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« Risposta #60 inserito:: Novembre 05, 2011, 11:28:56 am » |
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5/11/2011 - LA CRISI Obama: "In Libia abbiamo vinto grazie all'alleato francese" MAURIZIO MOLINARI INVIATO A CANNES Omaggio pubblico agli eroi della campagna Nato in Libia e intese private contro la corsa al nucleare di Teheran: il summit di Cannes fra Nicolas Sarkozy e Barack Obama suggella e rilancia il patto strategico sui cambiamenti in Nordafrica e Medio Oriente. Davanti al Municipio di Cannes i due presidenti passano in rassegna marinai, soldati e piloti di entrambi i Paesi reduci dalla campagna della Nato contro il regime di Gheddafi, ascoltando fianco a fianco gli inni nazionali. Poi è Obama a descrivere l’importanza di quanto avvenuto in Libia: «Soldati dei nostri Paesi hanno servito spalla a spalla, dai piloti che hanno prevenuto il massacro a Bengasi ai marines che hanno fatto rispettare l’embargo marittimo, alcuni piloti americani hanno addirittura guidato dei jet francesi decollando da una portaerei francese nel Mediterraneo, non si può essere più alleati di così». Per la Nato si tratta di una vittoria che la rafforza perché «mai una campagna era stata iniziata così in fretta» e Obama dopo aver sottolineato che «ognuno dei 28 alleati ne è stato parte» riconosce a Sarkozy il merito di essere stato protagonista di una «leadership straordinaria» ed a testimoniarlo è il fatto che la Francia «ha contribuito a condurre il 90% delle missioni di combattimento». Rivelare l’entità dell’impegno militare di Parigi è il colpo di scena con il quale Obama riconosce a Sarkozy di essersi guadagnato sul campo il ruolo di partner privilegiato dell’America nel sostegno alle transizioni in atto in Nordafrica e Medio Oriente. A testimoniarlo sono le prolungate strette di mano con cui Obama e Sarkozy salutano i tre comandanti che hanno guidato la campagna aeronavale della Nato che ha consentito ai ribelli libici di rovesciare e uccidere Gheddafi: il generale Ralph Jodice e gli ammiragli Jim Stavridis e Sam Locklear. Il fatto che tutto ciò avvenga davanti al monumento che ricorda le vittime della Prima e Seconda Guerra Mondiale consente a Sarkozy di sottolineare le radici storiche del nuovo patto strategico: «Da quando il generale Lafayette affiancò Washington a Yorktown a quando tremila soldati americani diedero la vita per salvare quella della Francia» dall’occupazione nazista. «Ogni volta che un soldato americano cade ovunque nel mondo - aggiunge il capo dell’Eliseo - l’intera Francia è a fianco della sua famiglia perché non dimentica i suoi commilitoni che caddero per noi». La folla che sfida la pioggia battente ritma a più riprese «O-ba-ma» e «Ni-co-las» fino a sprigionare un boato di gioia quando l’ospite americano descrive la simbiosi fra nazioni: «Siamo società dove la diversità è considerata un elemento di forza e dove puoi diventare presidente anche se ti chiami Obama o Sarkozy perché ciò che ci accomuna è avere un unico credo» nei valori che per l’America sono «vita, libertà e perseguimento della felicità» e la Francia celebra come «liberté, egalité, fraternité». Quando i due presidenti si ritirano in privato dentro il Municipio trasformato in fortezza tale convergenza di valori e interessi si estende al tema che dalla prossima settimana sarà in cima all’agenda internazionale: il rapporto dell’Agenzia atomica dell’Onu (Aiea) sugli aspetti militari del programma nucleare dell’Iran. Fonti diplomatiche di entrambi i Paesi affermano che «l’intesa sui passi da adottare è forte» e l’intento è di aumentare l’isolamento internazionale della Repubblica Islamica con nuove sanzioni «senza precedenti» destinate a un triplice intento: bloccare la corsa di Teheran verso l’arma atomica, punire le Guardie rivoluzionarie che hanno ordito il complotto contro l’ambasciatore saudita a Washington e impedire agli ayatollah di continuare a sostenere il regime siriano assediato dalle proteste. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2245&ID_sezione=58
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« Risposta #61 inserito:: Novembre 09, 2011, 05:52:56 pm » |
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9/11/2011 Wall Street vuole il nome del successore MAURIZIO MOLINARI Vista da Wall Street, la crisi finanziaria italiana ha dimensioni tali che l’impegno a dimettersi da parte di Berlusconi non basta a scongiurarla: ciò che serve è il nome di un successore credibile nell’impegno di realizzare riforme impopolari. Il timore di un imminente default italiano è descritto dell’incertezza degli indici di Wall Street, dove gli investitori iniziano a liberarsi di titoli italiani, gli operatori prevedono che la soglia del 7 per cento di interesse potrebbe essere raggiunta entro domani e gli analisti ritengono che per rassicurare i mercati bisogna guardare oltre le dimissioni di Berlusconi perché ciò che ora conta è chi verrà dopo. La seconda giornata consecutiva delle contrattazioni sul floor del New York Stock Exchange dominata dall’attualità italiana si svolge con continue oscillazioni a cavallo dello zero a causa di notizie, analisi e indiscrezioni su quanto avviene a Roma, considerata il nuovo epicentro della crisi del debito europeo. Poco prima della campanella di inizio i futures salgono perché «si attendono le dimissioni di Berlusconi», come titolano Cnbc e Fox Business. In attesa del voto alla Camera, l’interesse sui titoli di Stato decennali tocca il 6,74 per cento, poi ridiscende tradendo l’auspicio della caduta di Berlusconi ma quando i mercati si rendono conto che la sconfitta in aula non comporta le dimissioni immediate la discesa si arresta e poi l’interesse torna a risalire a quota 6,71 per cento. Parallelo l’andamento dello spread con i titoli tedeschi: schizza a 489 prima del voto, scende a 486 e risale a 489. Il disappunto per un Berlusconi dimissionario ma ancora in sella spiega perché la banca di investimento Jeffries liquida i titoli di Stato europei, che sono in gran parte italiani, facendo affiorare una strategia non dichiarata da parte di numerosi investitori accomunati dalla convinzione che l’asta di domani potrebbe vedere i titoli italiani oltre la soglia del 7 per cento che ha implicato il default per Portogallo, Irlanda e Grecia. Un documento di analisi di Barclays Capital riassume la situazione: «Il costo del danaro per l’Italia è chiaramente insostenibile: più l’interesse sul debito sale, più deve prendere prestiti dai privati e a causa dell’elevato debito pubblico ciò rende difficile se non impossibile ridurre il debito senza ricorrere ad aiuti». «I mercati vogliono vedere una soluzione veloce del problema italiano, Berlusconi non può garantirla e così i settori azionario e obbligazionario premono affinché se ne vada in fretta» sottolinea Kenny Polcari, direttore di Iacp Equities. Se le dimissioni non bastano più è perché, come spiega Dan Greenhaus, stratega di Btig, «Berlusconi non ha più la maggioranza e di conseguenza ciò che conta per i mercati è chi viene al suo posto, un governo temporaneo o elezioni anticipate». Il Wall Street Journal dedica il live blog sulla crisi europea a descrivere le posizioni dei leader italiani, CnnMoney identifica come «personaggi decisivi» Giorgio Napolitano, Mario Monti, Gianni Letta, Giuliano Amato e Angelino Alfano ma, come commenta la tv Cnbc, «l’orientamento dei mercati non cambierà fino a quando l’Italia non sarà guidata da un governo stabile capace di fare le riforme». Per Nicholas Spiro, titolare della Spiro Sovereign Strategy, «i mercati vogliono per l’Italia un governo tecnico non eletto dal popolo capace di varare riforme impopolari per migliorare la crescita di una delle economie più stagnanti del mondo» appesantita da un debito di 1,9 trilioni di euro considerato «inaccettabile» da Bgc Partners. Se dunque l’Italia è nel limbo di un governo dimissionario ma ancora in carica, i mercati aspettano il nome del nuovo premier. Per questo «il rischio è lo scenario di giorni durante i quali in assenza del nome del successore ci sarà una vendita a pioggia di titoli» prevede Suki Mann, stratega del credito per Société Générale. «Ciò che importa in questo momento è chi sostituirà Berlusconi e cosa farà appena insediato», aggiunge James Dailey, manager del portafoglio di Team Asset Strategy Fund. Ecco perché la debole ripresa degli indici dopo l’arrivo della notizia sull’intenzione di Berlusconi di dimettersi non allontana le nubi. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9413
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« Risposta #62 inserito:: Novembre 24, 2011, 06:31:56 pm » |
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24/11/2011 "La Fed avvisava gli investitori" Bernanke nei guai: avrebbe anticipato le manovre monetarie ai big di Wall Street Maurizio MOLINARI CORRISPONDENTE DA NEW YORK I vertici della Federal Reserve avvertono in anticipo i grandi investitori di Wall Street sulle maggiori manovre monetarie in programma al fine di condizionare a loro favore i movimenti dei mercati. A svelare tale insolita e spericolata, strategia è il Wall Journal , ricostruendo come il 15 agosto il presidente della Federal Reserve, Ben Bernake, informò in privato l’economista Nancy Lazar dell’Operazione Twist che il 21 settembre seguente avrebbe portato all’acquisto di 400 miliardi di dollari di obbligazioni del Tesoro a 10 anni. Averlo saputo in anticipo consentì a Lazar di sugerire a numerosi importanti investitori di acquistare nelle cinque settimane seguenti titoli del Tesoro a 10 anni ai prezzi correnti, ottenendo poi grazie all’Operazione Twist profitti di considerevole portata. Bernanke ebbe analoghi colloqui con altri grandi investitori e il risultato fu di far diffondere le voci sull’Operazione Twist spingendoli ad acquistare le obbligazioni decennali in anticipo sulla mossa della Fed, aiutandola così di fatto a far salire i prezzi e diminuire gli interessi ovvero nell’operazione finanziaria tesa ad abbassare il costo del denaro. Si è trattato dunque di una fuga di notizie controllata che ha portato vantaggio ad entrambe le parti perché la Fed ha visto rafforzato l’impatto del suo intervento mentre gli investitori hanno registrato ampi profitti. Per Jan Hatzsius, capo economista di Goldman Sachs, simili incontri informali sono frequenti durante il corso dell’anno fra gli alti dirigenti della Federal Reserve ed un numero molto selezionato di economisti e grandi investitori: le norme della Fed li consentono in base ad un regolamento molto dettagliato, che si basa su un meccanismo di domande e risposte nel quale a porre i quesiti sono proprio gli uomini di Bernanke, o lui stesso. Tuttavia proprio tali domande, nella loro formulazione, consentono agli investitori di intuire spesso in quale direzione la Federal Reserve intende muoversi, riuscendone così ad anticipare le mosse. Fra i personaggi più coinvolti in tali «incontri informali» c’è William Dudley, presidente della Federal Reserve di New York e vicecapo del Federal Open Market Committee responsabile della guida della politica monetaria americana. «Ammetto che si può trarre l’impressione che alcuni grandi investitori hanno un accesso privilegiato a informazioni cruciali - afferma - ma tali incontri in realtà sono molto importanti in una fase come questa che vede i mercati sotto pressione» perché consente di orientare il movimento di grandi capitali in direzioni favorevoli all’economia. Non si tratterebbe dunque di una lampante violazione della libera competizione sui mercati finanziari bensì di uno strumento teso ad armonizzare in qualche maniera i movimenti dei capitali pubblici e privali. Il sottile confine che passa fra i due scenari è tale da descrivere con chiarezza l’entità delle preoccupazioni di Ben Bernanke per l’incombere di una nuova grave crisi finanziaria. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2263&ID_sezione=58
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« Risposta #63 inserito:: Novembre 27, 2011, 03:19:53 pm » |
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27/11/2011 - RETROSCENA E l'Fmi prepara una cura da 600 miliardi per l'Italia Trattative tra Lagarde e Roma: se la situazione peggiora un prestito per dare a Monti 18 mesi di tempo per le riforme CORRISPONDENTE DA NEW YORK Maurizio MOLINARI Se le ispezioni dell’Fmi in Italia concordate summit del G20 a Cannes non sono ancora iniziate è perché il direttore Christine Lagarde vuole dare tempo a sufficienza a Mario Monti per varare le riforme, riservandosi la possibilità di aiutarlo con un programma di aiuti finanziari che potrebbe arrivare a valere fino a 600 miliardi di euro. Il Fondo monetario internazionale ha già varato programmi di aiuti per i Paesi europei in difficoltà a causa delle crisi del debito: prima per l’Islanda, poi per il Portogallo, l’Irlanda e infine per la Grecia. L’esistenza di precedenti relativi a interventi coordinati assieme alle istituzioni europee aiuta a comprendere cosa potrebbe avvenire anche se ciò che distingue la debolezza italiana sono le dimensioni del debito, circa 2000 miliardi di euro ovvero più della somma di tutti gli altri Paesi europei che già ricevono aiuti. Da qui la possibilità del varo di un «programma Italia» che, secondo stime circolate negli ambienti dell’Fmi a Washington, potrebbe avere un valore compreso fra 400 e 600 miliardi di euro al fine di dare al governo Monti 12-18 mesi di tempo per varare le necessarie riforme, alleviandolo dalla necessità del rifinanziamento del debito. Garantendo tassi fra il 4 e 5 per cento, l’Fmi offrirebbe all’Italia condizioni assai migliori rispetto ai mercati, dove siamo già oltre il 7-8 per cento, e ciò metterebbe Roma al riparo dalle pressioni in crescendo sui titoli di Stato. L’entità della cifra è tuttavia tale da rendere difficile per il Fmi operare solo sulla base delle risorse attualmente disponibili. Dovrebbero essere incrementate e per farlo ci sono diverse possibilità: dall’emissioni di nuovi Diritti speciali di prelievo a interventi coordinati con la Banca centrale europea guidata da Mario Draghi. Tale ultimo scenario nasce dal fatto che le resistenze di Berlino ad un maggiore impegno della Bce a sostegno degli Stati in difficoltà - a cominciare dall’Italia - potrebbero venir meno se si trattasse di fondi destinati ad essere elargiti sotto la stretta sorveglianza dell’Fmi. Vi sarebbe stata almeno una conversazione telefonica fra Monti e Lagarde per dar seguito a quanto deciso a Cannes alla luce del fatto che la situazione finanziaria internazionale è maturata in maniera tale da far sembrare il summit del G20 già passato remoto. Se a inizio novembre l’allora premier Silvio Berlusconi fu in grado di respingere l’offerta di aiuti finanziari dell’Fmi limitandosi ad accettare di «invitare» ispettori destinati a vegliare sulle riforme e sui conti, sperando così di rassicurare i mercati, oramai la crisi del debito italiano ha assunto dimensioni tali che le missioni del Fondo monetario non appaiono più sufficienti ad arginare la pressione sui titoli di Stato, come le aste dell’ultima settimana hanno confermato. L’accelerazione della crisi del debito europeo, con le pressioni sui titoli di Francia-Belgio e l’asta di quelli tedeschi andata deserta, rafforza la convinzione negli ambienti dell’Fmi che sia l’Italia la nazione in questo momento da sostenere per evitare il crac dell’euro. La differenza con il summit di Cannes è però anche la maggiore credibilità di Monti rispetto al predecessore e questo spiega perché non è oggetto di pressioni politiche internazionali ma anzi Lagarde, come l’amministrazione di Washington, sia intenzionata a verificare la possibilità dell’Italia di procedere verso altri due scenari. Primo: la possibilità che dopo l’annuncio dei nuovi provvedimenti di riforme, i mercati reagiscano in maniera positiva, allentando la pressione sul debito. Secondo: l’eventualità che l’accordo con Nicolas Sarkozy e Angela Merkel evidenziato dal summit trilaterale di Strasburgo porti al successo di interventi di sostegno da parte dell’Ue e della Bce. Ecco perché l’opzione dell’Fmi di varare un programma ad hoc per l’Italia si profila al momento come una carta in più che Monti potrà avere a disposizione se la presentazione delle riforme non dovesse bastare ad allontanare le nubi della speculazione finanziaria dall’Italia. Se Largarde e Monti dovessero concordare il «programma Italia», sarebbe uno staff dell’Fmi a negoziarne i dettagli con Roma prima di sottoporlo all’approvazione del consiglio dell’Fmi indicando da un lato l’entità dei prestiti e dall’altro le condizioni relative. Poiché l’Italia ha una condizione di bilancio migliore di altri Paesi europei è ragionevole supporre che tali condizioni dell’Fmi potrebbero concentrarsi su due aspetti: la necessità di ridurre il debito e di aumentare la crescita. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2264
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« Risposta #64 inserito:: Dicembre 01, 2011, 05:28:45 pm » |
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1/12/2011 - IL CASO Marchionne: "Se il premier fallisce l'euro collassa" "Il Professore deve essere sostenuto da tutti i partiti, lo lascino lavorare" Maurizio MOLINARI INVIATO A WASHINGTON Se Mario Monti fallisce l’euro imploderà»: Sergio Marchionne sceglie la platea dei centri studi di Washington per spiegare all’America l’importanza della missione del nuovo premier, non solo per l’Italia ma per l’economia globale. La giornata di lavori sull’agenda transatlantica organizzata dal Consiglio Italia-Usa riunisce in un unico parterre economisti e politologi della Brookings Institution e del Peterson Institute, a cui l’amministratore delegato di Fiat-Chrysler descrive la situazione italiana in maniera nitida: «Il default dell’Italia è troppo pericoloso anche solo da contemplare, ho grande fiducia in Monti perché le pagine migliori della Storia italiana sono state scritte da persone con intelligenza e visione, capaci di battersi per il cambiamento anziché di difendere lo status quo e lui è fra queste». Di fronte a sé ha una missione difficile perché «l’Italia sta attraversando un terremoto finanziario che ne scuote le fondamenta, minacciando di trasformare il lavoro duro e i risparmi dei cittadini in macerie». Ma proprio per questo «Monti deve essere sostenuto», aggiunge Marchionne rivolgendosi al Parlamento: «I partiti devono appoggiarlo e farlo lavorare nel momento in cui compie la difficile scelta su quali devono essere le riforme da cui iniziare il risanamento». «Non voglio interferire nelle decisioni di Monti ma ritengo che abbia bisogno di tutto il sostegno possibile - sottolinea l’ad - perché in una nazione di 60 milioni di persone come l’Italia lui è l’unico che può salvare il Paese e scongiurare l’implosione dell’euro le cui conseguenze economiche avrebbero bisogno di mesi per essere contenute». Il legame fra il successo di Monti e la stabilità di Eurolandia è diretto ed è questo il motivo per cui Marchionne spiega al pubblico di analisti che «l’Unione Europea deve fare la sua parte e mettere in campo, da sola o con il Fmi, un sostanziale aumento di potenziale» del fondo di soccorso europeo varato dal consiglio Ue del 21 luglio. L’intervento finanziario europeo per Marchionne deve essere inquadrato in una strategia più ampia perché «abbiamo sempre saputo che le proibizioni e le sanzioni contenute nel Trattato di Maastricht e nel Patto di Stabilità contenevano garanzie insufficienti contro il rischio di gravi errori e deviazioni di alcune nazioni». Le riforme europee a cui Marchionne pensa coinvolgono anche la Banca centrale guidata da Mario Draghi perché «i poteri che le sono stati garantiti sono troppo limitati e il fatto di funzionare solo come controllo sull’inflazione è insufficiente, se non pericoloso». La crisi del debito sovrano dunque «ha portato l’Europa ad un critico crocevia, obbligando una serie di Stati a decidere se sono disposti a rinnovare l’impegno a sostegno di un futuro comune» ovvero «spezzare le reti che circondano il mercato del credito europeo, rinunciare a parte della sovranità nazionale per rafforzare l’Unione e concordare un metodo comune per gestire l’economia». Europeismo e sostegno alla missione di Monti sono i perni di un intervento che vede Marchionne illustrare i progressi di Fiat-Chrysler, spiegando che con 4,2 milioni di auto vendute è divenuto il quinto gruppo automobilistico mondiale grazie alla «scelta di non chiuderci davanti alle difficoltà ma di affrontarle». «Siamo una multinazionale e continueremo ad esserlo ha aggiunto - e se non dovesse esserci più l’Italia venderemo auto in Asia e America Latina». Il riferimento è alle difficoltà opposte dalla Fiom ai progetti di sviluppo come anche alla richiesta di Susanna Camusso, leader della Cgil, di unintervento del governo per intervenire sui piani di investimento Fiat. «Che cosa c’entra Monti in questo? Non ha abbastanza da fare?» ribatte Marchionne che parla di una «tirannia della minoranza» che blocca la cooperazione con i sindacati «a differenza di quanto avvenuto in America dove le trattative sono state lunghe ma poi abbiamo raggiunto un’intesa sulla base del comune interesse». da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2267
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« Risposta #65 inserito:: Gennaio 17, 2012, 05:41:41 pm » |
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17/1/2012 - Ron Paul non riesce ad evitare di essere una comparsa South Carolina, nel dibattito i conservatori dominano Romney Gingrich, Santorum e Perry più incisivi su politica estera ed economia Maurizio MOLINARI A cinque giorni dalle primarie in South Carolina, il dibattito di Myrte Beach consente ai candidati conservatori di riprendere smalto, mettere sulla difensiva il favorito Mitt Romney e relegare in un angolo il libertario Ron Paul. Sul palco ci sono gli ultimi cinque candidati repubblicani rimasti dopo il forfait di Jon Huntsman e i conduttori di Fox tv consentono a Newt Gingrich di andare subito all'attacco di Romney, reduce dalla duplice vittoria in Iowa e New Hampshire: "Ha aumentato le tasse quando era governatore in Massachusetts, non riuscirà mai ad essere efficace contro Obama". Romney sembra preso alla sprovvista dal duro affondo, si riprende con qualche difficoltà ma il pubblico lo sostiene, anche grazie alla presenza di Nikki Haley, la governatrice sua alleata. Gingrich, affiancato da Rick Santorum, bersaglia Romney su "Bain", la società finanziaria per cui ha lavorato per 25 anni lasciando sul lastrico migliaia di famiglie e lui si difende ribattendo che "la forza dell'economia americana è anche nella ristrutturazione delle aziende". L'ex governatore del Massachusetts spera di aver guadagnato qualche attimo di tregua ma non è così perché a farsi suibito sotto è Santorum, rimproverandogli di non voler far votare gli ex detenuti, e per uscire dall'assedio a Romney non resta che invocare i valori conservatori: "Sono contro l'aborto e contro le nozze gay". Continua però ad apparire sulla difesa, impegnato più a rispondere agli attacchi altrui che ad affermare idee proprie. Gli avversari conservatori invece spadroneggiano, dicendo di tutto fra ovazioni a ripetizione. Rick Perry descrive il suo Texas "assediato dal governo federale" e la South Carolina addirittura "in guerra con Washington", con un'espressione che evoca la Guerra di Secessione che iniziò proprio nei pressi di Charleston. Gingrich sceglie come obiettivo i soldi pubblici versati come sussidi ai disoccupati, suggerendo di darli "solo a chi ha la preparazione adatta per poter lavorare" e quando si arriva alla politica estera aggiunge che "i nemici dell'America devono essere eliminati". Il libertario Ron Paul tenta di farsi spazio parlando di "sperpero di fondi pubblici per finanziare l'ambasciata a Baghdad, più grande del Vaticano" e propone di "chiudere le basi all'estero per aprirne più in patria" ma sono posizioni di minoranza, che il pubblico contesta e penalizza, riservando applausi a scena aperta invece ai conservatori. Li riceve Perry quando assicura che "non abbandoneremo mai Israele" e sostien che "la Turchia islamica dovrebbe uscire dalla Nato" come vanno anche a Santorum allorché promette di "cacciare Bashar Assad" premunendosi solo di aggiungere "non con un'altra guerra". Ron Paul tenta di farsi spazio con ragionamenti contorti sulla necessità di "processare e non eliminare Bin Laden" ed è Gingrich a infilzarlo: "Parla di Bin Laden come se fosse un dissidente cinese". Il palco è saldamente nelle mani dei conservatori e Romney nel finale deve difendersi ancora dagli attacchi, promettendo di "rendere pubblica in primavera la mia dichiarazione fiscale" e rimproverando a Obama di "voler negoziare con i taleban mentre stanno uccidendo i nostri soldati". Gli accenti anti-europei di Romney e la promessa di Ron Paul di "un'aliquota fiscale pari a zero" vengono subissati dalla determinazione di Santorum nella difesa delle leggi pro-armi da fuoco e da quella di Perry di difendere i Marines fotografati mentre urinavano sui taleban morti: "Leon Panetta, capo del Pentagono, ha sbagliato a definire i loro atti ignobili perché ignobile è piuttosto impiccare soldati americani sotto i ponti o taglire la gola a Daniel Pearl". Quando il sipario cala sul dibattito Romney sta ancora difendendosi - sugli spot tv realizzati da terzi ma a lui favorevoli - sebbene la maggioranza degli spettatori siano convinti che i veri protagonisti, almeno per una notte, sono stati Gingrich e Santorum, con Perry solo un gradino sotto. "L'unica fortuna di Romney - commenta il politologo dell'Università della Virginia Larry Sabato - è che i suoi avversari restano lacerati". da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2321
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« Risposta #66 inserito:: Gennaio 17, 2012, 05:47:09 pm » |
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Primarie presidenziali USA 2012 14/01/2012 - Se parlare francese e cinese diventa elemento di debolezza Gingrich contro Romney: parla pure francese. E Huntsman viene rimproverato da Trump: "Non credo parlare mandarimo gli serva nelle primarie" Maurizio Molinari corrispondente da New York Parlare una lingua straniera può diventare un tallone d'Achille elettorale nelle primarie repubblicane. Ad accorgersene è stato Mitt Romney, il favorito nella corsa alla nomination, investito da uno spot tv del rivale Newt Gingrich intitolato "The French Connection". L'intento del messaggio è schiacciare Romney su un'identità politica democratica assai lontana dalla conservatrice South Carolina dove si voterà il 21 gennaio e per farlo lo spot dopo aver ricordato le posizione di Romney su aborto e pianificazione famigliare, sottolinea che "parla anche francese" proprio come John Kerry, che nel 2004 fu il candidato dei democratici alla presidenza. Da qui l'ultima immagine dello spot nella quale si vede Romney affermare "Bonjour. Je m'appelle Mitt Romney" sovrapponendosi proprio a frasi francesi pronunciate da John Kerry. Il tentativo di Gingrich è di farlo apparire in questa maniera non in sintonia con la base conservatrice anche se in realtà lo stesso ex presidente della Camera dei Rappresenati in passato ha vissuto in Francia - proprio come Romney - arrivando a volte a paragonarsi all'ex capo dell'Eliseo Charles De Gualle. Ma Romney non è l'unico a doversi difendere da tali attacchi linguistici perchè Jon Huntsman, ex ambasciatore a Pechino ed anch'egli in gara nelle primarie, viene contestato con altrettanta asprezza per il fatto di parlare il cinese come l'inglese. La conoscenza del mandarino per Hutsman riale al periodo in cui era missionario mormone a Taiwan e non ha esitato a sfoggiarla durante un recente dibattito televisivo così come in occasione di alcuni comizi in New Hampshire e South Carolina, dove a fargli le domande sono stati degli immigrati cinesi. Ma tutto ciò non gli ha portato che grattacapi. Donald Trump ha tuonato dagli schermi di Fox News: "Non credo che parlare mandarino serva nelle primarie repubblicane e francamente la sua posizione sulla Cina lo fa apparire come una pianta di Obama". L'ex deputato repubblicano Joe Scarborough, intervistato dalla Msnbc, è andato anche oltre: "In un dibattito repubblicano non si parla in cinese". Ma Huntsman non sembra curarsi troppo di tali attacchi, convinto che la migliore conoscenza della Cina sia una qualità che il nuovo presidente degli Stati Unitti dovrebbe possedere per meglio affrontare le sfide dell'economia globale. da - http://www3.lastampa.it/focus/primarie-presidenziali-usa-2012/articolo/lstp/438252/
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« Risposta #67 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:04:09 am » |
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24/1/2012 - RETROSCENA "L'Italia era un problema ora è una soluzione" Gli Usa preparano la visita del premier alla Casa Bianca MAURIZIO MOLINARI CORRISPONDENTE DA NEW YORK Sostegno alle riforme economiche in Italia, volontà di discutere assieme la nuova agenda della Nato e azione comune sulle rivolte arabe: sono questi i tre cardini dell’approccio dell’amministrazione Obama al governo Monti espressi nel comunicato con cui la Casa Bianca conferma che la visita del presidente del Consiglio a Washington avverrà il 9 febbraio. Dall’insediamento di Monti a Palazzo Chigi è la prima volta che la Casa Bianca esprime pubblicamente un giudizio di merito sull’operato del nuovo governo italiano. La scelta di farlo è frutto di una redazione in più fasi del linguaggio del comunicato attraverso scambi di opinioni fra Casa Bianca, Dipartimento di Stato e ambasciata americana a Roma che hanno portato a confezionare il seguente testo: «I due leader discuteranno i passi esaurienti che il governo italiano sta adottando per restaurare la fiducia dei mercati e rinvigorire la crescita attraverso riforme strutturali». La scelta di adoperare la definizione di «comprehensive» (esauriente) nasce dalla volontà, come spiegano fonti diplomatiche a Washington, di «dare un giudizio positivo sui passi che Monti ha intrapreso» nella convinzione che «stiamo andando nella direzione giusta come le sue recenti visite nelle capitali europee hanno dimostrato». Sulle scrivanie del desk italiano del Dipartimento di Stato si sono sovrapposte le analisi delle riforme di Monti con gli approfondimenti giunti da Londra, Parigi e Berlino sulle reazioni dei rispettivi governi, portando alla conclusione che «se prima con Silvio Berlusconi l’Italia era parte del problema dell’Eurozona adesso con Mario Monti è parte della soluzione». Da qui la decisione di inserire nel testo del comunicato diffuso da Jay Carney, portavoce della Casa Bianca, il fatto che durante i colloqui a Washigton si discuterà anche della «prospettiva di espandere i firewall finanziari dell’Europa» ovvero la protezione dell’Eurozona con strumenti comuni, con il fondo Efsf, come suggerito dal governo italiano. La presenza di tali e tanti dettagli sull’agenda dell’incontro con un capo di governo straniero non è comune nei comunicati della Casa Bianca, che invece tendono in questi casi ad essere succinti. «Averlo fatto significa sottolineare l’apprezzamento per quanto Monti sta facendo prima ancora del suo arrivo» aggiungono le fonti a Washington, sottolineando il desiderio dell’amministrazione Obama si sostenere il governo in vista dei difficili passi che si appresta a compiere, nel timore di resistenze in Parlamento. Nella seconda parte del testo si afferma che il presidente Barack Obama «si consulterà con il primo ministro Monti sui preparativi per i summit del 2012 del G8 e della Nato che si svolgeranno a Chicago» come anche sugli sviluppi «in Medio Oriente e Nord Africa». Se quest’ultima frase nasce dall’interesse di Washington per i risultati della visita del premier in Libia e per il possibile ruolo dell’Italia nella transizione siriana, in ragione dei forti legami economici fra Roma e Damasco, è il riferimento al summit di Chicago che pesa di più. E non solo perché nell’anno delle elezioni americane tiene a enfatizzare il ruolo internazionale della città da cui proviene. Per comprendere cosa c’è dietro il riferimento al summit della Nato bisogna ascoltare Philip Gordon, braccio destro del Segretario di Stato Hillary Clinton sull’Europa, quando spiega che durante i lavori in programma a maggio «l’Alleanza si concentrerà su tre priorità». Ecco di cosa si tratta. Primo: «Transizione in Afghanistan dalla missione di combattimento al sostegno alle truppe di Kabul con la definizione di un accordo sul ruolo della Nato dopo il 2014». Secondo: «Le capacità della Nato per realizzare un sistema di "Smart Defense" (Difesa intelligente) spendendo in maniera efficiente euro e dollari». Terzo: «Rafforzare le relazioni con gli altri partner nel mondo» la cui importanza è stata dimostrata dal recente intervento in Libia. Ciò significa che Obama è intenzionato a discutere con Monti il ruolo che l’Italia potrà avere in Afghanistan dopo la fine della missione di combattimento come anche nell’ottimizzazione delle risorse esistenti e nella creazione di nuove partnership, a cominciare dallo scacchiere del Medio Oriente e del Nord Africa. La tesi di William Taylor, che al Dipartimento di Stato coordina gli interventi a sostegno delle rivolte arabe, è che Usa e Ue dovrebbero riuscire a offrire alle nazioni che escono da dittature e dispotismi delle forme di partnership capaci di ancorarle nel lungo termine alla comunità delle democrazie. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2332
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« Risposta #68 inserito:: Gennaio 28, 2012, 12:02:22 am » |
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27/1/2012 - Nel dibattito di Jacksonville, in Florida Romney affonda i colpi su Gingrich Duello su immigrati e "Base Luna". Santorum guadagna spazio. Paul in ombra. I candidati corteggiano l'ispanico Marco Rubio: "Potrebbe essere vice" Maurizio MOLINARI Mitt Romney proiettato in avanti, Newt Gingrich sulla difensiva e Rick Santorum nel ruolo della sorpresa: il dibattito numero 19 fra i rimanenti quattro sfidanti per la nomination repubblicana riserva non poche novità a Jacksonville, in Florida, incluso uno fitto scambio di battute fra Romney e Gingrich sulla costruzione ipotetica di una base spaziale sulla Luna. A sostenere il progetto di "Base Luna" per ospitare oltre diecimila persone è Gingrich, citando Kennedy per presentarsi come leader visionario davanti al pubblico dello Stato che ospita Cape Canaveral, ma Romney lo mette nell'angolo con facilità, fino quasi a beffeggiarlo: "Se io avessi un manager che viene da me e propone di spendere qualche centinaio di miliardi per creare una colonia umana sulla Luna gli direi che è licenziato". Gingrich abbozza la replica che "servono delle priorità se si è presidenti degli Stati Uniti" ma appare sulla difensiva come era già avvenuto sul palco di Tampa, assai meno smagliante rispetto alla South Carolina forse perché travolto negli ultimi giorni da una raffica di attacchi da parte di opinionisti repubblicani secondo i quali è un camaleonte politico assai più simile a Bill Clinton che a Ronald Reagan. L'insolita debolezza di Gingrich si palesa subito, a inizio dibattito, quando accusa Romney di essere "il più anti-immigrati di noi quattro candidati" per essere travolto dalla reazione: "Non è affatto vero, mio padre nacque in Messico, i genitori di mia moglie in Galles, l'idea che io sia anti-immigrati è ripugnante, Gingrich deve smetterla di affibbiare etichette in base a ciò che gli viene in testa". Per tentare di uscire dall'angolo Gingrich tenta un affondo contro il condutte del dibattito, Wolf Blitzer di Cnn, come fatto a Charleston nei confronti di John King ma questa volta la mossa si risolve in un nulla di fatto e l'ex presidente della Camera si trova ancor più isolato. Consentendo a Romney di metterlo nell'angolo così: "Gingrich in South Carolina ha proposto una nuova autostrada, in New Hampshire un nuovo ospedale per veterani e qui un nuovo porto per ospitare grandi navi, l'idea di andare di Stato in Stato a promettere alla gente ciò che vogliono ascoltare, offrendo miliardi di dollari solo per farli contenti, è ciò che più mi inquieta". Gingrich è incapace di uscire dall'angolo ed anche quando svela che Romney ha investito in Fannie Mae e Freddie Mac - i giganti dei subprime - si rivela poco efficace, lasciando a Rick Santorum il ruolo di sorpresa sul palco. E' infatti l'ex senatore della Pennsylvania che strappa applausi a più riprese: quando chiede a Gingrich e Romney di "farla finita" con il teatrino del battibecco infinito e quando accusa Barack Obama di aver scelto Hugo Chavez e Fidel Castro come amici in America Latina. Il libertario Ron Paul ancora una volta in ombra, trova spazio solo quando dall'alto dei suoi 76 anni afferma che è pronto non solo a rendere pubblici i suoi dati medici ma anche a sfidare i rivali in una corsa in bicicletta su 25 miglia di distanza. A conti fatti Romney vince a Jacksonville come era avvenuto a Tampa, avvalorando l'ultimo sondaggio Rasmussen che gli assegna 7 punti più di Gingrich nelle primarie del 31 gennaio. C'è però anche un altro vincitore a Jacksonville: il senatore della Florida Marco Rubio perchè Romney, Gingrich e Santorum affermano all'unisono che sarebbero pronti ad assegnargli un ruolo di ministro "o anche qualcosa in più", ovvero la vicepresidenza. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2338
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« Risposta #69 inserito:: Febbraio 09, 2012, 03:59:56 pm » |
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Esteri 09/02/2012 - INTERVISTA AL PRESIDENTE USA "L'Italia fa passi impressionanti Roma cruciale per superare la crisi" Obama a La Stampa: "Monti sta modernizzando l’economia, avanti così su deficit e crescita". Oggi alla Casa Bianca il colloquio con il presidente del Consiglio MAURIZIO MOLINARI inviato a washington «L’Italia sta facendo passi impressionanti al fine di modernizzare la sua economia»: il presidente americano Barack Obama parla in esclusiva con «La Stampa» a poche ore dall’odierno incontro con il premier Mario Monti nello Studio Ovale, esprimendo forte sostegno per le misure di risanamento adottate dal governo e delineando l’agenda dei rapporti con l’Europa. Le parole di Obama testimoniano la convinzione che Monti sta guidando l’Italia verso i sacrifici necessari ed è un leader europeo con il quale discutere la comune ricetta di Usa-Ue per superare la crisi finanziaria. A testimoniarlo è che Monti nell’intervista alla tv «Pbs» aveva auspicato martedì maggiori firewall finanziari per l’Eurozona «perché mettendone di più grandi si riduce la possibilità di doverli usare» e Obama ora risponde «sono d’accordo», lasciando intendere la necessità di un maggior impegno della Germania. Il presidente descrive America e Europa alleate per battere la crisi finanziaria, aiutare le svolte democratiche in Medio Oriente e Nord Africa, costruire la difesa missilistica Nato e sostenere la transizione afghana. L’interesse americano per il risanamento italiano si deve alla convinzione che sia un passaggio cruciale per ridare stabilità all’Eurozona, scongiurando una nuova recessione negli Stati Uniti. A conferma dell’attenzione nei confronti dell’ospite, Pennsylvania Avenue lo accoglie con un cerimoniale che prevede dopo l’incontro nello Studio Ovale che Monti parli alla stampa al Pebble Beach, davanti all’entrata della West Wing. L’intervista che segue è un ulteriore gesto di attenzione nei confronti del nostro Paese perché finora Obama non ne aveva mai concesse in occasione della visita di un premier italiano a Washington. Partiamo dalla crisi dell’Eurozona. In più occasioni lei ha espresso la necessità di un’espansione dei «firewall finanziari per l’Europa». Ritiene che l’attuale cooperazione fra i governi di Germania, Francia e Italia vada nella direzione giusta? «La situazione finanziaria in Europa sarà al centro dell’agenda con il primo ministro Monti nell’Ufficio Ovale. Come ho detto durante la crisi, credo che l’Europa abbia la capacità economica e finanziaria per superare questa sfida. Durante gli ultimi due anni, l’Europa ha compiuto un certo numero di passi difficili e cruciali per affrontare la crisi che cresceva. In Italia e in Europa i cittadini stanno compiendo sacrifici dolorosi. Sotto la leadership del primo ministro Monti, l’Italia sta ora adottando passi impressionanti per modernizzare la sua economia, ridurre il proprio deficit attraverso una combinazione di misure su entrate e spese, riposizionando la nazione sul cammino verso la crescita. Più in generale i governi europei si sono uniti nel riformare l’architettura dell’Unione europea. Una delle lezioni che gli Stati Uniti hanno appreso durante la nostra recente crisi finanziaria è stata l’importanza di dimostrare ai nostri cittadini, alle nostre imprese, e ai mercati finanziari che eravamo impegnati a fare ciò che serviva per risolverla. Questo è il motivo perché abbiamo chiesto con urgenza ai nostri partner europei di erigere abbastanza firewall finanziari per evitare che la crisi si diffondesse. Sono d’accordo con quanto il primo ministro Monti ha detto: se l’Europa mette in atto firewall sufficientemente grandi si riduce la possibilità di doverli usare. Ciò che serve adesso è che tutti i governi europei dimostrino il loro impegno totale per il futuro dell’integrazione economica in Europa». Perché la soluzione della crisi del debito nell’Eurozona è così importante per gli Stati Uniti? «È così importante perché le nostre fortune economiche sono intrinsecamente legate e le relazioni con l’Europa sono una parte importante dei nostri sforzi per creare posti di lavoro e prosperità negli Stati Uniti. L’Unione europea è il singolo più grande partner economico dell’America, e il commercio e gli investimenti fra noi sostengono milioni di posti di lavoro su entrambi i lati dell’Atlantico. Le nostre banche e i nostri mercati finanziari sono profondamente connessi. Quando l’Europa va bene questo è positivo per i posti di lavoro e le aziende in America. Quando la crescita in Europa rallenta o i vostri mercati finanziari sono instabili, noi ne sentiamo le conseguenze, così come voi avete sentito l’impatto della crisi finanziaria americana quattro anni fa. Più semplicemente, gli Stati Uniti hanno un enorme interesse nella crescita dell’Europa e nel successo dell’area dell’euro. Questo è perché mi sono consultato strettamente e ripetutamente con le mie controparti europee durante la crisi. Ho condiviso con loro le lezioni rilevanti della nostra crisi recente mentre erano impegnate a fronteggiare questa sfida. Il mio incontro con il primo ministro Monti è l’ultimo passo di una cooperazione che continua. Ho intenzione di riaffermare al primo ministro il messaggio che ho portato ai miei partner europei in precedenza, nel caso più recente a Cannes durante il summit del G20: gli Stati Uniti continueranno a fare la loro parte per sostenere gli amici europei nel loro impegno per risolvere la crisi. Voglio solo aggiungere che si tratta di qualcosa che va oltre l’economia. Americani ed europei hanno un profondo legame di amicizia, forgiato in guerra e rafforzato in pace. Vogliamo davvero che l’Europa si riprenda e prosperi. Inoltre, l’Italia è uno dei nostri più importanti alleati e operiamo assieme all’Europa in qualsiasi cosa che facciamo nel mondo. Quando l’Europa è forte, prospera e sicura noi assieme siamo più efficaci, e il mondo è più prospero e pacifico». In maggio nella sua Chicago ospiterà il summit della Nato. Uno dei temi sarà la transizione in Afghanistan. Qual è il ruolo che l’Italia può avere nello scenario del dopo-guerra? «L’Italia ha avuto un ruolo cruciale e centrale nella Forza di assistenza e sicurezza internazionale della Nato in Afghanistan, uomini e donne delle vostre forze armate hanno servito con coraggio e altruismo, così come hanno fatto i vostri diplomatici e esperti di sviluppo. Assieme con i nostri partner afghani e la nostra coalizione di 50 nazioni, abbiamo compiuto progressi reali nel raggiungere gli obiettivi condivisi di sconfiggere Al Qaeda, spezzare l’avanzata dei taleban e addestrare le forze di sicurezza nazionali afghane affinché l’Afghanistan possa assumere la guida della sua sicurezza. Italiani coraggiosi hanno dato le loro vite per ottenere tali progressi e noi siamo grati del sostegno del popolo italiano a questa missione vitale. Apprezziamo l’impegno dell’Italia a rispettare gli accordi raggiunti al summit di Lisbona del 2010 per sostenere un processo di transizione guidato dagli afghani che è iniziato lo scorso anno, che consentirà loro di avere la responsabilità della sicurezza entro la fine del 2014. Aspetto di dare il benvenuto al primo ministro Monti e ai nostri colleghi capi di governo nella mia Chicago per il summit della Nato. Sarà un’opportunità per delineare la prossima fase della transizione in Afghanistan. La partnership strategica di lungo termine che l’Italia recentemente ha firmato con l’Afghanistan è un’affermazione forte e benvenuta sull’estensione dell’impegno dell’Italia oltre il 2014, proprio come gli Stati Uniti stanno costruendo una partnership duratura con il popolo afghano. Al tempo stesso, l’Italia e gli Stati Uniti si sono uniti al resto della comunità internazionale nell’offrire sostegno politico ad un processo di riconciliazione guidato dagli afghani che può contribuire a porre fine ad un’insurrezione che ha minacciato il popolo afghano e il resto del mondo per già troppo tempo. Il summit di Chicago sarà anche un’opportunità per noi di consultarsi su altri temi dell’agenda Nato. La Nato è il pilastro dell’Alleanza transatlantica e della sicurezza europea. Come l’intervento in Libia ha dimostrato, è anche un pilastro della sicurezza globale. Guardando in avanti, abbiamo bisogno di assicurarci che quando la prossima crisi inattesa si manifesterà, saremo pronti a rispondere. Questo è il motivo per cui lo “Strategic Concept” della Nato sta preparando l’alleanza per le missioni e sfide del futuro. Questo è il motivo del perché i ministri della Difesa Nato recentemente hanno deciso di aggiornare le nostre capacità condivise di intelligence, sorveglianza e controllo. E questo spiega perché quando ospiterò il summit in maggio, faremo passi importanti per assicurare che la Nato abbia le capacità necessarie per affrontare le sfide del nostro tempo, inclusi i progressi verso il sistema di difesa missilistica Nato». La Primavera araba si svolge non lontano dalle coste italiane. Come possono i nostri Paesi essere d’aiuto ai nuovi governi arabi affinché possano costruire società più stabili, libere e prospere? «È stato un anno straordinario. In Medio Oriente e nel Nord Africa i cittadini si sono sollevati in nome della loro dignità e dei diritti universali. Le transizioni democratiche in Tunisia, Egitto e Libia sono in corso. Assieme alla comunità internazionale abbiamo chiarito che l’orrenda violenza contro il popolo siriano deve finire e che Bashar Assad deve dimettersi così che una transizione democratica possa iniziare immediatamente. Ognuna di queste nazioni affronterà esami politici e economici procedendo sulla strada della democrazia. Gli Stati Uniti e l’Europa condividono un profondo interesse nel successo di queste transizioni. Saranno i popoli della regione a determinare il loro futuro ma gli Stati Uniti e l’Europa possono e devono sostenerli in questo momento cruciale. Per questo ho fatto del sostegno alle riforme politiche ed economiche nella regione una linea d’azione degli Stati Uniti. Continueremo a sostenere le riforme democratiche e puntiamo ad un pacchetto di riforme economiche e di partnership per aiutare queste nazioni ad affrontare le difficoltà economiche che sono anche alla base delle richieste di cambiamento. Il sostegno internazionale può avvenire sotto molte forme, inclusi commercio e investimenti, assistenza tecnica per le elezioni, potenziamento della società civile e il sostegno fondamentale ai diritti universali. Grazie alla sua ricca esperienza storica in transizioni politiche, l’Europa ha un ruolo particolare da giocare. L’Italia è stata una tenace promotrice dei diritti umani, della democrazia e dello Stato di diritto in queste nazioni e noi rendiamo omaggio a tali sforzi per sostenere transizioni che rispettino tali valori. L’Italia ha inoltre dato contributi importanti al successo dei nostri sforzi per salvare vite e sostenere il popolo libico nel porre fine al regime di Gheddafi. Come ho detto in maggio, ci saranno pericoli che accompagneranno momenti promettenti ma sono sicuro che, con il vostro sostegno, vi saranno giorni migliori e di maggiore speranza per i popoli del Medio Oriente e del Nord Africa, che meritano gli stessi diritti e opportunità degli altri popoli del mondo». Nel discorso che pronunciò a Berlino nel luglio del 2007 disse che “in questo nuovo secolo americani e europei dovranno fare entrambi di più, e non di meno”. Quali sono le nuove sfide comuni che abbiamo davanti? «Viviamo in un’era nella quale i destini delle nazioni e dei popoli sono connessi come mai avvenuto prima. In un mondo dove le crisi finanziarie possono diffondersi rapidamente dobbiamo coordinare le nostre risposte, come abbiamo fatto al G-20, per assicurarci che la crescita globale sia bilanciata e sostenuta. Le nuove minacce attraversano confini e oceani, dobbiamo smantellare i network terroristici e fermare la diffusione delle armi nucleari, affrontare i cambiamenti climatici, combattere la carestia e le malattie. E poiché i cittadini rischiano le loro vite nelle strade del Medio Oriente e del Nord Africa, il mondo intero è in gioco nelle aspirazioni di una generazione impegnata a determinare il proprio destino. Dobbiamo affrontare assieme queste minacce e sfide. Non c’è maniera migliore di farlo che attraverso la nostra alleanza con l’Europa, che è la più stretta e forte del mondo, radicata in storia e valori comuni. Come ho detto spesso, la relazione dell’America con i nostri alleati e partner europei è il pilastro del nostro impegno nel mondo. Lo abbiamo visto in Afghanistan, dove le nostre forze sono spalla a spalla. Lo abbiamo visto in Libia, dove la Nato ha fronteggiato la necessità assumendosi la responsabilità della protezione civile, dell’embargo di armi e della imposizione della no-fly zone. L’Italia e le sue forze armate hanno avuto un ruolo vitale in queste missioni. La nostra partnership transatlantica è l’alleanza di maggiore successo e il più grande catalizzatore di azione globale. Sono determinato a fare in modo che resti tale». Lei non ha antenati italiani ma, come ha detto intervenendo al gala della Fondazione italoamericana Niaf a Washington, è circondato da stretti consiglieri che ce l’hanno: da Leon Panetta a Janet Napolitano e il generale Raymond Odierno, dall’ex presidente della Camera Nancy Pelosi a Jim Messina e Alyssa Mastromonaco. Che cosa prova a lavorare circondato da tanti americani di origine italiana? «Come presidente è un onore lavorare con così tanti colleghi e componenti dello staff con le radici in Italia. Sono gli ultimi di un lungo elenco di italiani-americani che hanno dato contributi durevoli alla prosperità e sicurezza dell’America, e sono orgoglioso di averne così tanti nel mio team. Sono anche orgoglioso di lavorare assieme a così tanti leader politici italiani-americani di talento, come la mia amica Nancy Pelosi che ha fatto la Storia diventando la prima donna a presiedere la Camera dei Rappresentanti. L’Italia può essere fiera del fatto che i suoi figli e le sue figlie continuano a dare contributi inestimabili al successo degli Stati Uniti e alla nostra partnership bilaterale. Ovviamente devo aggiungere che due persone come Danilo Gallinari e Marco Belinelli garantiscono un certo buon nome anche alla Nba». da - http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/441775/
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« Risposta #70 inserito:: Marzo 25, 2012, 12:00:06 pm » |
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25/3/2012 L'offensiva finale dei Taleban MAURIZIO MOLINARI L’attacco a colpi di mortaio contro la postazione «Ice» dei nostri soldati in Gulistan suggerisce che gli ultimi due anni di missione combattente della Nato in Afghanistan saranno i più duri e pericolosi dall’inizio dell’intervento. Al summit di Lisbona l’Alleanza decise di terminare la missione militare entro fine 2014. Il Pentagono per settembre avrà ridotto di 33 mila unità le proprie truppe e ha annunciato che gran parte delle rimanenti 68 mila rientreranno per la metà del 2013. L’accelerazione del ripiegamento è tale che al summit di Chicago in maggio la Nato si avvia a concordare quale sarà la presenza in Afghanistan dopo il ritiro: compiti di addestramento, lotta al terrorismo, rafforzamento delle istituzioni locali, aiuti economici, assistenza civile. Sul terreno i taleban percepiscono tali sviluppi come le avvisaglie di un successo perché, a oltre undici anni dall’inizio dell’intervento Nato in risposta agli attacchi dell’11 settembre, il nemico sta ripiegando. Sebbene nell’ultimo anno, grazie all’invio dei rinforzi deciso dalla Casa Bianca, il numero dei taleban uccisi o catturati sia stato il più alto di sempre, il rapporto «State of the Taliban 2012» redatto dalla Nato sulla base degli interrogatori di 4 mila guerriglieri detenuti rivela che la maggioranza di loro ritiene che stiano vincendo il conflitto in una ripetizione di quanto avvenne ai danni dell’Armata Rossa sovietica nel 1989. Questo spiega perché continuano ad attaccare come e dove possono: i colpi di mortaio lanciati a ripetizione contro le postazioni fisse dei militari italiani, i soldati Usa uccisi da afghani in divisa, il giallo del fallito attentato al capo del Pentagono Leon Panetta, il costante tentativo di abbattere elicotteri e le infiltrazioni letali di agenti doppi descrivono il disordinato, ma costante, tentativo di infliggere più perdite possibile al nemico. È una tattica destinata a intensificarsi perché l’obiettivo dei gruppi taleban più aggressivi, come il network di Jalaluddin Haqqani, è dimostrare l’incapacità del governo di Kabul di garantire la sicurezza, delegittimandolo al punto da rovesciarlo. Poiché la Nato ha già deciso il ritiro, l’intento dei taleban è uccidere il massimo numero di suoi soldati per raggiungere l’obiettivo seguente: abbattere il presidente Hamid Karzai. Se l’Alleanza vuole sfruttare i prossimi due anni per rafforzare il governo di Kabul al punto da renderlo autosufficiente almeno nel mantenimento della sicurezza interna, quello dei taleban è l’opposto ovvero una lunga offensiva tesa a rivendicare la sovranità su aree da dove minacciare la capitale. Ad incoraggiare i taleban sono i segnali di debolezza che la Nato continua a mostrare. Washington e Kabul non riescono a firmare l’accordo di lungo termine che include la creazione di basi Usa permanenti. In Qatar i negoziati fra inviati Usa e taleban sono in balia delle condizioni imposte da questi ultimi, che dopo la strage di civili a Kandahar da parte di un sergente Usa hanno abbandonato i colloqui affermando di non avere idea quando vorranno riprenderli. E nei singoli Paesi dell’Alleanza, a cominciare dagli Stati Uniti, cresce la pressione dell’opinione pubblica per accelerare il ritiro. Si tratta di un domino politico-militare sul quale ha lanciato l’allarme il generale dei Marines John Allen, comandante delle truppe in Afghanistan, dichiarando in un’audizione al Congresso che Pentagono e Nato devono lasciare sul terreno una «grande quantità di forze» se vogliono assicurare la stabilità della transizione, che potrebbe andare oltre la scadenza del 2014. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9922
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« Risposta #71 inserito:: Maggio 20, 2012, 11:15:33 pm » |
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19/5/2012 Il patto del cheeseburger MAURIZIO MOLINARI Parlando di cheeseburgerepatatinefritte Barack Obama e François Hollande hanno siglato nello Studio Ovale l’intesa che si propone di salvare la Grecia, rilanciare la crescita nell’Eurozona e far decollare quella degli Stati Uniti in tempo utile per l’Election Day. Alla basedel patto franco-americano ci sono gli interessiconvergentideidueleader. Per essere rieletto in novembre Obama ha bisogno di recuperare in fretta posti di lavoro, di un clima economico positivo nell’area transatlantica e dunque non può permettersi lo scenario di lunghi mesi di incertezza sulla sorte di Atene e, di conseguenza, sulla tenuta dell’Eurozona. Hollande invece ha le elezioni alle spalle ma punta a imporsi in Europa come il leader di una coalizione di Paesi accomunati dalla necessità di creare posti di lavoro e far aumentare il tenore di vita degli abitanti per respingere l’assalto dei partiti estremisti, di destra come di sinistra, alimentati dallo scontento contro il rigore fiscale frutto degli accordi europei che molto devono alla Germania di Angela Merkel. Tanto la rielezione di Obama quanto la scommessa di Hollande ruotano attorno al fattore-tempo ovvero la necessità di approvare in fretta misure di stimolo all’economia che, senza accrescere i debiti, rilancino in avanti lo sviluppo di entrambi. Per questo il capo dell’Eliseo mette l’accento con Obama sul fatto che «le nostre economie dipendono l’una dall’altra» trasmettendo alla Casa Bianca la sensazione di aver trovato un interlocutore europeo più interessato della Merkel alla ripresa americana. Berlino ha avuto almeno due occasioni per dimostrare di essere tale: nel 2010 al vertice di Seul del G20, quando voltò le spalle a Washington scegliendo di schierarsi con Pechino a difesa dei rispettivi surplus commerciali, e nel giugno 2011 allorché la Casa Bianca accolse la cancelliera con un cerimoniale senza precedenti andando poi incontro alla delusione dovuta alle sue continue oscillazioni sull’impegno tedesco a favore dei firewall necessari per difendere la moneta unica europea. Negli ultimi due anni, Obama ha guardato con insistenza a Berlino nella convinzione che la più florida economia dell’Eurozona fosse l’interlocutore indispensabile per rilanciare la crescita del Pil dell’Occidente ma a fargli cambiare idea sono state le continue esitazioni di Angela Merkel, motivate spesso con ragioni di politica interna tedesca che hanno messo a dura prova la comprensione di alcuni dei veterani del desk Europa del Dipartimento di Stato. Da qui l’affannosa ricerca di un nuovo interlocutore europeo che le recenti elezioni francesi hanno recapitato alla Casa Bianca perché Hollande è portatore di un programma economico assai simile a quello redatto dal Team Obama. Resta da vedere se ora Hollande saprà rivelarsi un credibile partner di Obama nella battaglia pro-crescita nello spazio dei pochi mesi a disposizione prima delle elezioni americane. Ma Barack non ha altre alternative possibili: se l’italiano Mario Monti è il leader europeo con la credibilità necessaria per trattare con Berlino, è Hollande l’alleato strategico per accelerare sulla crescita. Da qui la scelta di andare all’offensiva sul tavolo del G8, puntando a siglare oggi a Camp David un patto capace di allontanare l’incubo che sia il crac dell’Eurozona a poter condizionare le elezioni americane. da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10123
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« Risposta #72 inserito:: Giugno 08, 2012, 10:38:45 am » |
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7/6/2012 - INTERVISTA "L'Italia si rassegni: è diventato un Paese ad alto rischio" L'esperto Usa: colpa dell'effetto catena MAURIZIO MOLINARI CORRISPONDENTE DA NEW YORK Il terremoto a largo di Ravenna è stato descritto in diretta dai sismografi del «Geological Hazard Team Office» del governo degli Stati Uniti a Golden, Colorado, dove in quel momento ad essere in servizio c’era il geologo Randy Baldwin, con il quale abbiamo parlato per ascoltare la sua interpretazione di quanto avvenuto. Siete rimasti sorpresi dal terzo sisma verificatosi in Italia nell’arco di pochi giorni? «Sorpresi sì, ma a ben vedere la dinamica di quanto avvenuto non è stata insolita». Iniziamo dalla sorpresa... «I due terremoti precedenti, con gli epicentri sulla terraferma, erano avvenuti lungo la faglia Ovest. Avevamo riscontrato scosse di assestamento nei giorni precedenti e sapevamo che ne sarebbero avvenute altre ma non ci aspettavamo un nuovo sisma in una zona diversa ovvero sulla faglia Est». Quale la motivazione? «La genesi di tale fenomeno si deve al fatto che il sisma del 20 maggio è stato di grado alto. Quando ciò avviene la conseguenza è una forte pressione sulle faglie adiacenti. È stato lo stress ricevuto dalla faglia Ovest a causa del primo sisma a determinare il terremoto a largo di Ravenna. Bisogna pensare a qualcosa di simile ad una forte scossa elettrica, che riesce a scuotere tutto quanto sta attorno alla zona investita dal primo impatto». È questo il motivo per cui afferma che non è stato un evento insolito? «È uno dei due motivi. L’altro ha a che vedere con i precedenti perché nel 2002, sempre a largo della città di Ravenna si ebbe un sisma di categoria 5 e dunque ciò significa che si tratta di un’area che deve essere considerata a rischio». Cosa è possibile dedurre dalla lettura comparata dei tre terremoti avvenuti? «Sappiamo da sempre che l’Italia è molto sismica. L’intero territorio nel bel mezzo del Mediterraneo si trova fra il plateau Euroasiatico e quello dell’Africa. La terraferma è disseminata di aree di origine vulcanica. Ci sono faglie diverse che interagiscono le une con le altre e quanto avvenuto conferma che i terremoti, se si manifestano con intensità molto forte, tendono a non rimanere isolati ma possono propagarsi anche alle faglie circostanti». È possibile preavvertire le popolazioni interessate per tentare di limitare i danni alle persone? «La prevenzione che stiamo mettendo in atto nei confronti degli tsunami non è possibile per i terremoti perché nel caso delle grandi onde anomale oceaniche si tratta di un pericolo potenziale che si manifesta dopo una forte scossa iniziale, che viene registrata. Nel caso dei terremoti è assai più complesso, per non dire impossibile». Ci può fare un esempio di tale difficoltà nella prevenzione? «Prendiamo proprio il terremoto in Giappone da cui si originò lo tsunami che ha innescato il disastro di Fukushima. Il primo sisma, di intensità 7.2, si verificò 48 prima di quello più violento che sarebbe stato di intensità 9. Ci accorgemmo di quanto era avvenuto ma nessuno di noi aveva strumenti scientifici per poter dire con assoluta sicurezza che dopo il primo sarebbe arrivato il secondo, e assai più devastante, sisma. Questa è l’imprevedibilità dei terremoti. Ed è la ragione del perché la prevenzione deve essere fatta in maniera differente, facendo attenzione a dove, come e cosa si costruisce, soprattutto nelle zone più a rischio». E in Italia questo significa l’intero Stivale... «È la geofisica a suggerirlo, non certo noi geologi che ci limitiamo a studiare con gli strumenti che la scienza ci fornisce». da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2519&ID_sezione=58
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« Risposta #73 inserito:: Luglio 13, 2012, 10:24:46 am » |
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13/7/2012 - RETROSCENA Monti, missione Usa a caccia di investitori Alla Allen Conference con il gotha della finanza mondiale MAURIZIO MOLINARI INVIATO A SUN VALLEY (IDAHO) Mike Bloomberg in pantaloncini blu, Rubert Murdoch protetto dall’ombrellino parasole, Mark Zuckerberg con lo zaino sulle spalle e Tim Cook in maniche di camicia: è il gotha della finanza e della tecnologia a varcare, in abiti casual e quasi sempre a fianco dei rispettivi partner, la soglia dell’esclusivo resort Sun Valley Inn. L’annuale Allen & Co. Conference quest’anno ha in cima all’agenda la politica estera e vede l’attenzione concentrarsi sul premier Mario Monti, ospitato in uno dei cottage con tanto di bandiera tricolore sul pennone. Basta parlare con qualcuno degli invitati illustri - tutti rigorosamente anonimi - per accorgersi che Monti è considerato parte integrante della Allen Conference per via di legami personali, costanti frequentazioni e un diffuso interesse per le riforme che sta realizzando in Italia. Nella doppia veste di componente dell’Allen club e protagonista della più stretta attualità finanziaria questa mattina Monti sarà intervistato dal noto conduttore tv Charlie Rose in un evento immaginato per discutere a tutto campo la crisi del debito dell’Eurozona. Dopo un debutto mercoledì con David Ignatius, columnist del Washington Post , sui venti di guerra Israele-Iran e l’intervento ieri del ceo della Coca-Cola Muhtar Kent sui travagli della Cina, oggi il protagonista è Monti, arrivato da Roma in completa solitudine, senza portavoce nè stretti collaboratori, a conferma che si tratta di un evento incentrato più sulla sua persona e le sue competenze che non sulla carica che riveste. E non si tratta di poca cosa, ricordando come questi stessi conclave dell’alta finanza tenessero a distanza il predecessore Silvio Berlusconi. Nella sala dove questa mattina Monti parlerà troverà i partecipanti italiani riuniti in un tavolo organizzato da John Elkann, presidente della Fiat, con in bella vista bandierine tricolori. Monti, però, a Sun Valley ha anche una missione e per capire di cosa si tratta bisogna ascoltare Maggie Bult, stretta collaboratrice di Bloomberg per conto del quale in febbraio organizzò a Manhattan l’incontro fra il premier e una platea di investitori di Wall Street. «Vi fu grande interesse per Monti ma gli investimenti che era venuto a chiedere non hanno risposto alle attese» osserva Bult, secondo la quale «oltre ai dispetti verbali di George Soros» il problema che si manifestò, e che continua a permanere, «è il timore che le riforme possano tornare in dubbio dopo le elezioni del 2013» quando l’attuale governo terminerà il mandato, aprendo una fase «percepita come di grande incertezza». A complicare il rapporto con gli investitori americani c’è il fatto che, se a inizio anno la priorità di Monti era convincerli a scommettere sull’Italia adesso occorre fermare la fuga dai nostri titoli di Stato. È stato il rapporto del Fmi sull’Italia a fotografare il fenomeno: se nel 2010 il 52% dei Bot era in mano a stranieri ora la quota è scesa al 36%, dimostrando una sfiducia da parte dei mercati che obbliga le banche italiane e la Bce a intervenire. Poiché nel parterre che ascolterà Monti vi sono alcuni dei maggiori investitori privati americani - basti pensare a Warren Buffett, l’oracolo di Omaha non è difficile immaginare che quanto dirà potrebbe avere conseguenze sull’entità della fiducia della grande finanza sulla possibilità dell’Italia di tornare a crescere, garantendo profitti nel medio periodo. A margine dei lavori, il conclave è stato oggetto di una protesta improvvisa di Occupy Wall Street: alcuni militanti si sono stesi in terra davanti all’entrata fingendo di essere stati uccisi dai «crimini dei colletti bianchi». da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2560
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« Risposta #74 inserito:: Luglio 17, 2012, 05:28:10 pm » |
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16/7/2012 Il rischio politico sulla finanza MAURIZIO MOLINARI Terminata la «Allen & Co. Conference» a Sun Valley è nel piccolo terminal di Hailey, Idaho, che Thomas Friedman aspetta l’aereo per tornare a Washington. Il consistente ritardo, dovuto all’insolito traffico di aerei privati dei vip, gli offre l’occasione per esprimere forte timore sull’Italia «in bilico fra Monti e Berlusconi». «Avete un buon premier ma è alla guida di una nazione che resta molto instabile» osserva il columist del «New York Times» cronista dell’era della globalizzazione. Alla base della preoccupazione di Friedman c’è lo stesso fattore «political risk» che ha portato Moody’s ad abbassare il rating dei titoli di Stato italiani, che è risuonato nella sala del «Sun Valley Inn» quando Monti ha confermato che lascerà nel 2013 e che ha tenuto banco negli incontri informali a latere fra il premier e i leader del futuro dell’America, nell’hi-tech come nella finanza, uniti dalla speranza che dopo il prossimo voto l’inquilino di Palazzo Chigi resti lo stesso. Se l’Italia viene ritenuta un «rischio politico» è per quanto sta avvenendo da qualche settimana a Roma e dintorni: l’aperta ostilità della Cgil a tagli alla spesa pubblica considerati solo un primo passo dal Fmi, la volontà di Silvio Berlusconi di «tornare in pista» nel Pdl avvicinandosi ai circoli più scettici sul futuro dell’Eurozona, le spaccature interne al Partito democratico sull’opportunità di sostenere le riforme del governo e la recente affermazione elettorale del movimento di protesta di Beppe Grillo proiettano l’immagine di una nazione che nell’arco di pochi mesi potrebbe invertire l’attuale corso del risanamento economico, tornando ad essere considerata il maggiore fattore di instabilità dell’Eurozona, come avvenne in novembre al summit del G20 a Cannes. La sovrapposizione fra questo possibile scenario di instabilità politica interna e l’avvenuta entrata in recessione della nostra economia spiega perché il «political risk» italiano evochi la Grecia, spingendo l’economista della «New York University» Nouriel Roubini ad ammonire: «Il caos politico spaventa, basta invocare la lira o i mercati vi puniranno». Friedman e Roubini esprimono opinioni largamente diffuse, come dimostrano le notizie su Berlusconi date dalla tv Msnbc - fra le più seguite sui temi economici - in cui viene descritto nella seguente maniera: «Il tre volte premier dopo aver mantenuto un profilo basso dal momento della sostituzione con Monti, ha annunciato questa settimana che tornerà in prima linea come candidato del centrodestra, impasticciando ancor più la situazione politica» anche perché «ha avuti toni anti-europei, criticato l’austerità di Monti e messo in dubbio l’opportunità di rimanere nell’euro». Per avere un’idea dei rischi che si corrono indebolendo Monti bisogna ascoltare Jim Reid, stratega economico di Deutsche Bank, quando osserva che «il rating Baa2 assegnato da Moody’s all’Italia è ancora troppo alto, sebbene assai vicino al livello che inizia a impaurire gli investitori». L’Italia è a complessivi nove gradini di distanza dalla perdita dello status di «nazione dove investire» assegnata dalle tre maggiori agenzie di rating perché, oltre a Moody’s, Standard & Poor’s ci classifica «BBB+» e Fitch «A-». Ciò significa che restiamo a pochi passi dall’abisso. Se la tempesta al momento sembra placata è solo per la credibilità del programma di riforme definito da Monti, garantito dalla sua competenza tecnica, ma il momento del cessato allarme arriverà solo quando tali riforme saranno realizzate. Più il «political risk» si manifesta, più il momento della realizzazione delle riforme si allontana, più i pericoli finanziari tornano a manifestarsi. E’ il domino inesorabile frutto di una globalizzazione dell’economia che non consente più il lusso di gestire la propria instabilità politica come se fosse una vicenda privata. Non a caso è stata l’agenzia cinese Xinhua la prima ad attribuire il taglio del rating italiano alle dichiarazioni di Berlusconi sulla volontà di tornare premier. Sono questi i motivi per cui la quota di investitori stranieri nei titoli di Stato continua a scendere, obbligando la Bce e le nostre banche a maggiori interventi. da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10337
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