia e alla pignoleria. Un anno fa succede a Pezzotta con l’esperienza di chi ha affrontato le ingiustizie spalla a spalla con la gente. Non discuto il suo giudizio su Chavez: le conclusioni possono essere diverse, dipende anche dal controllo delle informazioni che le determinano. La meraviglia è dove Bonanni racconta di aver raccolto queste informazioni. Non nella Caracas delle baracche o nei cantieri dove la gente lavora con paghe regolate dopo 40 anni da leggi antisfruttamento. Non ha ascoltato intellettuali indipendenti, divisi tra l’opposizione e l’appoggio a Chavez. Stando al racconto de La Stampa, ha guardato il Venezuela da Chacao, uno dei municipi nelle mani dell’antichavismo radicale liberamente tutelato da una polizia diversa da quella di Stato. Lo abita una popolazione agiata. «Quando sono arrivato, i nostri amici sindacalisti mi hanno detto: “vai a dormire a Chacao, è più tranquillo”». Otto anni prima - racconta Bonanni - avevo visitato il Venezuela viaggiando anche nell’interno. Adesso ha raccolto segnali «che somigliano a quelli dell’Argentina prima del disastro peronista. Soprattutto la violenza: non si riesce più a distinguere fra quella dei delinquenti e quella, per così dire, istituzionale». Traduco: squadre della morte agli ordini di Chavez. Forse gli amici non lo hanno informato che otto anni fa, governo del presidente socialcristiano Caldera, ogni fine settimana Caracas contava 215 omicidi. Si sparava per rubare un paio di scarpe. Oggi sono 137, la tragedia continua, ma perché solo adesso spaventa?

Non so cosa ha imparato Bonanni nell’incontro «con cinque sindacati», ma è sicuro che il sindacato al quale ha prestato orecchio è quello dei «cugini» della Cisl, la Cvt di Manuel Cova. Il suo leader storico, Carlos Ortega, viene definito «in esilio da qualche anno» per aver sostenuto la «resistenza» a Chavez. Carlos Ortega, baffi e stazza da peso massimo, ha una storia ben più complicata. Per Ortega, sindacato voleva dire potere e petrolio. Negli anni delle democrazie disfatte dalla corruzione, il 20-23% del petrolio pompato dal 5° produttore del mondo, spariva senza passare dogana. Sul traffico vigilava un’ala della Ctv che è riuscita ad eleggere Ortega presidente, in quanto raccordo tra la petroliera venezuelana (Pdvsa) e i protagonisti del colpo di Stato 2002. Votazione fraudolenta, accusa Alfredo Ramos, altro leader Ctv. Metà delle schede sparite, se ne va. Quando Pedro Carmona, presidente degli industriali, annuncia la presa di potere spuntano Carlo Ortega e Manuel Cova. Hanno appoggiato il golpe ma sono delusi malgrado Chavez sia prigioniero: il nuovo presidente li ha esclusi dal governo. Ecco l’idea di abbattere il Chavez risorto «con uno sciopero gigantesco»: lo proclama Ortega a Miami nel dicembre 2002 quando lo sciopero è cominciato e il blocco del petrolio precipita per 62 giorni il Paese nel caos. Economia distrutta, ma Chavez sopravvive per la seconda volta e Ortega si rifugia nell’ambasciata del Costa Rica: asilo politico. Emigra a San Josè, si ferma fino al 2004 e poi rivuole il passaporto. Perché? «Per guidare in Venezuela l’insurrezione contro il regime di Chavez». Sparisce per un anno e la sua insurrezione si conclude in una sala bingo di Caracas dopo il fallimento della rivolta petrolifera: lo pescano con due ragazze. Come il Gelli P2 fuggito dal carcere svizzero, anche Ortega si è fatto crescere baffi diventati nerissimi. Arrestato, processato, condannato a 15 anni, scappa da una prigione superprotetta. Ancora non si sa come. Rispunta dieci giorni fa a Lima dove il presidente peruviano Alan Garcia gli ha concesso il secondo asilo. Con quali soldi Ortega viaggia, paga avvocati, affitta belle case, nutre la dolce vita con le ragazze? Il mistero continua. Ecco perché spiace che un sindacalista serio come Bonanni non abbia approfondito la sostanza morale degli amici di una Ctv ormai ridotta a niente.

Chi davvero si interessa dei lavoratori ha preso le distanze da Ortega. Di Chavez si può dire tutto ed è giusto scriverlo quando provato: vorrei che Bonanni spiegasse chi gli ha raccontato del pantheon dove il «dittatore» avrebbe infilato Marx, Mussolini e Gesù, uno di fianco all’altro. Nessuno lo ha mai visto. «Nel Paese circolano gruppi paramilitari. Nell’ultimo anno sono sparite cento persone e alcuni sindacalisti». Scriverà alla confederazione sindacale mondiale dissotterrando la storia nera nascosta dal regime. Con le prove affidategli dalla Ctv. Finalmente sapremo e Chavez dovrà rispondere. Ma se le storie fossero di carta, immagino che Bonanni forse si pentirà di aver osservato il «dramma Venezuela» seduto attorno a un campo da golf.

mchierici2@libero.it

Pubblicato il: 24.09.07
Modificato il: 24.09.07 alle ore 9.03   
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Titolo: Maurizio Chierici - Una storia cilena
Inserito da: Admin - Ottobre 08, 2007, 10:31:41 pm
Una storia cilena

Maurizio Chierici


Le voci politiche dei siparietti tv aprono labirinti dai quali è difficile uscire avendo chiaro in quale modo risolvere i problemi. Corporazioni economiche e politiche impegnate nella caccia agli elettori. Palazzo Chigi assediato. Tutto e subito. Subito tagliare le tasse, subito arrotondare gli stipendi, io sono con voi e il nostro governo deve capire. Nelle piazze i comici agitano un qualunquismo documentato, quindi sacrosanto, ma con quale sbocco? Le forme della democrazia non sono in pericolo anche se scricchiolano le abitudini di un sistema che avvilisce la maggioranza e rallegra l’opposizione. Resta il problema del dopo.

La storia raccoglie la vita in movimento. Sfogliandola possiamo intravedere cosa potrebbe succedere domani.

Per non entrare nella matassa delle polemiche mediatiche, cerco nel passato una situazione che in un certo modo ricordi le procedure della nostra. Nella quale è escluso il dramma, non le sofferenze: contorsioni che risuonano con le stesse parole. Quel Cile di cinquant’anni fa dove tutti volevano tutto ed è finita come sappiamo.

Nel 1970 la Unidad Popular di Salvador Allende conquista la maggioranza relativa: 36% dei voti. Diventa presidente ma deve scendere a patti col Parlamento controllato dai democristiani. Non sono solo i democristiani a rimettere in discussione il socialismo riformatore. L’Unidad Popular si divide con pretese che contraddicono la cautela del capo dello Stato. Ogni partito frantuma le correnti dove i personalismi minacciano il disegno del presidente. La sinistra del Mir (movimento de la isquierda revolucionaria) pretende riforme radicali e immediate. E il partito socialista, partito col quale Allende ha intrecciato la vita, non esclude di smantellare l’intransigenza del vecchio dottore «dando la parola alla piazza». Unico alleato sicuro, Luis Corvolan, segretario del partito comunista. Sa cosa vuol dire tirare troppo la corda quando la corda è finita. Anche radicali e i cattolici usciti dalla Dc per confluire nella coalizione della sinistra, non offrono un appoggio tranquillo.

Pochi hanno tagliato le radici col vecchio partito. Resistono amicizie e parentele. Andrés Aylwin chiede a Patricio, fratello che guida la Dc, di mettersi d’accordo con Allende: «Non sai cosa sono i militari. Obbediscono agli ordini senza ragionare. Macchine prussiane sulle quali soffiano i leader democristiani delle province sempre più vicini al Partito Nazionale». Il Partito Nazionale è il partito della destra di Alessandri ex presidente e padre del candidato appena sconfitto da Allende. Rappresenta, prima di tutto, gli interessi del protagonista e poi banche, giornali, grande industria. Spera nel ribaltone, anche perché Korry, ambasciatore americano in Cile, lo conforta con le stesse parole rivolte al presidente uscente, democristiano Eduardo Frey: «Non arriverà una sola vite, un solo bullone con Allende alla Moneda. Faremo di tutto per condannare i cileni alla miseria». Adrés Aylwin si rivolge all’arcivescovo Raul Silva Henriquez supplicandolo di favorire l’incontro tra il fratello ed Allende. Si incontrano con le mani legate. Patricio Aylwin accetta di dialogare, ma il mandato del partito è rigido: non dobbiamo sostenere i disastri di un governo che non ci piace. Lasciamolo cadere, torneremo al potere. Allende arriva col diktat dell’alleato più solido: Corvalan per la prima volta detta condizioni. Coi democristiani niente da fare.

Vogliono rimettere in piedi una coalizione di centro arruolando moderati della Unidad Popular e della destra di Alessandri. I nostri elettori non capirebbero. Allende e Aylwin parlano per un’ora ma non sanno cosa dirsi. Tornando alla Moneda, Allende si lascia andare col segretario che lo accompagna da 25 anni. Gli resterà al fianco sotto le bombe di Pinochet. «Perché continuiamo a farci del male? Come spiegare ala nostra gente il fallimento dicendo che continuiamo a litigare? A chi servono i ricatti gridati in piazza?». Osvaldo Puccio lo racconta nel libro Un cuarto de siglo con Allende, pagine che testimoniano le amarezze di un presidente pietrificato dalle guerriglie intestine. Voci dei leader al governo che in ordine sparso distribuiscono prediche ai fedeli trascurando l’armonia della coalizione.

Sanno dei conti che non tornano, dell’economia che balbetta ma tirano diritto. E l’opposizione aspetta. Tutto e subito, insiste Carlos Altamirano. La sua biografia è complicata. Nato in una delle famiglie ricche del Paese (nonno che ha fondato e governa la banca del Cile), è destinato all’eredità di miniere e latifondi. Inganna l’attesa con viaggi in Europa. Padre liberale e conservatore di ferro. Amici di famiglia, americani dell’Itt: controllano il monopolio del rame. Parigi gli cambia la testa. Quando torna non sopporta le venti persone di servizio che girano per casa. Non gli piace essere figlio dell’«ultimo viceré».

Incontra Allende e ne sposa la speranza col furore del convertito. Affetto ricambiato.

Allende ha tre figlie, avrebbe voluto un maschio. Ecco Altamirano. Fa carriera trascinato da questo affetto e il radicalismo indurisce e diventa un’ossessione appena guida il partito socialista pilastro del governo. Tutto e subito. Allende sa come vivono i minatori: è stato il primo senatore a proporre leggi in favore dei poveri. Allarga a tutti il diritto alla salute, ma il fiuto di vecchio politico suggerisce prudenza. Nazionalizzare il rame e ogni miniera, espropriando non solo l’Itt, ma altri poteri transnazionali, voleva dire Cile isolato dagli Stati Uniti e disordini che sa come possono essere gonfiati. I grandi borghesi che non pagano tasse, le famiglie politiche così brave nel maneggiare l’opinione pubblica, stanno per trascinare nella rivolta la piccola borghesia. Altamirano non si scompone ed elenca le urgenze. «Se non nazionalizziamo, armo i minatori»: non è solo la sua minaccia.

Il brontolio di ogni alleato sgretola il governo. Alla fine Allende si arrende confidando negli aiuti che non verranno. Mosca non compra un grammo del rame nazionalizzato. Buone parole, baci, ma sotto i baci niente. I democristiani cileni che cercano aiuto a Roma trovano il silenzio di un Fanfani deciso a «guadagnare tempo». Moro e i suoi provano a fare qualcosa, ma restano minoranza. L’embargo promesso dall’ambasciatore diventa imperforabile. E comincia la piazza. Villarin, presidente del sindacato camionisti, organizza mesi di sciopero che paralizzano un Paese lungo quattromila chilometri. Le città restano a secco. Fabbriche senza materie prime e dai quartieri rosa scendono belle signore con le pentole in mano. Suonano come campane. Vuote. Non sappiamo cosa mangiare. Invano gli appelli di Allende invitano alla calma lasciando capire che il destino dei meno fortunati sarebbe diventato ancor più tragico se avesse accettato il radicalismo che gli si chiedeva. Alla fine succede ciò che era stato preparato esasperando l’opinione pubblica con televisioni e giornali. L’opposizione ne ha le chiavi: il governo affama il Paese, mandiamolo via. E Pinochet provvede.

Anni dopo Corvalan confessa d’aver sbagliato ad impedire il dialogo tra Aylwin e Allende. Anche Patricio Aylwin si lascia andare davanti alla telecamera di Italo Moretti: era convinto che le alte uniformi sarebbero tornate in caserma. Ha taciuto e i militari sono rimasti. Ho incontrato Carlos Altamirano tornato dall’esilio appena torna la democrazia con Patricio Aylwin presidente. Altamirano si dichiara colpevole «della tragedia che ha ucciso migliaia di cileni, che ha imposto l’esilio a un milione di persone e costretto a trent’anni di paura chi non sapeva dove scappare». Mea culpa raccolta in un libro, esempio inutile della morale nella storia. Nobiltà del pentimento, ma trent’anni dopo non resuscita nessuno.

L’esempio sembra lontano. La nostra Roma non diventerà Santiago anche se le intemperie dei protagonisti ne ricordano le voci. Niente spaghetti in salsa cilena, come scriveva Newswek negli anni 70, a proposito dell’infantilismo politico nascosto nel terrorismo. Quando Prodi deciderà di lasciare, o ne sarà costretto, andrà fare il nonno oppure il professore con le domeniche in bicicletta. Nessuno immagina di bombardarlo. Il Cavaliere, Fini e Calderoli non si metteranno in divisa, eppure le loro parole d’ordine e la bagarre di chi oggi appoggia il governo fanno venire in mente quel Cile sciagurato. Compagni di coalizione in eterna guerriglia. Allende si è rassegnato a morire, i reduci del «Prodi due» torneranno alla routine, si adatteranno a poltrone meno illuminate. Peones che ricominceranno a galleggiare. Ma la felicità e l’infelicità di chi ha bisogno non ne ricaverà vantaggi. Gli esempi sono lì. Quanti lavoratori oggi lavorano 36 ore la settimana o beneficiano della modifica del famoso articolo 18 che avrebbe dovuto tutelare i dipendenti della aziende minori? Quel tutto e subito che ha inginocchiato il primo governo Prodi. I privilegi continueranno ad addolcire i privilegiati. Cari operai, ci siamo sbagliati, allungate la pazienza. La metafora cilena può spiegare tante cose.

mchierici2@libero.it

Pubblicato il: 08.10.07
Modificato il: 08.10.07 alle ore 9.33   
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Titolo: Maurizio Chierici - Betancourt, parola di figli
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2007, 12:11:05 pm
Il diavolo confessore

Maurizio Chierici


Non so quale tormento ha sconvolto i cattolici argentini nell’ascoltare il racconto dei sopravvissuti alle squadre della morte dei generali P2.

Nella tribuna dell’imputato era seduto il cappellano militare Christian Von Wernich e le Tv e i fotografi che cercavano di cogliere nel volto un’ombra di imbarazzo (se non di pentimento) trovavano occhi di ghiaccio, labbra piegate nel sarcasmo quando, chi uscito vivo dalle prigioni clandestine, spiegava quale inferno aveva attraversato. L’ho visto e rivisto in Tv per evitare il luogo comune del colpevole indifferente, ma Von Wernich resisteva nel rappresentarsi come luogo comune senza speranza. Ha confessato i prigionieri che non si erano arresi alla tortura non avendo segreti da raccontare, invitandolo a collaborare perché l’Altissimo lo pretendeva. Chi confidava la verità nascosta - abbandono di ogni credente al confessore - era lontano dal sospetto di un confessore spia dei torturatori.

L’accusa ha inchiodato all’ergastolo Von Wernich: 7 omicidi, 32 casi di tortura ripetuta dopo le notizie raccolte nel confessionale e 42 amici spariti nel nulla. Nove anni fa il capitano Scilingo, primo repressore ad aver confidato a Horacio Verbitsky (autore de Il volo, editore Feltrinelli) come funzionava la repressione, racconta delle parole di consolazione con le quali Von Wermich ed altri cappellani militari accompagnavano i condannati a morte verso l’aereo che li avrebbe dispersi in mare: la volontà del Signore lo pretendeva, segno dell’ amore col quale proteggeva la patria. «Rassegnati, Dio lo sa». Nell’interpretazione di questi sacerdoti, la rassegnazione disinfettava dagli insetti maligni la nuova società che il delirio dei militari stava disegnando. Ma non erano insetti e non erano maligni: solo ragazzi che non sopportavano l’oppressione armata.

Ecco perché 30 anni dopo memoria e perdono restano i problemi irrisolti della Chiesa nel continente più cattolico del mondo. Von Wermich non è diventato improvvisamente colpevole otto giorni fa. Subito dopo la sentenza del tribunale, la Chiesa annuncia procedure per decidere il destino di un prete del quale si conoscono i delitti da tempo immemorabile. Negli ultimi mesi ogni vescovo ha incontrato ogni giorno su ogni giornale e ogni Tv i racconti dei testimoni e i documenti che provano l’orrore. Non a caso il comunicato della Commissione Episcopale appare cinque minuti dopo l’annuncio dell’ergastolo. Perché cinque minuti dopo e non cinque anni o cinque mesi fa come i credenti pretendevano? Poche righe che deludono: «Il vangelo di Cristo impone a noi discepoli una condotta rispettosa verso i fratelli. Un sacerdote cattolico, per azioni e omissioni, si è allontanato dall’esigenze della missione che gli era stata affidata. Chiediamo perdono con pentimento sincero mentre pregiamo Dio nostro Signore di illuminarci per poter compiere la missione di unità e di servizio».

Non una parola di pena per le vittime. La deviazione di Von Wermich rimpicciolisce nella deviazione personale ed il silenzio della comunità ecclesiale è il peccato inspiegabile che ha riunito tanti vescovi e tanti sacerdoti, alcuni di loro prossimi al processo. E dopo la sentenza se ne aggiungono altri. Il vescovo vicario della diocesi di san Miguel, Federico Gogala, visitava giovani donne che stavano per partorire. Nude e incappucciate per non riconoscerlo. Se ne andava col bambino appena nato mentre la madre veniva assassinata. Una suora e un’infermiera stanno testimoniando. E testimoniano le nonne di piazza di Maggio con la prova di una nipote ritrovata: era stata data in adozione dal Movimento Familiare Cristiano vicino al vescovo ausiliare Gocala. Comprensibile l’imbarazzo e il dolore eppure nessuna spiegazione su «omissioni ed azioni» che tormentano il clero argentino, ma anche sacerdoti e cattolici di tutte le americhe latine. Non hanno saputo affrontare il passato prossimo con la chiarezza compagna di viaggio della loro missione. Per il diritto canonico la decisione sul futuro sacerdotale dell’ex cappellano militare è competenza del vescovo della diocesi, monsignor Martin Elizaide, 67 anni, profilo incolore nella gerarchia argentina. Facile pensare che il verdetto risentirà degli umori della conferenza episcopale. La procedura sarà lunga, Martin Elizaide non ha indicato quanto durerà. A Von Wermich è consentito ricorrere al tribunale vaticano se gli sarà proibito per sempre di esercitare la funzione ministeriale.

Passato lo choc per la condanna che ritiene falsata da falsi testimoni, Von Wermich riprenderà a confessare, celebrare messa come ogni parroco in pace con Dio; potrà distribuire la comunione ad altri torturatori chiusi nella stessa prigione fino a quando la decisione del vescovo non lo impedirà. Ma glielo proibirà per sempre o «la contrizione palese per il male commesso» potrà risorgerlo a nuova vita restituendogli messa, comunione e confessione? Su Ernesto Cardenal e Manuel D’Escoto, ministri nel governo sandinista, papa Wojtyla aveva alzato l’indice del rimprovero. Hanno perso la messa per sempre. L’altro fratello, Ferdinando Cardenal, fratello di Ernesto e gesuita, a 70 anni ha riaffrontato il noviziato con l’umiltà di un seminarista adolescente. Ed è tornato a celebrare dopo anni di punizione...

I delitti di Von Vernich oscurati da silenzio e complicità aprono un capitolo finora esplorato con imbarazzo: il rapporto tra cappellani militari e dittature, dall’America Centrale a Brasile, Cile, Argentina. Con quale spiritualità si sono rivolti a Dio gomito a gomito con le squadre della morte? Fedeli alla loro coscienza o ligi all’obbedienza dovuta che incatena ogni militare? Fino al processo Von Wernich, ai cappellani militari di Argentina e Cile non era successo niente. Si sapeva e si sa delle ambiguità a volte degenerate in collaborazione al delitto. Sembra impossibile che i vescovi cappellani militari e i vescovi amici dei vescovi militari non abbiano saputo niente. Possibile che i nunzi apostolici, ambasciatori del Papa, non si siano rivolti a Roma supplicando di intervenire? Forse i doveri diplomatici e l’amicizia personale con gli strateghi della repressione hanno annacquato nell’ipocrisia quel dovere che impone la fede e l’esempio del pastore. Vent’anni dopo, 1996, i vescovi argentini finalmente si fanno vivi con un’autocritica superficiale. Nel 2000 chiedono per la prima volta perdono. In Cile il silenzio continua. Nella cattedrale castrense di Santiago, alla messa della domenica vecchi e nuovi militari si accostano all’altare con la devozione di Pinochet.

La storia dei rapporti chiesa-stato ha conosciuto in Argentina momenti che imbarazzano la rilettura. Subito dopo il colpo di stato 1976, il cardinale di Buenos Aires Carlo Aramburu invita i fedeli a collaborare col governo dei generali «i cui membri appaiono assai bene ispirati». Gran parte dei vescovi e il nunzio apostolico Pio Laghi (oggi cardinale) assistono alla cerimonia di insediamento del generale Videla. Laghi è l’unico diplomatico straniero presente. Perché? Tre mesi dopo benedice a Tucuman le truppe impegnate nella repressione: «L’autodifesa contro chi vorrebbe far prevalere idee estranee alla nazione... impone misure determinate. In queste circostanze si potrà rispettare il diritto fin dove si potrà». Anche il cardinale Benelli, sostituto segretario di stato vaticano, si dichiara «soddisfatto per l’orientamento assunto dal nuovo governo argentino nella sua vocazione cristiana e occidentale». Paolo VI era stanco e malato. Lo si informa in qualche modo nascondendo quasi tutto. Anche Giovanni Paolo II viene a sapere della tragedia argentina dalle madri di piazza di Maggio. La Chiesa di Buenos Aires imponeva il silenzio ma le madri alle quali avevano rubato i ragazzi vengono a Roma sperando di informare il papa. Per sopravvivere attorno al vaticano lavorano come perpetue o inservienti in collegi religiosi e parrocchie. Ed è così che è Wojtyla e non un vescovo argentino a pronunciar per primo la parola «desaparecido». Tardi, purtroppo: 30 mila morti.

Ieri, come oggi, in Argentina e nel continente latino (Venezuela compreso) si delineano due Chiese lontane tra loro. Tanti preti e due vescovi fra le vittime. Romero e dodici religiosi in Salvador. Due vescovi e religiosi assassinati in Argentina. Il primo a morire don Carlos Mugica, fondatore del movimento dei sacerdoti terzomondismi. Poi padre Josè Tedeschi, poi l’intera comunità dei Pallottini: tre preti, due seminaristi. Il vescovo Enrique Angeletti viene ucciso al ritorno da un convegno in Ecuador organizzato dai teologi della liberazione; il vescovo Carlos Ponce muore a San Nicolas in un incidente stradale che la polizia definisce «immaginario». Due suore francesi violentate, torturate e uccise dal guardiamarina Astiz. Quando l’indulto del presidente Menem impedisce libera gli assassini in diretta Tv l’ambasciatore francese anziché complimentarsi con Astiz, nuovo capitano di vascello dalla divisa immacolata, scandisce un giudizio che gela la cerimonia: «Non sapevo che per far carriera nella marina argentina servissero eccellenti qualità criminali». E a Parigi il cardinale Marty rifiuta di celebrare messa nell’ambasciata di Buenos Aires.

Due vescovi argentini - Karlic e Novak - precedono il mea culpa ufficiale invocando perdono per il male che la chiesa «non ha impedito, sopportato e in qualche caso aiutato». Ma il vescovo Laguna, portavoce della confederazione episcopale, se ne era lamentato: possono parlare a titolo personale, non a nome della chiesa. Il regime cade ma certe solidarietà non svaniscono. 24 settembre 1991: il nunzio apostolico Ubaldo Calabresi organizza un ricevimento per festeggiare il dodicesimo anniversario dell’investitura di Giovanni Paolo II. Fra gli invitati i generali Videla, Viola e l’ammiraglio Massera mandanti dell’uccisione di migliaia persone, riconosciuti colpevoli in tribunale ma perdonati e rimessi in libertà dall’indulto.

La Chiesa continua a tacere. L’altra Chiesa argentina guarda al futuro in modo diverso. Dopo la condanna di Von Wernich la Commissione Giustizia e Pace assistita dal vescovo Jorge Casaretto (71 anni, origini genovesi) si preoccupa del dolore dei familiari ed esprime pietà per le vittime invitando la giustizia a scoprire quali complicità e quanti tradimenti siano allo radice di una tragedia impossibile da nascondere. Casaretto ha guidato la Caritas negli anni del disastro economico: metà Argentina non sapeva cosa mangiare. Ha aperto mense popolari, bussato alle porte che contano per raccogliere risorse. Ma Von Wernich appartiene all’altra Chiesa. L’ergastolo illumina lo scandalo dei sacerdoti che hanno trasformato la confessione in gadget della tortura. «Era difficile», sospirava il vescovo Laguna nella sua stanzetta di Morelos, qualche anno fa, «restare fedeli alla promessa e sopravvivere nella paura». Difficile, ma non impossibile.
mchierici2@libero.it

Pubblicato il: 15.10.07
Modificato il: 15.10.07 alle ore 12.07   
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Titolo: Maurizio Chierici - L’Argentina delle donne
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2007, 06:29:59 pm
L’Argentina delle donne

Maurizio Chierici


DIARIO ARGENTINO - Compostezza da Copenaghen ma siamo a Buenos Aires: domenica si vota il presidente e la gente non ne parla. Piazze vuote. I piqueteros che tagliavano il traffico nel caos devono essere in vacanza. Nessuno vuole mescolare politica e disordini nelle città violente. Comizi destinati agli addetti ai lavori. Comizi rimandati o spostati da una regione all’altra: aficionados che ripiegano slogan e bandiere con la rassegnazione dei rassegnati. Un milione di ragazzi vota per la prima volta ma non sa per chi. Anche perché i contendenti si perdono in un politichese impenetrabile sbrigando in poche parole le promesse di una giustizia sociale da anni rimandata. La signora che sta per entrare alla Casa Rosada rifiuta le domande dei giornalisti evitando i teatrini Tv. Vuole essere ascoltata senza altre spiegazioni. L’America Latina sembra stia cambiando faccia adeguandosi alle abitudini delle democrazie mature: stiamo lavorando per voi, lasciateci in pace. Ipotesi che lascia qualche dubbio.

Già, perché i palazzi sono gli stessi palazzi assediati quattro anni fa quando la crisi non dava speranza. Quel «tutti a casa» ripetuto con rabbia faceva piazza pulita di una classe politica responsabile delle miserie di un paese ricco. Imbrogliare la borghesia della nazione più borghese del continente latino è il peccato che i borghesi di ogni latitudine non perdonano mai. L’Argentina doveva ricominciare dalle fondamenta e le facce in un certo senso sono cambiate. Sparite le alte uniformi degli anni di piombo, annacquato il populismo, i buoni affari pretendono signori in grigio allergici agli ideali che una volta scaldavano la gente. Fanno solo conti, numeri e non persone, e se i conti tornano le tavole si apparecchiano, vetrine illuminate: comprare e consumare diventa la religione laica di una umanità evoluta che sa interpretare il nuovo mondo. Menem e Alfonsin e De la Rua, presidenti delle crisi, voci che arrivano dal passato con la nostalgia delle vecchie abitudini, ma i pilastri sui quali l’Argentina sta costruendo il futuro richiamano gli stessi ideali: peronismo e radicalismo. E il dubbio continua. Perché il peronismo non è un’ideologia, tantomeno metodo di governo: è il sentimento che accompagna la politica di una larga parte dei politici oggi in corsa per un posto in parlamento o le poltrone dei governi locali. Si può governare adeguando i sentimenti alle regole che cambiano mentre un terzo della gente patisce la fame? Cristina Fernandez Kirchner, senatrice e moglie del presidente in carica, confessa di essere diventata peronista quando appena sapeva leggere. Il nonno le aveva regalato la storia di Evita Peron ed Evita resta l’esempio da ricordare nelle parabole distribuite in questi giorni agli elettori: «Sarò un’Evita col pugno chiuso». Nessuna allusione al socialismo degli altri mondi: vuol far sapere che sa battere i pugni sul tavolo. Maschi argentini avvertiti. Elisa Carriò, avversaria nata radicale, ha buone probabilità di conquistare il secondo posto, venti punti in meno che permetterebbe l’elezione di Cristina al primo turno. Precede un gruppetto di altri peronisti senza speranza. Peronisti e radicali sempre di fronte come dieci, venti, trent’anni fa. Per fortuna sono spariti i militari.

Le signore 2007 sono più o meno della stessa età: Cristina 54 anni, la Carriò 51. Hanno attraversato le paure dell’Argentina segnata dalle squadre della morte e gli affanni delle democrazie pasticciate dalla corruzione, sempre con la praticità delle donne che sanno misurare la vita non immaginando di correre un giorno per la Casa Rosada. Famiglie che più o meno si somigliano: tradizionali, benestanti. Benessere che Cristina allarga col matrimonio solo civile. I primi anni sono agitati: sul suo ragazzo allampanato pesava il sospetto delle amicizie montoneros, peronisti della sinistra armata. Due volte in prigione, lasciano La Plata (dove Cristina è nata e dove è stata eletta senatrice) per rifugiarsi nella Patagonia disabitata dove la famiglia Kirchner ha radici di ferro. L’avvocato Kirchner si muove bene negli affari. Compra a prezzi ridicoli decine di appartamenti da proprietari rimasti a tasche vuote. La politica arriva quando i militari se ne vanno e ricomincia la democrazia del suo odiato Alfonsin. Alfonsin che invece è il tutore della Carriò. Dapprima laureata in legge - come la Cristina spalla del marito nello studio avvocatizio - Lilli Cariò si allarga a scienze politiche, dirige corsi universitari e incontra il radicalismo dei laici con l’animo di una cattolica un po’ teatrale: larghe croci sul petto, messe pubbliche cantate. Canta in un certo modo anche in parlamento quando raccoglie 1600 firme per denunciare compagni di partito sensibili al fascino delle tangenti. Per la prima e ultima volta, il deputato Cristina, moglie del governatore dello stato di Santa Cruz, mette la firma accanto alla firma della Carriò. Ma quando la Carriò presiede la commissione che accusa altri onorevoli di riciclare denaro sospetto, l’onorevole Cristina non ci sta: il gioco dei massacri non le conviene. Caratteri lontani: Cristina fila i rapporti con amicizie d’oro, la Carriò sceglie la denuncia per rinnovare la politica con proposte vaghe. Deve lasciare il partito. Fonda Ari, movimento socialdemocratico il cui slogan è il sospiro di un’intellettuale utopista: l’Argentina deve essere la Repubblica di uguali. Il Kirchner arrivato alla presidenza dopo che la destra peronista di Menem viene travolta dagli scandali, e non piace alla gente il peronismo centrista di Duhalde; questo Kirchner peronista sconosciuto che risale dal mare dei pinguini, accoglie una proposta di legge della Cariò: annulla amnistie e indulti che lasciano in libertà i responsabili dei delitti della dittatura. Monsignor Von Wermich, condannato all’ergastolo dieci giorni fa, è uno dei peccatori che Lillina ha chiuso in galera. Insomma, le simpatie non le crescono attorno. Intanto Cristina si è fatta strada con un carattere che intimorisce. Non sussurra, grida. Non chiede, pretende. La simbiosi col marito è la macchina delle meraviglie. Appena l’avvocato diventa presidente, Cristina torna moglie latina e non parla più. Ricomincia a parlare quando Kirchner le passa la candidatura pur avendo altri quattro anni a disposizione. Rinuncia per amore? Non proprio. Stanno per cominciare mesi difficili: la povertà avvilisce il 30 per cento della popolazione che muore di fame nel granaio del mondo; contratti di lavoro, rimandati «a dopo le elezioni», dal prossimo mese agiteranno le piazze mentre gli investimenti stranieri sono in allarme per l’esaurirsi delle fonti di energia. Un futuro senza petrolio nazionale inguaia l’Argentina già sgualcita dall’inflazione per il momento nascosta dall’ufficialità: 9,4 per cento, ripete la Casa Rosada, ma banche straniere, imprenditori e consumatori fissano oltre il 20 l’erosione. Si promette la verifica dopo il voto. Kirchner resterà al fianco della moglie - capo gabinetto o consigliere - per ripresentarsi nel 2011 se la situazione dovesse intiepidire. Il potere familiare potrebbe allungarsi a sedici anni. Nessun paragone con l’era Bush: tra padre direttore Cia, vice di Reagan e presidente, e figlio alla Casa Bianca per due mandati, il clan supera i 30 anni: una sola famiglia con in mano il mondo. Più vicino il parallelo coi Clinton, «Hillary, cara amica», incontrata una sola volta, mezz’ora di colloquio, traduzioni comprese. Forse è stata la signora Clinton a suggerirle di tacere il più possibile in campagna elettorale. Hillary taglia le interviste e i consensi dei grandi elettori la consolano. Che bisogno ha Cristina di pasticciare la vittoria sicura? I poteri forti, dall’economia alla Tv, le sono affettuosamente vicini. Sceglie di passeggiare nel jet set della politica internazionale: pranzo da Juan Carlos e donna Sofia reggia di Madrid; cena con Zapatero, un saluto a Prodi, abbracci al Lula di Brasilia e incontri a Washington con economisti e intellettuali per raccogliere suggerimenti sul futuro dell’Argentina. Li ascolta come senatrice, come prima donna, come presidente in pectore. Ruolo pubblico che consente di viaggiare a spese dello Stato e le proteste affiorano. I grandi elettori argentini nutrono la campagna con 3 milioni di euro (che in Italia fanno quasi ridere). Il pretendente che la segue nella classifica dei beneficiati è Rodriguez Saa, 2 milioni e mezzo di euro: è stato uno dei cinque presidenti cambiati in un mese quando la crisi è scoppiata, dicembre 2001. Militare cara pintada e peronista dissidente. Chissà perché i soldi arrivano sempre da una certa parte. Ieri, domenica 21, nella borsetta della Carriò erano passati appena 275 mila euro. Il denaro non è proprio tutto e i giornali mettono in fila le proteste degli altri candidati orfani dell’attenzione televisiva mentre ogni sera Cristina arriva nelle case, immagini e parole, ma in Argentina i giornali contano meno e la signora corre in solitudine ancora una vola insidiata dalla Carriò. Non nei voti, negli show televisivi che la prima dama respinge. Elisa è una protagonista che parla a mitraglia. Graffia e aiuta l’audience anche se i consensi restano quelli che sono: secondo posto, venti punti sotto. Nel 2003 era terza dietro Menem e Kirchner. Nel 2005 alle spalle di Mauricio Macrì (Forza Italia argentina) nella corsa all’intendenza della capitale. Sempre sul podio, mai medaglia d’oro. Insomma, due protagoniste che non si somigliano. Eleganza sobria della signora Kirchener: ogni comizio un vestito diverso. Bianco e pastello. Quando amava discorrere coi giornalisti non nascondeva le abitudini del mattino. Un’ora di ginnastica, un’ora di trucco, di corsa al senato. Lillina è una Maria Giovanna Maglie che non spende dal parrucchiere. Veste come capita. Sparite le croci, qualcosa luccica ma è bigiotteria. Proibito parlarle di dieta. Ecco le due donne sulla porta della Casa Rosada. Una sottana rosa potrà cambiare l’Argentina? Più in là, dietro le Ande, Michelle Bachelet governa la Moneda: l’America Australe rovescia gli stereotipi del machismo contadino anche se le briglie del potere non cambiano mano. Mani dei soliti signori. Vedremo cosa succederà in Argentina; a Santiago già succede. Quando una legge arriva alle camere cilene è stata approvata dagli gnomi di industria e finanza, altrimenti si perde nelle anticamere e nessuno la ritrova. Bachelet un po’ incatenata. Cristina lo sarà tra i ministri che il marito chiede di conservare per dare «continuità al cambiamento»? Intrigo di parole, la gente non capisce: vota sperando. Che cosa, bene, bene non lo sa. Laggiù, dal palcoscenico, Cristina li conforta: «So cosa manca, so cosa devo fare». Non ho mai visto tanta voglia di prendere sul serio una promessa.mchierici2@libero.it



Pubblicato il: 22.10.07
Modificato il: 22.10.07 alle ore 17.21   
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Titolo: Maurizio Chierici - Betancourt, parola di figli
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2007, 06:49:45 pm
Argentina, il giorno di Cristina

Maurizio Chierici


Stanno contando i voti, nessun dubbio: il 10 dicembre Cristina Fernandez de Kirchner si accomoderà sulla poltrona di presidente. Lo ripetono le prime proiezioni dopo la chiusura delle urne. Fino a quando i numeri non saranno ufficiali gli oppositori continuano ad illudersi di strappare un secondo turno. Non sposterà di un virgola il risultato, solo un premio di consolazione utile a concordare qualche convergenza. Cristina ha 20 punti di vantaggio su Elisa Carriò, portabandiera dei socialcristianoradicali. Sparsi in plotoncini esangui arrancano i manipoli della frammentazione peronista.

Campagna elettorale noiosa con thrilling finale: cinque candidati dell’opposizione, da Elisa Carrio all’ex ministro dell’economia Lavagna, denunciano al comitato elettorale «gravi irregolarità nella provincia di Buenos Aires» dove votano 10 milioni di persone, il 37% degli argentini. Questa provincia (la più importante degli stati federali) è da sempre feudo peronista. Peronismo di destra o di sinistra: i Kirchner rappresentano l’ala progressista. Ecco il sospetto: schede che non arrivano o vengono consegnate con ore di ritardo, quasi mille presidenti di seggio presentano certificati medici rinunciando all’incarico, frettolosamente sostituiti da funzionari di governo o da supplenti raccolti con fatica. Scrutatori improvvisati, incapaci di gestire con scioltezza le operazioni. Code di ore, gente che lascia la fila e torna a casa. Alle sei del pomeriggio i seggi dovrebbero chiudere, ma si continua a votare per recuperare il tempo perduto. Alle sei e un minuto, uno dei sondaggisti famosi, annuncia la vittoria di Cristina Fernadez Kirchner, 45 per cento di preferenze. Ce la fa al primo turno, 22 punti di vantaggio su Elisa Carrio, radical-cristiana. Solo proiezioni, ma firmate da Artemio Lopez che non ha mai sbagliato un pronostico, ecco l’allarme di chi sperava nel ballottaggio. E alle sei e due minuti l’annuncio che la signora Kirchner sta arrivando in elicottero dalla residenza presidenziale di Olivos. Apparizione che anticipa di almeno due ore la cautela di chi sta vincendo. Nel suo bunker elettorale la aspettano 500 giornalisti, per lo più stranieri. Come mai tanta fretta? Forse per annacquare le proteste, tranquillizzando il paese. Ma l’opposizione annuncia conferenze stampa, insomma, non molla.

Da sempre Buenos Aires è la provincia decisiva per chi corre alla presidenza. Accompagnata dal candidato governatore Daniel Scioli, Cristina non ha problemi nelle città e nei comuni attorno, ma per la capitale le previsioni sono sfavorevoli. Elisa Carrio dovrebbe batterla, non si sa in quale misura ecco perché proprio a Buenos Aires - tesi dell’opposizione - sono sparite schede, ci sono state urne aperte con grave ritardo, gente che rinuncia al diritto del voto. Può essere il pretesto per sminuire un successo annunciato; può essere un modo per condizionare le scelte del nuovo governo, ma 22 punti restano un distacco incolmabile qualsiasi tesi possa animare la delusione degli sconfitti.

Il bunker dei Kirchner è sotto la torre dell’Intercontinental alle spalle della sede nazionale del Partito Giustizialista, palazzotto costruito da Peron. Con Cristina e il marito davanti alle telecamere ogni dubbio sembra risolto. Raccontano cosa è successo. Loro hanno votato a Santa Cruz, fine settimana familiare. La signora si è chiusa nella casa di vacanza di Calafate, davanti al lago gelato dai ghiacciai del Pico Moreno. Scaramanticamente il presidente è rimasto a Rio Gallego, cena assieme a dieci amici «che portano fortuna». Alla vigilia di ogni elezione mangia lo stufato con loro ed è sempre andata bene. La famiglia K torna a Buenos Aires verso mezzogiorno, sul Tango Uno, aereo comprato dal presidente Menen. Se l’organizzazione del voto divide la possibile vincitrice dagli altri concorrenti, li unisce il proposito di «non cambiare abitudini» anche nel giorno importante. Cristina, la Carriò e Lavagna fanno sapere di aver dedicato il pomeriggio alla siesta. La Carrio vive nella vecchia Palermo, quartiere storico caro agli intellettuali: da Bioy Casares a Borgers, centinaia di psicanalisti, caffè per scrittori, insomma un’altra Argentina. Come ogni mattina beve il cappuccino nel solito caffè. Domande e risposte, nessuna indicazione politica nel rispetto delle regole, solo l’orgoglio di una precisazione: 40mila rappresentanti di lista del suo movimento sorveglieranno la trasparenza del voto in tutto il paese. «Un record, non abbiamo mai impegnato tanta gente con gli occhi aperti». Per evitare brogli? Per evitare tutto ciò che può pasticciare le elezioni. In apparenza non ce l’ha fatta. Aspettiamo le prossime ore.

Anche un sondaggio commissionato dalla Carrio riconosce che Cristina ha superato il 40%, vittoria al primo turno. Intanto nelle scuole di Palermo e alla Recoleta si continua a votare. File lunghissime che aspettano.

Pubblicato il: 29.10.07
Modificato il: 29.10.07 alle ore 14.18   
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Titolo: Maurizio Chierici - Betancourt, parola di figli
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2007, 09:22:39 am
Chavez e il Re

Maurizio Chierici


La conferenza dei Paesi latini a Santiago del Cile si è sciolta con una provocazione di Hugo Chavez, presidente del Venezuela. Gomito a gomito con 21 capi di Stato, per tre volte, davanti alle telecamere ha detto che l’ex presidente spagnolo Aznar è «fascista e razzista», raccontando un colloquio nel quale Aznar lo invitava a rompere con Castro per unire il Venezuela al fronte moderato disinteressandosi della disperazione dei paesi alle corde (Haiti, Africa, eccetera): «Non c’è niente da fare, sono irrecuperabili». Insiste nel racconto delle tracce visibili lasciate dal governo di Aznar quando appoggiava i golpisti che hanno imprigionato Chavez nel 2002. Non lontano dalle elezioni di primavera, Zapatero non poteva tacere e ha invitato Chavez al rispetto delle forme perché l’Aznar detronizzato non era presente quindi non poteva replicare come pretendono le buone maniere di ogni democrazia. Chavez l’ha interrotto ripetendo le accuse, e re Juan Carlos seduto come un’icona accanto a Michelle Bachelet, padrona di casa, non è riuscito a tacere invitando Chavez al silenzio con l’impazienza di un sovrano offeso dallo «sproloquio».

Appena il redivivo e ondivago Daniel Ortega ha preso la parola spalleggiando Chavez, il re ha lasciato il tavolo con passi di sdegno.

Tema della riunione era l’inclusione sociale, impegno per assottigliare le disuguaglianze che dividono questa America; strategie per avvicinare 220 milioni di persone (43 per cento della popolazione) alle risorse finanziarie che stanno arricchendo Paesi fino a qualche anno fa alla deriva. Si sono trasformati in tigri latine: prodotto lordo che sfiora il dieci per cento per l’aumento vertiginoso dei prezzi delle materie prime. Miracoli della macroeconomia delle esportazioni, eppure il benessere non coinvolge il cerchio immenso delle baracche che assediano le città. Si moltiplicano i tetti di latta, le immondizie diventano beni preziosi. L’anno scorso 47,88 miliardi di dollari spediti dall’America numero uno hanno consolato le famiglie che sopravvivono nell’America numero due. Alla vigilia dell’incontro di Santiago il Brasile annuncia la scoperta di un bacino petrolifero sterminato nei fondali atlantici davanti a Santos: otto miliardi di barili per il momento, ma le ricerche continuano. Otto miliardi che portano la «Petrobas» (controllata dallo Stato, minoranza segmentata di privati) a 19 miliardi di barili trasformando i brasiliani in concorrenti alle esportazioni del Venezuela. America Latina-cassaforte: non solo gas e petrolio, grano, soia, carne e ogni ben di dio, ma viscere dalle quali escono materie prime indispensabili allo sviluppo tecnologico delle società avanzate. Per dare un’idea della disuguaglianza, nel continente più ricco di acqua dolce nel mondo, 77 milioni non sanno cos’è l’acqua potabile e non riescono a mangiare una volta al giorno. Colera e altre lebbre restano endemiche. Un disastro (solo per l’acqua) di un milione di morti l’anno ed età media di sopravvivenza che nelle regioni andine non arriva alla terza età, almeno come la intendiamo noi. I presidenti che in passato avevano tentato di ristabilire un minimo di dignità nazionale, sono finiti come sappiamo: dalla Bolivia dei cento colpi di stato al rame di Salvador Allende.

Adesso l’America Latina volta pagina. La disperazione ha rafforzato la socialdemocrazia interpretata in modo diverso da figure politiche disuguali, eppure legate dallo stesso impegno: riappropriazione delle risorse. Nelle società in trasformazione si affacciano protagonisti quasi sempre uniti, con intonazioni diverse, dalla diffidenza verso l’altra America. Vogliono fare da soli, a volte con personalismi esasperati da nazionalismi e populismi verso i quali la nostra cultura resta critica senza considerare di quale cultura li abbiamo nutriti. E quanti timori sopravvivono dopo cento anni di solitudine sorvegliata a mano armata. L’incidente di Santiago è un sintomi di questi timori. Ed è sconsolante si sia messo da parte il motivo dell’incontro - l’integrazione sociale - con personalismi a volte legittimi ma lontani dalle urgenze di 220 milioni di senza niente. Intemperanza di Chavez, errore della famiglia presidenziale Kirchner che si è servita della scena bene illuminata per polemizzare contro gli spagnoli del petrolio e delle «Aereolineas Argentina». Il petrolio sgorga da ogni malumore. Ecco il dubbio: petrolio e democrazia possono sopravvivere nelle società che si riappropriano dei diritti negati dal cosiddetto mercato?

Democrazia è una parola di gomma. Cambia significato da un Paese all’altro, anche se ogni governo assicura di pretenderla e volerla difendere da interferenze esterne. Ci si divide sulle strategie che non sempre le democrazie mature trovano equilibrate. L’ultimo voto argentino ha indicato trionfalmente Cristina Fernandez de Kirchner alla guida del Paese. Ma la signora Kirchner è sposata col presidente Kirchner il quale le ha ceduto la poltrona (alla quale poteva concorrere) con bizzarre primarie consumate in famiglia. Uso dei mezzi di Stato nella campagna elettorale, media in ginocchio. Eppure nessuno è rimasto perplesso. Una donna, evviva. Hugo Chavez sta cambiando la Costituzione chiedendo agli elettori la possibilità della rielezione indefinita. Sopravvissuto al colpo di stato, negli otto anni di presidenza ha aperto sei volte le urne. Per sei volte la gente lo ha riconsacrato con percentuali quasi bulgare: tra il 60 e l’80 per cento. Populismo e centralismo fanno arricciare il naso agli osservatori educati i quali devono tener conto di cosa succede ai venezuelani senza censo: ospedali pubblici, risanamento dei ranchos-favelas, scuole di stato e università “bolivariane” dove gli studenti poveri ricevono uno stipendio minimo per tirare avanti senza trascinarsi nelle strade.

Torna la domanda: le decisioni elettorali (monitorate da centinaia di osservatori europei, latini e nord americani, commissione Carter) devono essere considerate legittime come succede nelle democrazie tradizionali, o pericolose per il futuro energetico dell’umanità? Il petrolio resta una mina vagante per ogni democrazia? Uribe, presidente della Colombia, ha già cambiato la Costituzione, si è fatto rieleggere ed è pronta la variante che gli permette potere eterno. Uribe è l’anima dell’America di Bush nel continente incamminato verso l’indipendenza. Inspiegabilmente nessuno approfondisce le tragedie del suo governo: ministri che si dimettono davanti a prove di voti raccolti da narcos o paramilitari di una destra super armata. Due settimane fa la sinistra ha conquistato Bogotà. Per importanza il sindaco della capitale è l’autorità politica numero due del Paese dopo il presidente. Poche notizie frettolose sui venti candidati dell’opposizione assassinati durante campagna elettorale. Silenzi che nascondono l’immagine di un posto dove due milioni di profughi in fuga dagli scontri eserciti-guerriglie preoccupano Onu e tutori dei diritti umani.

Anche in Brasile il partito del Lula presidente sta proponendo di ritoccare la Costituzione per permettere il terzo mandato. La popolarità di Lula supera l’80 per cento. La gente è convinta: via lui torna il caos. Lula respinge l’ipotesi. La ritiene «antidemocratica», ma i supporter lavorano ad un referendum, e se il referendum verrà proclamato quale forma di democrazia Lula potrà scegliere? Anche Correa, faccia nuova dell’Ecuador, sta cambiando la Costituzione. Due lauree Usa e a Bruxelles, parla quetchua e aymara: rovescia l’architettura dello Stato per dare una mano a milioni di ecuadoriani da sempre abbandonati. Come Lula, anche Correa respinge la riconferma indefinita.

Morales in Bolivia affronta, debolissimo, gli stessi labirinti: nuova Costituzione, nazionalizzazione delle risorse e diritti equi nei contratti finora imposti da potentissima multinazionali. Specchiandosi nella paralisi politica dello Stato petrolifero di Zulia in Venezuela, gli stati petroliferi della Bolivia raccolgono un’indignazione antigovernativa dietro alla quale spuntano gli interessi delle imprese alle quali sta tagliando le unghie.

Dal Messico al Cile questa America é d’accordo nell’impegno di eliminare le vite diverse che dividono le zone rosa del potere da immense favelas senza speranza, e d’accordo nel vendere a prezzi di mercato materie prime fino a ieri liquidate con gli spiccioli. D’accordo nella creazione della Banca del Sud inventata da Chavez, da contrapporre a Banca Mondiale e Fondo Monetario. La maggior parte dei Paesi vogliono fare da soli e da soli scegliere investitori e clienti. La nostra economia è preoccupata, ma le regole della democrazia consentono questa libertà mentre la tecnologia cambia la vita di ogni giorno con un dubbio ormai pesante: pane o benzina? Mangiare oppure la fuori serie che corre in ogni spot? Macchina, naturalmente, quindi soia transgenica che rende sterili i terreni e ingrassa il bottino delle De Monte and company. Restano le divisioni sui modi e le forme della trasformazione mentre le intemperanze di Chavez alimentano le caricature che un certo tipo di giornali hanno cominciato a disegnare quando l’uomo nuovo del Venezuela non si è dimostrato l’uomo di paglia che i petrolieri speravano. È vero che i 220 milioni di affamati si sciolgono dalla contentezza appena Chavez disprezza i potenti e garantisce il socialismo del secolo ventuno. Il re di Spagna dopo Bush. Entusiasmi di pancia, ma le colonie dell’economia non si arrendono e Chavez dovrebbe imparare ad attrezzare civilmente le popolazioni che intende tutelare, non esporle alle tentazioni di un estremismo di parole. Consolidare il diritto alle risorse significa favorire la cultura civile delle masse finora trascurate. Jorge Giordani, padre immigrato romagnolo, ministro della Pianificazione, e professore al quale Chavez si era rivolto dal carcere quando lo voleva relatore della tesi in scienze politiche; qualche mese fa Jorge Giordani ha regalato al presidente un libro scritto da un gesuita nel ‘600: elogio alla prudenza. Il presidente non deve averlo sfogliato. Anche il re Borbone se ne è fregato del protocollo che la costituzione gli assegna. Chissà cosa sta pensando di questo sovrano del sud, Elisabetta, regina del nord. Illuminata dai gioielli della corona, parla in pubblico solo una volta l’anno leggendo il programma di governo scritto dal primo ministro. Anche il Pais di Madrid è perplesso: e se Juan Carlos tornasse nell’ombra rispettando la Costituzione che lo vorrebbe mediatore invisibile e non comprimario nei discorsi da bar?

mchierici2@libero.it

Pubblicato il: 12.11.07
Modificato il: 12.11.07 alle ore 9.23   
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Titolo: Maurizio Chierici - Betancourt, parola di figli
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2007, 12:07:10 am
Chavez a due facce

Maurizio Chierici


Domenica i venezuelani votano il referendum che cambia la Costituzione del Paese: Chavez inarrestabile protagonista. Col petrolio a cento dollari si accendono i riflettori di giornali e tv sulla cassaforte del liquido che goccia a goccia fa sospirare le economie assetate. Le previsioni sul risultato si contraddicono senza sfumature. I numeri del governo confermano un’approvazione col vantaggio che oscilla tra i 4 e 10 punti. I numeri dell’opposizione assicurano la vittoria del no: Chavez umiliato dodici punti sotto. Il caos è in agguato quando si conteranno i voti. Provo a indovinare le cronache in preparazione. Chavez manipola il risultato, Chavez roboante, Chavez liberticida, Chavez che minaccia la proprietà privata, spegne le tv e schiaccia l’informazione. Chavez populista feroce, bomba ad orologeria, minaccia del continente. Chavez maleducato col re di Spagna, Chavez dittatore per l’eternità.

Oppure: Paese in rivolta, morti e feriti nelle strade, miseria, violenza. Chi può scappa, chi non può soffre, la Chiesa prega per un miracolo che salvi la democrazia. Può essere vero. La versione opposta farà risplendere Chavez nella luce del libertador, popolo che lo segue, baluardo contro l’impero, socialismo dal volto umano, lievito alla rinascita dell’America saccheggiata. E non è sbagliato. La nostalgia per il modello cubano invecchiato assieme agli innamorati (ormai di una certa età) che resistono da questa parte del mare, si è trasferita in Venezuela perdendo nel tempo battaglioni di incensatori: hanno cambiato idea e del cambiamento ne fanno una professione. Anche per loro Chavez resta la minaccia che inquieta la civiltà. Per non parlare dei cubani che da mezzo secolo aspettano la fine dell’anticristo sognando il ritorno alle loro proprietà provvisoriamente abbandonate in quel dicembre ‘59. Adesso anche i profughi venezuelani aspettano la caduta di Chavez nelle seconde case di Miami: da tempo immemorabile godevano le vacanze nel mare brodoso della Florida trascurando i Carabi. L’imperversare del “marxista-narcisista” (definizione di Andres Opheneimer, sempre Nuevo Herald) li ha costretti a scegliere la libertà allungando lo svago. Bisogna tener conto dei sentimenti dei lettori. Lo Herald è la versione spagnola del giornale padre in inglese. Gli osservatori che scrivono in libertà, ascoltando gli uni e gli altri, ricevono lettere risentite dai colleghi di una parte e dai colleghi opposti: sei caduto nella trappola della propaganda, apri gli occhi, torna fra noi. Noi, piccoli notai di un’Europa preoccupata per la maleducazione del figlio spirituale di Fidel. Noi che difendiamo la rivoluzione umanitaria dell’uomo nuovo che dà speranza agli affamati. Prego il lettore di controllare Tv e prime pagine. Ci risentiamo lunedì.

Dove la borghesia si è adeguata ai canoni normali della convivenza democratica, il populismo resta fra le quinte di pochi disperati. Il Cile che respira dopo gli orrori di Pinochet sta dando esempio. Ma il Venezuela che Chavez ha ereditato alla fine del secolo può reclamare la stessa innocenza? Per spiegare il Chavez ingombrante sarebbe bene tener conto di quale eleganza sono impastate abitudini e ragioni sociali di chi oggi non lo sopporta.

Per la seconda volta Chavez cambia la costituzione con un referendum. Le novità rovesciano la storia: possibilità di rielezione senza limiti da sottoporre al voto della gente. La Costituzione ereditata nel ‘98 prevedeva due presidenze. Chavez le ha allungate a tre con un primo referendum popolare. Lo ha seguito e preceduto Alvaro Uribe, presidente della Colombia, ma la decisione non è stata sottoposta a referendum: ha votato solo il congresso dove Uribe domina la maggioranza. Subito d’accordo la corte suprema insediata poco prima dallo stesso presidente. Il Musharaf del Pakistan non ha inventato niente. Anche Uribe sta per proporre l’elezione indefinita. Doveva essere già approvata ma gli scandali che hanno chiuso in galera venti deputati della sua maggioranza eletti con pressioni violente e narcodollari dei paramilitari vicini al governo, provocano le dimissioni della signora cancelliere ed inquietano il grande protettore di Washington. Meglio far scivolare la rielezione senza tempo in un momento meno agitato. Giornali e Tv guardano senza gridare al lupo. Le nuove regole che Chavez propone agli elettori prevedono il controllo politico della Banca Nazionale: restringe la libertà dei cambi per evitare fughe di capitali, ma è anche un controllo sulle strategie antinflazione, quindi libertà di distribuire interventi assistenziali e sussidi senza gli intralci dei tecnici della finanza. L’opposizione sostiene che è un modo per comprare voti, ma se i voti non sanno cosa mangiare, cosa fare? Dubbio di tante americhe latine: 220 milioni di senza niente.

Le riforme da approvare promuovono la revisione dei documenti catastali. I latifondisti dovranno esibire attestati di proprietà: il disinteresse dei governi del secolo passato ha permesso l’allargarsi di latifondi che hanno inglobato senza freni terreni demaniali, quindi dello Stato. La nuova Costituzione vorrebbe distribuire le distese recuperate a contadini senza terra e a cooperative che il governo si impegna a sostenere finanziariamente. Poi controllo dei prezzi per evitare speculazioni, orario di lavoro ridotto a sei ore con stipendi minimi garantiti e la possibilità di monitorare i movimenti dei conti bancari per accertare la lealtà fiscale. Chi si batte per il no sostiene che le sei ore di lavoro favoriscono solo chi ha un lavoro stabile mentre il 53 per cento della gente ancora si arrangia. Era il 71 per cento nel 2001. La svolta cambierebbe le abitudini economiche della popolazione benestante instaurando «le pratiche del socialismo marxista importato da Cuba». Rivoluzione che preoccupa non solo per la lealtà che impone tra cittadini e Stato, ma per la possibilità che Chavez resti al potere fino al 2021. Dopo il benvenuto entusiasta dei primi mesi di governo («finalmente un uomo nuovo che spazzerà via la corruzione»), confindustria e notabili gli hanno voltato le spalle. I mentori socialisti dell’Apra che avevano convinto l’ex colonnello dei parà a candidarsi alla presidenza, se ne sono andati appena resi conto dell’impossibilità di piegare “l’uomo nuovo” alla routine politica del vecchio Venezuela. La sovrabbondanza dialettica di Chavez ha precipitato la situazione dopo il colpo di Stato 2002 e lo sciopero ad oltranza che ha inginocchiato le esportazioni petrolifere, vitello d’oro del Paese. Su questo disamore ormai violento, si è inserito il gioco delle multinazionali: continuano a comprare il greggio anche se prezzi e incidenza fiscale sono cambiati. Fino a qualche anno fa le roialties regalavano pochi centesimi di dollaro ogni barile e l’imposizione fiscale restava una formalità. Oggi dividono col Venezuela più o meno il 50 per cento del prezzo di mercato. Sono poi finite le esportazioni parallele che non passavano dogana. Per quasi 30 anni il 23 per cento della produzione nazionale usciva clandestinamente e non esistono tracce su chi comprava e chi intascava. I sindacati ne erano coinvolti. Ortega, loro leader, ha partecipato al golpe per poi scappare in Costarica e poi tornare nei giorni della crisi petrolifera. Arrestato, è misteriosamente evaso. Se la Chiesa dei vescovi non ama Chavez, la Chiesa di base è dalla sua parte. Religiose, parroci e missionari mescolati alla gente non sono d’accordo sull’anatema della conferenza episcopale. E nelle prediche della domenica invitano ad approvare il referendum tanto che a Maracaibo, l’arcivescovo Ubaldi Santana, ha censurato l’omelia domenicale di padre Vidal Atencio rimproverandogli di mettere confusione nelle idee dei fedeli. Grandi università private (e a pagamento) protestano con i loro studenti; le prime università statali (gratuite) scendono in piazza per appoggiare il referendum. Panorama non sereno anche perché Chavez e i suoi discorsi infiniti non danno tregua. Se nelle elezioni del dicembre 2006 aveva raccolto il 62 per cento dei consensi, gli analisti del voto prevedono un calo consistente di sì al referendum di domenica. Tra il 52 e il 54 per cento in favore, come nel 2001. Perché quando la presenza di Chavez al governo non è al centro della decisione, i popoli delle baracche e le braccia delle campagne sono meno invogliate a votare. Dietro lo show del braccio di ferro con re Juan Carlos, quindici giorni fa alla riunione di Santiago del Cile, una parte degli osservatori vede la furbizia del voler incarnare lo sdegno dell’ex colonia verso il sovrano, lasciando da parte Zapatero per riaccendere l’entusiasmo dei supporter dalle scarse conoscenze politiche ma interessati a sbarcare il lunario con aiuti che piovono dal governo. Difendendo dignità ed indipendenza, il presidente bolivariano riapre le ferite di sempre animando l'orgoglio nazionalista nascosto nei cuori dei senza niente. «Per tirar su voti», si arrabbia chi non lo ama. E può essere vero. Ecco, il Venezuela. Chavez ha il dono dell’inopportunità che risveglia le masse ma imbarazza gli amici. Complica con discorsi mai sfumati le amicizie di Lula e dei coniugi Kirchner, a loro volta impegnati nella presidenza eterna con staffette familiari: quattro anni al marito, quattro alla moglie, avanti così. Il Venezuela tira diritto nel disegnare un continente nel nome del petrolio. Lo sta facendo anche Lula con l’àplomb di un sindacalista che misura le parole. Alle volte se le rimangia: in questi giorni ha scoperto un immenso giacimento di greggio nel mare di Santos e sta cambiando idea sulla rete di gasdotti e oleodotti proposta da Chavez all'intera America Latina. Non gli servono più. L’adolescenza delle democrazie attraversa queste turbolenze che lo specchio di giornali e Tv esaspera nel tam tam di vecchie e nuove egemonie. L’internazionale degli editori latini, legati da satelliti e partecipazioni incrociate, spinge ai rimproveri la federazione della stampa dei due continenti. Chavez che imbavaglia l’informazione. Forse è il sogno segreto ma per il momento lontano dalla realtà. I grandi giornali di Caracas sparano su Chavez con la bonomia prediletta dal Libero italiano quando parla di Prodi: El Nacional, El Universal, El 2001, El Mundo, Nuevo Pais, Tal Cual di Petkoff. Negli alberghi per stranieri sono i soli fogli in vendita. Neutrali Ultimas Noticias e Panorama. Lo difende senza riserve Diario Vea, appendice dell’ufficialità. I giganti Tv restano all’attacco senza complimenti: TeleVenezuela, Venevision, la RcTv, compianta per aver perso la frequenza alla scadenza della concessione statale, é presente più che mai, cavo e satelliti illuminano ogni angolo del Paese. Globovision ne è l’ammiraglia. Tre piccole Tv statali provano a far concorrenza ma sono noiose come le Tv cubane, con l’eccezione di Telesur la cui ambizione sarebbe sistemarsi al fianco della Cnn nella regione America del Sud: strada ancora lunga. Insomma, lunedì sapremo: imbrogli o volontà del popolo. Ma non è l’ultimo capitolo di una storia infinita che resta avvelenata se il petrolio continua a far tremare le economie del nostro mondo.

mchierici2@libero.it

Pubblicato il: 26.11.07
Modificato il: 26.11.07 alle ore 8.20   
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Titolo: Maurizio Chierici - Betancourt, parola di figli
Inserito da: Admin - Dicembre 25, 2007, 07:00:52 pm
Betancourt, parola di figli

Maurizio Chierici


Da Parigi sono arrivate lettere di un Natale triste, ma non lettere rassegnate. La speranza è il filo che lega voci lontane. «Leggete queste lettere. Leggetele bene. Le voci che vi parlano svegliano la notte. Suono quotidiano nella giungla fra gli specialisti della violenza e dell´odio: la Betancourt le descrive con parole semplici, sconvolgenti... Leggere per voi è così poco. Per lei è un messaggio e una commovente offerta di solidarietà. Ingrid resta lucida e coraggiosa; eroica. Libera... ». Comincia così la prefazione di Elie Wiesel, premio Nobel, scrittore che sessant´anni fa ha sopportato la stessa disperazione vagabonda di Ingrid, di Clara Rojas e del suo bambino, dell´ex parlamentare Consuelo Gonzales de Perdono: stanno marciando verso la libertà in chissà quale Amazzonia mentre la Betancourt resta prigioniera. Lettres a Maman - par delà l´enfer, lettera alla mamma oltre l´inferno scritte da Mélanie e Lorenzo, figli dell´ostaggio ancora sepolto nel gulag verde dei guerriglieri.

Sei anni nelle mani dei signori di una guerra dimenticata; incatenata dall´ultimo liberismo selvaggio nel continente che cambia, prigioniera della nostalgia demenziale di una rivoluzione armata scopòta nel mercato coca e rapimenti. Cinismi in apparenza diversi ma egoismo e vanità li avvicinano.

La versione integrale della lettera di Ingrid e la risposta dei suoi ragazzi esce a Parigi il 3 gennaio, editore Seuil. Un amico mi ha spedito le bozze, ne anticipo qualche riga per far capire che non si tratta della furbizia di un istant-book commerciale: è il solo modo concesso a Mélanie e a Lorenzo per far sapere alla madre che il mondo non l´ha dimenticata e che il dolore della sua immagine è una ferita aperta sotto le frivolezze del Natale mangia e compra. La Betancourt non deve essere dimenticata perché non è mai stata tanto in pericolo da quando il caso è scivolato nei geroglifici di un intrigo internazionale mentre le sua resistenza sta declinando. Non dimenticarla con un libro vuol dire portare queste lettere ai microfoni di France International e di certe radio colombiane: ogni settimana leggono a chi è sperduto i messaggi dei familiari.

«Vi ascolto e mi trema il cuore», Ingrid si commuove nel ricordarlo. Wiesel non si commuove: ne è angosciato. L´angoscia di Ingrid lo riporta nell´Europa che gli ha rubato la prima vita. «Mai dimenticherò ciò che ho passato, anche se fossi condannato a vivere quando Dio stesso. Mai». Deportato ad Auschwitz, vede sparire madre e tre sorelle nei forni di Hitler «perché inadatte al lavoro», quel lavoro che sfinisce il padre fino alla morte.

Trascinato a piedi nel gelo, non un pezzo di pane, arriva a Buchenwald con alle spalle i russi che inseguono i nazisti in fuga. Ricomincia da un orfanatrofio francese, fa il giornalista, incontra François Mauriac, scrive La notte, memoria che lo avvicina a Primo Levi: «Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l´eternità il desiderio di vivere».

Sfogliando la lettera della Betancourt, Wiesel ritrova i suoi passi nel buio: «Imprigionata, tormentata, torturata, abbandonata da troppi protagonisti, per troppo tempo, sprofonda nelle tenebre lontane del terrore». Scrive Mélanie: «Mia piccola mamma, la tua lettera è arrivata da lontano, al di là dello spazio e del tempo. Nella giungla che ti trattiene sei lontana anche dal sole. Le tue parole ci hanno risvegliati. Abbiamo capito cosa vuol dire essere liberi...».

Se la prosa «lucida» della Betancourt ricorda a Wiesel quel suo stringere i denti per resistere nell´Europa distratta, la grande informazione vicina al presidente della Colombia, Uribe, liquida l´appello della Betancourt con una compassione sospetta che la prefazione del grande scrittore rovescia senza pietà: Ingrid è lucida e consapevole, mentre nei bisbigli colombiani la si rappresenta come il fantasma di chi ormai non sa come è cambiato il mondo. Temendone il ritorno destabilizzante, cominciano ad inquinare le verità che la Betancourt può testimoniare e che già annuncia nei sogni scritti alla madre: rivuole una Colombia non liberista, ma solidale e consapevole dell´infelicità di milioni di diseredati.

I figli hanno raccolto il messaggio e lo amplificano, e insistono senza tenerezze per nessuno. «Tutto continua a dipendere da certe persone: i dirigenti della Farc, il governo colombiano. Solo un pugno di uomini», responsabili di uno strazio senza fine. «Questi uomini non possono avere scuse. Hanno avuto tutto il tempo per riflettere sulle loro decisioni, hanno potuto valutarle milioni di volte continuando a ripetere: aspettiamo il momento giusto, che vuol dire aspettare di avere carte buone in mano per imporre il loro gioco. Oggi i giochi sono finiti. Non ci saranno altre partite. Questa è l´ultima partita. Le Farc devono essere coscienti che nei prossimi giorni, nelle prossime settimane, la loro decisione concluderà la storia. Se faranno un passo in avanti liberando gli ostaggi, la storia lo ricorderà. Ma se insisteranno nel rimandare la liberazione per guadagnare strategicamente qualcosa sentendosi protette dallo scudo delle vittime, alla fine perderanno. Saranno gli sconfitti della storia. Il presidente colombiano, dal quale si poteva pretendere più compassione, umanità o semplice protezione, ha lasciato passare questi anni (quasi sei) con una certa indifferenza; peggio, innalzando ostacoli ogni volta che si apriva uno spiraglio per far saltare la possibilità di tentare un accordo. Ci siamo sempre scontrati con un certo tipo di interessi che sfuocano in secondo piano la vita di coloro che noi amiamo... Se ammettono che è prioritario salvare esseri umani, le cose diventano semplici: accordarsi con la Farc per lo scambio di ostaggi... Le critiche che noi rivolgiamo al governo le abbiamo riascoltate in ogni altro paese, dall´America Latina all´ Europa, Francia, soprattutto... Mi domando cosa pensi, mamma, in fondo alla foresta ascoltando briciole di informazioni alla radio... Forse non credi più alla possibilità di tornare. Io ci credo. C´è qualcosa che supera la nostra volontà. Tanti occhi sono rivolti verso voi ostaggi, sguardi che si indignano, coscienze che si svegliano, mobilitazione che attraversa il mondo... Mamma, sappiamo che bisogna fare in fretta. Sappiamo che stai toccando il fondo. Immaginiamo quanto sia difficile trovare la forza per un´altra notte di sofferenza, un´altra marcia forzata nell´inferno; altre umiliazioni... Non è una lettera d´addio. È una lettera di ben trovata. A presto, mamma».

Nelle 169 pagine del libro si ringraziano Hugo Chavez e Sarkozy, Piedad Cordoba, senatrice colombiana che ha tirato i primi fili della mediazione coinvolgendo il presidente venezuelano. Su Uribe e il suo governo Mélanie e Lorenzo rovesciano parole di sdegno che la buona educazione prova a sfumare.

Uribe ha tolto a Chavez la mediazione mentre Chavez stava per ricevere la lettera e le immagini di Ingrid e di altri ostaggi dopo quattro anni di niente.Vice presidente della Colombia è Francisco Santos, fino a qualche mese fa tra i proprietari e direttore del Tiempo, giornale senza rivali a Bogotà. La sua è una delle famiglie che dominano il paese. Quando Walter Veltroni espone l´immagine di Ingrid al Campidoglio, Santos protesta con una lettera ipocrita mandata al Corriere della Sera. Betancourt, è importante come ogni altro ostaggio, ripete. Ma prima di lei le Farc hanno rapito altre 2000 persone.

L´obiettivo non può concentrarsi su un solo prigioniero; deve programmare la restituzione immediata e senza condizioni di tutti. Principi sacrosanti che annunciano la paralisi. Fermi, aspettiamo... Era il febbraio 2007. Si ricordavano i 5 anni di prigionia della signora che aveva sfidato Uribe alla presidenza promettendo un paese senza caste, multinazionali sotto controllo, politica solidale e sensibile al destino di 3 milioni di uomini e donne in fuga dalla guerra interna: profughi dimenticati. Il mese scorso il vice presidente Santos imbuca consigli più o meno uguali indirizzati ai sindaci di tante città francesi: non esponete il ritratto della Betancourt, non accentrate il problema degli ostaggi solo su questa donna. E mentre il Tiempo (comprensibilmente filo governativo) ne mette in dubbio l´equilibrio mentale temendone il ritorno e accusando Chavez di ingerenze inaccettabili per essere riuscito a provare che Ingrid è viva ed è prossima la liberazione di tre prigionieri importanti; mentre si sparge fumo per confondere le idee, il sindaco del diciottesimo arrondissement di Parigi copre i Campi Elisi con l´immagine della Betancourt.

Adesso è più che mai in pericolo: i bombardamenti sbadati dell´esercito insistono con la soluzione di forza. Solo per caso - spiegano i ministri di Uribe - le forze armate colombiane manovrano in queste ore attorno alle frontiere amazzoniche verso le quali stanno marciando Clara, il suo bambino e il terzo ostaggio. Camminano accompagnate dalle Farc. E se una pattuglia del governo «per caso» incrocia prigionieri e carcerieri, cosa succede?

A chi daranno la colpa giornali e Tv, in agguato per conto del presidente Uribe? Agli orribili guerriglieri, naturalmente, davvero orribili, non solo nella crudeltà, soprattutto nel dosaggio dei ricatti. Tre morti in più o in meno non cambiano il loro profilo morale ma regalano ad Uribe la rivincita sul Chavez che continua a mediare con l´appoggio a Washington dei senatori democratici James McGovern, Bill Delahunt, e Gregory Meeks.

Lontano dalla foresta per salvare almeno la faccia, Uribe fa girare la giostra degli appelli e degli abbracci con presidenti amici. Nebbia nella quale è complicato orientarsi. Confondere per non risolvere è l´ultima maniglia alla quale si aggrappa per non perdere il rispetto degli elettori e non avvilire la poltrona che vorrebbe eterna, proprio come Chavez ma nessuno se ne meraviglia. Mentre scrivo, Clara, il bambino e l´altra signora ostaggio attraversano l´Amazzonia chissà con quale fortuna. Un giornale popolare di Bogotà gioca col Natale paragonando il loro viaggio alla fuga della sacra famiglia nell´Egitto accogliente di Gaza. Due mila anni dopo il mondo è davvero peggiorato. Gesù, Giuseppe e Maria si mettevano in salvo da Erode. Il guaio è che nella Colombia dei nostri giorni di Erode ce n´è più di uno. «Cara Mamma, siamo fieri di te che rifiuti di giocare il gioco dei rapitori. Il tuo esempio ci ha fatto diventare grandi. Tu, noi, assieme». E la speranza continua.

mchierci2@libero.it



Pubblicato il: 24.12.07
Modificato il: 24.12.07 alle ore 15.43   
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Titolo: Maurizio Molinari - Undici settembre "Ingannati dalla Cia"
Inserito da: Admin - Dicembre 27, 2007, 06:50:25 pm
27/12/2007 - RETROSCENA
 
Undici settembre
"Ingannati dalla Cia"

L'ex presidente della commissione vuole altre indagini
 
CORRISPONDENTE DA NEW YORK
 

La Cia non diede alla commissione indipendente di inchiesta sull’11 settembre tutti i documenti che possedeva sull’attacco terroristico che causò quasi tremila vittime. Ad affermarlo è Thomas Kean, co-presidente con Lee Hamilton della commissione sull’11 settembre che concluse i lavori nell’estate 2004, secondo il quale «fu errata» la decisione della Cia di non consegnare i video relativi a centinaia di ore di interrogatori di Abu Zubaydah e Abd al Rahim al-Nashiri, due membri di Al Qaeda catturati nel 2002.

L’avvenuta distruzione di queste registrazioni è al centro di un braccio di ferro fra il Congresso di Washington e il governo federale per via del fatto che alcuni leader democratici sospettano la Cia di aver voluto far sparire i nastri in quanto mostravano l’uso ricorrente della tecnica di interrogatorio nota come «waterboarding» - annegamento simulato - a loro avviso equiparabile alla tortura, in violazione della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra. Tanto la Cia che il vicepresidente Dick Cheney negano tale equiparazione mentre il presidente George W. Bush ha detto in ripetute occasioni di non volersi pronunciare sul caso dei nastri scomparsi - o distrutti - «fino a quando sarà in corso l’inchiesta».

Adesso la novità sta nel fatto che nel contenzioso entra Phipil Zelikow, ex direttore esecutivo della commissione di inchiesta sull’11 settembre, firmando un memorandum nel quale si chiedono «ulteriori accertamenti» per verificare se la Cia abbia «violato le leggi federali« non rendendo pubblica l’esistenza dei video. La tesi di Zelikow si basa sul fatto che la commissione indipendente domandò alla Cia di consegnare «documenti», «rapporti» e «informazioni» frutto degli interrogatori sui detenuti di Al Qaeda e dunque anche i video dei due terroristi rientravano nella richiesta. La Cia invece sostiene che poiché la commissione non chiese mai specificatamente i nastri video sugli interrogatori dei due non vi fu violazione delle leggi federali.

«Che il comportamento della Cia sia stato illegale o meno, è stato sicuramente errato» ribattono Kean e Hamilton. Il memorandum di Zelikow, di cui ha svelato l’esistenza il New York Times, è destinato a riproporre le richieste di quel gruppo di famigliari delle vittime degli attacchi dell’11 settembre 2001 che da tempo chiedono una riapertura dell’inchiesta considerando «incompleto» il rapporto del 2004 per via delle lacune su molti aspetti, come ad esempio la carenza di informazioni su come riuscirono i 19 kamikaze a muoversi con facilità sul territorio degli Stati Uniti nei giorni e nelle settimane precedenti al sequestro dei quattro aerei che sarebbero poi stati trasformati in missili.

Le polemiche sull’operato della Cia nella vicenda dei nastri si sovrappongono ai crescenti malumori per le indiscrezioni sul nuovo progetto di banca dati destinata ad essere creata dall’Fbi: sarà stanziato almeno un miliardo di dollari per la realizzazione di un imponente archivio con le informazioni biometriche di cittadini americani e stranieri per consentire il più veloce svolgimento delle indagini.

Per l’Unione per le libertà civili «la banca dati mondiale consentirà di rafforzare capacità di sorvegliare la società, indipendentemente dalla nazionalità degli individui». L’Fbi da parte sua ha affidato ai portavoce il compito di respingere tali accuse, spiegando che la «banca dati globale» sarà frutto della somma delle informazioni biometriche raccolte nell’ambito delle indagini sul terrorismo svolte in tutto il mondo dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 come anche di quelle ottenute negli ultimi anni da oltre 1,5 milioni di cittadini iracheni ed afghani, schedati dalle forze americane a fini di sicurezza. Restano tuttavia da sciogliere alcuni interrogativi, a cominciare dall’uso dei dati dei visitatori europei in arrivo e in transito negli Stati Uniti, che possono al momento essere adoperati dalle agenzie per la sicurezza americane sono nel rispetto di rigidi parametri concordati con le parigrado istituzioni europee nell’ambito di un protocollo di intesa del quale al momento non sono previste revisioni.

Maurizio Molinari

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Due visioni della ripresa
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2009, 05:07:22 pm
9/1/2009
 
Due visioni della ripresa
 
MAURIZIO MOLINARI
 

Barack Obama espone da Fairfax, Virginia, il progetto di «ricostruire» l’economia nazionale e Nicolas Sarkozy da Parigi ribatte che l’America non è più l’unico leader del mondo e dovrà scendere a patti per realizzare il «nuovo capitalismo». Il dialogo a distanza fra il presidente eletto degli Stati Uniti e l’inquilino dell’Eliseo inaugura il confronto globale su che cosa bisogna costruire sulle ceneri del 2008 che, secondo quanto afferma uno studio degli economisti del «Council on Foreign Relations» di New York, «sarà ricordato come l’anno in cui il sistema finanziario moderno è crollato».

I due leader partono da bisogni differenti. Per Obama la priorità è scongiurare la depressione nazionale facendo leva su energie alternative, grandi opere, riforma sanitaria, tagli fiscali e sviluppo di Internet al fine di «trasformare l’America indirizzando la ricchezza verso la classe media», come suggerisce il rapporto «Progressive Growth» firmato dal co-presidente del team di transizione John Podesta.

Per Sarkozy invece la priorità è disegnare un nuovo sistema economico internazionale che metta al riparo l’Europa da nuovi terremoti.

Un sistema che getti le basi di una nuova stabilità e soprattutto impedisca il ripetersi di quanto avvenuto, creando regole finanziarie ed equilibri monetari nei quali «non sarà più un solo Paese e prevalere», come avvenuto nel caso degli Stati Uniti dopo gli accordi conclusi a Bretton Woods nel luglio del 1944.

La differenza di priorità fra Obama e Sarkozy promette scintille nel breve termine ma nulla toglie al fatto che strategicamente abbiano bisogno l’uno dell’altro. Lo stimolo economico che Barack chiede al Congresso di Washington, e che potrebbe sfondare il tetto di 1 trilione di dollari, avrà effetti assai parziali se non coinciderà con il varo di misure simili da parte degli altri Paesi più industrializzati, i cui investimenti e acquisti sono indispensabili alla crescita americana. Basti pensare che il rapporto Onu «World Economic Situation and Prospects 2009» suggerisce che l’aumento medio della spesa dei Paesi ricchi dovrà essere fra l’1,5 e il 2 per cento dei rispettivi Pil per tentare di archiviare la crisi di liquidità.

Sarkozy non può immaginare di scrivere le regole del «nuovo capitalismo», a partire dal summit del G20 in programma ad inizio aprile a Londra, senza raggiungere una solida intesa con Barack, che non solo sarà presto alla guida della nazione comunque più ricca del Pianeta ma è anche portatore di un progetto ambizioso di rivoluzione energetica destinato ad avere ripercussioni sulle bollette che si pagano a Marsiglia come a Genova. Senza contare i rischi inflazionistici e valutari per l’Europa connessi alla montagna di dollari che la Federal Reserve si appresta a stampare per riportare in fretta sufficiente denaro da spendere nelle tasche degli americani. Da qui la possibilità che Obama e Sarkozy abbiano iniziato, partendo da opposti estremi, a delineare il confronto che può portare a fare del 2009 l’anno-laboratorio del nuovo sistema economico. È una partita nella quale ogni potenza industriale è chiamata a fare la propria parte, mettendo sul piatto le idee che ha, e per l’Italia ieri è stato il ministro Giulio Tremonti a ipotizzare da Parigi «standard legali» per i sistemi finanziari del G8 come anche una moratoria lunga mezzo secolo per i prodotti tossici che impediscono ai mercati di risollevarsi.

Resta da vedere quale ruolo sceglieranno di giocare nella partita dei nuovi equilibri i giganti di Russia, Cina, India, Brasile e Messico come anche potenze regionali inquiete come Iran, Venezuela, Arabia Saudita e Indonesia. La sfida più difficile, per Obama come per Sarkozy, sarà trovare convergenze con questi nuovi attori che in comune hanno una forte aggressività. Lo dimostrano il monito di Pechino a Washington sulla possibilità di non acquistare più debito federale e la disinvoltura con cui Mosca gioca la carta delle forniture di gas contro l’Europa.

 
 
Finestra sull'America MAURIZIO MOLINARI 
da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI. "Obama, missione impossibile"
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2009, 09:31:49 am
11/1/2009 (7:29) - INTERVISTA

"Obama, missione impossibile"
 
«Di tutti i presidenti ci si chiede se saranno in grado di agire»

Il politologo Sabato: eredita un’America in crisi, non potrà mantenere le promesse


MAURIZIO MOLINARI
NEW YORK


Barack Obama sta veicolando la retorica elettorale nel programma di governo, ma servirà del tempo per comprendere se riuscirà ad agire».
E’ questa l’opinione di Larry Sabato, direttore del Center of Politics dell’Università della Virginia e fra i più acclamati conoscitori della politica americana come dell’istituto della presidenza.

Obama ha detto che durante la sua presidenza l’intelligence non torturerà più. E’ una promessa che può mantenere?
«Obama ha espresso la sua intenzione. Agire è un’altra cosa. Ogni insediamento di presidente è accompagnato da dubbi sulla sua capacità di agire. Alcuni presidenti e vice, come George W. Bush e Dick Cheney, sono riusciti ad agire altri invece, penso a quanto avvenne negli anni Sessanta e Settanta, molto meno. Nel caso specifico dell’intelligence non si può escludere che vi siano degli elementi all’interno intenzionati a continuare a fare di testa propria, con le torture o in altro modo. Ci vorrà del tempo per comprendere cosa davvero cambierà con Barack Obama».

E sul dialogo con l’Iran cosa pensa, quando inizierà?
«Non troppo presto. Avremo piuttosto una fase di sosta nella guerra fredda fra Stati Uniti e Iran che potrà, nel medio termine, portare ad un dialogo di sostanza. Ma la fase di interregno che inizia è disseminata di rischi. Può avvenire di tutto».

L’altro impegno che Obama ha annunciato è di non varare più leggi appesantite da «earmarks», gli sperperi di danaro pubblico dovuti a spese aggiuntive richieste da singoli parlamentari per rispondere a bisogni prettamente locali. Potrà farlo?
«Obama ha promesso di non inserire alcun “earmark” all’interno del pacchetto di stimolo economico ma non potrà certo evitare che ve ne siano in altre leggi, teniamo presente che in molti casi si tratta di spese locali ben motivate».

Veniamo all’energia. La scommessa di ridurre la dipendenza del petrolio in pochi anni grazie allo sviluppo di fonti alternative è realizzabile?
«Non credo, servirà molto tempo. E’ solo un obiettivo di lungo termine».

Dunque, dalla torture al bilancio fino all’ambiente Obama parla agli americani di obiettivi lontani nel tempo. Non è un rischio in un Paese pragmatico come gli Stati Uniti?
«Barack sta veicolando la retorica elettorale nel programma di governo. Questo è soprattutto vero nel caso del pacchetto di stimoli economici. Nei suoi discorsi parla di energie alternative, riforma della sanità, lotta agli sperperi di denaro pubblico e molto altro ancora al fine di convogliare dentro questa legge tutto quanto gli servirà a governare nei prossimi anni. Il pacchetto fiscale, il “Piano per la Ripresa”, sarà il testo fondante al quale lui si richiamerà nei prossimi anni. Dunque vuole che includa le idee per le quali si è battuto durante la campagna elettorale».

In Europa c’è scetticismo su questo approccio, si ha l’impressione che Obama faccia proclami destinati in gran parte a restare sulla carta...
«Comprendo queste obiezioni, che sono presenti anche in alcuni ambienti in America. Dobbiamo tener presente la situazione straordinaria nella quale ci troviamo. L’America ha un debito di 10 trilioni di dollari, ogni anno aumenta in genere di 2 trilioni ma Obama lo troverà già a quota 13 trilioni di dollari. In queste condizioni non si può fare tutto ciò che si proclama. Molti progetti e idee sono destinati a restare tali fino a quando non vi saranno le condizioni economiche per realizzarle».

Quale impatto può avere il largo uso di retorica da parte di Obama?
«Obama ha la migliore retorica politica che gli Stati Uniti hanno visto dai tempi di John Kennedy e Ronald Reagan. E’ uno strumento che gli serve per comunicare, motivare, unire gli americani, guardando al futuro. Per chiedergli nell’immediato di avere pazienza, fare sacrifici, affrontare molte difficoltà».

In concreto lei sta dicendo che la svolta Obama andrà adagio...
«Farà ciò che potrà, con i mezzi di cui disporrà che, all’inizio, sono molto limitati. Soprattutto sul piano economico. Obama è portatore di idee che puntano a innovare drasticamente la società americana ma servirà tempo per comprendere se possono essere realizzate. Non solo gli europei ma anche gli americani avranno bisogno di tempo per comprendere se Obama riuscirà davvero a cambiare gli Stati Uniti».

A non avere molta pazienza invece sono deputati e senatori democratici che si sono affrettati a criticare i tagli fiscali con cui Obama punta a risollevare la classe media. Cosa c’è dietro questo corto circuito?
«C’è la fretta dei membri del Congresso, molti dei quali affronteranno la rielezione nel novembre 2010, ben due anni prima di Obama. Votare nel novembre 2010 significa iniziare fra poco la campagna elettorale. Questi parlamentari hanno bisogno di risultati immediati sull’economia e dunque si oppongono ai tagli fiscali perché questi hanno un impatto nel lungo termine. A Obama invece il lungo termine fa comodo, perché fino al 2012 resterà nello Studio Ovale».

da lastampa.it


Titolo: Massimo Gaggi Obama e i disillusi
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2009, 05:26:17 pm
FRENATA SULLE PROMESSE ELETTORALI

Obama e i disillusi


di Massimo Gaggi


Prima la rinuncia a eliminare subito gli sgravi fiscali per i ricchi e a introdurre una tassa straordinaria sulle compagnie petrolifere, come promesso in campagna elettorale. Poi l'avvertimento che, dalla sanità alle pensioni, molti impegni e programmi di spesa andranno ridimensionati alla luce della gravissima crisi economica.

Le correzioni di rotta di Obama si stanno moltiplicando: alcune sono suggerite dalla recessione, altre vanno ben oltre. Come nel caso del prolungamento della presenza militare Usa in Iraq o in quello della rinuncia a chiudere subito il carcere di Guantanamo, un rinvio obbligato ma che ha fatto sensazione (visti gli impegni elettorali) tanto che il presidente eletto è stato costretto ieri a correggere il tiro. «Non mi sembra ancora il caso di andarlo a cercare col forcone, ma non è questo il cambiamento che ci aspettavamo» si sfoga sul Washington Post David Corn, il caporedattore di Mother Jones, magazine della sinistra radicale.

Nessuno mette apertamente sotto accusa Barack Obama per la formazione di un governo zeppo di centristi o per il ridimensionamento dei suoi impegni. Il personaggio è sempre popolarissimo e, del resto, non ha ancora nemmeno cominciato a governare. Ma, quando manca ancora una settimana al suo insediamento, tra i «liberal» e nella sinistra dei «blog» già serpeggia una certa delusione, mentre anche nella maggioranza democratica al Congresso si diffonde il malumore. Obama sperava di arrivare alla cerimonia del giuramento col suo piano anti- recessione — una legge di sostegni all'economia da quasi 800 miliardi di dollari— già approvato dalle Camere.

Invece, nonostante l'enfasi che ha posto sull'urgenza di intervenire per bloccare il rapido deterioramento del quadro economico, il nuovo presidente si è dovuto rassegnare a un iter tortuoso, col provvedimento che sarà esaminato da tutte le commissioni principali. E' durata poco l'illusione «di ottenere in Parlamento un trattamento da Immacolata Concezione» ironizza sul New York Times l'editorialista conservatore David Brooks. Certo, c'è chi contesta perché è stato «lasciato a terra», più che per preoccupazioni programmatiche. E' il caso di John Kerry, un critico puntiglioso della nuova amministrazione da quando Obama ha scelto Hillary Clinton, anziché lui, come Segretario di Stato.

Anche nelle severe e ripetute critiche di Paul Krugman all'inadeguatezza del piano di Obama i maliziosi vedono un riflesso della delusione dell'economista, fresco di premio Nobel, per non essere stato chiamato alla corte del nuovo leader. Ma forse nel caso di Krugman, più che di poltrone, il problema è politico: il neopresidente ha selezionato soprattutto personaggi che già avevano avuto esperienze di governo nell'era di Bill Clinton e ha fatto scelte politiche di centro, mentre Krugman, così come Joseph Stiglitz, è molto spostato a sinistra: non gli bastano stimoli e opere pubbliche, vuole un vero statalismo.

The Nation, voce ufficiale della sinistra radicale, invita i «liberal» a non fasciarsi la testa: «Certo, Obama si sta comportando da centrista e da pragmatico, ma viviamo in tempi straordinari e il suo può essere il modo giusto per ottenere risultati in un'ottica progressista ». E' nervosa anche l'attesa dei sindacati: Obama non si è rimangiato la promessa di varare una legge per facilitare il loro ingresso nelle aziende. Ma, da quando è stato eletto, non ne ha più parlato.

13 gennaio 2009
da corriere.it


Titolo: Maurizio Molinari WASHINGTON Tasse ai ricchi sanità ai poveri
Inserito da: Admin - Febbraio 27, 2009, 10:19:26 am
27/2/2009 - LA SVOLTA DI WASHINGTON
 
Tasse ai ricchi sanità ai poveri
 
Per il rilancio 4 trilioni di dollari di budget.

Il passivo è di 1,7 trilioni, record dal 1945
 
 Maurizio Molinari
INVIATO A WASHINGTON
 

Tassare i ricchi per curare i poveri: è questo il principio-cardine del bilancio da 3,94 trilioni di dollari che Barack Obama ha inviato al Congresso con l’obiettivo di sconfiggere la recessione e porre le basi per le ripresa economica.

L’aumento complessivo delle imposte per cittadini e imprese è di 1,3 trilioni la cui parte più importante è composta da 636,7 miliardi frutto dell’azzeramento dei tagli fiscali di George W. Bush per chi guadagna più di 250 mila dollari annui. Per costoro le imposte aumenteranno fino a un massimo del 39,6% e le tasse sui capital gain cresceranno dal 15 al 20%. Saranno questi fondi sottratti ai ricchi a finanziare 635 miliardi di spese - nei prossimi dieci anni - destinati a ristrutturare la sanità pubblica per garantire un minimo di copertura a ognuno dei 46 milioni di cittadini che oggi non possono permettersela, così come numerosi progetti pubblici dall’educazione all’agricoltura fino alle infrastrutture. Una montagna di dollari sta per uscire dalle tasche dei cittadini per riversarsi nelle casse dello Stato, che li userà per creare posti di lavoro e garantire medicine ed educazione alla classe media impoverita. «Abbiamo di fronte a noi scelte difficili» ha detto il presidente americano, illustrando alla Casa Bianca il testo di 134 pagine che ha definito «un’onesta raffigurazione di dove siamo e dove vogliamo andare».

Fra le maggiori novità del bilancio spicca il nuovo approccio alle spese della Difesa: se nel 2009 aumenteranno del 4 per cento e le campagne militari in Iraq ed Afghanistan costeranno 140 miliardi - 75 in più del 2008 - la scelta strategica è a farle scendere nei prossimi dieci anni di 1,49 trilioni. Per la prima volta le guerre in Iraq e Afghanistan saranno contabilizzate nel bilancio federale.

Tasse in arrivo anche sul fronte dell’energia. Ad essere colpite saranno le aziende che immettono gas inquinanti nell’atmosfera e la strategia di «cap and trade» (taglia e commercia le emissioni) porterà a 645,7 miliardi di entrate entro il 2012 consentendo di recuperare i fondi necessari per sviluppare le nuove fonti rinnovabili e progetti avveniristici come quello descritto da Peter Orszag, capo dell’ufficio del bilancio, di una «autostrada dell’elettricità» dalle fattorie eoliche sui monti del North Dakota fino ai maggiori centri abitati della nazione.

A far decollare la spesa pubblica saranno anche ulteriori fondi «a disposizione del ministero del Tesoro» per l’eventuale sostegno alle istituzioni finanziarie a rischio di collasso - per 750 miliardi - e il risultato complessivo è di un deficit previsto di 1,75 trilioni, pari al 12 per cento del Pil ovvero il dato più alto dal 1945. Nel 2010 dovrebbe scendere a 1,17 trilioni ma il futuro non si annuncia affatto roseo: anche se il piano di Barack Obama per «rompere con gli errori del passato» dovesse riuscire a centrare tutti gli obiettivi, il deficit nel 2019 sarebbe di 712 miliardi con un debito di ben 23,1 trilioni.

I mercati finanziari hanno accolto numeri e scenari dell’amministrazione Usa con un nuovo salto all’indietro - il Dow Jones ha chiuso con un arretramento dell’1,64% e il Nasdaq del 2,38 - e al Congresso si annuncia battaglia. Kent Conrad, presidente democratico della commissione Bilancio del Senato, assegna «voti iniziali positivi» al piano Obama ma ammette che «bisognerà fare molto di più per impedire l’indebitamento nazionale nel lungo termine». Anche un altro influente leader democratico del Senato, Max Baucus, fa capire al presidente che dovrà rimettere mano al testo perché: «A pagare le cure ai dipendenti siano i datori di lavoro anziché altri cittadini».

I repubblicani accusano la Casa Bianca di voler puntare tutto sull’«aumento delle tasse»: «Siamo d’accordo sul garantire assistenza sanitaria a chi non ce l’ha ma la strada per arrivarci non può essere tassare cittadini e imprese nel bel mezzo di una recessione». Intanto Fannie Mae archivia il quarto trimestre con una perdita di 25,2 miliardi di dollari e chiede al Tesoro americano nuovi aiuti per 15,2 miliardi.
 
da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI
Inserito da: Admin - Marzo 10, 2009, 09:39:19 am
10/3/2009
 
Obama tra scienza e crisi

 
MAURIZIO MOLINARI
 
Con la decisione di abolire i limiti al finanziamento pubblico della ricerca sulle cellule staminali Barack Obama si propone di fare della scienza un motore della ripresa economica, sottolinea di opporsi a limitazioni politiche della ricerca e conferma la sua fede religiosa in «bene comune» che va oltre qualsiasi dogma.

Il legame fra scienza ed economia è descritto dai volti di coloro che circondavano il Presidente americano al momento della firma alla Casa Bianca dell’ordine esecutivo e del memorandum sull’integrità scientifica: il biologo molecolare Peter Agre, Nobel per la chimica, Patricia Bath, inventrice dell’uso del laser per togliere la cataratta, Robert Horowitz, biologo all’avanguardia nella ricerca sul cervello, Janet Rowley, la genetista che individuò nella traslocazione dei cromosomi la causa della leucemia, e Harold Varmus, Nobel per la medicina.

Sono cinque nomi nei quali l’America rispecchia quella «capacità di inventare ciò che non possiamo immaginare» sulla quale Obama scommette per trasformare la scienza in un vettore di investimenti, ricchezza e posti di lavoro individuando nella ricerca delle risposte alle malattie incurabili la frontiera più avanzata del sapere umano. Proprio come fece John F. Kennedy quando scommise sulla corsa alla Luna. Se la scelta fatta da George W. Bush nell’agosto del 2001 di limitare il finanziamento pubblico alle poche linee di produzione di cellule staminali allora esistenti portò numerosi scienziati e ricercatori americani a trasferirsi velocemente in Gran Bretagna, ora l’inversione di rotta di Obama viene salutata dal Times di Londra con l’allarme su una «imminente fuga di cervelli verso l’America», ben fotografando la stagione di serrata concorrenza che si apre fra i maggiori laboratori delle due nazioni anglosassoni impegnati nella corsa ad allungare la vita umana.

Per un Presidente assediato dalla recessione, dai mercati in picchiata e con ministri bersagliati da critiche degli economisti e satira dei talk show, giocare la carta della scienza sul fronte della ripresa significa guadagnare ossigeno e poter puntellare il rapporto con l’opinione pubblica.

È anche a tal fine che Obama assegna al passo sulle staminali un valore più ampio. «Promuovere la scienza non significa solo garantire le risorse ma anche proteggere la libertà di ricerca, impedire alla politica di ostacolare la ricerca», ha detto Obama al fine di sottolineare il distacco dalle scelte di un predecessore accusato di aver fatto prevalere le sue convinzioni, ideologiche e religiose sulla necessità di sviluppare il sapere.

Il contrasto fra pragmatismo e ideologia è il cavallo di battaglia con il quale Obama ha vinto le elezioni ed a cui ora ricorre per ribadire la necessità di lasciarsi alle spalle la stagione dei conflitti viscerali - fra destra e sinistra, progressisti e conservatori, laici e religiosi - ereditati dagli Anni 60 e che hanno tenuto banco in America durante le amministrazioni dei Bill Clinton e George W. Bush, entrambi appartenenti alla generazione dei «baby-boomers».

Proprio per suggellare la fine di tali spaccature ideologiche Obama giustifica il passo sulle staminali con il linguaggio del credente: «Poiché sono una persona religiosa credo che dobbiamo aver cura l’uno dell’altra e impegnarci per far venir meno le sofferenze umane, ci è stata data la capacità di perseguire questa ricerca e dobbiamo farlo con responsabilità». La fede per Obama non è quella nei dogmi, a qualsiasi Chiesa e fede appartengano, ma dell’impegno a perseguire il «bene comune», una meta nella quale riconosce tanto l’insegnamento di Abramo Lincoln che non cercò la vendetta contro i soldati sudisti sconfitti quanto il verbo di Sant’Agostino che disse «prega come se tutto dipendesse da Dio, lavora come se tutto dipendesse da te». Quest’idea del «lavoro per il prossimo» costituisce la base della fede di un Presidente che descrive gli americani come «guardiani dei miei fratelli e delle mie sorelle», è favorevole all’aborto ma ne condanna gli eccessi e punta alla «sconfitta della povertà» richiamandosi al messaggio originale di Gesù.

Per quell’Europa dove la ricerca delle staminali resta un tabù e la contrapposizione laici-religiosi rimane congelata dall’ideologia il linguaggio e le politiche di Obama pongono una sfida alla quale sarà difficile sfuggire, sul piano dei valori come del mercato.

 
da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI La Lega e l'eco di Obama
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2009, 09:32:00 am
11/3/2009
 
La Lega e l'eco di Obama
 
 MAURIZIO MOLINARI
 
Ideato dall’unico senatore socialista di Capitol Hill, incluso nel pacchetto di stimoli per l’economia col tacito avallo di Obama e applicato in tempo record da Bank of America, l’emendamento «anti-H-1B» spinge le imprese statunitensi a non assumere stranieri.

In singolare sintonia con il linguaggio protezionista del leader della Lega, Umberto Bossi, secondo il quale «nei posti di lavoro è giusto preferire gli italiani agli stranieri, anche se regolari».

Gli «H-1B» sono i visti grazie ai quali gli studenti stranieri usciti dalle università americane possono trovare lavoro negli Stati Uniti, coronando il sogno dell’integrazione in un Paese al quale hanno dedicato 2, 4 o anche 6 anni d’ininterrotta fatica sui libri e sui computer. Ogni anno vengono assegnati circa 65 mila visti «H-1B» ma questi posti di lavoro, in tempi di recessione, fanno gola ai cittadini americani e per invocare il legame privilegiato fra nazionalità e occupazione si è mosso Bernie Sanders, il senatore indipendente del Vermont che si definisce «socialista» rifiutando di essere contato fra i democratici di Obama perché li considera troppo moderati. Sanders ha scritto di proprio pugno l’emendamento protezionista, in base al quale le aziende che ricevono aiuti pubblici hanno un tetto massimo per le assunzioni di stranieri, e lo ha fatto co-firmare al repubblicano Chuck Grassley, avversario delle fusioni fra aziende americane e non. Assieme hanno raccolto con facilità la maggioranza dei voti, con tanto di via libera di Rahm Emanuel, capo di gabinetto della Casa Bianca. Il testo che seppellisce il sogno americano degli studenti stranieri - anche il padre keniota di Obama lo inseguiva - ha sollevato reazioni allarmate dall’India alla Malaysia mentre il presidente della Business School della Columbia University, Glenn Hubbard, ha parlato di «decisione terribile», imitato da analoghe reazioni di atenei e college che temono di diventare meno attraenti per gli stranieri, con conseguenti danni nei bilanci.

Ma le proteste delle università non hanno trovato ascolto né alla Casa Bianca né al ministero del Tesoro né tantomeno a Capitol Hill anche perché negli stessi giorni la Bank of America si affrettava a vantarsi d’essere diventato il primo gigante di Wall Street protagonista di una riduzione delle «offerte di lavoro agli stranieri come richiesto dalla legge firmata dal presidente Barack Obama». Le ripercussioni sono a pioggia: a migliaia di studenti stranieri, inclusi molti italiani, che avevano già in tasca offerte di lavoro per Wall Street è stato chiesto di «attendere» e gran parte di loro dovranno presto lasciare gli Stati Uniti perché i posti che gli erano stati assegnati con criteri meritocratici andranno a finire a titolari di passaporti americani.

A meno di un mese dal summit del G-20 di Londra, invocato da Obama e Gordon Brown come foro per rilanciare i mercati e frenare il protezionismo, l’emendamento Sanders e le parole di Bossi lasciano intendere come su entrambi i lati dell’Atlantico la recessione più dolorosa dell’ultimo secolo abbia innescato un vortice di emozioni negative che, secondo uno studio del Peterson Institute di Washington, rischiano di «avvelenare i pozzi del commercio mondiale». Per avere un’idea delle dimensioni del fenomeno basti pensare che nel ministero della «Homeland Security», titolare per l’immigrazione, c’è chi sta discutendo l’ipotesi di abolire la lotteria annuale per l’assegnazione delle carte verdi che consentono agli stranieri di lavorare legalmente negli Usa.

Di fronte alla pressione protezionista che viene da sindacati, capi politici locali e aziende timorose della concorrenza sta ai leader nazionali il compito di reagire. Non a caso Dan Ikenson, economista di punta del Cato Institute, chiama in causa l’incertezza di Obama, imputandogli di «non aver ancora parlato con chiarezza contro il protezionismo». Se le esitazioni sono palesi è perché l’inquilino della Casa Bianca si trova a un bivio simile a quello degli altri colleghi del summit G-20, Italia inclusa: deve decidere se cedere alle pressioni politiche interne e alle pulsioni di un elettorato che si impoverisce sacrificando il libero commercio, oppure reagire, difendendo i principi-cardine del libero commercio, rischiando però di perdere popolarità. È insomma, come dicono i veterani di Washington, una prova di leadership. Nell’elenco dei capi di governo che spingono Obama in quest’ultima direzione spiccano per determinazione il canadese Stephen Harpers e il brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva mentre scarseggiano, al momento, i nomi europei.

 
da lastampa.it


Titolo: Maurizio MOLINARI Cia in rivolta, arriva Obama
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2009, 11:19:50 am
21/4/2009 - GLI AGENTI PROTESTANO PER LA PUBBLICAZIONE DEI MEMO SULLE TECNICHE DI TORTURA
 
Cia in rivolta, arriva Obama
 
Il Presidente a Langley: proteggerò i vostri nomi, nessuna inchiesta
 
 
CORRISPONDENTE DA NEWYORK
 
Maurizio MOLINARI


La pubblicazione dei memo della Cia causa scompiglio fra gli 007 e Barack Obama arriva nel quartier generale di Langley per scongiurare una mezza rivolta nella «war room» che coordina le operazioni contro Al Qaeda, assicurando gli agenti: «Proteggerò le vostre identità e attività». La scelta di rendere note le tecniche di interrogatorio dei detenuti di Al Qaeda era stata a lungo dibattuta nell’amministrazione sin dall’indomani dell’insediamento del nuovo presidente e quando la Casa Bianca ha dato luce verde sono stati numerosi gli agenti che hanno fatto conoscere il proprio disappunto al nuovo capo della Cia, Leon Panetta. Poiché gli 007 per definizione non rilasciano dichiarazioni per conoscere i contenuti delle loro rimostranze bisogna leggere il ben informato blog di Jim Geraghty sul sito conservatore National Review Online, dove le riassume in due punti. Primo: la possibilità che un qualsiasi procuratore distrettuale inizi un’indagine contro gli agenti che applicarono le tecniche di interrogatorio equiparate alla tortura dall’amministrazione Obama. Secondo: l’eventualità che il Congresso possa varare una legge per istituire una «Commissione verità», sul modello di quella che operò in Sud Africa dopo l’apartheid, destinata a far trapelare le identità degli agenti in questione.

Le assicurazioni finora date da Obama a Panetta sulla decisione di «non perseguire i responsabili perché quando eseguirono queste tecniche erano nella legalità» non hanno rassicurato gli agenti che si sentono ora in condizione di rischio fino al punto da far sapere proprio a Panetta di auspicare un impegno di Obama a garantirgli il perdono qualora la giustizia iniziasse a perseguirli per «atti di tortura». Il fatto che la commissione Intelligence del Senato abbia iniziato un’inchiesta a porte chiuse sull’operato della Cia negli anni di George W. Bush ha rafforzato tali preoccupazioni.

A dar voce alla rabbia che cova nei corridoi di Langley è Michael Hayden, il generale che ha guidato la Cia negli ultimi anni dell’amministrazione Bush, secondo il quale «le rivelazioni fatte sono solo le prime, ve ne saranno altro, vi saranno commissioni di inchiesta e vi saranno indagini» con il risultato di «mettere in difficoltà un’Agenzia che si trova a condurre una guerra, in prima linea, per difendere la sicurezza dei cittadini americani». Il generale Hayden ha guidato in prima personale tali operazioni «di guerra» fino a pochi mesi fa e affida ai teleschermi di Fox un’aperta condanna per le scelte di Obama: «Credo che far conoscere ai nostri nemici quali sono i nostri limiti e rinunciare alle tecniche di interrogatorio rende assai più difficile agli agenti della Cia difendere la nazione, in molteplici circostanze». Prima di Hayden era stato l’ex vicepresidente Dick Cheney, due settimane fa, a sfruttare un’intervista alla Cnn per difendere la «legalità» dell’interrogatorio con il «waterboarding» - l’annegamento simulato - accusando Obama di «aver reso meno sicura l’America» rinunciando ad applicarlo. E ora Hayden ribadisce la tesi di Cheney sostenendo fra l’altro che «queste tecniche hanno davvero funzionato rendendo l’America più sicura e scongiurando nuovi attacchi terroristici».

E’ per rispondere a tali obiezioni e proteste, come per disinnescare lo scontento fra gli agenti della sezione «operazioni clandestine», che Obama sceglie di arrivare a Langley, in Virginia, incontra una cinquantina di agenti speciali a porte chiuse e poi parla ai dipendenti per rassicurarli. «Mi rendo conto che gli ultimi giorni sono stati difficili» dice, assicurando che «proteggerò la vostra identità e le vostre attività con la stessa determinazione con cui voi proteggete l’America». E poi ribadisce i motivi della declassificazione dei memo: «C’è chi può pensare che rispettare la Costituzione significa combattere contro Al Qaeda con una mano legata dietro la schiena, oppure essere ingenui, ma ciò che rende speciale l’America è la forza dei nostri valori e l’importanza di difenderli anche quando è più difficile farlo, è per questo che prevarremo contro i terroristi».
 
da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI
Inserito da: Admin - Maggio 04, 2009, 05:10:09 pm
4/5/2009
 
Ritrovare la fiducia della gente
 

MAURIZIO MOLINARI
 

La morte della tredicenne Behooshahr a Herat pone l’Italia di fronte alla sfida di applicare la dottrina Barack Obama in Afghanistan: dimostrare di saper proteggere i civili al punto tale da conquistarne i cuori come le menti per poter così accelerare la sconfitta dei taleban.

Behooshahr è l’adolescente afghana uccisa da una pattuglia dei nostri soldati che hanno fatto fuoco sulla Toyota bianca dove si trovava dopo aver invano tentato di fermarla mentre procedeva ad alta velocità. E’ una dinamica simile a quella che il 4 marzo 2005 portò una pattuglia di marines a fare fuoco a Baghdad sulla Toyota Corolla che trasportava l’ex ostaggio Giuliana Sgrena, uccidendo sul colpo l’agente del Sismi Nicola Calipari che l’aveva appena liberata.

Adesso come allora i militari da cui sono partiti i colpi-killer affermano di aver correttamente applicato le regole di ingaggio previste per una zona di guerra, facendo fuoco nel timore che la vettura fosse un’auto-kamikaze destinata a mettere a segno un sanguinoso attentato. Nella Baghdad infestata da Al Qaeda di quattro anni fa come nella Herat minacciata oggi dai taleban i militari hanno il dovere di proteggersi per evitare di subire attacchi sanguinosi come quello di Nassiryah - dove l’Italia nel 2003 contò 19 vittime - ma l’attuale situazione strategica in Afghanistan suggerisce all’Italia di andare oltre la semplice ricostruzione della dinamica dell’incidente, la difesa dei propri soldati, la riaffermazione delle tecniche di ingaggio, la presentazione delle scuse a Kabul e il versamento di risarcimenti economici alla famiglia della giovane vittima.

La differenza fra l’Afghanistan 2009 e l’Iraq 2005 sta nella dottrina militare applicata per vincere i duelli con i terroristi. La svolta avvenne nel 2006 quando il generale americano David Petraeus, designato da Bush alla guida delle truppe in Iraq, impostò la contro-guerriglia attorno alla priorità di proteggere i civili, di garantirgli migliori servizi e più in generale di accrescerne il tenore di vita. Questo approccio ha consentito di ottenere una consistente riduzione delle violenze in Iraq e Barack Obama, divenuto presidente, l’ha rilanciata sul fronte afghano affidando proprio a Petraeus, divenuto capo delle truppe in tutto il Medio Oriente, il compito di conquistare "i cuori e le menti" degli afghani al fine di fare terra bruciata attorno ai taleban alleati di Al Qaeda. Durante il recente vertice Nato di Strasburgo-Kehl, Obama ha elevato tale approccio a livello di strategia di lungo termine, facendo capire che la Nato riuscirà a piegare i taleban e consolidare la giovane democrazia afghana solo riuscendo a dare più sicurezza, fisica e economica, ai civili.

L’uccisione di Behnooshahr obbliga dunque l’Italia a trasformare in fatti concreti la dottrina Obama. La sfida per i nostri comandi a Herat è di rispondere alla tragedia avvenuta adottando rimedi che aumentino la protezione dei civili senza per questo abbassare la guardia nei confronti della perdurante minaccia jihadista. Dovranno essere rimedi talmente visibili e consistenti da essere percepiti da chiunque vive nella provincia di Herat. Più in fretta ciò avverrà, più fiducia le nostre truppe guadagneranno fra gli afghani, più sarà difficile per i talebani trovare rifornimenti e sostegni.

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI
Inserito da: Admin - Giugno 12, 2009, 06:44:42 pm
12/6/2009 - AMERICANI INCREDULI
 
Ora Obama vuole capire Berlusconi
 
Maurizio Molinari
 
 
Incontro alla Casa Bianca per capire le posizioni dell'Italia
 
 
CORRISPONDENTE DA NEW YORK
 
Le dichiarazioni di Muhammar Gheddafi sul parallelo fra gli Stati Uniti e Osama bin Laden irrompono nella preparazione della visita di Silvio Berlusconi a Washington, spingono gli sherpa della Casa Bianca a modificare l’agenda dei colloqui di lunedì e rafforzano la richiesta di Barack Obama di avere mezz’ora di colloquio a tu per tu con il presidente del Consiglio, al fine di poterlo conoscere meglio.

La traduzione letterale delle frasi pronunciate da Gheddafi a Palazzo Giustiniani è arrivata dopo meno di 45 minuti sui tavoli del Dipartimento di Stato e del Consiglio per la sicurezza nazionale che stanno preparando l’incontro di lunedì. La scelta dell’amministrazione è stata di far dire ai portavoce che «il governo americano non commenta le frasi del leader libico», ma nelle comunicazioni intercorse fra Via Veneto e Foggy Bottom i termini adoperati sono stati «pazzesco» e «incredibile» che descrivono la sorpresa tanto per lo show del leader libico quanto per il fatto che l’Italia si è trasformata nel suo palcoscenico europeo «grazie ad una visita che poteva essere più breve».

Washington da tempo ha ripreso i rapporti con Tripoli - a seguito della decisione di Gheddafi di smantellare il programma nucleare e pagare i risarcimenti per l’attentato di Lockerbie - ma li gestisce con grande cautela e dunque non comprende perché l’alleato italiano abbia dato modo ad un ospite notoriamente imprevedibile di dominare la scena nazionale «per molti giorni».

Nelle numerose comunicazioni intercorse fra Washington e Roma dopo l’exploit di Gheddafi, il governo italiano ha fatto presente la presa di distanza del capo della Farnesina, Franco Frattini, dal paragone Usa-Bin Laden tentando di ridimensionare l’avvenuto. Ma tutto ciò non ha impedito agli sherpa della Casa Bianca di aggiungere il caso-Libia nell’agenda dei colloqui il programma lunedì nello Studio Ovale, fra le 16 e le 17 ora di Washington.

La proposta americana è di suddividere i 60 minuti di vertice in due sessioni separate: i primi 30 nei quali Obama e Berlusconi saranno da soli, assieme agli interpreti, e i secondi 30 con la formula «1+7» ovvero allargati alla delegazione di consiglieri, che nel caso degli americani includeranno il Segretario di stato Hillary Clinton, il capo di gabinetto Rahm Emanuel, il consigliere per la sicurezza James Jones e quattro alti funzionari del Dipartimento di Stato. Tale organizzazione dei colloqui, che secondo fonti a Washington non avrebbe ancora avuto l’assenso italiano, punterebbe a raggiungere un duplice scopo. Da un lato offrire a Obama la possibilità di parlare con franchezza a Berlusconi sui temi che più hanno fatto ombra alle relazioni negli ultimi mesi: dal tentativo italiano di avere un solitario ruolo di mediazione nei rapporti di Washington con Mosca e Teheran fino alle frasi del premier contro la multiculturalità e sul fatto di essere il leader politicamente più esperto del G8. Dall’altro consentire a Hillary, Emanuel e Jones di esplorare l’agenda del G8 dell’Aquila, verificando poi la disponibilità italiana ad accogliere alcuni detenuti di Guantanamo, garantire più impegno in Afghanistan ed esplorare comuni posizioni su energia e clima, dalla realizzazione dei nuovi oleodotti alla riattivazione delle centrali nucleari in Italia fino alla conferenza Onu di Copenhagen in dicembre sul dopo-Protocollo di Kyoto.

Forse proprio in ragione della delicatezza dell’incontro privato con Obama, Berlusconi ha deciso di anticipare l’arrivo a Washington al pomeriggio di domenica evitando di fissare impegni per lunedì mattina - tranne brevi soste alla National Gallery e al cimitero di Arlington - per potersi preparare al faccia a faccia pomeridiano con un leader che viene da Chicago dove l’attività politica viene sovente assimilata ai match di pugilato.

Atteso da una visita delicata, Berlusconi può contare a Washington su un’amicizia che pesa: quella con la presidente della Camera Nancy Pelosi che vedrà a cena dopo essere uscito dalla West Wing.
 
da lastampa.it


Titolo: Il premier ha lasciato Portofino con una battuta (... idiota ndr)
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2009, 11:20:01 pm
Il premier ha lasciato Portofino con una battuta

Berlusconi: «Vado da Obama, bello e abbronzato»

Il presidente del Consiglio parte per Washington dove lunedì incontra il presidente degli Usa

   
PORTOFINO (Genova) - Berlusconi ha lasciato Portofino, non rinunciando a una battuta, in vista del suo prossimo viaggio negli Usa: «Vado da Obama bello e abbronzato». Così il presidente del Consiglio si è congedato dai giornalisti lasciando la residenza ligure per recarsi all’aeroporto di Genova, dove partirà per Washington. Lunedì il premier, alle 15 locali, incontrerà il presidente degli Usa, Barack Obama alla Casa Bianca.

G8 E AFGHANISTAN IN AGENDA - Nel viaggio a Washington è prevista un'ora di colloquio tra Silvio Berlusconi e il presidente degli Stati Uniti nello studio ovale della Casa Bianca per fare il punto sulla preparazione del G8 e per consultarsi su diversi temi internazionali, dal Medio Oriente all'Afghanistan, fino ai rapporti est-ovest, con la Federazione russa e la questione dell'ingresso della Turchia nell'Unione europea. Una riunione che, secondo fonti diplomatiche di Palazzo Chigi, non sarà velata da «irritazioni» dell'amministrazione americana dopo i giudizi espressi sugli Stati Uniti da Muhammar Gheddafi durante la sua visita a Roma.

Tra i temi quello di un maggior impegno del nostro paese a Kabul.

Quindi, saranno toccate le questioni di interesse bilaterali, come i rapporti commerciali e l'ingresso della Fiat in Chrysler.

Un capitolo a parte sarà dedicato al G8, al prossimo vertice «delle regole» per l'economia globale, ma anche delle tematiche ambientali, vertice che si svolgerà nel cuore dell'Abruzzo colpito dal terremoto.


14 giugno 2009
da corriere.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2009, 06:14:35 pm
29/6/2009
 
Risposta comune a Khamenei
 
MAURIZIO MOLINARI
 

Il sequestro di otto dipendenti iraniani dell’ambasciata britannica, le accuse di interferenza rivolte da Mahmud Ahmadinejad a Barack Obama, l’appello dell’ayatollah Ahmed Khatami a «giustiziare i rivoltosi» e la repressione asimmetrica dei manifestanti da parte dei miliziani islamici suggeriscono che è iniziato il secondo atto del «golpe di Ali Khamenei», come l’iranista Mehdi Khalaji del Washington Institute ha definito l’esito ufficiale del voto presidenziale iraniano.

Se il primo atto ha visto Khamenei, Leader Supremo della rivoluzione, assegnare a Ahmadinejad la vittoria presidenziale prima di ultimare il conteggio delle schede, respingere la richiesta dello sfidante Mir Hossein Mousavi di rivotare e mobilitare le forze del ministero dell’intelligence e dei basiji per impedire ai manifestanti di insediarsi in una o più piazze della capitale come riuscì agli studenti cinesi a Tienanmen, il risultato è una stabilità assai precaria. Da qui la necessità di un secondo atto con il quale Khamenei punta a chiudere la crisi liquidando ogni opposizione. La parte militare avviene nelle strade di Teheran dove i cecchini dei pasdaran sparano dai tetti e i basiji in tuta nera aggrediscono i manifestanti picchiandoli con i manganelli.

Non c’è uno scontro unico, palese, non ci sono blindati o tank ma una galassia di episodi di microrepressione che, accompagnati da arresti notturni e detenzioni segrete, dimostrano come sia possibile adoperare le tecniche della guerriglia asimmetrica contro la popolazione civile, al fine di terrorizzarla. Per Bruce Reidel, consigliere di Obama sull’intelligence, questa miscela di intimidazione e violenza può portare a uno «scenario fumoso» dove le proteste finiscono ma il regime resta vulnerabile alle liti intestine.

È per questo che venerdì il Leader Supremo ha affidato a Ahmed Khatami, fra i capi islamici più oltranzisti, il discorso in cui chiede la pena di morte per i responsabili dei disordini: la minaccia punta ad accomunare i manifestanti pro Mousavi con gli esponenti del clero conservatore khomeinista che li sostegnono. E per questo Hashemi Rafsanjani, ex presidente e khomeinista della prima ora, si è affrettato a chiedere di «superare le divisioni fra noi»: sente arrivare il pericolo di un’epurazione interna della quale potrebbe essere la prima vittima per l’appoggio che ha finora dato a Mousavi. Tanto la repressione della piazza composta dai giovani riformisti, quanto l’azzeramento dalla nomeklatura inaffidabile hanno bisogno di un forte collante ideologico, e Khamenei lo ha facilmente trovato additando all’odio collettivo l’esistenza di presunti complotti stranieri. Per questo Ahmadinejad ha denunciato le «interferenze» dell’America di Obama, della Gran Bretagna e del «regime sionista» e, neanche 24 ore dopo, i miliziani islamici le hanno avvalorate arrestando otto dipendenti civili dell’ambasciata britannica accusandoli di essere spie.

Il secondo atto di Khamenei sarà completo quando i servizi di intelligence, che rispondono alle direttive del figlio Mojtaba, renderanno pubblici i nomi di coloro che hanno partecipato ai presunti «complotti», dando il via all’eliminazione degli avversari. Il fine è di trasformare la sconfitta dell’onda verde di Teheran nell’occasione per blindare la Repubblica Islamica, anche al prezzo di trasformarla in un regime autoritario. «Ma è un grave errore pensare di poter tornare indietro - osserva Suzanne Maloney, coautrice del rapporto della Brookings Institution sul dopo-proteste - perché nulla sarà più come prima dopo quanto è avvenuto».

Nasce qui la necessità per gli Stati Uniti e l’Europa di ridisegnare l’approccio all’Iran frutto del «golpe di Khamenei». L’imminente summit del G8 all’Aquila offre l’occasione di assumere una posizione comune con la Russia, che alla riunione ministeriale di Trieste ha già fatto capire di voler essere prudente. Ciò che è in ballo è la scelta che il Gruppo di contatto sull’Iran (composto da Usa, Russia, Cina, Francia, Gran Bretagna e Germania) dovrà fare circa il riprendere o no il negoziato con l’Iran sul congelamento del programma nucleare. Quanto detto ieri al talk show della Nbc Meet the Press da David Axelrod, consigliere di Obama, su «Khamenei responsabile della politica estera», lascia intendere che Washington pensi di ricominciare la trattativa, mentre la dura condanna della repressione da parte di Nicolas Sarkozy suggerisce che Parigi sia di differente opinione.

Quale che sia l’esito del confronto in atto tra le maggiori potenze, ciò che conta è riuscire a dare in fretta una forte risposta comune alla svolta di Khamenei. Anche perché lo scenario di un Leader Supremo onnipotente dotato di armi nucleari sta mandando in ebollizione il Medio Oriente: la stampa saudita gli rovescia contro accuse infuocate, mentre l’aviazione di Gerusalemme avrebbe confezionato una nuova versione del raid aereo, per il quale basterebbero appena otto jet.

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Attesa per il discorso del presidente Usa ad Accra
Inserito da: Admin - Luglio 05, 2009, 11:02:49 am
5/7/2009 (8:25) - IL TOUR DI OBAMA

"Per la mia terra è l'ora del riscatto"
 
Attesa per il discorso del presidente Usa ad Accra

MAURIZIO MOLINARI


Atterrando domani a Mosca, Barack H. Obama inizia il suo secondo viaggio europeo, che terminerà con una tappa in Ghana per sottolineare l’importanza che attribuisce all’Africa nell'affrontare i «problemi globali della comunità internazionale». Alla vigilia della partenza, è il vice consigliere per la sicurezza nazionale, Dennis McDonough, a spiegare «la novità africana» di questo itinerario: «Finora Obama ha fatto due importanti discorsi, sulla non proliferazione delle armi di distruzione di massa a Praga e sull’apertura all’Islam al Cairo. Ora vuole completarli con ciò che dirà a Mosca sui legami con la Russia e al Parlamento di Accra sul ruolo dell’Africa» dice McDonough. Michelle Gavin, assistente del presidente per l’Africa aggiunge: «La tappa in Ghana si lega alla volontà di sottolineare che l’Africa è parte integrante della visione di politica estera di questa Amministrazione», perché «le voci africane sono essenziali nella discussione di temi-chiave per il Pianeta, come quelli in agenda nel summit del G8 all’Aquila». Se la scelta è caduta sul Ghana, il motivo è duplice: è lungo le sue coste che i mercanti di schiavi britannici raggruppavano gli uomini catturati prima di imbarcarli alla volta delle piantagioni del Nord America e sono le sue istituzione democratiche a essere fra le più stabili del Continente, come hanno dimostrato le recenti elezioni presidenziali, terminate con una differenza di appena 40 mila voti a favore del leader dell’opposizione John Atta Mills senza per questo scatenare proteste violente.

Non a caso i due posti dove Obama farà tappa saranno il castello di Cape Coast sul Golfo di Guinea, dove gli schiavi venivano detenuti in condizioni disumane, e il Parlamento di Accra, da dove il presidente parlerà al Continente dove nacque suo padre. L’ipotesi di scegliere il Kenya, terra d’origine degli Obama, è stata scartata perché, come ha spiegato lo stesso premier di Nairobi, Raila Odinga, «avrebbe mandato il messaggio sbagliato, lasciando intendere che il legame con l’Africa è famigliare e non strategico». Per Gavin, «ciò che distingue il Ghana è la stabilità delle istituzioni democratiche: da diversi anni ormai i passaggi di potere avvengono pacificamente e i governi che si susseguono perseguono tutti un’agenda tesa a rafforzare i commerci con il resto del mondo e la tenuta dello Stato di diritto». L’accento sarà dunque, come sottolinea McDonough, sugli «aspetti positivi dell’Africa», lasciandosi alle spalle un approccio condizionato esclusivamente dalla gestione delle crisi. «Il Ghana è un partner importante in Africa Occidentale per combattere la mortalità infantile e il narcotraffico, come per la difesa del clima e lo sviluppo di nuove forme di energia» fanno sapere dalla Casa Bianca, lasciando intendere che Obama tornerà presto nel Continente con tappe in più Stati, incluso il Sud Africa, dove nel 2010 andrà ad assistere alla partita iniziale dei Mondiali di calcio. «Ma venire adesso ha un significato particolare, abbiamo voluto inserire l’Africa fra i viaggi fatti all’inizio della presidenza» aggiunge McDonough. Ironia della sorte vuole che, per raggiungere la capitale dall’aeroporto, la limousine del presidente debba percorrere l’autostrada intestata al predecessore George W. Bush, dopo il suo viaggio ufficiale nel febbraio 2008.

Obama si è già occupato di Africa, anche se a piccoli passi: affidando al generale Scott Gration l’incarico di inviato sulla crisi umanitaria nel Darfur sudanese e ricevendo nello Studio Ovale il premier dello Zimbabwe Morgan Tvangarai per tentare di studiare un piano congiunto contro la crisi economica che affligge il Paese. «La realtà è che finora Obama ha avuto un profilo basso sull’Africa - conclude Whitney Schneidman, ex consigliere di Barack sull’Africa durante la campagna presidenziale - e il momento del nuovo inizio sarà al Parlamento di Accra».

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Mao-Tze Dong a Park Avenue
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2009, 05:06:20 pm
29/7/2009

Mao-Tze Dong a Park Avenue
   
MAURIZIO MOLINARI


Alta più di tre metri, pesante 5,5 tonnellate e immersa ogni giorno in un fiume di taxi gialli, la statua di metallo con le fattezze della giacchetta di Mao posizionata nel bel mezzo di Park Avenue sta a testimoniare quanto la patria del capitalismo guardi alla Cina.

Che si tratti di manodopera finanziaria, cittadini comuni o governanti di Washington, l’approccio non cambia: per i brokers di Wall Street i capitali cinesi sono «il partner più ambito», come scrive il magazine Forbes.

Per i pendolari della Grande Mela le lavanderie gestite da immigrati cinesi consentono a prezzi stracciati di avere sempre camicia e pantaloni ben stirati; per l’amministrazione Obama Pechino è indispensabile allo sviluppo di nuove fonti di energia come alla lotta contro la proliferazione.

Metà banca detentrice di un terzo del debito americano e metà potenza militare dell’Estremo Oriente, la Repubblica Popolare guidata da Hu Jintao è l’interlocutore obbligato con il quale il ministro del Tesoro Tim Geithner deve fare i conti pianificando il rilancio dell’economia e il Segretario di Stato Hillary Clinton deve concordare le mosse su Corea del Nord e Iran per scongiurare l’incubo di mini-guerre atomiche. Ma forse ciò che più spiega l’attenzione che l’America di Barack Obama ha riservato alle 48 ore di colloqui bilaterali strategico-economici è quanto dice Jeffrey Sachs, direttore dell’«Earth Institute» della Columbia University, intervenendo all’Asia Society di Manhattan, con la sede a Park Avenue proprio davanti alla giacchetta di Mao: «Il ruolo di Pechino nel grande gioco dei cambiamenti climatici».

Sommando ritmi di produttività record e il fatto che l’80 per cento della propria elettricità dipende dal carbone, la Cina è la nazione che più inquina al mondo e dunque è indispensabile all’accordo sulla difesa del clima che la Casa Bianca punta a raggiungere alla conferenza dell’Onu in programma a Copenaghen a dicembre. Il G8 dell’Aquila ha dimostrato che l’intesa sulla riduzione entro il 2050 dell’80 per cento delle emissioni nocive - rispetto ai livelli del 1990 - trova i maggiori ostacoli in India e Cina. Il recente viaggio di Hillary Clinton a New Delhi ha confermato che l’India non ha alcuna propensione al compromesso e dunque a Barack Obama non resta che la carta cinese per scompaginare l’opposizione delle economie emergenti dell’Asia e riuscire lì dove Bill Clinton e Al Gore fallirono a Kyoto nel 1997: coinvolgere le nuove potenze industriali nella riduzione dei gas serra nell’atmosfera.

È per questo che Obama, lunedì nel discorso al Reagan Building e ieri pomeriggio nello Studio Ovale, ha consegnato nelle mani dei ministri cinesi ospiti la promessa di una «partnership per le innovazioni tecnologiche nel nuovo secolo» che in concreto significa impegnarsi a sviluppare assieme le nuove forme di energia capaci di emanciparci dalla dipendenza del greggio di Paesi instabili come l’Iran, l’Arabia Saudita e il Venezuela. È per questo che il «memorandum sul clima» siglato dal titolare dell’Energia Steve Chu e dall’inviato cinese Dai Bingguo è il primo mattone della «trasformazione del mondo» di cui parla Obama. Ora sarà proprio Chu, convinto difensore del clima da quando andava a studiare appollaiato sugli alberi della California, a partire alla volta di Pechino puntando a gettare le fondamenta di una cooperazione scientifica avveniristica fra atenei, imprese private e capitali pubblici tesa a generare invenzioni capaci di cambiare la vita di tutti noi.

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Obama, partita in tre mosse sulla sanità
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2009, 11:36:12 am
9/9/2009

Obama, partita in tre mosse sulla sanità
   
MAURIZIO MOLINARI


A neanche otto mesi dall’insediamento alla Casa Bianca questa sera Barack Obama affronta una prova già decisiva per la sua presidenza: dovrà illustrare una proposta di riforma della Sanità talmente convincente da risollevare le sorti dell’amministrazione. Le difficoltà di Obama nascono dall’interno del suo partito, i democratici, e sono evidenziate dai numeri: 52 deputati moderati si oppongono all’inserimento di un piano assicurativo pubblico nella riforma mentre 60 deputati liberal lo ritengono indispensabile. È un corto circuito che avviene nelle viscere della coalizione elettorale vincitrice nel 2006 del Congresso e nel 2008 della Casa Bianca perché i moderati sono quelli che hanno espugnato i distretti repubblicani in Stati conservatori come Indiana, North Carolina e Missouri mentre i liberal sono guidati da Nancy Pelosi, presidente della Camera già in prima fila nelle dure battaglie contro l’amministrazione di George W. Bush.

La spaccatura, visibile nell’aula della Camera quanto al Senato, minaccia Obama anche su altri fronti dell’agenda d’autunno perché i liberal sono dubbiosi sull’invio di nuovi rinforzi militari in Afghanistan mentre i moderati sono preoccupati da tasse e debiti, e vogliono riscrivere la legge sui tagli alle emissioni di gas nocivi per alleggerire i costi fiscali sulle imprese private. Sono questi disaccordi interni che fanno oscillare pericolosamente la popolarità del Presidente attorno alla quota del 50 per cento consentendo ai repubblicani un inatteso ritorno di popolarità - nei sondaggi sono appena 2,7 punti dietro ai democratici - e al commentatore conservatore Charles Krahutammer di concludere che «l’America sta scoprendo che Obama è un mortale come gli altri» e non il salvatore della nazione vincitore della sfida del 2008.

Per evitare che le divisioni fra i democratici imprigionino la presidenza, Obama si prepara questa notte a giocare una partita in tre mosse. Primo: un discorso scritto a mano, su fogli di carta gialla, per conversare con i cittadini, indipendentemente dalle loro idee politiche, sulla necessità di sanare il vulnus dei 47 milioni di residenti senza copertura sanitaria. Secondo: l’illustrazione dei dettagli di un compromesso bipartisan sul piano pubblico basato anche sui suggerimenti delle senatrici repubblicane del Maine, Olympia Snowe, e Susan Collins. Terzo: la scelta strategica di prendere personalmente le redini della riforma, la cui formulazione finora è stata lasciata nelle mani di leader democratici rivelatisi troppo litigiosi.

Spostare la regìa della riforma da Capitol Hill allo Studio Ovale è una decisione nelle corde di un leader divenuto Presidente grazie al rapporto diretto con gli americani, abituato ad affrontare a viso aperto le difficoltà più ardue e consapevole del fatto di continuare a essere un outsider per l’establishment di Washington. Così facendo Obama punta a galvanizzare l’esercito dei 13 milioni di fans che continuano a ricevere le sue e-mail ed a mettere nell’angolo chiunque nel partito democratico - moderato o liberal che sia - ostacolerà i programmi della presidenza. È una scommessa ad alto rischio, alla quale gli americani assisteranno in diretta tv, che il Presidente affronta alla sua maniera: con la calma del ragazzo che studiava sulle spiagge delle Hawaii e la grinta del veterano delle lotte politiche di Chicago.

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI L'altra America: la città dove Bush è ancora presidente
Inserito da: Admin - Novembre 01, 2009, 10:35:23 am
1/11/2009 - SPECIALE OBAMA UN ANNO DOPO

L'altra America: la città dove Bush è ancora presidente
   
Columbia, nella patria del deputato che urlò "bugiardo" a Obama. Bandiere sudiste in piazza, foto del predecessore nei ristoranti


MAURIZIO MOLINARI

Columbia è una città dove al mattino si fa colazione nelle steakhouse, gli uomini indossano abiti militari, le donne bianche e bionde portano a spasso cani pastore, gli afroamericani guidano i taxi verdi comunali e il cuore sudista batte sulla piazza di fronte alla State House, l’unico luogo pubblico degli Stati Uniti dove sventola la bandiera della Confederazione.

Questa è la terra di Joe Wilson, il deputato repubblicano di 62 anni divenuto paladino dell’America anti-Obama gridando «Liar!» (bugiardo) mentre il presidente pronunciava in settembre il discorso al Congresso sulla riforma sanitaria. Columbia è il maggior centro del secondo distretto elettorale della South Carolina che, arrivando fino all’Atlantico, include una miriade di installazioni militari con relativi sobborghi, in gran parte popolati di bianchi, anglosassoni e protestanti.

Al numero 1700 del Sunset Boulevard c’è una villa in mattoni rossi grande e possente al punto da assomigliare a un fortino della guerra civile. È qui che Joe ha il suo ufficio di deputato. All’entrata poltrone di pelle e un tavolo sul quale campeggia una Bibbia, sotto il dipinto a olio di una distesa di granai del Sud. La segretaria è una sorridente afroamericana con l’incarico di allontanare «giornalisti e forestieri» e appuntare su file tutte le «testimonianze di solidarietà» arrivate dopo l’insulto a Obama: centinaia di assegni di offerte - i giornali locali parlano di quasi 2 milioni di dollari - catalogando cifre, nomi e indirizzi in vista della campagna per la rielezione, nel novembre 2010.

Sono almeno una dozzina gli «staffer» di Joe, guidano Suv e fanno la spola con l’altra sede, al 632 del Boulevard, dove fra un supermercato e un barbecue c’è il quartier generale della campagna. Consiglieri e dipendenti di Wilson, tutti con indosso spillette e adesivi «Vote for Joe», si rilassano ai tavolini del Sunset Restaurant, al civico 1213, dove Obama è un perfetto sconosciuto. Le pareti sono coperte di foto di George W. Bush e Dick Cheney, adornate con scritte «God Bless America» e coccarde patriottiche. C’è un grande quadro con le foto dei Presidenti, ma l’ultimo è Bush. Le pubblicità sui tavoli evocano l’epopea del Sud: vecchi fucili, prodotti agricoli, memorabilia militari.

Anche il cibo è rigorosamente confederato, a cominciare dal molto richiesto «Dixicrat», un piccolo salsicciotto appoggiato su un fetta di pane chiazzata di mostarda. Si inghiotte in un sol boccone, come facevano le giubbe grigie che difendevano la schiavitù. «Questo è ciò che mangiamo da molte generazioni - dice Roy, cinquantenne operaio di una ditta di costruzioni - e da altrettanto tempo ci piacciono quelli come Joe Wilson, che parlano chiaro». L’ex presidente Jimmy Carter accusa Wilson di esprimere «i sentimenti razzisti che covano in America contro Obama», ma fra i tavolini ingialliti del Sunset Restaurant nessuno si sente razzista. I quattro colleghi di Roy hanno tutti fra i 30 e 40 anni, sono bianchi e parlano all’unisono di fronte a piatti di salsiccia e bacon: «Se Obama non ci piace è perché aumenta le tasse, non sa guidare le forze armate ed è incerto come Presidente». Il più duro è anche il più giovane, Tim, che sogna di portare la fidanzata a Venezia: «Wilson ha fatto bene a dargli del bugiardo, Obama vuole una sanità socialista e vuole legalizzare milioni di clandestini facendoci pagare il conto, e non ha neanche il coraggio di dircelo». Una delle cameriere è una giovane asiatica, Ana, che sorride e non se la prende troppo: «La pensano tutti così, ma le mance sono buone».

La casa dei Wilson è a meno di due chilometri, nel giardino sventola la bandiera confederata e nei pressi si trova la chiesa presbiteriana dove il deputato è stato accolto da un caloroso applauso la domenica seguente al grido nell’aula di Capitol Hill. Chi abita da queste parti si identifica nel movimento dei «Tea Parties», la rivolta fiscale lanciata dai gruppi ultraconservatori in più città d’America: «Obama vuole farci pagare per la sanità di altri - dice Tracy, quarantenne avvocato immobiliare - ma qui non siamo cresciuti in questa maniera, se vuole il mio sostegno alla riforma deve spiegarmi perché gioverà a me, non ad altri». Quando si tratta di manifestare l’ostilità per il «presidente socialista» ci si ritrova attorno al pennone dove sventola il drappo confederato, davanti ad una statua di George Washington che mostra i segni del «lancio di pietre da parte della popolazione civile in segno di protesta contro l’occupazione del febbraio 1865» come recita l’incisione che ricorda i confederati sconfitti.

La piazza è presidiata dai «Sons of Confederate Veterans» (Scv), discendenti dei reduci del Sud ribelle di Jefferson Davis, indossando divise d’epoca con tanto di cappelli, sciabole e drappi crociati. Spesso innalzano scritte ostili al «Naacp», la maggiore organizzazione degli afroamericani, accusata di aver «pianificato la distruzione della nazione, da Lincoln a Obama». Per Mark Potok, presidente del «Southern Povery Law Center» dell’Alabama, gli Scv «non sono un gruppo razzista ma contano nelle loro file 200 suprematisti bianchi». Il deputato Wilson, sul proprio sito Internet, confessa di essere un sostenitore degli Scv, ma saperne di più è impossibile perché i nostalgici del Sud vivono come una setta di carbonari. «Si dice che si riuniscono su un prato dentro la base di Fort Jackson», azzarda un tassista afroamericano di nome Hercules, che confessa di «avere sempre un po’ paura di questa gente perché Obama sta a Washington e loro invece sono tra noi».

Ironia della sorte vuole che il prossimo novembre la rielezione di Wilson potrebbe dipendere proprio dagli afroamericani, che compongono circa un quarto dell’elettorato. I democratici candidano Rob Miller, un ex marine fautore del porto d’armi e con alle spalle due turni combattenti in Iraq, puntando a creare una coalizione di bianchi e neri «per l’onore della Carolina», infangato dall’impertinenza di Wilson. Ma Danielle Vinson, politologa della Furman University, suggerisce ai democratici di non farsi illusioni: «Il grido di Wilson ne ha rafforzato la popolarità fra i suoi elettori e se il voto del 2010 sarà un referendum su Obama, avrà la vittoria facile». Gli elettori in questione sono quelli che entrano nelle librerie «Paradise Shops» per acquistare i volumi di Glenn Beck, il conduttore ultraconservatore di Fox tv che accusa Obama di «razzismo contro i bianchi», e passano il tempo a raccontarsi gli aneddoti della «Disney Drive», come hanno rinominato la passeggiata della base di Bagram - in Afghanistan - dove fra i 20 mila militari in servizio molti provengono da queste parti. Fra le battute più gettonate c’è quella che ripete anche un addetto alla sicurezza dell’aeroporto quando fa sedere i passeggeri «sospetti» per eseguire i controlli di routine: «Si metta seduto sulla sedia degli interrogatori, tanto ormai il waterboarding non lo facciamo più».

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Obama parla all'Asia: "Una Cina forte serve al mondo intero"
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2009, 11:01:51 am
14/11/2009 - Il discorso della Suntory Hall, preceduto da musiche di Mozart

Obama parla all'Asia: "Una Cina forte serve al mondo intero"
   
Barack si definisce "il primo presidente americano che viene dal Pacifico".

Al Giappone parla di "una partnership fra uguali nel mutuo rispetto" e chiede di "non aver paura della crescita di Pechino".

Rilancio delle alleanze regionali su economia, commercio, sicurezza e lotta alla proliferazione


Maurizio MOLINARI

INVIATO A TOKYO

Barack Obama parla all’Asia dall’auditorium della Suntory Hall affollata da oltre 1500 persone giunte da ogni angolo del Giappone. Preceduto da musiche di Mozart, salutato da applausi e con alle spalle una parete con le bandiere dei due Paesi, Obama si presenta come «il primo presidente americano che viene dal Pacifico» ricordando l’origine nelle Hawaii, l’adolescenza in Indonesia, la nascita della sorella - avuta dalla madre con il secondo marito - a Giakarta e l’impegno profuso dalla madre per oltre una decade nel volontariato nei Paesi del Sud Est asiatico. La stessa madre che, per prima, lo portò a visitare il Giappone che adesso lui ha scelto come prima tappa del viaggio asiatico per rinnovare l’impegno del presidente Dwight Eisenhower che 50 anni fa riassunse l’alleanza con Tokyo con l’espressione «una partnership fra uguali nel mutuo rispetto». Obama parla per circa 50 minuti di fronte ad un pubblico con uomini in abito scuro e donne in vestito da sera, espone una visione di rapporti con il Pacifico e l’Asia che si fonda sulle alleanza con Giappone, Sud Corea, Thailandia, Filippine e Australia ma guarda soprattutto ad una nuova stagione di partnership con Pechino. «Non bisogna aver paura del successo degli altri - dice Obama - gli Stati Uniti non vogliono contenere la Cina, la crescita di una Cina prosperosa può essere fonte di forza per l’intera comunità delle nazioni». Barack vede in Pechino un partner globale, su ogni fronte: dalla crescita economica alla lotta alla proliferazione, dalla stabilizzazione di Afghanistan e Pakistan alla lotta al rispetto dei diritti umani. Con un segno di attenzone per Pechino, non fa alcun riferimento al Tibet. L’America persegue anche il rilancio delle alleanza regionali - l’Apec su economia e commercio, l’Asean sulla sicurezza - per moltiplicare i rapporti, sbloccare i negoziati di Doha, puntare ad un’area di libero commercio nel Pacifico, aprire i mercati e creare posti di lavoro capaci di sostenere una crescita globale ancora debole. L’ultima parte del discorso è quella che riscalda più il pubblico della nazione che subì gli attacchi atomici a Hiroshima e Nagasaki. Obama parla della lotta alla proliferazione nucleare, dell’impegno a perseguire un mondo senza atomiche, degli accordi sul disarmo con la Russia e della necessità di bloccare la corsa all’atomo di Corea del Nord e Iran. «Da decenni il Giappone ha l’energia nucleare senza perseguire l’atomica, siete un esempio per il mondo intero» sono le parole del presidente, che conclude rilanciando l’impegno alla diplomazia diretta tanto con la Corea del Nord per facilitare il disarmo che con la giunta birmana per spingerla a rispettare i diritti umani, «rimettendo il libertà Aung San Suu Kyi». Lasciata Tokio, Obama è partito alla volta di Singapore per partecipare al summit dell’Apec.

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI L'uomo del Pacifico
Inserito da: Admin - Novembre 15, 2009, 10:31:32 am
15/11/2009

L'uomo del Pacifico
   
MAURIZIO MOLINARI


Con l’invito a «non aver paura della crescita della Cina» Barack Hussein Obama ha posizionato un nuovo tassello nel mosaico della visione del mondo di cui è portatore. Con 8 viaggi in un totale di 20 nazioni Obama è il presidente americano che si è recato all’estero più spesso nei primi 11 mesi di governo, e sono i discorsi che ha fatto durante questa maratona a descrivere cosa ha in mente. Da Praga ha disegnato l’orizzonte di un mondo senza atomiche, indicando nella proliferazione delle armi di distruzione di massa il maggiore pericolo per la sicurezza collettiva. Da Ankara e dal Cairo ha teso la mano all’Islam suggerendo un «nuovo inizio» nei rapporti con l’Occidente. Da Accra ha chiesto all’Africa di assumersi le proprie responsabilità nell’affrontare le sfide del XXI secolo, dalla difesa del clima allo sviluppo ai diritti umani fino alle energie rinnovabili.

Da Mosca e da Tokyo ha parlato di Russia e Cina adoperando espressioni simili ovvero definendole «partner globali» le cui «forza e prosperità» sono nell’«interesse degli Stati Uniti d’America».

Ciò che accomuna questi discorsi è la convinzione che la comunità internazionale sia una sola e condivida quattro comuni, grandi interessi: far ripartire e sostenere la crescita economica, scongiurare conflitti o attentati atomici, salvare il clima e sviluppare nuove fonti di energia per emanciparsi dalla dipendenza dai carburanti fossili.

L’intento del presidente, frutto delle riflessioni maturate nello Studio Ovale con il guru politico David Axelrod e poi messe per iscritto dal 27enne speechwriter stakanovista Ben Rhodes, è di accompagnare grandi e piccole potenze a convergere su questa piattaforma comune. Ma per riuscirci deve riuscire a sanare le ferite ereditate dal XX secolo: nasce così l’apertura all’Islam, la mano tesa nei confronti degli avversari degli Stati Uniti e la scommessa di disinnescare la genesi dei maggiori conflitti affermando - come ha fatto a Tokyo - che «non dobbiamo avere paura del successo degli altri» perché i nuovi equilibri globali fanno sì che «se una potenza cresce ciò non avviene a scapito di altri».

Ovvero, il mondo ha maggiori risorse e c’è spazio per la prosperità di tutti. Andando a spulciare nei testi dei sei maggiori discorsi che finora Obama ha pronunciato in Europa, Africa e Asia ci si accorge che sono accomunati dal ricorrere dei concetti di «reciproco rispetto» e «interessi comuni» ovvero dalla convinzione che il nuovo ordine internazionale per nascere deve riuscire ad abbattere i pregiudizi nei confronti degli avversari, facendo prevalere la necessità di lavorare assieme. E’ su questo terreno che Barack Obama tenta di affermare un’idea della leadership americana che si declina nella volontà di «creare alleanze per trovare assieme le soluzioni migliori ai problemi comuni», come disse in aprile a Strasburgo incontrando studenti tedeschi e francesi.

Si tratta di una scommessa che espone il presidente a numerosi rischi perché il tallone d’Achille di questo approccio sta nel fatto che per avere successo deve trovare il consenso delle nazioni a cui si rivolge. A cominciare dalla Cina di Hu Jintao, la potenza che cresce più velocemente. Per questo Obama domani a Shanghai si immergerà in un incontro a tutto campo con gli studenti cinesi per tentare di fargli condividere il mondo che ha in mente.

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Il primo confronto Nord-Sud
Inserito da: Admin - Dicembre 20, 2009, 10:22:24 am
20/12/2009
 
Il primo confronto Nord-Sud
 
MAURIZIO MOLINARI
 
Sebbene prive di riferimenti numerici ai tagli delle emissioni e frutto di negoziati caotici, le cinque pagine dattiloscritte dell’Accordo di Copenhagen costituiscono la prima intesa sulla protezione del clima fra i Paesi più industrializzati e le economie emergenti.

La timida convergenza raggiunta riguarda l’adozione di misure nazionali, verificabili dalla comunità internazionale, al fine di evitare un aumento della temperatura globale di 2 gradi Celsius entro il 2050, rispetto ai livelli pre-industriali. Se è vero che si tratta di un compromesso minimo sul piano scientifico, non deve sfuggire il fatto che consente di superare sul piano politico il vulnus che aveva affossato il Protocollo di Kyoto nel 1997 in quanto impegna anche Cina, India e Brasile che allora non figuravano in alcuna maniera. È per questo che Carl Pope, direttore del Sierra Club, parla di «primo importante passo» di una nuova stagione di accordi ancora tutti da scrivere.
La difficoltà di redigere il testo finale si spiega proprio con il fatto che si è trattato del primo vero negoziato fra i leader delle maggiori economie del Nord e del Sud del Pianeta.

Se il Forum del G20 negli ultimi 12 mesi si è trasformato nel luogo dove i giganti dei due emisferi si incontrano per sanare le ferite della recessione e pianificare assieme la ripresa globale, la conferenza di Copenhagen li ha visti trattare come mai avvenuto in precedenza perché erano in gioco interessi reciproci e molto concreti: dal livello di emissioni dipendono le dimensioni della produzione industriale ovvero delle quote nazionali di ricchezza globale.

Il dialogo fra Paesi industrializzati ed economie emergenti a cui abbiamo assistito nei G20 di Washington, Londra e Pittsburgh si è così trasformato a Copenhagen in battaglia vera, dura, a tratti verbalmente infuocata, con Stati Uniti e Cina nelle vesti dei leader dei rispettivi schieramenti, come evidenziato dai due incontri fra il presidente Barack Obama e il premier Wen Jabao grazie ai quali si è arrivati al compromesso che ha scongiurato il totale fallimento. In questa cornice, è interessante osservare il metodo negoziale scelto da Obama nell’affrontare il braccio di ferro finale con i Bric (Brasile, Russia, India e Cina): la premessa è stata assicurarsi la forte convergenza con Unione Europea, Canada, Giappone e Australia sulle cifre dei tagli alle emissioni, poi ha affidato al Segretario di Stato Hillary Clinton il compito di assicurare ai Paesi poveri 100 miliardi di aiuti per acquistare le tecnologie necessarie a difendere il clima, e infine ha affrontato l’ultimo miglio della trattativa parlando di persona con i leader di Cina, India e Brasile premunendosi di includere anche il Sud Africa e dopo aver disinnescato la mina russa in un bilaterale con Dmitry Medvedev nel quale si è parlato soprattutto di disarmo strategico. È stata una maratona su più fronti che ha dimostrato come solo il presidente degli Stati Uniti può essere l’interlocutore dei Bric sui nuovi equilibri planetari: gli altri leader dell’Occidente riescono ad essere, nel migliore dei casi, dei buoni consiglieri della Casa Bianca sulle mosse da compiere.

La turbolenza con cui a Copenhagen è iniziata la stagione del negoziato diretto Usa-Bric lascia intendere la complessità delle trattative e i rischi strategici che ci attendono nel mondo multilaterale del XXI secolo, dove i partner di Washington non sono più le ex nazioni nemiche divenute alleate ma gli ex Paesi poveri diventati ricchi, e dove l’oggetto del contendere non è anzitutto la condivisione della sicurezza militare bensì la suddivisione del benessere economico.
 
da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Venti di guerra nel Golfo
Inserito da: Admin - Gennaio 04, 2010, 09:57:35 am
4/1/2010

Venti di guerra nel Golfo
   
MAURIZIO MOLINARI


Venti di guerra nel Golfo di Aden: il traballante Stato dello Yemen, appollaiato fra Africa e Asia, è teatro di due conflitti sovrapposti che sommano i principali attori della lunga guerra al terrorismo che ha segnato la prima decade del secolo.

Il primo conflitto è quello che oppone il governo di Sana’a ad «Al Qaeda nella Penisola Arabica», le cellule jihadiste che hanno le roccaforti nelle province di Shabwa, Marif e Jouf da dove hanno pianificato e rivendicato la fallita strage di Natale sui cieli di Detroit con un’aperta dichiarazione di guerra all’America di Barack Obama.

L’evacuazione decisa dai governi di Washington e Londra delle rispettive ambasciate nello Yemen «nel timore di attentati» coincide con una escalation di mosse da parte dei due alleati atlantici: in primis, la scelta di addestrare, armare e finanziare una «forza di controterrorismo» yemenita da schierare in tempi stretti.

Poi l’annuncio di una conferenza internazionale il 28 gennaio a Londra fra tutte le nazioni «preoccupate per l’affermarsi dell’estremismo in Yemen», la tappa a Sana’a del generale David Petraeus comandante delle truppe Usa in Medio Oriente e lo spostamento verso il Golfo di Aden di un numero imprecisato di unità della Quinta Flotta di base nel Bahrein. Obama e il premier britannico Gordon Brown stanno chiedendo al presidente Ali Abdallah Saleh di lanciare un’ampia offensiva, aerea e terrestre, nelle tre province remote e montagnose, garantendogli una forte copertura politica internazionale e anche il massiccio sostegno di intelligence, droni e forze speciali per ripetere su vasta scala quanto avvenuto il 17 e 24 dicembre scorsi, allorché una trentina di militanti jihadisti sono stati eliminati grazie a due blitz yemeniti guidati a distanza dalla «war room» di Petraeus a Tampa. Se Saleh accetterà la richiesta angloamericana porterà alle estreme conseguenze la scelta filo-occidentale compiuta dopo l’11 settembre 2001, se invece ammetterà di non avere la forza necessaria per esercitare la sovranità nelle aree del territorio nazionale infestate da Al Qaeda potrebbero essere le forze speciali alleate a entrare direttamente in azione. Lo schema in questo caso potrebbe essere quello visto all’opera a metà settembre in Somalia, quando sei elicotteri e una trentina di soldati scelti americani piombarono dal nulla e in pieno giorno su un convoglio di jihadisti nel distretto di Barawe, a 250 km da Mogadiscio, eliminando Saleh Ali Saleh Nabhan, il colonnello dei miliziani sunniti shebaab che firmò gli attacchi terroristici agli hotel di Mombasa nel 2002. Petraeus considera Somalia e Yemen un unico teatro tattico perché il nemico è lo stesso: le cellule di Al Qaeda fuggite dall’Afghanistan, insediatesi in aree che sfuggono al controllo dei governi, finanziate con i proventi della pirateria e dei rapimenti, e posizionate in una zona strategica che fa del Golfo di Aden l’anello di congiunzione fra le operazioni dei jihadisti egiziani, sauditi e del Sahel.

Ma non è tutto. A rendere ancor più esplosiva la miscela yemenita - e a complicare tanto i piani militari di Petraeus che la scelta politica di Saleh - c’è il fatto che è simultaneamente in atto un secondo conflitto. Si svolge nelle province settentrionali e ha per protagonisti i ribelli Houti, ovvero le tribù sciite separatiste finanziate da Teheran e addestrate dai pasdaran nell’intento di trasformarle in una ripetizione locale degli Hezbollah libanesi. Lo scorso 20 ottobre Alì Khamenei, Leader Supremo della Repubblica Islamica, lodò in una lettera autografa i comandanti pasdaran per l’operazione «Yemen Khosh Hal» (Gioia dello Yemen) ovvero «l’addestramento degli sciiti, la fornitura delle armi che gli servono, l’impegno diretto in combattimento e il sostegno dell’intelligence». Alcune navi della Quarta Flotta iraniana, fra cui la «Salaban» e la «Khareq», sono entrate nel Golfo di Aden per sostenere i ribelli Houthi e il timore dell’esportazione della rivoluzione iraniana nella Penisola Arabica ha spinto l’aviazione saudita a entrare in azione, bombardando a più riprese le milizie sciite dentro il territorio yemenita con l’avallo di Sana’a. Per Yahya Salih, capo dell’antiterrorismo dello Yemen, Teheran sta conducendo attraverso gli Houthi una «guerra per procura» che punta a indebolire sauditi e yemeniti, due dei più solidi alleati di Washington.

Da qui la realtà di una Repubblica dello Yemen con i propri scarsi e male armati contingenti stretti fra due fuochi, i jihadisti sunniti di Al Qaeda e i fondamentalisti sciiti filo-Teheran, che hanno il comune interesse di rovesciare il presidente Saleh per perseguire gli opposti disegni egemonici regionali. E’ questo scenario che spiega la necessità da parte di Obama e Brown di prendere in esame il possibile ricorso a ogni opzione prevista dall’arsenale dell’antiterrorismo. Incluso l’uso della forza.

da lastampa.it


Titolo: Haiti, le abitazioni si briciolano come fossero di sabbia
Inserito da: Admin - Gennaio 14, 2010, 02:21:15 pm
14/1/2010 (11:25)  - TERREMOTO AD HAITI - LA TESTIMONIANZA DEL NOSTRO INVIATO

"Così sono arrivato a Port-au-Prince"

Haiti, le abitazioni si briciolano come fossero di sabbia


   
MAURIZIO MOLINARI, INVIATO A PORT-AU-PRINCE

PORT-AU-PRINCE
Maurizio Molinari è stato il primo giornalista italiano ad arrivare a Port-au-Prince. Le comunicazioni erano così difficili che il suo pezzo pubblicato oggi sulla Stampa è arrivato tramite messaggini telefonici. Questo il racconto dettagliato di come il nostro inviato ha raggiunto la capitale haitiana.

Un piccolo charter di 21 posti noleggiato a Santo Domingo assieme alla troupe della tv Abc, al "Miami Herald" e ad alcuni giornalisti francesi. Ecco come sono arrivato a Port au Prince dal cielo, visto che il percorso via terra - circa 300 km - dalla Repubblica Domenicana e' ostacolato da strade inagibili sul lato di Haiti e via mare il porto della capitale e' stato seriamente danneggiato dal sisma di martedi'. La trattativa per il noleggio del charter e' stata una sorta di bazar in versione caraibica. Arrivato all'aeroporto internazionale di Santo Domingo con il primo volo partito da New York al mattino di mercoledi' mi sono ritrovato assieme alla troupe della Abc davanti ad una cabina telefonica per parlare con Air Caribe che, dall'altro e piu' piccolo aeroporto di San Domingo, gestisce i charter che volano sull'isola Hispaniola che in genere si occupano di turisti.

Dall'altro capo del filo si sono alternate voci di donna differenti, cambiando nome a piu' riprese, prima negando di poter volare verso Haiti, poi prendendo tempo e infine assicurando di poter trovare un aereo a patto che fosse possibile riempire tutti e 21 i posti, al costo di 10 mila pesos l'uno, ovvero circa 270 dollari. Poiche' i giornalisti dell'Abc erano quattro, in cinque non ci avrebbero mai preso. E' cosi' partita un'affannosa ricerca di altri colleghi appena arrivati dagli Stati Uniti. Prima Jose' Iglesias, dell''Herald Miami", poi un gruppo di francesi e infine due cameramen freelance ci hanno consentito di raggiungere il quorum. "Tomate un taxi, lo mas temprano posible" ci ha detto la signora Diaz di Air Caribe facendoci capire che avrebbe dato via i posti ai primi arrivati. La traversata di Santo Domingo e' avvenuta con un van, ad altissima velocita'.

Tanto noi che l'autista sapevamo che giungendo tardi avremmo rischiato che a salire sul charter avrebbero potuto essere degli altri, magari capitati li' per caso. Una volta al terminal le procedure doganali sono state sbrigate in pochi minuti e siamo stati catapultati dentro il piccolo bimotore "Mas', che e' decollato subito. L'unico imprevisto e' stato che Air Caribe ha chiesto a tutti noi di pagare in contanti e l'unico bancomat del piccolo scalo e' andato in tilt a causa della raffica di richieste di 10000 pesos, che a Santo Domingo e' una cifra considerevole. Ce la siamo cavata cambiando sul posto dollari, per trovare la cifra che manca. Il volo e' durato circa un'ora, sopra il massiccio montagnoso che segna la continuita' geografica fra i due Stati che convivono sulla stessa isola.

L'Abc ha iniziato a riprendere tutto cio' che si vedeva a terra appena il giovane pilota dominicano ci ha detto che eravamo sopra Haiti. Siamo passati prima su alcuni villaggi di montagna, con piccole case isolate a precipizio sui monti, poi sopra le pendici che portano alla grande valle verde che porta alla capitale affacciata sul Mar dei Caraibi. E' stato allora che le devastazioni del terremoto ci sono apparse via via sempre piu' chiare. Il bimotore ha fatto due passaggi a bassa quota sulla citta' prima di atterrare e i quartieri dall'alto mostravano i drammatici segni del sisma magnitudo 7. Case crollate, palazzi sventrati, voragini nelle strade e poche persone in giro, questi tutte a piedi. Non abbiamo visto una macchina, solo qualche motorino.

L'atterraggio e' avvenuto poco prima del tramonto su una pista dove c'erano i primi aerei con gli aiuti umanitari: un boeing islandese, due velivoli da trasporto della Guardia Costiera degli Stati Uniti e due charter di American Eagle e Miami Air. Scesi dalla scaletta del bimotore abbiamo ricevuto le valigie dalle mani dei piloti che ci hanno letteralmente detto "now you are on you own", ora cavatevela da soli. Il percorso sulla pista fino all'entrata del terminal e' avvenuto di fronte agli occhi incuriositi di decine di poliziotti locali, poco piu' avanti c'erano riunite le famiglie dei diplomatici Usa che stavano evacuando e, in un angolo, l'intera squadra della Cnn, guidata da Sanjay Gupta, arrivata un'ora prima con un proprio charter e accampata dentro l'aeroporto "in attesa di cosa fare".

Assieme all'inviato del "Miami Herald" abbiamo tentato di uscire dal terminal ma ci siamo trovati di fronte ad una folla di centinaia, forse migliaia, di haitiani che tentavano di entrare sperando di salire su un qualsiasi volo e fuggire. La tensione fra i pochi militari presenti e la folla ci ha suggerito di rimanere nel terminal per tre ore, passate assieme ai militari americani della Guardia Costiera che ci hanno fatto assistere al loro primo briefing su "cosa portare dove". Nella confusione generale un diplomatico americano mi ha contato fra i connazionali da evacuare, rimproverandomi di non essere in fila come gli altri. Poi accortosi dell'errore si e' limitato a dire che era contento di avere "un posto in piu' del previsto".

Per i colleghi della Abc lo shock e' stato veder Gupta gia' sul posto visto che la loro stella, Dianne Sawyer, e' ancora a Santo Domingo e tentera' di arrivare questa mattina. Solo a notte inoltrata ci siamo potuti muovere dall'aeroporto a bordo di jeep blindate affittate dalla Abc che ci hanno portato nella base dei caschi blu, dove il personale dell'Onu ci ha fatto cenare con biscotti provenienti dalle razioni militari "Halal" del contingente dello Sri Lanka e acqua minerale purificata. "Sei il primo giornalista italiano che arriva qui" mi ha detto Matteo Manin, giovane volontario di Padova che e' qui da due anni. Al momento di andare a dormire su giacigli improvvisati i giovani funzionari dell'Onu ci hanno consigliato di "dormire dentro edifici prefabbricati e non in mattoni" nel timore di nuove scosse. Che sono arrivate, forti e puntuali, quando erano le 3.10 del mattino.

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Obama il cambiamento è una fede
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2010, 08:35:18 pm
19/1/2010

Obama il cambiamento è una fede
   
MAURIZIO MOLINARI


Barack Obama inizia il secondo anno di presidenza dal pulpito della chiesa battista di Vermont Avenue, a Washington, con un discorso in cui quasi si scusa con la nazione: «Non tutte le promesse di cambiamento fatte lo scorso anno sono state mantenute». A spingere l’ex candidato idealista fautore del «Change» a questa ammissione assai pragmatica è quanto sta avvenendo attorno a lui: la disoccupazione è cresciuta fino al 10 per cento, i soldati che combattono in Afghanistan sono saliti a 100 mila e la battaglia per le grandi riforme al Congresso si è arenata di fronte ad uno scontro duro fra democratici e repubblicani che ha azzerato i progetti di legislazione bipartisan. Senza contare che la riforma della Sanità destinata a curare 31 milioni di poveri, cavallo di battaglia del presidente, aspetta oggi con il fiato in gola l’esito del voto nello Stato del Massachusetts dove i repubblicani possono strappare ai democratici un seggio decisivo del Senato.

Per i conservatori, come scrive James Ceaser sul magazine «Weekly Standard», questa è la fotografia di un Paese dove Obama «registra la più sensibile caduta nei sondaggi nella storia recente» a causa dei numerosi e vistosi errori compiuti, ma ciò che più preoccupa la Casa Bianca è quanto sta avvenendo nelle roccaforti del pensiero democratico, da dove arrivano siluri ancor più insidiosi.

Prima fra tutte la «Brookings Institution» di Strobe Talbott che pubblica un saggio di Simon Serfaty intitolato «I limiti dell’audacia» nel quale si rimprovera a Obama di aver «dimostrato inconsistenza strategica fino al punto dell’avventatezza tattica».

Obama ha preferito il desiderabile al fattibile e il giocoliere all’architetto, si legge nell’atto d’accusa verso un’agenda globale di politica estera e di sicurezza ispirata a concetti vaghi come gli «interessi comuni» e «l’impegno per la pace» che garantiscono al presidente record di apprezzamento positivo all’estero e negativo in patria. Sul fronte economico l’affondo più aspro arriva dalla corazzata liberal del «New York Times» di Bill Keller, il cui economista e premio Nobel Paul Krugman chiama in causa l’«eccesso di timidezza» di misure fiscali «non abbastanza grandi» per consentire la ripresa dell’occupazione. Come dire: Obama non ha il coraggio di essere keynesiano fino in fondo. A leggere assieme i rimproveri della Brookings e di Krugman è E. J. Dionne, editorialista del «Washington Post» e fra i sostenitori più decisi di Obama, secondo il quale se è in difficoltà è perché «non sta seguendo l’esempio di Ronald Reagan», il presidente-simbolo dei conservatori che, quando al termine del primo anno alla Casa Bianca registrò un analogo brusco calo nei sondaggi, reagì lanciando un’offensiva ideologica a tutto campo contro gli avversari liberal. Assediato dai repubblicani che lo accusano di «uno statalismo destinato ad affondare il bilancio e indebitare le future generazioni» e rimproverato dai democratici di non essere stato abbastanza liberal nelle scelte compiute su economia, sicurezza, aborto e sorte di Guantanamo, Obama sta saggiando quelli che Dan Balz sul «Washington Post» definisce «i limiti del pragmatismo» in America, ovvero la difficoltà di tentare di governare dallo Studio Ovale uscendo dalla contrapposizione ideologica originata dai disaccordi sul 1968. All’idealismo del candidato eletto con una valanga di voti perché fautore del «cambiamento» sono infatti seguiti 12 mesi di amministrazione durante i quali Obama ha provato a governare in maniera pragmatica: offrendo il dialogo agli avversari e cercando soluzioni condivise ai problemi comuni. Ma il tallone d’Achille di questo approccio sta, come osserva Margaret Warner della tv Pbs, nell’«assenza di risultati». Se nel primo anno di presidenza l’America dà fiducia a chi ha eletto, subito dopo non ha più pazienza, chiede risultati visibili che Obama in questo momento non è in grado di consegnare. A cominciare da quello più importante: la ripresa dell’occupazione. Essendo stato eletto sull’onda della crisi finanziaria del settembre 2008 che spinse il ceto medio bianco impoverito lontano dai repubblicani, Obama vede il suo destino politico legato alla capacità di risollevare le entrate e i consumi di questo cruciale segmento dell’elettorato. Nel discorso di Vermont Avenue è stato lo stesso Obama ad ammetterlo, tradendo tensione emotiva: «La disoccupazione è ancora troppo alta». Ma subito dopo ha difeso il suo approccio: «Se resto calmo di fronte a tali difficoltà senza precedenti è perché ho fede nel cambiamento come l’aveva Martin Luther King». Obama dunque non cambia strada né ricetta, resta convinto di poter riuscire a «unire l’America divisa» proponendo non soluzioni politiche di parte ma quelle da lui ritenute le migliori a disposizione. E’ una scommessa in contraddizione con la recente storia politica americana e, osserva lo storico Michael Barone, che conferma l’anomalia del personaggio-Obama. Che può spingersi a rischiare tanto perché sul fronte opposto ancora non si intravede un leader conservatore in grado di insidiare il suo - seppur indebolito - primato di popolarità.

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI In trincea da solo contro tutti
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2010, 03:44:58 pm
29/1/2010

In trincea da solo contro tutti
   
MAURIZIO MOLINARI

Incalzato dalla disoccupazione che cresce e dall’economia che arranca, contestato dai leader del suo partito e irriso da quelli repubblicani, con la riforma della Sanità impantanata, i sondaggi in costante calo e tradito dalle roccaforti liberal come il New Jersey e il Massachusetts, Barack H. Obama sfrutta i 71 minuti dello Stato dell’Unione per sfidare a viso aperto tutti gli avversari. Con toni e termini che evocano la campagna vinta nel 2008 e aprono quella che si concluderà il 3 novembre con il voto per il rinnovo del Congresso.

Lasciandosi alle spalle un 2009 nel quale ha invano tentato di governare Washington ricorrendo al pragmatismo, Obama affronta il 2010 rispolverando l’approccio lincolniano che lo aveva fatto vincere.

Portiamo avanti il sogno americano e rafforziamo una volta ancora la nostra Unione». La svolta è fotografata dal cambio di equilibrio nella West Wing, dove è in calo il finora onnipotente capo di gabinetto ex clintoniano Rahm Emanuel mentre torna in auge David Plouffe, l’architetto del «The Change We Can Belive In» (Il cambiamento in cui possiamo credere), la formula che portò alle urne milioni di giovani e che Obama ha ripetuto alla fine del discorso sullo Stato dell’Unione, dopo averla tenuta in soffitta per dodici lunghi mesi.

L’impronta di Plouffe sul discorso scritto dallo «speechwriter» Jon Favreu e ritoccato più volte da Obama la si è vista nell’impostazione come nei contenuti. L’impostazione è quella di un leader che va incontro, da solo, a tutti gli ostacoli che l’America ha di fronte. Obama incalza entrambi i partiti. Ai democratici dice: «Vi ricordo che abbiamo ancora la più ampia maggioranza delle ultime decadi e la gente si aspetta che governiamo, non che ci diamo alla fuga». Come dire, niente scuse. E ai repubblicani aggiunge: «Dire di no a tutto può essere utile nei giochi politici di corto termine ma non significa possedere qualità di leadership». Ovvero, non basta stare alla finestra. Sul piano dei contenuti, l’avversario che Obama indica alla nazione in diretta tv è il Senato di Washington ovvero l’aula dove i repubblicani grazie alla vittoria di Scott Brown in Massachusetts hanno tolto ai democratici la supermaggioranza di 60 seggi - su 100 - potendo contare oggi su 41 voti che gli consentono di bloccare leggi e nomine.

La sfida al Senato è l’ossatura del discorso in un alternarsi di affondi politici, ironie feroci e battute in slang popolare. Obama rimprovera al Senato di fare resistenza sulla nuova legge sull’occupazione, sulla riforma finanziaria per porre limiti alle grandi banche, sulla task force anti-debito, sul taglio delle emissioni nocive, sugli sgravi fiscali agli studenti. E in ogni occasione mette in rilievo come invece «la Camera ha già votato» o «ha già deciso». Sono le premesse per una campagna elettorale nella quale Obama si prepara a additare la minoranza repubblicana al Senato, e forse anche la debolezza dei democratici, come responsabili del ritardo delle riforme. E’ una strategia di pressing sugli avversari, esterni e interni, sulla quale la Casa Bianca punta per riuscire a centrare l’obiettivo che più ha a cuore: la nuova Sanità pubblica. Non a caso è per discutere di questo che Obama tende la mano ai leader del Congresso: «Vorrei avere ogni mese incontri con democratici e repubblicani». L’intento del presidente è di passare i prossimi 11 mesi in trincea a Capitol Hill dando vita ad un confronto a tutto campo con il Congresso destinato a trasformare il voto di novembre in un referendum sul suo operato. Forse non è un caso che Plouffe, secondo il tam tam di Pennsylvania Avenue, sta già rimettendo mano ai nomi dei candidati per scegliere volti più nuovi, obamiani, anziché democratici vecchia maniera.

In tale cornice gli attacchi frontali, e con accenti populisti, alle grandi banche «che devono pagare una tassa », alle lobbies degli «interessi particolari » e alla Corte Suprema colpevole di «rovesciare un secolo di finanziamento alla politica» sono le avvisaglie di una campagna lunga e dura, dalla quale il presidente punta a uscire con un Congresso a lui assai più affine.

La scelta di andare all’attacco contro tutti ricorda, secondo il politologo E. J. Dionne, quanto fece il repubblicano Ronald Reagan nel 1982 riuscendo a risollevarsi con successo da un primo anno di brutte sorprese e sondaggio in calo. Resta da vedere se Obama riuscirà a centrare lo stesso risultato: sulla carta è una scommessa tutta in salita, complicata dalle due guerre in corso e dalle minacce di Al Qaeda, mentre lo scontento della classe media per la disoccupazione resta la mina più difficile da disinnescare.

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Un sogno infranto sulla Luna
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2010, 10:35:33 am
1/2/2010

Un sogno infranto sulla Luna
   
MAURIZIO MOLINARI


Eletto con il mandato di trovare nuovi orizzonti per il sogno americano, Barack Obama rinuncia al progetto di tornare sulla Luna ovvero a creare basi permanenti da dove lanciare l’esplorazione umana fino agli estremi limiti del Sistema Solare. Con un bilancio oberato da 1,35 trilioni di dollari di debiti, un disavanzo pubblico pari al 9,2 del pil e la prospettiva di nuove voragini nelle casse federali destinate ad aprirsi nei prossimi mesi, il presidente americano è costretto a sacrificare il programma «Constellation» immaginato dal predecessore George W. Bush rinunciando a seguire le orme di John F. Kennedy nel sospingere l’America verso la frontiera più avvincente. E questo significa che il prossimo essere umano a camminare sulla Luna sarà probabilmente un cinese, in considerazione degli ingenti investimenti che sta facendo Pechino per centrare questo traguardo.

Il passo indietro è una decisione amara per Obama, che in campagna elettorale aveva detto di voler consentire alle nuove generazioni di americani di «perseguire liberamente i propri sogni», che era stato paragonato da Ted Kennedy al fratello John proprio per «l’audacia» dei suoi sogni.

Aveva assicurato a più riprese di credere nell’utilità dell’esplorazione umana del Sistema Solare per promuovere la ricerca scientifica e in maggio aveva tradito la passione personale per lo spazio chiamando dallo Studio Ovale gli astronauti a bordo dello shuttle Atlantis, parlando con loro come si fa fra vecchi amici.

Ma ancora più difficile deve essere stato per Obama avallare un’idea di programma spaziale che per la prima volta rovescia il rapporto fra la Nasa e le imprese private. Se finora l’Agenzia spaziale degli Stati Uniti era leader assoluta nei progetti su vettori, ricerca e astronauti, ora invece il timone appare destinato a passare nelle mani di una dozzina di gruppi come SpaceX, fondata dal creatore di PayPal Elon Musk, Orbital Sciences, inaugurata nel 1982, e Virgin Galactic di Richard Branson, pioniere spericolato del turismo nel cosmo dalla sua pista nel deserto del Mojave. Saranno infatti le aziende private a realizzare in «outsourcing» missili, navette e altri programmi spaziali che poi la Nasa farà propri, sperando così di far risparmiare quanto possibile ai contribuenti. L’immagine di un presidente democratico, tenace sostenitore del pensiero neokeynesiano sul ruolo dello Stato nell’economia, che decide di ridimensionare il ruolo dello Stato nella ricerca spaziale a vantaggio dei privati - come avrebbe potuto fare un leader repubblicano seguace di Milton Friedman - è destinata a segnare Obama come la fotografia delle difficoltà in cui versa l’amministrazione dopo neanche 13 mesi di lavoro. Tanto più che a pagare il prezzo della scelta saranno le migliaia di dipendenti della Nasa - tradizionale serbatoio di voti democratici - a cominciare dalla base di Cape Canaveral in Florida, uno Stato strappato con molta fatica ai repubblicani nella campagna presidenziale del 2008.

Sacrificando interessi politici e slancio kennedyano, Obama ammette i limiti che costringono l’America nell’anno 2010: la superpotenza per reggere la sfida delle aggressive economie emergenti ha anzitutto bisogno di rimettere in ordine le proprie finanze e fino a quando ciò non avverrà dovrà mettere nel cassetto molti dei sogni che era abituata a inseguire. Per chi nel mondo scientifico immaginava di vedere presto un astronauta della Nasa in viaggio verso Marte o prevedeva lo sfruttamento del sottosuolo della Luna alla ricerca di nuovi carburanti si tratta di una doccia fredda. Resta da vedere quali saranno le conseguenze dell’abbandono della nuova missione-Luna. In una nazione dove ogni politico e imprenditore non deve risparmiare risorse se vuole affermarsi ed avere successo, sforzando di trasformare ogni difficoltà in opportunità, è prevedibile che saranno altri attori a fare proprio l’ambizioso obiettivo di «Constellation». Puntando magari a dimostrare allo Stato federale che non c’è bisogno di ricorrere ai soldi dei contribuenti per riuscire a navigare verso Saturno.

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Shenker: "Pace con Damasco per poi colpire l'Iran"
Inserito da: Admin - Febbraio 06, 2010, 11:46:43 am
6/2/2010 - INTERVISTA

Shenker: "Pace con Damasco per poi colpire l'Iran"
   
Colloquio con l'esperto americano, Direttore del «Program on Arab Politics» al Washington Institute

MAURIZIO MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Israele persegue un solido negoziato con la Siria e Berlusconi è il leader europeo di cui si fida di più». Parola di David Schenker, fino al 2006 titolare del dossier siriano al Pentagono e analista al centro studi Washington Institute.

Cosa pensa delle indiscrezioni sulla volontà di Netanyahu di affidare a Berlusconi o allo spagnolo Miguel Moratinos il ruolo di mediatore con Damasco?
«Dimostrano che Netanyahu è intenzionato ad accelerare i tempi del negoziato con Damasco e che si fida molto di Berlusconi. Moratinos lo ha aggiunto perché è gradito a Bashar Assad».

Incominciamo dal negoziato. Perché Netanyahu accelera?
«Per il motivo che sta diventando verosimile un attacco militare contro l’Iran. Che sia Israele o l’America a lanciarlo poco importa. Potrebbe avvenire e il rischio maggiore è che inneschi una guerra regionale, con gli Hezbollah che attaccano Israele dal Libano e la Siria che entra in guerra con loro. Per scongiurarlo Netanyahu vuole accelerare l’accordo con la Siria».

Washington che posizione ha?
«L’amministrazione Obama sta tentando di staccare Damasco da Teheran. Ha profuso molti sforzi ma non è un’opera facile perché i due Paesi hanno un’alleanza trentennale assai solida, basti pensare che nel 2007-2008 la Siria ha acquistato un avanzato sistema antimissile russo grazie al fatto che è stata Teheran a pagare il conto: 750 milioni di dollari. Ci sono due modi per allontanare Damasco da Teheran: spingerla a rompere i legami con gli Hezbollah, Hamas e i pasdaran oppure un accordo di pace con Israele. Obama prova la prima carta, Netanyahu la seconda».

Perché Netanyahu punta sul premier italiano?
«È il leader europeo che più condivide la visione strategica di Israele. La sua recente visita a Gerusalemme lo ha confermato».

Quali i punti di forza o debolezza di una mediazione italiana?
«Berlusconi è credibile per Netanyahu ed è al tempo stesso un importante partner commerciale di Assad. La Siria da tre anni è afflitta dalla siccità e soffre per una crisi economica pesante. Berlusconi è nella posizione migliore per aiutare Damasco a risollevarsi».

Lei è un veterano del negoziato israelo-siriano. Può ripartire?
«Bashar Assad ha negoziato con Ehud Olmert, quando era premier d’Israele, sulla base della bozza d’accordo discussa da Netanyahu col padre Hafez Assad nel 1998-1999. Ma la situazione è molto diversa dal 1998».

Quali le differenze?
«Israele non si accontenta più di uno scambio sul Golan basato sul principio della pace in cambio di territori. Netanyahu vuole che Assad cambi strategia, cessi di aiutare i terroristi, abbandoni Teheran e diventi un partner a tutto campo. Per ottenere questo risultato non serve la mediazione di una nazione come la Turchia, che guarda all’Iran. Molto meglio l’Italia».

Quali potrebbero essere le mosse di Bashar Assad?
«Assad ci ha dimostrato in passato che negozia con Israele solo quando gli serve per ottenere dell’altro. E al momento ha tre problemi che gli causano seri grattacapi: la crisi economica, il tribunale internazionale sull’omicidio a Beirut dell’ex premier libanese Hariri e l’indagine dell’Agenzia atomica dell’Onu sul reattore nucleare distrutto dagli israeliani nel settembre 2007».

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Barack Obama ai giornalisti: niente domande
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2010, 09:30:55 am
17/2/2010

Barack Obama ai giornalisti: niente domande
   
MAURIZIO MOLINARI


Risposte immediate ad ogni attacco ricevuto, giornalisti tenuti a debita distanza, meno conferenze stampa e più dialogo diretto con gli americani ricorrendo al web come agli eventi pubblici: è il nuovo vademecum di Barack Obama per i rapporti con i media, redatto nell’intento di proteggere il Presidente da una stampa percepita come aggressiva.

Il memo scritto da Dan Pfeiffer, direttore delle comunicazioni della Casa Bianca, riporta le relazioni fra Obama e i media al punto di partenza, ovvero all’inizio del febbraio 2007 quando lanciò da Springfield, in Illinois, la campagna che lo avrebbe portato alla Casa Bianca. Obama allora temeva il peggio e blindò i messaggi esterni della campagna affidandone fattura e diffusione al rigido controllo di tre stretti collaboratori - il guru politico David Axelrod, l’architetto elettorale David Plouffe e il portavoce Robert Gibbs -, la disciplina imposta fu ferrea, venne rispettata da ogni militante della campagna, e contribuì alla vittoria finale grazie al fatto che la maggioranza dei media fece propri i messaggi-chiave su speranza e cambiamento. Ad elezione ottenuta, circondato dal favore di gran parte di giornali, siti web e tv, Obama decise di rinunciare a quella rigida impostazione e nel 2009 è stato protagonista di un’esposizione pubblica senza precedenti per un Presidente degli Stati Uniti, evidenziata da una raffica di conferenze stampa alla Casa Bianca, 161 interviste in 12 mesi - oltre il triplo del predecessore George W. Bush - e una miriade di dichiarazioni, battute, apparizioni tv e copertine di magazine, dallo sport alla musica. L’assenza di altri volti dell’amministrazione in grado di attirare l’attenzione del grande pubblico - anche per la scelta di Hillary Clinton di avere un basso profilo - ha ulteriormente aumentato la visibilità del Presidente.

Ma i risultati non sono stati quelli sperati perché gli americani hanno finito per individuare in lui il maggior responsabile della perdurante crisi economica evidenziata da una disoccupazione arrivata alla soglia del 10 per cento. E di conseguenza i media sono diventati più aggressivi, con i giornalisti accreditati alla Casa Bianca impegnati a bersagliare il Presidente e i suoi collaboratori su deficit record e riforma della sanità impantanata proprio come facevano con Bush sulla guerra in Iraq. «Nelle conferenze stampa puntano a mettersi in vista facendo concorrenza al Presidente» ha commentato un collaboratore del Presidente. E’ in questa cornice che si è consumato il calo nei sondaggi di Obama - per la Cnn è al 49 per cento di popolarità - e il conseguente timore dei democratici di andare incontro ad una cocente sconfitta nelle elezioni di novembre per il rinnovo del Congresso, come dimostra anche la defezione del senatore dell’Indiana Evan Bayh che ha deciso di non ricandidarsi facendo capire che il vento soffia a favore dei repubblicani.

Per rovesciare la situazione i tre fedelissimi Axelrod, Plouffe e Gibbs si sono riuniti a più riprese durante la settimana che ha visto Washington paralizzata dalla tempesta di neve, affidando a Pfeiffer il compito di ridisegnare l’immagine del Presidente e quindi di allontanarlo quanto più dai media. Per riassumere la svolta Pfeiffer dice: «Faremo solo ciò che ci servirà, nulla di più». Da qui l’inversione di tendenza: meno conferenze stampa e più comizi, interviste solo con i maggiori conduttori in orari di grande ascolto - come avvenuto sulla Cbs prima del Super Bowl - e disposizione al portavoce Gibbs di «ribattere colpo su colpo ad ogni attacco repubblicano» come avveniva in campagna elettorale.

Gibbs si è adattato in fretta: prima è sbarcato su «Twitter» con la sigla «PressSec» per poter comunicare in tempo reale messaggi brevi a migliaia di giornalisti e poi ha replicato a tinte forti agli attacchi ricevuti da John Brennan, consulente anti-terrorismo del Presidente, per i presunti errori compiuti nell’interrogatorio del kamikaze nigeriano arrestato a Detroit a Natale. Sempre a questa strategia «aggressiva e mirata», come spiega Pfeiffer, è da ricondurre quanto avvenuto domenica allorché la Casa Bianca ha chiesto e ottenuto dalla Cbs un’intervista al vicepresidente Joe Biden per ribattere agli attacchi giunti da Dick Cheney poco prima dagli schermi della Abc. Solo pochi mesi fa Gibbs irrideva gli affondi di Cheney sulla «scarsa competenza di Obama sulla sicurezza nazionale» ritenendo che «i dibattiti con lui sono finiti nel 2008» ma adesso il nuovo vademecum impedisce di «sottovalutare ogni avversario».

Resta da vedere se il metodo di comunicazione che nel 2008 portò Obama alla Casa Bianca gli consentirà nel 2010 di governare in maniera da conservare la maggioranza democratica in entrambi i rami del Congresso. A credere che possa funzionare è Plouffe, convinto che «ogni elezione in fin dei conti è una scelta» e dunque concentrare ogni messaggio contro i repubblicani «servirà a far capire che non c’è un’alternativa ai democratici» mentre ad avere qualche dubbio è proprio Pfeiffer che ammette: «Non c’è alcuna strategia di comunicazione in grado di far apparire il 10 per cento di disoccupati come qualcosa di positivo per l’America».

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI "E' soltanto business: c'è chi chiede fino a 150mila dollari"
Inserito da: Admin - Febbraio 22, 2010, 09:29:34 am
22/2/2010 - MEDICI SOTT'ACCUSA. RICERCA E MANIPOLAZIONE

"Una grande truffa dietro le staminali"
   
Denuncia americana: inutili le banche del cordone ombelicale

"E' soltanto business: c'è chi chiede fino a 150mila dollari"

Maurizio Molinari
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Cellule staminali
Le banche che conservano le cellule staminali dei cordoni ombelicali celano spesso un’autentica frode e i dottori che girano il mondo offrendo miracolose terapie a peso d’oro, in realtà, ingannano i genitori che si trovano in situazione disperate: la dura denuncia viene da Irving Weissman, un’autorità nella medicina rigenerativa in America, ed appare destinata a innescare un terremoto nella comunità scientifica. Weissman ricopre l’incarico di direttore dell’Istituto di biologia delle cellule staminali e di medicina rigenerativa all’Università di Stanford, California, ed ha scelto di pronunciare il proprio atto d’accusa in occasione dello svolgimento dell’incontro annuale dell’Associazione americana per l’avanzamento della scienza (Aaas) in corso a San Diego. La scelta di tempo non appare casuale, in quanto in aprile la Società internazionale per lo studio delle cellule staminali pubblicherà un rapporto sulle «terapie non dimostrate», chiamando in causa - secondo alcune anticipazioni - proprio le modalità con cui operano spesso le banche del cordone ombelicale. Weissman ha scelto dunque di alzare il velo sulle motivazioni di un giudizio che si annuncia molto negativo, lasciando intendere che un’aspra battaglia scientifica e legale si profila all’orizzonte.

Capacità limitata
La tesi è la seguente: «I cordoni ombelicali contengono cellule staminali in grado di formare il sangue come avviene in un bambino molto piccolo» e dunque hanno solo «una limitata capacità di creare ossa e grasso», che non include la possibilità di creare «cervello, sangue, cuore e muscoli dello scheletro». «C’è chi afferma che le cellule staminali contenute nei cordoni abbiano anche tali capacità, ma ciò non corrisponde al vero», aggiunge Weissman, riferendosi a costoro come a «terapisti clinici privi di basi» che «si installano in nazioni con regolamenti medici assai deboli» al fine di promuovere «terapie che non hanno alcuna possibilità di successo», presentandole invece come efficaci e risolutorie a «famiglie bisognose alle prese con malattie incurabili». L’efficacia delle «banche dei cordini ombelicali» sarebbe dunque assai minore rispetto a quanto viene in genere affermato, garantendo la possibilità di cure future solo nei confronti di un ristretto gruppo di malattie.

A caccia di soldi
A innescare la decisione del docente di Stanford, che nel 2002 ha ottenuto il titolo di scienziato dell’anno in California, di uscire allo scoperto è stato il fatto di aver appurato l’esistenza di un malcostume dilagante: «In alcune occasioni questi terapisti arrivano a chiedere cifre fra 50 mila e 150 mila dollari», promettendo soluzioni tanto miracolose quanto impossibili sulla base dello sfruttamento delle staminali contenute nei cordoni ombelicali. Il danno è duplice, perché, se da un lato creano illusioni infondate in chi si trova in situazioni disperate, dall’altro privano le famiglie bisognose di fondi necessari per continuare altre cure. Un altro filone di questi «inganni clinici» ha a che vedere con la constatazione che «in nazioni con leggi carenti», come il caso della Thailandia, queste «banche delle staminali» chiedono ai genitori di fare depositi di circa 3600 dollari «come se fosse una sorta di assicurazione sanitaria sulla salute dei figli negli anni a venire», mentre in realtà la scienza al momento non garantisce nulla di tutto ciò. L’idea di poter disporre di una sorte di bacchetta magica nel futuro è infondata.
«Questo tipo di promesse e comportamenti sono errati», ha sottolineato Weissman, chiamando in causa il proliferare delle «banche delle staminali», che in realtà si registra anche negli Usa ed in alcune nazioni dell’Ue. Non è infatti un segreto che numerosi ospedali delle maggiori città Usa offrono ai genitori di neonati la possibilità di conservare una parte del cordone ombelicale dei figli in «banche» esterne, gestite da cliniche private, al fine di garantire future possibilità di cure di qualsiasi tipo di malattie. L’intento di Weissman sembra essere quello di porre un freno al proliferare delle «banche» ed anche di lanciare un monito a quei medici che, in patria o all’estero, se ne fanno promotori, sollecitando speranze destinate in molti casi a restare inappagate.
Il passo compiuto da Weissman coincide anche con la riflessione in corso nel «National Institutes of Health» (l’Istituto nazionale della sanità) sulla possibilità di modificare la definizione di «cellule staminali embrionali umane» a seguito della richiesta avanzata dal presidente Barack Obama di aggiornare le linee guida per assegnare fondi alla ricerca.

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Il mondo senza steccati
Inserito da: Admin - Aprile 14, 2010, 02:35:03 pm
14/4/2010

Il mondo senza steccati
   
MAURIZIO MOLINARI

La firma dei 47 leader sull’accordo di Washington contro il terrorismo nucleare sancisce la nascita della nuova architettura internazionale promossa da Barack Obama che già aveva iniziato a prendere forma nel settembre scorso in occasione del G20 di Pittsburgh contro la minaccia della recessione globale. I due summit internazionali che Obama ha presieduto hanno in comune un format.

Questo tipo di format archivia i dogmi dell’architettura della comunità internazionale ereditata dal Novecento: non ci sono più i blocchi geopolitici di Est e Ovest o quelli economici di Nord e Sud, scompaiono gli steccati fra Paesi ricchi e poveri come fra quelli che possiedono armi nucleari o ne sono privi. A sostituire l’equilibrio fra i blocchi ci sono tavoli multilaterali dove il numero dei presenti cambia in forza dell’agenda discussa e gli invitati dicono la propria, assumendosi precise responsabilità, in una cornice di pari rispetto e dignità. Tanto il G20 che il summit sulla Sicurezza Nucleare si rifanno al modello delle Nazioni Unite che si originò dal summit di San Francisco del 1945 ma con qualche correzione, perché se da un lato si tratta di forum globali dall’altro non vi si è ammessi per diritto ma in quanto si è pronti ad assumere specifici compiti, con tanto di cifre e scadenze da rispettare. Di conseguenza l’America esercita il proprio ruolo di leadership non per i diritti acquisiti vincendo le guerre del secolo passato contro militarismo, nazifascismo e comunismo ma in forza delle maggiori responsabilità che è disposta ad assumersi. Sono infatti gli Stati Uniti a spendere di più sia per mettere al sicuro le scorte nucleari disseminate dall’ex Urss all’America Latina sia per varare stimoli fiscali che sostengano una debole crescita economica globale.

Ciò significa che anche le altri potenze, più o meno grandi e ricche, possono auspicare a ritagliarsi ruoli di primo piano nell’affrontare le emergenti sfide globali. Ma a patto che accettino di sostenere i costi, economici e politici, che ciò comporta. Nella nuova architettura che Obama sta iniziando a realizzare l’America resta la «nazione indispensabile», come dice l’ex segretario di Stato Madeleine Albright, ma lascia agli altri tutto lo spazio che vogliono occupare.

da lastampa.it


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Un attacco contro la trattativa
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2010, 10:39:24 pm
18/5/2010

Un attacco contro la trattativa

MAURIZIO MOLINARI

L’attentato nel quale sono morti due militari italiani dimostra la volontà dei taleban di tenere sotto pressione la Nato nell’incombere dei due eventi che possono decidere le sorti dell’Afghanistan: l’assemblea dei capi tribali e l’offensiva di Kandahar in estate.

Per il 29 maggio il presidente Karzai ha convocato la tradizionale Loya Jirga sulla quale conta per coinvolgere nell’apparato di governo i taleban pronti a voltare le spalle al Mullah Omar, a Osama bin Laden e alla lotta armata. La scelta è di Karzai,maWashington la sostiene come è emerso dal summit della scorsa settimana nello Studio Ovale e come confermano episodi come quello che ha visto il colonnello dell’Us Army Robert Brown scrivere di proprio pugno una lettera al capo guerrigliero Mullah Sadiq - ricercato dalla Cia dal 2005 e nascosto ai confini con il Pakistan - per invitarlo a partecipare alla ricostruzione dell’Afghanistan. La mano tesa ai taleban punta a ridurne la resistenza quando McChrystal darà il via libera all’offensiva di Kandahar - in una finestra di tempo che si apre a giugno - puntando a eliminare le roccaforti dei guerriglieri irriducibili, alimentate da armi, volontari e rifornimenti che arrivano dalle aree tribali del Pakistan.

Questa strategia fatta di offerte di pace e preparativi di guerra punta a «modificare la situazione sul terreno», come dice il presidente americano Barack Obama, per arrivare al luglio 2011 in una condizione di sicurezza tale da consentire l’inizio del passaggio delle consegne di singoli distretti territoriali fra militari Nato e truppe regolari afghane.

Ma a questa direzione di marcia, che Obama condivide con Karzai e la Nato, i taleban oppongono la loro. Tornano a piccoli gruppi a Marjah, la città riconquistata dai marines a febbraio, per terrorizzare di notte gli agricoltori che al mattino salutano i soldati americani.

Bersagliano Kabul di attentati preferendo gli obiettivi governativi per palesare la debolezza di Karzai, obbligato a muoversi protetto da nugoli di guardie del corpo. Effettuano incursioni nei distretti a ridosso della capitale ripetendo la strategia con cui i mujaheddin islamici sconfissero l’Armata Rossa. Consolidano le basi nel Waziristan pakistano evadendo la caccia dei droni della Cia e beffandosi dei militari di Islamabad. E adoperano i potenti ordigni «Ied» lasciati lungo il ciglio delle strade contando di uccidere più soldati Nato possibile, ostacolando i movimenti di mezzi fra le diverse basi per paralizzare le operazioni.

Se l’Alleanza Atlantica ha una strategia che punta ad accelerare i tempi della ricostruzione civile, i taleban puntano invece alla guerra infinita consapevoli che le opinioni pubbliche dei Paesi occidentali non riescono neanche a immaginare un simile scenario. Il paradosso è che a decidere chi prevarrà potrebbero essere un pugno di comandanti taleban. «Ci troviamo in un momento di passaggio - riassume Stephen Biddle, veterano della guerra al terrorismo che adesso indossa giacca e cravatta dietro una scrivania del Council on Foreign Relations di Washington - nel quale quanto avverrà dipende dalle decisioni che saranno prese da un ristretto numero di capi taleban». Si tratta di guerrieri delle montagne che vivono isolati con i propri uomini, dei quali in Occidente si ignorano anche i nomi, fedeli a nessuno, sempre pronti a cambiare alleato per sfruttare l’opzione migliore ma molto legati al territorio e capaci di sfuggire ai droni passando giorni interi senza muoversi, parlando a monosillabi per non farsi identificare dai sensori più sofisticati. Karzai è convinto di riuscire a convincerne una buona parte a venire alla Loya Jirga in cambio della promessa di condividere il potere e l’intelligence britannica crede che abbia qualche possibilità di riuscirci davvero, ma a Washington c’è più cautela e, comunque andrà l’assemblea tribale, McChrystal si prepara a dar luce verde all’assalto a Kandahar. Nella convinzione che la fine del conflitto non è ancora vicina.

E’ un’orizzonte di guerra che preannuncia per la Nato un delicato summit a Lisbona: la riunione autunnale immaginata per concordare il nuovo concetto strategico, imperniato sulla necessità di affrontare le nuove minacce del XXI secolo, potrebbe doversi confrontare con la perdurante sfida di una guerriglia medioevale capace di resistere per quasi dieci anni all’armata più potente del Pianeta. Forse non è un caso che in queste settimane i diplomatici al lavoro sull’agenda del vertice sono tornati a discutere di Afghanistan, dopo aver tanto trattato di lotta alla proliferazione.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7364&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MAURIZIO MOLINARI L'agenda di Obama ha gli occhi a mandorla
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 10:30:44 pm
26/6/2010 - Ai summit di Toronto

L'agenda di Obama ha gli occhi a mandorla
   
Sei incontri per il presidente Usa: cinque con l'Asia, l'Europa è ignorata

MAURIZIO MOLINARI

Asia-Europa 5 a 1. È l’agenda del presidente Barack Obama ai summit canadesi e descrive una politica americana che guarda al Pacifico a scapito del Vecchio Continente. Il pesante punteggio concerne gli incontri bilaterali che il team della Casa Bianca ha preparato per affiancare a G8 e G20 un’agenda parallela tesa a promuovere gli interessi degli Stati Uniti. Ben Rhodes, consigliere per gli Affari Strategici, e Jeffrey Bader, direttore per gli Affari Asiatici nel consiglio di sicurezza nazionale, sono i registi di una 48 ore di faccia a faccia con tutti i maggiori leader dell’Asia. Si inizia alle 15.15 di oggi con il sudcoreano Lee Myung-Bak per discutere della grave crisi militare in atto con la Nordcoreana, proseguendo un’ora dopo con il cinese Hu Jintao per l’atteso braccio di ferro sulloapprezzamento dello yuan, mentre domani mattina il primo appuntamento, alle 8.40 del mattino, è con l’indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono - per scusarsi delle due visite annullate negli ultimi quattro mesi -. Nel pomeriggio, l’indiano Manmohan Singh e il nuovo premier giapponese Naoto Kan con un’agenda che in entrambi i casi va dalla ricetta della crescita globale alla lotta alla proliferazione delle armi non convenzionali. Senza contare temi più specifici come il futuro della base militare Usa a Okinawa e il dialogo sul commercio hi-tech con Nuova Delhi che ha per protagonista il Segretario di Stato Hillary Clinton. «Il fatto che cinque dei sei bilaterali di Obama in Canada sono con nazioni dell’Asia-Pacifico - spiega un alto funzionario dell’amministrazione - è un’eloquente prova dell’importanza che il presidente assegna all’Asia per la nostra politica di sicurezza ed i nostri interessi economici» anche perché «si tratta di un’area la cui influenza globale è in crescita».

Rhodes e Bader non lesinano dettagli sulle intenzioni di Obama: dal viaggio in preparazione a novembre che lo porterà in Giappone, Sud Corea, India e Indonesia alle agende dei prossimi summit del G20 e dell’Apec, da ruolo di Giakarta nel dialogo con l’Islam a quello di Tokio nella sicurezza dell’Asia nord-ordientale. E l’Europa? L’unico bilaterale certo con un alleato della Nato avviene alle 14.15 di oggi e vedrà Obama soffermarsi con il britannico David Cameron: ma è quasi di un atto dovuto trattandosi di un nuovo premier. Un consigliere del presidente lo dice con una frase molto cerimoniale: «Abbiamo scelto Cameron come primo bilaterale per sottolineare le relazioni speciali con la Gran Bretagna». Ma sui contenuti è silenzio ad eccezione della battuta: «Parleranno di sicuro anche di calcio, visto che le nostre nazionali hanno passato il turno ai Mondiali in Sudafrica». Tutto qui. Per il resto gli europei non figurano nella scaletta presidenziale. E quando viene fatto notare a Robert Gibbs, portavoce di Obama, che i leader di Germania e Francia non l'hanno presa troppo bene, la replica è: «Stiamo tentando di vedere se qualcos’altro può essere aggiunto». Per comprendere come sia possibile che un colloqui con Angela Merkel o Nicolas Sarkozy venga declassato a una «possibile aggiunta» dalla Casa Bianca - per non dire del silenzio sull’Italia - bisogna ascoltare Stewart Patrick, direttore del programma Global Governance del Council on foreign relations (relazioni con l’estero) di New York: «questi summit del G8 a Muskoka e del G20 a Toronto segnano una svolta epocale dall’era del dominio occidentale a quello dell’era multipolare». La svolta sta nel fatto che gli Stati Uniti, d’accordo con l’anfitrione Canada e il partner del Cremlino, hanno preparato i lavori in maniera da separare per la prima volta in maniera netta le competenze: assegnando al G8 quelle relative a sicurezza, pace e aiuti allo sviluppo per concentrare sul G20 l’agenda economica. «Si avvera quanto aveva detto Obama nel settembre del 2009 a Pittsburgh sul G20 foro prioritario per la cooperazione economica internazionale» sottolinea Patrick, lasciando intendere che il ridimensionamento del G8 «è cosa oramai fatta».

Ma non è tutto perché anche sul tavolo del G8 l’Europa appare in declino in quanto i temi che Obama aveva più a cuore - dall’applicazione delle nuove sanzioni Onu all'Iran alla risposta da dare a Pyongyang per l’affondamento della nave sudcoreana fino alle tensioni etniche in Kirghizystan - le ha sviscerate giovedì alla Casa Bianca in un summit con Dmitri Medvedev conclusosi con la firma di 11 differenti dichiarazioni congiunte, inclusa quella sull’Afghnistan per sottolineare l’importanza delle rotte di rifornimento della Nato attraverso la Russia. La convergenza fra Obama e Medvedev su Iran e Nord Corea è tale da aver trasformato quasi in formalità la cena di lavoro, ieri sera, con gli altri leader del G8 in quanto nessuna potenza europea è in grado - o vuole - prendere le distanze sui temi della sicurezza.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/giornalisti/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=1717&ID_sezione=58&sezione=


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Per la prima volta l'ambasciatore Usa ricorda Hiroshima
Inserito da: Admin - Luglio 30, 2010, 09:31:06 am
30/7/2010 - IL CASO

Per la prima volta l'ambasciatore Usa ricorda Hiroshima

Presenzierà alla commemorazione del 6 agosto

Maurizio MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Barack Obama manda l’ambasciatore americano in Giappone a presenziare per la prima volta alle cerimonie per l’anniversario dell’atomica su Hiroshima e Tokyo plaude al gesto di svolta ma per le vittime di allora non basta: «Vogliamo le scuse dell’America».

L’annuncio del passo dell’amministrazione Obama arriva da Philip Crowley, portavoce del Dipartimento di Stato: «L’ambasciatore John Roos rappresenterà gli Stati Uniti il 6 agosto al memoriale di Hiroshima per esprimere rispetto a tutte le vittime della Seconda Guerra Mondiale». Il cerimoniale è stata studiato per dare massima rilevanza all’evento infatti Roos deporrà una corona di fiori al monumento che ricorda i 140 mila abitanti di Hiroshima uccisi dalla bomba lanciata dall’«Enola Gay» dell’aviazione miliare americana, facendo seguire poi un minuto di raccoglimento destinato a entrare in diretta tv nelle case di milioni di giapponesi. Ross è già stato al memoriale, in ottobre, ma la coincidenza con le cerimonie di ricordo delle vittime dà a questa visita un rilievo ben maggiore. Non è ancora chiaro se tre giorni dopo, quando cadrà l’anniversario della seconda atomica che su sganciata su Nagasaki, Roos parteciperà anche all’identica cerimonia di ricordo per le 74 mila vittime che vi furono ma la scelta della Casa Bianca sembra quella di voler sfruttare il 65° anniversario del primo bombardamento atomico per attestare con forza la condanna dell’uso e della proliferazione delle armi nucleari. «La presenza del nostro ambasciatore è la cosa giusta da fare» ha sottolineato il portavoce, ricordando che dal 1988 la città di Hiroshima chiede agli Stati dotati di armi nucleari di presenziare all’evento, ma gli Stati Uniti non avevano finora mai accolto l’invito.

La reazione del governo nipponico è arrivata da Yodhito Sengoku, capo di gabinetto del premier, che ne ha dato un giudizio molto positivo in quanto «si tratta di un’opportunità per l’America di comprendere la nostra determinazione a perseguire il disarmo nucleare affinché una simile terribile devastazione non possa ripetersi mai più». Tokyo spera che la decisione della Casa Bianca preannunci la volontà di Barack Obama di recarsi in visita a Hiroshima questo novembre, quando arriverà in Giappone per partecipare ai lavori del summit dell’Apec - il Forum dei Paesi del Pacifico - in programma a Yokohama. Nel gennaio scorso fu il sindaco di Hiroshima, Tadatoshi Akiba, a estendere personalmente l’invito a Obama che rispose «Vorrei davvero venire» innescando un’attesa che continua a crescere. Sull’ipotesi della visita di Obama resta però l’incognita del rischio di possibili proteste da parte delle associazioni delle vittime degli attacchi atomici, che anche ieri hanno tenuto a distinguersi dalle reazioni del governo. «La decisione di mandare l’ambasciatore americano a Hiroshima è sicuramente una mossa benvenuta - ha commentato Kazushi Kaneko, direttore del Consiglio che riunisce i gruppi di vittime dell’atomica lanciata il 6 agosto 1945 - e ci aspettiamo che l’ambasciatore Usa contribuirà a correggere l’opinione di chi ancora ritiene che quell’esplosione atomica fu una cosa giusta, affinché il presidente Obama possa venire qui a presentare le scuse dell’America». Masaaki Tanabe, 72enne che al momento dell’esplosione viveva poco lontano da dove oggi sorge il memoriale, aggiunge: «La decisione di scagliarci contro l’atomica fu irragionevole, prendere atto delle immense perdite avute allora deve portare Obama a scusarsi e a impegnarsi per la totale distruzione di tali armi».

Sin dal discorso pronunciato a Praga nell’aprile del 2009 il presidente americano si è detto intento a perseguire un «mondo senza armi nucleari» ma la richiesta di scuse è stata finora accolta con grande prudenza dalla Casa Bianca, nella consapevolezza che per la maggioranza dei veterani della Seconda Guerra Mondiale furono proprio gli attacchi atomici a scongiurare la necessità di una campagna di terra contro il Giappone che minacciava di costare alle forze armate oltre un milione di vite umane. Senza contare che alcune nazioni dell’Estremo Oriente, come Singapore, ricordano ancora oggi le atomiche sul Giappone come il momento in cui l’esercito invasore accettò di arrendersi ponendo fine ad una difesa che si proponeva di condurre ad oltranza.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/giornalisti/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=1753&ID_sezione=58&sezione=


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Contro il Presidente in nome di Luther King
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2010, 09:09:43 am
29/8/2010

Contro il Presidente in nome di Luther King
   
MAURIZIO MOLINARI

L’assalto dei conservatori all’America di Barack Obama inizia con una contesa su Martin Luther King. A meno di settanta giorni dal voto per il rinnovo del Congresso di Washing- ton il popolo dei Tea Party ha invaso il Mall per rivendicare l’eredità del reverendo afroamericano protagonista delle lotte contro la segregazione razziale. L’affronto alla Casa Bianca non potrebbe essere più palese. Se Obama considera la sua presidenza come il frutto politico delle marce per i diritti dei neri compiute dalla generazione di King negli Anni Cinquanta e Sessanta, i conservatori Glenn Beck e Sarah Palin ribattono che la declinazione contemporanea del movimento dei diritti civili di allora è nella tutela dei cittadini dall’invadenza dello Stato federale promossa proprio dall’amministrazione Obama.

Si tratta di un duello sull’identità nazionale che conferma come negli Stati Uniti gli avversari politici puntino a impossessarsi dei simboli più efficaci degli avversari per riuscire a prevalere: nella campagna del 2008 Obama citava Ronald Reagan e John McCain faceva lo stesso con Bill Clinton, così come George W. Bush prese ad esempio F. D. Roosevelt e Harry Truman dopo l’11 settembre. Senza contare che la modernizzazione di Teodoro Roosevelt viene rivendicata come propria tanto dai leader democratici quanto da quelli repubblicani. Puntando a Martin Luther King, i Tea Party vogliono neutralizzare la maggiore carica innovativa di Obama, spostando il focus del confronto politico e del dibattito pubblico dall’emancipazione razziale alle libertà del cittadino, dai diritti delle minoranze a quelli dei contribuenti. E’ lo stesso motivo che spinge Beck e Palin ad affermare che Abramo Lincoln appartiene assai più ai conservatori che non ai liberal, perché se Obama lo considera il presidente-simbolo dell’Unione americana - sacrificò la vita alla sconfitta della schiavitù - a loro avviso ciò che più conta è il fatto di essere il simbolo perenne dell’«onore nazionale» dei patrioti a stelle e strisce.

Dietro questi duelli sui simboli sacri della vita pubblica nazionale c’è l’aspro scontro in atto sulla leadership del ceto medio flagellato dalla crisi economica. Rassicurati dai sondaggi, i conservatori sentono di poter recuperare nelle urne molti dei consensi - soprattutto nel Midwest - perduti due anni fa e vogliono ottimizzare il momento favorevole per riuscire a cogliere un obiettivo ancora più importante: far coincidere l’attesa vittoria al Congresso con l’azzeramento del mito di Obama. A intuire cosa sta avvenendo è l’opinionista del «Washington Post» David Ignatius che ha suggerito all’inquilino dello Studio Ovale di iniziare a «ripensare in fretta la presidenza» perché dopo il voto di Midterm «il copione sarà molto diverso da quello attuale».

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7759&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MAURIZIO MOLINARI I Paesi del Golfo agli Usa "Attaccate subito l'Iran"
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2010, 12:06:54 pm
29/11/2010 - WIKILEAKS. LE NUOVE RIVELAZIONI

Wikileaks, una tempesta sul mondo

I Paesi del Golfo agli Usa "Attaccate subito l'Iran"

MAURIZIO MOLINARI

Le pressioni arabe per un attacco militare all’Iran, gli attacchi cibernetici cinesi, il progetto di riunificare la Corea sul modello tedesco, il braccio di ferro col Pakistan sul controllo delle armi nucleari, la corruzione dei leader afghani, la sinuosa infermiera ucraina di Gheddafi e un bazar di trattative per convincere Paesi minori ad ospitare i detenuti di Guantanamo: i 251.287 documenti diplomatici americani rivelati da Wikileaks alzano il velo su una messe di segreti gelosamente custoditi da Washington, innescando conseguenze internazionali difficili da prevedere.

I documenti sono telegrammi diplomatici scambiati dal Dipartimento di Stato con 180 ambasciate americane attraverso il sistema Internet dell’esercito Usa denominato Siprnet - Secret Internet Protocol Router Network - e con la dicitura Sipdis ovvero Secret Internet Protocol Distribution.

Wikileaks ne è entrato in possesso e li ha fatti avere a cinque giornali - New York Times , Guardian , Der Spiegel , El País eLe Monde - e da ieri ne è iniziata la pubblicazione che consente di ricostruire quanto sta avvenendo dietro le quinte della politica internazionale. Anche perché i testi risalgono agli ultimi 10 anni, arrivando fino allo scorso febbraio, con la maggioranza concentrata fra 2006 e 2009.

Ciò che ne emerge è un mondo segnato anzitutto dall’allarme per l’atomica iraniana. Il re saudita Abdullah chiede a più ripresa a Washington di «tagliare la testa del serpente» di Teheran, il sovrano del Bahrein preme per un attacco per «fermare il programma nucleare» perché «il pericolo di lasciarlo procedere è superiore a quello di fermarlo», i leader militari degli Emirati definiscono «pazzo» Mahmud Ahmadinejad, il principe ereditario degli Emirati Arabi afferma «Ahmadinejad è Hitler» e una miriade di leader, ministri e generali arabi ritiene che solo la caduta del regime degli ayatollah potrà bloccare la corsa dell’Iran all’atomica. La pressione su Washington è tale che quando il presidente americano Barack Obama nel 2009 invia un messaggio tv di apertura ai leader di Teheran, gli Emirati parlano di «testo confuso» perché «non è questa la maniera di agire».

Washington preme per sanzioni rigide, chiedendo a sauditi e cinesi di rompere i rapporti petroliferi con Teheran ma nelle conversazioni private è l’attacco militare a tenere banco, come avviene il 12 febbraio a Parigi quando il ministro della Difesa francese Hervé Morin chiede a bruciapelo al capo del Pentagono Gates se Israele attaccherà «senza il sostegno Usa». La risposta è: «Israele può farlo ma non so se avrebbe successo e comunque ritarderebbe i piani iraniani solo per 1-3 anni, con il risultato di unificare gli iraniani contro l’aggressore». Gli israeliani da parte loro sfruttano ogni occasione per spiegare a Washington che la finestra di tempo per evitare l’attacco si sta per chiudere. Nel maggio 2009 il ministro della Difesa di Gerusalemme, Barak, dice all’ambasciatore Usa Cunningham: «Il mondo ha ancora 6-18 mesi», ovvero fino all’inizio del 2011.

Se le rivelazioni sulle pressioni arabe per l’attacco sono destinate ad accrescere la tensioni fra Teheran e i vicini, il piano per la riunificazione della Corea conferma i timori di Pechino. Ecco di cosa si tratta: alti ufficiali di Washington e Seul hanno discusso i piani della riunificazione sul modello di quanto avvenuto in Germania nel 1991, arrivando a ipotizzare «incentivi commerciali» per Pechino come allora Berlino garantì al Cremlino. Lo scorso febbraio l’ambasciatrice Usa a Seul ha scritto a Washington che «gli opportuni accordi economici potranno far venir meno le preoccupazioni cinesi sulla riunificazione» di una Corea «alleata degli Usa». La possibilità di far leva sul business con Pechino per ottenere l’«implosione della Nord Corea» è uno scenario del quale nessun funzionario americano hai mai pubblicamente discusso così come si ignorava il braccio di ferro in atto dal 2007 fra Washington e Islamabad sull’uranio arricchito di un reattore ad alto rischio. Washington preme per rimuoverlo ma Islamabad si oppone perché, come scrive l’ambasciatore Patterson nel maggio 2009, «se una sola parola di questo uscirà sui giornali la conseguenza sarà far apparire l’intero arsenale pachistano in mani americane».

Riguardano la Cina anche le rivelazioni sugli attacchi via Internet contro Google: è una fonte cinese che rivela all’ambasciata Usa a Pechino che l’incursione è stata ordinata «dall’interno del Politburo del Partito comunista». Si tratta di un’operazione di guerra cibernetica «iniziata nel 2002» e prima di Google ha avuto per obiettivi «i computer del governo Usa, quelli degli alleati occidentali e del Dalai Lama». La formulazione di queste accuse è tale da non poter escludere che anche il furto di documenti rivelati da Wikileaks possa esserne coinvolto.

A descrivere il bazar sui detenuti di Guantanamo sono i telegrammi seguenti all’insediamento del nuovo Presidente Usa, quando viene detto alla Slovenia di «accettarne qualcuno in cambio di un incontro con Obama», vengono offerti «milioni di dollari» di incentivi a Kiribati e suggerito al Belgio che accogliendone «acquisterebbe visibilità in Europa». Sul fronte della lotta al terrorismo sorprende il giudizio negativo del Dipartimento di Stato nei confronti dell’Intelligence del Qatar, definita «la peggiore della regione contro Al Qaeda» perché «esitante ad agire nel timore di soffrire rappresaglie». La sorpresa si deve al fatto che il Qatar ospita a Doha il quartier generale delle operazioni Usa nel Golfo e dunque ciò significa un'esposizione alta al pericolo di attentati per i soldati Usa.

Per quanto riguarda le notizie sui singoli leader stranieri spiccano la descrizione della «sinuosa infermiera ucraina» che «segue ovunque» Gheddafi come le affermazioni sul «comportamento improprio» di un componente della famiglia reale britannica nonché le definizioni di «imperatore nudo» per Sarkozy e di «ostinata e raramente creativa» per la tedesca Merkel. Ma ciò che forse preoccupa più la Casa Bianca sono i contenuti dei telegrammi sull’Afghanistan per via della valigia con 52 milioni di dollari trovata negli Emirati in possesso del vicepresidente Massoud e del ruolo del fratello del presidente Karzai descritto come implicato in «corruzione e traffico di stupefacenti». Poiché i fondi Usa all’Afghanistan vengono dati dal Congresso è facile prevedere che i leader repubblicani ne renderanno conto a Obama. La Casa Bianca reagisce con un comunicato in cui spiega che «i contenuti di questi documenti non esprimono politiche governative». Ma la bufera è solo all’inizio.

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI Il Polo si sposta troppo velocemente: aerei e uccelli in tilt
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2011, 05:05:49 pm
9/1/2011 - LA STORIA

Il Polo si sposta troppo velocemente: aerei e uccelli in tilt

L'aeroporto di Tampa in Florida chiude una pista d'atterraggio

CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Maurizio MOLINARI

L’aeroporto internazionale di Tampa ha chiuso una delle piste d’atterraggio per lo stesso motivo che potrebbe essere all’origine della morìa di pesci e uccelli che si è verificata in più parti del mondo: la massa magnetica al Polo Nord della Terra sta oscillando più rapidamente di quanto avviene di solito.

Lo scenario, fra fisica e fantascienza, richiama alla memoria la trama del romanzo «The Core» di Paul Preuss che nel 2003 il regista Jon Amiel portò sul grande schermo con l’omonimo titolo, raccontando la scelta del presidente degli Stati Uniti di fare esplodere degli ordigni nucleari nel magma terrestre per riattivare la rotazione terrestre misteriosamente bloccata. Non siamo certo a tali scenari apocalittici ma le prime scene di quel film, con stormi di uccelli morti che cadevano dal cielo e aerei che precipitavano all’improvviso hanno a che vedere con gli stessi motivi che hanno spinto le autorità dell’aeroporto internazionale di Tampa in Florida a chiudere una delle principali piste d’atterraggio, spiegandone i motivi con dovizia di dettagli.

Il motivo, come hanno sottolineato i portavoce dello scalo, è che «il Polo Nord magnetico si è spostato dal Canada verso la Russia di circa 40 miglia» - 64,3 km - ad una velocità «più alta del solito» e di conseguenza devono essere ricalcolati circa cento pannelli e quaranta segnali che guidano gli aerei in fase di atterraggio. Se infatti il Polo Nord geografico è un punto convenzionale fisso stabilito sulle mappe, quello magnetico è in continuo spostamento fra il Canada e la Siberia e la sua posizione serve a orientare i piloti degli aerei proprio come una semplice bussola.

Per avere un’idea dello spostamento del Polo Nord magnetico basti tener presente che 700 mila anni fa era invertito con quello al Sud del Pianeta. L’umanità è comunque abituata a convivere con spostamenti minimi e di conseguenza «i piloti volano con l’aiuto delle bussole magnetiche e le piste di atterraggio sono disegnate lungo i punti di questa bussola», come ha spiegato uno dei portavoce dello scalo, sottolineando però «che il problema è che un punto ritenuto a 180 gradi si trova ora, diciamo, a 190 gradi».

L’idea che i piloti dei jet commerciali adoperino ancora bussole magnetiche nell’era del Gps via satellite può sembrare anomala ma in attesa di modifiche della strumentazione di bordo delle maggiori compagnie civili l’aeroporto non ha avuto alternativa che ordinare il blocco dell’uso di una pista. Anche le autorità dello scalo di Atlanta, in Georgia, stanno valutando una simile decisione per garantire la massima sicurezza ai passeggeri.

A conferma delle preoccupazioni di Tampa e Atlanta la «Federal Aviation Administration», che controlla il traffico aereo civile sugli Stati Uniti, ha avallato la necessità di ridisegnare «almeno una delle piste di atterraggio» in tempi stretti. Le notizie in arrivo da Florida e Georgia hanno spinto comunità scientifica ed esperti meteo a prendere in considerazione l’ipotesi che anche l’improvvisa morte di migliaia di uccelli e pesci in Brasile, Gran Bretagna, Italia, Svezia, Nuova Zelanda e Stati Uniti possa essere legata al brusco movimento del magnetismo terrestre.

Se il Polo Nord infatti si muove in fretta gli uccelli si confondono, perdono l'orientamento, cambiano i loro soliti comportamenti e seguono rotte insolite rischiando di urtare contro correnti d’aria sconosciute che ne possono causare la morte improvvisa. Lo stesso vale per i pesci, il cui orientamento errato può spingerli in acque troppo gelide per sopravvivere, causando la morte di branchi molto numerosi.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=1909&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MAURIZIO MOLINARI "I rapporti Usa-Italia mai così stretti malgrado Wikileaks"
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2011, 03:59:58 pm
10/1/2011 - DIPLOMAZIA ROMA E WASHINGTON

"I rapporti Usa-Italia mai così stretti malgrado Wikileaks"

L'ambasciatore a Roma Thorne: "Andrò dai soldati ad Herat. La vostra presenza sul territorio afghano è fondamentale"

INVIATO A WASHINGTON
Maurizio MOLINARI

I legami fra Roma e Mosca preoccupano meno l'amministrazione Obama, sul dossier Iran la cooperazione è intensa e l’ambasciatore David Thorne andrà a Herat per rendere omaggio alle nostre truppe in Afghanistan: Washington mette l’acceleratore sui rapporti bilaterali con il governo Berlusconi puntando ad allontanare «il momento di negatività» scaturito dalla pubblicazione da parte di Wikileaks di documenti diplomatici americani contenenti giudizi severi su Palazzo Chigi. È questo ciò che emerge da un incontro con lo stesso Thorne, avvenuto in un hotel vicino alla Casa Bianca a margine della sua visita a Washington incentrata sulle relazioni con l'Italia.

Ambasciatore, qual è lo stato di salute dei rapporti bilaterali?
«Non c’è mai stato un momento migliore ma aleggia uno stato temporaneo di negatività dovuto soprattutto a Wikileaks».

Negli ambienti del governo italiano il contenuto di alcuni dei documenti diplomatici americani rivelati da Wikileaks e attribuiti a lei ha suscitato forte disappunto. Come giudica quanto è avvenuto?
«Non commenterò il contenuto di questi documenti ma non posso negare che in Italia, come in altri Paesi, Wikileaks ha creato delle difficoltà, è diventato un diversivo rispetto all'attività di politica estera. In particolare credo che Wikileaks ha avuto questo effetto in Italia per la coincidenza con la fase politica interna, segnata da toni elettorali. È stato come gettare benzina sul fuoco».

C'è bisogno di un «reset» delle relazioni bilaterali?
«Non credo ci sia bisogno di un "reset" perché l’Italia è per noi un partner di grande valore dall’Afghanistan al Medio Oriente, dalla Russia all’Iran fino al Corno d’Africa. Per noi nulla di questo è cambiato. Anzi dal mio punto di vista l’importanza dell'Italia è aumentata nell’ultimo anno. Il ministro degli Esteri Franco Frattini è stato un sostenitore dei rapporti bilaterali fuori dal comune. Non dobbiamo consentire a Wikileaks di oscurare tutto questo».

Cosa si pensa a Washington del governo Berlusconi?
«C’è grande apprezzamento. Ho lavorato per l’incontro fra il Segretario di Stato Hillary Clinton e il premier Berlusconi in Kazakhstan proprio per sottolinearlo. E credo che nei prossimi tempi vi saranno ulteriori sviluppi per rafforzare il dialogo fra le leadership dei nostri due Paesi».

Pensate a una «linea rossa» fra Casa Bianca e Palazzo Chigi?
«Non ne voglio parlare ma l'Italia è uno dei nostri partner più importanti e abbiamo bisogno di un livello di comunicazioni bilaterali che sia conseguente».

Ricordo che un anno fa nell’amministrazione Obama c’era grande preoccupazione per la vicinanza fra Berlusconi e Putin. È ancora così?
«No, non più. Siamo meno preoccupati di allora. L’Italia è stata una forte sostenitrice del riavvicinamento con la Russia e questa è anche la posizione di Obama. Vi sono stati progressi con la Russia che hanno migliorato lo scenario».

Questo è vero anche per i legami energetici dell’Eni con Mosca?
«Sì perché vi sono stati molti incontri con Paolo Scaroni, a Roma e a Washington. L’Eni ha cambiato il suo approccio, ipotizzando una convergenza fra gli oleodotti South Stream e Nabucco. Direi che siamo in una fase di dialogo costruttivo».

È vero che sta per andare in visita in Afghanistan?
«Si, andrò anche a Herat per rendere omaggio ai soldati italiani. Sono stato sotto le armi e mi sento molto vicino ai vostri militari. L’Italia come Paese svolge un ruolo cruciale nella coalizione essendo il terzo partner per numero di effettivi e nella transizione afghana i vostri carabinieri sono molto importanti per l’addestramento delle truppe afghane».

In luglio il Pentagono inizierà a ritirare le truppe quando crede che gli italiani potranno incominciare a lasciare Herat?
«È una decisione che spetta alla Nato, ai comandi sul campo, ma quando ho parlato con il generale David Petraeus a Roma mi sono reso conto che vi sono dei miglioramenti sul terreno. Stiamo facendo dei progressi sulla sicurezza e ciò è di buon auspicio».

Che giudizio date dell’adesione italiana alle sanzioni all’Iran?
«La cooperazione italiana sull’Iran è molto utile. Non solo per il sostegno alle sanzioni. Ciò che noi apprezziamo sono i legami di vecchia data, umani e commerciali, che avete con l’Iran perché in prospettiva potrebbero risultare molto utili nei rapporti con loro quando anche noi, speriamo presto, potremo averne».

Perché ha citato il Corno d'Africa fra le aree di forte cooperazione bilaterale?
«Ho parlato qui a Washington con il capo della Cia Leon Panetta e mi ha detto che l’Italia può essere di grande aiuto nel Corno d'Africa contro il terrorismo. L’Italia già svolge un ruolo cruciale in Europa, come dimostrato dalla recente cattura nel Sud di un importante capo di Al Qaeda. E questa competenza regionale dell’Italia può essere utile anche per stabilizzare l'area attorno al Sudan nella fase successiva al referendum».

La tenuta dell’economia italiana è fonte di preoccupazioni?
«Non solo in Italia ma in tutta l’Europa per noi è importante stimolare la crescita e tagliare la spesa pubblica. In Europa non c'è stato un grande confronto sugli stimoli fiscali all’economia mentre l’attenzione è stata più sui tagli, come fatto da Giulio Tremonti. Si possono avere ricette diverse ma ciò che conta per l'America è che l’Europa e l’Italia crescano».

Il presidente Obama cerca nuovi mercati per le esportazioni americane. L’Italia è fra questi?
«Tutti vogliamo esportare, noi come voi. In Italia vi sono grandi opportunità per noi come lo sviluppo della rete a banda larga e la presenza di impianti per energia alternativa, solare e eolica, nell’Italia del Sud o a Montalto di Castro. Sono opportunità delle quali parlo spesso con i miei interlocutori».

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI Satana non è più l'America
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2011, 11:33:43 am
29/1/2011

Satana non è più l'America


MAURIZIO MOLINARI

L’America segue con passione l’affermarsi di una piazza araba che chiede libertà e democrazia anziché maledire lo Zio Sam. Ciò che accomuna i resoconti dei media, dal Washington Post ai maggiori network tv, e le analisi dei centri studi, dalla Brookings Institutions alla Fondazione Carnegie, è la descrizione di una novità: da Tunisi al Cairo, da Alessandria a San’a, le nuove generazioni arabe manifestano non contro i Satana dell’Occidente ma a favore di più diritti, politici ed economici. «Le crisi interne al mondo arabo hanno preso il sopravvento sull’ostilità verso l’America e sul conflitto israelopalestinese nei cuori di milioni di musulmani» spiega Eliott Abrams del «Council on Foreign Relations». Abituati a considerare le manifestazioni oceaniche di musulmani come nemiche, gli americani scoprono che «la strada araba oggi ha valori comuni con la Main Street del Midwest» osserva Fuad Ajami, orientalista della Johns Hopkins University. Le notizie frammentarie di manifestazioni pro-democratiche che arrivano da Giordania e Siria consentono al «Center for American Progress» di John Podesta, molto vicino alla Casa Bianca, di affermare che «la rivoluzione dei gelsomini in Tunisia sta diventando qualcosa di più ampio».

E’ in questa cornice che la Casa Bianca di Barack Obama esprime due priorità nell’affrontare quanto sta avvenendo. Primo: far prevalere i diritti universali dell’individuo. Secondo: impedire che ad avvantaggiarsi della fase di instabilità siano le cellule jihadiste apparentate con Al Qaeda. L’auspicio di un rispetto dei «diritti universali» è stato espresso da Obama a proposito della Tunisia e dal Segretario di Stato Hillary Clinton riguardo all’Egitto diventando il concetto che ogni esponente del governo, dal vicepresidente Joe Biden al portavoce Robert Gibbs, ripete per commentare quanto sta avvenendo. L’origine di tale approccio è nel discorso che Obama pronunciò all’ateneo di Al-Azhar al Cairo il 4 giugno 2009 quando disse: «Credo fermamente che ogni popolo abbia diritto a dire ciò che pensa, a giudicare i suoi governanti, ad avere uno Stato di Diritto ed alla libertà di scegliere come vivere. Non sono solo idee americane ma diritti umani e per questo li sosteniamo ovunque». Il 44° Presidente degli Stati Uniti è convinto che nel mondo arabo e musulmano i cambiamenti democratici possono arrivare dall’interno - come avvenuto in Europa, Asia e Sud America - e per favorirli scommette sul sostegno all’idea di «diritti universali dell’individuo» connaturata alla Costituzione americana, sfruttando ogni occasione per far sapere ai popoli del Maghreb e del Medio Oriente che sono le «libertà di espressione, assemblea e fede» ad accomunare ogni essere umano.

In occasione delle proteste di piazza in Iran di due anni fa contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad, Obama scelse un profilo basso che politicamente lo fece apparire debole e non piacque agli americani ma ora l’approccio è rovesciato: il sostegno alle aspirazioni democratiche prevale sulla Realpolitik a conferma della scelta di individuare, anche nella politica estera, una terreno bipartisan con i repubblicani. Ciò non significa tuttavia sostenere sbrigativamente la rimozione di un leader alleato come Hosni Mubarak che, osserva l’arabista Juan Cole, «non è il tunisino Ben Alì», essendo l’Egitto la nazione più importante del mondo arabo.

La Casa Bianca teme che un crollo improvviso di Mubarak possa favorire i gruppi jihadisti, molto radicati nella terra natale di Ayman al Zawahiri vice di Bin Laden, e preme dunque per disinnescare la crisi attraverso un’accelerazione delle riforme proprio da parte di Mubarak, in vista delle imminenti presidenziali. Washington in queste ore sta facendo pressione per ottenere dal Cairo una svolta democratica - ovvero la garanzie di elezioni davvero libere - capace di porre fine agli scontri aprendo la strada alla transizione. Da qui l’attenzione della Casa Bianca per il ruolo delle forze armate egiziane - dal 1979 finanziate e armate dagli Stati Uniti - considerate in questo frangente come il baluardo contro un caos che potrebbe favorire i jihadisti. Resta da vedere se Mubarak farà ciò che Obama gli sta chiedendo.

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI Ma Obama si batte con Tokyo
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2011, 05:04:11 pm
15/3/2011

Ma Obama si batte con Tokyo

MAURIZIO MOLINARI

Obama schiera l’America in prima fila nei soccorsi al Giappone flagellato da tsunami e incidenti nucleari ma senza arretrare di un passo sui progetti di rilancio dell’energia atomica nazionale. Da quando è stato svegliato alle 4 di sabato dal capo di gabinetto Daley con le prime notizie sullo tsunami il Presidente sta affrontando la crisi giapponese.

Obama ha un duplice intento: porre l’America alla guida della coalizione internazionale dei soccorsi e impedire che le esplosioni di Fukushima dirottino la sua politica energetica. Per testimoniare lo slancio verso l’alleato ferito, Obama ha detto di aver il «cuore spezzato», ha ricordato «la cultura giapponese che ho sentito mia durante l’infanzia alle Hawaii» ed ha inviato unità della Us Navy, dozzine di elicotteri e centinaia di marines a partecipare ad un’operazione umanitaria che un portavoce della Casa Bianca descrive come «la sintesi fra l’inondazione di New Orleans, l’ecatombe di Haiti e il sisma del Cile». Ma soprattutto Obama ha autorizzato la mobilitazione della task force nucleare per tentare di evitare il peggio nel reattore di Fukushima: l’invio di un team di super-esperti sostenuto dalle più moderne tecnologie create dall’uomo punta ad evitare la fusione che evoca nei giapponesi l’incubo di Hiroshima e negli americani lo spettro di una nube di radiazioni sui cieli del Pacifico. La Casa Bianca sta facendo ricorso ai segreti della propria scienza nucleare per sostenere un alleato in difficoltà e testimoniare al tempo stesso alla sua opinione pubblica che, come avvenuto già dopo i violenti sismi di Haiti e Cile, Obama vuole l’America nel ruolo di leader.

Ma ciò non comporta abdicare alla convinzione che il nucleare sia un tassello cruciale della rivoluzione energetica necessaria per emanciparsi dalla dipendenza dal greggio importato dall’estero. Ai leader del partito democratico che premono sulla Casa Bianca per ottenere una sospensione degli stanziamenti varati nel 2010 per costruire in Georgia la prima nuova centrale nucleare in 30 anni, Obama risponde facendogli sapere che «i nostri impianti sono sicuri» ribadendo che il nucleare serve «a dipendere di meno in futuro dai gas nocivi» e dunque a proteggere il clima. Anche questa scelta per Obama implica ritagliare all’America un ruolo di leadership: nella rivoluzione energetica.

Abituato ai combattimenti duri della politica di Chicago, atteso fra 10 mesi da una difficile campagna per la rielezione ed alle prese in Libia con una crisi che evidenzia il rischio di dipendere dal greggio dei dittatori, il Presidente che viene dalle Hawaii e scelse Tokyo per rivolgere all’Asia il discorso sulla partnership del XXI secolo, vede nel dopo-tsunami l’opportunità di confermare il ruolo di guida dell’America nel mondo multilaterale. Scommettendo sull’abilità dei tecnici della «National Resources Commission» di scongiurare una catastrofe nucleare.

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI L'America non vuole rovesciare Gheddafi
Inserito da: Admin - Marzo 21, 2011, 05:40:49 pm
21/3/2011 - LIBIA. L'ATTACCO AL REGIME

Un nuovo Kosovo per Obama

La dottrina del Presidente ricalca l'intervento del 1999.

L'America non vuole rovesciare Gheddafi

Maurizio MOLINARI
INVIATO A RIO DE JANEIRO

La gestione dell’attacco alla Libia dalla «war room» che accompagna ovunque il Presidente degli Stati Uniti mette in luce l’affermarsi di una dottrina Obama sull’intervento umanitario come anche le impreviste difficoltà che l’amministrazione di Washington sta incontrando nel trovare alleati per metterla in atto, a cominciare dalla brusca marcia indietro della Lega Araba. A disegnare i quattro pilastri dell’approccio della Casa Bianca a «Odyssey Dawn» sono le parole del Presidente: pronunciate durante i briefing di venerdì a bordo dell’Air Force One in volo sulle Americhe, nel messaggio alla nazione letto sabato da Brasilia e ripetute nella «war room» creata ieri in una zona protetta di Rio de Janeiro. Nelle dettagliate disposizioni che dà al generale Carter Ham sull’attacco aeronavale come in quelle che recapita al segretario di Stato Clinton sulla necessità di sostenere una solida coalizione, Obama mette l’accento su termini e principi che si ripetono con insistenza.

Ecco quali sono. Primo: l’ordine dato al Pentagono è di condurre un’«operazione limitata» con l’impiego di forze aeronavali ma senza il ricorso a truppe terrestri, richiamandosi così ai precedenti degli interventi militari di Bill Clinton in Bosnia e Kosovo negli Anni Novanta. Secondo: gli Usa «partecipano» a una coalizione «che non guidano» e quindi il distacco netto è da quanto fatto da tutti i predecessori dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, a conferma che la sua idea di leadership americana nel mondo è quella che declinò nel corso del primo viaggio in Europa nel 2009, quando parlò di «impegno per aiutare il mondo a trovare le soluzioni migliori ai problemi comuni». Terzo: l’intervento militare punta a «proteggere civili» e non a «rovesciare un regime», dunque più in sintonia con le guerre di Clinton in Bosnia e Kosovo che non con quelle di George W. Bush in Afghanistan e Iraq. Quarto: «la solida legittimazione internazionale» che proviene dalla risoluzione dell’Onu 1973, più esplicita nel prevedere il ricorso alla forza rispetto a quelle a cui la Nato si richiamò per il Kosovo, per non parlare dell’Iraq di Bush, quando l’Onu si divise.

Ciò che tiene assieme questi quattro pilastri è la convinzione del Presidente americano, espressa nel discorso pronunciato ieri nel Teatro Municipale di Rio de Janeiro, che riflettano i «principi comuni delle nostre nazioni», ovvero «credere nel potere e nella promessa della democrazia» come «forma migliore per promuovere la crescita e la prosperità di ogni essere umano». Ma il problema con cui la Casa Bianca si sta scontrando in queste ore è che la dottrina di Obama deve fare i conti con le difficoltà di una coalizione che stenta a nascere. Il caso più evidente è quello della Lega Araba che dopo aver appoggiato la no fly zone nel vertice di sabato scorso, nelle ultime 24 ore con il segretario Amr Moussa ha fatto marcia indietro affermando che «l’attacco è andato oltre i nostri obiettivi perché noi volevamo proteggere i civili, non ucciderli». E tale capovolgimento di posizione spiega come fra i 22 Stati membri solo il Qatar abbia accettato di partecipare all’attacco. Sebbene Obama abbia chiamato lo sceicco degli Emirati Arabi e Joe Biden abbia fatto lo stesso con i leader di Algeria e Kuwait, non sono arrivati altri assensi. L’Unione Africana è ancora più ostile alla guerra e con un comunicato diramato da Nouakchott, in Mauritania, chiede «l’immediata fine di tutti gli attacchi alla Libia» limitandosi a domandare a Gheddafi di far arrivare «aiuti umanitari a chi ne ha bisogno». Senza un consistente numero di alleati arabi e africani la coalizione rischia di assomigliare troppo alla Nato, anche perché le potenze economiche emergenti - Brasile, India, Indonesia e Turchia - hanno fatto capire che preferiscono restare alla finestra. La Russia fra l’altro chiede la «fine degli attacchi contro gli obiettivi non militari», mentre la Cina con il proprio ministro degli Esteri Yang Jiechi esprime un «rammarico» che punta a raccogliere consensi in Africa e Sud America, dove i suoi investimenti già rivaleggiano a testa alta con quelli americani.

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI A Damasco la svolta di Obama
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2011, 12:07:42 pm
26/3/2011

A Damasco la svolta di Obama

MAURIZIO MOLINARI

Barack Obama apre il fronte siriano dell’impegno per «il rispetto dei diritti universali» nel mondo arabo, sostenendo il domino delle rivolte fino alle porte dell’Iran degli ayatollah.

Mentre le cancellerie di mezzo mondo erano intente a scrutare i corridoi di Bruxelles attendendo la composizione dei dissidi atlantici sul passaggio del comando di Odyssey Dawn dal Pentagono alla Nato, Obama ha pianificato dallo Studio Ovale tutt’altra partita, spostando il focus su Damasco. Nell’arco di 24 ore Robert Gates ha chiesto ai militari siriani di «farsi da parte» per «rendere possibile una rivoluzione», richiamandosi al precedente egiziano, e la Casa Bianca ha accusato le «forze di sicurezza» di Bashar Assad di una «brutale repressione» simile a quella di Muammar Gheddafi in Libia. Forse preavvertita sull’entità delle sommosse in Siria da un’intelligence in affannosa ricerca di riscatti dopo i passi falsi in Maghreb, l’amministrazione Obama compie in fretta le sue mosse lasciando intendere che il tassello di Damasco vale molto nel mosaico della primavera araba.

Per tre motivi.
Primo: se finora le rivolte hanno investito il Nord Africa e la Penisola Arabica, ora arrivano nel cuore dell’asse Iran-Siria-Libano, avversario strategico di Washington tanto sul nucleare di Teheran che sulla pace in Medio Oriente.

Secondo: se Ben Ali, Mubarak e Gheddafi assieme ai leader di Yemen e Bahrein rappresentano autocrazie e regimi appesantiti da decadi di illibertà, Bashar Assad è invece uno dei governanti più giovani e da meno tempo al potere, ma le sue timide promesse di riforme non sembrano più sufficienti a placare le piazze, lasciando intendere che anche la Giordania di re Abdallah e il Marocco di Mohamed VI potrebbero essere a rischio.

Terzo: se i generali siriani dovessero seguire l’esempio dei colleghi egiziani nel non difendere un regime delegittimato, il ruolo delle forze armate nel consentire le rivoluzioni diventerebbe una costante regionale, proprio come avvenne in America Latina e in Estremo Oriente negli Anni Ottanta.

Ma non è tutto, perché le rivolte arabe hanno riflessi anche negli equilibri a Washington, dove in questa fase sembra essere in ascesa il ruolo di Robert Gates. Il capo del Pentagono ha tentato di evitare la «no fly zone» sulla Libia e non vede l’ora di passare la mano alla Nato con la stessa determinazione con cui affonda i colpi sulla Siria di Assad. In entrambe le occasioni la convergenza con Obama è stata evidente, relegando in secondo piano il segretario di Stato Hillary Clinton, per non parlare del consigliere per la sicurezza Tom Donilon, quasi assente. L’intesa nel segno del pragmatismo fra l’ex capo della Cia di Bush padre e il Presidente democratico segna le scelte
dell’America. Anche perché spostando il fronte arabo da Tripoli a Damasco Gates aiuta Obama sue due fronti: contribuendo a rompere l’assedio del Congresso alla Casa Bianca sulla gestione di Odyssey Dawn e rilanciando in avanti la dottrina di Barack sulle rivoluzioni non violente uscita vincente da piazza Tahrir.

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI “Se vuole la guida del Fmi l'Ue deve guadagnarsela”
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2011, 10:26:21 am
21/5/2011 - Intervista

“Se vuole la guida del Fmi l'Ue deve guadagnarsela”

Maurizio MOLINARI


Sadun, l'italiano del Fondo: “Non ci sono diritti acquisiti, la poltrona al migliore”
Per l’Europa la guida del Fmi non è un diritto acquisito, deve conquistarsela con il candidato migliore». A sostenerlo è Arrigo Sadun, direttore esecutivo italiano del Fmi, secondo cui il processo di designazione del successore di Dominique Strauss Kahn sarà «assai più articolato» rispetto al passato.

Quali sono le novità?

«Sarà una selezione aperta, senza preclusioni geografiche e trasparente perché verranno resi noti i criteri in base ai quali un candidato ha prevalso».

Quali qualità il Fmi cerca?

«Una esperienza di alto livello nella formulazione e gestione di politiche macroeconomiche, capacità manageriali di vasti organismi, doti diplomatiche e di anche comunicazione».

Barroso chiede la nomina di un europeo ma India e Cina rivendicano il posto. Sarà scontro?

«Non scontro ma competizione, che è l’obiettivo di un processo di selezione aperto. In realtà il presidente della Commissione Europea Barroso non rivendica un diritto esclusivo degli europei, bensì auspica la presentazione da parte dell’Ue del “candidato migliore”. E i rappresentanti delle economie emergenti vogliono che sia rispettato il principio che un loro candidato deve essere considerato».

L’Ue ha il “candidato migliore”?

«Credo di sì, tra i nomi circolati figurano il ministro delle Finanze francese Christine Lagarde e Jean-Claude Trichet, presidente uscente della Bce. E ve ne potrebbero esseri altri. Per portare un europeo alla guida del Fmi l’Europa deve esprimere un candidato unitario con le caratteristiche necessarie».

Che peso hanno le sfide che arrivano dai Paesi emergenti?

«I paesi emergenti sono in grado di proporre candidati ottimi. Nel passato però le loro possibilità di successo sono state compromesse dal fatto di essersi divisi e anche ora hanno numerosi candidati. Il Messico ne avrebbe addirittura due credibili. Oltre ai nomi di candidati di Sudafrica, India e Turchia».

Qual è il ruolo dell’Italia?

«Lavorando in concerto con i partner europei, l’Italia deve contribuire a selezionare un candidato unitario che abbia forti probabilità di essere accettato anche dai non europei. C’è un interesse generale di arrivare alla sostituzione di StraussKahn nel più breve tempo possibile e ciò giova ad una candidatura europea».

Quale è la missione che attende il successore di Strauss-Kahn?

«Strauss-Kah ha riposizionato il Fmi in sintonia con le nuove realtà dell’economia globale, riconoscendo l’accresciuto ruolo dei Paesi emergenti. Tutto ciò deve essere preservato ad ogni costo».

Non crede che il nuovo capo del Fmi avrà soprattutto il grattacapo dell’euro?

«Sembra proprio di sì, purtroppo la crisi del debito sovrano in alcuni Paesi periferici pare destinata a perdurare ed è una situazione che richiede stretta collaborazione tra autorità nazionali, istituzioni europee e Fmi. Proprio tali considerazioni suggeriscono la necessità di un europeo alla guida del Fmi».

Cina e India obiettano che non può essere un europeo a occuparsi della crisi dell’euro...

«Non sono d’accordo. L’idea che sia più appropriata una “medicina cinese o indiana a curare le malattie dell’Europa” mi sembra bizzarra. L’esperienza della crisi asiatica è largamente irrilevante alle condizioni degli europei, basti pensare che all’epoca la soluzione della crisi avvenne grazie a massicce svalutazioni valutarie, cosa impossibile per i Paesi dell’euro. Inoltre, vi sono fondamentali differenze tra le potenziali ripercussioni di una crisi di un Paese emergente e quelle che potrebbero essere scatenate anche da Paesi come Grecia e Portogallo. Infine, la struttura economica degli emergenti è diversa da quella di un Paese europeo dove la rete di protezione sociale è più estesa e costosa. Un non-europeo avrebbe bisogno di tempo per acquisire tale know-how e la comunità internazionale non può permettersi un lungo tirocinio per il capo del Fmi».

Solo un europeo può consentire al Fmi di aiutare l’Europa?

«Non necessariamente solo un europeo, ma un candidato europeo con le caratteristiche giuste avrebbe enormi vantaggi. Inoltre, occorre tener conto anche alcune sensibilità degli europei. Gli interventi congiunti del Fmi e delle istituzioni europee sono avvenuti sulla base di contributi per 2/3 da parte europea e 1/3 dal Fondo, e circa 1/3 delle risorse del Fondo sono di origine europea».

Che aria si respira al Fmi dopo lo scandalo di Strauss-Kahn?

«Ha avuto un impatto sul morale dello staff ma il Fondo è in grado di svolgere i suoi compiti in attesa del nuovo capo».

Cos’è che più fa male al Fondo nella vicenda Strauss-Kahn?

«L’accusa di certi ambienti che il Fmi è un bastione di machismo o sessismo, e che nel passato alcuni atteggiamenti inappropriati sono stati tollerati. Non credo che questa caratterizzazione sia sostenuta dai fatti, ma l’insinuazione fa male».

Come respingere tali sospetti?

«C’è una fortunata circostanza perché uno dei possibili candidati alla successione è una donna, Christine Lagarde. Sarebbe la prima volta di una donna alla guida di un’importante istituzione finanziaria internazionale e una tale scelta sarebbe un passo avanti per assicurare al Fondo una maggiore diversità».

da - lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Il pressing su Obama
Inserito da: Admin - Giugno 26, 2011, 11:10:55 am
26/6/2011

Il pressing su Obama

MAURIZIO MOLINARI

Lo Stato di New York legalizza le nozze gay sfidando i conservatori e facendo capire alla Casa Bianca che è questo il terreno sul quale i liberal giudicheranno Barack Obama nella campagna elettorale del 2012. Con 33 voti a favore e 29 contrari il Senato di Albany ha approvato la proposta del governatore Andrew Cuomo che trasforma New York nel sesto Stato dell’Unione dove gay, lesbiche e transgender posso essere legalmente uniti in matrimonio. Ma rispetto alle altre roccaforti dei diritti gay, New York ha in più un peso politico - dovuto alla demografia - ed economico - per il fatto di essere la cassaforte del partito democratico - destinato ad avere un impatto significativo sull’orientamento dell’elettorato liberal.

Ad avvalorare l’impressione che l’italoamericano Cuomo abbia voluto mandare un messaggio forte alla Casa Bianca c’è la scelta dei tempi di questa iniziativa: nel bel mezzo del mese che proprio il Presidente ha dedicato al rispetto dei diritti di «gay, lesbiche e transgender» nonché sulla scia di singole manifestazioni di dissenso, da Los Angeles a Fort Drum, che hanno visto Obama contestato da attivisti pro gay in eventi elettorali, a volte anche in maniera clamorosa. Per la Casa Bianca ciò significa trovarsi di fronte allo scenario di doversi schierare sulla questione di una delle dispute etiche che - assieme all’aborto più ripropongono le spaccature fra liberal e conservatori che Obama sin dalla campagna del 2008 ha detto di voler sanare e superare. Nel tentativo di rispondere alle richieste dei gruppi per la difesa dei diritti dei gay, il Presidente negli ultimi due anni e mezzo ha già compiuto numerosi passi: la repulsione della legge clintoniana sul «don’t ask don’t tell», che discriminava gli omosessuali e le lesbiche nelle forze armate, e la scelta di non difendere in tribunale la legge che limita il matrimonio all’unione fra un uomo e una donna, hanno lasciato intendere a quali valori Obama vuole dare più attenzione.

Ma se finora ha evitato di pronunciarsi apertamente a favore delle nozze gay è perché i sondaggi suggeriscono che fra gli afroamericani come fra gli ispanici - due minoranze di importanza per lui cruciale in vista delle presidenziali del 2012 - è un tema che divide più che unire. Spaccare i democratici su questo tema finirebbe per giovare agli sfidanti repubblicani. D’altra parte la Casa Bianca si trova nella necessità di mandare un chiaro messaggio allo zoccolo duro liberal del partito democratico, assai scontento per le scelte compiute dall’amministrazione su sicurezza nazionale, carcere di Guantanamo e soprattutto economia, a causa della mancata ripresa dell’occupazione. Da qui il bivio di fronte al quale si trova Barack Obama: raccogliere l’invito di New York a «fare qualcosa di sinistra» facendo propria la battaglia per la legalizzazione delle nozze gay avversate in 39 dei 50 Stati - per ravvivare l’entusiasmo della base democratica, oppure evitare di schierarsi apertamente per scongiurare il rischio di perdere sostegno fra le minoranze decisive per la conquista di Stati come la Florida e il New Mexico. La scelta che farà svelerà molto non solo riguardo ai valori del Presidente, ma anche sulle sue strategie elettorali.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8897&ID_sezione=&sezione=


Titolo: MAURIZIO MOLINARI I Tea party contro Boehner: i suoi tagli non sono sufficienti
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2011, 06:05:15 pm
28/7/2011 - IL CASO

Slitta la scadenza del 2 agosto

Ma è rissa tra i repubblicani

I Tea party contro Boehner: i suoi tagli non sono sufficienti

Maurizio MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Nel partito repubblicano scoppia la rissa sulla riduzione del deficit rendendo più difficile al Congresso un accordo bipartisan sul debito: la Casa Bianca corre ai ripari e, per guadagnare tempo prezioso, sposta il default oltre la prevista scadenza del 2 agosto grazie ad artifici finanziari.

Quanto sta avvenendo nei ranghi repubblicani è una vera e propria rivolta. A guidarla è il deputato dell’Ohio Jim Jordan, capo del Centro studi della Camera, che può contare su una pattuglia di 40 eletti grazie ai voti del Tea Party. La contestazione colpisce John Boehner, presidente della Camera e leader di punta del partito, perché il piano sulla riduzione del deficit che ha presentato «non garantisce i progressi necessari per rimettere in piedi la nazione» recita un comunicato del Tea Party Express. Il problema nasce dal fatto che il piano di Boehner sulla carta prevede mille miliardi di tagli alla spesa pubblica in 10 anni - come prima tranche di un processo in due fasi - ma l’esame dell’Ufficio bilancio del Congresso ha appurato che in realtà la riduzione che produrrà sarà di soli 850 miliardi. Per la pattuglia del Tea Party, che già considerava insufficiente i mille miliardi, si tratta della conferma che Boehner «è protagonista di negoziati infruttuosi con Obama» accusa Phil Gingrey della Georgia mentre Jeff Flake dell’Arizona sospetta che «non si vuole tagliare nulla». I protagonisti della sollevazione sono politici conservatori di ultima generazione e l’America in gran parte non li conosce ma Trey Gowdy della South Carolina assicura: «Non siamo uomini della caverne, vogliamo solo rispettare il mandato ricevuto dagli elettori di ridurre sul serio deficit e debito». A sostenere i ribelli ci sono centinaia di sezioni del Tea Party che in un memorandum affermano: «Chiunque voterà il piano di Boehner violerà l’impegno a risanare il bilancio».

Per Boehner è uno smacco che brucia, deve ingoiare il rinvio di 24 ore del voto in aula sul suo piano anti-default perché non ha voti a sufficienza. La reazione è brusca: «Mettete i vostri sederi in riga e sostenete il piano per evitare il default» tuona il presidente della Camera, ammettendo che «senza di voi non posso farcela».

La spaccatura fra i repubblicani gioca a favore dei democratici che al Senato sono invece concordi sul piano di Harry Reid, capo della maggioranza, per 2.700 miliardi di tagli in 10 anni senza aumenti di tasse che l’Ufficio bilancio del Congresso ha certificato a 2.200.

Ma l’ipotesi di un compromesso bipartisan resta lontana ed a cinque giorni dalla scadenza del 2 agosto - quando sarà raggiunto il tetto di indebitamento di 14.300 miliardi - il primo default della Storia americana si paventa come una minaccia sempre più incombente. Da qui la decisione dell’amministrazione Obama di guadagnare più tempo, facendo sapere a banche e istituzioni finanziarie che il ministero del Tesoro «ha in cassa più soldi del previsto» grazie a entrate fiscali finora sottovalutate e dunque il default sarebbe rinviato di alcuni giorni, forse una settimana, dando più tempo al Congresso per raggiungere un accordo.

Ma la somma fra peso del debito, incertezze sui tagli e debolezze politiche spinge un crescente numero di analisti finanziari a prevedere che pur evitando il default gli Stati Uniti finiranno per subire una riduzione del rating, perdendo l’ambita tripla A assegnata da Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. «L’opinione prevalente è che all’ultimora il Congresso aumenterà il tetto del debito spiega Guy LeBas, direttore di Janney Capital Markets - ma il taglio del rating diventa sempre più probabile». Il motivo è «la carenza di fiducia nell’economia americana» aggiunge Sean Incremone, economista di 4Cast, perché «il Pil cresce poco, la produzione industriale rallenta, la disoccupazione aumenta ed ora si aggiunge l’incertezza sul debito». Goldman Sachs va oltre, attribuendo alla rissa politica sul debito una «diminuzione della fiducia dei consumatori sproporzionata rispetto al rallentamento dell’economia». A pesare sulla contrazione dei consumi sarebbe dunque la sfiducia degli americani nella propria leadership politica.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2132


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Ha mantenuto l'impegno di tenere gli Usa uniti
Inserito da: Admin - Agosto 04, 2011, 09:53:23 am
4/8/2011 - OBAMA - IL SUCCESSO

Ha mantenuto l'impegno di tenere gli Usa uniti

MAURIZIO MOLINARI

Indebolito dai sondaggi, accusato di tradimento dai liberal e di debolezza dai conservatori, Barack Obama taglia il traguardo dei 50 anni restando fedele alla promessa fatta agli elettori quando nel 2007 lanciò la corsa alla Casa Bianca. Allora l’impegno fu a «unire la casa divisa» cercando di armonizzare le posizioni di liberal e conservatori, richiamandosi all’esempio di Lincoln sulla necessità di «governare con i nemici» per rilanciare il Paese.

Sulla sicurezza nazionale lo ha fatto grazie alla combinazione droni-intelligence-truppe speciali, declinando la guerra ai jihadisti ereditata da Bush nella formula militare che ha consentito di eliminare Bin Laden. Sull’economia ha dimostrato nell’appena conclusa battaglia sul debito di essere pronto a pesanti compromessi con i repubblicani pur di scongiurare catastrofe e recessione. Obama resta determinato a unire l’America, anche se potrebbe costargli la rielezione nel 2012.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9061


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Usa e Europa si sfilano "Da noi nessun soldato"
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2011, 04:16:37 pm
22/8/2011 - RETROSCENA

L'incubo del dopo-regime

Usa e Europa si sfilano "Da noi nessun soldato"

Dubbi sulla transizione: sarà nelle mani dei libici

MAURIZIO MOLINARI

Nessun invio di truppe di pace internazionali, mantenimento della sicurezza affidato alle forze ribelli e risoluzione dell’Onu sulla ricostruzione civile, che vedrà gli europei assumersi le maggiori responsabilità: è questa la «road map» per il dopo-Gheddafi in Libia come si delinea dai contatti in corso fra le capitali della Nato e nei briefing del presidente americano Barack Obama in vacanza a Martha’s Vineyard.

L’accelerazione dell’offensiva dei ribelli contro Tripoli ha stravolto le brevi vacanze di Obama nell’enclave dei vip, obbligandolo a separarsi a più riprese da moglie e figlie per esaminare, con il consigliere sui temi della sicurezza John Brennan, lo scenario che sta maturando.

Se le preoccupazioni immediate riguardano il rischio di una carneficina a Tripoli, con i persistenti tentativi americani di indurre Gheddafi a lasciare volontariamente il potere, nei contatti con gli alleati la Casa Bianca è impegnata a concordare lo scenario del «dopo».

La convergenza che trapela, da fonti americane ed europee, è sulla scelta di non inviare una missione di peacekeeping internazionale, affidando al Consiglio di transizione nazionale libico (Cnt) il mantenimento della sicurezza. «Obama resta fedele alla scelta di non mandare soldati in Libia e gli europei non hanno voglia di farlo per evitarne i costi economici» spiega Daniel Serwer, ex diplomatico americano a Roma nonché autore del recente studio «L’instabilità nella Libia del dopo-Gheddafi» del «Council on Foreign Relations».

D’altra parte il leader della coalizione dei ribelli, Mahmoud Jibril, negli incontri avuti in più capitali Nato si è vantato di «guidare una rivoluzione» che «sarà in grado di assumere la guida del Paese», portando come prova la «stabilità delle aree finora liberate». Il primo ministro ad interim, Mahmud El-Warfally, durante una tappa a Washington ha illustrato un «piano di transizione» che prevede la formazione di un governo transitorio «con la presenza di tutte le componenti dell’opposizione» per preparare le elezioni al Parlamento, affiancato da «tre commissioni su ricostruzione, riconciliazione e istituzioni».

Quella sulla «riconciliazione» si ispira al precedente sudafricano nel dopo-apartheid per «evitare vendette», ma nella Nato serpeggiano timori in proposito, come osserva il ministro degli Esteri canadese John Baird, mettendo le mani avanti: «La transizione non sarà perfetta». Al fine di aiutare i ribelli, la «road map» prevede l’invio a Tripoli subito dopo la caduta di Gheddafi di una «missione di monitoraggio» composta da Paesi arabi - e forse guidata dagli Emirati - destinata a testimoniare il sostegno della comunità internazionale al governo ad interim. Questo dovrebbe poi essere sancito da una risoluzione Onu sulla ricostruzione, che aprirà la strada ai contributi dei singoli Paesi.

A conferma di quanto tale scenario sia avanzato c’è il fatto che l’Italia ha già iniziato a operare per riattivare i settori destinati a essere di sua competenza: sicurezza dei porti, dogane, sanità e indipendenza dei media. La principale preoccupazioneresta tuttavia la sicurezza. Il generale canadese Vance ammonisce a «non accelerare il ritiro della Nato in assenza di una chiara composizione politica», mentre fonti militari britanniche temono di «andare incontro a una disastrosa vittoria», se la caduta di Gheddafi finirà per innescare una «resa dei conti tra le fazioni dei ribelli, a cominciare da berberi e cirenaici».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2155&ID_sezione=58


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Su Tripoli il fantasma di Saddam
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2011, 10:07:24 am
23/8/2011

Su Tripoli il fantasma di Saddam


MAURIZIO MOLINARI

L’arrivo dei ribelli libici sulla Piazza Verde di Tripoli premia la strategia della Nato contro il colonnello Muammar Gheddafi ma il rischio che in queste ore gli alleati temono di più è l’inizio di una faida fratricida fra vincitori e vinti che potrebbe travolgere la transizione prima ancora del suo inizio. Per i consiglieri del presidente americano Barack Obama come per i generali dell’Alleanza atlantica lo spettro è il ripetersi di quanto avvenne a Baghdad dopo la caduta di Saddam Hussein nell’aprile del 2003, allorché i vincitori considerarono tutti i baathisti sunniti come dei nemici, spingendoli nelle braccia della guerriglia islamica. Allora venne innescato un vortice di sanguinose violenze che in più occasioni ha rischiato di degenerare in guerra civile.

Anche in Libia può nascere un’alleanza fra lealisti sconfitti del deposto dittatore e islamici, in ragione della presenza di molti jihadisti veterani proprio dell’Iraq. E’ questa la genesi della richiesta di Obama al Consiglio dei ribelli di guidare una transizione «pacifica, inclusiva e giusta» al fine di coinvolgere i lealisti di Gheddafi nella costruzione della nuova nazione. Anziché ripetere l’errore iracheno, Obama si richiama al successo del Sudafrica di Nelson Mandela che dopo la fine dell’apartheid affidò ad una commissione ad hoc la riconciliazione con i bianchi. Del precedente di Pretoria si è parlato spesso nelle visite a Washington degli inviati dei ribelli libici ed ora la Casa Bianca si aspetta che gli impegni presi vengano rispettati, anche perché la Nato continua a sentirsi vincolata alla risoluzione Onu sulla «protezione dei civili» sulla base della quale ha sostenuto la rivoluzione iniziata in febbraio nelle piazze di Bengasi.

Se l’intenzione di europei ed americani è evitare un nuovo Iraq nel bel mezzo del Mediterraneo resta da vedere quali sforzi saranno disposti a compiere per garantire il successo della ricostruzione in un Paese devastato da 42 anni di dittatura, al punto da non avere più alcun brandello di istituzione, neanche a livello locale. Al momento la scelta di non inviare una missione di peacekeeping come invece fatto in Kosovo nel 1999 - anche allora la Nato aveva piegato l’avversario solo con una campagna aerea - è frutto del timore di delegittimare i ribelli, degli accordi raggiunti con la Lega Araba contraria all’invio di truppe occidentali e, soprattutto, delle difficoltà finanziarie con cui i maggiori partner della Nato si trovano a fare i conti.

Resta da vedere se remore politiche, compromessi diplomatici e problemi di bilancio basteranno a giustificare la scelta di non inviare contingenti di pace e stabilizzazione nel caso in cui la transizione dovesse fallire prima ancora del debutto. Anche perché è questa l’ultima carta che il colonnello sta tentando di giocare, nascosto sotto una tenda invisibile del deserto o in un bunker. L’esito dell’ultimo capitolo della battaglia di Tripoli è decisivo per comprendere cosa avverrà nel dopo: spingendo i fedelissimi a combattere fino all’ultimo Gheddafi vuole inondare la Piazza Verde di sangue libico per far coincidere la sua caduta con l’inizio di una guerra civile che immagina di poter manovrare dal deserto della Sirte, roccaforte delle ultime tribù a lui fedeli.

Quella di Gheddafi è la strategia della disperazione ma trattandosi di uno spietato guerriero beduino che è stato addestrato all’arte della guerra all’Accademia militare di Sandhurst dagli ufficiali di Sua Maestà britannica non può essere dato per sconfitto fino al momento della definitiva resa o della morte.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9116


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Effetto domino su Assad
Inserito da: Admin - Agosto 24, 2011, 09:56:14 pm
24/8/2011

Effetto domino su Assad

MAURIZIO MOLINARI

Dopo aver eliminato Osama bin Laden e rovesciato Muammar Gheddafi il presidente americano Barack Obama punta alla caduta di Bashar Assad.

La Casa Bianca non ama l’espressione «presidente di guerra», evita di parlare di «missioni compiute» e teorizza il ruolo di leadership americana nel mondo «guidando dal sedile posteriore» ma ciò non toglie che da Abbottabad a Tripoli fino a Damasco stia prendendo forma una dottrina Obama contro despoti e dittatori. Per capire di cosa si tratta bisogna ascoltare Ben Rhodes.

Il trentenne esperto di strategia che scrive gran parte dei discorsi di Obama sulla sicurezza nazionale, quando afferma che «questa amministrazione segue politiche diverse su ogni scenario» partendo dalle «condizioni sul terreno». Nel caso di Bin Laden l’eliminazione è arrivata con la formula militare che coniuga intelligence, droni e forze speciali perché ha consentito di operare sul terreno di un Paese alleato come il Pakistan a dispetto dei suoi servizi segreti, considerati infiltrati da elementi jihadisti. Si è trattato dunque di un’operazione tutta americana mentre nel caso dell’intervento in Tripoli la scelta è stata di puntare sull’accoppiata fra legittimazione internazionale - la risoluzione Onu, il sostegno della Lega Araba e l’intervento della Nato - e il sostegno ai ribelli con metodi non tradizionali come l’addestramento da parte delle forze speciali, la forniture d’armi giunte da Paesi alleati e l’impiego delle più sofisticate apparecchiature di intelligence per suggerire alle tribù berbere quando iniziare l’assalto finale verso la Piazza Verde di Tripoli. Nel caso della Siria la formula a cui si affida l’amministrazione Obama è un’altra ancora: nessun intervento militare ma massiccio sostegno all’opposizione interna grazie a gioielli della tecnologia come le valigette che consentono di creare reti Internet capaci di sfuggire alla sorveglianza del regime, nella convinzione che il movimento di protesta interna contro Assad ha dimensioni tali da aver determinato una «cambiamento di rapporti di forza sul terreno», come li definisce William Burns, vice del Segretario di Stato Hillary Clinton, riferendosi all’indebolimento degli apparati di sicurezza del regime.

L’unico tassello che accomuna l’operazione-Siria della Casa Bianca a quella libica sta nel costante lavorìo diplomatico per accrescere l’isolamento del dittatore con un misto di sanzioni nazionali, multilaterali e, quando possibile, delle Nazioni Unite. La differenza di approcci alle crisi presenti nel mondo arabo-musulmano può fa apparire l’amministrazione Obama incerta, ambigua e in contraddizione ma per Rhodes e Burns la coerenza sta nella «direzione di marcia» ovvero la decisione di mettere alle strette gli avversari dell’America ovunque si trovano, facendo leva sui mezzi pragmaticamente disponibili. Questo approccio ha il vantaggio di rendere Obama imprevedibile per i suoi avversari, che spesso lo sottovalutano, andando incontro a errori fatali. Bin Laden era sicuro di poter sfuggire alla caccia dei droni, Gheddafi pensava di fare tranquillamente strage degli abitanti di Bengasi e Assad ha continuato a promettere candidamente «riforme» mentre ordinava di sparare ad alzo zero sulle manifestazioni di piazza. Il risultato è uno scacchiere arabo-musulmano dove gli avversari dell’America che Obama ha ereditato da George W. Bush sono in questo momento caduti o sulla difensiva. Con l’eccezione dell’Iran di Mahmud Ahmadinejad che ha avuto successo nel reprimere le proteste e continua ad inseguire l’atomica. Ma alla Casa Bianca assicurano che l’«indebolimento di Assad investe l’Iran» usando un linguaggio da effetto-domino, seppur non dichiarato.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9122


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Washington vertice dei Brics per salvare l'euro
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2011, 11:51:16 am
14/9/2011

Europa in crisi

Arriva il soccorso degli emergenti

Washington vertice dei Brics per salvare l'euro

Maurizio MOLINARI

CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Le economie emergenti che compongono il gruppo dei Brics discuteranno la prossima settimana a Washington un piano di aiuto finanziario per l’Europa afflitta dalla crisi del debito. A dare l’annuncio dell’insolita operazione di soccorso è il ministro delle Finanze brasiliano Guido Mantega che da Brasilia fa conoscere la «determinazione dei nostri Paesi ad aiutare l’Unione Europea ad uscire dall’attuale situazione di difficoltà». I ministri finanziari di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica - le cui iniziali compongono l’acronimo Brics - si vedranno a Washington giovedì in coincidenza con gli incontri autunnali di Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale per «presentare un piano teso a stabilizzare l’economia e i mercati globali» come fonti del governo brasiliano anticipano.

Se ciò dovesse avvenire si tratterebbe di un’ulteriore conferma dei nuovi equilibri finanziari internazionali. L’ipotesi allo studio è - secondo indiscrezioni pubblicate da Valor Economico - di aumentare le riserve finanziarie in euro dei Brics investendo anzitutto nella nazione considerata più solida, la Germania, e nella Gran Bretagna, sebbene non appartenga alla zona euro. A spingere verso l’acquisto di titoli di Stato europei ci sarebbe anche l’atmosfera di sfiducia che circonda quelli americani dopo il downgrade deciso da Standard & Poor’s a inizio agosto. In tale scenario la Cina dispone delle maggiori opzioni poiché le sue riserve in valuta straniera, 3200 miliardi di dollari, sono le più consistenti del Pianeta. Sommate a quelle dell’India e del Brasile, rispettivamente di 320 e 350 miliardi di dollari, consentono ai Brics di avere ampi margini di manovra per sostenere l’euro. Resta tuttavia l’interrogativa su Mosca, che ha riserve per 524 miliardi di dollari.

Un’altra strada possibile, secondo fonti russe a Washington, potrebbe essere infatti di ricorrere agli “speciali diritti di prelievo” (Sdr) del Fmi per sostenere le nazioni in difficoltà. Il gestore dei fondi russi alla Deutsche Bank di Francoforte, Odeniyaz Dzhavparov, spiega che «benché Mosca non tragga alcun beneficio dall’instabilità dell’Europa non credo che il Cremlino deciderà di ricorrere alle riserve della Banca Centrale per varare degli interventi diretti ma forse preferirà un intervento attraverso il Fmi per andare a sostenere i Paesi più deboli del Sud» a cominciare da Grecia, Spagna e Italia.

«Quale che sia la formula che alla fine prevarrà un accordo fra i Brics garantirebbe una risposta collettiva internazionale alla crisi europea - commenta Tony Volpon, economista di Nomura così come il G20 la diede dopo il crollo di Lehman Brothers». Ironia della sorte vuole che le nazioni Brics hanno tutte redditi procapite di molto inferiori ai partner dell’Ue che si propongono di aiutare. Il pil procapite russo, che è il più alto dei Bric, è stato nel 2010 di 15.900 dollari ovvero circa la metà dei 30.500 dollari dell’Italia mentre per nazioni più povere, come l’India, si scende ad appena 3500 dollari l’anno pari a 6,7 volte meno del Portogallo, il Paese Ue più povero d’Europa. Nel caso del Brasile il pil procapite è di 10.800 dollari e della Cina di 7.600 dollari ma la maggiore stabilità finanziaria si rivela più importante della ricchezza e consente ai Bric di immaginare il salvataggio delle stesse nazioni che finora hanno guidato molteplici interventi di sostegno, in America Latina come in Asia e Russia.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2184


Titolo: MAURIZIO MOLINARI L'Ue sotto accusa al summit Fmi
Inserito da: Admin - Settembre 25, 2011, 11:00:38 am
23/9/2011 - IL CASO

L'Ue sotto accusa al summit Fmi

"Reagisca subito"

La Banca mondiale: applicate gli accordi di luglio Vertice dei Brics: "Pronti ad aiutare l'Europa"

Maurizio MOLINARI
INVIATO A WASHINGTON

Christine Lagarde e Robert Zoellik parlano di economia globale in zona di rischio a causa della crisi dell’euro, sette nazioni del G20 chiedono all’Ue «misure urgenti» e i Brics si dicono disposti partecipare ad un’operazione-salvataggio: l’assemblea annuale del Fmi si apre oggi con l’Europa sul banco degli imputati. «La crisi finanziaria arrivata in zona di rischio» afferma Robert Zoellik, presidente della Banca Mondiale, illustrando l’agenda. «La ricaduta nella recessione è improbabile ma la crescita è in pericolo e tocca ai Paesi industrializzati mettere in ordine i conti» aggiunge l’americano Zoellick, avvertendo che «se ciò non avverrà la conseguenza avremo il contagio delle economie emergenti che producono metà del pil globale».

Pochi minuti dopo Christine Lagarde, direttore esecutivo del Fmi, parla all’unisono nella sala conferenze della I Street: «Siamo interconnessi, ci troviamo in una fase di pericolo e il motivo è anzitutto dovuto alle due crisi europee, il debito sovrano e le banche». La richiesta ad Eurolandia è di «applicare in fretta gli accordi raggiunti al summit del 21 luglio perchè il fattore-tempo è fondamentale» incalza Lagarde al fine di far comprendere alle litigiose capitali dell’euro che il problema è «nella differenza esistente fra gli impegni presi e le azioni adottate in seguito». La pressione, verbale e politica, nei confronti dell’Ue è riassunta dall’espressione «bisogna fare in fretta» che Lagarde e Zoellick ripetono, ribadendo sostegno per le «giuste decisioni adottate dall’Europa» per lamentare che gli aiuti alla Grecia ancora non sono arrivati, le banche traballano e la coesione monetaria resta incompleta. «Sappiamo tutti che dietro queste difficoltà economiche ci sono problemi di integrazione politica fra nazioni che per secoli sono state in guerra fra loro» è l’ammissione della francese Lagarde.

Terminate le conferenze stampa, a prendere il testimone delle pressioni sull’Europa sono i ministri di sette Paesi del G20 che scrivono alla presidenzadi turno francese per esplicitare la richiesta che sarà in cima all’agenda dei lavori: «Governi e istituzioni della zona euro devono agire in fretta per risolvere la crisi della moneta unica al fine da prevenire il contagio dell’economia globale». Australia, Canada, Indonesia, Gran Bretagna, Messico, Sudafrica e Sud Corea rappresentano uno schieramento nuovo negli equilibri dell’economia globale, lasciando intendere che Eurolandia è sotto assedio: «Devono considerare tutte le opzioni possibili per assicurare la stabilità di lungo termine della seconda valuta internazionale del mondo».

Il ministro del Tesoro americano, Tim Geithner, si esprime in marcata sintonia: «Prevenire il default della Grecia è più importante che sostenere la crescita europea, gli Stati Uniti nel 2008 reagirono in fretta alla crisi e così ora devono fare i Paesi della zona euro». «Abbiamo fiducia nell’Unione Europea e sappiamo che il Fmi ha la capacità di aiutare in simili situazioni» termina Geithner ed a spiegare cosa intende arriva nel pomeriggio il comunicato congiunto dei ministri delle Finanze e dei governatori delle Banche centrali dei Brics. Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica si dicono «aperti a considerare, se necessario, ulteriore sostegno al Fmi o ad altre istituzione finanziarie internazionali per affrontare le sfide alla stabilità globale» ovvero per aiutare l’Europa.

Il ministro delle Finanze brasiliano, Guido Mantega, è lapidario: «La crisi nella quale ci troviamo nasce dall’Unione Europea come quella del 2008 si originò dagli Stati Uniti, gli europei stanno impiegando troppo tempo per trovare una soluzione, devono essere più veloci e cooperare in maniera più efficace perché il rischio è un indebolimento del commercio internazionale e dunque un rallentamento della crescita dei nostri Paesi». Ministri e governatori di Cina e India confermano che «abbiamo esaminato possibili aiuti all’Europa» evitando di entrare nei dettagli, che vengono però discussi in maniera informale durante la cena ministeriale del G20.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2191&ID_sezione=58


Titolo: MAURIZIO MOLINARI L'ultima scommessa dell'America
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 12:13:05 pm
11/10/2011

L'ultima scommessa dell'America

MAURIZIO MOLINARI

Barack Obama sostiene l’iniziativa francotedesca per restituire stabilità a Eurolandia perché la ritiene l’unica capace di portare ad un forte accordo al G20.

Dietro le telefonate della Casa Bianca al presidente francese Sarkozy, al premier britannico Cameron ed alla cancelliera tedesca Merkel c’è una convergenza di intenti su cosa fare e una questione di tempi da rispettare. La convergenza sta nella necessità di rafforzare il pacchetto di misure europee varate il 21 luglio scorso su due fronti: aggiungere un piano per la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà e aumentare le dimensioni del fondo «European Financial Stability Facility» per far fronte a pericoli finanziari considerevolmente aumentati negli ultimi settanta giorni. Sull’urgenza di questa piattaforma c’è una convergenza anche più ampia, come la recente assemblea annuale del Fmi ha dimostrato, perché le maggiori economie emergenti, a cominciare dalla Cina, ritengono che l’Europa ha avuto bisogno di troppo tempo per ratificare gli impegni del 21 luglio e dunque devono essere rafforzati. E’ proprio questa convergenza fra Usa, anglofrancotedeschi e economie emergenti la piattaforma sulla quale Obama e Sarkozy puntano a guidare il G20 di Cannes verso un accordo globale a sostegno della zona-euro. Ma affinché ciò possa avvenire il fattore-tempo è decisivo: il summit del G20 inizia il 3 novembre e per quella data i 17 Paesi dell’euro dovranno aver concordato il piano di salvataggio per consentire agli altri partner di sostenerlo con interventi individuali e multilaterali. Ciò significa che l’Europa ha appena 22 giorni di tempo per adottare le nuove misure ed affinché ciò avvenga Obama non vede alternative all’iniziativa Sarkozy-Merkel, che ha ottenuto ieri il sostegno di Londra. La chiave dell’intesa con Obama sta dunque nell’impegno preso domenica per iscritto da Parigi e Berlino di «avere il piano pronto per la fine del mese», ovvero in tempo per recapitarlo a Cannes. Il timore della Casa Bianca è che, se i dissensi politici nell’Unione Europea dovessero ostacolare questo percorso a tappe accelerate, il G20 potrebbe finire per ratificare l’impossibilità di aiutare l’euro a scongiurare il peggio, con effetti negativi a pioggia sulla debole crescita americana, sulla quale continua a incombere l’incubo della recessione.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9306


Titolo: MAURIZIO MOLINARI L'accelerazione di Washington con Teheran
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2011, 04:44:01 pm
13/10/2011

L'accelerazione di Washington con Teheran

MAURIZIO MOLINARI

Con la scelta di chiamare in causa Teheran per il presunto complotto contro l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti, il ministro della Giustizia Eric Holder ha dato inizio ad una nuova fase della politica iraniana di Barack Obama. Arrivato alla Casa Bianca offrendo negoziati segreti sul nucleare ad Alì Khamenei e sostenitore della realpolitik con gli ayatollah fino al punto da esitare nel sostegno ai moti dell’Onda Verde del giugno 2009, il presidente americano ora affida al proprio vice, Joe Biden, il compito di far sapere a Teheran che «tutte le opzioni sono sul tavolo» per rispondere alla sfida alla sovranità nazionale pianificata da un cittadino iranianoamericano, Manssor Arbarbsiar, d’intesa con un agente della Forza Al Quds, l’unità scelta dei pasdaran. Alla genesi di tale capovolgimento di approccio alla Repubblica Islamica vi sono tre motivi convergenti: le rivolte arabe in Medio Oriente, la debolezza politica di Obama in patria e la guerra segreta dell’intelligence contro gli iraniani.

Barack Obama è convinto che le rivolte arabe sono il tema di politica estera più importante del quadriennio perché ridisegnano il quadro strategico in Medio Oriente e Nord Africa obbligando l’America e trovare nuove ricette per tutelare i propri interessi. Schierandosi a sostegno delle rivolte, Obama ha identificato nel campo opposto chi sostiene gli autocrati e poiché la «primavera» più incandescente è quella siriana gli avversari dell’America sono coloro che consentono al regime di Bashar Assad di continuare la repressione che ha già fatto, secondo l’Onu, oltre 2800 vittime. Assad ha molti alleati politici, da Mosca a Pechino, ma un unico partner militare: l’Iran di Mahmud Ahmadinejad. Per Obama è una minaccia strategica che rivaleggia con il programma nucleare perché se i servizi di sicurezza siriani, coadiuvati da quelli iraniani, dovessero riuscire a mettere a tacere le proteste ripetendo il successo di Teheran contro l’Onda Verde ad uscire sconfitta sarebbe la scelta, annunciata sin dal discorso al Cairo nel giugno 2009, di affidare la proiezione della leadership americana in Medio Oriente al sostegno per chi si batte in favore del rispetto dei diritti universali dell’individuo.

Se a ciò si aggiunge che Leon Panetta, un fedelissimo di Obama, prima nelle vesti di capo della Cia e poi di ministro della Difesa, ha esposto nello Studio Ovale le prove raccolte sul sostegno di Teheran alle milizie sciite in Iraq non è difficile dedurre che la Casa Bianca consideri l’Iran come il maggior pericolo alla sicurezza nazionale. Tutto ciò era vero già nel mese di giugno, quando Obama fu per la prima volta informato del presunto piano contro l’ambasciatore saudita, e se l’escalation nei confronti di Teheran avviene adesso è perché oltre alla tempistica dell’indagine pesa l’indebolimento di un presidente in difficoltà sull’economia al punto tale da cercare su altri terreni la possibilità di riconquistare la fiducia dei cittadini. La sicurezza nazionale è l’unico argomento sul quale Obama conserva una forte popolarità - oltre il 60 per cento - perché l’eliminazione di Osama bin Laden, i successi dei droni contro i jihadisti, il braccio di ferro con Islamabad, il ritiro quasi ultimato dall’Iraq e la transizione in Afghanistan hanno raccolto il favore degli americani.

Da qui la possibilità che i consiglieri di politica estera e sicurezza, a cominciare da Biden e Holder, abbiano visto nel piano iraniano contro l’ambasciatore saudita l’opportunità per rilanciare l’immagine del presidente come garante della sicurezza collettiva. Anche perché nulla potrebbe nuocere di più a Obama del primo devastante attentato terroristico in patria dopo l’11 settembre. E’ in tale cornice che si comprende l’importanza della guerra segreta dell’intelligence contro l’Iran perché, nei briefing quotidiani fatti al presidente, fornisce minuziosi preziose.

Finora ad averne la leadership era stata la Cia con operazioni dentro l’Iran mirate a indebolire il regime, sabotare il nucleare, e rafforzare l’opposizione ma adesso con l’arresto di Arbabsiar la protagonista è l’Fbi. Gli agenti federali hanno la loro arma preferita nelle infiltrazioni: negli Anni Settanta le usarono per disintegrare le Pantere Nere e dopo l’11 settembre le hanno adoperate per spiare le comunità musulmane americane, senza farsi troppi scrupoli. Anche in questo caso, come avvenne spesso contro le Pantere Nere, il blitz decisivo nasce nella zona grigia dove l’informatore può essere anche complice del nemico: è stato infatti un collaboratore, spacciandosi per inviato dei Narcos, a far dire ad Arbabsiar di essere disposto a «far saltare in aria centinaia di americani pur di uccidere l’ambasciatore saudita». Ottenendo così il tassello decisivo per l’arresto dell’iranianomericano e l’escalation con Teheran.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9313


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Usa, colpi bassi fra i repubblicani
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2011, 09:30:27 am
20/10/2011 - A LAS VEGAS DIBATTITO INFUOCATO TRA I CANDIDATI ALLA NOMINATION DEL PARTITO.

POI IL GOVERNATORE DEL TEXAS PROPONE L'ALIQUOTA FISCALE UNICA

Usa, colpi bassi fra i repubblicani

Perry attacca Romney: hai assunto dei clandestini. Il rivale vacilla: fammi spiegare

Maurizio MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Incalzato da sondaggi negativi, scivolato al terzo posto nella corsa alla nomination repubblicana e reduce da due dibattiti in ombra, il governatore del Texas Rick Perry sfrutta il palcoscenico di Las Vegas per andare all’attacco del favorito Mitt Romney dando vita ad uno scontro, non solo politico ma anche personale, che a tratti sfiora lo scontro fisico.

Il dibattito fra i candidati repubblicani era iniziato come gli ultimi due, con Romney nella veste più autorevole e l’imprenditore afroamericano Herman Cain in quella di outsider. Perry si è reso conto che si stava ripetendo lo schema a tenaglia da cui era uscito molto penalizzato nelle scorse settimane e così ha messo in atto la controffensiva, pianificata meticolosamente. Ha iniziato rimproverando all’ex governatore del Massachusetts eccessiva vicinanza al presidente Barack Obama sulla riforma della Sanità e eccessiva lontananza dai valori conservatori, per poi giocare l’affondo sull’immigrazione clandestina. «Non è forse vero che degli illegali hanno lavorato per te?» ha chiesto Perry a bruciapelo ad un Romney, evidentemente colto di sorpresa, evocando un episodio svelato nel 2007 dal «Boston Globe». Il risultato è stato un botta e risposta talmente serrato da degenerare in battibecco con Perry che continuava a incalzare sui dettagli della vicenda e Romney che dopo averne sostenuto l’infondatezza si è lasciato andare in un crescendo di visibile irritazione, condito da ripetuti «Rick mi vuoi far parlare?» culminati in un frangente nel quale Romney ha messo la mano sulle spalle del rivale dando a chi guardava la tv la sensazione di un contatto fisico dovuto ad emozioni in ebollizione. Tanto più che Romney ha anche chiesto al conduttore di intervenire, svelando di essere sulla difensiva. Il risultato che Perry cercava, e ha ottenuto, è stato di mostrare agli americani un volto diverso dal Romney calmo, preparato e rassicurante, sollevando così dubbi sulla inevitabilità della sua affermazione nella corsa alla nomination che sarà assegnata dalla convention di Tampa.

Ma non è tutto, perché nel rispondere alle accuse Romney ha fatto un mezzo scivolone affermando che quando si rese conto che l’impresa impegnata nei lavori nella sua proprietà impiegava dei clandestini «andai dai titolare e gli dissi che mi stavo candidando ad una carica pubblica e dunque non potevo farlo». È una frase ambigua perché solleva il dubbio che Romney sia stato contrario all’impiego di clandestini solo in quanto era candidato e ciò consente ai portavoce di Perry di affermare che «questo dibattito è stato decisivo perché la corsa è tornata ad essere una sfida a due, come sarà nei prossimi mesi».

La risposta di Eric Fehrnstrom, consigliere di Romney, è che «Perry era venuto a Las Vegas per uccidere Romney e invece ha eliminato se stesso, presentandosi come un candidato disperato nel tentare di far tornare a galla una barca che affonda». In realtà Perry è riuscito a trascinare con sé negli attacchi a Romney altri candidati - Rick Santorum, Michele Bachmann e Newt Gingrich - lasciando intendere che l’ala conservatrice dei repubblicani non si riconosce in un candidato che su immigrazione, Sanità e diritti dei gay ha posizioni centriste. Da qui l’impressione che il dibattito di Las Vegas, moderato dalla «Cnn», abbia dato inizio ad un confronto fra le due diverse anime del partito che dominerà le primarie.

Al termine di una giornata tutta all’attacco, Perry ha sferrato un nuovo affondo proponendo l’aliquota fiscale unica.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2225&ID_sezione=58


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Il Tea Party si smarca dagli indignati
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2011, 11:49:45 am
Esteri

23/10/2011 - PER I SONDAGGI I MANIFESTANTI HANNO PIÙ CONSENSI DELLA DESTRA

Il Tea Party si smarca dagli indignati

I manifestanti di "Occupy Wall Street" mettono a disposizione i loro abiti puliti per tutti gli "indignados" di Zuccotti Park

Dai conservatori un duro attacco a "Occupy" "Gente poco istruita, vuole soltanto l'anarchia"

MAURIZIO MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

«Disoccupati, poco istruiti e male informati»: il Tea Party si scaglia contro i manifestanti di «Occupy Wall Street» insediati a Zuccotti Park, per sottolineare la loro differenza da un movimento di protesta che ha in realtà origini comuni a quello conservatore. Le convergenze stanno nella denuncia del ricorso al denaro pubblico per salvare le istituzioni finanziarie responsabili del crack del 2008, nella contestazione delle scelte della Federal Reserve e nella volontà di dare voce alla rabbia di milioni di cittadini colpiti da recessione e disoccupazione.

Non a caso, quando «Occupy Wall Street» ha messo le prime tende a Zuccotti Park, nei pressi di Ground Zero, c’erano anche dei militanti del Tea Party, al pari di alcuni seguaci di Ron Paul, il candidato repubblicano alla presidenza feroce avversario della Federal Reserve. Ma a sei settimane da allora, «Occupy Wall Street» è oramai un movimento di protesta dove a prevalere sono i temi dell’ala sinistra del partito democratico e dunque il Tea Party picchia duro. «Sembrano essere in favore più dell’anarchia che della risoluzione dei problemi attraverso il rispetto della Costituzione» afferma Jenny Beth Martin, co-fondatrice dei «Tea Party Patriot», spiegando al «New York Times» che la differenza «sta nel fatto che noi abbiamo lavorato duro per richiamarci alle leggi esistenti mentre loro si battono per violarle, esprimendo mancanza di rispetto verso la nostra forma di governo».

Sono queste le motivazioni che hanno portato i «Tea Party Patriots» a diffondere un comunicato, in tutti i 50 Stati, intitolato «Occupy Wall Street non è il Tea Party», nel quale si afferma che «quando riescono a spiegare cosa vogliono, ciò che si comprende è l’intenzione di danneggiare l’America dando vita a un governo più invandente». Il «Daily Caller», uno dei fogli e siti web nei quali il Tea Party si riconosce, va oltre, accusando i militanti di Zuccotti Park di «aver ricevuto il sostegno del partito nazista americano» e di aver «esposto insegne ostili a Israele», spingendosi fino a «ingiurie contro gli ebrei di puro stampo antisemita».

Lu Busse, capo del Tea Party in Colorado, parla di «militanti di estrema sinistra che avevano fra i ranghi anche gente mortper overdose di cocaina» mentre Ed Morrissey su «The Week» scrive che «Occupy Wall Street vuole solo più burocrazia e spesa pubblica», ovvero l’esatto contrario del Tea Party. Se questi sono alcuni dei motivi che hanno spinto gli iscritti al Tea Party che avevano partecipato ai sit in a Zuccotti Park ad andarsene, ciò che più distingue le due proteste è l’approccio alla riforma della Sanità promulgata da Obama perché, mentre gli ultraliberal vogliono rafforzarla, gli ultraconservatori puntano a cancellarla.

A dispetto di tali divergenze c’è tuttavia chi, come Josh Eboch direttore del gruppo conservatore «Freedom Works», afferma che «restano importanti similitudini perché entrambi sono contro grandi corporation, banche e imprese salvate grazie all’intervento di politici che hanno sfruttato il denaro dei contribuenti». Il duello a distanza fra gli opposti movimenti di protesta si profila come un tema della campagna presidenziale del 2012, anche se al momento nessuno dei due sembra godere del sostegno della maggioranza degli americani. Per un sondaggio Gallup-UsaToday «Occupy Wall Street» e Tea Party godono rispettivamente del 26% e 22% di sostegno, mentre coloro che si dicono «indifferenti» sono fra il 47% e 52%. «L’unica cosa certa - commenta il governatore del New Jersey, Chris Christie - è che dire a uno di questi due gruppi che assomiglia all’altro, significa rischiare grosso».

da - http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/426087/


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Obama: "In Libia abbiamo vinto grazie all'alleato francese"
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2011, 11:28:56 am
5/11/2011 - LA CRISI

Obama: "In Libia abbiamo vinto grazie all'alleato francese"

MAURIZIO MOLINARI
INVIATO A CANNES

Omaggio pubblico agli eroi della campagna Nato in Libia e intese private contro la corsa al nucleare di Teheran: il summit di Cannes fra Nicolas Sarkozy e Barack Obama suggella e rilancia il patto strategico sui cambiamenti in Nordafrica e Medio Oriente.

Davanti al Municipio di Cannes i due presidenti passano in rassegna marinai, soldati e piloti di entrambi i Paesi reduci dalla campagna della Nato contro il regime di Gheddafi, ascoltando fianco a fianco gli inni nazionali. Poi è Obama a descrivere l’importanza di quanto avvenuto in Libia: «Soldati dei nostri Paesi hanno servito spalla a spalla, dai piloti che hanno prevenuto il massacro a Bengasi ai marines che hanno fatto rispettare l’embargo marittimo, alcuni piloti americani hanno addirittura guidato dei jet francesi decollando da una portaerei francese nel Mediterraneo, non si può essere più alleati di così». Per la Nato si tratta di una vittoria che la rafforza perché «mai una campagna era stata iniziata così in fretta» e Obama dopo aver sottolineato che «ognuno dei 28 alleati ne è stato parte» riconosce a Sarkozy il merito di essere stato protagonista di una «leadership straordinaria» ed a testimoniarlo è il fatto che la Francia «ha contribuito a condurre il 90% delle missioni di combattimento».

Rivelare l’entità dell’impegno militare di Parigi è il colpo di scena con il quale Obama riconosce a Sarkozy di essersi guadagnato sul campo il ruolo di partner privilegiato dell’America nel sostegno alle transizioni in atto in Nordafrica e Medio Oriente. A testimoniarlo sono le prolungate strette di mano con cui Obama e Sarkozy salutano i tre comandanti che hanno guidato la campagna aeronavale della Nato che ha consentito ai ribelli libici di rovesciare e uccidere Gheddafi: il generale Ralph Jodice e gli ammiragli Jim Stavridis e Sam Locklear. Il fatto che tutto ciò avvenga davanti al monumento che ricorda le vittime della Prima e Seconda Guerra Mondiale consente a Sarkozy di sottolineare le radici storiche del nuovo patto strategico: «Da quando il generale Lafayette affiancò Washington a Yorktown a quando tremila soldati americani diedero la vita per salvare quella della Francia» dall’occupazione nazista. «Ogni volta che un soldato americano cade ovunque nel mondo - aggiunge il capo dell’Eliseo - l’intera Francia è a fianco della sua famiglia perché non dimentica i suoi commilitoni che caddero per noi». La folla che sfida la pioggia battente ritma a più riprese «O-ba-ma» e «Ni-co-las» fino a sprigionare un boato di gioia quando l’ospite americano descrive la simbiosi fra nazioni: «Siamo società dove la diversità è considerata un elemento di forza e dove puoi diventare presidente anche se ti chiami Obama o Sarkozy perché ciò che ci accomuna è avere un unico credo» nei valori che per l’America sono «vita, libertà e perseguimento della felicità» e la Francia celebra come «liberté, egalité, fraternité».

Quando i due presidenti si ritirano in privato dentro il Municipio trasformato in fortezza tale convergenza di valori e interessi si estende al tema che dalla prossima settimana sarà in cima all’agenda internazionale: il rapporto dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea) sugli aspetti militari del programma nucleare dell’Iran. Fonti diplomatiche di entrambi i Paesi affermano che «l’intesa sui passi da adottare è forte» e l’intento è di aumentare l’isolamento internazionale della Repubblica Islamica con nuove sanzioni «senza precedenti» destinate a un triplice intento: bloccare la corsa di Teheran verso l’arma atomica, punire le Guardie rivoluzionarie che hanno ordito il complotto contro l’ambasciatore saudita a Washington e impedire agli ayatollah di continuare a sostenere il regime siriano assediato dalle proteste.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2245&ID_sezione=58


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Wall Street vuole il nome del successore
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2011, 05:52:56 pm
9/11/2011

Wall Street vuole il nome del successore

MAURIZIO MOLINARI

Vista da Wall Street, la crisi finanziaria italiana ha dimensioni tali che l’impegno a dimettersi da parte di Berlusconi non basta a scongiurarla: ciò che serve è il nome di un successore credibile nell’impegno di realizzare riforme impopolari.

Il timore di un imminente default italiano è descritto dell’incertezza degli indici di Wall Street, dove gli investitori iniziano a liberarsi di titoli italiani, gli operatori prevedono che la soglia del 7 per cento di interesse potrebbe essere raggiunta entro domani e gli analisti ritengono che per rassicurare i mercati bisogna guardare oltre le dimissioni di Berlusconi perché ciò che ora conta è chi verrà dopo.

La seconda giornata consecutiva delle contrattazioni sul floor del New York Stock Exchange dominata dall’attualità italiana si svolge con continue oscillazioni a cavallo dello zero a causa di notizie, analisi e indiscrezioni su quanto avviene a Roma, considerata il nuovo epicentro della crisi del debito europeo. Poco prima della campanella di inizio i futures salgono perché «si attendono le dimissioni di Berlusconi», come titolano Cnbc e Fox Business. In attesa del voto alla Camera, l’interesse sui titoli di Stato decennali tocca il 6,74 per cento, poi ridiscende tradendo l’auspicio della caduta di Berlusconi ma quando i mercati si rendono conto che la sconfitta in aula non comporta le dimissioni immediate la discesa si arresta e poi l’interesse torna a risalire a quota 6,71 per cento. Parallelo l’andamento dello spread con i titoli tedeschi: schizza a 489 prima del voto, scende a 486 e risale a 489. Il disappunto per un Berlusconi dimissionario ma ancora in sella spiega perché la banca di investimento Jeffries liquida i titoli di Stato europei, che sono in gran parte italiani, facendo affiorare una strategia non dichiarata da parte di numerosi investitori accomunati dalla convinzione che l’asta di domani potrebbe vedere i titoli italiani oltre la soglia del 7 per cento che ha implicato il default per Portogallo, Irlanda e Grecia. Un documento di analisi di Barclays Capital riassume la situazione: «Il costo del danaro per l’Italia è chiaramente insostenibile: più l’interesse sul debito sale, più deve prendere prestiti dai privati e a causa dell’elevato debito pubblico ciò rende difficile se non impossibile ridurre il debito senza ricorrere ad aiuti». «I mercati vogliono vedere una soluzione veloce del problema italiano, Berlusconi non può garantirla e così i settori azionario e obbligazionario premono affinché se ne vada in fretta» sottolinea Kenny Polcari, direttore di Iacp Equities. Se le dimissioni non bastano più è perché, come spiega Dan Greenhaus, stratega di Btig, «Berlusconi non ha più la maggioranza e di conseguenza ciò che conta per i mercati è chi viene al suo posto, un governo temporaneo o elezioni anticipate». Il Wall Street Journal dedica il live blog sulla crisi europea a descrivere le posizioni dei leader italiani, CnnMoney identifica come «personaggi decisivi» Giorgio Napolitano, Mario Monti, Gianni Letta, Giuliano Amato e Angelino Alfano ma, come commenta la tv Cnbc, «l’orientamento dei mercati non cambierà fino a quando l’Italia non sarà guidata da un governo stabile capace di fare le riforme».

Per Nicholas Spiro, titolare della Spiro Sovereign Strategy, «i mercati vogliono per l’Italia un governo tecnico non eletto dal popolo capace di varare riforme impopolari per migliorare la crescita di una delle economie più stagnanti del mondo» appesantita da un debito di 1,9 trilioni di euro considerato «inaccettabile» da Bgc Partners. Se dunque l’Italia è nel limbo di un governo dimissionario ma ancora in carica, i mercati aspettano il nome del nuovo premier. Per questo «il rischio è lo scenario di giorni durante i quali in assenza del nome del successore ci sarà una vendita a pioggia di titoli» prevede Suki Mann, stratega del credito per Société Générale. «Ciò che importa in questo momento è chi sostituirà Berlusconi e cosa farà appena insediato», aggiunge James Dailey, manager del portafoglio di Team Asset Strategy Fund. Ecco perché la debole ripresa degli indici dopo l’arrivo della notizia sull’intenzione di Berlusconi di dimettersi non allontana le nubi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9413


Titolo: Maurizio MOLINARI - Bernanke nei guai: avrebbe anticipato le manovre monetarie..
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2011, 06:31:56 pm
24/11/2011

"La Fed avvisava gli investitori"

Bernanke nei guai: avrebbe anticipato le manovre monetarie ai big di Wall Street

Maurizio MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

I vertici della Federal Reserve avvertono in anticipo i grandi investitori di Wall Street sulle maggiori manovre monetarie in programma al fine di condizionare a loro favore i movimenti dei mercati.

A svelare tale insolita e spericolata, strategia è il Wall

Journal , ricostruendo come il 15 agosto il presidente della Federal Reserve, Ben Bernake, informò in privato l’economista Nancy Lazar dell’Operazione Twist che il 21 settembre seguente avrebbe portato all’acquisto di 400 miliardi di dollari di obbligazioni del Tesoro a 10 anni.

Averlo saputo in anticipo consentì a Lazar di sugerire a numerosi importanti investitori di acquistare nelle cinque settimane seguenti titoli del Tesoro a 10 anni ai prezzi correnti, ottenendo poi grazie all’Operazione Twist profitti di considerevole portata. Bernanke ebbe analoghi colloqui con altri grandi investitori e il risultato fu di far diffondere le voci sull’Operazione Twist spingendoli ad acquistare le obbligazioni decennali in anticipo sulla mossa della Fed, aiutandola così di fatto a far salire i prezzi e diminuire gli interessi ovvero nell’operazione finanziaria tesa ad abbassare il costo del denaro. Si è trattato dunque di una fuga di notizie controllata che ha portato vantaggio ad entrambe le parti perché la Fed ha visto rafforzato l’impatto del suo intervento mentre gli investitori hanno registrato ampi profitti.

Per Jan Hatzsius, capo economista di Goldman Sachs, simili incontri informali sono frequenti durante il corso dell’anno fra gli alti dirigenti della Federal Reserve ed un numero molto selezionato di economisti e grandi investitori: le norme della Fed li consentono in base ad un regolamento molto dettagliato, che si basa su un meccanismo di domande e risposte nel quale a porre i quesiti sono proprio gli uomini di Bernanke, o lui stesso. Tuttavia proprio tali domande, nella loro formulazione, consentono agli investitori di intuire spesso in quale direzione la Federal Reserve intende muoversi, riuscendone così ad anticipare le mosse.

Fra i personaggi più coinvolti in tali «incontri informali» c’è William Dudley, presidente della Federal Reserve di New York e vicecapo del Federal Open Market Committee responsabile della guida della politica monetaria americana. «Ammetto che si può trarre l’impressione che alcuni grandi investitori hanno un accesso privilegiato a informazioni cruciali - afferma - ma tali incontri in realtà sono molto importanti in una fase come questa che vede i mercati sotto pressione» perché consente di orientare il movimento di grandi capitali in direzioni favorevoli all’economia. Non si tratterebbe dunque di una lampante violazione della libera competizione sui mercati finanziari bensì di uno strumento teso ad armonizzare in qualche maniera i movimenti dei capitali pubblici e privali.

Il sottile confine che passa fra i due scenari è tale da descrivere con chiarezza l’entità delle preoccupazioni di Ben Bernanke per l’incombere di una nuova grave crisi finanziaria.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2263&ID_sezione=58


Titolo: MAURIZIO MOLINARI. - E l'Fmi prepara una cura da 600 miliardi per l'Italia
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2011, 03:19:53 pm
27/11/2011 - RETROSCENA

E l'Fmi prepara una cura da 600 miliardi per l'Italia

Trattative tra Lagarde e Roma: se la situazione peggiora un prestito per dare a Monti 18 mesi di tempo per le riforme

CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Maurizio MOLINARI

Se le ispezioni dell’Fmi in Italia concordate summit del G20 a Cannes non sono ancora iniziate è perché il direttore Christine Lagarde vuole dare tempo a sufficienza a Mario Monti per varare le riforme, riservandosi la possibilità di aiutarlo con un programma di aiuti finanziari che potrebbe arrivare a valere fino a 600 miliardi di euro. Il Fondo monetario internazionale ha già varato programmi di aiuti per i Paesi europei in difficoltà a causa delle crisi del debito: prima per l’Islanda, poi per il Portogallo, l’Irlanda e infine per la Grecia. L’esistenza di precedenti relativi a interventi coordinati assieme alle istituzioni europee aiuta a comprendere cosa potrebbe avvenire anche se ciò che distingue la debolezza italiana sono le dimensioni del debito, circa 2000 miliardi di euro ovvero più della somma di tutti gli altri Paesi europei che già ricevono aiuti.

Da qui la possibilità del varo di un «programma Italia» che, secondo stime circolate negli ambienti dell’Fmi a Washington, potrebbe avere un valore compreso fra 400 e 600 miliardi di euro al fine di dare al governo Monti 12-18 mesi di tempo per varare le necessarie riforme, alleviandolo dalla necessità del rifinanziamento del debito. Garantendo tassi fra il 4 e 5 per cento, l’Fmi offrirebbe all’Italia condizioni assai migliori rispetto ai mercati, dove siamo già oltre il 7-8 per cento, e ciò metterebbe Roma al riparo dalle pressioni in crescendo sui titoli di Stato. L’entità della cifra è tuttavia tale da rendere difficile per il Fmi operare solo sulla base delle risorse attualmente disponibili. Dovrebbero essere incrementate e per farlo ci sono diverse possibilità: dall’emissioni di nuovi Diritti speciali di prelievo a interventi coordinati con la Banca centrale europea guidata da Mario Draghi.

Tale ultimo scenario nasce dal fatto che le resistenze di Berlino ad un maggiore impegno della Bce a sostegno degli Stati in difficoltà - a cominciare dall’Italia - potrebbero venir meno se si trattasse di fondi destinati ad essere elargiti sotto la stretta sorveglianza dell’Fmi. Vi sarebbe stata almeno una conversazione telefonica fra Monti e Lagarde per dar seguito a quanto deciso a Cannes alla luce del fatto che la situazione finanziaria internazionale è maturata in maniera tale da far sembrare il summit del G20 già passato remoto. Se a inizio novembre l’allora premier Silvio Berlusconi fu in grado di respingere l’offerta di aiuti finanziari dell’Fmi limitandosi ad accettare di «invitare» ispettori destinati a vegliare sulle riforme e sui conti, sperando così di rassicurare i mercati, oramai la crisi del debito italiano ha assunto dimensioni tali che le missioni del Fondo monetario non appaiono più sufficienti ad arginare la pressione sui titoli di Stato, come le aste dell’ultima settimana hanno confermato.

L’accelerazione della crisi del debito europeo, con le pressioni sui titoli di Francia-Belgio e l’asta di quelli tedeschi andata deserta, rafforza la convinzione negli ambienti dell’Fmi che sia l’Italia la nazione in questo momento da sostenere per evitare il crac dell’euro. La differenza con il summit di Cannes è però anche la maggiore credibilità di Monti rispetto al predecessore e questo spiega perché non è oggetto di pressioni politiche internazionali ma anzi Lagarde, come l’amministrazione di Washington, sia intenzionata a verificare la possibilità dell’Italia di procedere verso altri due scenari. Primo: la possibilità che dopo l’annuncio dei nuovi provvedimenti di riforme, i mercati reagiscano in maniera positiva, allentando la pressione sul debito. Secondo: l’eventualità che l’accordo con Nicolas Sarkozy e Angela Merkel evidenziato dal summit trilaterale di Strasburgo porti al successo di interventi di sostegno da parte dell’Ue e della Bce.

Ecco perché l’opzione dell’Fmi di varare un programma ad hoc per l’Italia si profila al momento come una carta in più che Monti potrà avere a disposizione se la presentazione delle riforme non dovesse bastare ad allontanare le nubi della speculazione finanziaria dall’Italia. Se Largarde e Monti dovessero concordare il «programma Italia», sarebbe uno staff dell’Fmi a negoziarne i dettagli con Roma prima di sottoporlo all’approvazione del consiglio dell’Fmi indicando da un lato l’entità dei prestiti e dall’altro le condizioni relative. Poiché l’Italia ha una condizione di bilancio migliore di altri Paesi europei è ragionevole supporre che tali condizioni dell’Fmi potrebbero concentrarsi su due aspetti: la necessità di ridurre il debito e di aumentare la crescita.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2264


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Marchionne: "Se il premier fallisce l'euro collassa"
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2011, 05:28:45 pm
1/12/2011 - IL CASO

Marchionne: "Se il premier fallisce l'euro collassa"

"Il Professore deve essere sostenuto da tutti i partiti, lo lascino lavorare"

Maurizio MOLINARI

INVIATO A WASHINGTON

Se Mario Monti fallisce l’euro imploderà»: Sergio Marchionne sceglie la platea dei centri studi di Washington per spiegare all’America l’importanza della missione del nuovo premier, non solo per l’Italia ma per l’economia globale.

La giornata di lavori sull’agenda transatlantica organizzata dal Consiglio Italia-Usa riunisce in un unico parterre economisti e politologi della Brookings Institution e del Peterson Institute, a cui l’amministratore delegato di Fiat-Chrysler descrive la situazione italiana in maniera nitida: «Il default dell’Italia è troppo pericoloso anche solo da contemplare, ho grande fiducia in Monti perché le pagine migliori della Storia italiana sono state scritte da persone con intelligenza e visione, capaci di battersi per il cambiamento anziché di difendere lo status quo e lui è fra queste». Di fronte a sé ha una missione difficile perché «l’Italia sta attraversando un terremoto finanziario che ne scuote le fondamenta, minacciando di trasformare il lavoro duro e i risparmi dei cittadini in macerie». Ma proprio per questo «Monti deve essere sostenuto», aggiunge Marchionne rivolgendosi al Parlamento: «I partiti devono appoggiarlo e farlo lavorare nel momento in cui compie la difficile scelta su quali devono essere le riforme da cui iniziare il risanamento». «Non voglio interferire nelle decisioni di Monti ma ritengo che abbia bisogno di tutto il sostegno possibile - sottolinea l’ad - perché in una nazione di 60 milioni di persone come l’Italia lui è l’unico che può salvare il Paese e scongiurare l’implosione dell’euro le cui conseguenze economiche avrebbero bisogno di mesi per essere contenute». Il legame fra il successo di Monti e la stabilità di Eurolandia è diretto ed è questo il motivo per cui Marchionne spiega al pubblico di analisti che «l’Unione Europea deve fare la sua parte e mettere in campo, da sola o con il Fmi, un sostanziale aumento di potenziale» del fondo di soccorso europeo varato dal consiglio Ue del 21 luglio. L’intervento finanziario europeo per Marchionne deve essere inquadrato in una strategia più ampia perché «abbiamo sempre saputo che le proibizioni e le sanzioni contenute nel Trattato di Maastricht e nel Patto di Stabilità contenevano garanzie insufficienti contro il rischio di gravi errori e deviazioni di alcune nazioni». Le riforme europee a cui Marchionne pensa coinvolgono anche la Banca centrale guidata da Mario Draghi perché «i poteri che le sono stati garantiti sono troppo limitati e il fatto di funzionare solo come controllo sull’inflazione è insufficiente, se non pericoloso». La crisi del debito sovrano dunque «ha portato l’Europa ad un critico crocevia, obbligando una serie di Stati a decidere se sono disposti a rinnovare l’impegno a sostegno di un futuro comune» ovvero «spezzare le reti che circondano il mercato del credito europeo, rinunciare a parte della sovranità nazionale per rafforzare l’Unione e concordare un metodo comune per gestire l’economia». Europeismo e sostegno alla missione di Monti sono i perni di un intervento che vede Marchionne illustrare i progressi di Fiat-Chrysler, spiegando che con 4,2 milioni di auto vendute è divenuto il quinto gruppo automobilistico mondiale grazie alla «scelta di non chiuderci davanti alle difficoltà ma di affrontarle». «Siamo una multinazionale e continueremo ad esserlo ha aggiunto - e se non dovesse esserci più l’Italia venderemo auto in Asia e America Latina». Il riferimento è alle difficoltà opposte dalla Fiom ai progetti di sviluppo come anche alla richiesta di Susanna Camusso, leader della Cgil, di unintervento del governo per intervenire sui piani di investimento Fiat. «Che cosa c’entra Monti in questo? Non ha abbastanza da fare?» ribatte Marchionne che parla di una «tirannia della minoranza» che blocca la cooperazione con i sindacati «a differenza di quanto avvenuto in America dove le trattative sono state lunghe ma poi abbiamo raggiunto un’intesa sulla base del comune interesse».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2267


Titolo: MAURIZIO MOLINARI South Carolina, nel dibattito i conservatori dominano Romney
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2012, 05:41:41 pm
17/1/2012 - Ron Paul non riesce ad evitare di essere una comparsa

South Carolina, nel dibattito i conservatori dominano Romney

Gingrich, Santorum e Perry più incisivi su politica estera ed economia

Maurizio MOLINARI


A cinque giorni dalle primarie in South Carolina, il dibattito di Myrte Beach consente ai candidati conservatori di riprendere smalto, mettere sulla difensiva il favorito Mitt Romney e relegare in un angolo il libertario Ron Paul. Sul palco ci sono gli ultimi cinque candidati repubblicani rimasti dopo il forfait di Jon Huntsman e i conduttori di Fox tv consentono a Newt Gingrich di andare subito all'attacco di Romney, reduce dalla duplice vittoria in Iowa e New Hampshire: "Ha aumentato le tasse quando era governatore in Massachusetts, non riuscirà mai ad essere efficace contro Obama". Romney sembra preso alla sprovvista dal duro affondo, si riprende con qualche difficoltà ma il pubblico lo sostiene, anche grazie alla presenza di Nikki Haley, la governatrice sua alleata. Gingrich, affiancato da Rick Santorum, bersaglia Romney su "Bain", la società finanziaria per cui ha lavorato per 25 anni lasciando sul lastrico migliaia di famiglie e lui si difende ribattendo che "la forza dell'economia americana è anche nella ristrutturazione delle aziende".

L'ex governatore del Massachusetts spera di aver guadagnato qualche attimo di tregua ma non è così perché a farsi suibito sotto è Santorum, rimproverandogli di non voler far votare gli ex detenuti, e per uscire dall'assedio a Romney non resta che invocare i valori conservatori: "Sono contro l'aborto e contro le nozze gay". Continua però ad apparire sulla difesa, impegnato più a rispondere agli attacchi altrui che ad affermare idee proprie. Gli avversari conservatori invece spadroneggiano, dicendo di tutto fra ovazioni a ripetizione. Rick Perry descrive il suo Texas "assediato dal governo federale" e la South Carolina addirittura "in guerra con Washington", con un'espressione che evoca la Guerra di Secessione che iniziò proprio nei pressi di Charleston. Gingrich sceglie come obiettivo i soldi pubblici versati come sussidi ai disoccupati, suggerendo di darli "solo a chi ha la preparazione adatta per poter lavorare" e quando si arriva alla politica estera aggiunge che "i nemici dell'America devono essere eliminati". Il libertario Ron Paul tenta di farsi spazio parlando di "sperpero di fondi pubblici per finanziare l'ambasciata a Baghdad, più grande del Vaticano" e propone di "chiudere le basi all'estero per aprirne più in patria" ma sono posizioni di minoranza, che il pubblico contesta e penalizza, riservando applausi a scena aperta invece ai conservatori.

Li riceve Perry quando assicura che "non abbandoneremo mai Israele" e sostien che "la Turchia islamica dovrebbe uscire dalla Nato" come vanno anche a Santorum allorché promette di "cacciare Bashar Assad" premunendosi solo di aggiungere "non con un'altra guerra". Ron Paul tenta di farsi spazio con ragionamenti contorti sulla necessità di "processare e non eliminare Bin Laden" ed è Gingrich a infilzarlo: "Parla di Bin Laden come se fosse un dissidente cinese". Il palco è saldamente nelle mani dei conservatori e Romney nel finale deve difendersi ancora dagli attacchi, promettendo di "rendere pubblica in primavera la mia dichiarazione fiscale" e rimproverando a Obama di "voler negoziare con i taleban mentre stanno uccidendo i nostri soldati".

Gli accenti anti-europei di Romney e la promessa di Ron Paul di "un'aliquota fiscale pari a zero" vengono subissati dalla determinazione di Santorum nella difesa delle leggi pro-armi da fuoco e da quella di Perry di difendere i Marines fotografati mentre urinavano sui taleban morti: "Leon Panetta, capo del Pentagono, ha sbagliato a definire i loro atti ignobili perché ignobile è piuttosto impiccare soldati americani sotto i ponti o taglire la gola a Daniel Pearl". Quando il sipario cala sul dibattito Romney sta ancora difendendosi - sugli spot tv realizzati da terzi ma a lui favorevoli - sebbene la maggioranza degli spettatori siano convinti che i veri protagonisti, almeno per una notte, sono stati Gingrich e Santorum, con Perry solo un gradino sotto. "L'unica fortuna di Romney - commenta il politologo dell'Università della Virginia Larry Sabato - è che i suoi avversari restano lacerati".

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2321


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Se parlare francese e cinese diventa elemento di debolezza
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2012, 05:47:09 pm
Primarie presidenziali USA 2012

14/01/2012 -

Se parlare francese e cinese diventa elemento di debolezza

Gingrich contro Romney: parla pure francese.

E Huntsman viene rimproverato da Trump: "Non credo parlare mandarimo gli serva nelle primarie"

Maurizio Molinari
corrispondente da New York

Parlare una lingua straniera può diventare un tallone d'Achille elettorale nelle primarie repubblicane. Ad accorgersene è stato Mitt Romney, il favorito nella corsa alla nomination, investito da uno spot tv del rivale Newt Gingrich intitolato "The French Connection".

L'intento del messaggio è schiacciare Romney su un'identità politica democratica assai lontana dalla conservatrice South Carolina dove si voterà il 21 gennaio e per farlo lo spot dopo aver ricordato le posizione di Romney su aborto e pianificazione famigliare, sottolinea che "parla anche francese" proprio come John Kerry, che nel 2004 fu il candidato dei democratici alla presidenza.

Da qui l'ultima immagine dello spot nella quale si vede Romney affermare "Bonjour. Je m'appelle Mitt Romney" sovrapponendosi proprio a frasi francesi pronunciate da John Kerry. Il tentativo di Gingrich è di farlo apparire in questa maniera non in sintonia con la base conservatrice anche se in realtà lo stesso ex presidente della Camera dei Rappresenati in passato ha vissuto in Francia - proprio come Romney - arrivando a volte a paragonarsi all'ex capo dell'Eliseo Charles De Gualle. Ma Romney non è l'unico a doversi difendere da tali attacchi linguistici perchè Jon Huntsman, ex ambasciatore a Pechino ed anch'egli in gara nelle primarie, viene contestato con altrettanta asprezza per il fatto di parlare il cinese come l'inglese.

La conoscenza del mandarino per Hutsman riale al periodo in cui era missionario mormone a Taiwan e non ha esitato a sfoggiarla durante un recente dibattito televisivo così come in occasione di alcuni comizi in New Hampshire e South Carolina, dove a fargli le domande sono stati degli immigrati cinesi. Ma tutto ciò non gli ha portato che grattacapi. Donald Trump ha tuonato dagli schermi di Fox News: "Non credo che parlare mandarino serva nelle primarie repubblicane e francamente la sua posizione sulla Cina lo fa apparire come una pianta di Obama". L'ex deputato repubblicano Joe Scarborough, intervistato dalla Msnbc, è andato anche oltre: "In un dibattito repubblicano non si parla in cinese". Ma Huntsman non sembra curarsi troppo di tali attacchi, convinto che la migliore conoscenza della Cina sia una qualità che il nuovo presidente degli Stati Unitti dovrebbe possedere per meglio affrontare le sfide dell'economia globale.

da - http://www3.lastampa.it/focus/primarie-presidenziali-usa-2012/articolo/lstp/438252/


Titolo: MAURIZIO MOLINARI "L'Italia era un problema ora è una soluzione"
Inserito da: Admin - Gennaio 25, 2012, 10:04:09 am
24/1/2012 - RETROSCENA

"L'Italia era un problema ora è una soluzione"

Gli Usa preparano la visita del premier alla Casa Bianca

MAURIZIO MOLINARI

CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Sostegno alle riforme economiche in Italia, volontà di discutere assieme la nuova agenda della Nato e azione comune sulle rivolte arabe: sono questi i tre cardini dell’approccio dell’amministrazione Obama al governo Monti espressi nel comunicato con cui la Casa Bianca conferma che la visita del presidente del Consiglio a Washington avverrà il 9 febbraio. Dall’insediamento di Monti a Palazzo Chigi è la prima volta che la Casa Bianca esprime pubblicamente un giudizio di merito sull’operato del nuovo governo italiano. La scelta di farlo è frutto di una redazione in più fasi del linguaggio del comunicato attraverso scambi di opinioni fra Casa Bianca, Dipartimento di Stato e ambasciata americana a Roma che hanno portato a confezionare il seguente testo: «I due leader discuteranno i passi esaurienti che il governo italiano sta adottando per restaurare la fiducia dei mercati e rinvigorire la crescita attraverso riforme strutturali». La scelta di adoperare la definizione di «comprehensive» (esauriente) nasce dalla volontà, come spiegano fonti diplomatiche a Washington, di «dare un giudizio positivo sui passi che Monti ha intrapreso» nella convinzione che «stiamo andando nella direzione giusta come le sue recenti visite nelle capitali europee hanno dimostrato». Sulle scrivanie del desk italiano del Dipartimento di Stato si sono sovrapposte le analisi delle riforme di Monti con gli approfondimenti giunti da Londra, Parigi e Berlino sulle reazioni dei rispettivi governi, portando alla conclusione che «se prima con Silvio Berlusconi l’Italia era parte del problema dell’Eurozona adesso con Mario Monti è parte della soluzione». Da qui la decisione di inserire nel testo del comunicato diffuso da Jay Carney, portavoce della Casa Bianca, il fatto che durante i colloqui a Washigton si discuterà anche della «prospettiva di espandere i firewall finanziari dell’Europa» ovvero la protezione dell’Eurozona con strumenti comuni, con il fondo Efsf, come suggerito dal governo italiano. La presenza di tali e tanti dettagli sull’agenda dell’incontro con un capo di governo straniero non è comune nei comunicati della Casa Bianca, che invece tendono in questi casi ad essere succinti. «Averlo fatto significa sottolineare l’apprezzamento per quanto Monti sta facendo prima ancora del suo arrivo» aggiungono le fonti a Washington, sottolineando il desiderio dell’amministrazione Obama si sostenere il governo in vista dei difficili passi che si appresta a compiere, nel timore di resistenze in Parlamento.

Nella seconda parte del testo si afferma che il presidente Barack Obama «si consulterà con il primo ministro Monti sui preparativi per i summit del 2012 del G8 e della Nato che si svolgeranno a Chicago» come anche sugli sviluppi «in Medio Oriente e Nord Africa». Se quest’ultima frase nasce dall’interesse di Washington per i risultati della visita del premier in Libia e per il possibile ruolo dell’Italia nella transizione siriana, in ragione dei forti legami economici fra Roma e Damasco, è il riferimento al summit di Chicago che pesa di più. E non solo perché nell’anno delle elezioni americane tiene a enfatizzare il ruolo internazionale della città da cui proviene. Per comprendere cosa c’è dietro il riferimento al summit della Nato bisogna ascoltare Philip Gordon, braccio destro del Segretario di Stato Hillary Clinton sull’Europa, quando spiega che durante i lavori in programma a maggio «l’Alleanza si concentrerà su tre priorità». Ecco di cosa si tratta. Primo: «Transizione in Afghanistan dalla missione di combattimento al sostegno alle truppe di Kabul con la definizione di un accordo sul ruolo della Nato dopo il 2014». Secondo: «Le capacità della Nato per realizzare un sistema di "Smart Defense" (Difesa intelligente) spendendo in maniera efficiente euro e dollari». Terzo: «Rafforzare le relazioni con gli altri partner nel mondo» la cui importanza è stata dimostrata dal recente intervento in Libia. Ciò significa che Obama è intenzionato a discutere con Monti il ruolo che l’Italia potrà avere in Afghanistan dopo la fine della missione di combattimento come anche nell’ottimizzazione delle risorse esistenti e nella creazione di nuove partnership, a cominciare dallo scacchiere del Medio Oriente e del Nord Africa. La tesi di William Taylor, che al Dipartimento di Stato coordina gli interventi a sostegno delle rivolte arabe, è che Usa e Ue dovrebbero riuscire a offrire alle nazioni che escono da dittature e dispotismi delle forme di partnership capaci di ancorarle nel lungo termine alla comunità delle democrazie.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2332


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Santorum guadagna spazio. Paul in ombra.
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2012, 12:02:22 am
27/1/2012 - Nel dibattito di Jacksonville, in Florida

Romney affonda i colpi su Gingrich

Duello su immigrati e "Base Luna".

Santorum guadagna spazio. Paul in ombra.

I candidati corteggiano l'ispanico Marco Rubio: "Potrebbe essere vice"

Maurizio MOLINARI

Mitt Romney proiettato in avanti, Newt Gingrich sulla difensiva e Rick Santorum nel ruolo della sorpresa: il dibattito numero 19 fra i rimanenti quattro sfidanti per la nomination repubblicana riserva non poche novità a Jacksonville, in Florida, incluso uno fitto scambio di battute fra Romney e Gingrich sulla costruzione ipotetica di una base spaziale sulla Luna.

A sostenere il progetto di "Base Luna" per ospitare oltre diecimila persone è Gingrich, citando Kennedy per presentarsi come leader visionario davanti al pubblico dello Stato che ospita Cape Canaveral, ma Romney lo mette nell'angolo con facilità, fino quasi a beffeggiarlo: "Se io avessi un manager che viene da me e propone di spendere qualche centinaio di miliardi per creare una colonia umana sulla Luna gli direi che è licenziato". Gingrich abbozza la replica che "servono delle priorità se si è presidenti degli Stati Uniti" ma appare sulla difensiva come era già avvenuto sul palco di Tampa, assai meno smagliante rispetto alla South Carolina forse perché travolto negli ultimi giorni da una raffica di attacchi da parte di opinionisti repubblicani secondo i quali è un camaleonte politico assai più simile a Bill Clinton che a Ronald Reagan. L'insolita debolezza di Gingrich si palesa subito, a inizio dibattito, quando accusa Romney di essere "il più anti-immigrati di noi quattro candidati" per essere travolto dalla reazione: "Non è affatto vero, mio padre nacque in Messico, i genitori di mia moglie in Galles, l'idea che io sia anti-immigrati è ripugnante, Gingrich deve smetterla di affibbiare etichette in base a ciò che gli viene in testa". Per tentare di uscire dall'angolo Gingrich tenta un affondo contro il condutte del dibattito, Wolf Blitzer di Cnn, come fatto a Charleston nei confronti di John King ma questa volta la mossa si risolve in un nulla di fatto e l'ex presidente della Camera si trova ancor più isolato. Consentendo a Romney di metterlo nell'angolo così: "Gingrich in South Carolina ha proposto una nuova autostrada, in New Hampshire un nuovo ospedale per veterani e qui un nuovo porto per ospitare grandi navi, l'idea di andare di Stato in Stato a promettere alla gente ciò che vogliono ascoltare, offrendo miliardi di dollari solo per farli contenti, è ciò che più mi inquieta". Gingrich è incapace di uscire dall'angolo ed anche quando svela che Romney ha investito in Fannie Mae e Freddie Mac - i giganti dei subprime - si rivela poco efficace, lasciando a Rick Santorum il ruolo di sorpresa sul palco. E' infatti l'ex senatore della Pennsylvania che strappa applausi a più riprese: quando chiede a Gingrich e Romney di "farla finita" con il teatrino del battibecco infinito e quando accusa Barack Obama di aver scelto Hugo Chavez e Fidel Castro come amici in America Latina. Il libertario Ron Paul ancora una volta in ombra, trova spazio solo quando dall'alto dei suoi 76 anni afferma che è pronto non solo a rendere pubblici i suoi dati medici ma anche a sfidare i rivali in una corsa in bicicletta su 25 miglia di distanza. A conti fatti Romney vince a Jacksonville come era avvenuto a Tampa, avvalorando l'ultimo sondaggio Rasmussen che gli assegna 7 punti più di Gingrich nelle primarie del 31 gennaio. C'è però anche un altro vincitore a Jacksonville: il senatore della Florida Marco Rubio perchè Romney, Gingrich e Santorum affermano all'unisono che sarebbero pronti ad assegnargli un ruolo di ministro "o anche qualcosa in più", ovvero la vicepresidenza.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2338


Titolo: MAURIZIO MOLINARI - INTERVISTA AL PRESIDENTE USA
Inserito da: Admin - Febbraio 09, 2012, 03:59:56 pm
Esteri

09/02/2012 - INTERVISTA AL PRESIDENTE USA

"L'Italia fa passi impressionanti Roma cruciale per superare la crisi"

Obama a La Stampa: "Monti sta modernizzando l’economia, avanti così su deficit e crescita".

Oggi alla Casa Bianca il colloquio con il presidente del Consiglio


MAURIZIO MOLINARI
inviato a washington

«L’Italia sta facendo passi impressionanti al fine di modernizzare la sua economia»: il presidente americano Barack Obama parla in esclusiva con «La Stampa» a poche ore dall’odierno incontro con il premier Mario Monti nello Studio Ovale, esprimendo forte sostegno per le misure di risanamento adottate dal governo e delineando l’agenda dei rapporti con l’Europa.

Le parole di Obama testimoniano la convinzione che Monti sta guidando l’Italia verso i sacrifici necessari ed è un leader europeo con il quale discutere la comune ricetta di Usa-Ue per superare la crisi finanziaria. A testimoniarlo è che Monti nell’intervista alla tv «Pbs» aveva auspicato martedì maggiori firewall finanziari per l’Eurozona «perché mettendone di più grandi si riduce la possibilità di doverli usare» e Obama ora risponde «sono d’accordo», lasciando intendere la necessità di un maggior impegno della Germania.

Il presidente descrive America e Europa alleate per battere la crisi finanziaria, aiutare le svolte democratiche in Medio Oriente e Nord Africa, costruire la difesa missilistica Nato e sostenere la transizione afghana. L’interesse americano per il risanamento italiano si deve alla convinzione che sia un passaggio cruciale per ridare stabilità all’Eurozona, scongiurando una nuova recessione negli Stati Uniti. A conferma dell’attenzione nei confronti dell’ospite, Pennsylvania Avenue lo accoglie con un cerimoniale che prevede dopo l’incontro nello Studio Ovale che Monti parli alla stampa al Pebble Beach, davanti all’entrata della West Wing.

L’intervista che segue è un ulteriore gesto di attenzione nei confronti del nostro Paese perché finora Obama non ne aveva mai concesse in occasione della visita di un premier italiano a Washington.

Partiamo dalla crisi dell’Eurozona. In più occasioni lei ha espresso la necessità di un’espansione dei «firewall finanziari per l’Europa». Ritiene che l’attuale cooperazione fra i governi di Germania, Francia e Italia vada nella direzione giusta?
«La situazione finanziaria in Europa sarà al centro dell’agenda con il primo ministro Monti nell’Ufficio Ovale. Come ho detto durante la crisi, credo che l’Europa abbia la capacità economica e finanziaria per superare questa sfida. Durante gli ultimi due anni, l’Europa ha compiuto un certo numero di passi difficili e cruciali per affrontare la crisi che cresceva. In Italia e in Europa i cittadini stanno compiendo sacrifici dolorosi.
Sotto la leadership del primo ministro Monti, l’Italia sta ora adottando passi impressionanti per modernizzare la sua economia, ridurre il proprio deficit attraverso una combinazione di misure su entrate e spese, riposizionando la nazione sul cammino verso la crescita. Più in generale i governi europei si sono uniti nel riformare l’architettura dell’Unione europea. Una delle lezioni che gli Stati Uniti hanno appreso durante la nostra recente crisi finanziaria è stata l’importanza di dimostrare ai nostri cittadini, alle nostre imprese, e ai mercati finanziari che eravamo impegnati a fare ciò che serviva per risolverla. Questo è il motivo perché abbiamo chiesto con urgenza ai nostri partner europei di erigere abbastanza firewall finanziari per evitare che la crisi si diffondesse. Sono d’accordo con quanto il primo ministro Monti ha detto: se l’Europa mette in atto firewall sufficientemente grandi si riduce la possibilità di doverli usare. Ciò che serve adesso è che tutti i governi europei dimostrino il loro impegno totale per il futuro dell’integrazione economica in Europa».

Perché la soluzione della crisi del debito nell’Eurozona è così importante per gli Stati Uniti?
«È così importante perché le nostre fortune economiche sono intrinsecamente legate e le relazioni con l’Europa sono una parte importante dei nostri sforzi per creare posti di lavoro e prosperità negli Stati Uniti. L’Unione europea è il singolo più grande partner economico dell’America, e il commercio e gli investimenti fra noi sostengono milioni di posti di lavoro su entrambi i lati dell’Atlantico. Le nostre banche e i nostri mercati finanziari sono profondamente connessi. Quando l’Europa va bene questo è positivo per i posti di lavoro e le aziende in America. Quando la crescita in Europa rallenta o i vostri mercati finanziari sono instabili, noi ne sentiamo le conseguenze, così come voi avete sentito l’impatto della crisi finanziaria americana quattro anni fa. Più semplicemente, gli Stati Uniti hanno un enorme interesse nella crescita dell’Europa e nel successo dell’area dell’euro. Questo è perché mi sono consultato strettamente e ripetutamente con le mie controparti europee durante la crisi. Ho condiviso con loro le lezioni rilevanti della nostra crisi recente mentre erano impegnate a fronteggiare questa sfida.
Il mio incontro con il primo ministro Monti è l’ultimo passo di una cooperazione che continua. Ho intenzione di riaffermare al primo ministro il messaggio che ho portato ai miei partner europei in precedenza, nel caso più recente a Cannes durante il summit del G20: gli Stati Uniti continueranno a fare la loro parte per sostenere gli amici europei nel loro impegno per risolvere la crisi. Voglio solo aggiungere che si tratta di qualcosa che va oltre l’economia. Americani ed europei hanno un profondo legame di amicizia, forgiato in guerra e rafforzato in pace. Vogliamo davvero che l’Europa si riprenda e prosperi. Inoltre, l’Italia è uno dei nostri più importanti alleati e operiamo assieme all’Europa in qualsiasi cosa che facciamo nel mondo. Quando l’Europa è forte, prospera e sicura noi assieme siamo più efficaci, e il mondo è più prospero e pacifico».

In maggio nella sua Chicago ospiterà il summit della Nato. Uno dei temi sarà la transizione in Afghanistan. Qual è il ruolo che l’Italia può avere nello scenario del dopo-guerra?
«L’Italia ha avuto un ruolo cruciale e centrale nella Forza di assistenza e sicurezza internazionale della Nato in Afghanistan, uomini e donne delle vostre forze armate hanno servito con coraggio e altruismo, così come hanno fatto i vostri diplomatici e esperti di sviluppo. Assieme con i nostri partner afghani e la nostra coalizione di 50 nazioni, abbiamo compiuto progressi reali nel raggiungere gli obiettivi condivisi di sconfiggere Al Qaeda, spezzare l’avanzata dei taleban e addestrare le forze di sicurezza nazionali afghane affinché l’Afghanistan possa assumere la guida della sua sicurezza. Italiani coraggiosi hanno dato le loro vite per ottenere tali progressi e noi siamo grati del sostegno del popolo italiano a questa missione vitale. Apprezziamo l’impegno dell’Italia a rispettare gli accordi raggiunti al summit di Lisbona del 2010 per sostenere un processo di transizione guidato dagli afghani che è iniziato lo scorso anno, che consentirà loro di avere la responsabilità della sicurezza entro la fine del 2014. Aspetto di dare il benvenuto al primo ministro Monti e ai nostri colleghi capi di governo nella mia Chicago per il summit della Nato. Sarà un’opportunità per delineare la prossima fase della transizione in Afghanistan.
La partnership strategica di lungo termine che l’Italia recentemente ha firmato con l’Afghanistan è un’affermazione forte e benvenuta sull’estensione dell’impegno dell’Italia oltre il 2014, proprio come gli Stati Uniti stanno costruendo una partnership duratura con il popolo afghano. Al tempo stesso, l’Italia e gli Stati Uniti si sono uniti al resto della comunità internazionale nell’offrire sostegno politico ad un processo di riconciliazione guidato dagli afghani che può contribuire a porre fine ad un’insurrezione che ha minacciato il popolo afghano e il resto del mondo per già troppo tempo. Il summit di Chicago sarà anche un’opportunità per noi di consultarsi su altri temi dell’agenda Nato. La Nato è il pilastro dell’Alleanza transatlantica e della sicurezza europea. Come l’intervento in Libia ha dimostrato, è anche un pilastro della sicurezza globale. Guardando in avanti, abbiamo bisogno di assicurarci che quando la prossima crisi inattesa si manifesterà, saremo pronti a rispondere. Questo è il motivo per cui lo “Strategic Concept” della Nato sta preparando l’alleanza per le missioni e sfide del futuro. Questo è il motivo del perché i ministri della Difesa Nato recentemente hanno deciso di aggiornare le nostre capacità condivise di intelligence, sorveglianza e controllo. E questo spiega perché quando ospiterò il summit in maggio, faremo passi importanti per assicurare che la Nato abbia le capacità necessarie per affrontare le sfide del nostro tempo, inclusi i progressi verso il sistema di difesa missilistica Nato».

La Primavera araba si svolge non lontano dalle coste italiane. Come possono i nostri Paesi essere d’aiuto ai nuovi governi arabi affinché possano costruire società più stabili, libere e prospere?
«È stato un anno straordinario. In Medio Oriente e nel Nord Africa i cittadini si sono sollevati in nome della loro dignità e dei diritti universali. Le transizioni democratiche in Tunisia, Egitto e Libia sono in corso. Assieme alla comunità internazionale abbiamo chiarito che l’orrenda violenza contro il popolo siriano deve finire e che Bashar Assad deve dimettersi così che una transizione democratica possa iniziare immediatamente. Ognuna di queste nazioni affronterà esami politici e economici procedendo sulla strada della democrazia. Gli Stati Uniti e l’Europa condividono un profondo interesse nel successo di queste transizioni. Saranno i popoli della regione a determinare il loro futuro ma gli Stati Uniti e l’Europa possono e devono sostenerli in questo momento cruciale. Per questo ho fatto del sostegno alle riforme politiche ed economiche nella regione una linea d’azione degli Stati Uniti. Continueremo a sostenere le riforme democratiche e puntiamo ad un pacchetto di riforme economiche e di partnership per aiutare queste nazioni ad affrontare le difficoltà economiche che sono anche alla base delle richieste di cambiamento.
Il sostegno internazionale può avvenire sotto molte forme, inclusi commercio e investimenti, assistenza tecnica per le elezioni, potenziamento della società civile e il sostegno fondamentale ai diritti universali. Grazie alla sua ricca esperienza storica in transizioni politiche, l’Europa ha un ruolo particolare da giocare. L’Italia è stata una tenace promotrice dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto in queste nazioni e noi rendiamo omaggio a tali sforzi per sostenere transizioni che rispettino tali valori. L’Italia ha inoltre dato contributi importanti al successo dei nostri sforzi per salvare vite e sostenere il popolo libico nel porre fine al regime di Gheddafi. Come ho detto in maggio, ci saranno pericoli che accompagneranno momenti promettenti ma sono sicuro che, con il vostro sostegno, vi saranno giorni migliori e di maggiore speranza per i popoli del Medio Oriente e del Nord Africa, che meritano gli stessi diritti e opportunità degli altri popoli del mondo».

Nel discorso che pronunciò a Berlino nel luglio del 2007 disse che “in questo nuovo secolo americani e europei dovranno fare entrambi di più, e non di meno”. Quali sono le nuove sfide comuni che abbiamo davanti?
«Viviamo in un’era nella quale i destini delle nazioni e dei popoli sono connessi come mai avvenuto prima. In un mondo dove le crisi finanziarie possono diffondersi rapidamente dobbiamo coordinare le nostre risposte, come abbiamo fatto al G-20, per assicurarci che la crescita globale sia bilanciata e sostenuta. Le nuove minacce attraversano confini e oceani, dobbiamo smantellare i network terroristici e fermare la diffusione delle armi nucleari, affrontare i cambiamenti climatici, combattere la carestia e le malattie. E poiché i cittadini rischiano le loro vite nelle strade del Medio Oriente e del Nord Africa, il mondo intero è in gioco nelle aspirazioni di una generazione impegnata a determinare il proprio destino. Dobbiamo affrontare assieme queste minacce e sfide. Non c’è maniera migliore di farlo che attraverso la nostra alleanza con l’Europa, che è la più stretta e forte del mondo, radicata in storia e valori comuni. Come ho detto spesso, la relazione dell’America con i nostri alleati e partner europei è il pilastro del nostro impegno nel mondo. Lo abbiamo visto in Afghanistan, dove le nostre forze sono spalla a spalla. Lo abbiamo visto in Libia, dove la Nato ha fronteggiato la necessità assumendosi la responsabilità della protezione civile, dell’embargo di armi e della imposizione della no-fly zone. L’Italia e le sue forze armate hanno avuto un ruolo vitale in queste missioni. La nostra partnership transatlantica è l’alleanza di maggiore successo e il più grande catalizzatore di azione globale. Sono determinato a fare in modo che resti tale».

Lei non ha antenati italiani ma, come ha detto intervenendo al gala della Fondazione italoamericana Niaf a Washington, è circondato da stretti consiglieri che ce l’hanno: da Leon Panetta a Janet Napolitano e il generale Raymond Odierno, dall’ex presidente della Camera Nancy Pelosi a Jim Messina e Alyssa Mastromonaco. Che cosa prova a lavorare circondato da tanti americani di origine italiana?
«Come presidente è un onore lavorare con così tanti colleghi e componenti dello staff con le radici in Italia. Sono gli ultimi di un lungo elenco di italiani-americani che hanno dato contributi durevoli alla prosperità e sicurezza dell’America, e sono orgoglioso di averne così tanti nel mio team. Sono anche orgoglioso di lavorare assieme a così tanti leader politici italiani-americani di talento, come la mia amica Nancy Pelosi che ha fatto la Storia diventando la prima donna a presiedere la Camera dei Rappresentanti. L’Italia può essere fiera del fatto che i suoi figli e le sue figlie continuano a dare contributi inestimabili al successo degli Stati Uniti e alla nostra partnership bilaterale. Ovviamente devo aggiungere che due persone come Danilo Gallinari e Marco Belinelli garantiscono un certo buon nome anche alla Nba».

da - http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/441775/


Titolo: MAURIZIO MOLINARI L'offensiva finale dei Taleban
Inserito da: Admin - Marzo 25, 2012, 12:00:06 pm
25/3/2012

L'offensiva finale dei Taleban

MAURIZIO MOLINARI

L’attacco a colpi di mortaio contro la postazione «Ice» dei nostri soldati in Gulistan suggerisce che gli ultimi due anni di missione combattente della Nato in Afghanistan saranno i più duri e pericolosi dall’inizio dell’intervento.

Al summit di Lisbona l’Alleanza decise di terminare la missione militare entro fine 2014.
Il Pentagono per settembre avrà ridotto di 33 mila unità le proprie truppe e ha annunciato che gran parte delle rimanenti 68 mila rientreranno per la metà del 2013. L’accelerazione del ripiegamento è tale che al summit di Chicago in maggio la Nato si avvia a concordare quale sarà la presenza in Afghanistan dopo il ritiro: compiti di addestramento, lotta al terrorismo, rafforzamento delle istituzioni locali, aiuti economici, assistenza civile.

Sul terreno i taleban percepiscono tali sviluppi come le avvisaglie di un successo perché, a oltre undici anni dall’inizio dell’intervento Nato in risposta agli attacchi dell’11 settembre, il nemico sta ripiegando. Sebbene nell’ultimo anno, grazie all’invio dei rinforzi deciso dalla Casa Bianca, il numero dei taleban uccisi o catturati sia stato il più alto di sempre, il rapporto «State of the Taliban 2012» redatto dalla Nato sulla base degli interrogatori di 4 mila guerriglieri detenuti rivela che la maggioranza di loro ritiene che stiano vincendo il conflitto in una ripetizione di quanto avvenne ai danni dell’Armata Rossa sovietica nel 1989. Questo spiega perché continuano ad attaccare come e dove possono: i colpi di mortaio lanciati a ripetizione contro le postazioni fisse dei militari italiani, i soldati Usa uccisi da afghani in divisa, il giallo del fallito attentato al capo del Pentagono Leon Panetta, il costante tentativo di abbattere elicotteri e le infiltrazioni letali di agenti doppi descrivono il disordinato, ma costante, tentativo di infliggere più perdite possibile al nemico.

È una tattica destinata a intensificarsi perché l’obiettivo dei gruppi taleban più aggressivi, come il network di Jalaluddin Haqqani, è dimostrare l’incapacità del governo di Kabul di garantire la sicurezza, delegittimandolo al punto da rovesciarlo. Poiché la Nato ha già deciso il ritiro, l’intento dei taleban è uccidere il massimo numero di suoi soldati per raggiungere l’obiettivo seguente: abbattere il presidente Hamid Karzai. Se l’Alleanza vuole sfruttare i prossimi due anni per rafforzare il governo di Kabul al punto da renderlo autosufficiente almeno nel mantenimento della sicurezza interna, quello dei taleban è l’opposto ovvero una lunga offensiva tesa a rivendicare la sovranità su aree da dove minacciare la capitale.
Ad incoraggiare i taleban sono i segnali di debolezza che la Nato continua a mostrare.

Washington e Kabul non riescono a firmare l’accordo di lungo termine che include la creazione di basi Usa permanenti. In Qatar i negoziati fra inviati Usa e taleban sono in balia delle condizioni imposte da questi ultimi, che dopo la strage di civili a Kandahar da parte di un sergente Usa hanno abbandonato i colloqui affermando di non avere idea quando vorranno riprenderli. E nei singoli Paesi dell’Alleanza, a cominciare dagli Stati Uniti, cresce la pressione dell’opinione pubblica per accelerare il ritiro. Si tratta di un domino politico-militare sul quale ha lanciato l’allarme il generale dei Marines John Allen, comandante delle truppe in Afghanistan, dichiarando in un’audizione al Congresso che Pentagono e Nato devono lasciare sul terreno una «grande quantità di forze» se vogliono assicurare la stabilità della transizione, che potrebbe andare oltre la scadenza del 2014.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9922


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Il patto del cheeseburger
Inserito da: Admin - Maggio 20, 2012, 11:15:33 pm
19/5/2012

Il patto del cheeseburger

MAURIZIO MOLINARI

Parlando di cheeseburgerepatatinefritte Barack Obama e François Hollande hanno siglato nello Studio Ovale l’intesa che si propone di salvare la Grecia, rilanciare la crescita nell’Eurozona e far decollare quella degli Stati Uniti in tempo utile per l’Election Day. Alla basedel patto franco-americano ci sono gli interessiconvergentideidueleader.

Per essere rieletto in novembre Obama ha bisogno di recuperare in fretta posti di lavoro, di un clima economico positivo nell’area transatlantica e dunque non può permettersi lo scenario di lunghi mesi di incertezza sulla sorte di Atene e, di conseguenza, sulla tenuta dell’Eurozona. Hollande invece ha le elezioni alle spalle ma punta a imporsi in Europa come il leader di una coalizione di Paesi accomunati dalla necessità di creare posti di lavoro e far aumentare il tenore di vita degli abitanti per respingere l’assalto dei partiti estremisti, di destra come di sinistra, alimentati dallo scontento contro il rigore fiscale frutto degli accordi europei che molto devono alla Germania di Angela Merkel.

Tanto la rielezione di Obama quanto la scommessa di Hollande ruotano attorno al fattore-tempo ovvero la necessità di approvare in fretta misure di stimolo all’economia che, senza accrescere i debiti, rilancino in avanti lo sviluppo di entrambi. Per questo il capo dell’Eliseo mette l’accento con Obama sul fatto che «le nostre economie dipendono l’una dall’altra» trasmettendo alla Casa Bianca la sensazione di aver trovato un interlocutore europeo più interessato della Merkel alla ripresa americana. Berlino ha avuto almeno due occasioni per dimostrare di essere tale: nel 2010 al vertice di Seul del G20, quando voltò le spalle a Washington scegliendo di schierarsi con Pechino a difesa dei rispettivi surplus commerciali, e nel giugno 2011 allorché la Casa Bianca accolse la cancelliera con un cerimoniale senza precedenti andando poi incontro alla delusione dovuta alle sue continue oscillazioni sull’impegno tedesco a favore dei firewall necessari per difendere la moneta unica europea. Negli ultimi due anni, Obama ha guardato con insistenza a Berlino nella convinzione che la più florida economia dell’Eurozona fosse l’interlocutore indispensabile per rilanciare la crescita del Pil dell’Occidente ma a fargli cambiare idea sono state le continue esitazioni di Angela Merkel, motivate spesso con ragioni di politica interna tedesca che hanno messo a dura prova la comprensione di alcuni dei veterani del desk Europa del Dipartimento di Stato.

Da qui l’affannosa ricerca di un nuovo interlocutore europeo che le recenti elezioni francesi hanno recapitato alla Casa Bianca perché Hollande è portatore di un programma economico assai simile a quello redatto dal Team Obama. Resta da vedere se ora Hollande saprà rivelarsi un credibile partner di Obama nella battaglia pro-crescita nello spazio dei pochi mesi a disposizione prima delle elezioni americane. Ma Barack non ha altre alternative possibili: se l’italiano Mario Monti è il leader europeo con la credibilità necessaria per trattare con Berlino, è Hollande l’alleato strategico per accelerare sulla crescita. Da qui la scelta di andare all’offensiva sul tavolo del G8, puntando a siglare oggi a Camp David un patto capace di allontanare l’incubo che sia il crac dell’Eurozona a poter condizionare le elezioni americane.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10123


Titolo: MAURIZIO MOLINARI "L'Italia si rassegni: è diventato un Paese ad alto rischio"
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2012, 10:38:45 am
7/6/2012 - INTERVISTA

"L'Italia si rassegni: è diventato un Paese ad alto rischio"

L'esperto Usa: colpa dell'effetto catena

MAURIZIO MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Il terremoto a largo di Ravenna è stato descritto in diretta dai sismografi del «Geological Hazard Team Office» del governo degli Stati Uniti a Golden, Colorado, dove in quel momento ad essere in servizio c’era il geologo Randy Baldwin, con il quale abbiamo parlato per ascoltare la sua interpretazione di quanto avvenuto.

Siete rimasti sorpresi dal terzo sisma verificatosi in Italia nell’arco di pochi giorni?
«Sorpresi sì, ma a ben vedere la dinamica di quanto avvenuto non è stata insolita».

Iniziamo dalla sorpresa...
«I due terremoti precedenti, con gli epicentri sulla terraferma, erano avvenuti lungo la faglia Ovest. Avevamo riscontrato scosse di assestamento nei giorni precedenti e sapevamo che ne sarebbero avvenute altre ma non ci aspettavamo un nuovo sisma in una zona diversa ovvero sulla faglia Est».

Quale la motivazione?
«La genesi di tale fenomeno si deve al fatto che il sisma del 20 maggio è stato di grado alto. Quando ciò avviene la conseguenza è una forte pressione sulle faglie adiacenti. È stato lo stress ricevuto dalla faglia Ovest a causa del primo sisma a determinare il terremoto a largo di Ravenna. Bisogna pensare a qualcosa di simile ad una forte scossa elettrica, che riesce a scuotere tutto quanto sta attorno alla zona investita dal primo impatto».

È questo il motivo per cui afferma che non è stato un evento insolito?
«È uno dei due motivi. L’altro ha a che vedere con i precedenti perché nel 2002, sempre a largo della città di Ravenna si ebbe un sisma di categoria 5 e dunque ciò significa che si tratta di un’area che deve essere considerata a rischio».

Cosa è possibile dedurre dalla lettura comparata dei tre terremoti avvenuti?
«Sappiamo da sempre che l’Italia è molto sismica. L’intero territorio nel bel mezzo del Mediterraneo si trova fra il plateau Euroasiatico e quello dell’Africa. La terraferma è disseminata di aree di origine vulcanica. Ci sono faglie diverse che interagiscono le une con le altre e quanto avvenuto conferma che i terremoti, se si manifestano con intensità molto forte, tendono a non rimanere isolati ma possono propagarsi anche alle faglie circostanti».

È possibile preavvertire le popolazioni interessate per tentare di limitare i danni alle persone?
«La prevenzione che stiamo mettendo in atto nei confronti degli tsunami non è possibile per i terremoti perché nel caso delle grandi onde anomale oceaniche si tratta di un pericolo potenziale che si manifesta dopo una forte scossa iniziale, che viene registrata. Nel caso dei terremoti è assai più complesso, per non dire impossibile».

Ci può fare un esempio di tale difficoltà nella prevenzione?
«Prendiamo proprio il terremoto in Giappone da cui si originò lo tsunami che ha innescato il disastro di Fukushima. Il primo sisma, di intensità 7.2, si verificò 48 prima di quello più violento che sarebbe stato di intensità 9. Ci accorgemmo di quanto era avvenuto ma nessuno di noi aveva strumenti scientifici per poter dire con assoluta sicurezza che dopo il primo sarebbe arrivato il secondo, e assai più devastante, sisma. Questa è l’imprevedibilità dei terremoti. Ed è la ragione del perché la prevenzione deve essere fatta in maniera differente, facendo attenzione a dove, come e cosa si costruisce, soprattutto nelle zone più a rischio».

E in Italia questo significa l’intero Stivale...
«È la geofisica a suggerirlo, non certo noi geologi che ci limitiamo a studiare con gli strumenti che la scienza ci fornisce».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2519&ID_sezione=58


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Monti, missione Usa a caccia di investitori
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2012, 10:24:46 am
13/7/2012 - RETROSCENA

Monti, missione Usa a caccia di investitori

Alla Allen Conference con il gotha della finanza mondiale

MAURIZIO MOLINARI
INVIATO A SUN VALLEY (IDAHO)

Mike Bloomberg in pantaloncini blu, Rubert Murdoch protetto dall’ombrellino parasole, Mark Zuckerberg con lo zaino sulle spalle e Tim Cook in maniche di camicia: è il gotha della finanza e della tecnologia a varcare, in abiti casual e quasi sempre a fianco dei rispettivi partner, la soglia dell’esclusivo resort Sun Valley Inn. L’annuale Allen & Co. Conference quest’anno ha in cima all’agenda la politica estera e vede
l’attenzione concentrarsi sul premier Mario Monti, ospitato in uno dei cottage con tanto di bandiera tricolore sul pennone.

Basta parlare con qualcuno degli invitati illustri - tutti rigorosamente anonimi - per accorgersi che Monti è considerato parte integrante della Allen Conference per via di legami personali, costanti frequentazioni e un diffuso interesse per le riforme che sta realizzando in Italia. Nella doppia veste di componente dell’Allen club e protagonista della più stretta attualità finanziaria questa mattina Monti sarà intervistato dal noto conduttore tv Charlie Rose in un evento immaginato per discutere a tutto campo la crisi del debito dell’Eurozona. Dopo un debutto mercoledì con David Ignatius, columnist del Washington Post , sui venti di guerra Israele-Iran e l’intervento ieri del ceo della Coca-Cola Muhtar Kent sui travagli della Cina, oggi il protagonista è Monti, arrivato da Roma in completa solitudine, senza portavoce nè stretti collaboratori, a conferma che si tratta di un evento incentrato più sulla sua persona e le sue competenze che non sulla carica che riveste. E non si tratta di poca cosa, ricordando come questi stessi conclave dell’alta finanza tenessero a distanza il predecessore Silvio Berlusconi. Nella sala dove questa mattina Monti parlerà troverà i partecipanti italiani riuniti in un tavolo organizzato da John Elkann, presidente della Fiat, con in bella vista bandierine tricolori.

Monti, però, a Sun Valley ha anche una missione e per capire di cosa si tratta bisogna ascoltare Maggie Bult, stretta collaboratrice di Bloomberg per conto del quale in febbraio organizzò a Manhattan l’incontro fra il premier e una platea di investitori di Wall Street. «Vi fu grande interesse per Monti ma gli investimenti che era venuto a chiedere non hanno risposto alle attese» osserva Bult, secondo la quale «oltre ai dispetti verbali di George Soros» il problema che si manifestò, e che continua a permanere, «è il timore che le riforme possano tornare in dubbio dopo le elezioni del 2013» quando l’attuale governo terminerà il mandato, aprendo una fase «percepita come di grande incertezza».

A complicare il rapporto con gli investitori americani c’è il fatto che, se a inizio anno la priorità di Monti era convincerli a scommettere sull’Italia adesso occorre fermare la fuga dai nostri titoli di Stato. È stato il rapporto del Fmi sull’Italia a fotografare il fenomeno: se nel 2010 il 52% dei Bot era in mano a stranieri ora la quota è scesa al 36%, dimostrando una sfiducia da parte dei mercati che obbliga le banche italiane e la Bce a intervenire.

Poiché nel parterre che ascolterà Monti vi sono alcuni dei maggiori investitori privati americani - basti pensare a Warren Buffett, l’oracolo di Omaha non è difficile immaginare che quanto dirà potrebbe avere conseguenze sull’entità della fiducia della grande finanza sulla possibilità dell’Italia di tornare a crescere, garantendo profitti nel medio periodo. A margine dei lavori, il conclave è stato oggetto di una protesta improvvisa di Occupy Wall Street: alcuni militanti si sono stesi in terra davanti all’entrata fingendo di essere stati uccisi dai «crimini dei colletti bianchi».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2560


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Il rischio politico sulla finanza
Inserito da: Admin - Luglio 17, 2012, 05:28:10 pm
16/7/2012

Il rischio politico sulla finanza

MAURIZIO MOLINARI

Terminata la «Allen & Co. Conference» a Sun Valley è nel piccolo terminal di Hailey, Idaho, che Thomas Friedman aspetta l’aereo per tornare a Washington. Il consistente ritardo, dovuto all’insolito traffico di aerei privati dei vip, gli offre l’occasione per esprimere forte timore sull’Italia «in bilico fra Monti e Berlusconi». «Avete un buon premier ma è alla guida di una nazione che resta molto instabile» osserva il columist del «New York Times» cronista dell’era della globalizzazione.

Alla base della preoccupazione di Friedman c’è lo stesso fattore «political risk» che ha portato Moody’s ad abbassare il rating dei titoli di Stato italiani, che è risuonato nella sala del «Sun Valley Inn» quando Monti ha confermato che lascerà nel 2013 e che ha tenuto banco negli incontri informali a latere fra il premier e i leader del futuro dell’America, nell’hi-tech come nella finanza, uniti dalla speranza che dopo il prossimo voto l’inquilino di Palazzo Chigi resti lo stesso.

Se l’Italia viene ritenuta un «rischio politico» è per quanto sta avvenendo da qualche settimana a Roma e dintorni: l’aperta ostilità della Cgil a tagli alla spesa pubblica considerati solo un primo passo dal Fmi, la volontà di Silvio Berlusconi di «tornare in pista» nel Pdl avvicinandosi ai circoli più scettici sul futuro dell’Eurozona, le spaccature interne al Partito democratico sull’opportunità di sostenere le riforme del governo e la recente affermazione elettorale del movimento di protesta di Beppe Grillo proiettano l’immagine di una nazione che nell’arco di pochi mesi potrebbe invertire l’attuale corso del risanamento economico, tornando ad essere considerata il maggiore fattore di instabilità dell’Eurozona, come avvenne in novembre al summit del G20 a Cannes. La sovrapposizione fra questo possibile scenario di instabilità politica interna e l’avvenuta entrata in recessione della nostra economia spiega perché il «political risk» italiano evochi la Grecia, spingendo l’economista della «New York University» Nouriel Roubini ad ammonire: «Il caos politico spaventa, basta invocare la lira o i mercati vi puniranno». Friedman e Roubini esprimono opinioni largamente diffuse, come dimostrano le notizie su Berlusconi date dalla tv Msnbc - fra le più seguite sui temi economici - in cui viene descritto nella seguente maniera: «Il tre volte premier dopo aver mantenuto un profilo basso dal momento della sostituzione con Monti, ha annunciato questa settimana che tornerà in prima linea come candidato del centrodestra, impasticciando ancor più la situazione politica» anche perché «ha avuti toni anti-europei, criticato l’austerità di Monti e messo in dubbio l’opportunità di rimanere nell’euro».

Per avere un’idea dei rischi che si corrono indebolendo Monti bisogna ascoltare Jim Reid, stratega economico di Deutsche Bank, quando osserva che «il rating Baa2 assegnato da Moody’s all’Italia è ancora troppo alto, sebbene assai vicino al livello che inizia a impaurire gli investitori». L’Italia è a complessivi nove gradini di distanza dalla perdita dello status di «nazione dove investire» assegnata dalle tre maggiori agenzie di rating perché, oltre a Moody’s, Standard & Poor’s ci classifica «BBB+» e Fitch «A-». Ciò significa che restiamo a pochi passi dall’abisso. Se la tempesta al momento sembra placata è solo per la credibilità del programma di riforme definito da Monti, garantito dalla sua competenza tecnica, ma il momento del cessato allarme arriverà solo quando tali riforme saranno realizzate. Più il «political risk» si manifesta, più il momento della realizzazione delle riforme si allontana, più i pericoli finanziari tornano a manifestarsi. E’ il domino inesorabile frutto di una globalizzazione dell’economia che non consente più il lusso di gestire la propria instabilità politica come se fosse una vicenda privata. Non a caso è stata l’agenzia cinese Xinhua la prima ad attribuire il taglio del rating italiano alle dichiarazioni di Berlusconi sulla volontà di tornare premier. Sono questi i motivi per cui la quota di investitori stranieri nei titoli di Stato continua a scendere, obbligando la Bce e le nostre banche a maggiori interventi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10337


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Perché l'euro spaventa Obama
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2012, 04:38:07 pm
31/7/2012 - IL FILO DOPPIO USA-UE

Perché l'euro spaventa Obama

Le pressioni su Bruxelles, le visite ripetute di Geithner: ecco come la Casa Bianca ci sorveglia da vicino

MAURIZIO MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK


La missione europea del ministro del Tesoro americano Tim Geithner nasce dai timori dell’amministrazione Obama di un’esplosione della crisi del debito europeo in settembre.

Perché Washington ha tanto a cuore la salute dell’Eurozona?
Per l’impatto che ha sull’economia americana. Nel secondo trimestre il pil Usa è cresciuto dell’1,5%, il più debole dal terzo trimestre del 2011, a causa di due motivi: la contrazione dei consumi e la diminuzione dell’export. Poiché l’Europa è il primo partner commerciale degli Usa, più la sua economia frena, più l’export cala, più posti di lavoro si perdono in America. E’ un domino che può costare a Barack Obama la presidenza, considerando che l’Election Day è il 6 novembre.

Da dove nasce lo scenario di una possibile implosione dell’Eurozona in settembre?
E’ il frutto di una sovrapposizione di scadenze. Il 12 settembre la Corte Costituzionale tedesca si pronuncerà sulla compatibilità con le leggi nazionali dell’European stability mechanism, il fondo Esm di salvataggio. Basterebbe un parere negativo per neutralizzare la strategia salva-euro di Bruxelles. Nello stesso giorno in Olanda si celebreranno elezioni nelle quali vengono dati in crescita i partiti anti-euro che potrebbero bloccare il secondo salvataggio della Grecia, da definirsi sempre entro settembre. Su tutto pesa l’incognita dei tassi spagnoli: per finanziare il debito Madrid deve ancora raccogliere 50 miliardi entro fine anno ma se i tassi dei Bonos resteranno oltre il 7% il crac è possibile.

Perché la Spagna è decisiva?
Per la grandezza della sua economia. Eurozona e Fmi hanno versato aiuti a Portogallo, Grecia e Irlanda ma un salvataggio della Spagna comporterebbe almeno il doppio del totale di quanto finora sborsato.
Inoltre il salvataggio della Spagna spingerebbe la crisi verso l’Italia, la terza economia per grandezza dell’Eurozona. Nelle case dei fondi di soccorso europei Efsf e Esm - vi sono 459,5 miliardi di euro fino a luglio 2013 e 500 miliardi fino a luglio 2014: troppo pochi per soccorrere la sola Spagna.

Quale è la soluzione che Washington suggerisce?
Sebbene nelle dichiarazione pubbliche l’amministrazione Obama fa attenzione a rispettare la sovranità dell’Eurozona sui temi finanziari, la convinzione della Casa Bianca è che la soluzione è a portata di mano: consentendo al fondo Esm di rifinanziarsi prendendo in prestito denaro dalla Bce disporrebbe di risorse praticamente illimitate, destinate a consolidare l’euro, rassicurare i mercati e frenare la speculazione.
Quando Mario Draghi, presidente della Bce, ha detto «faremo tutto quanto necessario per salvare l’euro» la Casa Bianca ha avuto la sensazione che si stia andando verso questa svolta. Da qui la decisione di Geithner di recarsi in Germania per fare pressing sui falchi, guidati dalla Germania: una specie di coalizione che include Olanda e Finlandia.

Quanto è profondo il disaccordo fra Obama e Merkel?
Obama aveva identificato la Merkel nell’interlocutore privilegiato sulla crisi dell’euro. Nel giugno 2011 la cancelliera fu accolta con tutti gli onori alla Casa Bianca ed ebbe la prestigiosa Medal of Freedom, ma nei mesi seguenti le convergenze hanno lasciato il posto a frizioni in crescendo a causa delle resistenze di Berlino all’adozione di misure pro-crescita. Il timore, a Washington, è che Berlino immagini possibili nuovi equilibri economici planetari con la Germania più vicina agli emergenti che all’Eurozona.

Con quale strategia Obama tenta di disinnescare il rischio della crisi a settembre?
La strategia è quella inaugurata dopo il G7 di Camp David di aprile, ovvero tenere l’Eurozona sotto pressione: le frequenti telefonate di Obama ai leader Ue come le missioni a ripetizione in Europa di alti funzionari, da Geithner alla vice Lael Bainard, nascono dalla volontà di essere aggiornati su ogni minimo sviluppo interno all’Eurozona. Obama può contare su Christine Lagarde, il direttore del Fmi, i cui rapporti contribuiscono a tenere sotto pressione gli europei, puntando a rafforzare la Bce.

Può essere davvero la Bce a salvare l’Eurozona?
In questo momento l’America non punta a trovare una soluzione alla crisi del debito ma a «scelte di politica monetaria capaci di guadagnare tempo», come suggerisce Robert Zoellick, ex presidente della Banca Mondiale. Tali scelte passano per la Bce. In attesa che l’Eurozona riesca a dare una guida politica unica all’unione monetaria.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2586&ID_sezione=58


Titolo: MAURIZIO MOLINARI I RAPPORTI TRA ROMA E WASHINGTON
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2012, 11:12:09 am
Cronache

29/08/2012 - I RAPPORTI TRA ROMA E WASHINGTON

"Così intervenni per spezzare il legame tra Usa e Mani pulite"

A La Stampa l’ultima intervista dell’ex ambasciatore americano in Italia Reginald Bartholomew: «La violazione dei diritti di difesa un pericolo per la democrazia»

MAURIZIO MOLINARI
corrispondente da New York

Il mese scorso ho incontrato a New York l’ex ambasciatore Reginald Bartholomew che, dopo avermi detto di aver visto il mio libro «Governo Ombra», sull’Italia del 1978 descritta dai documenti del Dipartimento di Stato, mi ha chiesto se avevo voglia di parlare con lui dei suoi anni alla guida dell’ambasciata di Roma, cosa che non aveva mai fatto. «Non ho diari, ho solo la mia mente per ricordare» osservò. Ci vedemmo a cena da «Felidia» a Manhattan e Bartholomew incominciò subito a raccontarmi di Tangentopoli e del terremoto politico-giudiziario che trovò al suo arrivo in Italia. Era già molto malato, anche se non ne fece parola, e aveva urgenza di lasciare una testimonianza. Raccolsi il suo racconto - che lui ha avuto modo di rivedere trascritto- con l’intenzione di usarlo come base per una nuova inchiesta sul rapporto tra Italia e Stati Uniti e sull’approccio americano al team «Mani Pulite». Da quel momento ho cominciato a cercare i documenti dell’epoca e i protagonisti ancora in vita. Primo tra tutti l’ex Console generale Usa a Milano Peter Semler, a cui Bartholomew attribuiva un ruolo chiave nell’iniziale sostegno americano all’inchiesta di Antonio Di Pietro. Quando ho saputo dell’improvvisa morte del 76enne Bartholomew, avvenuta domenica all’ospedale Sloan-Kettering di New York a causa di un tumore, ho pensato che fosse giusto pubblicare quanto finora raccolto. A cominciare da questa prima puntata che contiene appunto la testimonianza di Bartholomew, un diplomatico raffinato e colto, convinto che il passaggio alla Seconda Repubblica dovesse essere opera di una nuova classe politica - a cui aprì le porte dell’Ambasciata - e non solo opera dei magistrati. Ecco il suo racconto.

Completo blu, camicia bianca e cravatta rossa, Reginald Bartholomew arriva puntuale all’appuntamento nell’Upper East Side fissato per ricordare il periodo, dal 1993 al 1997, che lo vide guidare l’ambasciata americana a Roma. «L’Italia politica era in fase di disfacimento, il sistema stava implodendo a causa di Tangentopoli iniziata l’anno precedente ed io mi trovai catapultato dentro tutto questo quasi per caso», esordisce. In effetti Bartholomew, ex sottosegretario di Stato agli Armamenti, ex ambasciatore a Beirut e a Madrid, era ambasciatore presso la Nato. «Lo aveva deciso Bush padre prima di lasciare la Casa Bianca, poi quando arrivò Bill Clinton decise di farmi inviato in Bosnia e stava pensando di nominarmi ambasciatore in Israele». Ma in una delle prime riunioni sulla politica estera tenute da Bill Clinton nello Studio Ovale, con solo sette stretti consiglieri presenti, l’Italia spunta nell’agenda. Siamo all’inizio del 1993, Clinton sta incominciando la presidenza, l’Italia appare in decomposizione e «uno dei sette fece il mio nome al presidente», osservando che in una fase di tale delicatezza a Roma sarebbe servito un veterano del Foreign Service. Clinton assentì, rompendo con la tradizione di mandare in Via Veneto un ambasciatore politico scelto fra i maggiori finanziatori elettorali, e Bartholomew venne così catapultato nell’Italia del precario governo di Giuliano Amato sostenuto dagli esangui Dc, Psi, Psdi e Pli, con Oscar Luigi Scalfaro arrivato al Quirinale sulla scia della strage di Capaci, il Pds di Achille Occhetto in ascesa e Silvio Berlusconi impegnato a progettare la discesa in campo. «Ma soprattutto quella era la stagione di Mani Pulite - dice Bartholomew -, un pool di magistrati di Milano che nell’intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia, a cui ogni americano si sente legato».

Indagini giudiziarie, arresti di politici «presero subito il sopravvento sul resto del lavoro, perché la classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità di un alleato strategico nel bel mezzo del Mediterraneo», ed è in questa cornice che Bartholomew si accorge che qualcosa nel Consolato a Milano «non quadrava». Se fino a quel momento il predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto con il pool di Mani Pulite, «d’ora in avanti tutto ciò con me cessò», riportando le decisioni in Via Veneto. Fra le iniziative che Bartholomew prese ci fu «quella di far venire a Villa Taverna il giudice della Corte Suprema Antonino Scalia, sfruttando una sua visita in Italia, per fargli incontrare sette importanti giudici italiani e spingerli a confrontarsi con la violazione dei diritti di difesa da parte di Mani Pulite». Bartholomew non fa i nomi dei giudici italiani presenti a quell’incontro nella residenza romana, ma ricorda bene che «nessuno obiettò quando Scalia disse che il comportamento di Mani Pulite con la detenzione preventiva violava i diritti basilari degli imputati», andando contro «i principi cardine del diritto anglosassone». Pochi mesi più tardi, nel luglio del 1994, il presidente Clinton arriva in Italia per partecipare al summit del G7 che il governo del neopremier Silvio Berlusconi ospita a Napoli. In coincidenza con i lavori, Mani Pulite recapita al presidente del Consiglio un avviso di garanzia e la reazione di Bartholomew è molto aspra. «Si trattò di un’offesa al presidente degli Stati Uniti, perché era al vertice e il pool di Mani Pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l’impatto della sua iniziativa giudiziaria contro Berlusconi», sottolinea l’ex ambasciatore, aggiungendo: «gliela feci pagare a Mani Pulite». Nulla da sorprendersi se in tale clima l’ambasciatore Usa all’epoca non ebbe incontri con i giudici del pool, «neanche con Antonio Di Pietro», mentre si dedicò a fondo a tessere i rapporti con le forze politiche emergenti. «I leader della Dc un giorno mi vennero a trovare, fu un incontro molto triste, sembrava quasi un funerale, era la conferma che bisognava guardare in avanti». Con il Pds, attraverso Massimo D’Alema, si sviluppò «un rapporto che sarebbe durato nel tempo». «D’Alema mi chiamò al telefono, gli dissi di venirmi a trovare e lui, dopo una certa sorpresa, accettò - rammenta Bartholomew -; quando lo vidi gli dissi con franchezza che il Muro di Berlino era crollato, quanto avevano fatto e pensato i comunisti in passato non mi interessava, mentre ciò che contava era la futura direzione di marcia, se cioè volevano essere nostri alleati così come noi volevamo continuare a esserlo dell’Italia». Ne nacque «un rapporto solido, continuato in futuro» con il Pds, «mentre con Romano Prodi fu tutto complicato dal fatto che, quando diventò premier nel 1996 del primo governo di centrosinistra della Repubblica, voleva a tutti i costi andare al più presto da Clinton, ma la Casa Bianca in quel momento aveva un altro calendario, e Prodi se la prese con me». Per tentare di riconquistare il rapporto personale con il premier «dovetti andare una domenica a Bologna, farmi trovare nel suo ristorante preferito e allora finalmente mi parlò, ci spiegammo». L’apertura al Pds coincise con quella a Gianfranco Fini, che guidava l’Msi precedente alla svolta di Fiuggi. «Con entrambi l’approccio fu il medesimo, si trattava di aprire una nuova stagione - dice Bartholomew -, ed ebbi lo stesso approccio, guardando avanti e non indietro, anche se devo ammettere che nei salotti romani il mio dialogo con Fini piaceva assai meno di quello con D’Alema».

L’altro leader che Bartholomew ricorda è Berlusconi. «La prima volta che ci vedemmo lo aspettavo all’ambasciata da solo, ma si presentò assieme a Gianni Letta, voleva il mio imprimatur per la sua entrata in politica e gli risposi che toccava a lui decidere se essere “King” o “Kingmaker”», ma l’osservazione colse in contropiede Berlusconi, «che diede l’impressione di non sapere cosa significasse “Kingmaker” e dopo essersi consultato con Letta mi rispose “Kingmaker? Noooo”». Dall’incontro, avvenuto poco prima dell’entrata in politica di Berlusconi nel 1994, Bartholomew trasse comunque l’impressione che si trattava di una candidatura molto seria «e nei mesi seguenti, girando l’Italia, mi accorsi che aveva largo seguito, sebbene personaggi come Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica, mi obiettavano che non potevo capire molto di politica italiana essendo arrivato solo da pochi mesi». A conti fatti, guardando indietro a quella fase storica, Bartholomew rivendica il merito di aver rimesso sui binari della politica il rapporto fra Washington e l’Italia, dirottato dal legame troppo stretto fra il Consolato di Milano e Mani Pulite, identificando in D’Alema e Berlusconi due leader che negli anni seguenti si sarebbero rivelati in più occasioni molto importanti per la tutela degli interessi americani nello scacchiere del Mediterraneo.

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/466750/


Titolo: MAURIZIO MOLINARI "Di Pietro mi preannunciò l’inchiesta su Craxi e la Dc"
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2012, 11:16:21 am
Cronache

30/08/2012 - I RAPPORTI TRA ITALIA E USA

"Di Pietro mi preannunciò l’inchiesta su Craxi e la Dc"

L’ex console a Milano Peter Semler: «Si confidò qualche mese prima dell’arresto di Chiesa: aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato»

MAURIZIO MOLINARI
corrispondente da new york

Alcuni mesi prima di Tangentopoli Antonio Di Pietro anticipò al console generale americano a Milano che l’inchiesta avrebbe portato a degli arresti e che le indagini erano destinate a coinvolgere Bettino Craxi e la Dc. A ricordarlo è proprio Peter Semler, durante un incontro nella sua tranquilla casa agli Hamptons dove trascorre l’estate fra spartiti di musica russa sul pianoforte, fiori ben curati nel patio e la tv accesa sul canale del golf. L’ex console, 80 anni, ha il fisico asciutto, la voce mite e grande premura nel ricordare gli anni passati in Italia, iniziati quando nel 1983 arrivò a Roma come consigliere militare-politico, gestendo l’arrivo dei missili Cruise a Comiso e disinnescando nel 1986 la crisi Usa-Italia seguita dall’attacco di Reagan contro la Libia di Gheddafi. Ma, trascorsi venti anni dall’inizio di Tangentopoli, ritiene soprattutto giunto il momento di ricordare come visse, dal suo osservatorio, quella stagione che portò alla fine alla Prima Repubblica.

Quando arrivò a Milano?
«Nell’estate del 1990. Era agosto e non c’era nessuno, tutto sembrava normale con i soliti Giulio Andreotti e Francesco Cossiga che decidevano ogni cosa a Roma. C’era anche Craxi, il figlio Bobo fu una delle prime persone che vidi».

Che approccio ebbe alla politica milanese?
«Giuseppe Bagioli, un dipendente italiano al Consolato, era il mio consigliere politico a Milano, viveva di politica interna, sapeva tutto di tutti. Una vera enciclopedia vivente, mi fu di aiuto straordinario. Una delle prima persone che mi portò fu il figlio di Craxi, poi vidi quelli della Lega e quindi i comunisti. Volevamo parlare con tutti e così facemmo. Mi resi conto che vi sarebbe stata un’esplosione, come poi avvenne. La Lega nel Nord aveva il centro a Milano, e poi qualcosa in Veneto».

Come ricorda i leghisti?
«Avere a che fare con loro era tutt’altra cosa rispetto a Roma: arrivavano puntuali ai pranzi e poi tornavano subito a lavorare. Borgioli mi fece parlare con gente che esprimeva scontento verso Roma, ma quando andai a dirlo all’ambasciatore a Roma Peter Secchia mi disse: “Che vai dicendo? Ieri ho visto Cossiga e Andreotti, è tutto ok, governa sempre la stessa gente”. Io rispondevo che i cambiamenti sarebbero stati grandi ma era parlare al vento».

Da dove nasceva il contrasto di interpretazioni con l’ambasciata Usa a Roma?
«All’ambasciata a Roma c’era all’epoca Daniel Serwer, che sosteneva la tesi che nulla sarebbe mai cambiato in Italia. Ad un incontro a Roma a cui parteciparono tutti i nostri generali, della forze del Mediterraneo, mi dissero che non avevo capito niente».

Perché era così convinto di avere ragione?
«Per quello che sentivo a Milano. Ricordo che un primo gennaio ebbi un pranzo con due leader della Lega e quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”. Ma a Roma Secchia continuava a dirmi: “Basta perdere tempo con queste storie”».

Conobbe Antonio Di Pietro, allora pubblico ministero?
«Parlai con Di Pietro, lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l’inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica. Mi disse che vi sarebbero stati degli arresti».

Quando avvenne il colloquio?
«Incontrai Di Pietro prima dell’inizio delle indagini, fu lui che mi cercò attraverso Bagioli. Ci vedemmo alla fine del 1991, credo in novembre, mi preannunciò l’arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la Dc».

Stiamo parlando di circa quattro mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, avvenuto il 17 febbraio del 1992...
«Di Pietro aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato. Da Di Pietro, da altri giudici e dal cardinale di Milano seppi che qualcosa covava sotto la cenere. Eravamo informati molto bene. Di Pietro mi preannunciò gli arresti ma per me non era chiaro cosa sarebbe avvenuto».

Che rapporti aveva con il pool di Mani Pulite?
«Incontrai più giudici di Milano, c’era un rapporto di amicizia con loro ma non cercavo di conoscere segreti legali. Erano miei amici, ci vedevamo in luoghi diversi».

Con Di Pietro c’era un’intesa più forte?
«Di Pietro mi piacque molto, poi fece il viaggio negli Stati Uniti organizzato dal Dipartimento di Stato. Ero spesso in contatto con lui. Ci vedevamo».

Cosa pensava delle indagini?
«Ero in favore di ciò che Di Pietro faceva ma era una materia legale assai complessa. Il mio ruolo era di dire a Secchia cosa faceva Di Pietro».

Come si comportava Di Pietro negli incontri con lei?
«Di Pietro con me era sempre aperto, ogni volta che chiedevo di vederlo lui accettava, veniva anche al Consolato».

Cosa la colpì di lui?
«Borgioli mi disse che Di Pietro sapeva usare il computer, a differenza di gran parte degli italiani. Di Pietro era un personaggio straordinario, cambiò l’Italia».

Come nacque la visita negli Stati Uniti?
«Sono stato io a suggerire all’ambasciata a Roma di invitarlo, poi fu il Dipartimento di Stato a organizzargli il viaggio. Avvenne dopo l’inizio delle indagini».

Chi incontrò Di Pietro durante la visita?
«Gli fecero vedere molta gente, a Washington e New York».

Come reagirono i comandi militari Usa a Tangentopoli?
«I militari davanti a Tangentopoli non si interessavano troppo alla politica, volevano solo essere sicuri che avrebbero potuto continuare a muovere liberamente le loro truppe e navi. E che le armi nucleari fossero al sicuro».

Come ricorda l’atmosfera di Milano in quel 1992?
«A Milano il cambiamento era nell’aria. Conoscevo molte persone. Ricordo Pirelli e c’era un industriale importante, di origine siciliana, basso, con il cognome di quattro lettere che mi diceva le cose. Mario Monti all’epoca guidava la Bocconi, andavamo a cena assieme e gli procuravo oratori americani. Berlusconi non lo conoscevo bene, una volta ebbi con lui un pranzo assai lungo, Peter Secchia aveva in genere bisogno di 45 minuti per raccontarsi, scoprì che c’era qualcuno capace di parlare assai di più».

Terminata la conversazione Semler ci accompagna verso l’uscita dimostrandosi ancora un attento osservatore dei fatti politici italiani. E passando vicino al pianoforte osserva: «Continuo a suonarlo perché è stata mia madre a insegnarmelo».

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/466848/


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Obama-Romney molti attacchi e poche idee
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2012, 05:02:12 pm
3/9/2012 - ELEZIONI USA

Obama-Romney molti attacchi e poche idee

MAURIZIO MOLINARI

La Convention democratica di Charlotte si apre domani nel segno della demolizione pubblica di Mitt Romney così come quella repubblicana si è chiusa giovedì a Tampa indicando in Barack Obama un Presidente colpevole di errori tali da meritare il licenziamento. Su entrambi i fronti la strategia elettorale è basata sull’esaltazione dei difetti dell’avversario.

Il Team Obama ha già speso oltre 100 milioni di dollari in spot tv nei 12 Stati più in bilico per descrivere Romney come un evasore fiscale e uno speculatore senza scrupoli, espressione del capitalismo selvaggio, così come il Team Romney ha firmato una Convention dove la volontà di martellare l’etere con l’accusa a Obama di aver causato «23 milioni di americani senza lavoro» ha spinto dozzine di oratori a pronunciare discorsi-fotocopia, lasciando alla sola Condoleezza Rice il ricordo dell’11 settembre.

Dietro tale convergenza di approcci c’è la lettura della sfida che accomuna i due team: il democratico David Plouffe e il repubblicano Stuart Stevens ritengono che la gara resterà in equilibrio fino alle ultime settimane e dunque a prevalere sarà chi riuscirà a portare alle urne il più alto numero di propri sostenitori. I sondaggi confortano tale interpretazione: i candidati sono in quasi perfetto equilibrio da febbraio e l’effetto pro Romney della Convention di Tampa non sembra aver alterato di molto la situazione, anche perché gli incerti sono ridotti al 5 per cento. Per Grover Norquist, fondatore del movimento «Tax Reform» che ispirò Ronald Reagan, ciò implica che «il favorito è Romney perché gli incerti nel finale tendono sempre a preferire lo sfidante» mentre Larry Sabato, storico delle presidenziali, evoca la possibilità di una «ripetizione di Florida 2000» quando la Casa Bianca fu assegnata per 537 voti di scarto e Bill Schneider, politologo conservatore sulla liberal Cnn, parla di «stallo dovuto al fatto che l’America è polarizzata su Obama e nessuno appare disposto a cambiare idea». L’impasse nuoce a programmi e proposte perché strateghi, pollster e spot tv si concentrano sugli attacchi anziché sulle proposte. Obama promette di cambiare passo da giovedì sera, quando nel discorso di accettazione della nomination preannuncia l’intenzione di «disegnare il percorso dei prossimi quattro anni» con proposte concrete di misure e riforme capaci di rilanciare lo sviluppo economico mentre Romney e il vice Paul Ryan, in viaggio negli Stati in bilico, ribattono che presto sveleranno i particolari del «piano per creare 12 milioni di posti di lavoro» di cui hanno parlato dal palco di Tampa. In attesa delle rispettive mosse, l’America resta nel limbo di una campagna elettorale dove la conflittualità politica cela scarsità di idee e debolezza di leadership. Per Obama ciò significa non essere riuscito a «cambiare Washington» come si proponeva nel 2008 mentre nel caso di Romney implica la convinzione di poter vincere non sulla base di una nuova idea dell’America ma solo grazie allo scontento per i demeriti del rivale. Sapremo presto se le assise di Charlotte riusciranno a cambiare tale equazione.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10486


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Se il dialogo diventa un boomerang
Inserito da: Admin - Settembre 13, 2012, 05:57:16 pm
13/9/2012

Se il dialogo diventa un boomerang

MAURIZIO MOLINARI

Durante la rivolta anti-Gheddafi il diplomatico americano Chris Stevens era arrivato a Bengasi nascosto dentro una nave cargo, sbarcando da clandestino su mandato di Barack Obama per allacciare i rapporti con i ribelli, ma ora la lascia dentro una bara dopo essere stato ucciso da alcuni dei libici che ha contribuito a salvare. Nella tragica parabola dell’ambasciatore Usa in Libia, che Hillary Clinton ha descritto tradendo evidente commozione, c’è il boomerang della «Primavera araba» che piomba sulla Casa Bianca obbligando il Presidente a disinnescare in fretta una «sorpresa di settembre» che minaccia di complicare la corsa alla rielezione.

Il boomerang sta nel fatto che quanto avvenuto martedì sembra smentire la strategia con cui Obama ha sostenuto la «Primavera araba»: l’intervento militare voluto per salvare Bengasi dalla repressione di Muammar Gheddafi ha gettato la stessa città nella braccia dei salafiti alleati di Al Qaeda così come la scelta di obbligare l’alleato egiziano Hosni Mubarak alle dimissioni ha consentito ai jihadisti di issare le loro bandiere nere sul pennone dell’ambasciata Usa al Cairo, dopo aver ammainato e umiliato la «Old Glory». Convinto di poter creare una nuova stagione di dialogo con i partiti islamici che guidano le transizioni post-dittatori in NordAfrica, Obama si trova alle prese con il colpo di coda dei jihadisti: sfruttare la perdurante instabilità per tentare di ricreare nelle sabbie del Sahara la piattaforma terrorista perduta sulle montagne afghane e pakistane a seguito dell’intervento della Nato.

La coincidenza con l’anniversario dell’11 Settembre rende ancora più difficile la sfida per Obama perché evoca negli americani la convinzione che quella contro il terrorismo islamico sia la «lunga guerra» di cui parlavano George W. Bush e Donald Rumsfeld ma che l’amministrazione democratica ha respinto come dottrina, arrivando a cancellarne perfino la definizione nei manuali del Pentagono di Leon Panetta.

E come se non bastasse c’è la sovrapposizione con la campagna elettorale che trasforma il boomerang della «Primavera araba» in una possibile «sorpresa di settembre» - in anticipo di un mese su quelle che in genere decidono le presidenziali - capace di giovare allo sfidante repubblicano Mitt Romney, che non a caso si è affrettato a parlare di «Inverno arabo» per evidenziare l’incapacità del Presidente uscente di distinguere fra amici e nemici dell’America.

All’entità delle sfide che, nell’arco di poche ore, si sono così sommate inaspettatamente sul «Resolute Desk» dello Studio Ovale Obama ha risposto riproponendo il metodo che l’ex capo di gabinetto Rahm Emanuel riassume così: «Affrontarle tutte con uguale determinazione». Da qui la decisione di mandare marines e droni in Libia e, al tempo stesso, rigirare contro Romney l’accusa di incompetenza, accusandolo di «aver sfruttato un attentato terroristico a fini di politica interna». E’ nei momenti di crisi che il 44° Presidente torna ad essere il politico-lottatore di Chicago, facendo ciò che più gli riesce meglio: andare all’offensiva. Ciò significa che i salafiti della Cirenaica, e i loro mandanti di Al Qaeda in Maghreb, entrano da subito nella «Kill List» con cui il Presidente ha decimato i leader jihadisti negli ultimi tre anni e mezzo così come il duello aperto sulla sicurezza nazionale con Romney può giovare ad andare alle urne spingendo gli americani a pensare più al raid di Abbottabad che ai numeri della disoccupazione. Da qui lo scenario delle prossime settimane di un Presidente sempre più nei panni del comandante-in-capo, determinato a mantenere in fretta la promessa di obbligare i killer di Stevens a «fare i conti con la giustizia». Per togliere dalla strada della «Primavera araba» l’ostacolo jihadista e per avvicinarsi alla rielezione in maniera imprevedibile per i suoi sostenitori: potendosi vantare più dei nemici dell’America eliminati che non dei posti di lavoro creati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10522


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Obama-Romney e milioni di twitts
Inserito da: Admin - Ottobre 07, 2012, 03:51:46 pm
La cucina dei giornali

07/10/2012

Obama-Romney e milioni di twitts

Maurizio Molinari
corrispondente da New York


Con 10,3 milioni di twitts in 90 minuti il dibattito di Denver fra Obama e Romney è diventato l’evento-record per Twitter, evidenziandone la rilevanza nell’attuale campagna presidenziale. Se le presidenziali del 2004 videro il debutto di email e micromarketing, e in quelle del 2008 dominò Facebook, questo è l’anno di Twitter. Le avvisaglie si erano avute all’inizio delle primarie, quando in Iowa e New Hampshire candidati, opinionisti e reporter facevano a gara nel twittare notizie, commenti, retroscena e foto bruciando sul tempo non solo tv e radio ma anche i siti web. Chi lo giudicò un vezzo hi-tech da addetti ai lavori si è dovuto ricredere alle Convention. 

Quattro milioni di twitts durante quella repubblicana a Tampa e ben 9,5 milioni in occasione di quella democratica a Charlotte ne hanno evidenziato una popolarità dilagante. E il record di Denver suggerisce qualcosa in più perché i picchi da 160 mila twitts al minuto come la creazione all’istante di popolari neologismi digitali come @BigBirdRomney e @SilentJimLehrer evidenziano la trasformazione dei «cinguettii» in un sistema di comunicazione istantanea capace di rigenerarsi in continuazione, trasformandosi in un torrente di pensieri, parole, battute e sigle nel quale ognuno riesce a condividere una dimensione tutta sua di un evento collettivo. 

Questo spiega perché su Twitter prolificano universi paralleli in grado di offrire simultaneamente letture diverse della campagna elettorale. Consentendo ai fan più faziosi come agli opinionisti più distaccati di avere un proprio pubblico.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/07/cultura/opinioni/la-cucina-dei-giornali/obama-romney-e-milioni-di-twitts-9idWGAuzZrAa1JAmTJcu4L/index.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI - A Gaza Hillary prova a fare la differenza
Inserito da: Admin - Novembre 21, 2012, 04:05:24 pm
Editoriali
21/11/2012

A Gaza Hillary prova a fare la differenza

Maurizio Molinari

Lamissione a sorpresa di Hillary Clinton in Medio Oriente nasce dalla volontà di Barack Obama di siglare in fretta la tregua a Gaza per poter gettare le basi di una nuova iniziativa di pace fra Israele e palestinesi. Da 72 ore Israele e Hamas sembrano vicini ad una cessazione delle ostilità che continua a slittare: la mediazione egiziana, sostenuta da Turchia e Qatar, ha dietro l’amministrazione Obama e la scelta di far volare Hillary da Phnom Penh a Gerusalemme svela l’impazienza del Presidente per centrare questo obiettivo. Barack Obama cerca un risultato in tempi stretti per un duplice motivo. Il primo è che i reciproci segnali di disponibilità a cessare i combattimenti, raccolti dagli egiziani, creano una finestra di opportunità che deve essere sfruttata prima che una qualsiasi mossa dei contendenti possa innescare una nuova escalation. 

 

Obama ha chiesto al premier israeliano Benjamin Netanyahu di evitare l’invasione di terra e l’egiziano Mahmud Morsi preme su Hamas per interrompere i lanci di razzi in un forcing diplomatico parallelo che perde di efficacia con il passare del tempo. Con le soste prima a Gerusalemme e poi al Cairo Hillary Clinton si propone di smussare i problemi che rimangono su entrambi i fronti: spiegando a Israele che il sostegno incondizionato degli Stati Uniti all’operazione militare non è a tempo indeterminato e facendo presente all’Egitto che un fallimento delle sue pressioni sui fondamentalisti di Hamas a Gaza pregiudicherebbe la credibilità di Morsi come leader regionale. Tanto Gerusalemme che il Cairo rischiano frizioni con la Casa Bianca. Ma non è tutto, perché Hillary ha bisogno della tregua anche per evitare che il conflitto fra Hamas e Israele si sovrapponga alla crisi fra Autorità nazionale palestinese e Israele che incombe alle Nazioni Unite. 

 

Il 29 novembre il presidente palestinese Mahmud Abbas darà infatti luce verde alla presentazione all’Assemblea Generale dell’Onu di una bozza di risoluzione per il riconoscimento della Palestina come Stato non-membro - al pari della Santa Sede - e visto che dispone dei voti per farla approvare ciò significa per Israele una violazione delle intese di pace del 1993 e 1994, capace di far franare l’intero edificio costruito sugli accordi di Oslo. La sovrapposizione fra guerra a Gaza e crisi all’Onu minaccia di travolgere ciò che ancora rimane del progetto di veder convivere due Stati fianco a fianco in Medio Oriente in pace e sicurezza. E’ lo scenario peggiore per un’amministrazione americana intenzionata a rilanciare in tempi stretti il negoziato sullo status definitivo dei confini fra Israele e nascituro Stato di Palestina. Sventarlo è l’ultima missione che Hillary si trova a gestire prima di lasciare il Dipartimento di Stato. E si annuncia da subito come quella più difficile del suo mandato. Ironia della sorte vuole che proprio da questa missione inattesa, maturata mentre si stava occupando al summit dell’Asean in Cambogia delle diatribe territoriali nel Mar della Cina del Sud, dipende il buon inizio del secondo mandato di Obama sul fronte della politica estera. Un successo capace di scongiurare il peggio e rilanciare il negoziato fra Israele e Anp metterebbe Obama nella condizione per andare subito all’offensiva sul fronte della pace così come un fallimento vedrebbe il Medio Oriente scivolare verso un conflitto su più fronti dagli esiti difficili da prevedere. Tocca a Hillary riuscire a fare la differenza. 

da - http://lastampa.it/2012/11/21/cultura/opinioni/editoriali/a-gaza-hillary-prova-a-fare-la-differenza-wW43j0mdwDHpY6ARWsXaCJ/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Palestina le incognite del voto Onu
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2012, 06:44:29 pm
Editoriali
29/11/2012 - oggi decisione storica

Palestina le incognite del voto Onu

Maurizio Molinari


La risoluzione che oggi trasformerà la Palestina in Stato non-membro delle Nazioni Unite è un evento spartiacque in Medio Oriente. 

 

I motivi sono tre: l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha un nuovo status giuridico, il suo presidente Mahmud Abbas assume il ruolo di protagonista regionale e gli accordi di pace di Oslo del 1993 vengono indeboliti se non delegittimati.

 

Forte del sostegno di 132 Stati su 193, l’Anp si avvia a raccogliere nell’Assemblea Generale dell’Onu ben oltre i 97 voti necessari grazie ai quali la Palestina viene dichiarata Stato osservatore - come la Santa Sede - assumendo la legittimità internazionale perseguita dall’Olp di Yasser Arafat sin dalla dichiarazione di Algeri del 15 novembre 1988, con la conseguenza di poter aderire a Trattati, Corti e Convenzioni a cominciare dal Tribunale penale internazionale. Poiché il testo della risoluzione fa riferimento a «Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est» ciò significa che l’Onu riconosce l’esistenza di uno Stato di Palestina entro i confini anteriori al giugno 1967 - proprio come recita la Dichiarazione d’indipendenza palestinese - a prescindere dal raggiungimento di un accordo di pace con Israele. 

 

La conseguenza è che Mahmud Abbas riguadagna spazio e prestigio fra i palestinesi: eletto nel 2005 all’ombra onnipresente di Arafat, umiliato nel 2007 dal colpo di mano di Hamas a Gaza, con il mandato scaduto da oltre tre anni ed emarginato dalla recente crisi di Gaza, ora diventa il leader del nuovo Stato, incassa da Hamas il sostegno nella votazione al Palazzo di Vetro, è sostenuto da dozzine di capitali e si sente politicamente forte al punto da definire «patetica» l’opposizione dell’amministrazione Obama all’odierna risoluzione. La scelta di Abbas di far coincidere questo momento con la riesumazione della salma di Arafat - al fine di appurare se nel 2004 sia morto avvelenato - sottolinea la volontà di trasformare il voto dell’Onu nel volano di una coesione palestinese, tesa a farsi largo sulla scena internazionale a prescindere dalla pace con Israele. Da qui la scelta della data: la coincidenza con il 65° anniversario del voto dell’Onu sulla spartizione della Palestina mandataria britannica in uno Stato ebraico ed uno arabo vuole sottolineare che viene sanata quella che i palestinesi, dentro e fuori i Territori, considerano ancora oggi come una storica ferita.

 

Il successo di Abbas ha però come prezzo l’indebolimento degli accordi di Oslo, fondamento della pace con Israele, perché prevedevano che lo Stato di Palestina sarebbe nato attraverso negoziati bilaterali. E’ questo il motivo per cui gli Stati Uniti, garanti di quelle intese raggiunte da Bill Clinton con Arafat e Yitzhak Rabin, si sono opposti all’iniziativa di Abbas fino all’ultimo. Ieri sera William Burns, vice del Segretario di Stato Hillary Clinton, si è recato nell’hotel di Manhattan dove si trova Abbas per chiedergli, a nome di Obama, di fermarsi. Il motivo lo spiega Robert Danin, arabista del «Council on Foreign Relations» di New York, secondo cui «Abbas ottiene una vittoria di Pirro» perché il risultato sarà «un’America meno impegnata nel processo di pace» e dunque meno possibilità di intese durature con Israele.

 

Abbas scommette invece sullo scenario opposto, nella convinzione che la nuova legittimità gli darà più carte da giocare nel negoziato con Israele. Saranno i prossimi mesi a dire se ha ragione o meno. Al momento l’unica conclusione che si può trarre riguarda la desolante spaccatura dell’Unione Europea incapace, per l’ennesima volta, di unirsi sulla crisi israelo-palestinese con in evidenza un’Italia ancora incerta su come schierarsi.

da - http://www.lastampa.it/2012/11/29/cultura/opinioni/editoriali/palestina-le-incognite-del-voto-onu-CDLKTJECW5HK2XwT6sfQ5I/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Onu, la Turchia guida il fronte pro-palestinese
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2012, 06:41:58 pm
 30/11/2012

 Onu, la Turchia guida il fronte pro-palestinese

Maurizio MOLINARI

Il momento in cui è stata aperta la bandiera palestinese. Abbas, sulla sinistra, sta andando ad abbracciare il ministro degli Esteri turco
Le novità evidenziate dal dibattito all'Assemblea Generale. Ankara sostituisce le capitali arabe e sul fronte opposto spicca il Canada a fianco di Israele. L'Europa in ordine sparso. Dalle parole dei duellanti qualche spiraglio
maurizio molinari - corrispondente da new york

Il dibattito al Palazzo di Vetro sull'approvazione della risoluzione Onu che trasforma la Palestina in uno Stato non-membro ha fatto emergere al Palazzo di Vetro diverse novità diplomatica che sembrano destinate ad avere conseguenze. 

LE PAROLE DEI DUELLANTI. Il presidente palestinese Mahmus Abbas e l'ambasciatore israeliano Ron Prossor hanno pronunciato interventi diversi in tutto, tranne che nel comune riferimento alla volontà di riprendere il negoziato. Abbas ha detto di non voler mettere in dubbio la "legittimità di Israele" e Prossor lo ha invitato ad "andare a Gerusalemme anziché venire a New York" seguendo l'esempio del leader egiziano Anwar Sadat "che disse di essere disposto ad andare alla fine del mondo pur di fare la pace". Trattandosi degli interventi dei duellanti, contengono uno spiraglio di trattativa. Anche se appare al momento assai ristretto. 

ANKARA GUIDA IL FRONTE PRO-PALESTINESI. A presentare la risoluzione è stato il Sudan, a nome di 42 co-firmatari, e il maggior risultato politico per i palestinesi è stato il sostegno dei Paesi europei - a cominciare da Francia, Spagna e Italia - che affiancandosi ai 132 Stati che già riconoscono lo Stato di Palestina hanno consentito di arrivare a 138 voti. Ma l'intervento più determinato a favore dell'approvazione è venuto dal ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu ed ha ritagliato alla Turchia un ruolo di primo piano. Con un linguaggio acceso Davutoglu ha accusato il mondo di aver "taciuto per 65 anni sulle piaghe dei palestinesi", identificando nella "bandiera palestinese che sventolerà su questo edificio" un "atto di dignità e rispetto per la Palestina sanguinante". "Saremo sempre a fianco dei palestinesi fino a quando non avranno uno Stato con Gerusalemme capitale" ha concluso il ministro di Ankara, parafrasando con voluta malizia il Pirkè Avot - le Massime dei Padri della tradizione ebraiche - nel dire "se non riconosciamo la Palestina ora, allora quando?". Dopo aver infiammato il parterre di delegati arabi e africani, sempre Davutoglu è stato il primo diplomatico ad abbracciare il presidente palestinese Mahmud Abbas pochi attimi dopo la proclamazione del risultato. I due hanno pianto assieme mentre veniva aperta una bandiera palestinese nel parterre dell'Assemblea Generale. Se l'Olp di Yasser Arafat nacque negli anni Sessanta godendo del forte sostegno dell'Egitto di Nasser, ebbe quindi il maggior alleato nell'Urss e, dopo la fine della Guerra Fredda, nell'Iraq di Saddam Hussein, per essere poi sostenuta da diverse capitali arabe, quanto avvenuto al Palazzo di Vetro dimostra che oggi questo ruolo è ricoperto dalla Turchia di Recep Erdogan. 

IL CANADA SPICCA NEL FRONTE PRO-ISRAELE. Solo 8 Paesi si sono uniti a Israele nel respingere la risoluzione: Stati Uniti, Canada, Repubblica Ceca, Panama, Nauru, Palau, Micronesia e Isole Marshall. Fra questi, l'intervento più energico dal podio lo ha pronunciato il ministro degli Esteri del Canada. John Baird si è richiamato al ruolo che ebbe il anada 65 anni fa per redigere il testo della risoluzione sulla partizione della Palestina mandataria britannica, ricordando che se uno Stato arabo non sorse allora a fianco di Israele fu per colpa "dei Paesi che vi si opposero" e non dello Stato ebraico. Il riferimento è servito per difendere la legittimità degli accordi di Oslo, base delle intese di pace raggiunte fra Israele e palestinesi nel 1993 e 1994, perché "si basano sulle risoluzioni Onu 242 e 338 prevedendo negoziati diretti per la pace". Il suo intervento si è rivelato la più chiara, e determinata, esposizione delle motivazioni giuridiche e legali per opporsi ad "una risoluzione unilaterale nociva perché alla pace si arriva negoziando fra le parti". L'ambasciatrice Usa all'Onu, Susan Rice, ha preso la parola solo dopo il voto, giustificando il no con il fatto che la "risoluzione è controproducente" ma le motivazioni adotte sono state quelle illustrate dal Canada. A parte la sparuta pattuglia di "no", Israele ha ottenuto 41 astensioni guidate da Londra, Berlino, Sul, Canberra, Varsavia e Seul. 

L'EUROPA IN ORDINE SPARSO. Gli interventi degli europei hanno avuto in comune il riferimento alla necessità di "riprendere i negoziati" e difendere l'obiettivo di risolvere la crisi israelo-palestinese "con la formula dei due Stati". Ma a sostenerlo sono stati tanto i rappresentanti di chi ha votato a favore della risoluzione - Francia, Grecia e Belgio - quanto di coloro che si è astenuto - Germania, Gran Bretagna - con il risultato di raffigurare una evidente contraddizione nell'Ue. 

L'INTERVENTO DELL'ITALIA. Il tale contesto l'intervento dell'ambasciatore italiano, Cesare Ragaglini, si è distinto perché, richiamandosi al processo di pace di Madrid - da cui nel 1991 partì il negoziato israelopalestinese - ha spiegato il voto favorevole di Roma con le "assicurazioni ricevute da Abbas" che i palestinesi non faranno leva sul nuovo status internazionale per ricorrere a Corti, Trattati e Convenzioni internazionali al fine di creare nuovi contenziosi con Israele. E' stato l'unico intervento europeo che ha accennato ad una trattativa con Abbas in cambio del voto favorevole in aula. 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/30/blogs/finestra-sull-america/onu-la-turchia-guida-il-fronte-pro-palestinese-5Xfn6a4g5vIZFIobI4PLPO/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Teheran, il "piano bielorusso" per evadere le sanzioni
Inserito da: Admin - Dicembre 06, 2012, 04:44:21 pm
 05/12/2012

 Teheran, il "piano bielorusso" per evadere le sanzioni


L'intento è registrare tre filiali iraniane a Minsk  con nuovi nomi per poter effettuare transazioni finanziarie proibite

Maurizio Molinari - corrispondente da new york

Al fine di aggirare le sanzioni internazionali, le autorità iraniane stanno tentando di sfruttare il vulnerabile sistema bancario della Bielorussia per creare nuove entità finanziare non riconducibili in alcuna maniera a Teheran. A rivelarlo sono informazioni di intelligence occidentali che "La Stampa" ha potuto consultare e che riconducono ad Arselan Fathipour, presidente della commissione Economica del Parlamento di Teheran, che ha definito i dettagli del "piano bielorusso" con alcuni consiglieri del Leader Supremo della Rivoluzione, Alì Khamenei. Il primo passo è stato affidare a due banche iraniane che dispongono di filiali in Bielorussia - Trade Capital Bank (TCB) e HonorBank - il compito di ridefinire la loro presenza legale, dando vita ad un nuovo istituto finanziario destinato ad operare da Minsk senza essere condizionato da alcun legame diretto con l'Iran. Entrambe le banche in questione sono colpite dalle sanzioni internazionali ed hanno in totale tre filiali in Bielorussia: la Tajerat Bank appartiene alla TCB mentre la Saderat Iran e la Refah Kargaran dipendono dalla Honorbank. L'intenzione è di cambiare nome a questi tre istituti finanziari, registrarli in Bielorussia sotto nuovo nome sfruttando le carenze di un sistema normativo non troppo fiscale e dunque adoperarli per gestire transazioni economiche internazionali altrimenti proibite.  Il piano passa attraverso l'avallo della Banca centrale iraniana. A quanto risulta, a fonti europee e non, il governo della Bielorussia non è al corrente di ciò che sta avvenendo nel suo sistema bancario e il ministro degli Esteri iraniano Ali Akbar Salehi, durante una recente visita a Minsk, non ha fatto riferimento al piano finanziario, preferendo sottolineare gli aspetti politici della convergenza bilaterale. In realtà Teheran ha fretta di portare a compimento la nuova registrazione delle proprie banche in Bielorussia per far fronte alla crescente carenza di liquidi dovuta all'efficacia delle sanzioni, varate dai maggiori Paesi industrializzati per ottenere il rispetto delle risoluzioni Onu che richiedono all'Iran di sospendere l'arricchimento dell'uranio. Si spiega così anche il fatto che in Russia la banca iraniana Melli ha scelto di operare attraverso la Mir Business Bank mentre in Venezuela è stata creata la banca "binazionale" capace di trasferire ingenti quantità di denaro fra i due Paesi alleati.

da - http://lastampa.it/2012/12/05/blogs/finestra-sull-america/teheran-banche-bielorusse-per-evadere-le-sanzioni-exKUPatXcJYCQR1RLnRb6J/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI La pericolosa distrazione occidentale
Inserito da: Admin - Gennaio 07, 2013, 07:13:27 pm
Editoriali
07/01/2013

La pericolosa distrazione occidentale

Maurizio Molinari

L’ostinazione di Bashar Assad a difendere con le armi un regime in decomposizione e l’aggravamento delle condizioni di salute di Hugo Chavez trasformano Siria e Venezuela in micce di crisi internazionali di assai più vaste dimensioni, destinate a mettere a dura prova un Occidente ancora intento a sanare le ferite economiche.

 

Dal palco del Teatro dell’Opera di Damasco Assad ha difeso la sanguinosa repressione della rivolta popolare iniziata 21 mesi fa. 

 

Lo ha fatto ignorando le oltre 60 mila vittime e rifiutando ogni dialogo con le forze dell’opposizione, sebbene controllino gran parte di Aleppo, la seconda città della Siria, e perfino alcuni quartieri della periferia della stessa capitale. Gli osanna della folla dei fedelissimi al discorso del Raiss hanno aggiunto un tocco di macabro alla celebrazione di ciò che resta dell’onnipotente Baath. Luogo, simbologia e contenuti del discorso di Assad suggeriscono la determinazione a guidare le ultime truppe - ovvero la minoranza alawita che controlla oltre l’80 per cento degli apparati di sicurezza - in una guerra senza tregua contro i ribelli «marionette dell’Occidente». Forte dei rifornimenti militari di Teheran, della protezione diplomatica di Mosca e Pechino, e degli arsenali chimici accumulati dagli Anni Settanta, Assad è convinto di poter resistere a tempo indeterminato all’assedio dei ribelli siriani e delle sanzioni internazionali. Anche al prezzo di ridurre la sua patria in un cumulo di macerie. Ciò comporta il rischio reale che la guerra civile in Siria inneschi un conflitto regionale, portando le nazioni arabe e la Turchia a intervenire a sostegno della rivolta e l’Iran a fare altrettanto per proteggere Assad. Come suggerisce Jeffrey White, ex analista di intelligence del Pentagono sul Medio Oriente, non si può escludere che proprio questo scenario da «Apocalisse regionale» sia il reale obiettivo di Bashar Assad, sperando di poterlo sfruttare per uscire dall’angolo in cui si trova.

 

Se la miccia siriana può infiammare il Medio Oriente, quella venezuelana può paralizzare il secondo produttore di greggio dell’Opec dopo l’Arabia Saudita. E in tempi assai più brevi perché nel caso in cui il 10 gennaio Hugo Chavez dovesse essere impossibilitato a prestare giuramento a causa della grave malattia che lo ha colpito, si verrà a creare un corto circuito istituzionale. I duellanti sono Diosdado Cabello, legittimato a sostituirlo in quanto presidente del Parlamento, e Nicolas Maduro, il vicepresidente che Chavez ha indicato come suo erede dall’ospedale di Cuba dove si trova in fin di vita. Lo scontro di potere fra i «Boligarchi» - sintesi fra gerarchi e bolivariani - è destinato ad anticipare l’eventuale nuova sfida elettorale con l’opposizione guidata da Henrique Capriles. Ecco perché Moses Naim, politologo della Fondazione Carnegie, prevede un dopo-Chavez segnato da «faide chaviste» fra gruppi di potere dotati di denaro e armi, suggerendo che il Venezuela possa diventare uno «Stato fallito» nel bel mezzo dell’emisfero occidentale, con conseguenze prevedibili sul prezzo del greggio. 

 

L’entità dei rischi portati dall’autunno degli autocrati di Damasco e Caracas pone la più difficile delle sfide ad un Occidente che, negli Stati Uniti come in Europa, è ancora alle prese con la crisi economica e finanziaria, sperando che il 2013 possa essere l’anno del rilancio della crescita. La distrazione delle democrazie è pericolosa perché dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ogni volta che una dittatura è implosa o è stata abbattuta, è stato l’Occidente a compiere un passo avanti, contribuendo alla ricostruzione. A volte cogliendo successi importanti, come nella Germania post-nazista e nella Polonia post-comunista, altre andando incontro a scivoloni e contraddizioni, come nella Libia del dopo-Gheddafi o nell’Egitto del dopo-Mubarak, ma comunque aiutando a superare la fase del dispotismo. Se le democrazie, paralizzate dai timori di una nuova recessione, dovessero scegliere la passività davanti agli sconvolgimenti in atto in Siria e Venezuela il risultato sarebbe un domino di instabilità internazionale destinato a moltiplicare il caos oppure a giovare agli interessi delle grandi potenze rivali: la Russia in cerca di riscatti strategici e la Cina bisognosa di materie prime.

da - http://lastampa.it/2013/01/07/cultura/opinioni/editoriali/la-pericolosa-distrazione-occidentale-K8qwCQyE99XLu2CHsqgJ7O/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI “Fretta e poca intelligence Un blitz destinato al flop”
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2013, 11:49:22 pm
Esteri
18/01/2013

“Fretta e poca intelligence Un blitz destinato al flop”

Gli analisti americani concordi: forze speciali inadeguate

Maurizio Molinari
corrispondente da New York


«Hanno pensato al petrolio, non a salvare i sequestrati». Davanti alla strage di ostaggi nel deserto del Sahara, Michael Scheuer, parla di errori dell’esercito algerino. 

L’ex ex capo dell’unità della Cia che diede la caccia a Osama bin Laden parla di errori «causati dall’eccesso di velocità dovuta alla fretta». Perché «per l’Algeria contava più eliminare subito ogni minaccia nei confronti dell’industria energetica che non salvare le vite di ostaggi occidentali». 

 

È una lettura che porta Jeffrey White, ex analista di intelligence del Pentagono, a enumerare «cosa può andare male in operazioni di questo tipo». «Anzitutto servono informazioni di intelligence minuziose su dove si trovano edifici, porte e guardie, e per raccoglierle serve tempo, pazienza e tanto lavoro», spiega, sottolineando che «in questo caso gli algerini hanno attaccato neanche 24 ore dopo il sequestro di massa e non potevano avere tutte le informazioni necessarie». Ma anche quanto tutto appare perfetto, qualcosa può andare storto, «come avvenuto alle teste di cuoio francesi nel blitz in Somalia di pochi giorni fa», osserva Scheuer. Da qui la necessità di «disporre di truppe ben addestrate», sottolinea White. «Il disastroso intervento della polizia tedesca alle Olimpiadi di Monaco del 1972 come le stragi di ostaggi causate da un paio di blitz egiziani negli Anni Settanta e Ottanta - ricorda White - si dovettero al fatto di non disporre di unità specializzare nel soccorso di ostaggi e l’esercito algerino ha dimostrato di avere oggi la stessa debolezza». Il fallimento più lampante di una «rescue operation» americana fu quello avvenuto nel deserto iraniano nell’aprile del 1980, quando un incidente fra elicotteri impedì alla Delta Force di tentare la liberazione degli ostaggi detenuti nell’ambasciata a Teheran. Larry Korb, ex vicecapo del Pentagono nell’amministrazione Reagan che si insediò dopo Carter, ricorda quell’episodio come «un evento che può drammaticamente avvenire, perché a ben vedere anche nel blitz di Abbottabad del 2011 in cui abbiamo ucciso Osama Bin Laden abbiamo perso un elicottero», ma la differenza sta «nella gestione dell’imprevisto negativo». «Sta a chi comanda l’operazione apportare in tempo istantaneo i cambiamenti necessari per evitare che al male segua il peggio», osserva Korb, secondo il quale i generali algerini «si sono curati poco delle conseguenze politiche perché, a differenza di quanto avvenne per Jimmy Carter, non devono rispondere ad un’opinione pubblica per gli errori commessi e le vite umane perdute». 

 

Fretta di agire, preparazione carente delle truppe e intelligence insufficiente sono i fattori che Korb, Scheuer e White concordano nel definire «complementari per un fallimento sanguinoso» come quello avvenuto nel tentativo di liberare gli ostaggi nell’impianto petrolifero dell’Algeria meridionale. Ma Scheuer, veterano della guerra clandestina in Medio Oriente, aggiunge un altro dettaglio: «Se guardiamo bene a cosa è avvenuto ad In Amenas, ci accorgiamo che i jihadisti hanno separato i dipendenti algerini da quelli stranieri, di fatto mettendoli al sicuro». Si tratta di un «cambiamento netto nella strategia di Al Qaeda rispetto a quanto faceva in Iraq Abu Musab al Zarqawi, massacrando i musulmani senza alcuna remora», e ciò significa, a suo avviso, che «le cellule jihadiste nel Sahara» hanno «mutato approccio», evitando vittime musulmane «nel tentativo di riguadagnare popolarità» per una guerra finora disseminata di sconfitte.

da - http://lastampa.it/2013/01/18/esteri/fretta-e-poca-intelligence-un-blitz-destinato-al-flop-vSmykhOv7wxhNAjl8G4giK/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Il Pd in missione negli Stati Uniti rassicura Obama ...
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2013, 07:52:44 pm
Politica
21/01/2013 - IL CASO

Il Pd in missione negli Stati Uniti rassicura Obama su economia e Monti

Il responsabile Esteri del Pd Lapo Pistelli negli Stati Uniti

«Il premier un nostro concorrente ma faremo un governo di coalizione anche se avremo noi il 51% al Senato»

Maurizio Molinari
inviato a washington

Invitata a partecipare all’Inauguration, una delegazione del Pd è impegnata in una maratona di 72 ore di incontri con amministrazione Obama, partito democratico, Congresso e centri studi per illustrare l’agenda del governo italiano guidato da Pierluigi Bersani che potrebbe uscire dalle urne.

È Lapo Pistelli, responsabile Esteri del Pd, che in una pausa dei colloqui, fra Dipartimento di Stato e governatori democratici, descrive la cornice della missione a tappe forzate: «Gli americani conoscono bene i numeri, sanno che fra poco più di un mese saremo noi al governo e siamo qui per spiegargli cosa abbiamo in mente di fare». 

Philip Gordon, vice di Hillary Clinton per l’Europa al Dipartimento di Stato, ha posto l’interrogativo sul futuro delle riforme del governo Monti e la risposta di Pistelli è stata duplice. Primo: «Le riforme sono state possibili grazie ai nostri contributi e voti in Parlamento» e dunque il Pd se ne sente titolare tanto quanto il premier uscente. Secondo: «L’Italia tocca il pareggio di bilancio, è il secondo Paese per avanzo primario e dunque è il momento di impegnarsi per la crescita, che ci sarà nel 2014». Agli interrogativi degli interlocutori americani sulla sorte politica di Monti, con cui l’amministrazione Obama ha avuto un rapporto stretto, Pistelli ha assicurato che «faremo un governo di coalizione anche se avremo il 51 per cento al Senato» e dunque vi sarà spazio per un’intesa con il premier uscente «sebbene la sua scelta di guidare una lista elettorale ne ha fatto un nostro concorrente». Il Pd non ritiene però di aver bisogno di Monti in termini di credibilità economica: «Bersani è stato governatore dell’Emilia Romagna e ha firmato le privatizzazioni nel governo Prodi dimostrando nei fatti quale modello economico persegue». 

Poiché l’ipotesi di un viaggio di Bersani a Washington prima delle elezioni si scontra con i tempi stretti e l’incrocio dei calendari istituzionali nelle due capitali, la visita della delegazione del Pd attira forte interesse. I consiglieri di politica estera di Nancy Pelosi, Harry Reid e John Kerry - i leader democratici al Congresso - hanno voluto un approfondimento sulle posizioni del Pd sull’Europa e Pistelli ha spiegato la coincidenza fra «sostegno al rafforzamento dell’unione monetaria e impegno per la crescita» che è poi anche l’auspicio
dell’amministrazione Obama. Da qui lo scenario, di cui ha parlato al «Center for American Progress» Luca Bader, veterano dei rapporti fra Pd e democratici Usa, sulla possibile genesi di un’«agenda comune» fra amministrazione Obama, presidenza Hollande e futuro governo Bersani «perché è la prima volta dalla fine degli anni Novanta che ci sarà una coincidenza di tempi fra i governi progressisti a Washington, Parigi e Roma». Sulla base dei colloqui alla Brookings Institution, alla John Hopkins, alla Fondazione Carnegie, al Congresso e con i governatori, Pistelli individua i «punti di convergenza» fra Obama, Hollande e Bersani in «crescita economica, immigrazione e energia». Sul fronte della politica estera Gordon ha espresso l’auspicio di un’Europa sempre più «partner globale degli Stati Uniti» nelle aree di crisi e Pistelli si è detto a favore di un «maggior impegno dell’Ue a sostegno delle primavere arabe» oltre a concordare sulla necessità che l’Iran non abbia l’arma atomica. «L’amicizia transatlantica è una dato solido - sottolinea Pistelli, che accompagnò Bersani a Washington e New York nel 2010 - e questi incontri servono a definire un cammino comune». In tale cornice Gordon ha espresso l’auspicio per un maggior impegno dell’Italia a favore delle riforme in Russia ovvero un superamento dello stretto legame Berlusconi-Putin mai digerito da Washington. A dispetto di un’agenda mozzafiato, Pistelli e Bader hanno trovato il tempo per partecipare anche all’assegnazione del «Premio Machiavelli» a Jim Messina, l’architetto della rielezione di Barack Obama.

da - http://lastampa.it/2013/01/21/italia/politica/missione-negli-usa-il-pd-rassicura-obama-su-monti-e-economia-jiMEOGyoVAYn9PhS843hmN/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Il rischio di maggioranze precarie
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2013, 05:30:26 pm
Editoriali
23/01/2013

Il rischio di maggioranze precarie

Maurizio Molinari


Le elezioni per la XIX Knesset scongelano la politica israeliana, rendono possibili più maggioranze, fanno emergere nuovi leader e aggiungono l’incognita di quale sarà il nuovo governo di Gerusalemme in un Medio Oriente già in profonda trasformazione. 

 

Il premier uscente, Benjamin Netanyahu, cercava una forte affermazione del suo Likud e per raggiungerla aveva puntato sulla fusione con l’alleato «Israel Beyteinu» di Avigdor Lieberman ma l’alta affluenza alle urne ha generato tutt’altro scenario: deve accontentarsi di una maggioranza relativa di seggi assai modesta che lo obbliga a intraprendere difficili negoziati per raggiungere l’obiettivo dei 61 seggi che implicano la maggioranza. 

 

Ad evidenziare tale difficoltà è il testa a testa notturno fra il blocco della destra e quello composto da sinistra e partiti arabi per decidere chi avrà, nel complesso, più seggi.

 

Se Netanyahu deve fare i conti con un risultato ben al di sotto delle attese, i tre nuovi leader della Knesset sono personaggi ancora poco noti in Occidente dei quali sentiremo parlare molto nelle prossime settimane, le cui posizioni innovano le tradizionali identità di destra, centro e sinistra in Israele. A destra, l’imprenditore dell’hi-tech e veterano delle truppe speciali Naftali Bennett, figlio di immigrati californiani, è divenuto con il suo «Ha Bayt Ha-Yehudì» interprete di una destra giovane, religiosa e anche laica favorevole all’estensione degli insediamenti in Giudea e Samaria, senza remore nel dirsi contraria alla soluzione del conflitto israelo-palestinese con la creazione dei due Stati. Al centro l’ex giornalista Tommy Lapid, che nell’esercito fece il meccanico, è stato capace con l’«Yair» di dare voce all’animo laico di una nazione che si oppone alla crescente influenza dei partiti ortodossi creando dal nulla il secondo partito. A sinistra Shelly Yachimovich, la giovane e combattiva leader dei laburisti, è stata protagonista di una campagna elettorale all’insegna della richiesta di un Welfare State più robusto in una nazione dove il pil cresce al ritmo del 2,5 per cento l’anno, lasciando in secondo piano il tradizionale impegno del partito a favore della pace con i palestinesi. Sulla carta tutto può avvenire: Netanyahu può guidare un governo delle destre oppure di coalizione così come può scivolare sulle delicate trattative che iniziano.

 

Di certo sarà obbligato a fare concessioni, prendendo atto che lo Stato Ebraico, a oltre 64 anni dalla fondazione, è una democrazia talmente vivace da continuare a rimettere in discussione e reinventare le proprie forze politiche. Ed è interessante notare il parallelo fra quanto avviene in Israele e nella maggioranza dei Paesi arabi che la circondano: tanto l’una che gli altri sono in profonda trasformazione, anche se in un caso grazie alle elezioni e negli altri passando per guerre civili e colpi di Stato.

 

La conseguenza per il presidente americano Barack Obama, intenzionato a sfruttare il secondo mandato per arrivare alla composizione del contenzioso israelo-palestinese, è di avere un’incognita in più sulla mappa del Medio Oriente. Per la Casa Bianca l’aspetto positivo di tale scenario è l’indebolimento di un premier come Netanyahu nel quale non nutre fiducia ma ce n’è anche uno negativo perché i governi israeliani retti da maggioranze precarie hanno più difficoltà a compiere sacrifici negoziali. Non si può tuttavia escludere che proprio lo scongelamento degli equilibri politici a Gerusalemme spinga Obama ad accelerare la visita in Israele. Per comprendere da vicino quali opportunità si aprono.

 
da - http://lastampa.it/2013/01/23/cultura/opinioni/editoriali/il-rischio-di-maggioranze-precarie-vRPRkep83nZ9WBuzbUQ46J/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Obama: salari più alti e riforme per far ripartire l’America
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2013, 05:34:21 pm
13/02/2013

Obama: salari più alti e riforme per far ripartire l’America


Nello Stato dell’Unione il presidente americano spiega come un “governo non più grande ma più intelligente” può favorire rilancio della classe media.

Immigrazione, clima e armi da fuoco in cima all’agenda.

E annuncia il negoziato con l’Unione Europea per creare un’area di libero scambio

Maurizio Molinari

Aumento del salario minimo e investimenti pubblici nelle infrastrutture come nell’educazione per sconfiggere la povertà e risollevare la classe media: Barack Obama dedica il discorso sullo Stato dell’Unione ad illustrare in che maniera un governo federale “più intelligente” può aiutare ed accelerare la ricostruzione dell’America. 

 

Aumento del salario minimo. 

Dopo aver dedicato il discorso dell’Inauguration Day a sottolineare i valori liberal in cui crede, il 44° presidente degli Stati Uniti davanti al Congresso di Washington riunito in seduta congiunta li declina in una raffica di iniziative politiche. L’intento è “assicurare che il governo lavori a favore dei tanti e non dei pochi” e il passaggio a cui dedica maggiore enfasi è l’”aumento del salario minimo a 9 dollari l’ora” rispetto agli attuali 7,25, “entro il 2015” perché “nella più ricca nazione della Terra nessun lavoratore a tempo pieno deve essere obbligato a vivere in povertà”. “Questo singolo passo può aumentare le entrate di milioni di famiglie - sottolinea - facendo la differenza fra buoni alimentari e negozi, sfratti e affitti, stenti e ripartenze”. Obama crede anche nell’azione del governo per aumentare gli investimenti nell’educazione e per finanziare un piano di ricostruzione delle infrastrutture che inizi dai 70 mila ponti che hanno bisogno di riparazioni, per continuare poi con autostrade e ferrovie. 

 

L’impegno anti-deficit. 

All’opposizione repubblicana promette che tali iniziative saranno possibili “senza l’aumento del deficit neanche di un centesimo” perché i fondi necessari potranno essere trovati attraverso “la riforma del sistema fiscale” e “una riduzione dei costi del Medicare” che pesano sempre di più sulla Sanità a causa dell’invecchiamento della popolazione.

 

Immigrazione e clima. 

Obama ripete l’impegno a “realizzare ora” la riforma dell’immigrazione basata su “più protezione alle frontiere, percorso verso la cittadinanza per i clandestini e più opportunità per gli immigrati legali” chiedendo al Congresso di “mandarmi il testo nei prossimi mesi e lo firmerò”. Sul fronte dei cambiamenti climatici, Obama promette maggiore efficienza delle vetture e il raddoppio dell’energia rinnovabile grazie a investimenti pubblici frutto dei proventi dovuti alla maggiore produzione di greggio e gas. Ma evita di far riferimento alla riduzione delle emissioni nocive nell’atmosfera. “Non abbiamo bisogno di un governo più grande ma di un governo più intelligente nello stabilire le priorità su dove investire per la crescita” sottolinea, facendo capire di voler evitare battaglie impossibili da vincere.

 

La politica estera. 

Ai temi di politica internazionale è dedicata gran parte della seconda parte del discorso. Spicca l’annuncio dell’inizio di negoziati con l’Unione Europea per creare un’area di libero scambio transatlantica “capace di creare milioni di posti di lavoro” sul modello delle trattative già aperte con i Paesi del Pacifico. Poi c’è l’impegno a “prevenire il possesso dell’arma atomica da parte dell’Iran”, a “sostenere fermamente Israele nel perseguire una pace duratura in Medio Oriente” e nell’essere a fianco di chi si batte “per diritti universali e libertà” nel mondo, a cominciare dalla “gente della Siria”.

 

Fine della guerra in Afghanistan. 

“Al termine del prossimo anno la guerra in Afghanistan sarà finita” annuncia Obama, indicando nel ritiro di 34 mila soldati un passo decisivo in questa direzione, unito alla rinnovata determinazione a “combattere contro ciò che resta di Al Qaeda, che oggi è l’ombra di ciò che era l’11 settembre”. La caccia ai terroristi, promette Obama al Congresso, comunque continuerà “nel rispetto delle leggi”, tentando così di allontanare i sospetti di incostituzionalità da uso dei droni e “Kill List”. 

 

Non cita la Cina. 

Obama si impegna a perseguire con Mosca un’ulteriore riduzione delle armi nucleari mentre la priorità sulla sicurezza è quella cibernetica per proteggere l’America da “quelle nazioni straniere che tentano in continuazione di rubare i nostri segreti”. Chi ascolta sa che Obama si sta riferendo alla Cina ma lui sceglie di non nominarla. Come non fa riferimento al test nucleare della Nord Corea avvenuto poche ore prima.

L’importanza di essere cittadini. Il finale è su due temi che hanno a che vedere con la “cittadinanza” ovvero l’essenza dell’identità americana tesa a migliorare la nazione. Il primo è l’impegno a ridurre la violenza con le armi da fuoco, che Obama sottolinea con un richiamo alle vittime delle ultime stragi, inclusa la majorette Hadyia uccisa nella sua Chicago “a meno di un miglio dalla mia casa”, chiedendo al Congresso di “votare le leggi in discussione”. L’altro tema è “il sistema di voto da perfezionare”: una ferita nazionale aperta che Obama sottolinea ricordando “le persone in fila 6 o 7 ore” durante le ultime elezioni come l’anziana Desiline Victor,102 anni di età, presente nell’aula di Capitol Hill e travolta dagli applausi.

 

80 applausi in 60 minuti. 

Il discorso dura un’ora esatta ed è il più denso di contenuti da quando Obama nel 2009 si insediò alla Casa Bianca. I reporter contano 80 fra applausi e standing ovation anche se a spiccare è la decisione del presidente repubblicano della Camera, John Boehner, di non alzarsi quando Obama chiede sostegno alle leggi contro le armi da fuoco.

 

Marco Rubio, la gaffe dell’acqua. 

La risposta repubblicana a Obama è affidata al senatore della Florida, possibile candidato nel 2016. E’ efficace quando accusa Obama di “ridurre tutto ad un governo che tassa di più, spende di più e si indebita di più” così come la scelta di registrare un testo solo in spagnolo - per le tv ispaniche - è destinata ad aumentarne la popolarità. Ma poi scivola su una gaffe: mentre parla in diretta si china su un lato, al fine di prendere una bottiglietta d’acqua minerale bevendone alcuni sorsi, con il risultato di sparire quasi del tutto dal video per pochi, ma interminabili, secondi. Che diventano subito un tormentone sul web sulla “sete di Rubio”.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/13/blogs/finestra-sull-america/obama-salari-piu-alti-e-riforme-per-far-ripartire-l-america-xomVUFyBlpIteZ5UxtQl6K/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI In un plico di appunti i segreti sulla morte di Marylin Monroe
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2013, 06:12:01 pm
spettacoli
08/06/2013

In un plico di appunti i segreti sulla morte di Marylin Monroe

Nei documenti raccolti dall’investigatore privato Fred Otash relazioni d’amore e litigi nascosti della diva di Hollywood

Maurizio Molinari
corrispondente da NEW YORK


Fra i documenti su Marylin Monroe raccolti dall’investigatore privato Fred Otash ci sono anche gli appunti su una registrazione, fatta nel giorno della sua morte, da cui si evince che aveva una relazione con Robert Kennedy, fratello dell’allora presidente John Fitzgerald. 

A rivelarlo è l’”Hollywood Reporter” che ha ricevuto gli appunti dalla figlia dello scomparso Otash intenzionata in questa maniera a rispondere alle accuse di inaffidabilità nei confronti del padre sollevate dallo scrittore noir James Ellroy. Nei nuovi documenti resi disponibili, risalenti al periodo fra gli anni Cinquanta e Sessanta, c’è anche la trascrizione della conversazione avuta dall’attore Rock Hudson con la moglie, che lo sfida ad ammettere la sua omosessualità, mentre un altro nastro riguarda l’audio di un presunto rapporto sessuale fra Marylin e John F. Kennedy.

Ma l’elemento di maggiore novità viene da una registrazione che Otash nei suoi appunti afferma di aver fatto dentro la casa di Marylin Monroe poco prima che morisse. Nell’audio, secondo gli appunti di Otash, si sente Marylin litigare con animosità con Robert Kennedy e Peter Lawford, lamentandosi del fatto che veniva “scambiata fra loro come se fosse un pezzo di carne”. Marylin attacca frontamente entrambi gli uomini, contestandogli il fatto di “aver mancato le promesse fatte durante le relazioni sentimentali”. “Marylin strilla mentre loro tentano di farla tacere” continua il testo degli appunti, secondo cui “Robert Kennedy prende un cuscino e glielo mette sulla faccia per impedire che i vicini ascoltino le urla” e quando Marylin si calma “la prima cosa che vuole fare è andarsene, uscire di casa”. La mattina dopo, a decesso avvenuto in circostanze che continuano a far discutere gli storici, Lawford chiamò Otash chiedendgli di andare nella casa e rimuovere ogni prova del litigio. E’ da allora, secondo la ricostruzione di “Hollywood Report”, che i nastri sull’ultimo giorno di vita del sex-symbol sarebbero scomparsi.


da - http://lastampa.it/2013/06/08/spettacoli/in-un-plico-di-appunti-i-segreti-sulla-morte-di-marylin-monroe-jgIhnl62XbAKtiRrew7vLJ/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Putin sfida le esitazioni di Barack
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2013, 09:08:40 am
Editoriali
15/06/2013

Putin sfida le esitazioni di Barack

Maurizio Molinari


Con la decisione di armare i ribelli Barack Obama vuole impedire a Bashar Assad di riconquistare Aleppo, annientare l’opposizione e restare al potere di una Siria trasformata in atollo iraniano. Se lo scorso anno il Presidente americano aveva messo il veto sugli aiuti militari ai ribelli ed ora cambia idea, chiedendo alla Cia di consegnarli in fretta, è perché allora Assad barcollava mentre adesso vede concretamente la possibilità di imporsi nello scontro militare. L’affluire di migliaia di Hezbollah libanesi, soldati del regime e miliziani del Baath attorno ad Aleppo è l’avvisaglia della battaglia forse decisiva nella guerra civile che dura da oltre due anni ed ha superato le 90 mila vittime.

 

Dallo scorso luglio l’antica perla dell’Impero Ottomano sulla Via della Seta è per il 60 per cento in mano agli insorti. Si tratta della città più popolosa della Siria, nodo strategico della dorsale sunnita. Assad vuole riprenderla ripetendo in grande stile la tattica con cui ha espugnato l’assai più piccola ma altrettanto strategica Qusayr: accerchiamento asfissiante con le truppe regolari e i miliziani, massicci bombardamenti da cielo e terra, offensiva frontale della fanteria di Hezbollah, che non prende prigionieri.

Le analisi militari che Pentagono e intelligence hanno recapitato nella «war room» della Casa Bianca non danno troppe speranze ai ribelli, male armati e ancor peggio organizzati. C’è però una finestra di tempo per scongiurare la restaurazione di Assad perché i 190 kmq di quartieri densamente popolati Aleppo suggeriscono che la battaglia sarà più lunga e cruenta di quanto avvenuto nei 35 kmq di una Qusayr semideserta. Questa finestra di tempo era l’«ultima opportunità per evitare un altro Ruanda, una nuova Bosnia», come ha detto Bill Clinton memore degli errori compiuti alla Casa Bianca, e Obama ha deciso di sfruttarla facendo propri i suggerimenti dei suoi consiglieri liberal neo-interpreti dell’interventismo umanitario degli Anni Novanta: Susan Rice, Samantha Power e John Kerry. Il superamento della «linea rossa» dell’uso dei gas contro i civili come motivo per armare i ribelli si richiama proprio ai precedenti dei Balcani: l’America si muove per proteggere i civili quando il dittatore di turno è determinato a compiere le stragi più orrende. 

 

Ma quella di Obama è una scelta venata dall’incertezza sulle armi da fornire perché il Presidente che ha posto fine alla guerra in Iraq e farà altrettanto con quella in Afghanistan si oppone ad un coinvolgimento dell’America in un altro conflitto. E’ frenato dall’altra anima dell’amministrazione: la realpolitik di Chuck Hagel e Tom Donilon che lo ammoniscono sui rischi che le armi Usa possano finire al Fronte Nusra, affiliato ad Al Qaeda. Obama non vuole inviare soldati, limita i tipi di armamenti da consegnare ed esita sulla «no fly zone» invocata con forza dal repubblicano John McCain perché implicherebbe massicci bombardamenti sulle difese anti-aeree di Damasco, frutto di 40 anni di cooperazione militare russa.

 

La scommessa di Obama è di far leva sulla necessità di proteggere i civili dai gas di Assad per dar vita ad una coalizione internazionale a sostegno dei ribelli - composta da europei, turchi e arabi sunniti - a partire dal summit del G8 che lunedì si apre in Irlanda del Nord. La presenza in Siria, secondo insistenti indiscrezioni, di consiglieri francesi e britannici che addestrano i ribelli all’uso delle armi saudite e qatarine arrivate attraverso Giordania e Turchia lascia intendere che la cooperazione militare è più avanzata di quanto si possa immaginare. Ma ad ostacolare il tentativo di Obama di salvare Aleppo c’è il più determinato degli alleati di Assad: la Russia di Vladimir Putin ironizza sui gas inesistenti, paragona queste «bugie» e quelle «dette da George W. Bush sulle armi di distruzione in Iraq» e lascia intendere che al G8 ripeterà senza remore il veto pro-Damasco già più volte espresso all’Onu.

 

L’energia con cui Mosca protegge Assad svela un progetto strategico ambizioso. «Putin sta dimostrando al Medio Oriente che difende i suoi alleati mentre Obama li liquida, come fatto con l’egiziano Mubarak» riassume un alto diplomatico arabo a Washington, secondo il quale il Cremlino sfrutta la crisi siriana per tornare protagonista in una regione dove ha continuamente perso terreno sin dalla fine della Guerra Fredda. D’altra parte Teheran, regista politico-militare del sostegno ad Assad, ha un obiettivo da potenza regionale: sconfiggere i ribelli per consegnare la Siria di un Raiss indebolito nelle mani di Hezbollah e farne il tassello di un’alleanza filo-sciita che inizia a Beirut, passa per Damasco, continua nella Baghdad governata da Nuri al-Maliki e termina proprio in Iran. Sostenendo Assad, Putin si candida interlocutore privilegiato di questa potenziale alleanza, destinata a mettere sulla difensiva alleati e interessi di Washington dal Canale di Suez agli Stretti di Hormuz.

da - http://lastampa.it/2013/06/15/cultura/opinioni/editoriali/putin-sfida-le-esitazioni-di-barack-rTiYdN9P8RthtDZBhsBhVP/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Accordo con l’Azerbaijan
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2013, 05:13:46 pm
economia
28/07/2013 - SCONFITTA L’IPOTESI DEL NABUCCO CHE AVREBBE ATTRAVERSATO L’EUROPA DELL’EST.

Premiata anche la maggiore efficienza della nostra rete

Il gas del Caspio sceglie la via dell’Adriatico

Accordo con l’Azerbaijan

Il metanodotto Tap che passa dall’Italia sarà un’alternativa alle forniture russe

Maurizio Molinari
corrispondente da new york


Il gas azero arriverà in Europa attraverso l’oleodotto trans-adriatico riducendo la dipendenza del Vecchio Continente dalla Russia e ridefinendo la posizione dell’Italia, non più alleata di ferro di Mosca negli equilibri energetici. Il Trans-Adriatic Pipeline (Tap) è stato scelto dal consorzio che gestisce il giacimento azero Shah Deniz e a partire dal 2019 porterà ogni anno 16 miliardi di metri cubi di gas - di cui 10 miliardi azeri e 6 turchi - attraverso Georgia, Turchia, Albania e Grecia fino all’Italia, da dove entrerà nella rete di distribuzione europea. 

 

Arriva così a compimento il progetto iniziato con l’inaugurazione nel 2006 dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan di creare una via di alimentazione energetica per l’Europa alternativa a quelle russe. Le amministrazioni Bush e Obama sono state protagoniste di sforzi continui per frenare la dipendenza dell’Europa dalla Russia e Washington vede nell’accordo fra il consorzio azero e il Tap quella che il Dipartimento di Stato descrive come «una nuova fonte di approvvigionamento del gas per l’Europa» e un passo verso «la diversificazione delle risorse e il rafforzamento della sicurezza energetica».

 

«Gli Stati Uniti considerano l’importanza del corridoio meridionale del gas in un contesto più vasto» aggiunge il Dipartimento di Stato, con un riferimento ai timori avuti sulle conseguenze negative per la Nato della dipendenza europea dalla Russia. Ciò che più conta per Washington è che, secondo una stima del German Marshall Fund, il Tap è destinato a modificare nel medio-termine l’equilibrio fra fornitori di gas dell’Europa perché se al momento il 34% del fabbisogno viene da fonti interne, il 23% dalla Russia e il 21 dalla Norvegia ora Oslo è destinata a strappare quote di mercato a Mosca. 

 

Il Tap vede in posizione dominante la norvegese Statoil, che è anche uno dei maggiori operatori di Shah Deniz, affiancata dalla svizzera Axpro e dalla tedesca E.On Ruhrgas. Ma se la Norvegia si rivela l’alleato più importante di Washington su estrazione e trasporto del gas, è l’Italia ad avere rilevanza nella distribuzione per via dell’importanza delle sue infrastrutture - considerate fra le più efficienti in Europa - destinate ad essere lo sbocco all’Ue. Proprio le infrastrutture italiane hanno consentito al Tap di prevalere rispetto al gasdotto concorrente Nabucco Ovest che avrebbe attraversato l’Est con costi più alti ed affidabilità minore. 

 

Ciò comporta un riposizionamento dell’Italia di Enrico Letta nel «grande gioco» dell’energia rispetto quanto avvenuto fino al 2011, quando Obama mostrava contrarietà per scelte dei governi Berlusconi considerate troppo favorevoli a Mosca. «Andrò a Baku in Azerbaijan, l’altro punto cardinale del gasdotto che porta energia dal Caspio all’Adriatico, un fatto straordinario» ha detto ieri il premier soddisfatto dell’accordo. Marta Dassù, viceministro degli Esteri con delega al gasdotto, ha spiegato invece come «grazie al Tap l’Italia possa ambire ad avere una posizione strategica in Europa nella distribuzione del gas» e che «sarà costruita una bretella per portare il gas in Bulgaria e nei Balcani contribuendo alla riduzione della dipendenza dalla Russia anche dei Paesi dell’Est».

 

La «diversificazione delle fonti in Europa» è una partita che apre a molti sviluppi: dalla possibilità, al momento teorica, che l’oleodotto azero possa essere collegato ai giacimenti in Iraq ed Iran fino all’arrivo dello shale gas Usa. «La revisione delle restrizioni all’esportazione di gas liquido Usa verso Europa e Asia - recita un rapporto dell’American Security Project - è destinata a ridurre la loro dipendenza dalla Russia». 

da - http://lastampa.it/2013/07/28/economia/il-gas-del-caspio-sceglie-la-via-delladriatico-rEdhpK45L8DCCsIjtNsJhO/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Così i deputati hanno imbrigliato il presidente Usa
Inserito da: Admin - Settembre 01, 2013, 11:35:56 am
Esteri
01/09/2013

Così i deputati hanno imbrigliato il presidente Usa

Le prove raccolte non sono bastate a smuoverli

Maurizio Molinari
corrispondente da new york


I briefing dell’intelligence non bastano a convincere i leader del Congresso e Barack Obama si piega alla richiesta scritta di oltre 200 deputati, democratici e repubblicani, di chiedere un voto sull’uso della forza prima di attaccare la Siria. 

Incalzato da sondaggi negativi secondo cui il 50% degli americani è contro l’intervento, contestato pubblicamente da 54 deputati dell’ala liberal del suo partito e sfidato dal repubblicano John Boehner, presidente della Camera, a «chiedere al popolo americano» l’assenso all’attacco, Obama ha tentato di fronteggiare i dissensi con una maratona senza precedenti di briefing di intelligence a favore dei leader di Capitol Hill.

Giovedì la Casa Bianca ha realizzato un’inedita videoconferenza con 27 senatori e deputati di entrambi i partiti, disseminati in più angoli della nazione per via delle ferie, venerdì il Segretario di Stato John Kerry e il vicepresidente Joe Biden hanno incontrato i vertici degli opposti schieramenti a Camera e Senato, e ieri mattina è stato il presidente in persona, affiancato da alti funzionari dell’intelligence, a spiegare ai repubblicani John Boehner e Mitch McConnell, come ai democratici Harry Reid e Nancy Pelosi, i contenuti top secret dei memorandum di intelligence che hanno spinto la Casa Bianca a decidere l’intervento militare.

Obama era convinto che tale offensiva di incontri e rivelazioni avrebbe piegato le resistenze del Congresso di Washington. E, secondo il tam tam di Washington, Kerry e Biden lo avevano rassicurato in materia, in forza di decenni di esperienza a Capitol Hill. Ma in realtà l’esito è stato opposto: i leader democratici e repubblicani hanno espresso apprezzamento per il lavoro dell’intelligence, e anche aspra condanna per l’attacco con i gas da parte di Assad, ma senza fare passi indietro sulla richiesta di un voto dell’aula. Facendo valere il dettato della Costituzione relativo ai poteri di guerra. Anche la fedelissima Nancy Pelosi, dopo molte esitazioni, ha dimostrato di condividere le parole dell’acerrimo avversario Boehner: «Bisogna dimostrare leadership presidenziale e chiarire i fondamenti della nostra politica per ottenere il sostegno del popolo americano e del Congresso ad ogni tipo di azione contro la Siria». «Sono 12 anni che il Congresso è impegnato a difendere la sicurezza degli americani - ha aggiunto Boehner, riferendosi al periodo trascorso dall’11 settembre - e sappiamo cosa significa entrare in guerra». 

Sul fronte opposto Barbara Lee, combattiva deputata democratica della California, ha tuonato a nome dei 54 liberal già protagonisti della coalizione contro la guerra in Iraq: «La condanna per l’uso delle armi chimiche non deve precipitarci in una guerra ingiusta». Assediato da un’inedita coalizione di conservatori e liberal e con i sondaggi che indicano al 79% il numero dei favorevoli al voto del Congresso, Obama ha percepito il pericolo di passare alla Storia per aver commesso sulla Siria l’errore che George W. Bush non fece sull’Iraq, quando chiese a Capitol Hill di esprimersi. Ma non è tutto: sulla scelta del presidente pesa anche l’opinione del Pentagono perché i comandi militari ritengono possibile una rappresaglia siriana-iraniana dopo l’intervento e dunque disporre di un’autorizzazione del Congresso consente di avere maggiori margini di manovra nella gestione delle operazioni. La conseguenza per Obama è affrontare una sfida tutta in salita: entro il 9 settembre, quando il Congresso tornerà a riunirsi dopo la pausa estiva, dovrà convincere l’America della necessità di attaccare Assad «con un intervento limitato e senza l’invio di truppe». Per riuscirci si affida ad un messaggio che investe la sua idea della proiezione dell’America nel mondo: «Se accettiamo l’uso delle armi chimiche come potremo batterci contro la proliferazione nucleare e il terrorismo?». 

Resta da vedere se troverà i voti di cui ha bisogno. Una sconfitta ne fiaccherebbe la leadership, facendolo diventare un’«anatra zoppa» con un anno di anticipo sulle elezioni di medio termine per il rinnovo del Congresso che coincidono con l’inizio del tramonto della forza politica del presidente rieletto. Al termine della difficile giornata il presidente è andato a rilassarsi giocando a golf con Biden a Fort Belvoir. 


da - http://lastampa.it/2013/09/01/esteri/cos-i-deputati-hanno-imbrigliato-il-presidente-usa-kETpcP2l7NglPtQBamoErO/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Mosca, prove di leadership sugli emergenti
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2013, 07:27:53 pm
Editoriali
07/09/2013

Mosca, prove di leadership sugli emergenti

Maurizio Molinari


Il G20 esce dal summit di San Pietroburgo trasformato dalla crisi siriana nel nuovo terreno di scontro fra Stati Uniti e Russia. Si tratta di una svolta brusca, dalle conseguenze imprevedibili. 

Convocato in fretta e furia a Washington nel novembre 2008 per fronteggiare la devastante crisi finanziaria, trasformato dal summit di Londra del 2009 nella cabina di regia della globalizzazione e riuscito a Pittsburgh nel 2010 a strappare al G8 il titolo di «maggiore foro dell’economia mondiale», il G20 deve la propria forza alla scelta di Stati Uniti, Europa e Giappone di sedersi allo stesso tavolo con le economie emergenti per concordare le ricette del la crescita. 

 

Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica sono così divenute protagoniste interessate del benessere dell’Occidente, e viceversa. Ma questa formula della crescita nel XXI secolo si è arenata nelle sale del Palazzo di Costantino dove l’anfitrione russo ha sfruttato la crisi siriana per riconsegnare a Mosca la possibilità di guidare un’alleanza internazionale. E’ dalla dissoluzione dell’Urss che il Cremlino ha tale nostalgia, Putin l’ha espressa in più occasioni ed ieri è riuscito, per la prima volta, a enumerare pubblicamente i Paesi che preferiscono Mosca e Washington in un voluto show di forza politica. Elencando «Cina, India, Indonesia, Argentina, Brasile...» Putin si è mostrato raggiante, soprattutto perché sembra sicuro di aver trovato la formula vincente per mettere sulla difensiva Washington su scala globale. «L’attacco alla Siria fa temere a tutti il rallentamento della crescita e ad ogni Paese piccolo di essere aggredito da una potenza» dice Putin in una riedizione dell’anticolonialismo di metà Novecento, modellato su un XXI secolo che vede moltiplicarsi le nazioni in cerca di spazio, prestigio e prosperità sulla scena internazionale. Gli orizzonti di Putin e Barack Obama non potrebbero dunque essere più diversi. Il Presidente americano vuole punire Bashar Assad per aver usato i gas contro i civili - primo dittatore ad averlo fatto dopo Saddam Hussein nel 1988 a Halabja - con l’intento di scongiurare il rischio di altri despoti e tiranni attirati dalla possibilità di ricorrere ad armi di distruzione di massa per reprimere il dissenso interno o aggredire i Paesi vicini. E’ un obiettivo che rientra nella visione che Washington ha dei prossimi 30-50 anni dove la globalizzazione dell’economie è minacciata da terrorismo ed armi di distruzione di massa. Per questo accelera nella preparazione dell’intervento contro Assad. L’agenda del capo del Cremlino invece è tutt’altra, punta a una trasformazione radicale degli equilibri internazionali tentando di costringere al tramonto la primazia strategia esercitata dagli Stati Uniti dall’indomani della fine della Guerra Fredda. Ecco perché schierarsi fra Mosca e Washington conta per ogni capitale, europea o meno, assai più della disputa sulla legittimità di attaccare Assad per i gas adoperati a Damasco il 21 agosto. 

 

Nel duello di San Pietroburgo fra Putin e Obama, evidenziato da scambi di sguardi gelidi al summit e posizionamenti di navi da guerra nel Mediterraneo Orientale, ciò che colpisce è la scelta di Pechino. Xi Jinping si è schierato con Putin, ma evitando la sfida aperta a Obama. La Cina affianca il proprio veto pro-Assad all’Onu a quello di Putin ma poi Xi smorza i toni, parla con Obama di scambi commerciali, investimenti hi-tech e lotta ai cambiamenti climatici. Dando l’impressione di considerare il duello siriano più come un residuo del secolo passato che la genesi dei equilibri di quello nuovo, oramai inoltrato. Resta l’interrogativo su come sarà cambiato il G20 quando tornerà a incontrarsi a Brisbane in Australia nel novembre 2014 ovvero se questo forum resisterà all’impatto dell’intervento siriano oramai in arrivo.

da - http://lastampa.it/2013/09/07/cultura/opinioni/editoriali/mosca-prove-di-leadership-sugli-emergenti-1tlcLtMZmFtMNjNS7Fn0EM/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI La rinascita di Wall Street
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2013, 07:51:03 pm
ECONOMIA & FINANZA
14/09/2013

Dalla grande crisi al nuovo boom

La rinascita di Wall Street

Timori per la fine degli acquisti della Fed. Summers verso il posto di Bernanke

Maurizio Molinari
corrispondente da New York


la riduzione dell’acquisto di titoli da parte della Federal Reserve, la nomina del successore di Ben Bernanke e il raggiungimento del tetto del debito minacciano di innescare nelle prossime settimane una tempesta d’autunno destinata a mettere a dura prova tanto i mercati finanziari che
l’amministrazione Obama. 

La decisione della Federal Reserve sul «quantitative easing» è attesa per mercoledì al termine della riunione di 48 ore che, secondo l’opinione prevalente degli analisti, porterà a ridurre da 85 a 75 miliardi l’ammontare mensile di titoli acquistati. Si tratta del primo passo della «strategia di uscita» preannunciata al Congresso di Washington da Bernanke, presidente della Fed, alla luce dei progressi della ripresa. 

 

Andrew Wilkinson, capo economista di Miller Tabak & Co., ritiene che «Bernanke inizierà a tagliare» nonostante il dato sulla vendita al dettaglio di agosto - cresciuta appena dello 0,2 rispetto alla previsione del doppio - «perché il momento favorevole per l’economia resta intatto». Ciò non toglie tuttavia che sui mercati l’annuncio della Fed sollevi forti timori dopo i continui rialzi delle scorse settimane. Che hanno portato il Dow Jones, a cinque anni dal tracollo post-Lehman, a toccare i nuovi massimi di sempre.

Un indicatore in materia viene dall’oro, sceso ai minimi dell’ultimo mese portando al 20 per cento il calo da gennaio. «ll mercato si sta prendendo una pausa - osserva David Govett, capo dei metalli preziosi a Marex Spectron Group - e la pressione continuerà ad aumentare dopo la scelta della Fed». 
 
 

A temere di più sono i mercati delle materie prime delle economie emergenti, i cui leader - dal Brasile all’India - continuano a chiedere «prudenza» a Bernanke nel timore di brusche ricadute sui rispettivi Pil. Ad aggravare l’incertezza sull’impatto finanziario del taglio al «quantitative easing» c’è lo scenario dell’imminente cambio della guardia alla guida della Fed. 

 

La notizia rimbalzata ieri da Tokyo sulla decisione del presidente Barack Obama di nominare Larry Summers già la prossima settimana ha obbligato la Casa Bianca a una raffica di smentite, precisando che «la scelta avverrà entro alcune settimane» e «il nome non è stato deciso». Al Congresso più senatori, democratici e repubblicani, sono determinati ad opporsi alla conferma dell’ex ministro del Tesoro di Bill Clinton, ritenendolo responsabile di aver allentano i controlli bancari e avallato il «far west dei derivati» ponendo le basi per l’indebolimento del sistema finanziario che ha portato alla crisi del 2008. Da qui l’appello di 350 economisti, guidati dal premio Nobel Joseph Stiglitz, recapitato in fretta e furia alla Casa Bianca per chiedere a Obama di nominare Janet Yellen, attuale vice di Bernanke. 

 

Lo scenario di un duello aperto con il Congresso sul successore di Bernanke preoccupa la Casa Bianca non solo perché sarà il nuovo presidente della Fed a dover portare a termine la strategia di uscita dal «quantitative easing» ma anche perché si somma ad un’altra battaglia in arrivo a Capitol Hill. In questo caso la data è certa perché il 1° ottobre l’America raggiungerà il tetto dell’indebitamento federale consentito per legge e senza un’intesa fra Casa Bianca e leader repubblicani sull’aumento potrebbe verificarsi lo scenario della serrata governativa più volte sventata da Obama come anche di un devastante default finanziario a metà ottobre, capace di azzerare i progressi della ripresa.

 

Per dare luce verde all’aumento del tetto del debito i repubblicani di John Boehner, presidente della Camera, chiedono di ritardare ulteriormente l’entrata in vigore della riforma della Sanità ma la Casa Bianca non sembra per ora disposta a cedere. 

da - http://lastampa.it/2013/09/14/economia/dalla-grande-crisi-al-nuovo-boom-la-rinascita-di-wall-street-Br9InnVQVQjLz0Fwv3zyJI/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Onu, Rohani tende la mano a Obama: “Possiamo fare l’accordo...
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2013, 05:04:13 pm
Esteri
24/09/2013

Onu, Rohani tende la mano a Obama: “Possiamo fare l’accordo sul nucleare”

Il presidente iraniano al debutto: «Teheran non è una minaccia».

Ma salta l’incontro con Barack

Maurizio Molinari
CORRISPONDENTE DA NEW YORK


“Non siamo una minaccia, il nostro nucleare è pacifico, possiamo raggiungere un accordo con gli Stati Uniti”: il neopresidente iraniano Hasan Rohanì sfrutta il discorso all’Assemblea Generale dell’Onu per tendere la mano all’America di Barack Obama. “Ho ascoltato Obama, possiamo procedere verso un nuovo orizzonte” dice Rohanì, invitando però gli Stati Uniti a “cambiare mentalità”, rinunciando all’”approccio della Guerra Fredda in base al quale c’è sempre uno superiore ad un altro”.

Teheran cerca un rapporto fra eguali con Washington e giudica “ingiuste le sanzioni che colpiscono la popolazione”. Il messaggio a Washington è sulla “volontà di risolvere la questione nucleare” anche se nella sostanza Rohanì ripete la posizione già in più occasioni sostenuta dal predecessore Mahmud Ahmadinejad: “Abbiamo un programma pacifico, non vogliamo l’atomica, l’arricchimento dell’uranio è un nostro diritto”. Rohanì si dice anche contrario all’intervento militare in Siria. Poco prima Obama aveva definito “concilianti” le posizioni espresse da Teheran, sottolineando però il bisogno di “metterle alla prova e verificarle” perché le sanzioni internazionali “nascono dai comportamenti dell’Iran” ovvero le quattro risoluzioni votate dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu per bloccare un programma sospettato di avere una natura militare. Dietro le quinte sfuma l’incontro fra Obama e Rohanì. Per la Casa Bianca “sono gli iraniani a non essere pronti”. Rohanì ha invece incontrato il capo dell’Eliseo, Francois Hollande.

da - http://lastampa.it/2013/09/24/esteri/onu-rohani-si-rivolge-a-obama-possiamo-fare-laccordo-sul-nucleare-lzIucgDBigx0qjY4prnY5I/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Ciclone Rohani a New York
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2013, 05:05:08 pm
Esteri

24/09/2013 - 68° assemblea generale dell’Onu

Ciclone Rohani a New York


Aperture sul nucleare, scarcerazione dei dissidenti e dialogo con Obama

Il presidente iraniano è il protagonista più atteso della settimana all’Onu

Maurizio Molinari
corrispondente da new york


Barack Obama non esclude di incontrarlo, François Hollande si prepara a farlo, Benjamin Netanyahu ne teme le trappole, fra i plenipotenziari all’Onu non si parla che di lui, nei centri studi di Manhattan fervono i preparativi per i suoi discorsi e il «New York Times» riassume quanto sta avvenendo con un editoriale: «Tutti gli occhi questa settimana saranno su di lui».

Il protagonista indiscusso della nuova sessione dell’Assemblea dell’Onu che si apre oggi è Hassan Rohani, nuovo presidente della Repubblica islamica dell’Iran, sbarcato ieri a New York con una delegazione ristretta e un intento dichiarato: «Riapriamo il negoziato sul nucleare per arrivare alla fine delle sanzioni». Partendo da Teheran, Rohani ha picchiato duro «contro chi ha diffuso l’immagine di un Iran che persegue le armi di distruzione di massa» riferendosi, secondo i reporter iraniani, non agli Stati Uniti bensì a Mahmoud Ahmadinejad. E in effetti gesti, parole e decisioni delle ultime settimane hanno sottolineato la volontà di distinguersi dal predecessore: gli auguri per Rosh Ha-Shanah, il capodanno ebraico, la liberazione di oppositori interni, la facilitazione dell’accesso al Web, la condanna dell’uso delle armi chimiche in Siria e l’intenzione di negoziare sul nucleare puntano a cancellare la recente memoria del presidente che negava l’Olocausto, predicava la distruzione di Israele e usava toni bellicosi sul nucleare.
 
Diplomatici americani ed europei parlano di una «offensiva del sorriso» che in alcuni evoca il debutto del sovietico Mikhail Gorbaciov sulla scena internazionale, i grandi network lo presentano al pubblico Usa come il protagonista della «maggiore apertura dell’Iran all’Occidente dalla rivoluzione khomeinista» e il portavoce della Casa Bianca dice che «non è escluso» l’«incontro casuale» con Obama dentro il Palazzo di Vetro. John Kerry, Segretario di Stato, conferma che vedrà il collega iraniano Mohammad Zarif assieme ai plenipotenziari degli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza con l’intento di «ottenere impegni seri» sul rispetto delle quattro risoluzioni Onu che impongono a Teheran di bloccare un programma nucleare di cui si sospetta la natura militare. «Ciò che accomuna Obama e Rohani in questa fase – spiega l’iranista Trita Parsi – è il bisogno di risultati politici lampanti». 

Ma Benjamin Netanyahu, premier israeliano, teme il riavvicinamento Usa-Iran e avverte: «Rohani vi sta tendendo una trappola come fece la Nord Corea otto anni fa» al fine di guadagnare tempo per raggiungere l’atomica e mettere il mondo davanti al fatto compiuto. In una rara convergenza con Gerusalemme, Henry Kissinger suggerisce prudenza a Obama: «Capisco la tentazione di incontrare Rohani ma sarebbe meglio avere prima un risultato diplomatico perché Teheran mette grande energia nel programma nucleare».

da - http://lastampa.it/2013/09/24/esteri/ciclone-rohani-a-new-york-s7sWluBosHqy82yNOaULwM/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Braccio di ferro sull’Ipo Chrysler
Inserito da: Admin - Settembre 28, 2013, 05:07:22 pm
Economia
27/09/2013 - IL FONDO VEBA CHIEDE CINQUE MILIARDI PER LA SUA QUOTA, IL LINGOTTO PUNTA A SPENDERNE AL MASSIMO QUATTRO

Braccio di ferro sull’Ipo Chrysler

La casa americana avverte: il gruppo Fiat potrebbe ridurre l’impegno negli Usa

Maurizio Molinari
CORRISPONDENTE DA NEW YORK


Sergio Marchionne minaccia di ridurre l’impegno di Fiat in Chrysler ma il fondo Veba ribadisce la richiesta da 5 miliardi di dollari ed entrambi rafforzano gli schieramenti: da un lato con Ron Bloom, vicepresidente di Lazard e dall’altro con Deutsche Bank. Operatori di Wall Street ed analisti del mercato dell’auto assistono con il fiato sospeso a quello che James Press, ex vicepresidente di Chrysler, definisce «un duello all’Ok Corral» evocando la più classica delle sfide della frontiera.

 

L’oggetto del contendere è il 41,5 per cento di azioni Chrysler detenute da Veba, il fondo pensionistico del sindacato dei dipendenti dell’auto United auto workers, che vuole venderle a Fiat - che controlla il 58,5 - per non meno di 5 miliardi di dollari trovandosi davanti Marchionne, disposto a sborsare almeno un miliardo di meno. In assenza di un’intesa, Veba minaccia di vendere una parte della propria quota sul mercato e Marchionne con la scelta di prepararsi all’Ipo di Chrysler fa capire di essere pronto a raccogliere la sfida. Perciò Chrysler afferma: «Fiat ci ha informato che sta riconsiderando costi e benefici di un’ulteriore espansione delle relazioni con noi» su più tavoli ovvero «allocazione di capitali, investimenti e luoghi degli impianti». 

 

E’ una maniera per far capire a Veba che lo scontro frontale può spingere Fiat a rivedere l’impegno in Chrysler che ha consentito alla casa di Detroit si risollevarsi fino al punto di tornare a gareggiare con le rivali sul mercato Usa. Si spiega così anche quando dice John Elkann, presidente di Fiat, da Milano: «C’è un percorso che è stato definito, Veba ha il diritto di portarlo avanti e dunque Chrysler si sta impegnando a portare avanti l’Ipo» ma se «l’Ipo ci sarà, ci sono due società e questo è diverso da una società sola». Spiega Erik Gordon, economista dell’Università del Michigan: «Se Veba pensava di mettere Marchionne sulla difensiva ora si trova davanti alla contromossa» e il duello è sul filo di lana «perché se il valore dell’Ipo è troppo basso perde Veba mentre se sale oltre quanto Marchionne vuole pagare, lo espone al rischio di uscite maggiori». Richard Hilgert, analista di Morningstar che segue da vicino Fiat-Chrysler, ritiene che «l’Ipo in realtà potrebbe non avvenire perché non è né nell’interesse di Fiat né in quello del fondo Veba» e dunque «stiamo assistendo ad una danza negoziale che porterà ad un accordo». 
 
 

 

Alla scelta di Veba di minacciare la vendita delle azioni Chrysler sul mercato Fiat ribatte che se lo facesse oggi finirebbe per ricavarne una cifra assai inferiore al suo obiettivo. Il braccio di ferro si arricchisce di nuovi attori perché Marchionne arruola Ron Bloom, ex consigliere di Obama sul salvataggio dell’auto, per negoziare con il fondo sindacale mentre Veba sceglie come consigliere Deutsche Bank per prepararsi al mercato. Anche di questo Marchionne ha discusso con Enrico Letta durante una cena a New York, che ha visto il ceo di Fiat-Chrysler sostenere il premier: «E’ una persona forte, spero che continui». 

 da - http://lastampa.it/2013/09/27/economia/braccio-di-ferro-sullipo-chrysler-Wy8l1riwivPSBwV4nvWe3M/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Quei minuti che fermarono la  Storia
Inserito da: Admin - Novembre 22, 2013, 08:05:52 pm
15/11/2013
Quei minuti che fermarono la  Storia


Il 22 novembre 1963 il Presidente John Fitzgerald Kennedy venne ucciso a Dallas.

Il corteo, la folla, gli spari, il pianto di   Jacqueline: ecco come andò

Maurizio Molinari
corrispondente da New York

Quell’autunno del 1963 John F. Kennedy è impegnato a preparare la prossima campagna presidenziale. Non ha ancora annunciato l’intenzione di ricandidarsi ma ha già deciso di farlo. In settembre ha fatto tappa in nove Stati dell’Ovest in meno di una settimana parlando di educazione, sicurezza nazionale e pace nel mondo. In ottobre è stato a Boston e Filadelfia. In novembre si concentra su Florida e Texas. Il 21 novembre parte per un tour di 48 ore in cinque città texane. Jacqueline, che raramente lo accompagna, è con lui: è la prima volta che si fanno vedere assieme in pubblico dopo la perdita del piccolo Patrick, in agosto. Iniziano da San Antonio, poi Houston, pernottano a Forth Worth. Il 22 novembre è l’ultimo giorno di vita del 35° presidente americano.

8.45 Kennedy parla a 5000 persone davanti all’Hotel Texas di Forth Worth, l’intento è sanare la spaccatura dei democratici texani fra il vicepresidente Lyndon Johnson e il senatore Ralph Yarborough.

9.00 Finito quello che sarà l’ultimo discorso in pubblico, Kennedy torna nell’Hotel Texas per incontrare un gruppo di imprenditori. Gli regalano cappelli e stivali da cowboy.

10.40 Kennedy e Jacqueline lasciano l’Hotel Texas per l’aeroporto. Il Presidente dice allo sceriffo della Terrant County: «Vivete in un luogo straordinario, tenetelo tale».

11.38 L’Air Force One con i Kennedy, i Johnson, il governatore John Connally e la moglie Nellie atterra all’aeroporto Love Fied di Dallas. Alle 12.30 Kennedy deve parlare al Trade Mart.

11.40 Una folta folla accoglie i Kennedy. Si fermano a stringere le mani. Molti i cartelli di benvenuto. Entusiasmo per la First Lady, che riceve un mazzo di rose. Sventolano drappi confederati.

11.45 La limousine presidenziale lascia il Love Field con i Kennedy e i Connally. JFK chiede delle condizioni atmosferiche e in ragione della bella giornata sceglie di viaggiare su una Lincoln scoperta. A guidarla è l’agente speciale Bill Greer. Tre macchine dietro c’è l’auto di Johnson. Il corteo deve percorrere i 16 km di distanza fino al Trade Mart, passando per Dallas.

11.50 La limo attraversa Lee Park diretta a Dallas. All’incrocio fra Lemmon Avenue e Lomo Alto Drive Kennedy ferma l’auto per salutare un gruppo di bambini sulla strada.

12.25 Il corteo attraversa il centro di Dallas. Da Ervay Street a Main Street due ali di gente circondano il corteo. È una folla amichevole, entusiasta, quasi invade le strade, obbliga il corteo a rallentare da 20 a 5 miglia orarie. Nellie Connally dice a Jfk: «Presidente, non potete dire che Dallas non vi ami».

12.29 Lasciata la Main Street, i motociclisti della polizia, l’auto di testa e la limo del presidente girano a destra verso Houston Street e poi a sinistra per Elm Street. Sulla destra c’è Dealey Plaza, uno spazio aperto, con pochi spettatori. Passano davanti al Texas School Book Depository.

12.30 Un suono taglia l’aria. La scorta immagina lo scoppio di un tubo di scappamento o a un fuoco d’artificio. L’unico che pensa subito ad un fucile è John Connally, esperto cacciatore. Kennedy sembra girarsi a sinistra. Otto secondi dopo i suoni di altri due proiettili. La testa del Presidente rimbalza all’indietro. Alcuni frammenti del cranio raggiungono il vestito della First Lady. L’agente Clint Hill balza sulla limo che si dirige a tutta velocità verso il Parkland Hospital.

12.35 La polizia ispeziona l’edificio del Texas School Book Depository dove, al sesto piano, c’è una finestra aperta.

12.36 La limo con Kennedy arriva al Parkland Hospital. Jacqueline ripete «hanno ucciso mio marito, hanno ucciso mio marito».

12.37 Nel reparto di emergenza quattro dottori operano Kennedy e elle il dottor Tom Shires descrive ai media le ferite di Kennedy.

13.30 Il portavoce della Casa Bianca, Malcolm Kilduff, annuncia la morte di Kennedy, che ha 46 anni. In realtà è avvenuta 30 minuti prima ma il portavoce ha aspettato che Lyndon Johnson arrivasse a bordo dell’Air Force One. Walter Cronkite, dagli schermi della Cbs, dà la notizia alla nazione tradendo commozione: «Da Dallas, Texas, il presidente Kennedy è morto».

13.30 La polizia interviene a Oak Cliff, incrocio fra 10° Street e Patton Street per l’uccisione dell’agente J.D. Tippit.

13.50 Viene arrestato Lee Harvey Oswald, un ex marine che ha vissuto in Urss, al Texas Theater. È entrato senza biglietto. Il rivenditore di auto usate Ted Callaway afferma di aver visto Oswald fuggire dal luogo dove Tippit è stato ucciso. Oswald al mattino ha lavorato al Texas School Book Depository, poi è andato a casa e ha preso una pistola prima della morte di Tippit. Oswald viene accusato di aver sparato i tre colpi contro Jfk con un fucile calibro 38 dotato di mirino telescopico.

14.08 L’auto con la salma del Presidente lascia l’ospedale diretta l’Air Force One. Jacqueline prende posto sul retro, con la bara.

14.15 La salma di Kennedy viene caricata sull’Air Force One. Il vicepresidente Johnson ha dato ordine di non decollare fino all’arrivo di Jacqueline e della salma. Bisogna smantellare quattro poltrone dell’Air Force One per fare spazio alla bara.

14.38 Lyndon Johnson, con a fianco Jacqueline Kennedy, giura sull’Air Force One come nuovo presidente. A raccogliere il giuramento è il giudice Sarah Hughes. È Robert Kennedy, ministro della Giustizia, a suggerire a Johnson di giurare prima di decollare.

14.50 Durante il volo Lyndon Johnson e la moglie chiamano la madre di Kennedy, Rose, per farle le condoglianze.

17.00 Sulla pista di Andrews Jacqueline, per mano a Robert Kennedy, guarda la bara del marito caricata su un’autoambulanza per essere portata al Bethesda Hospital per l’autopsia.

23 novembre. Oswald compare davanti al giudice a Dallas e viene incriminato per gli omicidi di Kennedy e dell’agente Tippit.

24 novembre. Oswald viene portato nel sotterraneo del quartier generale della polizia di Dallas per essere trasferito in prigione. Davanti ha una folla di agenti, reporter e cameramen, Jack Ruby si fa largo e colpisce a morte Harvey Lee Oswald con una pistola calibro 38. Subito arrestato, afferma di averlo fatto per rabbia contro l’assassino del Presidente. Condannato e detenuto, Ruby morirà nel 1967 per un tumore.

Da - http://lastampa.it/2013/11/15/esteri/speciali/jfk-50-anni-dopo/approfondimenti/quei-minuti-che-fermarono-la-storia-rCQVbtKJmEgG9Wg1nOdymL/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Quattro anni di diplomazia segreta
Inserito da: Admin - Novembre 25, 2013, 04:26:14 pm
Editoriali
25/11/2013 -Rrestroscena

Quattro anni di diplomazia segreta

Maurizio Molinari

L’accordo di Ginevra è frutto della diplomazia segreta iniziata da Obama nella primavera 2009 e condotta da diplomatici di carriera e in pensione, oppositori iraniani, centri studi di New York, consiglieri della Casa Bianca, lettere a Khamenei, viaggi segreti a Teheran di collaboratori di Ban Ki-moon e i buoni uffici del Sultano dell’Oman, accelerando i contatti da marzo, quando il presidente iraniano era ancora Ahmadinejad. 

A riassumere il capitolo meno noto della diplomazia dell’amministrazione Obama è stato il luogo della Casa Bianca scelto per annunciarne il successo: la State Dining Room, con alle spalle il grande ritratto di Abramo Lincoln. Proprio a Lincoln infatti Obama si riferì nel discorso di insediamento a Washington, il 20 gennaio 2009, ispirandosi alla sua scelta di «cooperare con i nemici» dopo la vittoria nella guerra civile per mandare un messaggio esplicito all’Iran: «Tenderemo la mano, se voi aprirete il pugno». 

Poche settimane dopo quel discorso Obama invia al Leader Supremo Khamenei la prima delle lettere - sarebbero almeno due - per suggerire un dialogo diretto sul nucleare. Le rivolte di piazza in Iran contro la rielezione di Ahmadinejad, nel giugno seguente, raggelano gli sforzi ma oggi sappiamo che «Khamenei vi reagì con grande interesse». È su tale base che, dal 2010, a tessere il dialogo sono tre inviati Usa: William Burns, numero 2 del Dipartimento di Stato, Jacke Sullivan, consigliere per la sicurezza di Joe Biden, e Puneet Talwar, consigliere della Casa Bianca. Lavorano in parallelo, puntando a creare più canali con i collaboratori di Khamenei - da cui dipende il programma nucleare - con il risultato di tessere una rete che sfrutta ogni possibile apertura. L’ex portavoce iraniano sul nucleare Hossein Mousavian, che insegna a Princeton dopo aver lasciato Teheran, diventa l’interlocutore di Susan Rice, oggi consigliere per la sicurezza, suggerendo i nomi degli esperti più vicini a Khamenei ed anche più competenti sulla materia. Ad offrire la piattaforma per gli incontri è il Sultato dell’Oman, Qaboos bin Said al Said, sfruttando il negoziato sulla liberazione di due giovani americani detenuti in Iran per suggerire a Teheran di «discutere anche di altro». Quando si tratta di andare in Iran, per accertarsi che i messaggeri di Khamenei siano credibili, a farlo è Jeffrey Feltman, ex diplomatico Usa a fianco di Ban Ki-moon con i gradi di vicesegretario generale Onu, e ciò consente di creare un canale stabile. Del quale Obama tace al Congresso e soprattutto gli alleati - sauditi e israeliani - più ostili a Teheran. In marzo, quando a Teheran c’è ancora Ahmadinejad, Obama punta su un’accelerazione scommettendo sulla svolta alle presidenziali. Burns, Sullivan e Talwar - veterano dell’amministrazione Bush - in Oman e altrove nel Golfo iniziano a redigere le prima bozze con gli inviati di Khamenei. La vittoria di Hasan Rohanì dà coraggio a Washington e il passo successivo - la telefonata con Obama durante l’Assemblea Generale dell’Onu - ha come mediatori Suzanne DiMaggio, vicepresidente dell’Asia Society, e Valerie Jarrett, la più stretta consigliera di Obama, nata a Shiraz da genitori americani e amica di Michelle. I 15 minuti di conversazione sono la luce verde per puntare a Ginevra ed è solo adesso che Obama informa gli altri leader del Gruppo 5+1, gli israeliani e i sauditi. Ecco perché il negoziato sul contenzioso decennale si è concluso in meno di 20 giorni. Ma non è finita: nei prossimi sei mesi i canali segreti Obama-Khamenei dovranno cementare con «gesti bilaterali» l’applicazione delle intese sul nucleare. 

Da - http://lastampa.it/2013/11/25/cultura/opinioni/editoriali/quattro-anni-di-diplomazia-segreta-naCeUPHF6hlpLhgLQQtWmK/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Marchionne: “L’Italia deve scegliere tra il sistema Usa e ...
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2013, 11:18:16 am
Economia

03/12/2013 - il manager parla al consiglio per le relazioni fra Italia e Stati Uniti
Marchionne: “L’Italia deve scegliere tra il sistema Usa e quello tedesco”
Il ceo di Fiat-Chrysler: per il Paese l’importante è avere un governo stabile


Al termine di due giorni di lavori del Consiglio per le relazioni fra Italia e Stati Uniti che co-presiede, Marchionne affronta i temi dell’economia iniziando dal negoziato sul Trattato su libero commercio di beni e investimenti fra Usa e Ue

Maurizio Molinari
inviato a Washington

«Per l’Italia non è più tempo di compromessi, bisogna scegliere fra i sistemi economici americano e tedesco»: a dirlo è Sergio Marchionne, ceo di Fiat-Chrysler, auspicando per il nostro Paese un «governo stabile» e «riforme simili a quelle che consentono alla Spagna di attirare investimenti stranieri».

Al termine di due giorni di lavori del Consiglio per le relazioni fra Italia e Stati Uniti che co-presiede, Marchionne affronta i temi dell’economia iniziando dal negoziato sul Trattato su libero commercio di beni e investimenti fra Usa e Ue. «Può essere importante per togliere ostacoli agli scambi» osserva, ricordando che «al governo Monti avevamo chiesto di superare gli ostacoli interni ed esterni al commercio». 

Ciò che più conta per l’Italia è però avere un «governo stabile» capace di «attirare gli investimenti» con riforme simili a «quelle realizzate dalla Spagna» al fine di «compiere una scelta netta» fra «i sistemi economici di Germania è Stati Uniti che sono opposti» con «quello americano che cresce il doppio».

Da - http://lastampa.it/2013/12/03/economia/marchionne-litalia-deve-scegliere-tra-il-sistema-americano-e-quello-tedesco-dtT7B9Y2arhFNx1Z6XDzdN/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Silicon Valley in riva al Mediterraneo
Inserito da: Admin - Gennaio 19, 2014, 05:55:50 pm
Esteri
19/01/2014

Silicon Valley in riva al Mediterraneo
In Israele un polo hi-tech a 15 minuti da Tel Aviv è la capitale delle start-up.
Qui giovani imprenditori e creativi attirano investimenti da Apple, Facebook e Google.
“La Storia ci fa mettere in discussione e le incertezze del Medio Oriente ci obbligano a moltiplicare  le invenzioni di successo”

Maurizio Molinari
inviato a Air port city

Chi vuole affacciarsi sulla Silicon Valley d’Israele può farlo dal numero 1 della Hasharon Street. Siamo a 15 minuti di auto da Tel Aviv, meno di un’ora da Gerusalemme o Haifa, praticamente nel centro delle tre maggiori regioni economico-industriali di Israele.

È qui che sorge Air Port City, il «business park» vetrina dell’Information Technology che ha trasformato lo Stato ebraico nella nazione delle start-up attirando negli ultimi due anni almeno 14 miliardi di investimenti da parte dei giganti dell’economia digitale. È un complesso di edifici e padiglioni dove gli eventi si succedono a ritmi serrati, punto d’incontro fra innovatori e investitori. Il prossimo sarà a metà febbraio. CleanTech è l’unica fiera internazionale della tecnologia ecocompatibile e quest’anno vedrà oltre 600 aziende israeliane presentare i loro gioielli. Cartelli pubblicitari in loco e inserzioni online illustrano l’evento in giapponese, cinese, coreano e inglese preannunciando da dove è attesa la maggioranza degli imprenditori stranieri. 

Ad accompagnarci fra i padiglioni con l’allestimento quasi terminato è Denes Ban, ceo di OurCrowd Venture ovvero il talent scout delle start-up. Quest’anno Ban ha raccolto 31 milioni di dollari per offrire a 30 giovani imprenditori hi-tech la possibilità di affacciarsi sul mercato globale staccando assegni da 1 milione di dollari. OurCrowd è il fondo di investimento più attivo del Paese ed è anch’esso una star-up perché somma crowdfunding e venture capital. «Esaminiamo ogni start-up, su quello che ci convince investiamo con il crowdfunding offrendo ad ogni persona di partecipare - spiega Ban - e poi raccogliamo venture capital come gli altri fondi».

In questa maniera miliardari e singoli cittadini, israeliani o non, possono diventare inconsapevolmente soci di una stessa azienda. È una dinamica che spiega il proliferare di giovani aziende ad alto tasso tecnologico nei settori più diversi, in un mercato nazionale che continua a espandersi a ritmi da capogiro. Moment.me, creata da Ronny Ekayam e Eilon Tirosh, misura in tempo reale sul web la popolarità di un evento di interesse: che si tratti del giuramento di Barack Obama, di una partita del Real Madrid o del proprio matrimonio, consente di sapere in quanti sulla Rete hanno seguito - o stanno seguendo - un evento, di persona o attraverso conversazioni sui social network.

Lia Kislev è la creatrice di WiShi - «Wear it, Share it» - un hub digitale che tiene aggiornati su cosa c’è nell’armadio delle amiche o degli amici - per poter condividere i capi di abbigliamento, moltiplicando le possibilità di vestirsi e trasformando gli abiti in un collage di amicizie. Con Wix, Vered Avrahami offre la possibilità di creare un’azienda online e al momento la piattaforma conta 42 milioni di utenti registrati in tutto il mondo, gestiti con sedi a Tel Aviv, San Francisco, New York, Dnepropetrovsk e Vilnius. 

Matan Peled, ex comandante di ricognitori della Marina militare, con Winward permette di monitorare ciò che avviene sulla superficie degli Oceani scoprendo «ogni tipo di anomalie» che possono celare naufragi, barche di terroristi o concorrenza sleale mentre con SimilarWeb Boaz Sasson e Natalie Halimi paragonano i siti sulla base degli accessi dal Desktop, tracciando delle classifiche di popolarità che riservano sorprese. A dimostrarlo è il fatto che, senza calcolare accessi da cellulari e iPad, proprio SimilarWeb ha svelato in agosto che Google ha nella sola America più contatti di singoli utenti che Yahoo nel mondo intero: 9,4 miliardi contro 2,4 miliardi. Nessuna sorpresa se i giganti dell’economia digitale gareggiano nello shopping israeliano. 

Negli ultimi due anni Google, Apple, Intel, Ibm e Cisco hanno fatto acquisizioni pubbliche per 4 miliardi di dollari ma Zack Weisfeld, top manager di Microsoft in Israele, ritiene che «calcolando gli accordi non annunciati si arriva a 14 miliardi di dollari di acquisizioni dal 2012». Con gli ultimi 18 mesi in crescita: Facebook ha acquistato Onavo per 200 milioni di dollari, Apple ha fatto lo stesso con PrimeSense versando 345 milioni di dollari e Google ha sborsato ben 1 miliardo di dollari per avere Waze, l’applicazione che informa sul traffico nelle strade basandosi sul dialogo interattivo fra gli automobilisti. Sono queste le ultime notizie che arrivano dalla «Start Up Nation» descritta nel libro di Dan Senor e Saul Singer nel 2009 quando Israele già vantava il maggior numero di aziende straniere quotate sul Nasdaq. 

Sulla genesi di questo fenomeno Asaf Peled, ceo del colosso dell’informazione digitale FTBpro, osserva: «Sono le incertezze del Medio Oriente ad aver determinato la moltiplicazione di invenzioni di successo». Denes Ban riassume tale originale dinamica in tre fattori convergenti. Primo: «Israele è di per sè una start-up perché è stato creato dal nulla grazie agli immigrati e si trova dall’inizio in una situazione unica, con un mercato interno assai ridotto e intorno nazioni nemiche, ostili, trovandosi obbligato a interagire su scala globale». Secondo: «La formazione culturale ebraica perché il Talmud, studiato negli ultimi 4000 anni, insegna a mettere sempre tutto in dubbio, contestando lo status quo, così come il principio del “Tikun Olam”, la riparazione del mondo, spinge costantemente a operare correzioni». Terzo: «Il servizio militare nazionale perché l’esercito israeliano porta ragazzi di 23-24 anni a conoscere la tecnologia più avanzata esistente così come ad assumersi responsabilità insolite in situazioni di alto rischio» oltre al fatto che «i nostri soldati sono noti per contestare i superiori quando ritengono sbagliati gli ordini e ciò contribuisce a svilupparne il carattere di leader».

Proprio a quest’ultima caratteristica fa riferimento Tal Slobodkin, manager di Cisco System in Israele, spiegando che dal 1998 Cisco ha acquistato 11 start-up israeliane e ha investito in altre 22 «trattandosi di aziende rilevanti nei settori di networking, gestione dei Big Data, sicurezza e video» attingendo alle conoscenze di numerosi ex ufficiali. Nulla da sorprendersi se Guy Pross è fra gli imprenditori più ricercati in Sud Corea: la sua start-up North 31° - la collocazione geografica di Israele - promuove l’uso dell’Information Technology a favore delle infrastrutture. «Che si tratti di trasporti, energia o acqua è lo scambio di tecnologia la strada da seguire - dice Pross -consentire alle start-up di andare oltre le applicazioni e migliorare le infrastrutture». Il termine che Pross adopera per descrivere questa nuova frontiera è «innovazioni mid-tech». Un esempio viene da TaKaDu, che ha sviluppato il software capace di raccogliere Big Data sugli acquedotti - grazie ad un sofisticato sistema di sensori - per intervenire ed eliminare le perdite di acqua potabile che ammontano, ogni anno, al 25 per cento del totale.

Da - http://lastampa.it/2014/01/19/esteri/silicon-valley-in-riva-al-mediterraneo-jKQqAhYhYW2shM0CHtMZlL/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Unità 8200, l’Nsa israeliana che sforna milionari hi-tech
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2014, 05:24:27 pm
Esteri
07/02/2014

Unità 8200, l’Nsa israeliana che sforna milionari hi-tech
Gli ex soldati cibernetici conquistano la Silicon Valley
Una società israeliana anti-attacchi di pirati informatici

Maurizio Molinari
corrispondente da Gerusalemme

È la più numerosa unità dell’esercito israeliano ma il nome del comandante è segreto, ha la base in un’installazione del Negev di cui esistono poche immagini, combatte la guerra cibernetica e sforna tycoon dell’hi-tech: stiamo parlando della task force 8200, l’equivalente della National Security Agency (Nsa) americana, da cui proviene un numero crescente di Ceo degli start up protagonisti del boom digitale dello Stato ebraico.

Creata in maniera rudimentale nel 1952, grazie ad alcune attrezzature che avanzavano all’esercito americano, l’«unità per la raccolta dati» dell’intelligence israeliana resta un segreto fino al 2010 quando Amos Yadlin, capo dei servizi segreti militari, ne svela l’esistenza in anticipo di qualche mese sulle ammissioni iraniane sui virus Stuxnet e Stars che aggrediscono gli impianti nucleari di Teheran causando gravi danni e ritardi che saranno attribuiti dal «New York Time» alla cooperazione fra Nsa e unità 8200. Da quel momento le informazioni filtrano con il contagocce: la base di 8200 si trova nel deserto del Negev, i suoi compiti sono protezione dagli attacchi cibernetici, blitz digitali contro i nemici e raccolta di megadati.

Da qui la curiosità per la moltiplicazione dei veterani che si affermano nel settore dell’hi-tech, le cui esportazioni annuali ammontano a 25 miliardi di dollari ovvero un quarto del totale. Si tratta di un universo di oltre cinquemila aziende e circa 230 mila dipendenti fra i quali spiccano nomi come quello di Yair Cohen, l’ex generale che è stato comandante dell’unità 8200 e ora guida l’intelligence cibernetica di Elbit System, uno dei giganti della Difesa.

Fra i suoi ex commilitoni ci sono Yehuda e Zonhar Zisapel, che hanno creato e venduto dozzine di start up per centinaia di milioni di dollari, così come Aharon Zeevi Farkash, anch’egli ex capo della 8200, che lasciata la divisa ha fondato Fts21, lo start up mirato a seguire i gusti degli adolescenti. Yossi Vardi, che creò nel 1969 la prima azienda di software in Israele, afferma che «l’unità 8200 ha creato più milionari nell’hi-tech di qualsiasi università israeliana». Aziende digitali come Nice, Converse e Check Point sono state fondate da veterani della 8200 grazie all’esperienza maturata nella gestione della più avveniristica tecnologia. I giganti globali cercano di assicurarsi prodotti e cervelli frutto dell’unità 8200, come ha fatto Ibm acquistando per oltre 800 milioni di dollari Trusteer, un provider di cybersicurezza cloud per istituzioni finanziarie.

Il segreto di Trusteer è un software capace di identificare sofisticate minacce alla sicurezza consentendo alla clientela di operare in maniera analoga alla protezione delle infrastrutture strategiche - trasporti, energia e banche - dal cyberterrorismo. Micky Boodaei, ceo di Trusteer, riconosce all’unità 8200 di essere divenuta un «incubatore di start up di qualità» e per Farkas ciò si spiega con il fatto che «il modello organizzativo dell’intelligence cibernetica incoraggia a pensare con la propria testa, innovando in continuazione».

Per Yuval Diskin, ex capo della sicurezza interna di Israele, «la necessità di sviluppare la cybersicurezza nasce dal fatto che non ci possiamo permettere di aspettare il domani in quanto le minacce più sofisticate battono alle nostre porte». E le potenzialità cibernetiche «rientrano nella dottrina militare israeliana - conclude - basata su attacchi preventivi e tentare di combattere in territorio nemico».

Da - http://lastampa.it/2014/02/07/esteri/unit-lnsa-israeliana-che-sforna-milionari-hitech-pulHeVzZdAkDvIdwcPv2dI/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Dialogo con i nemici: è la dottrina Obama
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2014, 04:43:23 pm
Editoriali
01/06/2014

Dialogo con i nemici: è la dottrina Obama
Maurizio Molinari

Con lo scambio fra cinque detenuti di Guantanamo e l’ostaggio americano Bowe Bergdahl, Barack Obama sigla il primo patto con i taleban.

Il presidente Usa legittima il nemico contro cui l’America combatte dall’ottobre 2001 e porta alle estreme conseguenze la dottrina multilateralista sulla politica di sicurezza illustrata nel discorso di West Point. 

Il patto con i taleban è frutto di un negoziato segreto di almeno sei mesi teso non solo a liberare il soldato Bergdahl, prigioniero da cinque anni, ma anche ad aprire un dialogo con la guerriglia afghana in vista della fine delle operazioni militari a Kabul: la Casa Bianca è consapevole che il successore di Hamid Karzai sarà vulnerabile sulla sicurezza e cerca interlocutori anche fra i suoi nemici giurati per scongiurare l’incubo di un Afghanistan di nuovo in fiamme. In questa maniera Obama legittima l’avversario jihadista, alleato di Al Qaeda, contro cui l’America intervenne in reazione agli attacchi all’11 settembre 2001, confermando la strategia del dialogo con l’Islam fondamentalista che ha visto Washington sostenere in Egitto i Fratelli Musulmani di Mohammed Morsi. Ad evidenziarlo è il ruolo di mediatore del Qatar: un emirato messo all’indice dalle monarchie Golfo per i legami con i Fratelli Musulmani che ottiene invece adesso, grazie a Obama, un successo di immagine grazie a cui rompe l’isolamento arabo. Sono mosse che descrivono la volontà del presidente Usa di inoltrarsi con decisione sulla strada del multilateralismo illustrato giovedì a West Point: l’America non si limita a ripugnare gli interventi militari per risolvere le crisi ma rilancia con forza il dialogo con i nemici. Come conferma anche la volontà di raggiungere entro luglio un’intesa sul programma nucleare dell’Iran di Hassan Rouhani.

Resta da vedere quali saranno le conseguenze di tale approccio per la credibilità dell’America. Obama sbarca domani a Varsavia in un’Europa dell’Est che gli contesta eccessi di timidezza con Vladimir Putin sull’Ucraina in maniera assai simile a come i più stretti alleati arabi gli rimproverano il mancato intervento contro Bashar Assad in Siria. Nel momento in cui coglie un primo concreto risultato del dialogo con i nemici, perseguito con costanza sin dal discorso del primo giuramento a Washington il 20 gennaio 2009, Obama si trova obbligato a fare i conti con lo scontento crescente dei propri alleati che, dal Baltico a Hormuz, sono intimoriti da una Casa Bianca meno determinata a difenderli.

Da - http://lastampa.it/2014/06/01/cultura/opinioni/editoriali/dialogo-con-i-nemici-la-dottrina-obama-Llbh8OSGa7UbTuNPtfKVRK/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI La pace è più lontana Una tragedia nata dalla mancanza di...
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2014, 06:42:50 pm
Editoriali
01/07/2014

La pace è più lontana
Una tragedia nata dalla mancanza di un confine netto



Maurizio Molinari
 
L’uccisione brutale dei tre ragazzi rapiti è una tragedia che allontana la pace ed evidenzia la necessità di un confine chiaro, riconosciuto, fra Israele e Palestina.

La pace è più lontana perché le conseguenze di quanto avvenuto vedranno il governo israeliano di Benjamin Netanyahu tentare di schiacciare Hamas e Hamas scivolare su posizioni sempre più estreme, rintanandosi nell’angolo del terrorismo.

Per chi, come me, aveva creduto, serbato grande speranza, nel governo di unità nazionale palestinese di Abu Mazen, con Fatah e Hamas assieme, è un giorno triste. Credevo che questa intesa a lungo perseguita da Abu Mazen, potesse costituire una svolta e avvicinare la soluzione dei due Stati ma ora questo orizzonte si allontana nel tempo. Anche se, in realtà, sappiamo ancora molto poco di quanto è avvenuto: mancano le informazioni su come sono stati uccisi i tre adolescenti, su chi li ha uccisi e dunque anche certezze sulla matrice politica ovvero se si è trattato di un crimine commesso da Hamas oppure da gruppi isolati di criminali che rispondono solo a se stessi. 

Israele ha già vissuto purtroppo, in passato, molte tragedie simili, nel centro di grandi città come Gerusalemme e Tel Aviv, pagando un prezzo di vite molto alto all’assenza di pace. Ma questa tragedia possiede un elemento in più: i tre ragazzi, studenti di scuola religiosa, quando sono stati rapiti si trovavano in un’area che in realtà non appartiene a nessuno ed evidenzia le conseguenze negative dell’assenza di una pace duratura fra Israele e Palestina. 

Si tratta infatti dell’Area C della Cisgiordania che, in forza degli accordi siglati a Oslo, si trova in Cisgiordania e in territorio palestinese ma è controllata solo dagli israeliani. Questi tre ragazzi pensavano di trovarsi in Israele ma in realtà erano in Palestina. C’è qualcosa di ancor più drammatico in questa tragedia perché vivere in un luogo pensando che sia un altro è la conseguenza dell’assenza di un confine. Se la frontiera fra Israele e Palestina non c’è, e l’Area C è una zona grigia indefinita, è per l’assenza di un accordo di pace duraturo fra i due Stati, nel rispetto di pace e sicurezza per entrambi. L’assenza di frontiera fa venire meno la responsabilità: se fosse formale, inequivocabile, l’appartenenza alla Palestina anche il governo palestinese sarebbe più responsabile. 

 
Ci troviamo davanti a una spirale di conseguenze negative che accomuna ebrei ed arabi, portandoli sempre più a fondo come evidenziato da quanto sta avvenendo in queste ore con le forze israeliane che hanno sigillato la città palestinese di Hebron in Cisgiordania, peraltro da giorni sottoposta a coprifuoco. Anche per questo mi identifico completamente con la reazione che il presidente palestinese, Abu Mazen, ha avuto davanti al sequestro dei tre ragazzi israeliani, condannandolo come un «evento terribile» guardando anche alle «conseguenze che potrà avere» allontanando ancora una volta la speranza di pace per questa terra dove si confrontano le ragioni, entrambe legittime, di israeliani e palestinesi.

Da - http://lastampa.it/2014/07/01/cultura/opinioni/editoriali/una-tragedia-nata-dalla-mancanza-di-un-confine-netto-XC4VowNG1MqZjEwNwrKsAP/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Israele sotto attacco
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2014, 10:27:00 am
Esteri
11/07/2014 - Israele sotto attacco
Nel super bunker di Ashkelon da dove parte la caccia ai razzi
Un team guidato dal sindaco guida la difesa dagli attacchi di Hamas

Maurizio Molinari
inviato ad ashkelon

Dietro la sede del Municipio, in un corridoio laterale c’è un’anonima porta grigiastra senza insegne da cui si accede al «Hamal». 

È questo l’acronimo di «Heder Milchamà» ovvero la «War Room» da dove il sindaco Itamar Shimoni coordina le difese civili di una città di 240 mila abitanti che in 72 ore è stata bersagliata da quasi 300 razzi lanciati dalla Striscia di Gaza. Ogni città d’Israele ha una «Hamal» perché la difesa civile del territorio è un pilastro strategico di quella militare, consentendo di suddividere le responsabilità, informare la cittadinanza e in ultima istanza ridurre i rischi. 

Da quando l’operazione «Protective Edge» è iniziata Ashkelon è - assieme a Sderot - la città più esposta agli attacchi di Hamas per ragioni geografiche: dista appena 8 km dal confine e 16 dal centro di Gaza. «Hamas spara i razzi contro di noi dal centro di Gaza - spiega Yosef Greenfield, capo della sicurezza civile cittadina - e ci arrivano in appena 15 secondi». È in questo ristretto arco di tempo che le batterie antimissili Iron Dome identificano i razzi e intercettano quelli più pericolosi - perché diretti verso zone densamente popolate - facendo scattare in contemporanea gli allarmi lì dove l’impatto può avvenire. 

È un sistema difensivo hi-tech che dalla «War Room» cittadina viene monitorato per essere pronti a intervenire in caso di danni a proprietà o persone. La sala blindata, due piani sottoterra, è circondata da altre stanze più piccole e corridoi dove dozzine di funzionari civili lavorano 24 ore su 24, 7 giorni su 7, per tenere d’occhio ogni dettaglio. Ci sono monitor, piantine della regione da Gaza ad Ashkelon, telecamere accese in movimento nelle zone più critiche e una cucina dove, nei momenti di pausa, chi non è di turno consuma Nescafè a volontà. «La difesa militare spetta all’esercito, noi qui ci occupiamo della sicurezza civile» spiega Avi, un avvocato che come riservista tiene i rapporti fra sindaco ed esercito. Significa «pensare agli oltre 1500 bambini che vivono in case vecchie, senza stanze protette perché da 72 ore sono chiusi dentro e potrebbero restarvi per settimane».

Il sindaco Itamar Shimoni ha pensato di organizzare per loro concerti all’auditorium per «farli uscire da casa e tenerli al tempo stesso in un luogo protetto». Poi c’è il problema di malati, infermi e anziani impossibilitati a raggiungere i rifugi nei 15 secondi di tempo che vi sono dopo ogni sirena d’allarme. «Per loro abbiamo studiato un sistema basato su volontari li vanno a prendere per portarli all’aria aperta, lungo percorsi dove ci sono rifugi agibili facili da raggiungere» spiega Avi, secondo il quale però «il problema maggiore viene dai bambini piccoli». Ecco il motivo: «Sentono la sirena, intuiscono il pericolo incombente ma non riescono a capire di cosa si tratta». Da qui la necessità di dozzine di psicologi, spesso donne, che il Comune manda nelle case su richiesta dei genitori, per mettere in atto «comportamenti rassicuranti» basati sull’esperienza fatta dalle famiglie di Sderot, la città più colpita dai razzi sin dall’indomani del ritiro israeliano da Gaza nel 2005. 

«La collaborazione e i nervi saldi della popolazione sono fondamentali - spiega Greenfield, un ex generale con una figlia iscritta a Medicina all’ateneo di Torino - proprio come avveniva nella Gran Bretagna bersagliata dai nazisti durante la Seconda Guerra Mondiale». Da qui i corsi a raffica, nelle scuole e sui posti di lavoro, con gli istruttori che ripetono in continuazione cosa fare per difendersi dai razzi: chi si trova a casa deve andare nelle «stanze protette», create in ambienti senza finestre, o se possibile nei rifugi mentre chi ascolta la sirena mentre si trova all’aperto deve stendersi pancia a terra con la testa fra le mani.

A spiegare il motivo è Avi, indicando i resti di alcuni razzi Qassam posizionati al centro della «War Room»: «Sono tubi di metallo, al cui interno mettono centinaia di biglie di ferro che l’esplosione trasforma in proiettili e possono generare schegge di altri materiali, a cominciare dall’asfalto perché cadendo in terra creano per reazione frammenti volanti roventi, capaci di perforare un corpo umano, fino a ucciderlo». Per evitare biglie e schegge bisogna aspettare, spiegano gli istruttori della «War Room», «almeno 10 minuti dal momento della sirena» per dare tempo all’Iron Dome di intercettare il razzo, farlo esplodere e far cadere in terra ogni suo singolo componente. 

«È fondamentale restare al coperto per 10 minuti» ripetono all’unisono i consiglieri del sindaco, che annotano su una particolare lavagna luminosa tutti i «missili pericolosi» che hanno minacciato la città negli ultimi giorni con le relative «misure adottare in risposta». L’avvocato Avi è un riservista di 38 anni mentre Yosef Greenfield è un generale in pensione e di anni ne ha 60: appartengono a generazioni diverse ma attorno al sindaco Shimoni lavorano in tandem, accomunati dalla volontà di «far passare questo periodo senza danni». Nella comune speranza che «la crisi a Gaza finisca presto e i lanci di razzi si interrompano» perché «il problema maggiore potrebbe venire da tempi lunghi, capaci di causare conseguenze economiche negative per l’impossibilità di lavorare in molte aziende e negozi».

Da - http://www.lastampa.it/2014/07/11/esteri/nel-super-bunker-di-ashkelon-da-dove-parte-la-caccia-ai-razzi-D0EKqQzZTuGvfJh3bnwvXP/pagina.html?wtrk=cpc.social.Twitter&utm_source=Twitter&utm_medium=&utm_campaign=


Titolo: Maurizio Molinari Iraq, l’islamismo da esportazione del Qatar.
Inserito da: Admin - Agosto 21, 2014, 07:29:01 pm
Iraq, l’islamismo da esportazione del Qatar.
Per il Califfo un tesoro di due miliardi
Il doppio gioco di alcuni alleati Usa nella regione che finanziano i terroristi dell’Isis
Fra i finanziatori le ricche famiglie dei Paesi del Golfo


21/08/2014
Maurizio Molinari
Corrispondente a Gerusalemme

Con un tesoro di oltre 2 miliardi di dollari lo Stato Islamico (Isis) di Abu Bakr al-Baghdadi è il gruppo terrorista più ricco del Pianeta e la pista dei soldi porta allo Stato sospettato di esserne il maggiore finanziatore: il Qatar. 

Il ministro dello Sviluppo tedesco Gerd Mueller punta l’indice sull’Emirato di Doha in un’intervista alla tv Zdf, spiegando che «i soldati del Califfo terrorista vengono pagati dal Qatar». È un passo che segue quello del vicecancelliere Sigmar Gabriel, ministro dell’Economia, che pochi giorni fa aveva suggerito ai colleghi dell’Ue di «iniziare a discutere chi finanzia Isis».

Se la valutazione di 2 miliardi di dollari delle finanze del Califfo jihadista viene dal governo di Baghdad, la pista qatarina è stata descritta da David Cohen, vice-segretario Usa al Tesoro con la responsabilità dell’Intelligence e la lotta al terrorismo, che da Washington ha spiegato, già in marzo, come «donatori del Qatar raccolgono fondi per gruppi estremisti in Siria, a cominciare da Isis e al-Nusra» con il risultato di «aggravare la situazione esistente». Un successivo studio del «Washington Institute per il Vicino Oriente» ha calcolato in «centinaia di milioni di dollari i versamenti compiuti da facoltosi uomini d’affari in Qatar e Kuwait a favore di al-Nusra e Isis», che in precedenza era nota come «Al Qaeda in Iraq». 

Ciò che accomuna questi «donatori» è la volontà di finanziare gruppi fondamentalisti sunniti impegnati a combattere con ogni mezzo il nemico sciita ovvero qualsiasi alleato, reale o potenziale, di Teheran in Medio Oriente: dal regime di Bashar Assad in Siria agli Hezbollah in Libano fino agli sciiti in Iraq. Citando analisi americane, David Cohen ha aggiunto che «il Kuwait è l’epicentro del finanziamento dei gruppi terroristi in Siria» mentre il Qatar ne costituisce il retroterra grazie ad «un habitat permissivo che consente ai terroristi di alimentarsi». Sono tali elementi che hanno portato l’ultimo «Country Reports on Terrorism» del Dipartimento di Stato - relativo al 2013 - a definire il Qatar «ad alto rischio di terrorismo finanziario» ed il Kuwait teatro di «finanziamenti a gruppi estremisti in Siria». Colpisce il fatto che entrambi i Paesi sono stretti alleati degli Stati Uniti ed in particolare il Qatar, che nella base di Al Udeid ospita l’avveniristico comando delle truppe Usa in Medio Oriente, ha ricevuto a metà luglio una commessa militare Usa da 11 miliardi di dollari che include elicotteri Apache, batterie di Patriot e sistemi di difesa Javelin.

Proprio in occasione di questo accordo, il Qatar si impegnò con Washington ad accogliere cinque leader taleban scarcerati da Guantanamo per ottenere la liberazione del soldato Bowe Bergdahl prigioniero in Afghanistan. 

«Il Qatar ha una doppia identità - spiega Ehud Yaari, il più apprezzato arabista d’Israele - da un lato ospita soldati Usa e accoglie uomini d’affari israeliani ma dall’altra finanzia i più feroci gruppi terroristi sunniti». In effetti l’Emirato guidato da Tamim bin Hamad Al Thani è stato messo all’indice da Arabia Saudita ed Egitto per il sostegno che diede ai Fratelli Musulmani di Mohammad Morsi e l’isolamento nella Lega Araba è cresciuto a seguito della scelta di Doha di schierarsi - unico Paese arabo - a favore di Hamas nel conflitto di Gaza con Israele. Fino al punto che fonti di Al Fatah hanno rivelato al giornale arabo Al-Hayat che «il Qatar sta sabotando il negoziato egiziano per una tregua permanente nella Striscia» e in particolare avrebbe «minacciato di espulsione il leader di Hamas Khaled Mashaal per impedirgli di accettare le più recenti proposte formulate dal Cairo».

A spiegare cosa c’è all’origine delle politiche del Qatar è Zvi Mazel, ex ambasciatore israeliano al Cairo, ricordando come «quando il presidente Gamal Abdel Nasser alla metà degli Anni Cinquanta espulse i leader dei Fratelli Musulmani questi si rifugiarono in Qatar» allora colonia britannica, forgiando un’intesa «con le tribù locali che ne ha fatto le interpreti di un fondamentalismo ostile a quello dell’Arabia Saudita». Se infatti la tribù saudita degli Ibn Saud «predica il fondamentalismo sunnita in un unico Paese, ovvero l’Arabia - spiega Mazel - la tribù Al Thani del Qatar predica il fondamentalismo d’esportazione, quello dei Fratelli Musulmani che distingueva anche Osama bin Laden, e punta a rovesciare i regimi arabi esistenti». 

Il contrasto fra Qatar e Arabia Saudita nasce dunque dall’interpretazione del Corano e si sviluppa in una rivalità per la leadership del mondo sunnita che si rispecchia in quanto sta avvenendo in Siria dove, secondo fonti d’intelligence europee, Doha e Riad «finanziano gruppi islamici rivali dentro l’opposizione ad Assad». L’ex premier iracheno Nuri al-Maliki negli ultimi due mesi ha più volte accusato «Qatar e sauditi» di sostenere Isis, lasciando intendere che ognuno ha i propri interlocutori, e che Riad agirebbe assieme a Emirati Arabi e Bahrein, accomunati proprio dall’ostilità al Qatar. Al-Baghdadi dunque si gioverebbe di più fonti di finanziamento con il filone-Qatar tuttavia più corposo anche per la convergenza di interessi con la Turchia di Recep Tayyep Erdogan. A metà mese l’agenzia russa Ria-Novosti ha rivelato che i fondi raccolti in Qatar avrebbero consentito a Isis di acquistare armamenti dell’ex Europa dell’Est grazie ad un network basato in Turchia. In particolare Isis avrebbe comprato blindati per trasporto truppe in Croazia, carri armati in Romania, mezzi per la fanteria in Ucraina e munizioni in Bulgaria riuscendo a sfruttare tali traffici anche per reclutare volontari in Kosovo e Bosnia.

Da - http://www.lastampa.it/2014/08/21/esteri/iraq-lislamismo-da-esportazione-del-qatar-per-il-califfo-un-tesoro-di-due-miliardi-UfDueKARAxYnPOuEhOTfoM/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI La guerra impossibile alle tribù
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2014, 05:53:27 pm
La guerra impossibile alle tribù
22/08/2014

Maurizio Molinari

Quarantott’ore dopo aver annunciato la riconquista della diga di Mosul il Pentagono ha fatto sapere di aver realizzato 14 raid aerei per assicurarne il controllo agli alleati curdi.

L’evidente contraddizione descrive la difficoltà per gli Stati Uniti, la più grande potenza militare esistente, di battersi contro la tribù jihadista di Abu Bakr al-Baghdadi, evidenziando il più vasto problema strategico in arrivo dalle dune del Medio Oriente.

Dall’Anbar iracheno alla Striscia di Gaza, dal Mali alla Libia fino al Sinai sono le tribù le nuove interpreti del messaggio di guerra jihadista con cui Osama bin Laden sorprese New York e Washington l’11 settembre del 2001, obbligando l’America e l’Occidente ad iniziare una campagna militare in procinto di entrare nel 13° anno. Al Qaeda delle origini era un’organizzazione con un leader assoluto che godeva del sostegno di uno Stato - l’Afghanistan dei taleban del Mullah Omar - e dopo le sconfitte subite fra il 2001 e il 2007 si è trasformata in una galassia di organizzazioni locali - da Al Qaeda in Iraq ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico - accomunate dall’ideologia ma questa versione dell’eredità di Bin Laden lascia ora il campo ad una Jihad 3.0 che ha per protagoniste le tribù, i clan e in ultima istanza le aggregazioni famigliari ovvero le componenti basilari delle società arabo-musulmane. Basta guardare la mappa dei conflitti in atto dalla Rocca di Gibilterra agli Stretti di Hormuz per accorgersi chi sono i nuovi protagonisti. Nel Sahel le tribù del Nord Mali sono sopravvissute all’intervento francese dello scorso anno contro Al Qaeda nel Maghreb, arricchendosi con traffici illeciti fino al punto da obbligare Parigi a nuovi raid - due settimane fa - per sostenere il traballante governo di Bamako. In Libia la sovrapposizione fra milizie e clan tribali, soprattutto in Cirenaica, è talmente pericolosa da aver obbligato l’esercito egiziano ad assumere il controllo informale di una fascia di territorio oltre frontiera. Nel Sinai sono le tribù beduine a gestire i traffici di armi iraniane e siriane dal Sudan a Gaza, sostenendo i jihadisti di Beit Al Maqqdis, e dentro Gaza i gruppi salafiti competono con Hamas e Jihad Islamica per il sostegno di grandi clan famigliari allettati dalle ingenti quantità di denaro liquido. Ma è nell’Anbar iracheno che lo Stato Islamico (Isis) vede le tribù sunnite aggregarsi attorno al progetto più avanzato, guidato dal «Califfo Ibrahim» Abu Bakr al-Baghdadi, che negli ultimi tre anni ha esteso il proprio potere dalla Siria Orientale all’Iraq Occidentale seguendo il corso del Tigri e dell’Eufrate, ovvero i grandi fiumi che significano energia, vita ed in ultima istanza potere in quest’area del Pianeta. Il suo «Califfato» non ha un territorio di tipo tradizionale - con porti, città, pianure, campi agricoli o zone industriali - ma si articola nel controllo di punti-chiave lungo i corsi d’acqua oppure i pozzi di petrolio. Così come Gengis Khan, circa 800 anni fa, portò le tribù mongole a conquistare l’Asia fino ad affacciarsi al Medio Oriente occupando le vie delle carovane verso Occidente. Allora Khan e oggi Abu Bakr puntano al controllo dell’origine della ricchezza in steppe e deserti.

 Combattere contro le tribù è la nuova, e più difficile, sfida asimmetrica che la Jihad ci impone. Perché non hanno territori definiti, centri urbani riconoscibili e spesso neanche leader ideologici carismatici: ciò che le tiene assieme sono interessi concreti - denaro e controllo di fonti di energia - e il terrore imposto da chi le guida. Sotto questo aspetto la decapitazione del reporter James Foley, le stragi di yazidi, le chiese violate e le fosse comuni di soldati iracheni sciiti servono al «Califfo Ibrahim» soprattutto per imporsi sulle tribù irachene come il più feroce dei Saladini, al fine di ottenerne la fedeltà assoluta. Contro le tribù jihadiste gli armamenti degli eserciti tradizionali servono a poco: il Pentagono adopera gli F-18 per eliminare «tubi usati come mortai» sulla diga di Mosul, gli egiziani schierano brigate corazzate contro le tribù beduine nel Sinai, i francesi ricorrono ai Mirage contro i trafficanti del Sahel e gli israeliani hanno bersagliato Hamas e salafiti a Gaza con gli F-16 per quattro settimane ma i risultati ovunque, sul piano militare, sono assai scadenti.

La decomposizione degli Stati arabi moderni in Nord Africa e Medio Oriente trasforma le tribù jihadiste nel nemico più pericoloso dell’Occidente perché i nostri Stati li combattono con armi inadatte, sebbene assai potenti e altrettanto care. Gli unici esempi che la Storia moderna offre di campagne militari di successo contro le tribù arabe-musulmane in rivolta vengono da 2 altrettanti Imperi: Ottomano e Britannici, che in epoche diverse, riuscirono a domare ribellioni estese e brutali, impiegando ingenti forze militari per occupare i territori, disponendo così di strumenti - finanze e armi - per convincere le tribù a cooperare. In dimensioni assai più ridotte è stessa ricetta che il generale americano David Petraeus adoperò con successo nell’Anbar, fra il 2005 e il 2007, impiegando 20 mila marines e fiumi di dollari per convincere le tribù sunnite a voltare le spalle ad Abu Musab al Zarqawi, predecessore di Abu Bakr al-Baghdadi nella guida dei jihadisti iracheni. Ma oggi non vi sono, in America o in Europa, leader dotati di risorse economiche e volontà politiche tali da ripetere l’impresa di Petraeus, per non dire neanche dei precedenti ottomano o britannico. Da qui lo scenario di un orizzonte di medio periodo nel quale saranno le potenze regionali del Medio Oriente - Arabia Saudita, Iran, Israele, Egitto e Turchia - a confrontarsi con la sfida delle tribù, seguendo agende di interessi nazionali in forte contrasto. Destinate a moltiplicare numero ed entità dei conflitti sulle coste meridionali del Mar Mediterraneo. 

Da - http://lastampa.it/2014/08/22/cultura/opinioni/editoriali/la-guerra-impossibile-alle-trib-vdIt6b2p32Ij83FwvZNFgN/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI “L’esercito israeliano uccide quanto Isis”
Inserito da: Admin - Ottobre 22, 2014, 06:02:19 pm
“L’esercito israeliano uccide quanto Isis”
L’accusa della deputata arabo-israeliana
Haneen Zoabi, del partito Balad, in un’intervista tv dice: “Lo Stato Islamico uccide una persona alla volta usando i coltelli mentre l’esercito israeliano uccide dozzine di palestinesi spingendo dei bottoni”.
I laburisti chiedono “provvedimenti severi”

22/10/2014
Maurizio Molinari
Corrispondente da GERUSALEMME

“L’esercito israeliano uccide tanto quanto Isis”. A firmare la provocazione contro Tzahal è Haneen Zoabi, deputata arabo-israeliana del partito Balad, che in un’intervista tv spiega: “Lo Stato Islamico uccide una persona alla volta usando i coltelli mentre l’esercito israeliano uccide dozzine di palestinesi spingendo dei bottoni”. Da qui la conclusione che “i soldati israeliani sono terroristi proprio come tagliatori di teste” anche perchè “entrambi appartengono ad eserciti che non conoscono linee rosse”. 

Per Zoabi ciò significa anche difendere quegli arabi-israeliani, beduini o della Galilea, che hanno scelto di entrare nei ranghi del Califfato jihadista: “Sono una piccola minoranza ma non gli è stata lasciata altra opzione che questa”. La reazione di Israel Katz, ministro dei Trasporti del Likud, è stata di definirla “una traditrice che deve essere espulsa” mentre il titolare degli Esteri, Avigdor Lieberman, afferma: “E’ l’ennesima conferma che Balad è un partito simile a Hamas” composto da terroristi. Un gruppo di deputati laburisti e del partito laico “Atid” hanno chiesto al ministero della Giustizia di affrettarsi a “intervenire ed adottare provvedimenti severi” per punire la deputata arabo-israeliana.

Da - http://www.lastampa.it/2014/10/22/esteri/lesercito-israeliano-uccide-quanto-isis-laccusa-della-deputata-araboisraeliana-H82hdLMGAClRrQlFRUeFoM/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI “Con questa decisione il processo di pace è morto”
Inserito da: Admin - Gennaio 12, 2015, 10:05:39 pm
“Con questa decisione il processo di pace è morto”
L’analista Ha Levi: ma l’intesa è frutto di due debolezze
Yossi Klein Ha Levi del «Shalom Hartman Institute»

24/04/2014
Maurizio Molinari
dall’inviato a Ramallah

«Con questa decisione l’iniziativa di pace Usa è morta»: ad affermarlo è Yossi Klein Ha Levi, il politologo dell’«Hartman Institute» di Gerusalemme attento alle posizioni di Netanyahu.

Perché ritiene che il negoziato sia senza speranza? 
«Hamas persegue la distruzione di Israele attraverso la lotta armata dunque è incompatibile con il negoziato. Abu Mazen scegliendo Hamas rifiuta la trattativa promossa da Obama».

Come spiega questa scelta? 
«Sotto un certo punto di vista è anche comprensibile perché l’accordo fra Abu Mazen e Netanyahu non c’è. Ma è una brusca inversione di rotta dei palestinesi, che li allontana da un’America che li ha molto difesi durante il negoziato».

Abu Mazen tuttavia può affermare di essere riuscito a riunificare i palestinesi. Lo rafforzerà come leader? 
«Non lo credo, perché l’intesa fra Al Fatah e Hamas è frutto di reciproche debolezze non di una comune scelta strategica».

Quali sono tali debolezze? 
«Dopo il rovesciamento di Morsi in Egitto, Hamas ha perso il sostegno dei Fratelli Musulmani, il suo più importante alleato. È isolata. Abu Mazen aveva scommesso la leadership sul successo di un negoziato fallito, dunque anche lui è molto indebolito. È questa la genesi di un’intesa assai poco solida».

Eppure un governo di unità nazionale e l’impegno a far svolgere le elezioni sono risultati di rilievo... 
«A contare di più è l’assenza dell’intesa sulla sorte delle forze di Hamas. Non è chiaro se saranno sottomesse al comando di Abu Mazen. Senza definirlo, tutto il resto appare assai a rischio».

Le politiche di Netanyahu hanno spinto Abu Mazen verso Hamas? 

«I palestinesi accusano Israele di volersi appropriare della Spianata delle Moschee ma lo status di questo luogo santo resta quello definito fra Israele e Giordania. È un falso argomento». 

Da - http://www.lastampa.it/2014/04/24/esteri/con-questa-decisione-il-processo-di-pace-morto-AOoqDZjvDoypbDGMKp8ETN/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Boko Haram-Isis, il nuovo asse del terrore
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2015, 05:28:46 pm
Boko Haram-Isis, il nuovo asse del terrore
I terroristi dell’Africa sub sahariana giurano fedeltà al Califfato, che sta per perdere la città di Tikrit

08/03/2015
Maurizio Molinari
Inviato ad Amman

«Giuriamo fedeltà, nella prosperità come nelle difficoltà». Così si conclude il comunicato ufficiale di adesione allo Stato Islamico da parte di Boko Haram, la più violenta organizzazione jihadista nell’Africa sub sahariana che nelle ultime 48 ore ha ucciso almeno 60 cristiani nel Nord della Nigeria. 

LA PENETRAZIONE IDEOLOGICA 
Boko Haram aveva già espresso sostegno per il Califfato di Abu Bakr al Baghdadi ma ora l’adesione diventa formale, rendendo possibile un congiungimento con le cellule di Isis che operano nel Sahara, in Mali e in Libia. Per il Califfato si tratta di una notizia che conferma la capacità di penetrazione ideologica nel mondo musulmano in un momento in cui in Iraq è sotto il pesante attacco militare di governativi e milizie sciite. 

LA BATTAGLIA DI TIKRIT 
I comandi iracheni annunciano la “liberazione” della città di al-Baghdadi e per il Pentagono l’arretramento di Isis preannuncia la caduta anche di Tikrit, dove la battaglia infuria da una settimana. Tikrit è la città natale dei clan che durante l’era di Saddam sono stati al potere in Iraq. E, come roccaforte sunnita della resistenza baathista anti-americana, ha una storia di forte ostilità all’espansione iraniana e sciita nella regione. Due giorni fa le milizie sciite filo-iraniane avevano annunciato di aver conquistato anche al Dor, la località da cui proveniva Izzat ad Duri, ex braccio destro del defunto e deposto presidente Saddam Hussein. 

Da - http://www.lastampa.it/2015/03/08/esteri/boko-haramisis-il-nuovo-asse-del-terrore-4RHIBjGcPZT5Ixg7ITiyzN/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Tony, l'ultima vittima della scia di sangue che macchia la...
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2015, 10:27:45 pm
Tony, l'ultima vittima della scia di sangue che macchia la lotta per i diritti civili
Quando i cittadini di colore devono gridare come 50 anni fa che la loro vita conta, la commemorazione non è più ricordo, ma sconforto.
E tragedie come quella di Madison tradiscono qualcosa di più che il razzismo: l'accettazione della violenza

Di VITTORIO ZUCCONI
08 marzo 2015
   
"TENDIMI la mano, Signore, lasciami riposare, sono stanco, sono debole, sono logoro”: furono queste le ultime parole di Martin Luther King pochi minuti prima di essere assassinato a Memphis, recitando i versi del suo Gospel preferito, ma la mano che si tende è ancora quella che punta un revolver e uccide. Mezzo secolo dopo la domenica di sangue a Selma, e 47 anni dopo la morte del profeta dei diritti civili, quel canto suona sempre struggente e quella preghiera inascoltata. Muore un altro ragazzo di colore disarmato sotto i colpi della polizia nel Wisconsin, Tony Robinson, e il Presidente Obama, che era pronto a celebrare e a rivendicare il cammino fatto, deve dire che questi "non sono episodi isolati".

Non c'è riposo nella lunga strada rossosangue che solca la storia degli Stati Uniti fra bianchi e neri. Quando, nel marzo di questo 2015 come in quello del 1965, cortei di cittadini di colore devono gridare come ieri che "La vita dei neri conta" e "Non ci può essere pace senza giustizia", la commemorazione acquista un sapore crudele. Non è più un ricordo, certamente non è un'occasione per autocogratulazioni, ma diventa un momento di sconforto e di angoscia. Possibile, si chiedono sbigottite le migliaia che devono tornare sui ponti e nelle strade, che dai campi dei massacri della Guerra Civile, da Selma, da Memphis, lungo tutta la Via Crucis dalle piantagioni alla Casa Bianca ancora si debba essere uccisi per il colore della pelle?

L'ultima tragedia, quella di Madison, la città capitale del Wisconsin, non porta neppure i segni caratteristici, prevedibili, banali della animosità e del rancore sudista verso quei "fottuti negri" liberati a forza di armi dagli invasori yankee. Il Wisconsin è profondissimo Nord, gelida tundra di fronte al grande Lago Superiore, quanto di più lontano si possa trovare, negli Usa, dalle "Calde Notti", dagli sceriffi con i Ray-Ban a specchio, dai cappucci a punta e dalle croci ardenti del Ku Klux Klan. Per la guerra fratricida fra americani, il Wisconsin, la terra dei formaggi e dei mille laghi, diede 57 reggimenti all'esercito dell'Unione contro la Confederazione schiavista, sacrificò 13mila vite, molte nella battaglia decisiva di Gettysburg. È uno Stato storicamente progressista, spesso libertario, dove la questione razziale è sempre stata irrilevante, con una presenza di afroamericani appena al 6 per cento, la metà della media nazionale, al 13 per cento.

Eppure a Madison, dove la criminalità non sfiora neppure le statistiche delle grandi aree urbane, agenti di polizia chiamati a sedare un caso di violenza familiare vanno nel panico di fronte all'ennesimo giovane nero che si divincola, mena botte in testa e resiste all'arresto. Estraggono la pistola d'ordinanza, la 38 a naso tozzo, nel timore che lui possa impadronirsene, lo fanno secco. Come a Ferguson, sobborgo maledetto di St. Louis dove la polizia sarà smantellata per ordine dello Stato del Missouri. Come a Cleveland, borchia di quella "Cintura della Ruggine" cosparsa di fonderie e fabbriche fredde, colpendo un ragazzino di 12 anni. Come a Long Island, davanti a un obeso e asmatico contrabbandiere di sigarette sciolte. Come pochi giorni fa a Los Angeles, nella "Skid Row", nella terra di chi è scivolato nel nulla della società senza reti di protezione, per uccidere un barbone, un "clochard" come diciamo per sentirci meglio, colpevole soltanto di essere un vagabondo dimesso da un ospedale psichiatrico dopo dieci anni di internamento.

Una sequenza di sangue alla quale si devono aggiungere le migliaia di neri uccisi da altri neri, molto più numerosi di quelli caduti sotto il fuoco di polizie e sceriffi che si sentono, e che si muovono come se fossero al fronte, in una guerra civile, a volte armati e attrezzati, come si vide a Ferguson, come le truppe in Afghanistan o in Iraq. In un gigantesco crogiolo, per la parola usata da Arthur Miller, la fatica, e il rischio quotidiano, della "sottile linea blu", degli agenti di pubblica sicurezza somigliano a un pogrom domestico, appaiono, agli occhi di chi deve identificare negli obitori, figli, fratelli e mariti, come una nuova caccia alle streghe nere incappucciate nelle felpe al ritmo del rap.

Poco importa se le indagini e poi le inchieste, dai procuratori locali fino a quelli inviati da Obama e dal suo ministro della Giustizia Holder, afro anche lui, non trovino elementi di violazione formale della legge per incriminare gli agenti, come è avvenuto a Ferguson, o che raramente li rinviino a giudizio. Ogni ragazzo di colore abbattuto in un desolante replay di scene simili, lui a terra, l'esecutore sopra, è automaticamente una vittima innocente, anche se fresco di furti, rapine, spacci, gesti violenti. Da parte delle forze dell'ordine regna ormai una presunzione di colpevolezza senza prove verso quegli arrestati ribelli che è l'equivalente della presunzione di innocenza senza dubbi che muove i loro "fratelli e sorelle" di sangue.

In questo crogiolo che brucia senza fondere, si perde il senso profondo di quel messaggio che i dimostranti portarono sul ponte di Selma seguendo King, che lo stesso Malcolm X, alla fine della propria vita, cominciava ad accettare dopo la predicazione radicale della propria giovinezza. Si smarrisce la scoperta della efficacia rivoluzionaria della non violenza portata al punto di subire senza reagire, ormai travolta da notti di guerre dove si spara per non essere sparati, come fanno i poliziotti, dove ogni nero è un potenziale killer e ogni americano in blu è un potenziale boia.

Siamo andati anche oltre l'elementare, rudimentale razzismo della classica "Crisi in Bianco Nero", superata dalla pienezza dei diritti legali garantiti da Lyndon Johnson dopo Selma e incarnati nella multirazzialità dell'amministrazione federale, delle agenzie di governo, delle polizie locali. La giustizia ingiusta sui neri si manifesta perché i neri sono un bersaglio facile, ovvio, visibile, ancora debole dietro le maschere truci della cultura pop, ma tradisce qualche cosa di più del razzismo. Ed è l'accettazione della violenza come "nuova normalità".

© Riproduzione riservata 08 marzo 2015

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/03/08/news/tony_l_ultima_vittima_della_scia_di_sangue_che_macchia_la_lotta_per_i_diritti_civili-109028073/?ref=HRER3-1


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Yemen, pioggia di bombe saudite: i ribelli sciiti accettano...
Inserito da: Admin - Maggio 16, 2015, 04:20:23 pm
Yemen, pioggia di bombe saudite: i ribelli sciiti accettano la tregua
Da 3 giorni Riad attaccava le roccaforti. L’Onu denuncia: «Massacro di civili»

10/05/2015
Maurizio Molinari
Corrispondente da Gerusalemme

Incalzati da un diluvio di fuoco dal cielo, i ribelli houthi accettano l’offerta saudita di un cessate il fuoco di cinque giorni, a partire da martedì. In Yemen un diluvio di fuoco saudita si riversa da 72 ore sui ribelli houthi. «Accettiamo la tregua ma siamo pronti a riprendere gli scontri in caso di violazioni» afferma il colonnello Sharaf Luqman, portavoce dei ribelli di origine sciita che in febbraio hanno rovesciato il presidente Abdel Rabbo Mansour Hadi, che ha poi chiesto aiuto alla Lega Araba.

Il passo dei ribelli è arrivato dopo la terza notte consecutiva di pesanti bombardamenti dell’aviazione di Riad sulla regione confinante di Saada, roccaforte degli houthi. Almeno 100 attacchi aerei sono avvenuti solo nelle ultime 12 ore. Le milizie dell’ex presidente Ali Saleh, alleate dei ribelli, sono state le prime a far sapere di essere pronte ad accettare la proposta di tregua. 

L’Onu critica intanto Riad per i «troppi civili morti», facendo presente che le vittime sarebbero almeno 1400 dall’inizio delle operazioni lo scorso 26 marzo, ma i militari sauditi replicano: «Gli houthi si nascondono fra i civili, per questo ci sono vittime nella popolazione». I raid aerei hanno demolito anche la residenza dell’ex presidente Saleh. Riad offre la tregua a partire da martedì, alla vigilia dell’inizio del summit a Camp David fra il presidente Usa Barack Obama e i leader del “Consiglio di Cooperazione del Golfo” a cominciare da re Salman, nuovo sovrano del segno wahabita.

Da - http://www.lastampa.it/2015/05/10/esteri/pioggia-di-bombe-saudite-inferno-in-yemen-OGcviKma7tABmaUYwTeVKJ/pagina.html


Titolo: Maurizio MOLINARI Il carattere simbolo della Nazione
Inserito da: Arlecchino - Agosto 28, 2016, 11:20:28 am
Il carattere simbolo della Nazione

28/08/2016
Maurizio Molinari

In questa estate di disastri, terrorismo e migrazioni l’Italia è stata messa alla prova, dimostrando di avere abitanti con una tempra non comune. 

Compostezza e vigore con cui la gente dell’Appennino laziale-umbro-abruzzese-marchigiano ha reagito al sisma-killer descrivono un amore per la propria terra che si esprime nella determinazione a non cedere alla violenza della Natura, rimboccandosi da subito le maniche per ricostruire. Senza farsi piegare da un’ecatombe di oltre 290 morti. E’ una prova di carattere che arriva a poche settimane di distanza dagli attentati jihadisti di Dacca e Nizza nei quali 15 connazionali sono stati uccisi - nove dei quali sgozzati - dai miliziani dello Stato Islamico. Anche in questo caso la reazione è arrivata nel segno della concretezza: un numero consistente di jihadisti è stato identificato dalle forze dell’ordine ed espulso dallo Stivale; il governo ha autorizzato per la prima volta l’invio di truppe speciali in Libia per contribuire alla sconfitta di Isis; lungo le coste è iniziata una vasta operazione di sicurezza per prevenire l’arrivo di terroristi in fuga da Sirte. E da un podio dei Giochi di Rio l’atleta Elisa De Francisca ha sventolato il drappo europeo parlando a nome di tutti quei connazionali convinti che «i terroristi non possono vincere, l’Europa esiste ed è più unita dopo gli attacchi terroristici».

Ma non è tutto perché questa è anche l’estate in cui l’Italia si è trovata a ospitare decine di migliaia di migranti impossibilitati ad andare altrove - a seguito della chiusura de facto delle frontiere da parte dei Paesi confinanti - e ciò sta avvenendo grazie alla generosità di una miriade di Comuni convinti che si tratti di un’opportunità e non di un pericolo.

La tempra dei sopravvissuti di Amatrice, il coraggio dei militari che ci proteggono dai jihadisti, i valori di cittadini come De Francisca e la lungimiranza di chi accoglie i migranti descrivono le qualità di una nazione che dimostra di saper affrontare un’emergenza articolata in molteplici sfide.

Da qui le responsabilità che incombono su governo e Parlamento in merito ad ognuno di questi fronti aperti. La ricostruzione dei paesi travolti dal sisma nell’Italia Centrale non può essere affidata solo alla generosità dei singoli ma deve essere accompagnata da investimenti sulle nuove tecnologie esistenti per arrivare a proteggere dai terremoti ogni singolo edificio del Paese, a prescindere dalla sua data di costruzione. La difesa dai jihadisti deve includere ricerca, cattura e processo nei confronti di chiunque abbia partecipato all’omicidio di connazionali: braccare mandanti e complici degli attacchi terroristici significa accrescere la nostra capacità di deterrenza. L’ospitalità per i migranti da parte di sindaci e strutture locali ha bisogno di contare sulla moltiplicazione delle risorse pubbliche per integrarli ed anche di maggiore rigore nel pretendere dai nuovi arrivati il più rigido rispetto delle leggi nazionali.

E’ come se l’Italia si trovasse in mezzo al guado: assediata da sfide aggressive, vecchie e nuove, dispone del carattere per farvi fronte. Ciò che le serve sono gli strumenti per riuscirvi.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/08/28/cultura/opinioni/editoriali/il-carattere-simbolo-della-nazione-FJlOFv7Hwu39ON3gY7F7ZP/pagina.html



Titolo: MAURIZIO MOLINARI Cercando la nuova ricetta per le sfide del Mediterraneo
Inserito da: Arlecchino - Novembre 28, 2016, 08:45:15 pm

Cercando la nuova ricetta per le sfide del Mediterraneo
Pubblicato il 28/11/2016

Maurizio Molinari

Il convergere su Roma di alti rappresentanti di 55 Paesi per affrontare le sfide del Mediterraneo suggerisce la possibilità dell’Italia di trasformarsi in un laboratorio dei drammatici cambiamenti regionali in atto. Se Mosca e Washington, Baghdad e Teheran, Doha e Tunisi individuano nei «Dialoghi del Mediterraneo» che si aprono venerdì un’occasione di incontro ed interazione è perché nel mondo che accelera si percepisce la necessità di affrontare con pragmatismo e responsabilità un’agenda di eventi che sfida le previsioni degli analisti come l’immaginazione collettiva. 

L’orrenda ecatombe di civili in Siria e l’impellenza di debellare lo Stato Islamico del Califfo jihadista Abu Bakr al Baghdadi celano la necessità di scongiurare l’implosione di altri Stati arabo-musulmani così come l’incontenibile marea di migranti, che da Asia ed Africa si riversa sulle coste europee di Italia e Grecia, evidenzia l’urgenza di una innovativa ricetta di sviluppo che accomuni l’intera regione del Mediterraneo. Se la realpolitik diventa un’opzione per affrontare tale temibile orizzonte è perché l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald J. Trump, è una scossa che apre la possibilità ad un riassetto di equilibri e responsabilità coinvolgendo Russia, Unione Europea e partner mediterranei. Sebbene la nuova amministrazione Usa si insedierà solo il 20 gennaio, quanto uscirà dai «Dialoghi del Mediterraneo» può gettare le basi per una nuova stagione di realpolitik sul maggiore scenario di crisi ed opportunità del Pianeta.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/11/28/cultura/opinioni/editoriali/cercando-la-nuova-ricetta-per-le-sfide-del-mediterraneo-261tgSmINhAxleQZf7BwNP/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Addio all’anno rivoluzionario Che cosa è successo nel 2016
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 28, 2016, 11:40:19 pm
Addio all’anno rivoluzionario   
Che cosa è successo nel 2016

Pubblicato il 25/12/2016
Maurizio Molinari

Con il 2016 si chiude un anno rivoluzionario che ha visto la Storia accelerare al punto da mettere a dura prova la nostra capacità di comprenderla ma rendendo più avvincente la possibilità di descriverla. I cambiamenti sono stati a tutto campo. 

Sul fronte della politica l’Unione Europea per la prima volta ha perso una nazione - la Gran Bretagna - per volontà dichiarata dei suoi elettori, gli Stati Uniti hanno eletto presidente Donald J. Trump ovvero un tycoon estraneo ad ogni partito politico e quasi il 70 per cento degli italiani ha colto l’occasione di un referendum per esprimere in maniera schiacciante scontento nei confronti del governo innescando un cambio di premier: si tratta di tre frutti del crescente scontento del ceto medio nelle democrazie avanzate dovuto a impoverimento, disagi e carenza di protezione sociale. Sul fronte della sicurezza gli attacchi dei jihadisti nelle città dell’Occidente - da Nizza a Bruxelles fino a Orlando - testimoniano la violenza spietata di un movimento terroristico che punta a colpire noi per conquistare il potere nel mondo arabo-musulmano. Spingendo alla fuga verso l’Europa una massa di migranti in cerca di pace e prosperità. 

Il dramma di Aleppo, l’ecatombe in Siria e le fosse comuni disseminate dall’Iraq alla Libia descrivono l’immensità del dolore che i jihadisti riversano sul mondo dell’Islam nel tentativo di sottomettere oltre un miliardo di anime ad un dispotismo oscurantista. 

Sul fronte dei costumi collettivi il trionfo dei PokemonGo, la folla che cammina sull’acqua grazie alle invenzioni di Christo e la passione per il turismo spaziale suggeriscono come l’innovazione sta per raggiungere l’immaginazione. E bisogna guardare all’orizzonte della scienza per comprendere quanto lontano possiamo arrivare: l’agricoltura verticale capace di produrre raccolti indipendentemente dalle stagioni, la protezione legale in America degli investimenti privati sui corpi celesti, i piani per l’esplorazione cosmica oltre il Sistema Solare, l’uso di grandi telescopi per studiare il comportamento degli abitanti delle megalopoli e la ricostruzione hi-tech degli organi umani fuori del corpo per poter sconfiggere le malattie ancora incurabili suggeriscono come la creatività dell’uomo sta raggiungendo frontiere che sfidano la fantasia. Negli ultimi 12 mesi abbiamo raccontato fatti, storie, retroscena ed emozioni di questo anno rivoluzionario grazie ad una conversazione costante con i nostri lettori - sulle piattaforme digitali, sulla carta come in incontri faccia a faccia, nei quartieri e sul territorio - perché quando la Storia accelera l’interazione fra chi scrive e chi legge aumenta, diventa più intensa e consente di raccontare meglio ciò che ci avviene intorno. Quando si tratta di tragedie naturali come i terremoti che hanno flagellato l’Italia Centrale e le alluvioni che hanno colpito il Nord-Ovest ma anche quando la sfida è raccontare le imprese degli eroi olimpici o dei protagonisti del grande intrattenimento. 

Sono queste ragioni a spiegare perché il 2016 è stato tanto intenso quanto istantaneo: ha cambiato le nostre vite in maniera tale da spingerci a guardare in avanti con indubbia curiosità a cosa ci riserverà il 2017.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/25/cultura/opinioni/editoriali/addio-allanno-rivoluzionario-jcLkXjvoNC6ege3jTDEhjP/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI 2017, l’arrivo del tycoon
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 06, 2017, 03:01:49 pm
2017, l’arrivo del tycoon

Pubblicato il 31/12/2016  -  Ultima modifica il 31/12/2016 alle ore 07:18

Maurizio Molinari

La maggiore incognita del nuovo anno è anche la più evidente novità con cui inizia: Donald J. Trump nell’Ufficio Ovale della Casa Bianca. Il 20 gennaio, sui gradini di Capitol Hill a Washington, il 45° Presidente degli Stati Uniti giurerà sulla Costituzione e da quel momento l’imprevedibile magnate di New York diventerà l’uomo più potente del Pianeta. Le incognite si legano al fatto che si tratta di un leader anomalo, che non ha alle spalle un partito politico, un sistema di «think thank» o una parte dell’establishment di Washington. Esprime la forte volontà di cambiamento degli americani ma debutta da leader solitario.

L’identità di Trump è quella del tycoon della Grande Mela: un protagonista del business che programma, realizza e rinnova sulla base di singoli progetti a cui affida scommesse e fortune, battendosi a viso aperto per riuscire. Per comprendere come governano i tycoon bisogna tornare alla New York di inizio Novecento quando John Jacoob Astor, Cornelius Vanderbilt, Andrew Carnegie, John D. Rockefeller, Henry Ford e Joseph P. Kennedy guidarono la trasformazione della città appollaiata sulla Baia dell’Hudson in una metropoli applicando un metodo nitido: investimenti da capogiro, polso di ferro e scarsa predisposizione a prendere prigionieri fra gli avversari.

Se il presidente Theodore Roosevelt riuscì a modernizzare l’America fu perché furono i tycoon a suggerirgli, con il loro modo di operare, la formula che descrisse la prima proiezione del potere dell’America fuori dai propri confini: «Parlare dolcemente, tenendo nelle mani un grande bastone». A tratteggiare l’identità del tycoon sono le mosse con cui Trump sta mettendo assieme la propria amministrazione: i generali Michael Flynn, James Mattis e John Kelly per gli incarichi chiave nella sicurezza, il petroliere Rex Tillerson al Dipartimento di Stato ed i veterani di Goldman Sachs Steve Mnuchin e Gary Cohn alla guida dell’economia. Ovvero, su ogni fronte Trump si affida a uomini di polso espressione dei poteri che formano la spina dorsale della nazione: forze armate, energia e finanza. 

Se Barack H. Obama, quando si insediò nel 2009 alla Casa Bianca scelse di avere per governo un «team di rivali», ovvero politici in forte contrasto fra loro, ripetendo il modello di Abramo Lincoln, Trump dimostra di volere un team di leader forti, ognuno nel proprio settore, per riunire attorno ad un tavolo chi più assomiglia ai tycoon di New York ovvero con capacità, risorse ed esperienze per ricostruire l’America. Saranno i primi 12 mesi di governo a dirci se tale formula avrà successo nel sanare le ferite economiche della nazione, far accelerare la crescita Usa e trainare quella dell’intero Pianeta. 

Quanto avvenuto nell’ultima settimana suggerisce che Obama sta tentando in ogni modo di ostacolare l’insediamento di Trump: il provocatorio discorso di John Kerry contro Israele e l’espulsione di 35 diplomatici russi svelano l’intenzione di far deragliare sin dall’inizio il nuovo Presidente nei rapporti con due partner strategici come Gerusalemme e Mosca. Ponendo le premesse per lotte politiche al Congresso ed indagini giudiziarie capaci di immobilizzare l’amministrazione. Obama ha capito che ha a che fare con un tycoon e tenta di imbrigliarlo, per togliergli l’iniziativa. Sono le avvisaglie di una feroce sfida dentro la Beltway fra chi guiderà i democratici dopo la sconfitta di Hillary e i nuovi repubblicani di Trump. Quale che sarà l’esito del debutto del tycoon, avremo a che fare con le sue conseguenze.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/12/31/cultura/opinioni/editoriali/larrivo-del-tycoon-kMOCE3SHb4o1zDu6S4S72J/pagina.html


Titolo: MAURIZIO MOLINARI Diplomazia sul fronte del Sahara
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 07, 2017, 04:08:03 pm
Diplomazia sul fronte del Sahara

Pubblicato il 05/02/2017 -- Ultima modifica il 05/02/2017 alle ore 07:19

Maurizio Molinari

L’accordo Roma-Tripoli per arginare l’arrivo dei migranti attraverso il Mediterraneo nasce da una inedita stagione di diplomazia del deserto e deve ora superare l’esame dei precari equilibri di forza in Libia, ma può trasformarsi nel tassello di una vasta intesa regionale fra Washington e Mosca.

La diplomazia del deserto è frutto dalla scelta strategica dell’Italia di fermare i migranti non nelle acque del Mediterraneo - dove è logisticamente difficile riuscirci - ma lungo i confini meridionali della Libia con Niger e Ciad ovvero lì dove le carovane di trafficanti provenienti dall’Africa Sub-Sahariana iniziano la corsa verso le coste della Tripolitania per il balzo con i barconi verso l’Europa. In questo angolo di Maghreb che corrisponde al Fezzan i confini sono imprecisi e gli interlocutori sono molteplici: dal governo di Tripoli, dove in marzo si è insediato il premier Fayez al-Sarraj, alle tribù Tebu e Tuareg, padrone del territorio sin dai tempi del colonnello Muammar Gheddafi. 

Inviati del nostro governo hanno così dialogato non solo con i rappresentanti di al-Sarraj ma anche con gli sheik delle singole tribù, facendosi portatori di due messaggi-chiave: il comune interesse è sconfiggere i terroristi jihadisti, che si alimentano con i traffici illeciti, e la possibilità di far convergere investimenti per lo sviluppo delle aree più remote del Fezzan. I contatti con i leader delle tribù del Sahara sono avvenuti nelle cornici più diverse scrivendo pagine di diplomazia che riflettono la trasformazione dei rapporti internazionali. I risultati di tale approccio si sono visti prima a Sirte, dove le tribù libiche hanno perso oltre 500 combattenti per sconfiggere i jihadisti dello Stato Islamico, e poi a Roma con la firma fra i premier, Gentiloni e al-Sarraj, del memorandum sulla sicurezza che prevede estesi interventi bilaterali in Libia contro i trafficanti, inclusi aiuti allo sviluppo per «le regioni colpite dal fenomeno dell’immigrazione illegale». Ciò significa che l’Italia è artefice e garante di una piattaforma comune di interventi in Libia destinata a contrastare i trafficanti grazie ad una cooperazione fra Tripoli e tribù del deserto capace di consolidare la sovranità dell’esecutivo di al-Sarraj.

L’Unione Europea, al recente Consiglio di Malta, ha sostenuto tale approccio e ieri sera il presidente americano Donald Trump ha incoraggiato l’Italia a proseguire sulla strada intrapresa. Ma sarebbe un errore ignorare gli ostacoli esistenti. A cominciare dagli interessi conflittuali di altre fazioni e nazioni. Se la Turchia di Recep Tayyp Erdogan ha da poco riaperto l’ambasciata a Tripoli - affiancandosi all’Italia - e converge sulle mosse della nostra diplomazia del deserto altrettanto non si può dire per l’Egitto, alleato di ferro del generale Khalifa Haftar della Cirenaica rivale di al-Sarraj. Gli Emirati Arabi Uniti invece hanno un proprio candidato alla guida della Libia e non si fidano di altri. Ci sono poi i dubbi sulla Gran Bretagna, presente a Misurata con le truppe speciali. Per finire con Francia e Russia, entrambe sostenitrici di Haftar, che si trovano ora davanti ad un evidente bivio: avallare la definitiva spaccatura della Libia oppure favorire con Roma un vertice di riconciliazione fra il loro protetto e al-Sarraj.

E’ tale cornice che spiega l’attesa per le mosse dell’amministrazione Trump. Il capo del Pentagono, James Mattis, ha espresso di persona al ministro della Difesa Roberta Pinotti il sostegno per il ruolo italiano - a partire dall’uso della base di Sigonella per le operazioni aeree anti-Isis - e il Segretario di Stato, Rex Tillerson, manifesta ai suoi collaboratori un approccio simile, forse dovuto alla conoscenza personale del Maghreb maturata quando era alla guida di Exxon. Da qui l’ipotesi che il presidente Trump possa decidere di sfruttare i risultati della diplomazia italiana nel deserto, puntando a consolidarli identificando nel nostro Paese l’alleato di riferimento. Mirando magari ad includere la Libia nell’ambito di un possibile «accordo regionale con la Russia sulle aree di crisi nel mondo arabo» di cui si vocifera a Washington. 

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Titolo: Maurizio Molinari. Quando uno scontrino a Manhattan descrive il libero mercato d
Inserito da: Arlecchino - Marzo 01, 2017, 05:25:58 pm
Quando uno scontrino a Manhattan descrive il libero mercato dei taxi

Pubblicato il 25/02/2017 - Ultima modifica il 25/02/2017 alle ore 07:37
Maurizio Molinari

Caro Direttore, non so a quale diritto si richiamino i tassisti romani. Per quanto so, le licenze per i taxi vengono rilasciate dai Comuni. Pertanto è compito loro disciplinare il settore. Sappiamo pure che si è sviluppato un mercato privato delle licenze che ne ha portato i costi a cifre astronomiche, da 100 a 150 mila euro. Capisco quindi la rabbia espressa dai tassisti romani che vedono svanire il loro investimento. Ne consegue che avrebbero una qualche giustificazione nel pretendere un indennizzo dai Comuni di appartenenza per non aver fatto nulla per impedire questo mercato. Chiamare in causa il governo, e quindi la collettività, non penso abbia una qualche giustificazione logica.
Luigi Nale 
 …
Caro Nale, la rivolta dei taxi in più città italiane contro i tempi del decreto governativo celano l’opposizione all’arrivo dei concorrenti di Uber - o di servizi analoghi - e mi ha fatto venire alla mente un episodio vissuto a New York. Stavo scendendo da un taxi a Midtown Manhattan e quando mi è stata consegnata la ricevuta assieme al costo della corsa c’era scritto anche l’ammontare totale incassato da quella vettura sin dall’inizio dell’anno. La cifra era poco oltre 269.000 dollari e poiché era inizio settembre realizzai che quel singolo taxi avrebbe realisticamente finito l’anno tagliando il traguardo dei 400 mila dollari. Si tratta di un valore considerevole, frutto di corse ininterrotte delle vetture, con una rotazione di autisti quasi ogni 12 ore, basata su un costo medio della corsa di 8-10 dollari dentro Manhattan. Se i taxi sono 13.605, i tassisti titolari dei «Medallion» con diritto di guidarli sono ben 51.398. Tale sistema è rigidamente regolato dalle leggi della città di New York e consente ad altri servizi - come Uber e Via - di fare concorrenza offrendo alla clientela prezzi vantaggiosi fino ad arrivare a 5 dollari per ogni tipo di corsa. Ovvero, la somma fra rigide norme comunali sull’assegnazione delle licenze e liberalizzazione della concorrenza ha trasformato New York nel modello di una città dove possedere un taxi è un ottimo affare e al tempo stesso salire su un taxi costa talmente poco da competere con bus e metro. 

Al confronto di tale realtà ciò che colpisce in Italia è l’estrema rigidità di tutti i protagonisti della vicenda - autorità locali, governo e tassisti - apparentemente incapaci di vedere nelle vetture passeggeri un possibile volano di crescita, occupazione e nuove forme di consumo. Le riforme hanno successo quando creano nuovi diritti senza sacrificare i pre-esistenti: il valore delle licenze può essere conservato - e aumentato - consentendo ai taxi di viaggiare senza limiti di orario, creando così nuovi posti di lavoro e favorendo la competizione con chiunque, col risultato di scendere i prezzi. Ovvero, più lavoro e competizione favoriscono l’aumento dei consumi, portando in ultima istanza a maggiori profitti dei taxi. È un volano che potrebbe creare prosperità in molte città italiane. Ma per essere attivato ha bisogno del coraggio di scommettere - da parte di tutti - sul superamento di rigide normative e abitudini culturali ereditate da una stagione nella quale il taxi era un lusso e non un bene di largo consumo. 

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI A Washington Trump è in trincea
Inserito da: Arlecchino - Aprile 03, 2017, 05:46:13 pm
A Washington Trump è in trincea

Pubblicato il 02/04/2017 - Ultima modifica il 02/04/2017 alle ore 12:21

MAURIZIO MOLINARI

A oltre due mesi dall'insediamento di Donald Trump nello Studio Ovale, Washington si presenta come una città divisa, specchio dei bruschi cambiamenti in corso in America dall’Election Day. Nei dicasteri più importanti la maggioranza degli incarichi di medio ed alto livello è vacante perché il Presidente dopo aver nominato i ministri esita a completare gli organici, diffondendo una sensazione di incertezza e rappresentando un’idea di governo basata sul legame diretto con il popolo che lo ha eletto, restia agli intermediari. 

L’editoriale del direttore: a Washington Trump è in trincea

Il risultato è uno scontro quotidiano, lampante, fra il Presidente e ciò che resta dell’establishment della capitale: con funzionari spaesati da una logica che non comprendono, giudici che contestano la legittimità dei provvedimenti adottati – a cominciare dai migranti – e i media protagonisti di uno scontro aspro che evoca il precedente di Richard Nixon, facendo lievitare copie vendute e ricavi. 
 
Il tutto nel segno di un immanente «Russiagate» che vede l’Fbi indagare sullo staff del Presidente per verificare i sospetti di contatti illeciti con il Cremlino che, se confermati, porterebbero la democrazia americana a navigare in acque inesplorate. Senza contare che il Dipartimento di Stato è guidato da Rex Tillerson circondato da «vice ad interim» in quanto le nomine anche qui tardano e feluche di lungo corso come Victoria Nuland e Dan Freed hanno optato per il pensionamento anticipato. 
 
Ecco perché a prima vista Trump appare come un Presidente isolato, se non assediato, in una Casa Bianca che ha subito il primo smacco da parte del suo stesso partito - i repubblicani - sul terreno che più avrebbe dovuto unirli, l’azzeramento della riforma sanitaria di Barack H. Obama.
 
Ma visto dall’interno del 1600 di Pennsylvania Avenue lo scenario è assai diverso. I più stretti collaboratori di Trump addebitano la sconfitta sulla Sanità alle pressioni di Paul Ryan, presidente della Camera dei Rappresentanti, e di Reince Priebus, capo di gabinetto, per voler andare al voto in fretta con un testo troppo moderato che avrebbe in parte salvato l’Obamacare. Trump la vive dunque come una sconfitta frutto del cedimento all’establishment repubblicano, che lo ha convinto a smussare lo slancio anti-sistema, condannandolo all’umiliazione per mano dell’ala destra del partito. Da qui la volontà, d’ora in avanti, di essere più innovatori, rivoluzionari, a cominciare dai prossimi appuntamenti con il Congresso: taglio delle tasse, piano nazionale per le infrastrutture e soprattutto giudici alla Corte Suprema.
 
Lo scontro fra la volontà di Trump di imprimere cambiamenti radicali e la difficoltà nell’ottenerli è quotidiano. Si respira al Dipartimento di Stato come al dicastero del Commercio. Sul terreno della politica estera il Presidente ha esitato a confermare la presenza al summit della Nato, suggerendo l’invio di Pence al suo posto e generando onde di incertezza sui due lati dell’Atlantico fino a quando il consigliere per la sicurezza nazionale, H.R. McMaster, lo ha convinto dell’utilità di sedersi con gli alleati per scongiurare sconquassi e spingerli ad impegnarsi di più nelle spese militari «tornando all’equilibrio 50-50 della Guerra Fredda mentre ora noi ne sosteniamo il 70 per cento e loro appena il 30». Sono tali contrasti a spiegare perché Trump ricorre a Twitter per comunicare con il movimento che lo ha eletto e con il quale vuole restare in contatto scavalcando un sistema dell’informazione che considera visceralmente ostile.
 
Ma i veterani di Washington, conservatori e liberal, invitano alla prudenza quando i visitatori stranieri - europei in testa - si affrettano a dedurre che tutto ciò potrebbe portare ad una fine anticipata dell’amministrazione Trump, a causa di un eventuale impeachment o addirittura della decisione di dimettersi d’istinto, lasciando lo Studio Ovale al vice Pence. «Non bisogna sopravvalutare Trump ma neanche sottovalutare il governo che ha messo assieme» spiega Joseph Nye, politologo dell’ateneo di Harvard, osservando che «sebbene Trump, eletto con una minoranza del voto popolare, abbia scelto di non governare al centro come in queste situazioni in genere avviene» la realtà è «che si è circondato di ministri di indubbio valore come Mattis al Pentagono, Kelly alla Sicurezza Interna, Mnuchin al Tesoro, Ross al Commercio e Tillerson al Dipartimento di Stato» assicurando «guida ferma all’amministrazione» e «continuità con il passato». Insomma, Trump è un leader di rottura nel rapporto con gli elettori ma assai pragmatico nella composizione del governo. E Ben Bernanke, già presidente della Federal Reserve scelto da George W. Bush, aggiunge: «E’ bene tener presente che Trump è stato eletto a causa del disagio della classe media per l’impatto della globalizzazione» testimoniato da eventi drammatici come «il picco di mortalità fra i bianchi senza titolo di studio» negli stessi Stati industriali e rurali dove ha battuto Hillary Clinton. A ben vedere il rispetto per la genesi della rivolta della tribù bianca che ha eletto Trump si respira un po’ ovunque a Washington: fra i repubblicani che lavorano ad un taglio delle tasse «non solo a favore dei ricchi come fecero Reagan e George W. Bush», fra i conservatori come Robert Kagan che spiegano l’approccio di Trump alla politica estera con il fatto che «la Russia non è avversaria del ceto medio mentre la Cina sì» a causa della competizione commerciale, ed anche fra i democratici del dopo-Hillary impegnati alla ricerca di un nuovo leader capace di guidarli in fretta a riconquistare gli elettori bianchi perduti. A fotografare tale urgenza è Stan Greenberg, il pollster preferito dei Clinton, autore di una ricerca dai risultati spietati: la maggioranza degli elettori di Obama del 2008 e 2012 che nel novembre 2016 hanno scelto Trump «non sono affatto pentiti» a conferma che la rabbia del ceto medio impoverito è ancora lì fuori, nello sterminato entroterra dove i liberal hanno perduto il polso della nazione. Un veterano della campagna di Obama lo spiega così: «Siamo andati troppo avanti, c’è un’America per la quale i bagni nelle scuole per i bambini transgender sono davvero troppo». Ecco perché il senatore dell’Arkansas Tom Cotton, classe 1977, è una delle voci più ascoltate. Non è un grande oratore, sui contenuti bada al sodo e non ama gli aggettivi. E’ stato fra i pochi a sostenere Trump sin dalle primarie, spiega il pensiero del Presidente in maniera cristallina e ne interpreta fedelmente lo spirito di rottura: il suo credo è «la classe media», difende il muro con il Messico «necessario contro i clandestini», parla del protezionismo come «arma di riserva per farci rispettare nel commercio globale» e vede all’orizzonte «possibili accordi di libero scambio fra i Cinque Occhi». Il riferimento è ai «Five Eyes» - Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda e Stati Uniti - che già costituiscono l’anglosfera dell’intelligence e potrebbero trasformarsi nell’ossatura di un nuovo mercato planetario, sfruttando a proprio favore l’impatto della Brexit. A raffigurare i nuovi equilibri di potere nella Washington di Trump è il rispetto con cui John Negroponte, già direttore nazionale dell’intelligence con George W. ed ex protagonista della Guerra Fredda, si rivolge in pubblico proprio a Cotton con cui non ha nulla in comune. Una veterana del «Grand Old Party» al Senato lo spiega così: «Cotton ha ambizioni presidenziali» e rappresenta il nuovo potere. Sono i fedelissimi di Trump ad avere il vento a favore. Altri due volti di questo firmamento politico ancora tutto da costruire sono il segretario al Tesoro Steven Mnuchin, ex banchiere di Goldman Sachs, che ha la missione di portare la crescita del pil ad almeno il 3 per cento entro il 2020, e Nikki Haley, l’ambasciatrice Onu di origine indiana che viene dalla South Carolina ed incarna un modello di donna in politica opposto a Hillary: sfoggia femminilità, affronta con grinta i nemici dell’America, difende senza esitazione gli alleati - a cominciare da Israele - e crede che il suo ruolo al Palazzo di Vetro sia «parlare con chiarezza» e «never back down», mai indietreggiare. Sul Medio Oriente d’altra parte Trump sta accelerando: l’aumento della pressione militare contro Isis e i moniti a Teheran coincidono con l’arrivo nello Studio Ovale del presidente egiziano Al-Sisi dopo il principe saudita Mohammed bin Salman e prima del re giordano Abdullah segnando una netta inversione di rotta a favore del fronte sunnita a cui Obama aveva voltato le spalle. Ecco perché Washington si riflette nella descrizione di Paula Dobriansky, ex vice segretario di Stato con George W. Bush scartata da Donald, quando riassume: «Viviamo una stagione di grandi cambiamenti politici» perché dalle urne è uscita vincitrice una coalizione «che nessuno pensava esistesse». Con cui tutti, in un modo o nell’altro, dovranno fare i conti. 

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI La sfida dei clan agli Stati
Inserito da: Admin - Maggio 02, 2017, 11:59:13 am
La sfida dei clan agli Stati

Pubblicato il 23/04/2017 - Ultima modifica il 23/04/2017 alle ore 07:51

MAURIZIO MOLINARI

Le indagini della Procura di Catania su possibili legami fra i network criminali ed alcune organizzazioni non governative (ong) aggiungono un tassello di valore strategico allo scontro in atto fra clan e Stati sovrani per il controllo delle acque nel Mediterraneo.
 
Accertare l’eventualità che i clan adoperino un numero limitato di ong come una sorta di «Cavalli di Troia» per penetrare le rotte è nell’interesse del nostro Paese e rientra nella definizione di una nuova dottrina di sicurezza capace di fronteggiare i pericoli generati dalla decomposizione degli Stati arabo-musulmani. Il nemico da cui dobbiamo proteggerci sono i network criminali che gestiscono il traffico di esseri umani, alleandosi con clan, tribù e milizie di ogni genere. Si tratta di un avversario spietato, dotato di ingenti risorse finanziarie ed umane, capace di gestire complesse operazioni logistiche, abile nel far fruttare le rotte per i disperati attraverso il Sahara ed ora intento a costruirsi una sorta di ponte sul Mediterraneo per facilitare il loro arrivo sulle nostre coste, ovvero in Europa.
 
I finanziamenti ad alcune ong al centro delle indagini sarebbero finalizzati a far salvare - consapevolmente o meno - dalle loro unità i profughi in arrivo sui barconi salpati dalle coste libiche. Con questo espediente il crimine organizzato punta ad assicurarsi il controllo dell’ultimo miglio di percorso verso il territorio europeo. Se un trafficante, salpando dalla Libia con un barcone di migranti, telefona ad una ong facendo sapere in che direzione navigherà si può assicurare che vadano a prendere il suo carico in mezzo al mare. È un metodo, cinico e spregiudicato, per sfruttare a proprio vantaggio la legge del mare sull’obbligo umanitario al salvataggio di chi si trova in pericolo di vita. Tutto ciò svela l’esistenza di un disegno dei clan che ha tre aspetti convergenti. Primo: conferma la loro capacità di sfruttare a proprio favore le vulnerabilità dei sistemi democratici. Secondo: si propone di moltiplicare gli arrivi di migranti nel nostro Paese in tempi rapidi. Terzo: è destinato a generare flussi imponenti di proventi illeciti destinati ad alimentare ogni sorta di attività criminali, jihadismo incluso, che minacciano più nazioni. Davanti a tale scenario l’interesse italiano è tutelare i propri cittadini, accogliere i migranti e combattere i criminali privandoli anche dell’accesso alle ong. Ciò significa far coesistere i valori dell’accoglienza e della solidarietà, fondamento dell’integrazione dei rifugiati, con il più rigido rispetto della legge contro pirati e trafficanti. In ultima analisi il braccio di ferro in atto fra il nostro Paese e i trafficanti di uomini è un tassello del più ampio scontro sui nuovi equilibri di forze nel Mediterraneo, dove la contesa è fra Stati nazionali e gruppi criminali. Questi ultimi, che già controllano ampi spazi di territorio nel NordAfrica, puntano ad estendere il loro potere su alcune rotte marittime per avere dei corridoi di penetrazione verso l’Europa continentale «bucando» le difese nazionali. Se dovessero riuscire nell’intento verrebbe indebolita la sovranità dei Paesi Ue - a cominciare dall’Italia - negli spazi marittimi centrando un obiettivo che i pirati del Maghreb perseguono dalla fine del Settecento, quando scorribande, sequestri e violenze diventarono di entità tale da spingere, nel 1801, il presidente americano Thomas Jefferson ad allearsi con la Svezia ed il Regno delle Due Sicilie facendo sbarcare i Marines sulle spiagge di Tripoli per garantire la sicurezza delle rotte dai pirati libici, algerini e tunisini. Allora come oggi, la posta in gioco è la stabilità del Mediterraneo che i clan vogliono sconvolgere e gli Stati tentano di proteggere.

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI Sull'Occidente il ciclone Donald Trump
Inserito da: Arlecchino - Maggio 29, 2017, 09:09:40 pm

Sull'Occidente il ciclone Donald Trump

Pubblicato il 28/05/2017 - Ultima modifica il 28/05/2017 alle ore 07:49

Maurizio Molinari

Donald Trump si è abbattuto come un ciclone sul G7 dopo aver vestito i panni della diplomazia in Medio Oriente. Il suo primo viaggio all’estero da presidente ha messo in evidenza i diversi binari della nuova proiezione dell’America nel mondo: muscoli e grinta con i partner d’Occidente per correggere la globalizzazione; alleanze e investimenti per risolvere le crisi regionali in Medio Oriente e sconfiggere i terroristi islamici.

La differenza di approccio riflette la genesi del movimento elettorale che ha portato Trump alla Casa Bianca: per le famiglie del ceto medio bianco del Mid-West e degli Appalachi, flagellati dalle diseguaglianze, la priorità è solo e soprattutto un sistema economico «più giusto» ovvero radicalmente diverso dall’architettura degli accordi globali creata dalla fine della Guerra Fredda dai presidenti Clinton, Bush e Obama. 

Ed è con questo obiettivo in mente che Trump è arrivato in Europa, ottenendo i quattro risultati di cui si è vantato parlando ai militari americani nella base di Sigonella. Primo: nella tappa di Bruxelles ha strappato agli alleati Nato l’impegno a iniziare a versare gli oneri economici a lungo disattesi. Secondo: a Taormina ha fatto inserire nella dichiarazione finale il concetto di «fair trade» (correttezza negli scambi), basato sulla reciprocità su dazi e tariffe, scegliendo come avversario pubblico la Germania di Angela Merkel partner privilegiato della Cina di Xi Jinping. Terzo: al G7 ha fatto accettare un approccio ai migranti basato sul «diritto degli Stati di controllare i confini» ovvero affiancando diritto umanitario e costruzione di muri. Quarto: sulla difesa del clima dall’inquinamento si è spinto fino a rompere l’unanimità del summit, definendo tale scelta «un successo per gli americani» in vista della decisione sull’adesione o meno al Trattato di Parigi. 

Brusco nei modi, poco rispettoso del cerimoniale ed esplicito nell’esprimere dissensi marcati sui contenuti, Trump ha riversato sul tavolo del G7 la carica dirompente della rivolta della tribù bianca che lo ha eletto lo scorso novembre. Ecco perché il leader europeo politicamente più giovane, il francese Emmanuel Macron, si è rivelato il più attento alle istanze americane: anche lui è arrivato all’Eliseo spinto dalla protesta contro le diseguaglianze ed i partiti tradizionali, rendendosi conto della necessità di un cambio di approccio alla distribuzione della ricchezza globale. Ha ragione dunque il premier Paolo Gentiloni, mediatore infaticabile del G7 più difficile, quando parla di un summit specchio di un «mondo libero» dove l’«ebbrezza della globalizzazione è alle nostre spalle». La sfida che inizia ora è dunque il riassetto del sistema economico delle democrazie avanzate. I disaccordi di Taormina hanno il pregio di aver descritto senza paludamenti la cornice entro la quale si dovranno trovare nuovi accordi ed equilibri. E’ un confronto che inizia con Trump e Merkel alla guida degli opposti schieramenti, affiancati da Macron nel possibile ruolo di mediatore, ma ogni Paese dell’Occidente - appartenente o meno al G7 - può essere decisivo nella partita per la definizione di un nuovo modello economico-sociale capace di vincere le sfide del XXI secolo, riconsegnando prosperità e speranze al ceto medio indebolito.

Rispetto alla necessità di correggere la globalizzazione, l’agenda delle crisi in Medio Oriente è assai più tradizionale: include terroristi da sconfiggere, conflitti da mediare e paci da siglare. Da qui la scelta di Trump di affrontarla rispolverando l’approccio dell’establishment conservatore dei tempi di George Bush padre, basato su armi, energia e consolidamento delle alleanze per piegare gli avversari regionali più temibili del momento: gruppi jihadisti e Iran.

Protagonista di aperti dissensi nel G7 come di negoziati segreti in Medio Oriente, Trump torna adesso a Washington per affrontare la sfida per lui più insidiosa: l’accelerazione delle indagini sul Russiagate, da parte del Congresso come del super procuratore Robert Mueller, che puntano al cuore della sua amministrazione.

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI La sfida cyber della Russia all'Occidente
Inserito da: Arlecchino - Agosto 08, 2017, 06:34:18 pm
La sfida cyber della Russia all'Occidente

Pubblicato il 06/08/2017 - Ultima modifica il 06/08/2017 alle ore 06:54

Maurizio Molinari

«Bisogna portare lo scontro cyber alle porte della Russia»: l’ex comandante supremo delle forze Nato in Europa, Philip Breedlove, sceglie un linguaggio esplicito per chiedere agli alleati di rispondere alla sfida della guerra digitale di Mosca. E ciò avviene in coincidenza con una serie di briefing sulla sicurezza, da Bruxelles a Washington, che contribuiscono a comprendere meglio l’entità dei timori occidentali. 

Le analisi condotte dalle task force cyber presenti in più Paesi Nato convergono nell’attribuire ad «attori russi», più o meno espressione diretta del Cremlino, almeno nove diverse tipologie di attacchi cibernetici - dai «malaware» mascherati da antivirus al «doxing» per diffondere quanto catturato dagli hacker fino ai sofisticati «botnet» che si infiltrano nei sistemi come dei cavalli di Troia, per carpirne ogni informazione e trasmetterla al «master» - frutto di una dottrina strategica che Mosca ha elaborato con una sensibile accelerazione negli ultimi anni, destinando crescenti risorse alla sua realizzazione, con risultati sempre più visibili ed aggressivi.

Descrivere il contenuto di questi briefing occidentali significa addentrarsi nelle preoccupazioni Nato per quanto sta maturando in Russia, descritta come «una nazione con il Pil inferiore all’Italia», ma «molto determinata nel tentativo di portare scompiglio in Occidente» con una «pericolosità crescente per le nostre infrastrutture strategiche». Il momento di inizio della «dottrina russa di guerra ibrida» viene identificato nel 1996 con l’operazione «Moonlight Maze». 
L’iniziativa consente di svaligiare il computer Usa soprannominato «Baby Doe» in Colorado impossessandosi di una mole di documenti di Nasa e Pentagono sufficienti a formare una torre alta quanto l’obelisco del Washington Monument. 

Nel 2007 avviene l’assalto cibernetico all’Estonia, nel bel mezzo della crisi innescata sullo spostamento del monumento al Soldato Russo, che l’allora ministro della Difesa di Tallinn Jaak Aaviksoo descrive come «la prima volta in cui un botnet ha minacciato la sicurezza nazionale di un’intera nazione». Nel 2008 segue l’analogo attacco ai 54 siti del governo della Georgia, in coincidenza con l’intervento militare russo contro Tbilisi, e dal 2014 iniziano i blitz cyber sempre più a Ovest: Ucraina, Ungheria, Lussemburgo, Belgio fino alle sedi Nato e Osce. Cogliendo i successi più evidente nel 2015 quando in Ucraina, in coincidenza con la crisi innescata dall’occupazione della Crimea, vengono centrate tre centrali elettriche nel primo esempio di blitz contro infrastrutture civili, mentre negli Stati Uniti il Pentagono ammette la violazione di informazioni sensibili della Casa Bianca, inclusa l’agenda privata del presidente Barack Obama. 

E’ questo il momento in cui le difese cybernetiche alleate riescono ad identificare con ragionevole certezza le impronte digitali di due team di aggressori, quasi in competizione fra loro, denominati «Fancy Bear» e «Cozy Bear» ed attribuiti a diversi servizi di intelligence russi. Hanno missioni distinte: «Fancy Bear» si distingue nelle campagne in Georgia, Ucraina e anti-Nato mentre «Cozy Bear» si concentra su Casa Bianca, Dipartimento di Stato e Pentagono. Nella campagna presidenziale Usa del 2016 è «Fancy Bear» a penetrare i computer del partito democratico mettendo a segno formidabili colpi contro Hillary Clinton che sollevano il sospetto di aver voluto favorire il rivale Donald Trump. L’attacco alle email di Emmanuel Macron alla vigilia delle recenti elezioni francesi rafforza nella Nato la convinzione che la «guerra ibrida» di Mosca sia in pieno svolgimento. Tanto più che l’ex ministro della Difesa polacco Radoslaw Sikorski afferma, senza remore, che «è ben noto da quale specifico palazzo di San Pietroburgo operano gli hacker di Mosca». Un recente documento dell’intelligence danese parla di «potenziali rischi di cyberattacchi russi» e il ministro della Difesa di Copenhagen Claus Hjort Frederiksen considera «impianti elettrici e centri medici nazionali sotto costante minaccia» a seguito delle tensioni nel Mar Baltico con il Cremlino sui progetti di difesa missilistica integrata della Nato.

All’origine della «guerra ibrida» del Cremlino - altrimenti definita «Seconda Guerra Fredda» - vi è la dottrina di Yuri Andropov, l’ex Segretario generale del Pcus proveniente dal Kgb, sull’«infiltrazione in Occidente» per «minarlo dal di dentro». A declinarla nel XXI secolo sono gli scritti del generale Valery Gerasimov, capo dello stato maggiore russo, che nel 2013 firma l’articolo intitolato: «Il valore della scienza è nel fare previsioni» nel quale si legge: «Le guerre non vengono più dichiarate e, una volta iniziate, procedono in maniera insolita» fino al punto che «Stati perfettamente funzionanti possono in pochi mesi e perfino giorni, precipitare nel caos» e ciò dimostra che «lo spazio delle operazioni di informazione offre possibilità asimmetriche per combattere nemici potenziali». Gerasimov parla di «azioni indirette» e non adopera il termine «cyber» preferendogli «operazioni di informazione», imitato da strateghi connazionali come il colonnello della riserva Sergei Chenikov e il generale della riserva Sergei Bogdanov secondo i quali tale dottrina può essere adoperata per indebolire governi, organizzare proteste, ingannare gli avversari, influenzare l’opinione pubblica e ridurre la volontà di resistere dei nemici. Ovvero, per combattere tanto all’esterno che all’interno.

In tale quadro non c’è da sorprendersi se il Segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, dedica tempo e risorse a rafforzare le difese: sostiene che un eventuale attacco cibernetico contro uno dei 29 alleati deve far scattare l’Articolo 5, ovvero la sicurezza collettiva, e guida l’Alleanza ad investire 2,6 miliardi di dollari nella cyber-sicurezza, inclusi satelliti e droni di ultima generazione. La «guerra ibrida» continua.

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI Dalla Brexit alla Catalogna il domino delle patrie investe l’U
Inserito da: Arlecchino - Ottobre 09, 2017, 06:19:37 pm
Dalla Brexit alla Catalogna il domino delle patrie investe l’Ue

Pubblicato il 08/10/2017

MAURIZIO MOLINARI

In attesa di sapere se la Catalogna lascerà davvero la Spagna, il referendum indipendentista ha già prodotto un effetto concreto: la coalizione dei partiti anti-europeisti può vantare un nuovo successo dopo la Brexit, evidenziando l’indebolimento degli Stati nazionali e dunque dell’Unione europea.
 
Basta guardare a nomi e sigle che hanno espresso aperto sostegno al referendum sul distacco di Barcellona da Madrid per rendersi conto di quanto sta avvenendo in Europa. Nigel Farage, ex leader dell’Ukip britannico che vinse il referendum sulla Brexit nel giugno 2016, ha ritrovato lo smalto di allora definendo l’intervento della polizia spagnola contro i seggi catalani «un’espressione della brutalità poliziesca europea» e Geert Wilders, leader del Partito della libertà olandese, aggiunge: «L’Ue è un luogo dove si esercita violenza contro i popoli». Heinz-Christian Strache, capo del partito di estrema destra austriaco Fpo, accusa l’Europa di «tacere sulla repressione in Catalogna» adoperando un linguaggio simile a Beatrix von Storch, eurodeputata dei tedeschi di AfD, secondo la quale «chi ama la democrazia deve prendere sul serio l’opinione dei catalani». E ancora: nelle Fiandre, Bart Laermans, deputato di Vlaams Belang, contrappone «la violenza della Guardia Civil» al «diritto di libertà dei catalani».
 
Si tratta di leader e forze politiche che, nei rispettivi Paesi, rappresentano formazioni estreme, anti-sistema ma accomunate dal definire il referendum catalano una «prova di democrazia», identificando nell’Unione europea la fonte primaria della «violenza esercitata da Madrid». Ovvero, se nel giugno del 2016 la variopinta coalizione anti-Europa trovò, quasi per caso, nel distacco della Gran Bretagna dall’Ue la prima dimostrazione che Bruxelles poteva essere sconfitta nelle urne, adesso il referendum catalano gli offre su un piatto d’argento ulteriori munizioni: l’immagine di un’Europa insensibile, o ancor peggio complice, delle «violenze spagnole» contro la libera volontà dei propri cittadini.
 
Ecco perché il tentativo di delegittimazione dell’Unione europea ha compiuto un passo avanti lo scorso 1° ottobre, offrendo ai partiti ultranazionalisti la possibilità di cavalcare una narrativa dove «Europa» è l’opposto di «democrazia». Si tratta del danno politico più serio causato dal referendum catalano: quella che prima di Brexit era una disordinata galassia di forze marginali ed estremiste, ora assume le caratteristiche di uno schieramento capace di contestare gli stessi principi fondatori dell’Ue. Se ciò può avvenire è soprattutto a causa della debolezza degli Stati nazionali che compongono l’Ue, guidati da leadership troppo spesso incapaci di comprendere lo scontento dei propri cittadini - come David Cameron in Gran Bretagna - o talmente miopi da ricorrere ai manganelli contro i cittadini - nel caso di Mariano Rajoy in Spagna - dimostrando di aver perso il contatto con le popolazioni che avrebbero dovuto rappresentare e governare.
 
Cameron e Rajoy purtroppo non sono casi isolati: i Paesi Ue abbondano di leader politici dei partiti tradizionali troppo lenti nel cogliere le ragioni del disagio che alberga in popolazioni scosse da diseguaglianze economiche, migrazioni di massa, terrorismo e una più generale percezione di carenza di protezione collettiva.
 
Poiché l’Ue è un’Unione fra Stati sovrani, più tali miopi politiche nazionali continueranno più sarà l’Europa a indebolirsi, consentendo al nazionalismo di risorgere in maniera sorprendente nello stesso Continente dove nel Novecento ha causato due conflitti mondiali, con milioni di vittime e devastazioni colossali.
 
C’è dunque un campanello d’allarme che risuona in Europa. Prima con Brexit e poi con il referendum catalano ci ha avvertito sul rischio che l’indebolimento degli Stati nazionali porti alla decomposizione dell’Ue sulla spinta di un ritorno alle identità primordiali delle piccole patrie che per venti secoli si sono combattute dall’Atlantico agli Urali. Tanto più accelera questo domino di stampo tribale, tanto più i rimedi devono essere rapidi, energici ed efficaci: i leader degli Stati nazionali, riuniti a Bruxelles nell’Ue come ognuno nella propria capitale, hanno la drammatica urgenza di prendere l’iniziativa per garantire ai cittadini la protezione che chiedono. Altrimenti saranno i risorgenti nazionalismi a farlo al loro posto.
 
Se è vero che le democrazie non hanno mai perso una guerra lo è anche il fatto che le democrazie scompaiono a causa dei propri errori - l’Italia liberale prima del fascismo, la Germania di Weimar prima di Hitler, il Cile di Allende prima di Pinochet - e ciò assegna ai leader che le guidano la responsabilità di rinnovarne costantemente stabilità e vitalità interna. Ecco perché bisogna ascoltare il campanello d’allarme che risuona da Barcellona.
 
Dalla Brexit alla Catalogna il domino delle patrie investe l’Unione europea

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI Carlo Casalegno, l’eredità di Mazzini e l’etica del dovere...
Inserito da: Arlecchino - Novembre 20, 2017, 05:33:48 pm
Carlo Casalegno, l’eredità di Mazzini e l’etica del dovere verso il “Nostro Stato”
Pubblicato il 18/11/2017 Ultima modifica il 18/11/2017 alle ore 23:35

MAURIZIO MOLINARI
QUESTO CONTENUTO È CONFORME AL SCOPRI DI CHE SI TRATTA

Caro Direttore, 
sono passati 40 anni dall’assassinio del vicedirettore de «La Stampa» Carlo Casalegno da parte delle Brigate Rosse. Su questo giornale Lei ha scritto un articolo in cui evidenzia in modo chiaro ed esaustivo l’opera dello scrittore e giornalista. Mi piace sottolineare il riferimento che ha fatto accostando l’opera di Carlo Casalegno «a quell’idea di Dio e Popolo che Giuseppe Mazzini indicò come motore ideale dello Stato unitario». Vorrei aggiungere che l’impegno di Carlo Casalegno è stato segnato da un costante richiamo al «Pensiero e Azione» di Giuseppe Mazzini che pensò e volle e creò l’Italia per l’Emancipazione dei lavoratori e l’Educazione dei cittadini basata sull’etica del Dovere».
 Danilo Ballardini, Forlì
 
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Caro Ballardini, 
il richiamo ai valori comuni di Casalegno e Mazzini nasce proprio dall’etica del dovere ovvero dalla convinzione che essere cittadini comporta delle responsabilità nei confronti della collettività e dunque della nazione. Con «Pensiero e Azione» Mazzini mette il singolo al centro del Risorgimento perché solo con la partecipazione, personale e volontaria, l’Italia può ritrovare la propria unità. E se Casalegno aveva intitolato la sua rubrica «Il Nostro Stato» è perché voleva mettere l’accento proprio sul fatto che l’Italia era dei suoi cittadini, che dunque ne avevano la responsabilità.
Questo rapporto diretto, personale, fra singoli cittadini e lo Stato è l’anima, il segreto del successo, di ogni democrazia. Tanto più è forte, tanto più la consolida. Tale eredità, trasmessa dagli scritti di Mazzini ed interpretata da Casalegno, ha un valore cruciale, strategico, nell’attuale stagione di indebolimento dei sistemi democratici. Le nazioni dell’Occidente, in Europa come in Nord America, sono alle prese con una crescente sfiducia degli elettori nelle istituzioni rappresentative e la risposta non può essere liquidarle bensì rinsaldarle. La strada migliore per riuscirci è richiamarsi all’etica del dovere verso il «Nostro Stato».

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI Iran, la rivolta che può cambiare il Medio Oriente
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 02, 2018, 06:50:37 pm
Iran, la rivolta che può cambiare il Medio Oriente
Pubblicato il 02/01/2018

Maurizio Molinari

Il nuovo anno inizia nel segno della rivolta contro il carovita in Iran, che ha tre risvolti: testimonia la forza indomabile di un popolo antico, evidenzia l’entità dei cambiamenti in atto in Medio Oriente e mette a dura prova i leader dell’Occidente. 

Le proteste iniziate giovedì a Mashad nascono dallo scontento per l’aumento del costo della vita dovuto alla necessità della Repubblica islamica di finanziare gli interventi militari in Siria, Iraq, Libano e Yemen a sostegno di milizie sciite strumento del disegno di estendere l’egemonia iraniana sull’intero Medio Oriente. Si tratta del cuore stesso del regime, perché tale imponente apparato militare e di intelligence è incarnato dai Guardiani della Rivoluzione, che rispondono direttamente alla Guida Suprema della Rivoluzione, Ali Khamenei, e gestiscono anche gran parte delle risorse economiche nazionali senza troppo curarsi delle altre istituzioni della Repubblica islamica, a cominciare dal governo del presidente Hassan Rohani. Il fatto che gli iraniani, oggi in gran parte nati dopo la rivoluzione khomeinista del 1979, abbiano la forza, l’energia e il coraggio di contestare il nucleo duro del regime degli ayatollah, al suo apogeo militare ed oramai privo di una reale opposizione politica interna, lascia intendere quanto siano radicati, estesi, condivisi i principi di libertà personale e rispetto per i diritti individuali. A quasi 40 anni dall’avvento della teocrazia degli ayatollah negli iraniani resta intatta la voglia di libertà che li portò a rivoltarsi contro la dittatura dello Shah, e ciò suggerisce alle democrazie la necessità di mostrare a questo popolo antico tutto il rispetto che merita.

Per quanto concerne il Medio Oriente le proteste iraniane evidenziano la veridicità di uno dei principi-cardine della vita nel deserto: chi sembra forte non sempre lo è, e chi sembra debole non sempre lo è. L’Iran infatti è il più importante vincitore della guerra civile siriana, controlla una Mezzaluna di territori contigui da Teheran a Beirut - passando da Baghdad e Damasco - e tiene in scacco militare l’Arabia Saudita grazie ai ribelli houthi dello Yemen, che riescono perfino a minacciare Riad con i loro missili. L’arrivo delle avanguardie militari iraniane, affiancate dagli Hezbollah, alle pendici del Monte Hermon a meno di 10 km da Israele descrive l’indubbio successo tattico regionale dovuto al formidabile e spietato generale Qassem Suleimani, regista e guida di ogni operazione bellica all’estero, inclusa Hamas nella Striscia di Gaza. L’intento di Suleimani, che risponde solo a Khamenei, è di travolgere gli Stati sunniti e distruggere Israele per piegare agli sciiti l’intera regione da Hormuz a Suez come non è mai avvenuto dall’avvento nell’Islam. Ma tale e tanto sfoggio di potenza militare non ha alle spalle un’economia solida né tantomeno il sostegno popolare e così Teheran si trova obbligata a fare i conti con le proprie debolezze: un sistema produttivo non diversificato, la corruzione dilagante, l’accentramento della ricchezza nelle mani di pasdaran e ayatollah, la rabbia dei giovani che preferiscono Instagram alla sharia. La sovraesposizione bellica si è così trasformata in un boomerang, finendo per evidenziare le debolezze della Repubblica islamica. 

 Se tutto questo mette alla prova l’Occidente è perché quando nel giugno del 2009 l’Onda verde della protesta iraniana sfidò il regime, contestando i risultati della riconferma alla presidenza di Mahmud Ahmadinejad, gli Stati Uniti e l’Europa si voltarono dall’altra parte. Moltitudini di iraniani credettero che l’Occidente li avrebbe ascoltati e sostenuti. Ricevettero invece solo un tradimento, morale e politico, il cui primo - ma non solo - responsabile fu il presidente americano Barack H. Obama che, anziché sostenere le loro grida di libertà, scrisse in segreto a Khamenei, offrendogli un dialogo che sei anni dopo avrebbe portato all’accordo di Vienna sul programma nucleare iraniano corredato dalla fine delle sanzioni con imbarazzanti dettagli segreti che solo ora iniziano ad affiorare: dalla spedizione con un aereo militare di un miliardo di dollari in contanti ai pasdaran al blocco delle indagini dell’Fbi sui traffici illeciti degli Hezbollah fino all’avvertimento a Teheran che il generale Suleimani rischiava di essere eliminato da Israele. Scegliendo il silenzio davanti alla repressione dell’Onda verde Obama indirizzò l’America, e trascinò l’Europa, verso l’appeasement con lo stesso regime che oggi gli iraniani tornano a contestare a viso aperto, rischiando le proprie vite. Da qui l’importanza della scelta dell’amministrazione Trump di schierarsi subito dalla parte dei manifestanti e l’interrogativo se la Casa Bianca riuscirà a far seguire alle parole i fatti. È un bivio che riguarda anche l’Europa: dopo le prime timide dichiarazioni da Berlino e Bruxelles ha l’occasione per invertire drasticamente la rotta rispetto agli errori compiuti con gli ayatollah negli ultimi otto anni.

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI Il laboratorio del nostro scontento
Inserito da: Arlecchino - Marzo 06, 2018, 02:31:53 pm
Il laboratorio del nostro scontento

Pubblicato il 06/03/2018 - Ultima modifica il 06/03/2018 alle ore 09:33

MAURIZIO MOLINARI

La vittoria di Movimento Cinque Stelle e Lega nelle elezioni del 4 marzo è un evento spartiacque nella politica italiana, descrive l’entità dello scontento sociale che alberga nel nostro Paese. 

E apre la strada ad un governo tanto difficile da formare quanto capace di innescare conseguenze imprevedibili in Europa. 

L’evento spartiacque viene dal fatto che i governi della Repubblica italiana erano stati finora guidati o condizionati da Dc, Psi, Forza Italia e Pd ovvero forze appartenenti alle maggiori famiglie politiche europee - popolare e socialista - mentre adesso a vincere sono formazioni di origine differente, la cui legittimazione viene dal rappresentare istanze specifiche - su economia, sicurezza e identità locali - accompagnate da un forte sentimento di sfiducia nelle istituzioni rappresentative. Ovvero, ciò che accomuna i vincitori del 4 marzo non sono le radici nell’Europa del Dopoguerra bisognosa di pace ma nell’Europa della protesta contro gli effetti della globalizzazione iniziata dopo la Guerra Fredda. 

Lo scontento sociale in Italia si era già affacciato con l’esito delle elezioni amministrative del giugno 2016 - frutto della protesta delle periferie - e la bocciatura del referendum costituzionale del 4 dicembre - con una partecipazione record - ma i partiti tradizionali di matrice socialista e popolare hanno chiuso gli occhi davanti all’entità della protesta. Che aveva, ed ha, molteplici genesi: disoccupazione giovanile, delocalizzazione delle aziende, concorrenza sleale, perdita di speranze, corruzione, criminalità locale, presenza di migranti. Tale mosaico di scontento non è una peculiarità italiana: ha generato la Brexit in Gran Bretagna, la vittoria di Donald Trump negli Stati Uniti, ha consentito a Marine Le Pen di raccogliere 10 milioni di voti in Francia e ad «Alternativa per la Germania» di raggiungere il 13 per cento. È l’Occidente ad essere il palcoscenico della protesta del ceto medio che si considera impoverito dalle diseguaglianze, aggredito dagli stranieri e dimenticato dai partiti tradizionali.

Ciò che distingue l’Italia è l’essere il primo Paese dell’Europa continentale a vedere il successo delle forze anti-establishment e la peculiarità che Movimento Cinque Stelle e Lega ne rappresentano volti diversi, concorrenti, spesso conflittuali. Basta guardare dentro le file degli schieramenti vincitori del voto per accorgersi di tali differenze. Nella risposta alle diseguaglianze economiche i Cinque Stelle puntano sul reddito di cittadinanza ovvero l’intervento pubblico contro la disoccupazione mentre la Lega preferisce abbassare le tasse e rivedere la legge Fornero per promuovere il lavoro. E sui migranti i Cinque Stelle includono le posizioni più diverse mentre la Lega sposa le istanze più rigide. Ciò significa che gli elettori italiani hanno avuto a disposizione due consistenti opzioni diverse anti-globalizzazione, come non era finora avvenuto in alcun Paese occidentale. E le hanno premiate entrambe. Questo trasforma l’Italia in una nazione-laboratorio dell’affermazione di nuove forze frutto dello scontento sociale, estranee a linguaggi e dinamiche del secondo Novecento. Con tutti i pericoli di instabilità politica e degenerazione razzista, ma anche le opportunità di riforme sociali, che ne conseguono.

È questa la delicata cornice nella quale il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, è atteso dal compito istituzionale di accompagnare le forze politiche nella formazione del governo. Tentando di disinnescare l’apparente ingovernabilità con ogni carta a disposizione: a cominciare dalle diverse opzioni del Pd dopo le dimissioni del segretario Matteo Renzi.

Se l’Europa guarda, con timori e sospetti, verso Roma è perché ciò che accomuna Di Maio e Salvini è un approccio conflittuale all’Unione europea, alla Bce e all’euro. E la nuova legislatura include nel 2019 le elezioni europee, con la nomina della Commissione e delle più alte cariche dell’Ue, ovvero l’Italia avrà voce in capitolo e diritto di veto - al pari di ogni partner - su decisioni di valore strategico. Questo è il motivo per cui Steve Bannon, teorico del nazional-populismo americano, vede nell’«Italia dei populisti» un possibile cavallo di Troia dentro l’Unione europea.

Saranno le prossime settimane a dire quanto Di Maio e Salvini saranno capaci di rispondere alle forti attese degli italiani «dimenticati» che li hanno premiati nelle urne. Il terreno è la responsabilità che dimostreranno nella partita per la formazione del governo. E si tratta per entrambi di un primo, ma già decisivo, test di leadership. 

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI La diplomazia muscolare di Washington
Inserito da: Arlecchino - Marzo 30, 2018, 04:52:30 pm
La diplomazia muscolare di Washington

Pubblicato il 25/03/2018

Maurizio Molinari

Lo stile «transactional» di Trump nella guida della Casa Bianca comincia ad avere dei risultati concreti, suggerendo ad avversari e alleati la necessità di confrontarsi con un nuovo modo di declinare il ruolo degli Stati Uniti sulla scena internazionale. Per Michael Wolff, autore del best seller «Fire and Fury» frutto di lunghe settimane passate nella West Wing, «transactional» significa «agire sulla base della volontà di fare qualcosa per ottenere sempre qualcosa in cambio, in tempi stretti». 

Ovvero, la presidenza come strumento di continue e aspre «transazioni» con chiunque, sempre, nell’interesse degli Usa. È una versione della diplomazia come strumento della teoria «America First» che si è vista con chiarezza in azione nei confronti della Cina di Xi in occasione della scelta di imporre dazi per almeno 60 miliardi di dollari sull’importazione di circa mille prodotti al fine di proteggere le industrie nazionali più minacciate dalla concorrenza di Pechino. Per gli elettori degli Stati del Mid West e degli Appalachi, decisivi per la conquista della presidenza nel 2016, significa che Trump sta mantenendo l’impegno di ridurre drasticamente l’impatto del «made in China» sulla perdita dei posti di lavoro nel ceto medio vittima delle diseguaglianze economiche. 

Trump ha interesse ad esaltare questo braccio di ferro con Pechino in vista delle elezioni di Midterm per il rinnovo del Congresso di Washington in novembre nel tentativo di mobilitare la base del suo movimento per scongiurare un cambio di maggioranza a favore dei democratici. Ma c’è dell’altro, perché la coincidenza fra i dazi alla Cina e la decisione del despota nordcoreano Kim Jong-un di accettare un incontro con Trump e sospendere i test nucleari ha consolidato alla Casa Bianca la convinzione che solo esercitando forti - e pubbliche - pressioni su Pechino si riesce a spingere Xi ad ottenere reali concessioni da Pyongyang. Sono queste le «transazioni» che distinguono l’approccio di Trump alle relazioni internazionali ed hanno poco a che fare con l’arte della diplomazia tradizionale, perché il braccio di ferro non avviene nel riserbo, affidato ad incontri segreti e sherpa, ma si svolge sotto gli occhi di tutti - anche su Twitter - al fine di renderlo più efficace, dirompente. 

La dimensione pubblica - quasi televisiva - della diplomazia «transactional» serve a moltiplicare l’impatto politico della concessione ottenuta. Fa parte di quella che Trump definisce «the art of deal», l’arte dell’accordo. Si spiega così anche l’approccio con gli alleati europei - a cominciare dai tedeschi - sui dazi: hanno l’opportunità di evitarli ma devono spendere di più per la difese nella cornice della Nato, da oltre mezzo secolo troppo dipendente dai contribuenti americani. E si spiega con tale approccio «transactional» anche il rimpasto avvenuto nell’amministrazione con la sostituzione di Rex Tillerson con Mike Pompeo al Dipartimento di Stato e di H.R. McMaster con John Bolton come consigliere per la sicurezza nazionale: ad avanzare sono due avversari dichiarati dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015, perché Trump non lo vuole solo modificare bensì stracciare. 

 
L’eloquente messaggio ha tre destinatari: Teheran, per far capire agli ayatollah che la stagione delle concessioni di Barack Obama è davvero finita; Bruxelles, per spingere gli alleati europei ad un approccio diverso all’Iran entro il 12 maggio quando Trump annuncerà la decisione sull’intesa del 2015; Riad e Gerusalemme, per rassicurare gli alleati in Medio Oriente sulla volontà di proteggerli dalle crescenti minacce strategiche iraniane. Ciò che tiene assieme tante e tali mosse è la volontà del presidente Trump di ingaggiare palesi, determinati e mediatici bracci di ferro con gli avversari dell’America: la Cina sul fronte del libero mercato, la Nord Corea e l’Iran su quello della sicurezza. Nell’intento di ottenere da loro concessioni talmente evidenti da essere percepite dai singoli cittadini che lo hanno eletto. Resta da vedere come Trump declinerà tale approccio nei confronti della Russia, un aggressivo rivale nei confronti del quale ha tentato un approccio più dialogante ma, visti gli scarsi risultati dalla Siria al cyberspazio, sta ora ripensando la strategia. Assieme a Pompeo, Bolton e alla terza protagonista della sua politica di sicurezza: l’ambasciatrice all’Onu Nikki Haley.

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Titolo: MAURIZIO MOLINARI Le ambiguità del governo gialloverde
Inserito da: Arlecchino - Giugno 04, 2018, 12:13:08 pm
Le ambiguità del governo gialloverde

Pubblicato il 03/06/2018

MAURIZIO MOLINARI
Espressione di un massiccio mandato popolare ma titolare di un programma ambiguo, l’Italia gialloverde scuote l’Unione Europea dal di dentro, obbligandola a fare i conti con la rivolta populista.

Il governo Conte, frutto dell’intesa politica fra Cinque Stelle e Lega, ha una legittimità di stampo rivoluzionario: gli elettori sono oltre la metà dei votanti e si propongono di cambiare radicalmente l’establishment nazionale per sanare diseguaglianze economiche e illegalità di ogni genere con misure fiscali e di ordine pubblico senza precedenti. Come avviene nei momenti spartiacque di una nazione, tale ventata di novità è accompagnata da forti emozioni: piccoli imprenditori in fila dai commercialisti nelle città del Nord per sapere quando entrerà in vigore la «flat tax» e famiglie di disoccupati in fremente attesa nelle città del Sud del reddito di cittadinanza. La sovrapposizione fra entità delle aspettative e sostegno popolare dà bene l’idea dell’insoddisfazione dilagante nel ceto medio nei confronti dei partiti tradizionali, di colori diversi, che hanno governato nell’ultimo quarto di secolo.

Con una maggioranza più ribelle della «Grande Coalizione» di Angela Merkel in Germania ed una base popolare più ampia di Emmanuel Macron in Francia, la coalizione Lega-Cinque Stelle ha di fronte a sé anche una strada facilitata dalla debolezza degli avversari centristi che sembrano incapaci nel medio termine di coordinare un efficace contrasto parlamentare.

Ma tali vantaggi tattici dell’Italia gialloverde si scontrano con una debolezza strategica: l’assenza di una visione comune per il futuro del Paese e, dunque, anche per l’approccio all’Unione Europea di cui siamo stati fondatori nel 1957. 

Grillini e leghisti non solo sono portatori di ricette economiche contrastanti - reddito di cittadinanza e «flat tax» - e prive di coperture finanziarie - stimate da Moody’s in circa 100 miliardi di euro - ma sembrano anche privi di un’idea comune di approccio all’Europa. Al loro interno infatti vi sono posizioni che vanno dal referendum sull’uscita dall’euro, proposto da Beppe Grillo, all’ostilità viscerale per le istituzioni di Bruxelles, espressa da Matteo Salvini, fino alla volontà di riformarle rimanendovi protagonisti, come suggerisce Giovanni Tria. Lo stesso vale per i rapporti con gli Stati Uniti: alcuni gialloverdi li considerano alleati ma altri contestano le missioni comuni in Afghanistan e Iraq preferendo guardare a Mosca. Per non parlare di chi nutre dubbi sulla presenza delle forze americane sulla Penisola.

La sovrapposizione fra legittimità popolare e contraddizioni politiche è il Dna con cui nasce il primo governo della Repubblica guidato da forze anti-establishment. È il certificato di nascita di un populismo di governo senza precedenti nell’Europa Occidentale, il cui elemento positivo viene dal rafforzamento della rappresentanza - spina dorsale di ogni democrazia - mentre quello negativo sta nella confusione programmatica, che può innescare pericolosi conflitti interni ed esterni. È proprio il carattere ondivago delle posizioni gialloverdi - dalla Tav al debito fino ai legami con Mosca - che desta inquietudine nei partner Ue e alleati Nato così come sui mercati finanziari, creando attorno al nostro Paese un alone di incertezza che proietta instabilità.

Da qui la necessità che il premier Conte ed i suoi ministri facciano in fretta chiarezza sui loro propositi, a cominciare dell’economia, dall’Europa e dai legami con la Russia. Spetta a loro declinare una ricetta per consolidare la crescita, ancora troppo debole rispetto alle altre democrazie industriali, chiarire quale approccio avranno all’Ue, ovvero se vogliono migliorarla o farla implodere, e scegliere se mantenere o rompere il fronte occidentale con il Cremlino. Saranno queste tre risposte a consentire di conoscere meglio l’Italia gialloverde che dopo aver conquistato il governo battendosi contro qualcuno - l’establishment italiano ed europeo - ora deve spiegare a favore di cosa vuole impegnarsi. Perché ambiguità ed opacità indeboliscono l’Italia.

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