LA-U dell'OLIVO
Novembre 24, 2024, 12:24:38 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 4 5 [6] 7 8 9
  Stampa  
Autore Discussione: MAURIZIO MOLINARI  (Letto 76519 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #75 inserito:: Luglio 31, 2012, 04:38:07 pm »

31/7/2012 - IL FILO DOPPIO USA-UE

Perché l'euro spaventa Obama

Le pressioni su Bruxelles, le visite ripetute di Geithner: ecco come la Casa Bianca ci sorveglia da vicino

MAURIZIO MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK


La missione europea del ministro del Tesoro americano Tim Geithner nasce dai timori dell’amministrazione Obama di un’esplosione della crisi del debito europeo in settembre.

Perché Washington ha tanto a cuore la salute dell’Eurozona?
Per l’impatto che ha sull’economia americana. Nel secondo trimestre il pil Usa è cresciuto dell’1,5%, il più debole dal terzo trimestre del 2011, a causa di due motivi: la contrazione dei consumi e la diminuzione dell’export. Poiché l’Europa è il primo partner commerciale degli Usa, più la sua economia frena, più l’export cala, più posti di lavoro si perdono in America. E’ un domino che può costare a Barack Obama la presidenza, considerando che l’Election Day è il 6 novembre.

Da dove nasce lo scenario di una possibile implosione dell’Eurozona in settembre?
E’ il frutto di una sovrapposizione di scadenze. Il 12 settembre la Corte Costituzionale tedesca si pronuncerà sulla compatibilità con le leggi nazionali dell’European stability mechanism, il fondo Esm di salvataggio. Basterebbe un parere negativo per neutralizzare la strategia salva-euro di Bruxelles. Nello stesso giorno in Olanda si celebreranno elezioni nelle quali vengono dati in crescita i partiti anti-euro che potrebbero bloccare il secondo salvataggio della Grecia, da definirsi sempre entro settembre. Su tutto pesa l’incognita dei tassi spagnoli: per finanziare il debito Madrid deve ancora raccogliere 50 miliardi entro fine anno ma se i tassi dei Bonos resteranno oltre il 7% il crac è possibile.

Perché la Spagna è decisiva?
Per la grandezza della sua economia. Eurozona e Fmi hanno versato aiuti a Portogallo, Grecia e Irlanda ma un salvataggio della Spagna comporterebbe almeno il doppio del totale di quanto finora sborsato.
Inoltre il salvataggio della Spagna spingerebbe la crisi verso l’Italia, la terza economia per grandezza dell’Eurozona. Nelle case dei fondi di soccorso europei Efsf e Esm - vi sono 459,5 miliardi di euro fino a luglio 2013 e 500 miliardi fino a luglio 2014: troppo pochi per soccorrere la sola Spagna.

Quale è la soluzione che Washington suggerisce?
Sebbene nelle dichiarazione pubbliche l’amministrazione Obama fa attenzione a rispettare la sovranità dell’Eurozona sui temi finanziari, la convinzione della Casa Bianca è che la soluzione è a portata di mano: consentendo al fondo Esm di rifinanziarsi prendendo in prestito denaro dalla Bce disporrebbe di risorse praticamente illimitate, destinate a consolidare l’euro, rassicurare i mercati e frenare la speculazione.
Quando Mario Draghi, presidente della Bce, ha detto «faremo tutto quanto necessario per salvare l’euro» la Casa Bianca ha avuto la sensazione che si stia andando verso questa svolta. Da qui la decisione di Geithner di recarsi in Germania per fare pressing sui falchi, guidati dalla Germania: una specie di coalizione che include Olanda e Finlandia.

Quanto è profondo il disaccordo fra Obama e Merkel?
Obama aveva identificato la Merkel nell’interlocutore privilegiato sulla crisi dell’euro. Nel giugno 2011 la cancelliera fu accolta con tutti gli onori alla Casa Bianca ed ebbe la prestigiosa Medal of Freedom, ma nei mesi seguenti le convergenze hanno lasciato il posto a frizioni in crescendo a causa delle resistenze di Berlino all’adozione di misure pro-crescita. Il timore, a Washington, è che Berlino immagini possibili nuovi equilibri economici planetari con la Germania più vicina agli emergenti che all’Eurozona.

Con quale strategia Obama tenta di disinnescare il rischio della crisi a settembre?
La strategia è quella inaugurata dopo il G7 di Camp David di aprile, ovvero tenere l’Eurozona sotto pressione: le frequenti telefonate di Obama ai leader Ue come le missioni a ripetizione in Europa di alti funzionari, da Geithner alla vice Lael Bainard, nascono dalla volontà di essere aggiornati su ogni minimo sviluppo interno all’Eurozona. Obama può contare su Christine Lagarde, il direttore del Fmi, i cui rapporti contribuiscono a tenere sotto pressione gli europei, puntando a rafforzare la Bce.

Può essere davvero la Bce a salvare l’Eurozona?
In questo momento l’America non punta a trovare una soluzione alla crisi del debito ma a «scelte di politica monetaria capaci di guadagnare tempo», come suggerisce Robert Zoellick, ex presidente della Banca Mondiale. Tali scelte passano per la Bce. In attesa che l’Eurozona riesca a dare una guida politica unica all’unione monetaria.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2586&ID_sezione=58
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #76 inserito:: Settembre 01, 2012, 11:12:09 am »

Cronache

29/08/2012 - I RAPPORTI TRA ROMA E WASHINGTON

"Così intervenni per spezzare il legame tra Usa e Mani pulite"

A La Stampa l’ultima intervista dell’ex ambasciatore americano in Italia Reginald Bartholomew: «La violazione dei diritti di difesa un pericolo per la democrazia»

MAURIZIO MOLINARI
corrispondente da New York

Il mese scorso ho incontrato a New York l’ex ambasciatore Reginald Bartholomew che, dopo avermi detto di aver visto il mio libro «Governo Ombra», sull’Italia del 1978 descritta dai documenti del Dipartimento di Stato, mi ha chiesto se avevo voglia di parlare con lui dei suoi anni alla guida dell’ambasciata di Roma, cosa che non aveva mai fatto. «Non ho diari, ho solo la mia mente per ricordare» osservò. Ci vedemmo a cena da «Felidia» a Manhattan e Bartholomew incominciò subito a raccontarmi di Tangentopoli e del terremoto politico-giudiziario che trovò al suo arrivo in Italia. Era già molto malato, anche se non ne fece parola, e aveva urgenza di lasciare una testimonianza. Raccolsi il suo racconto - che lui ha avuto modo di rivedere trascritto- con l’intenzione di usarlo come base per una nuova inchiesta sul rapporto tra Italia e Stati Uniti e sull’approccio americano al team «Mani Pulite». Da quel momento ho cominciato a cercare i documenti dell’epoca e i protagonisti ancora in vita. Primo tra tutti l’ex Console generale Usa a Milano Peter Semler, a cui Bartholomew attribuiva un ruolo chiave nell’iniziale sostegno americano all’inchiesta di Antonio Di Pietro. Quando ho saputo dell’improvvisa morte del 76enne Bartholomew, avvenuta domenica all’ospedale Sloan-Kettering di New York a causa di un tumore, ho pensato che fosse giusto pubblicare quanto finora raccolto. A cominciare da questa prima puntata che contiene appunto la testimonianza di Bartholomew, un diplomatico raffinato e colto, convinto che il passaggio alla Seconda Repubblica dovesse essere opera di una nuova classe politica - a cui aprì le porte dell’Ambasciata - e non solo opera dei magistrati. Ecco il suo racconto.

Completo blu, camicia bianca e cravatta rossa, Reginald Bartholomew arriva puntuale all’appuntamento nell’Upper East Side fissato per ricordare il periodo, dal 1993 al 1997, che lo vide guidare l’ambasciata americana a Roma. «L’Italia politica era in fase di disfacimento, il sistema stava implodendo a causa di Tangentopoli iniziata l’anno precedente ed io mi trovai catapultato dentro tutto questo quasi per caso», esordisce. In effetti Bartholomew, ex sottosegretario di Stato agli Armamenti, ex ambasciatore a Beirut e a Madrid, era ambasciatore presso la Nato. «Lo aveva deciso Bush padre prima di lasciare la Casa Bianca, poi quando arrivò Bill Clinton decise di farmi inviato in Bosnia e stava pensando di nominarmi ambasciatore in Israele». Ma in una delle prime riunioni sulla politica estera tenute da Bill Clinton nello Studio Ovale, con solo sette stretti consiglieri presenti, l’Italia spunta nell’agenda. Siamo all’inizio del 1993, Clinton sta incominciando la presidenza, l’Italia appare in decomposizione e «uno dei sette fece il mio nome al presidente», osservando che in una fase di tale delicatezza a Roma sarebbe servito un veterano del Foreign Service. Clinton assentì, rompendo con la tradizione di mandare in Via Veneto un ambasciatore politico scelto fra i maggiori finanziatori elettorali, e Bartholomew venne così catapultato nell’Italia del precario governo di Giuliano Amato sostenuto dagli esangui Dc, Psi, Psdi e Pli, con Oscar Luigi Scalfaro arrivato al Quirinale sulla scia della strage di Capaci, il Pds di Achille Occhetto in ascesa e Silvio Berlusconi impegnato a progettare la discesa in campo. «Ma soprattutto quella era la stagione di Mani Pulite - dice Bartholomew -, un pool di magistrati di Milano che nell’intento di combattere la corruzione politica dilagante era andato ben oltre, violando sistematicamente i diritti di difesa degli imputati in maniera inaccettabile in una democrazia come l’Italia, a cui ogni americano si sente legato».

Indagini giudiziarie, arresti di politici «presero subito il sopravvento sul resto del lavoro, perché la classe politica si stava sgretolando ponendo rischi per la stabilità di un alleato strategico nel bel mezzo del Mediterraneo», ed è in questa cornice che Bartholomew si accorge che qualcosa nel Consolato a Milano «non quadrava». Se fino a quel momento il predecessore Peter Secchia aveva consentito al Consolato di Milano di gestire un legame diretto con il pool di Mani Pulite, «d’ora in avanti tutto ciò con me cessò», riportando le decisioni in Via Veneto. Fra le iniziative che Bartholomew prese ci fu «quella di far venire a Villa Taverna il giudice della Corte Suprema Antonino Scalia, sfruttando una sua visita in Italia, per fargli incontrare sette importanti giudici italiani e spingerli a confrontarsi con la violazione dei diritti di difesa da parte di Mani Pulite». Bartholomew non fa i nomi dei giudici italiani presenti a quell’incontro nella residenza romana, ma ricorda bene che «nessuno obiettò quando Scalia disse che il comportamento di Mani Pulite con la detenzione preventiva violava i diritti basilari degli imputati», andando contro «i principi cardine del diritto anglosassone». Pochi mesi più tardi, nel luglio del 1994, il presidente Clinton arriva in Italia per partecipare al summit del G7 che il governo del neopremier Silvio Berlusconi ospita a Napoli. In coincidenza con i lavori, Mani Pulite recapita al presidente del Consiglio un avviso di garanzia e la reazione di Bartholomew è molto aspra. «Si trattò di un’offesa al presidente degli Stati Uniti, perché era al vertice e il pool di Mani Pulite aveva deciso di sfruttarlo per aumentare l’impatto della sua iniziativa giudiziaria contro Berlusconi», sottolinea l’ex ambasciatore, aggiungendo: «gliela feci pagare a Mani Pulite». Nulla da sorprendersi se in tale clima l’ambasciatore Usa all’epoca non ebbe incontri con i giudici del pool, «neanche con Antonio Di Pietro», mentre si dedicò a fondo a tessere i rapporti con le forze politiche emergenti. «I leader della Dc un giorno mi vennero a trovare, fu un incontro molto triste, sembrava quasi un funerale, era la conferma che bisognava guardare in avanti». Con il Pds, attraverso Massimo D’Alema, si sviluppò «un rapporto che sarebbe durato nel tempo». «D’Alema mi chiamò al telefono, gli dissi di venirmi a trovare e lui, dopo una certa sorpresa, accettò - rammenta Bartholomew -; quando lo vidi gli dissi con franchezza che il Muro di Berlino era crollato, quanto avevano fatto e pensato i comunisti in passato non mi interessava, mentre ciò che contava era la futura direzione di marcia, se cioè volevano essere nostri alleati così come noi volevamo continuare a esserlo dell’Italia». Ne nacque «un rapporto solido, continuato in futuro» con il Pds, «mentre con Romano Prodi fu tutto complicato dal fatto che, quando diventò premier nel 1996 del primo governo di centrosinistra della Repubblica, voleva a tutti i costi andare al più presto da Clinton, ma la Casa Bianca in quel momento aveva un altro calendario, e Prodi se la prese con me». Per tentare di riconquistare il rapporto personale con il premier «dovetti andare una domenica a Bologna, farmi trovare nel suo ristorante preferito e allora finalmente mi parlò, ci spiegammo». L’apertura al Pds coincise con quella a Gianfranco Fini, che guidava l’Msi precedente alla svolta di Fiuggi. «Con entrambi l’approccio fu il medesimo, si trattava di aprire una nuova stagione - dice Bartholomew -, ed ebbi lo stesso approccio, guardando avanti e non indietro, anche se devo ammettere che nei salotti romani il mio dialogo con Fini piaceva assai meno di quello con D’Alema».

L’altro leader che Bartholomew ricorda è Berlusconi. «La prima volta che ci vedemmo lo aspettavo all’ambasciata da solo, ma si presentò assieme a Gianni Letta, voleva il mio imprimatur per la sua entrata in politica e gli risposi che toccava a lui decidere se essere “King” o “Kingmaker”», ma l’osservazione colse in contropiede Berlusconi, «che diede l’impressione di non sapere cosa significasse “Kingmaker” e dopo essersi consultato con Letta mi rispose “Kingmaker? Noooo”». Dall’incontro, avvenuto poco prima dell’entrata in politica di Berlusconi nel 1994, Bartholomew trasse comunque l’impressione che si trattava di una candidatura molto seria «e nei mesi seguenti, girando l’Italia, mi accorsi che aveva largo seguito, sebbene personaggi come Eugenio Scalfari, direttore di Repubblica, mi obiettavano che non potevo capire molto di politica italiana essendo arrivato solo da pochi mesi». A conti fatti, guardando indietro a quella fase storica, Bartholomew rivendica il merito di aver rimesso sui binari della politica il rapporto fra Washington e l’Italia, dirottato dal legame troppo stretto fra il Consolato di Milano e Mani Pulite, identificando in D’Alema e Berlusconi due leader che negli anni seguenti si sarebbero rivelati in più occasioni molto importanti per la tutela degli interessi americani nello scacchiere del Mediterraneo.

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/466750/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #77 inserito:: Settembre 01, 2012, 11:16:21 am »

Cronache

30/08/2012 - I RAPPORTI TRA ITALIA E USA

"Di Pietro mi preannunciò l’inchiesta su Craxi e la Dc"

L’ex console a Milano Peter Semler: «Si confidò qualche mese prima dell’arresto di Chiesa: aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato»

MAURIZIO MOLINARI
corrispondente da new york

Alcuni mesi prima di Tangentopoli Antonio Di Pietro anticipò al console generale americano a Milano che l’inchiesta avrebbe portato a degli arresti e che le indagini erano destinate a coinvolgere Bettino Craxi e la Dc. A ricordarlo è proprio Peter Semler, durante un incontro nella sua tranquilla casa agli Hamptons dove trascorre l’estate fra spartiti di musica russa sul pianoforte, fiori ben curati nel patio e la tv accesa sul canale del golf. L’ex console, 80 anni, ha il fisico asciutto, la voce mite e grande premura nel ricordare gli anni passati in Italia, iniziati quando nel 1983 arrivò a Roma come consigliere militare-politico, gestendo l’arrivo dei missili Cruise a Comiso e disinnescando nel 1986 la crisi Usa-Italia seguita dall’attacco di Reagan contro la Libia di Gheddafi. Ma, trascorsi venti anni dall’inizio di Tangentopoli, ritiene soprattutto giunto il momento di ricordare come visse, dal suo osservatorio, quella stagione che portò alla fine alla Prima Repubblica.

Quando arrivò a Milano?
«Nell’estate del 1990. Era agosto e non c’era nessuno, tutto sembrava normale con i soliti Giulio Andreotti e Francesco Cossiga che decidevano ogni cosa a Roma. C’era anche Craxi, il figlio Bobo fu una delle prime persone che vidi».

Che approccio ebbe alla politica milanese?
«Giuseppe Bagioli, un dipendente italiano al Consolato, era il mio consigliere politico a Milano, viveva di politica interna, sapeva tutto di tutti. Una vera enciclopedia vivente, mi fu di aiuto straordinario. Una delle prima persone che mi portò fu il figlio di Craxi, poi vidi quelli della Lega e quindi i comunisti. Volevamo parlare con tutti e così facemmo. Mi resi conto che vi sarebbe stata un’esplosione, come poi avvenne. La Lega nel Nord aveva il centro a Milano, e poi qualcosa in Veneto».

Come ricorda i leghisti?
«Avere a che fare con loro era tutt’altra cosa rispetto a Roma: arrivavano puntuali ai pranzi e poi tornavano subito a lavorare. Borgioli mi fece parlare con gente che esprimeva scontento verso Roma, ma quando andai a dirlo all’ambasciatore a Roma Peter Secchia mi disse: “Che vai dicendo? Ieri ho visto Cossiga e Andreotti, è tutto ok, governa sempre la stessa gente”. Io rispondevo che i cambiamenti sarebbero stati grandi ma era parlare al vento».

Da dove nasceva il contrasto di interpretazioni con l’ambasciata Usa a Roma?
«All’ambasciata a Roma c’era all’epoca Daniel Serwer, che sosteneva la tesi che nulla sarebbe mai cambiato in Italia. Ad un incontro a Roma a cui parteciparono tutti i nostri generali, della forze del Mediterraneo, mi dissero che non avevo capito niente».

Perché era così convinto di avere ragione?
«Per quello che sentivo a Milano. Ricordo che un primo gennaio ebbi un pranzo con due leader della Lega e quello che mi colpì di più era un ex poliziotto, ex militare. Giocammo al golf club di Milano e mi dissero: “Cambierà tutto”. Ma a Roma Secchia continuava a dirmi: “Basta perdere tempo con queste storie”».

Conobbe Antonio Di Pietro, allora pubblico ministero?
«Parlai con Di Pietro, lo incontrai nel suo ufficio, mi disse su cosa stava lavorando prima che l’inchiesta sulla corruzione divenisse cosa pubblica. Mi disse che vi sarebbero stati degli arresti».

Quando avvenne il colloquio?
«Incontrai Di Pietro prima dell’inizio delle indagini, fu lui che mi cercò attraverso Bagioli. Ci vedemmo alla fine del 1991, credo in novembre, mi preannunciò l’arresto di Mario Chiesa e mi disse che le indagini avrebbero raggiunto Bettino Craxi e la Dc».

Stiamo parlando di circa quattro mesi prima dell’arresto di Mario Chiesa, avvenuto il 17 febbraio del 1992...
«Di Pietro aveva ben chiaro dove le indagini avrebbero portato. Da Di Pietro, da altri giudici e dal cardinale di Milano seppi che qualcosa covava sotto la cenere. Eravamo informati molto bene. Di Pietro mi preannunciò gli arresti ma per me non era chiaro cosa sarebbe avvenuto».

Che rapporti aveva con il pool di Mani Pulite?
«Incontrai più giudici di Milano, c’era un rapporto di amicizia con loro ma non cercavo di conoscere segreti legali. Erano miei amici, ci vedevamo in luoghi diversi».

Con Di Pietro c’era un’intesa più forte?
«Di Pietro mi piacque molto, poi fece il viaggio negli Stati Uniti organizzato dal Dipartimento di Stato. Ero spesso in contatto con lui. Ci vedevamo».

Cosa pensava delle indagini?
«Ero in favore di ciò che Di Pietro faceva ma era una materia legale assai complessa. Il mio ruolo era di dire a Secchia cosa faceva Di Pietro».

Come si comportava Di Pietro negli incontri con lei?
«Di Pietro con me era sempre aperto, ogni volta che chiedevo di vederlo lui accettava, veniva anche al Consolato».

Cosa la colpì di lui?
«Borgioli mi disse che Di Pietro sapeva usare il computer, a differenza di gran parte degli italiani. Di Pietro era un personaggio straordinario, cambiò l’Italia».

Come nacque la visita negli Stati Uniti?
«Sono stato io a suggerire all’ambasciata a Roma di invitarlo, poi fu il Dipartimento di Stato a organizzargli il viaggio. Avvenne dopo l’inizio delle indagini».

Chi incontrò Di Pietro durante la visita?
«Gli fecero vedere molta gente, a Washington e New York».

Come reagirono i comandi militari Usa a Tangentopoli?
«I militari davanti a Tangentopoli non si interessavano troppo alla politica, volevano solo essere sicuri che avrebbero potuto continuare a muovere liberamente le loro truppe e navi. E che le armi nucleari fossero al sicuro».

Come ricorda l’atmosfera di Milano in quel 1992?
«A Milano il cambiamento era nell’aria. Conoscevo molte persone. Ricordo Pirelli e c’era un industriale importante, di origine siciliana, basso, con il cognome di quattro lettere che mi diceva le cose. Mario Monti all’epoca guidava la Bocconi, andavamo a cena assieme e gli procuravo oratori americani. Berlusconi non lo conoscevo bene, una volta ebbi con lui un pranzo assai lungo, Peter Secchia aveva in genere bisogno di 45 minuti per raccontarsi, scoprì che c’era qualcuno capace di parlare assai di più».

Terminata la conversazione Semler ci accompagna verso l’uscita dimostrandosi ancora un attento osservatore dei fatti politici italiani. E passando vicino al pianoforte osserva: «Continuo a suonarlo perché è stata mia madre a insegnarmelo».

da - http://www3.lastampa.it/cronache/sezioni/articolo/lstp/466848/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #78 inserito:: Settembre 04, 2012, 05:02:12 pm »

3/9/2012 - ELEZIONI USA

Obama-Romney molti attacchi e poche idee

MAURIZIO MOLINARI

La Convention democratica di Charlotte si apre domani nel segno della demolizione pubblica di Mitt Romney così come quella repubblicana si è chiusa giovedì a Tampa indicando in Barack Obama un Presidente colpevole di errori tali da meritare il licenziamento. Su entrambi i fronti la strategia elettorale è basata sull’esaltazione dei difetti dell’avversario.

Il Team Obama ha già speso oltre 100 milioni di dollari in spot tv nei 12 Stati più in bilico per descrivere Romney come un evasore fiscale e uno speculatore senza scrupoli, espressione del capitalismo selvaggio, così come il Team Romney ha firmato una Convention dove la volontà di martellare l’etere con l’accusa a Obama di aver causato «23 milioni di americani senza lavoro» ha spinto dozzine di oratori a pronunciare discorsi-fotocopia, lasciando alla sola Condoleezza Rice il ricordo dell’11 settembre.

Dietro tale convergenza di approcci c’è la lettura della sfida che accomuna i due team: il democratico David Plouffe e il repubblicano Stuart Stevens ritengono che la gara resterà in equilibrio fino alle ultime settimane e dunque a prevalere sarà chi riuscirà a portare alle urne il più alto numero di propri sostenitori. I sondaggi confortano tale interpretazione: i candidati sono in quasi perfetto equilibrio da febbraio e l’effetto pro Romney della Convention di Tampa non sembra aver alterato di molto la situazione, anche perché gli incerti sono ridotti al 5 per cento. Per Grover Norquist, fondatore del movimento «Tax Reform» che ispirò Ronald Reagan, ciò implica che «il favorito è Romney perché gli incerti nel finale tendono sempre a preferire lo sfidante» mentre Larry Sabato, storico delle presidenziali, evoca la possibilità di una «ripetizione di Florida 2000» quando la Casa Bianca fu assegnata per 537 voti di scarto e Bill Schneider, politologo conservatore sulla liberal Cnn, parla di «stallo dovuto al fatto che l’America è polarizzata su Obama e nessuno appare disposto a cambiare idea». L’impasse nuoce a programmi e proposte perché strateghi, pollster e spot tv si concentrano sugli attacchi anziché sulle proposte. Obama promette di cambiare passo da giovedì sera, quando nel discorso di accettazione della nomination preannuncia l’intenzione di «disegnare il percorso dei prossimi quattro anni» con proposte concrete di misure e riforme capaci di rilanciare lo sviluppo economico mentre Romney e il vice Paul Ryan, in viaggio negli Stati in bilico, ribattono che presto sveleranno i particolari del «piano per creare 12 milioni di posti di lavoro» di cui hanno parlato dal palco di Tampa. In attesa delle rispettive mosse, l’America resta nel limbo di una campagna elettorale dove la conflittualità politica cela scarsità di idee e debolezza di leadership. Per Obama ciò significa non essere riuscito a «cambiare Washington» come si proponeva nel 2008 mentre nel caso di Romney implica la convinzione di poter vincere non sulla base di una nuova idea dell’America ma solo grazie allo scontento per i demeriti del rivale. Sapremo presto se le assise di Charlotte riusciranno a cambiare tale equazione.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10486
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #79 inserito:: Settembre 13, 2012, 05:57:16 pm »

13/9/2012

Se il dialogo diventa un boomerang

MAURIZIO MOLINARI

Durante la rivolta anti-Gheddafi il diplomatico americano Chris Stevens era arrivato a Bengasi nascosto dentro una nave cargo, sbarcando da clandestino su mandato di Barack Obama per allacciare i rapporti con i ribelli, ma ora la lascia dentro una bara dopo essere stato ucciso da alcuni dei libici che ha contribuito a salvare. Nella tragica parabola dell’ambasciatore Usa in Libia, che Hillary Clinton ha descritto tradendo evidente commozione, c’è il boomerang della «Primavera araba» che piomba sulla Casa Bianca obbligando il Presidente a disinnescare in fretta una «sorpresa di settembre» che minaccia di complicare la corsa alla rielezione.

Il boomerang sta nel fatto che quanto avvenuto martedì sembra smentire la strategia con cui Obama ha sostenuto la «Primavera araba»: l’intervento militare voluto per salvare Bengasi dalla repressione di Muammar Gheddafi ha gettato la stessa città nella braccia dei salafiti alleati di Al Qaeda così come la scelta di obbligare l’alleato egiziano Hosni Mubarak alle dimissioni ha consentito ai jihadisti di issare le loro bandiere nere sul pennone dell’ambasciata Usa al Cairo, dopo aver ammainato e umiliato la «Old Glory». Convinto di poter creare una nuova stagione di dialogo con i partiti islamici che guidano le transizioni post-dittatori in NordAfrica, Obama si trova alle prese con il colpo di coda dei jihadisti: sfruttare la perdurante instabilità per tentare di ricreare nelle sabbie del Sahara la piattaforma terrorista perduta sulle montagne afghane e pakistane a seguito dell’intervento della Nato.

La coincidenza con l’anniversario dell’11 Settembre rende ancora più difficile la sfida per Obama perché evoca negli americani la convinzione che quella contro il terrorismo islamico sia la «lunga guerra» di cui parlavano George W. Bush e Donald Rumsfeld ma che l’amministrazione democratica ha respinto come dottrina, arrivando a cancellarne perfino la definizione nei manuali del Pentagono di Leon Panetta.

E come se non bastasse c’è la sovrapposizione con la campagna elettorale che trasforma il boomerang della «Primavera araba» in una possibile «sorpresa di settembre» - in anticipo di un mese su quelle che in genere decidono le presidenziali - capace di giovare allo sfidante repubblicano Mitt Romney, che non a caso si è affrettato a parlare di «Inverno arabo» per evidenziare l’incapacità del Presidente uscente di distinguere fra amici e nemici dell’America.

All’entità delle sfide che, nell’arco di poche ore, si sono così sommate inaspettatamente sul «Resolute Desk» dello Studio Ovale Obama ha risposto riproponendo il metodo che l’ex capo di gabinetto Rahm Emanuel riassume così: «Affrontarle tutte con uguale determinazione». Da qui la decisione di mandare marines e droni in Libia e, al tempo stesso, rigirare contro Romney l’accusa di incompetenza, accusandolo di «aver sfruttato un attentato terroristico a fini di politica interna». E’ nei momenti di crisi che il 44° Presidente torna ad essere il politico-lottatore di Chicago, facendo ciò che più gli riesce meglio: andare all’offensiva. Ciò significa che i salafiti della Cirenaica, e i loro mandanti di Al Qaeda in Maghreb, entrano da subito nella «Kill List» con cui il Presidente ha decimato i leader jihadisti negli ultimi tre anni e mezzo così come il duello aperto sulla sicurezza nazionale con Romney può giovare ad andare alle urne spingendo gli americani a pensare più al raid di Abbottabad che ai numeri della disoccupazione. Da qui lo scenario delle prossime settimane di un Presidente sempre più nei panni del comandante-in-capo, determinato a mantenere in fretta la promessa di obbligare i killer di Stevens a «fare i conti con la giustizia». Per togliere dalla strada della «Primavera araba» l’ostacolo jihadista e per avvicinarsi alla rielezione in maniera imprevedibile per i suoi sostenitori: potendosi vantare più dei nemici dell’America eliminati che non dei posti di lavoro creati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10522
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #80 inserito:: Ottobre 07, 2012, 03:51:46 pm »

La cucina dei giornali

07/10/2012

Obama-Romney e milioni di twitts

Maurizio Molinari
corrispondente da New York


Con 10,3 milioni di twitts in 90 minuti il dibattito di Denver fra Obama e Romney è diventato l’evento-record per Twitter, evidenziandone la rilevanza nell’attuale campagna presidenziale. Se le presidenziali del 2004 videro il debutto di email e micromarketing, e in quelle del 2008 dominò Facebook, questo è l’anno di Twitter. Le avvisaglie si erano avute all’inizio delle primarie, quando in Iowa e New Hampshire candidati, opinionisti e reporter facevano a gara nel twittare notizie, commenti, retroscena e foto bruciando sul tempo non solo tv e radio ma anche i siti web. Chi lo giudicò un vezzo hi-tech da addetti ai lavori si è dovuto ricredere alle Convention. 

Quattro milioni di twitts durante quella repubblicana a Tampa e ben 9,5 milioni in occasione di quella democratica a Charlotte ne hanno evidenziato una popolarità dilagante. E il record di Denver suggerisce qualcosa in più perché i picchi da 160 mila twitts al minuto come la creazione all’istante di popolari neologismi digitali come @BigBirdRomney e @SilentJimLehrer evidenziano la trasformazione dei «cinguettii» in un sistema di comunicazione istantanea capace di rigenerarsi in continuazione, trasformandosi in un torrente di pensieri, parole, battute e sigle nel quale ognuno riesce a condividere una dimensione tutta sua di un evento collettivo. 

Questo spiega perché su Twitter prolificano universi paralleli in grado di offrire simultaneamente letture diverse della campagna elettorale. Consentendo ai fan più faziosi come agli opinionisti più distaccati di avere un proprio pubblico.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/07/cultura/opinioni/la-cucina-dei-giornali/obama-romney-e-milioni-di-twitts-9idWGAuzZrAa1JAmTJcu4L/index.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #81 inserito:: Novembre 21, 2012, 04:05:24 pm »

Editoriali
21/11/2012

A Gaza Hillary prova a fare la differenza

Maurizio Molinari

Lamissione a sorpresa di Hillary Clinton in Medio Oriente nasce dalla volontà di Barack Obama di siglare in fretta la tregua a Gaza per poter gettare le basi di una nuova iniziativa di pace fra Israele e palestinesi. Da 72 ore Israele e Hamas sembrano vicini ad una cessazione delle ostilità che continua a slittare: la mediazione egiziana, sostenuta da Turchia e Qatar, ha dietro l’amministrazione Obama e la scelta di far volare Hillary da Phnom Penh a Gerusalemme svela l’impazienza del Presidente per centrare questo obiettivo. Barack Obama cerca un risultato in tempi stretti per un duplice motivo. Il primo è che i reciproci segnali di disponibilità a cessare i combattimenti, raccolti dagli egiziani, creano una finestra di opportunità che deve essere sfruttata prima che una qualsiasi mossa dei contendenti possa innescare una nuova escalation. 

 

Obama ha chiesto al premier israeliano Benjamin Netanyahu di evitare l’invasione di terra e l’egiziano Mahmud Morsi preme su Hamas per interrompere i lanci di razzi in un forcing diplomatico parallelo che perde di efficacia con il passare del tempo. Con le soste prima a Gerusalemme e poi al Cairo Hillary Clinton si propone di smussare i problemi che rimangono su entrambi i fronti: spiegando a Israele che il sostegno incondizionato degli Stati Uniti all’operazione militare non è a tempo indeterminato e facendo presente all’Egitto che un fallimento delle sue pressioni sui fondamentalisti di Hamas a Gaza pregiudicherebbe la credibilità di Morsi come leader regionale. Tanto Gerusalemme che il Cairo rischiano frizioni con la Casa Bianca. Ma non è tutto, perché Hillary ha bisogno della tregua anche per evitare che il conflitto fra Hamas e Israele si sovrapponga alla crisi fra Autorità nazionale palestinese e Israele che incombe alle Nazioni Unite. 

 

Il 29 novembre il presidente palestinese Mahmud Abbas darà infatti luce verde alla presentazione all’Assemblea Generale dell’Onu di una bozza di risoluzione per il riconoscimento della Palestina come Stato non-membro - al pari della Santa Sede - e visto che dispone dei voti per farla approvare ciò significa per Israele una violazione delle intese di pace del 1993 e 1994, capace di far franare l’intero edificio costruito sugli accordi di Oslo. La sovrapposizione fra guerra a Gaza e crisi all’Onu minaccia di travolgere ciò che ancora rimane del progetto di veder convivere due Stati fianco a fianco in Medio Oriente in pace e sicurezza. E’ lo scenario peggiore per un’amministrazione americana intenzionata a rilanciare in tempi stretti il negoziato sullo status definitivo dei confini fra Israele e nascituro Stato di Palestina. Sventarlo è l’ultima missione che Hillary si trova a gestire prima di lasciare il Dipartimento di Stato. E si annuncia da subito come quella più difficile del suo mandato. Ironia della sorte vuole che proprio da questa missione inattesa, maturata mentre si stava occupando al summit dell’Asean in Cambogia delle diatribe territoriali nel Mar della Cina del Sud, dipende il buon inizio del secondo mandato di Obama sul fronte della politica estera. Un successo capace di scongiurare il peggio e rilanciare il negoziato fra Israele e Anp metterebbe Obama nella condizione per andare subito all’offensiva sul fronte della pace così come un fallimento vedrebbe il Medio Oriente scivolare verso un conflitto su più fronti dagli esiti difficili da prevedere. Tocca a Hillary riuscire a fare la differenza. 

da - http://lastampa.it/2012/11/21/cultura/opinioni/editoriali/a-gaza-hillary-prova-a-fare-la-differenza-wW43j0mdwDHpY6ARWsXaCJ/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #82 inserito:: Novembre 29, 2012, 06:44:29 pm »

Editoriali
29/11/2012 - oggi decisione storica

Palestina le incognite del voto Onu

Maurizio Molinari


La risoluzione che oggi trasformerà la Palestina in Stato non-membro delle Nazioni Unite è un evento spartiacque in Medio Oriente. 

 

I motivi sono tre: l’Autorità nazionale palestinese (Anp) ha un nuovo status giuridico, il suo presidente Mahmud Abbas assume il ruolo di protagonista regionale e gli accordi di pace di Oslo del 1993 vengono indeboliti se non delegittimati.

 

Forte del sostegno di 132 Stati su 193, l’Anp si avvia a raccogliere nell’Assemblea Generale dell’Onu ben oltre i 97 voti necessari grazie ai quali la Palestina viene dichiarata Stato osservatore - come la Santa Sede - assumendo la legittimità internazionale perseguita dall’Olp di Yasser Arafat sin dalla dichiarazione di Algeri del 15 novembre 1988, con la conseguenza di poter aderire a Trattati, Corti e Convenzioni a cominciare dal Tribunale penale internazionale. Poiché il testo della risoluzione fa riferimento a «Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est» ciò significa che l’Onu riconosce l’esistenza di uno Stato di Palestina entro i confini anteriori al giugno 1967 - proprio come recita la Dichiarazione d’indipendenza palestinese - a prescindere dal raggiungimento di un accordo di pace con Israele. 

 

La conseguenza è che Mahmud Abbas riguadagna spazio e prestigio fra i palestinesi: eletto nel 2005 all’ombra onnipresente di Arafat, umiliato nel 2007 dal colpo di mano di Hamas a Gaza, con il mandato scaduto da oltre tre anni ed emarginato dalla recente crisi di Gaza, ora diventa il leader del nuovo Stato, incassa da Hamas il sostegno nella votazione al Palazzo di Vetro, è sostenuto da dozzine di capitali e si sente politicamente forte al punto da definire «patetica» l’opposizione dell’amministrazione Obama all’odierna risoluzione. La scelta di Abbas di far coincidere questo momento con la riesumazione della salma di Arafat - al fine di appurare se nel 2004 sia morto avvelenato - sottolinea la volontà di trasformare il voto dell’Onu nel volano di una coesione palestinese, tesa a farsi largo sulla scena internazionale a prescindere dalla pace con Israele. Da qui la scelta della data: la coincidenza con il 65° anniversario del voto dell’Onu sulla spartizione della Palestina mandataria britannica in uno Stato ebraico ed uno arabo vuole sottolineare che viene sanata quella che i palestinesi, dentro e fuori i Territori, considerano ancora oggi come una storica ferita.

 

Il successo di Abbas ha però come prezzo l’indebolimento degli accordi di Oslo, fondamento della pace con Israele, perché prevedevano che lo Stato di Palestina sarebbe nato attraverso negoziati bilaterali. E’ questo il motivo per cui gli Stati Uniti, garanti di quelle intese raggiunte da Bill Clinton con Arafat e Yitzhak Rabin, si sono opposti all’iniziativa di Abbas fino all’ultimo. Ieri sera William Burns, vice del Segretario di Stato Hillary Clinton, si è recato nell’hotel di Manhattan dove si trova Abbas per chiedergli, a nome di Obama, di fermarsi. Il motivo lo spiega Robert Danin, arabista del «Council on Foreign Relations» di New York, secondo cui «Abbas ottiene una vittoria di Pirro» perché il risultato sarà «un’America meno impegnata nel processo di pace» e dunque meno possibilità di intese durature con Israele.

 

Abbas scommette invece sullo scenario opposto, nella convinzione che la nuova legittimità gli darà più carte da giocare nel negoziato con Israele. Saranno i prossimi mesi a dire se ha ragione o meno. Al momento l’unica conclusione che si può trarre riguarda la desolante spaccatura dell’Unione Europea incapace, per l’ennesima volta, di unirsi sulla crisi israelo-palestinese con in evidenza un’Italia ancora incerta su come schierarsi.

da - http://www.lastampa.it/2012/11/29/cultura/opinioni/editoriali/palestina-le-incognite-del-voto-onu-CDLKTJECW5HK2XwT6sfQ5I/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #83 inserito:: Dicembre 01, 2012, 06:41:58 pm »

 30/11/2012

 Onu, la Turchia guida il fronte pro-palestinese

Maurizio MOLINARI

Il momento in cui è stata aperta la bandiera palestinese. Abbas, sulla sinistra, sta andando ad abbracciare il ministro degli Esteri turco
Le novità evidenziate dal dibattito all'Assemblea Generale. Ankara sostituisce le capitali arabe e sul fronte opposto spicca il Canada a fianco di Israele. L'Europa in ordine sparso. Dalle parole dei duellanti qualche spiraglio
maurizio molinari - corrispondente da new york

Il dibattito al Palazzo di Vetro sull'approvazione della risoluzione Onu che trasforma la Palestina in uno Stato non-membro ha fatto emergere al Palazzo di Vetro diverse novità diplomatica che sembrano destinate ad avere conseguenze. 

LE PAROLE DEI DUELLANTI. Il presidente palestinese Mahmus Abbas e l'ambasciatore israeliano Ron Prossor hanno pronunciato interventi diversi in tutto, tranne che nel comune riferimento alla volontà di riprendere il negoziato. Abbas ha detto di non voler mettere in dubbio la "legittimità di Israele" e Prossor lo ha invitato ad "andare a Gerusalemme anziché venire a New York" seguendo l'esempio del leader egiziano Anwar Sadat "che disse di essere disposto ad andare alla fine del mondo pur di fare la pace". Trattandosi degli interventi dei duellanti, contengono uno spiraglio di trattativa. Anche se appare al momento assai ristretto. 

ANKARA GUIDA IL FRONTE PRO-PALESTINESI. A presentare la risoluzione è stato il Sudan, a nome di 42 co-firmatari, e il maggior risultato politico per i palestinesi è stato il sostegno dei Paesi europei - a cominciare da Francia, Spagna e Italia - che affiancandosi ai 132 Stati che già riconoscono lo Stato di Palestina hanno consentito di arrivare a 138 voti. Ma l'intervento più determinato a favore dell'approvazione è venuto dal ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu ed ha ritagliato alla Turchia un ruolo di primo piano. Con un linguaggio acceso Davutoglu ha accusato il mondo di aver "taciuto per 65 anni sulle piaghe dei palestinesi", identificando nella "bandiera palestinese che sventolerà su questo edificio" un "atto di dignità e rispetto per la Palestina sanguinante". "Saremo sempre a fianco dei palestinesi fino a quando non avranno uno Stato con Gerusalemme capitale" ha concluso il ministro di Ankara, parafrasando con voluta malizia il Pirkè Avot - le Massime dei Padri della tradizione ebraiche - nel dire "se non riconosciamo la Palestina ora, allora quando?". Dopo aver infiammato il parterre di delegati arabi e africani, sempre Davutoglu è stato il primo diplomatico ad abbracciare il presidente palestinese Mahmud Abbas pochi attimi dopo la proclamazione del risultato. I due hanno pianto assieme mentre veniva aperta una bandiera palestinese nel parterre dell'Assemblea Generale. Se l'Olp di Yasser Arafat nacque negli anni Sessanta godendo del forte sostegno dell'Egitto di Nasser, ebbe quindi il maggior alleato nell'Urss e, dopo la fine della Guerra Fredda, nell'Iraq di Saddam Hussein, per essere poi sostenuta da diverse capitali arabe, quanto avvenuto al Palazzo di Vetro dimostra che oggi questo ruolo è ricoperto dalla Turchia di Recep Erdogan. 

IL CANADA SPICCA NEL FRONTE PRO-ISRAELE. Solo 8 Paesi si sono uniti a Israele nel respingere la risoluzione: Stati Uniti, Canada, Repubblica Ceca, Panama, Nauru, Palau, Micronesia e Isole Marshall. Fra questi, l'intervento più energico dal podio lo ha pronunciato il ministro degli Esteri del Canada. John Baird si è richiamato al ruolo che ebbe il anada 65 anni fa per redigere il testo della risoluzione sulla partizione della Palestina mandataria britannica, ricordando che se uno Stato arabo non sorse allora a fianco di Israele fu per colpa "dei Paesi che vi si opposero" e non dello Stato ebraico. Il riferimento è servito per difendere la legittimità degli accordi di Oslo, base delle intese di pace raggiunte fra Israele e palestinesi nel 1993 e 1994, perché "si basano sulle risoluzioni Onu 242 e 338 prevedendo negoziati diretti per la pace". Il suo intervento si è rivelato la più chiara, e determinata, esposizione delle motivazioni giuridiche e legali per opporsi ad "una risoluzione unilaterale nociva perché alla pace si arriva negoziando fra le parti". L'ambasciatrice Usa all'Onu, Susan Rice, ha preso la parola solo dopo il voto, giustificando il no con il fatto che la "risoluzione è controproducente" ma le motivazioni adotte sono state quelle illustrate dal Canada. A parte la sparuta pattuglia di "no", Israele ha ottenuto 41 astensioni guidate da Londra, Berlino, Sul, Canberra, Varsavia e Seul. 

L'EUROPA IN ORDINE SPARSO. Gli interventi degli europei hanno avuto in comune il riferimento alla necessità di "riprendere i negoziati" e difendere l'obiettivo di risolvere la crisi israelo-palestinese "con la formula dei due Stati". Ma a sostenerlo sono stati tanto i rappresentanti di chi ha votato a favore della risoluzione - Francia, Grecia e Belgio - quanto di coloro che si è astenuto - Germania, Gran Bretagna - con il risultato di raffigurare una evidente contraddizione nell'Ue. 

L'INTERVENTO DELL'ITALIA. Il tale contesto l'intervento dell'ambasciatore italiano, Cesare Ragaglini, si è distinto perché, richiamandosi al processo di pace di Madrid - da cui nel 1991 partì il negoziato israelopalestinese - ha spiegato il voto favorevole di Roma con le "assicurazioni ricevute da Abbas" che i palestinesi non faranno leva sul nuovo status internazionale per ricorrere a Corti, Trattati e Convenzioni internazionali al fine di creare nuovi contenziosi con Israele. E' stato l'unico intervento europeo che ha accennato ad una trattativa con Abbas in cambio del voto favorevole in aula. 

da - http://www.lastampa.it/2012/11/30/blogs/finestra-sull-america/onu-la-turchia-guida-il-fronte-pro-palestinese-5Xfn6a4g5vIZFIobI4PLPO/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #84 inserito:: Dicembre 06, 2012, 04:44:21 pm »

 05/12/2012

 Teheran, il "piano bielorusso" per evadere le sanzioni


L'intento è registrare tre filiali iraniane a Minsk  con nuovi nomi per poter effettuare transazioni finanziarie proibite

Maurizio Molinari - corrispondente da new york

Al fine di aggirare le sanzioni internazionali, le autorità iraniane stanno tentando di sfruttare il vulnerabile sistema bancario della Bielorussia per creare nuove entità finanziare non riconducibili in alcuna maniera a Teheran. A rivelarlo sono informazioni di intelligence occidentali che "La Stampa" ha potuto consultare e che riconducono ad Arselan Fathipour, presidente della commissione Economica del Parlamento di Teheran, che ha definito i dettagli del "piano bielorusso" con alcuni consiglieri del Leader Supremo della Rivoluzione, Alì Khamenei. Il primo passo è stato affidare a due banche iraniane che dispongono di filiali in Bielorussia - Trade Capital Bank (TCB) e HonorBank - il compito di ridefinire la loro presenza legale, dando vita ad un nuovo istituto finanziario destinato ad operare da Minsk senza essere condizionato da alcun legame diretto con l'Iran. Entrambe le banche in questione sono colpite dalle sanzioni internazionali ed hanno in totale tre filiali in Bielorussia: la Tajerat Bank appartiene alla TCB mentre la Saderat Iran e la Refah Kargaran dipendono dalla Honorbank. L'intenzione è di cambiare nome a questi tre istituti finanziari, registrarli in Bielorussia sotto nuovo nome sfruttando le carenze di un sistema normativo non troppo fiscale e dunque adoperarli per gestire transazioni economiche internazionali altrimenti proibite.  Il piano passa attraverso l'avallo della Banca centrale iraniana. A quanto risulta, a fonti europee e non, il governo della Bielorussia non è al corrente di ciò che sta avvenendo nel suo sistema bancario e il ministro degli Esteri iraniano Ali Akbar Salehi, durante una recente visita a Minsk, non ha fatto riferimento al piano finanziario, preferendo sottolineare gli aspetti politici della convergenza bilaterale. In realtà Teheran ha fretta di portare a compimento la nuova registrazione delle proprie banche in Bielorussia per far fronte alla crescente carenza di liquidi dovuta all'efficacia delle sanzioni, varate dai maggiori Paesi industrializzati per ottenere il rispetto delle risoluzioni Onu che richiedono all'Iran di sospendere l'arricchimento dell'uranio. Si spiega così anche il fatto che in Russia la banca iraniana Melli ha scelto di operare attraverso la Mir Business Bank mentre in Venezuela è stata creata la banca "binazionale" capace di trasferire ingenti quantità di denaro fra i due Paesi alleati.

da - http://lastampa.it/2012/12/05/blogs/finestra-sull-america/teheran-banche-bielorusse-per-evadere-le-sanzioni-exKUPatXcJYCQR1RLnRb6J/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #85 inserito:: Gennaio 07, 2013, 07:13:27 pm »

Editoriali
07/01/2013

La pericolosa distrazione occidentale

Maurizio Molinari

L’ostinazione di Bashar Assad a difendere con le armi un regime in decomposizione e l’aggravamento delle condizioni di salute di Hugo Chavez trasformano Siria e Venezuela in micce di crisi internazionali di assai più vaste dimensioni, destinate a mettere a dura prova un Occidente ancora intento a sanare le ferite economiche.

 

Dal palco del Teatro dell’Opera di Damasco Assad ha difeso la sanguinosa repressione della rivolta popolare iniziata 21 mesi fa. 

 

Lo ha fatto ignorando le oltre 60 mila vittime e rifiutando ogni dialogo con le forze dell’opposizione, sebbene controllino gran parte di Aleppo, la seconda città della Siria, e perfino alcuni quartieri della periferia della stessa capitale. Gli osanna della folla dei fedelissimi al discorso del Raiss hanno aggiunto un tocco di macabro alla celebrazione di ciò che resta dell’onnipotente Baath. Luogo, simbologia e contenuti del discorso di Assad suggeriscono la determinazione a guidare le ultime truppe - ovvero la minoranza alawita che controlla oltre l’80 per cento degli apparati di sicurezza - in una guerra senza tregua contro i ribelli «marionette dell’Occidente». Forte dei rifornimenti militari di Teheran, della protezione diplomatica di Mosca e Pechino, e degli arsenali chimici accumulati dagli Anni Settanta, Assad è convinto di poter resistere a tempo indeterminato all’assedio dei ribelli siriani e delle sanzioni internazionali. Anche al prezzo di ridurre la sua patria in un cumulo di macerie. Ciò comporta il rischio reale che la guerra civile in Siria inneschi un conflitto regionale, portando le nazioni arabe e la Turchia a intervenire a sostegno della rivolta e l’Iran a fare altrettanto per proteggere Assad. Come suggerisce Jeffrey White, ex analista di intelligence del Pentagono sul Medio Oriente, non si può escludere che proprio questo scenario da «Apocalisse regionale» sia il reale obiettivo di Bashar Assad, sperando di poterlo sfruttare per uscire dall’angolo in cui si trova.

 

Se la miccia siriana può infiammare il Medio Oriente, quella venezuelana può paralizzare il secondo produttore di greggio dell’Opec dopo l’Arabia Saudita. E in tempi assai più brevi perché nel caso in cui il 10 gennaio Hugo Chavez dovesse essere impossibilitato a prestare giuramento a causa della grave malattia che lo ha colpito, si verrà a creare un corto circuito istituzionale. I duellanti sono Diosdado Cabello, legittimato a sostituirlo in quanto presidente del Parlamento, e Nicolas Maduro, il vicepresidente che Chavez ha indicato come suo erede dall’ospedale di Cuba dove si trova in fin di vita. Lo scontro di potere fra i «Boligarchi» - sintesi fra gerarchi e bolivariani - è destinato ad anticipare l’eventuale nuova sfida elettorale con l’opposizione guidata da Henrique Capriles. Ecco perché Moses Naim, politologo della Fondazione Carnegie, prevede un dopo-Chavez segnato da «faide chaviste» fra gruppi di potere dotati di denaro e armi, suggerendo che il Venezuela possa diventare uno «Stato fallito» nel bel mezzo dell’emisfero occidentale, con conseguenze prevedibili sul prezzo del greggio. 

 

L’entità dei rischi portati dall’autunno degli autocrati di Damasco e Caracas pone la più difficile delle sfide ad un Occidente che, negli Stati Uniti come in Europa, è ancora alle prese con la crisi economica e finanziaria, sperando che il 2013 possa essere l’anno del rilancio della crescita. La distrazione delle democrazie è pericolosa perché dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ogni volta che una dittatura è implosa o è stata abbattuta, è stato l’Occidente a compiere un passo avanti, contribuendo alla ricostruzione. A volte cogliendo successi importanti, come nella Germania post-nazista e nella Polonia post-comunista, altre andando incontro a scivoloni e contraddizioni, come nella Libia del dopo-Gheddafi o nell’Egitto del dopo-Mubarak, ma comunque aiutando a superare la fase del dispotismo. Se le democrazie, paralizzate dai timori di una nuova recessione, dovessero scegliere la passività davanti agli sconvolgimenti in atto in Siria e Venezuela il risultato sarebbe un domino di instabilità internazionale destinato a moltiplicare il caos oppure a giovare agli interessi delle grandi potenze rivali: la Russia in cerca di riscatti strategici e la Cina bisognosa di materie prime.

da - http://lastampa.it/2013/01/07/cultura/opinioni/editoriali/la-pericolosa-distrazione-occidentale-K8qwCQyE99XLu2CHsqgJ7O/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #86 inserito:: Gennaio 18, 2013, 11:49:22 pm »

Esteri
18/01/2013

“Fretta e poca intelligence Un blitz destinato al flop”

Gli analisti americani concordi: forze speciali inadeguate

Maurizio Molinari
corrispondente da New York


«Hanno pensato al petrolio, non a salvare i sequestrati». Davanti alla strage di ostaggi nel deserto del Sahara, Michael Scheuer, parla di errori dell’esercito algerino. 

L’ex ex capo dell’unità della Cia che diede la caccia a Osama bin Laden parla di errori «causati dall’eccesso di velocità dovuta alla fretta». Perché «per l’Algeria contava più eliminare subito ogni minaccia nei confronti dell’industria energetica che non salvare le vite di ostaggi occidentali». 

 

È una lettura che porta Jeffrey White, ex analista di intelligence del Pentagono, a enumerare «cosa può andare male in operazioni di questo tipo». «Anzitutto servono informazioni di intelligence minuziose su dove si trovano edifici, porte e guardie, e per raccoglierle serve tempo, pazienza e tanto lavoro», spiega, sottolineando che «in questo caso gli algerini hanno attaccato neanche 24 ore dopo il sequestro di massa e non potevano avere tutte le informazioni necessarie». Ma anche quanto tutto appare perfetto, qualcosa può andare storto, «come avvenuto alle teste di cuoio francesi nel blitz in Somalia di pochi giorni fa», osserva Scheuer. Da qui la necessità di «disporre di truppe ben addestrate», sottolinea White. «Il disastroso intervento della polizia tedesca alle Olimpiadi di Monaco del 1972 come le stragi di ostaggi causate da un paio di blitz egiziani negli Anni Settanta e Ottanta - ricorda White - si dovettero al fatto di non disporre di unità specializzare nel soccorso di ostaggi e l’esercito algerino ha dimostrato di avere oggi la stessa debolezza». Il fallimento più lampante di una «rescue operation» americana fu quello avvenuto nel deserto iraniano nell’aprile del 1980, quando un incidente fra elicotteri impedì alla Delta Force di tentare la liberazione degli ostaggi detenuti nell’ambasciata a Teheran. Larry Korb, ex vicecapo del Pentagono nell’amministrazione Reagan che si insediò dopo Carter, ricorda quell’episodio come «un evento che può drammaticamente avvenire, perché a ben vedere anche nel blitz di Abbottabad del 2011 in cui abbiamo ucciso Osama Bin Laden abbiamo perso un elicottero», ma la differenza sta «nella gestione dell’imprevisto negativo». «Sta a chi comanda l’operazione apportare in tempo istantaneo i cambiamenti necessari per evitare che al male segua il peggio», osserva Korb, secondo il quale i generali algerini «si sono curati poco delle conseguenze politiche perché, a differenza di quanto avvenne per Jimmy Carter, non devono rispondere ad un’opinione pubblica per gli errori commessi e le vite umane perdute». 

 

Fretta di agire, preparazione carente delle truppe e intelligence insufficiente sono i fattori che Korb, Scheuer e White concordano nel definire «complementari per un fallimento sanguinoso» come quello avvenuto nel tentativo di liberare gli ostaggi nell’impianto petrolifero dell’Algeria meridionale. Ma Scheuer, veterano della guerra clandestina in Medio Oriente, aggiunge un altro dettaglio: «Se guardiamo bene a cosa è avvenuto ad In Amenas, ci accorgiamo che i jihadisti hanno separato i dipendenti algerini da quelli stranieri, di fatto mettendoli al sicuro». Si tratta di un «cambiamento netto nella strategia di Al Qaeda rispetto a quanto faceva in Iraq Abu Musab al Zarqawi, massacrando i musulmani senza alcuna remora», e ciò significa, a suo avviso, che «le cellule jihadiste nel Sahara» hanno «mutato approccio», evitando vittime musulmane «nel tentativo di riguadagnare popolarità» per una guerra finora disseminata di sconfitte.

da - http://lastampa.it/2013/01/18/esteri/fretta-e-poca-intelligence-un-blitz-destinato-al-flop-vSmykhOv7wxhNAjl8G4giK/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #87 inserito:: Gennaio 21, 2013, 07:52:44 pm »

Politica
21/01/2013 - IL CASO

Il Pd in missione negli Stati Uniti rassicura Obama su economia e Monti

Il responsabile Esteri del Pd Lapo Pistelli negli Stati Uniti

«Il premier un nostro concorrente ma faremo un governo di coalizione anche se avremo noi il 51% al Senato»

Maurizio Molinari
inviato a washington

Invitata a partecipare all’Inauguration, una delegazione del Pd è impegnata in una maratona di 72 ore di incontri con amministrazione Obama, partito democratico, Congresso e centri studi per illustrare l’agenda del governo italiano guidato da Pierluigi Bersani che potrebbe uscire dalle urne.

È Lapo Pistelli, responsabile Esteri del Pd, che in una pausa dei colloqui, fra Dipartimento di Stato e governatori democratici, descrive la cornice della missione a tappe forzate: «Gli americani conoscono bene i numeri, sanno che fra poco più di un mese saremo noi al governo e siamo qui per spiegargli cosa abbiamo in mente di fare». 

Philip Gordon, vice di Hillary Clinton per l’Europa al Dipartimento di Stato, ha posto l’interrogativo sul futuro delle riforme del governo Monti e la risposta di Pistelli è stata duplice. Primo: «Le riforme sono state possibili grazie ai nostri contributi e voti in Parlamento» e dunque il Pd se ne sente titolare tanto quanto il premier uscente. Secondo: «L’Italia tocca il pareggio di bilancio, è il secondo Paese per avanzo primario e dunque è il momento di impegnarsi per la crescita, che ci sarà nel 2014». Agli interrogativi degli interlocutori americani sulla sorte politica di Monti, con cui l’amministrazione Obama ha avuto un rapporto stretto, Pistelli ha assicurato che «faremo un governo di coalizione anche se avremo il 51 per cento al Senato» e dunque vi sarà spazio per un’intesa con il premier uscente «sebbene la sua scelta di guidare una lista elettorale ne ha fatto un nostro concorrente». Il Pd non ritiene però di aver bisogno di Monti in termini di credibilità economica: «Bersani è stato governatore dell’Emilia Romagna e ha firmato le privatizzazioni nel governo Prodi dimostrando nei fatti quale modello economico persegue». 

Poiché l’ipotesi di un viaggio di Bersani a Washington prima delle elezioni si scontra con i tempi stretti e l’incrocio dei calendari istituzionali nelle due capitali, la visita della delegazione del Pd attira forte interesse. I consiglieri di politica estera di Nancy Pelosi, Harry Reid e John Kerry - i leader democratici al Congresso - hanno voluto un approfondimento sulle posizioni del Pd sull’Europa e Pistelli ha spiegato la coincidenza fra «sostegno al rafforzamento dell’unione monetaria e impegno per la crescita» che è poi anche l’auspicio
dell’amministrazione Obama. Da qui lo scenario, di cui ha parlato al «Center for American Progress» Luca Bader, veterano dei rapporti fra Pd e democratici Usa, sulla possibile genesi di un’«agenda comune» fra amministrazione Obama, presidenza Hollande e futuro governo Bersani «perché è la prima volta dalla fine degli anni Novanta che ci sarà una coincidenza di tempi fra i governi progressisti a Washington, Parigi e Roma». Sulla base dei colloqui alla Brookings Institution, alla John Hopkins, alla Fondazione Carnegie, al Congresso e con i governatori, Pistelli individua i «punti di convergenza» fra Obama, Hollande e Bersani in «crescita economica, immigrazione e energia». Sul fronte della politica estera Gordon ha espresso l’auspicio di un’Europa sempre più «partner globale degli Stati Uniti» nelle aree di crisi e Pistelli si è detto a favore di un «maggior impegno dell’Ue a sostegno delle primavere arabe» oltre a concordare sulla necessità che l’Iran non abbia l’arma atomica. «L’amicizia transatlantica è una dato solido - sottolinea Pistelli, che accompagnò Bersani a Washington e New York nel 2010 - e questi incontri servono a definire un cammino comune». In tale cornice Gordon ha espresso l’auspicio per un maggior impegno dell’Italia a favore delle riforme in Russia ovvero un superamento dello stretto legame Berlusconi-Putin mai digerito da Washington. A dispetto di un’agenda mozzafiato, Pistelli e Bader hanno trovato il tempo per partecipare anche all’assegnazione del «Premio Machiavelli» a Jim Messina, l’architetto della rielezione di Barack Obama.

da - http://lastampa.it/2013/01/21/italia/politica/missione-negli-usa-il-pd-rassicura-obama-su-monti-e-economia-jiMEOGyoVAYn9PhS843hmN/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #88 inserito:: Gennaio 24, 2013, 05:30:26 pm »

Editoriali
23/01/2013

Il rischio di maggioranze precarie

Maurizio Molinari


Le elezioni per la XIX Knesset scongelano la politica israeliana, rendono possibili più maggioranze, fanno emergere nuovi leader e aggiungono l’incognita di quale sarà il nuovo governo di Gerusalemme in un Medio Oriente già in profonda trasformazione. 

 

Il premier uscente, Benjamin Netanyahu, cercava una forte affermazione del suo Likud e per raggiungerla aveva puntato sulla fusione con l’alleato «Israel Beyteinu» di Avigdor Lieberman ma l’alta affluenza alle urne ha generato tutt’altro scenario: deve accontentarsi di una maggioranza relativa di seggi assai modesta che lo obbliga a intraprendere difficili negoziati per raggiungere l’obiettivo dei 61 seggi che implicano la maggioranza. 

 

Ad evidenziare tale difficoltà è il testa a testa notturno fra il blocco della destra e quello composto da sinistra e partiti arabi per decidere chi avrà, nel complesso, più seggi.

 

Se Netanyahu deve fare i conti con un risultato ben al di sotto delle attese, i tre nuovi leader della Knesset sono personaggi ancora poco noti in Occidente dei quali sentiremo parlare molto nelle prossime settimane, le cui posizioni innovano le tradizionali identità di destra, centro e sinistra in Israele. A destra, l’imprenditore dell’hi-tech e veterano delle truppe speciali Naftali Bennett, figlio di immigrati californiani, è divenuto con il suo «Ha Bayt Ha-Yehudì» interprete di una destra giovane, religiosa e anche laica favorevole all’estensione degli insediamenti in Giudea e Samaria, senza remore nel dirsi contraria alla soluzione del conflitto israelo-palestinese con la creazione dei due Stati. Al centro l’ex giornalista Tommy Lapid, che nell’esercito fece il meccanico, è stato capace con l’«Yair» di dare voce all’animo laico di una nazione che si oppone alla crescente influenza dei partiti ortodossi creando dal nulla il secondo partito. A sinistra Shelly Yachimovich, la giovane e combattiva leader dei laburisti, è stata protagonista di una campagna elettorale all’insegna della richiesta di un Welfare State più robusto in una nazione dove il pil cresce al ritmo del 2,5 per cento l’anno, lasciando in secondo piano il tradizionale impegno del partito a favore della pace con i palestinesi. Sulla carta tutto può avvenire: Netanyahu può guidare un governo delle destre oppure di coalizione così come può scivolare sulle delicate trattative che iniziano.

 

Di certo sarà obbligato a fare concessioni, prendendo atto che lo Stato Ebraico, a oltre 64 anni dalla fondazione, è una democrazia talmente vivace da continuare a rimettere in discussione e reinventare le proprie forze politiche. Ed è interessante notare il parallelo fra quanto avviene in Israele e nella maggioranza dei Paesi arabi che la circondano: tanto l’una che gli altri sono in profonda trasformazione, anche se in un caso grazie alle elezioni e negli altri passando per guerre civili e colpi di Stato.

 

La conseguenza per il presidente americano Barack Obama, intenzionato a sfruttare il secondo mandato per arrivare alla composizione del contenzioso israelo-palestinese, è di avere un’incognita in più sulla mappa del Medio Oriente. Per la Casa Bianca l’aspetto positivo di tale scenario è l’indebolimento di un premier come Netanyahu nel quale non nutre fiducia ma ce n’è anche uno negativo perché i governi israeliani retti da maggioranze precarie hanno più difficoltà a compiere sacrifici negoziali. Non si può tuttavia escludere che proprio lo scongelamento degli equilibri politici a Gerusalemme spinga Obama ad accelerare la visita in Israele. Per comprendere da vicino quali opportunità si aprono.

 
da - http://lastampa.it/2013/01/23/cultura/opinioni/editoriali/il-rischio-di-maggioranze-precarie-vRPRkep83nZ9WBuzbUQ46J/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #89 inserito:: Febbraio 14, 2013, 05:34:21 pm »

13/02/2013

Obama: salari più alti e riforme per far ripartire l’America


Nello Stato dell’Unione il presidente americano spiega come un “governo non più grande ma più intelligente” può favorire rilancio della classe media.

Immigrazione, clima e armi da fuoco in cima all’agenda.

E annuncia il negoziato con l’Unione Europea per creare un’area di libero scambio

Maurizio Molinari

Aumento del salario minimo e investimenti pubblici nelle infrastrutture come nell’educazione per sconfiggere la povertà e risollevare la classe media: Barack Obama dedica il discorso sullo Stato dell’Unione ad illustrare in che maniera un governo federale “più intelligente” può aiutare ed accelerare la ricostruzione dell’America. 

 

Aumento del salario minimo. 

Dopo aver dedicato il discorso dell’Inauguration Day a sottolineare i valori liberal in cui crede, il 44° presidente degli Stati Uniti davanti al Congresso di Washington riunito in seduta congiunta li declina in una raffica di iniziative politiche. L’intento è “assicurare che il governo lavori a favore dei tanti e non dei pochi” e il passaggio a cui dedica maggiore enfasi è l’”aumento del salario minimo a 9 dollari l’ora” rispetto agli attuali 7,25, “entro il 2015” perché “nella più ricca nazione della Terra nessun lavoratore a tempo pieno deve essere obbligato a vivere in povertà”. “Questo singolo passo può aumentare le entrate di milioni di famiglie - sottolinea - facendo la differenza fra buoni alimentari e negozi, sfratti e affitti, stenti e ripartenze”. Obama crede anche nell’azione del governo per aumentare gli investimenti nell’educazione e per finanziare un piano di ricostruzione delle infrastrutture che inizi dai 70 mila ponti che hanno bisogno di riparazioni, per continuare poi con autostrade e ferrovie. 

 

L’impegno anti-deficit. 

All’opposizione repubblicana promette che tali iniziative saranno possibili “senza l’aumento del deficit neanche di un centesimo” perché i fondi necessari potranno essere trovati attraverso “la riforma del sistema fiscale” e “una riduzione dei costi del Medicare” che pesano sempre di più sulla Sanità a causa dell’invecchiamento della popolazione.

 

Immigrazione e clima. 

Obama ripete l’impegno a “realizzare ora” la riforma dell’immigrazione basata su “più protezione alle frontiere, percorso verso la cittadinanza per i clandestini e più opportunità per gli immigrati legali” chiedendo al Congresso di “mandarmi il testo nei prossimi mesi e lo firmerò”. Sul fronte dei cambiamenti climatici, Obama promette maggiore efficienza delle vetture e il raddoppio dell’energia rinnovabile grazie a investimenti pubblici frutto dei proventi dovuti alla maggiore produzione di greggio e gas. Ma evita di far riferimento alla riduzione delle emissioni nocive nell’atmosfera. “Non abbiamo bisogno di un governo più grande ma di un governo più intelligente nello stabilire le priorità su dove investire per la crescita” sottolinea, facendo capire di voler evitare battaglie impossibili da vincere.

 

La politica estera. 

Ai temi di politica internazionale è dedicata gran parte della seconda parte del discorso. Spicca l’annuncio dell’inizio di negoziati con l’Unione Europea per creare un’area di libero scambio transatlantica “capace di creare milioni di posti di lavoro” sul modello delle trattative già aperte con i Paesi del Pacifico. Poi c’è l’impegno a “prevenire il possesso dell’arma atomica da parte dell’Iran”, a “sostenere fermamente Israele nel perseguire una pace duratura in Medio Oriente” e nell’essere a fianco di chi si batte “per diritti universali e libertà” nel mondo, a cominciare dalla “gente della Siria”.

 

Fine della guerra in Afghanistan. 

“Al termine del prossimo anno la guerra in Afghanistan sarà finita” annuncia Obama, indicando nel ritiro di 34 mila soldati un passo decisivo in questa direzione, unito alla rinnovata determinazione a “combattere contro ciò che resta di Al Qaeda, che oggi è l’ombra di ciò che era l’11 settembre”. La caccia ai terroristi, promette Obama al Congresso, comunque continuerà “nel rispetto delle leggi”, tentando così di allontanare i sospetti di incostituzionalità da uso dei droni e “Kill List”. 

 

Non cita la Cina. 

Obama si impegna a perseguire con Mosca un’ulteriore riduzione delle armi nucleari mentre la priorità sulla sicurezza è quella cibernetica per proteggere l’America da “quelle nazioni straniere che tentano in continuazione di rubare i nostri segreti”. Chi ascolta sa che Obama si sta riferendo alla Cina ma lui sceglie di non nominarla. Come non fa riferimento al test nucleare della Nord Corea avvenuto poche ore prima.

L’importanza di essere cittadini. Il finale è su due temi che hanno a che vedere con la “cittadinanza” ovvero l’essenza dell’identità americana tesa a migliorare la nazione. Il primo è l’impegno a ridurre la violenza con le armi da fuoco, che Obama sottolinea con un richiamo alle vittime delle ultime stragi, inclusa la majorette Hadyia uccisa nella sua Chicago “a meno di un miglio dalla mia casa”, chiedendo al Congresso di “votare le leggi in discussione”. L’altro tema è “il sistema di voto da perfezionare”: una ferita nazionale aperta che Obama sottolinea ricordando “le persone in fila 6 o 7 ore” durante le ultime elezioni come l’anziana Desiline Victor,102 anni di età, presente nell’aula di Capitol Hill e travolta dagli applausi.

 

80 applausi in 60 minuti. 

Il discorso dura un’ora esatta ed è il più denso di contenuti da quando Obama nel 2009 si insediò alla Casa Bianca. I reporter contano 80 fra applausi e standing ovation anche se a spiccare è la decisione del presidente repubblicano della Camera, John Boehner, di non alzarsi quando Obama chiede sostegno alle leggi contro le armi da fuoco.

 

Marco Rubio, la gaffe dell’acqua. 

La risposta repubblicana a Obama è affidata al senatore della Florida, possibile candidato nel 2016. E’ efficace quando accusa Obama di “ridurre tutto ad un governo che tassa di più, spende di più e si indebita di più” così come la scelta di registrare un testo solo in spagnolo - per le tv ispaniche - è destinata ad aumentarne la popolarità. Ma poi scivola su una gaffe: mentre parla in diretta si china su un lato, al fine di prendere una bottiglietta d’acqua minerale bevendone alcuni sorsi, con il risultato di sparire quasi del tutto dal video per pochi, ma interminabili, secondi. Che diventano subito un tormentone sul web sulla “sete di Rubio”.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/13/blogs/finestra-sull-america/obama-salari-piu-alti-e-riforme-per-far-ripartire-l-america-xomVUFyBlpIteZ5UxtQl6K/pagina.html
Registrato
Pagine: 1 ... 4 5 [6] 7 8 9
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!