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Autore Discussione: MAURIZIO MOLINARI  (Letto 76524 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Marzo 21, 2011, 05:40:49 pm »

21/3/2011 - LIBIA. L'ATTACCO AL REGIME

Un nuovo Kosovo per Obama

La dottrina del Presidente ricalca l'intervento del 1999.

L'America non vuole rovesciare Gheddafi

Maurizio MOLINARI
INVIATO A RIO DE JANEIRO

La gestione dell’attacco alla Libia dalla «war room» che accompagna ovunque il Presidente degli Stati Uniti mette in luce l’affermarsi di una dottrina Obama sull’intervento umanitario come anche le impreviste difficoltà che l’amministrazione di Washington sta incontrando nel trovare alleati per metterla in atto, a cominciare dalla brusca marcia indietro della Lega Araba. A disegnare i quattro pilastri dell’approccio della Casa Bianca a «Odyssey Dawn» sono le parole del Presidente: pronunciate durante i briefing di venerdì a bordo dell’Air Force One in volo sulle Americhe, nel messaggio alla nazione letto sabato da Brasilia e ripetute nella «war room» creata ieri in una zona protetta di Rio de Janeiro. Nelle dettagliate disposizioni che dà al generale Carter Ham sull’attacco aeronavale come in quelle che recapita al segretario di Stato Clinton sulla necessità di sostenere una solida coalizione, Obama mette l’accento su termini e principi che si ripetono con insistenza.

Ecco quali sono. Primo: l’ordine dato al Pentagono è di condurre un’«operazione limitata» con l’impiego di forze aeronavali ma senza il ricorso a truppe terrestri, richiamandosi così ai precedenti degli interventi militari di Bill Clinton in Bosnia e Kosovo negli Anni Novanta. Secondo: gli Usa «partecipano» a una coalizione «che non guidano» e quindi il distacco netto è da quanto fatto da tutti i predecessori dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, a conferma che la sua idea di leadership americana nel mondo è quella che declinò nel corso del primo viaggio in Europa nel 2009, quando parlò di «impegno per aiutare il mondo a trovare le soluzioni migliori ai problemi comuni». Terzo: l’intervento militare punta a «proteggere civili» e non a «rovesciare un regime», dunque più in sintonia con le guerre di Clinton in Bosnia e Kosovo che non con quelle di George W. Bush in Afghanistan e Iraq. Quarto: «la solida legittimazione internazionale» che proviene dalla risoluzione dell’Onu 1973, più esplicita nel prevedere il ricorso alla forza rispetto a quelle a cui la Nato si richiamò per il Kosovo, per non parlare dell’Iraq di Bush, quando l’Onu si divise.

Ciò che tiene assieme questi quattro pilastri è la convinzione del Presidente americano, espressa nel discorso pronunciato ieri nel Teatro Municipale di Rio de Janeiro, che riflettano i «principi comuni delle nostre nazioni», ovvero «credere nel potere e nella promessa della democrazia» come «forma migliore per promuovere la crescita e la prosperità di ogni essere umano». Ma il problema con cui la Casa Bianca si sta scontrando in queste ore è che la dottrina di Obama deve fare i conti con le difficoltà di una coalizione che stenta a nascere. Il caso più evidente è quello della Lega Araba che dopo aver appoggiato la no fly zone nel vertice di sabato scorso, nelle ultime 24 ore con il segretario Amr Moussa ha fatto marcia indietro affermando che «l’attacco è andato oltre i nostri obiettivi perché noi volevamo proteggere i civili, non ucciderli». E tale capovolgimento di posizione spiega come fra i 22 Stati membri solo il Qatar abbia accettato di partecipare all’attacco. Sebbene Obama abbia chiamato lo sceicco degli Emirati Arabi e Joe Biden abbia fatto lo stesso con i leader di Algeria e Kuwait, non sono arrivati altri assensi. L’Unione Africana è ancora più ostile alla guerra e con un comunicato diramato da Nouakchott, in Mauritania, chiede «l’immediata fine di tutti gli attacchi alla Libia» limitandosi a domandare a Gheddafi di far arrivare «aiuti umanitari a chi ne ha bisogno». Senza un consistente numero di alleati arabi e africani la coalizione rischia di assomigliare troppo alla Nato, anche perché le potenze economiche emergenti - Brasile, India, Indonesia e Turchia - hanno fatto capire che preferiscono restare alla finestra. La Russia fra l’altro chiede la «fine degli attacchi contro gli obiettivi non militari», mentre la Cina con il proprio ministro degli Esteri Yang Jiechi esprime un «rammarico» che punta a raccogliere consensi in Africa e Sud America, dove i suoi investimenti già rivaleggiano a testa alta con quelli americani.

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« Risposta #46 inserito:: Marzo 26, 2011, 12:07:42 pm »

26/3/2011

A Damasco la svolta di Obama

MAURIZIO MOLINARI

Barack Obama apre il fronte siriano dell’impegno per «il rispetto dei diritti universali» nel mondo arabo, sostenendo il domino delle rivolte fino alle porte dell’Iran degli ayatollah.

Mentre le cancellerie di mezzo mondo erano intente a scrutare i corridoi di Bruxelles attendendo la composizione dei dissidi atlantici sul passaggio del comando di Odyssey Dawn dal Pentagono alla Nato, Obama ha pianificato dallo Studio Ovale tutt’altra partita, spostando il focus su Damasco. Nell’arco di 24 ore Robert Gates ha chiesto ai militari siriani di «farsi da parte» per «rendere possibile una rivoluzione», richiamandosi al precedente egiziano, e la Casa Bianca ha accusato le «forze di sicurezza» di Bashar Assad di una «brutale repressione» simile a quella di Muammar Gheddafi in Libia. Forse preavvertita sull’entità delle sommosse in Siria da un’intelligence in affannosa ricerca di riscatti dopo i passi falsi in Maghreb, l’amministrazione Obama compie in fretta le sue mosse lasciando intendere che il tassello di Damasco vale molto nel mosaico della primavera araba.

Per tre motivi.
Primo: se finora le rivolte hanno investito il Nord Africa e la Penisola Arabica, ora arrivano nel cuore dell’asse Iran-Siria-Libano, avversario strategico di Washington tanto sul nucleare di Teheran che sulla pace in Medio Oriente.

Secondo: se Ben Ali, Mubarak e Gheddafi assieme ai leader di Yemen e Bahrein rappresentano autocrazie e regimi appesantiti da decadi di illibertà, Bashar Assad è invece uno dei governanti più giovani e da meno tempo al potere, ma le sue timide promesse di riforme non sembrano più sufficienti a placare le piazze, lasciando intendere che anche la Giordania di re Abdallah e il Marocco di Mohamed VI potrebbero essere a rischio.

Terzo: se i generali siriani dovessero seguire l’esempio dei colleghi egiziani nel non difendere un regime delegittimato, il ruolo delle forze armate nel consentire le rivoluzioni diventerebbe una costante regionale, proprio come avvenne in America Latina e in Estremo Oriente negli Anni Ottanta.

Ma non è tutto, perché le rivolte arabe hanno riflessi anche negli equilibri a Washington, dove in questa fase sembra essere in ascesa il ruolo di Robert Gates. Il capo del Pentagono ha tentato di evitare la «no fly zone» sulla Libia e non vede l’ora di passare la mano alla Nato con la stessa determinazione con cui affonda i colpi sulla Siria di Assad. In entrambe le occasioni la convergenza con Obama è stata evidente, relegando in secondo piano il segretario di Stato Hillary Clinton, per non parlare del consigliere per la sicurezza Tom Donilon, quasi assente. L’intesa nel segno del pragmatismo fra l’ex capo della Cia di Bush padre e il Presidente democratico segna le scelte
dell’America. Anche perché spostando il fronte arabo da Tripoli a Damasco Gates aiuta Obama sue due fronti: contribuendo a rompere l’assedio del Congresso alla Casa Bianca sulla gestione di Odyssey Dawn e rilanciando in avanti la dottrina di Barack sulle rivoluzioni non violente uscita vincente da piazza Tahrir.

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« Risposta #47 inserito:: Maggio 22, 2011, 10:26:21 am »

21/5/2011 - Intervista

“Se vuole la guida del Fmi l'Ue deve guadagnarsela”

Maurizio MOLINARI


Sadun, l'italiano del Fondo: “Non ci sono diritti acquisiti, la poltrona al migliore”
Per l’Europa la guida del Fmi non è un diritto acquisito, deve conquistarsela con il candidato migliore». A sostenerlo è Arrigo Sadun, direttore esecutivo italiano del Fmi, secondo cui il processo di designazione del successore di Dominique Strauss Kahn sarà «assai più articolato» rispetto al passato.

Quali sono le novità?

«Sarà una selezione aperta, senza preclusioni geografiche e trasparente perché verranno resi noti i criteri in base ai quali un candidato ha prevalso».

Quali qualità il Fmi cerca?

«Una esperienza di alto livello nella formulazione e gestione di politiche macroeconomiche, capacità manageriali di vasti organismi, doti diplomatiche e di anche comunicazione».

Barroso chiede la nomina di un europeo ma India e Cina rivendicano il posto. Sarà scontro?

«Non scontro ma competizione, che è l’obiettivo di un processo di selezione aperto. In realtà il presidente della Commissione Europea Barroso non rivendica un diritto esclusivo degli europei, bensì auspica la presentazione da parte dell’Ue del “candidato migliore”. E i rappresentanti delle economie emergenti vogliono che sia rispettato il principio che un loro candidato deve essere considerato».

L’Ue ha il “candidato migliore”?

«Credo di sì, tra i nomi circolati figurano il ministro delle Finanze francese Christine Lagarde e Jean-Claude Trichet, presidente uscente della Bce. E ve ne potrebbero esseri altri. Per portare un europeo alla guida del Fmi l’Europa deve esprimere un candidato unitario con le caratteristiche necessarie».

Che peso hanno le sfide che arrivano dai Paesi emergenti?

«I paesi emergenti sono in grado di proporre candidati ottimi. Nel passato però le loro possibilità di successo sono state compromesse dal fatto di essersi divisi e anche ora hanno numerosi candidati. Il Messico ne avrebbe addirittura due credibili. Oltre ai nomi di candidati di Sudafrica, India e Turchia».

Qual è il ruolo dell’Italia?

«Lavorando in concerto con i partner europei, l’Italia deve contribuire a selezionare un candidato unitario che abbia forti probabilità di essere accettato anche dai non europei. C’è un interesse generale di arrivare alla sostituzione di StraussKahn nel più breve tempo possibile e ciò giova ad una candidatura europea».

Quale è la missione che attende il successore di Strauss-Kahn?

«Strauss-Kah ha riposizionato il Fmi in sintonia con le nuove realtà dell’economia globale, riconoscendo l’accresciuto ruolo dei Paesi emergenti. Tutto ciò deve essere preservato ad ogni costo».

Non crede che il nuovo capo del Fmi avrà soprattutto il grattacapo dell’euro?

«Sembra proprio di sì, purtroppo la crisi del debito sovrano in alcuni Paesi periferici pare destinata a perdurare ed è una situazione che richiede stretta collaborazione tra autorità nazionali, istituzioni europee e Fmi. Proprio tali considerazioni suggeriscono la necessità di un europeo alla guida del Fmi».

Cina e India obiettano che non può essere un europeo a occuparsi della crisi dell’euro...

«Non sono d’accordo. L’idea che sia più appropriata una “medicina cinese o indiana a curare le malattie dell’Europa” mi sembra bizzarra. L’esperienza della crisi asiatica è largamente irrilevante alle condizioni degli europei, basti pensare che all’epoca la soluzione della crisi avvenne grazie a massicce svalutazioni valutarie, cosa impossibile per i Paesi dell’euro. Inoltre, vi sono fondamentali differenze tra le potenziali ripercussioni di una crisi di un Paese emergente e quelle che potrebbero essere scatenate anche da Paesi come Grecia e Portogallo. Infine, la struttura economica degli emergenti è diversa da quella di un Paese europeo dove la rete di protezione sociale è più estesa e costosa. Un non-europeo avrebbe bisogno di tempo per acquisire tale know-how e la comunità internazionale non può permettersi un lungo tirocinio per il capo del Fmi».

Solo un europeo può consentire al Fmi di aiutare l’Europa?

«Non necessariamente solo un europeo, ma un candidato europeo con le caratteristiche giuste avrebbe enormi vantaggi. Inoltre, occorre tener conto anche alcune sensibilità degli europei. Gli interventi congiunti del Fmi e delle istituzioni europee sono avvenuti sulla base di contributi per 2/3 da parte europea e 1/3 dal Fondo, e circa 1/3 delle risorse del Fondo sono di origine europea».

Che aria si respira al Fmi dopo lo scandalo di Strauss-Kahn?

«Ha avuto un impatto sul morale dello staff ma il Fondo è in grado di svolgere i suoi compiti in attesa del nuovo capo».

Cos’è che più fa male al Fondo nella vicenda Strauss-Kahn?

«L’accusa di certi ambienti che il Fmi è un bastione di machismo o sessismo, e che nel passato alcuni atteggiamenti inappropriati sono stati tollerati. Non credo che questa caratterizzazione sia sostenuta dai fatti, ma l’insinuazione fa male».

Come respingere tali sospetti?

«C’è una fortunata circostanza perché uno dei possibili candidati alla successione è una donna, Christine Lagarde. Sarebbe la prima volta di una donna alla guida di un’importante istituzione finanziaria internazionale e una tale scelta sarebbe un passo avanti per assicurare al Fondo una maggiore diversità».

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« Risposta #48 inserito:: Giugno 26, 2011, 11:10:55 am »

26/6/2011

Il pressing su Obama

MAURIZIO MOLINARI

Lo Stato di New York legalizza le nozze gay sfidando i conservatori e facendo capire alla Casa Bianca che è questo il terreno sul quale i liberal giudicheranno Barack Obama nella campagna elettorale del 2012. Con 33 voti a favore e 29 contrari il Senato di Albany ha approvato la proposta del governatore Andrew Cuomo che trasforma New York nel sesto Stato dell’Unione dove gay, lesbiche e transgender posso essere legalmente uniti in matrimonio. Ma rispetto alle altre roccaforti dei diritti gay, New York ha in più un peso politico - dovuto alla demografia - ed economico - per il fatto di essere la cassaforte del partito democratico - destinato ad avere un impatto significativo sull’orientamento dell’elettorato liberal.

Ad avvalorare l’impressione che l’italoamericano Cuomo abbia voluto mandare un messaggio forte alla Casa Bianca c’è la scelta dei tempi di questa iniziativa: nel bel mezzo del mese che proprio il Presidente ha dedicato al rispetto dei diritti di «gay, lesbiche e transgender» nonché sulla scia di singole manifestazioni di dissenso, da Los Angeles a Fort Drum, che hanno visto Obama contestato da attivisti pro gay in eventi elettorali, a volte anche in maniera clamorosa. Per la Casa Bianca ciò significa trovarsi di fronte allo scenario di doversi schierare sulla questione di una delle dispute etiche che - assieme all’aborto più ripropongono le spaccature fra liberal e conservatori che Obama sin dalla campagna del 2008 ha detto di voler sanare e superare. Nel tentativo di rispondere alle richieste dei gruppi per la difesa dei diritti dei gay, il Presidente negli ultimi due anni e mezzo ha già compiuto numerosi passi: la repulsione della legge clintoniana sul «don’t ask don’t tell», che discriminava gli omosessuali e le lesbiche nelle forze armate, e la scelta di non difendere in tribunale la legge che limita il matrimonio all’unione fra un uomo e una donna, hanno lasciato intendere a quali valori Obama vuole dare più attenzione.

Ma se finora ha evitato di pronunciarsi apertamente a favore delle nozze gay è perché i sondaggi suggeriscono che fra gli afroamericani come fra gli ispanici - due minoranze di importanza per lui cruciale in vista delle presidenziali del 2012 - è un tema che divide più che unire. Spaccare i democratici su questo tema finirebbe per giovare agli sfidanti repubblicani. D’altra parte la Casa Bianca si trova nella necessità di mandare un chiaro messaggio allo zoccolo duro liberal del partito democratico, assai scontento per le scelte compiute dall’amministrazione su sicurezza nazionale, carcere di Guantanamo e soprattutto economia, a causa della mancata ripresa dell’occupazione. Da qui il bivio di fronte al quale si trova Barack Obama: raccogliere l’invito di New York a «fare qualcosa di sinistra» facendo propria la battaglia per la legalizzazione delle nozze gay avversate in 39 dei 50 Stati - per ravvivare l’entusiasmo della base democratica, oppure evitare di schierarsi apertamente per scongiurare il rischio di perdere sostegno fra le minoranze decisive per la conquista di Stati come la Florida e il New Mexico. La scelta che farà svelerà molto non solo riguardo ai valori del Presidente, ma anche sulle sue strategie elettorali.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8897&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #49 inserito:: Luglio 28, 2011, 06:05:15 pm »

28/7/2011 - IL CASO

Slitta la scadenza del 2 agosto

Ma è rissa tra i repubblicani

I Tea party contro Boehner: i suoi tagli non sono sufficienti

Maurizio MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Nel partito repubblicano scoppia la rissa sulla riduzione del deficit rendendo più difficile al Congresso un accordo bipartisan sul debito: la Casa Bianca corre ai ripari e, per guadagnare tempo prezioso, sposta il default oltre la prevista scadenza del 2 agosto grazie ad artifici finanziari.

Quanto sta avvenendo nei ranghi repubblicani è una vera e propria rivolta. A guidarla è il deputato dell’Ohio Jim Jordan, capo del Centro studi della Camera, che può contare su una pattuglia di 40 eletti grazie ai voti del Tea Party. La contestazione colpisce John Boehner, presidente della Camera e leader di punta del partito, perché il piano sulla riduzione del deficit che ha presentato «non garantisce i progressi necessari per rimettere in piedi la nazione» recita un comunicato del Tea Party Express. Il problema nasce dal fatto che il piano di Boehner sulla carta prevede mille miliardi di tagli alla spesa pubblica in 10 anni - come prima tranche di un processo in due fasi - ma l’esame dell’Ufficio bilancio del Congresso ha appurato che in realtà la riduzione che produrrà sarà di soli 850 miliardi. Per la pattuglia del Tea Party, che già considerava insufficiente i mille miliardi, si tratta della conferma che Boehner «è protagonista di negoziati infruttuosi con Obama» accusa Phil Gingrey della Georgia mentre Jeff Flake dell’Arizona sospetta che «non si vuole tagliare nulla». I protagonisti della sollevazione sono politici conservatori di ultima generazione e l’America in gran parte non li conosce ma Trey Gowdy della South Carolina assicura: «Non siamo uomini della caverne, vogliamo solo rispettare il mandato ricevuto dagli elettori di ridurre sul serio deficit e debito». A sostenere i ribelli ci sono centinaia di sezioni del Tea Party che in un memorandum affermano: «Chiunque voterà il piano di Boehner violerà l’impegno a risanare il bilancio».

Per Boehner è uno smacco che brucia, deve ingoiare il rinvio di 24 ore del voto in aula sul suo piano anti-default perché non ha voti a sufficienza. La reazione è brusca: «Mettete i vostri sederi in riga e sostenete il piano per evitare il default» tuona il presidente della Camera, ammettendo che «senza di voi non posso farcela».

La spaccatura fra i repubblicani gioca a favore dei democratici che al Senato sono invece concordi sul piano di Harry Reid, capo della maggioranza, per 2.700 miliardi di tagli in 10 anni senza aumenti di tasse che l’Ufficio bilancio del Congresso ha certificato a 2.200.

Ma l’ipotesi di un compromesso bipartisan resta lontana ed a cinque giorni dalla scadenza del 2 agosto - quando sarà raggiunto il tetto di indebitamento di 14.300 miliardi - il primo default della Storia americana si paventa come una minaccia sempre più incombente. Da qui la decisione dell’amministrazione Obama di guadagnare più tempo, facendo sapere a banche e istituzioni finanziarie che il ministero del Tesoro «ha in cassa più soldi del previsto» grazie a entrate fiscali finora sottovalutate e dunque il default sarebbe rinviato di alcuni giorni, forse una settimana, dando più tempo al Congresso per raggiungere un accordo.

Ma la somma fra peso del debito, incertezze sui tagli e debolezze politiche spinge un crescente numero di analisti finanziari a prevedere che pur evitando il default gli Stati Uniti finiranno per subire una riduzione del rating, perdendo l’ambita tripla A assegnata da Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. «L’opinione prevalente è che all’ultimora il Congresso aumenterà il tetto del debito spiega Guy LeBas, direttore di Janney Capital Markets - ma il taglio del rating diventa sempre più probabile». Il motivo è «la carenza di fiducia nell’economia americana» aggiunge Sean Incremone, economista di 4Cast, perché «il Pil cresce poco, la produzione industriale rallenta, la disoccupazione aumenta ed ora si aggiunge l’incertezza sul debito». Goldman Sachs va oltre, attribuendo alla rissa politica sul debito una «diminuzione della fiducia dei consumatori sproporzionata rispetto al rallentamento dell’economia». A pesare sulla contrazione dei consumi sarebbe dunque la sfiducia degli americani nella propria leadership politica.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2132
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« Risposta #50 inserito:: Agosto 04, 2011, 09:53:23 am »

4/8/2011 - OBAMA - IL SUCCESSO

Ha mantenuto l'impegno di tenere gli Usa uniti

MAURIZIO MOLINARI

Indebolito dai sondaggi, accusato di tradimento dai liberal e di debolezza dai conservatori, Barack Obama taglia il traguardo dei 50 anni restando fedele alla promessa fatta agli elettori quando nel 2007 lanciò la corsa alla Casa Bianca. Allora l’impegno fu a «unire la casa divisa» cercando di armonizzare le posizioni di liberal e conservatori, richiamandosi all’esempio di Lincoln sulla necessità di «governare con i nemici» per rilanciare il Paese.

Sulla sicurezza nazionale lo ha fatto grazie alla combinazione droni-intelligence-truppe speciali, declinando la guerra ai jihadisti ereditata da Bush nella formula militare che ha consentito di eliminare Bin Laden. Sull’economia ha dimostrato nell’appena conclusa battaglia sul debito di essere pronto a pesanti compromessi con i repubblicani pur di scongiurare catastrofe e recessione. Obama resta determinato a unire l’America, anche se potrebbe costargli la rielezione nel 2012.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9061
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« Risposta #51 inserito:: Agosto 22, 2011, 04:16:37 pm »

22/8/2011 - RETROSCENA

L'incubo del dopo-regime

Usa e Europa si sfilano "Da noi nessun soldato"

Dubbi sulla transizione: sarà nelle mani dei libici

MAURIZIO MOLINARI

Nessun invio di truppe di pace internazionali, mantenimento della sicurezza affidato alle forze ribelli e risoluzione dell’Onu sulla ricostruzione civile, che vedrà gli europei assumersi le maggiori responsabilità: è questa la «road map» per il dopo-Gheddafi in Libia come si delinea dai contatti in corso fra le capitali della Nato e nei briefing del presidente americano Barack Obama in vacanza a Martha’s Vineyard.

L’accelerazione dell’offensiva dei ribelli contro Tripoli ha stravolto le brevi vacanze di Obama nell’enclave dei vip, obbligandolo a separarsi a più riprese da moglie e figlie per esaminare, con il consigliere sui temi della sicurezza John Brennan, lo scenario che sta maturando.

Se le preoccupazioni immediate riguardano il rischio di una carneficina a Tripoli, con i persistenti tentativi americani di indurre Gheddafi a lasciare volontariamente il potere, nei contatti con gli alleati la Casa Bianca è impegnata a concordare lo scenario del «dopo».

La convergenza che trapela, da fonti americane ed europee, è sulla scelta di non inviare una missione di peacekeeping internazionale, affidando al Consiglio di transizione nazionale libico (Cnt) il mantenimento della sicurezza. «Obama resta fedele alla scelta di non mandare soldati in Libia e gli europei non hanno voglia di farlo per evitarne i costi economici» spiega Daniel Serwer, ex diplomatico americano a Roma nonché autore del recente studio «L’instabilità nella Libia del dopo-Gheddafi» del «Council on Foreign Relations».

D’altra parte il leader della coalizione dei ribelli, Mahmoud Jibril, negli incontri avuti in più capitali Nato si è vantato di «guidare una rivoluzione» che «sarà in grado di assumere la guida del Paese», portando come prova la «stabilità delle aree finora liberate». Il primo ministro ad interim, Mahmud El-Warfally, durante una tappa a Washington ha illustrato un «piano di transizione» che prevede la formazione di un governo transitorio «con la presenza di tutte le componenti dell’opposizione» per preparare le elezioni al Parlamento, affiancato da «tre commissioni su ricostruzione, riconciliazione e istituzioni».

Quella sulla «riconciliazione» si ispira al precedente sudafricano nel dopo-apartheid per «evitare vendette», ma nella Nato serpeggiano timori in proposito, come osserva il ministro degli Esteri canadese John Baird, mettendo le mani avanti: «La transizione non sarà perfetta». Al fine di aiutare i ribelli, la «road map» prevede l’invio a Tripoli subito dopo la caduta di Gheddafi di una «missione di monitoraggio» composta da Paesi arabi - e forse guidata dagli Emirati - destinata a testimoniare il sostegno della comunità internazionale al governo ad interim. Questo dovrebbe poi essere sancito da una risoluzione Onu sulla ricostruzione, che aprirà la strada ai contributi dei singoli Paesi.

A conferma di quanto tale scenario sia avanzato c’è il fatto che l’Italia ha già iniziato a operare per riattivare i settori destinati a essere di sua competenza: sicurezza dei porti, dogane, sanità e indipendenza dei media. La principale preoccupazioneresta tuttavia la sicurezza. Il generale canadese Vance ammonisce a «non accelerare il ritiro della Nato in assenza di una chiara composizione politica», mentre fonti militari britanniche temono di «andare incontro a una disastrosa vittoria», se la caduta di Gheddafi finirà per innescare una «resa dei conti tra le fazioni dei ribelli, a cominciare da berberi e cirenaici».

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2155&ID_sezione=58
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« Risposta #52 inserito:: Agosto 23, 2011, 10:07:24 am »

23/8/2011

Su Tripoli il fantasma di Saddam


MAURIZIO MOLINARI

L’arrivo dei ribelli libici sulla Piazza Verde di Tripoli premia la strategia della Nato contro il colonnello Muammar Gheddafi ma il rischio che in queste ore gli alleati temono di più è l’inizio di una faida fratricida fra vincitori e vinti che potrebbe travolgere la transizione prima ancora del suo inizio. Per i consiglieri del presidente americano Barack Obama come per i generali dell’Alleanza atlantica lo spettro è il ripetersi di quanto avvenne a Baghdad dopo la caduta di Saddam Hussein nell’aprile del 2003, allorché i vincitori considerarono tutti i baathisti sunniti come dei nemici, spingendoli nelle braccia della guerriglia islamica. Allora venne innescato un vortice di sanguinose violenze che in più occasioni ha rischiato di degenerare in guerra civile.

Anche in Libia può nascere un’alleanza fra lealisti sconfitti del deposto dittatore e islamici, in ragione della presenza di molti jihadisti veterani proprio dell’Iraq. E’ questa la genesi della richiesta di Obama al Consiglio dei ribelli di guidare una transizione «pacifica, inclusiva e giusta» al fine di coinvolgere i lealisti di Gheddafi nella costruzione della nuova nazione. Anziché ripetere l’errore iracheno, Obama si richiama al successo del Sudafrica di Nelson Mandela che dopo la fine dell’apartheid affidò ad una commissione ad hoc la riconciliazione con i bianchi. Del precedente di Pretoria si è parlato spesso nelle visite a Washington degli inviati dei ribelli libici ed ora la Casa Bianca si aspetta che gli impegni presi vengano rispettati, anche perché la Nato continua a sentirsi vincolata alla risoluzione Onu sulla «protezione dei civili» sulla base della quale ha sostenuto la rivoluzione iniziata in febbraio nelle piazze di Bengasi.

Se l’intenzione di europei ed americani è evitare un nuovo Iraq nel bel mezzo del Mediterraneo resta da vedere quali sforzi saranno disposti a compiere per garantire il successo della ricostruzione in un Paese devastato da 42 anni di dittatura, al punto da non avere più alcun brandello di istituzione, neanche a livello locale. Al momento la scelta di non inviare una missione di peacekeeping come invece fatto in Kosovo nel 1999 - anche allora la Nato aveva piegato l’avversario solo con una campagna aerea - è frutto del timore di delegittimare i ribelli, degli accordi raggiunti con la Lega Araba contraria all’invio di truppe occidentali e, soprattutto, delle difficoltà finanziarie con cui i maggiori partner della Nato si trovano a fare i conti.

Resta da vedere se remore politiche, compromessi diplomatici e problemi di bilancio basteranno a giustificare la scelta di non inviare contingenti di pace e stabilizzazione nel caso in cui la transizione dovesse fallire prima ancora del debutto. Anche perché è questa l’ultima carta che il colonnello sta tentando di giocare, nascosto sotto una tenda invisibile del deserto o in un bunker. L’esito dell’ultimo capitolo della battaglia di Tripoli è decisivo per comprendere cosa avverrà nel dopo: spingendo i fedelissimi a combattere fino all’ultimo Gheddafi vuole inondare la Piazza Verde di sangue libico per far coincidere la sua caduta con l’inizio di una guerra civile che immagina di poter manovrare dal deserto della Sirte, roccaforte delle ultime tribù a lui fedeli.

Quella di Gheddafi è la strategia della disperazione ma trattandosi di uno spietato guerriero beduino che è stato addestrato all’arte della guerra all’Accademia militare di Sandhurst dagli ufficiali di Sua Maestà britannica non può essere dato per sconfitto fino al momento della definitiva resa o della morte.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9116
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« Risposta #53 inserito:: Agosto 24, 2011, 09:56:14 pm »

24/8/2011

Effetto domino su Assad

MAURIZIO MOLINARI

Dopo aver eliminato Osama bin Laden e rovesciato Muammar Gheddafi il presidente americano Barack Obama punta alla caduta di Bashar Assad.

La Casa Bianca non ama l’espressione «presidente di guerra», evita di parlare di «missioni compiute» e teorizza il ruolo di leadership americana nel mondo «guidando dal sedile posteriore» ma ciò non toglie che da Abbottabad a Tripoli fino a Damasco stia prendendo forma una dottrina Obama contro despoti e dittatori. Per capire di cosa si tratta bisogna ascoltare Ben Rhodes.

Il trentenne esperto di strategia che scrive gran parte dei discorsi di Obama sulla sicurezza nazionale, quando afferma che «questa amministrazione segue politiche diverse su ogni scenario» partendo dalle «condizioni sul terreno». Nel caso di Bin Laden l’eliminazione è arrivata con la formula militare che coniuga intelligence, droni e forze speciali perché ha consentito di operare sul terreno di un Paese alleato come il Pakistan a dispetto dei suoi servizi segreti, considerati infiltrati da elementi jihadisti. Si è trattato dunque di un’operazione tutta americana mentre nel caso dell’intervento in Tripoli la scelta è stata di puntare sull’accoppiata fra legittimazione internazionale - la risoluzione Onu, il sostegno della Lega Araba e l’intervento della Nato - e il sostegno ai ribelli con metodi non tradizionali come l’addestramento da parte delle forze speciali, la forniture d’armi giunte da Paesi alleati e l’impiego delle più sofisticate apparecchiature di intelligence per suggerire alle tribù berbere quando iniziare l’assalto finale verso la Piazza Verde di Tripoli. Nel caso della Siria la formula a cui si affida l’amministrazione Obama è un’altra ancora: nessun intervento militare ma massiccio sostegno all’opposizione interna grazie a gioielli della tecnologia come le valigette che consentono di creare reti Internet capaci di sfuggire alla sorveglianza del regime, nella convinzione che il movimento di protesta interna contro Assad ha dimensioni tali da aver determinato una «cambiamento di rapporti di forza sul terreno», come li definisce William Burns, vice del Segretario di Stato Hillary Clinton, riferendosi all’indebolimento degli apparati di sicurezza del regime.

L’unico tassello che accomuna l’operazione-Siria della Casa Bianca a quella libica sta nel costante lavorìo diplomatico per accrescere l’isolamento del dittatore con un misto di sanzioni nazionali, multilaterali e, quando possibile, delle Nazioni Unite. La differenza di approcci alle crisi presenti nel mondo arabo-musulmano può fa apparire l’amministrazione Obama incerta, ambigua e in contraddizione ma per Rhodes e Burns la coerenza sta nella «direzione di marcia» ovvero la decisione di mettere alle strette gli avversari dell’America ovunque si trovano, facendo leva sui mezzi pragmaticamente disponibili. Questo approccio ha il vantaggio di rendere Obama imprevedibile per i suoi avversari, che spesso lo sottovalutano, andando incontro a errori fatali. Bin Laden era sicuro di poter sfuggire alla caccia dei droni, Gheddafi pensava di fare tranquillamente strage degli abitanti di Bengasi e Assad ha continuato a promettere candidamente «riforme» mentre ordinava di sparare ad alzo zero sulle manifestazioni di piazza. Il risultato è uno scacchiere arabo-musulmano dove gli avversari dell’America che Obama ha ereditato da George W. Bush sono in questo momento caduti o sulla difensiva. Con l’eccezione dell’Iran di Mahmud Ahmadinejad che ha avuto successo nel reprimere le proteste e continua ad inseguire l’atomica. Ma alla Casa Bianca assicurano che l’«indebolimento di Assad investe l’Iran» usando un linguaggio da effetto-domino, seppur non dichiarato.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9122
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« Risposta #54 inserito:: Settembre 14, 2011, 11:51:16 am »

14/9/2011

Europa in crisi

Arriva il soccorso degli emergenti

Washington vertice dei Brics per salvare l'euro

Maurizio MOLINARI

CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Le economie emergenti che compongono il gruppo dei Brics discuteranno la prossima settimana a Washington un piano di aiuto finanziario per l’Europa afflitta dalla crisi del debito. A dare l’annuncio dell’insolita operazione di soccorso è il ministro delle Finanze brasiliano Guido Mantega che da Brasilia fa conoscere la «determinazione dei nostri Paesi ad aiutare l’Unione Europea ad uscire dall’attuale situazione di difficoltà». I ministri finanziari di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica - le cui iniziali compongono l’acronimo Brics - si vedranno a Washington giovedì in coincidenza con gli incontri autunnali di Fondo monetario internazionale e Banca Mondiale per «presentare un piano teso a stabilizzare l’economia e i mercati globali» come fonti del governo brasiliano anticipano.

Se ciò dovesse avvenire si tratterebbe di un’ulteriore conferma dei nuovi equilibri finanziari internazionali. L’ipotesi allo studio è - secondo indiscrezioni pubblicate da Valor Economico - di aumentare le riserve finanziarie in euro dei Brics investendo anzitutto nella nazione considerata più solida, la Germania, e nella Gran Bretagna, sebbene non appartenga alla zona euro. A spingere verso l’acquisto di titoli di Stato europei ci sarebbe anche l’atmosfera di sfiducia che circonda quelli americani dopo il downgrade deciso da Standard & Poor’s a inizio agosto. In tale scenario la Cina dispone delle maggiori opzioni poiché le sue riserve in valuta straniera, 3200 miliardi di dollari, sono le più consistenti del Pianeta. Sommate a quelle dell’India e del Brasile, rispettivamente di 320 e 350 miliardi di dollari, consentono ai Brics di avere ampi margini di manovra per sostenere l’euro. Resta tuttavia l’interrogativa su Mosca, che ha riserve per 524 miliardi di dollari.

Un’altra strada possibile, secondo fonti russe a Washington, potrebbe essere infatti di ricorrere agli “speciali diritti di prelievo” (Sdr) del Fmi per sostenere le nazioni in difficoltà. Il gestore dei fondi russi alla Deutsche Bank di Francoforte, Odeniyaz Dzhavparov, spiega che «benché Mosca non tragga alcun beneficio dall’instabilità dell’Europa non credo che il Cremlino deciderà di ricorrere alle riserve della Banca Centrale per varare degli interventi diretti ma forse preferirà un intervento attraverso il Fmi per andare a sostenere i Paesi più deboli del Sud» a cominciare da Grecia, Spagna e Italia.

«Quale che sia la formula che alla fine prevarrà un accordo fra i Brics garantirebbe una risposta collettiva internazionale alla crisi europea - commenta Tony Volpon, economista di Nomura così come il G20 la diede dopo il crollo di Lehman Brothers». Ironia della sorte vuole che le nazioni Brics hanno tutte redditi procapite di molto inferiori ai partner dell’Ue che si propongono di aiutare. Il pil procapite russo, che è il più alto dei Bric, è stato nel 2010 di 15.900 dollari ovvero circa la metà dei 30.500 dollari dell’Italia mentre per nazioni più povere, come l’India, si scende ad appena 3500 dollari l’anno pari a 6,7 volte meno del Portogallo, il Paese Ue più povero d’Europa. Nel caso del Brasile il pil procapite è di 10.800 dollari e della Cina di 7.600 dollari ma la maggiore stabilità finanziaria si rivela più importante della ricchezza e consente ai Bric di immaginare il salvataggio delle stesse nazioni che finora hanno guidato molteplici interventi di sostegno, in America Latina come in Asia e Russia.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2184
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« Risposta #55 inserito:: Settembre 25, 2011, 11:00:38 am »

23/9/2011 - IL CASO

L'Ue sotto accusa al summit Fmi

"Reagisca subito"

La Banca mondiale: applicate gli accordi di luglio Vertice dei Brics: "Pronti ad aiutare l'Europa"

Maurizio MOLINARI
INVIATO A WASHINGTON

Christine Lagarde e Robert Zoellik parlano di economia globale in zona di rischio a causa della crisi dell’euro, sette nazioni del G20 chiedono all’Ue «misure urgenti» e i Brics si dicono disposti partecipare ad un’operazione-salvataggio: l’assemblea annuale del Fmi si apre oggi con l’Europa sul banco degli imputati. «La crisi finanziaria arrivata in zona di rischio» afferma Robert Zoellik, presidente della Banca Mondiale, illustrando l’agenda. «La ricaduta nella recessione è improbabile ma la crescita è in pericolo e tocca ai Paesi industrializzati mettere in ordine i conti» aggiunge l’americano Zoellick, avvertendo che «se ciò non avverrà la conseguenza avremo il contagio delle economie emergenti che producono metà del pil globale».

Pochi minuti dopo Christine Lagarde, direttore esecutivo del Fmi, parla all’unisono nella sala conferenze della I Street: «Siamo interconnessi, ci troviamo in una fase di pericolo e il motivo è anzitutto dovuto alle due crisi europee, il debito sovrano e le banche». La richiesta ad Eurolandia è di «applicare in fretta gli accordi raggiunti al summit del 21 luglio perchè il fattore-tempo è fondamentale» incalza Lagarde al fine di far comprendere alle litigiose capitali dell’euro che il problema è «nella differenza esistente fra gli impegni presi e le azioni adottate in seguito». La pressione, verbale e politica, nei confronti dell’Ue è riassunta dall’espressione «bisogna fare in fretta» che Lagarde e Zoellick ripetono, ribadendo sostegno per le «giuste decisioni adottate dall’Europa» per lamentare che gli aiuti alla Grecia ancora non sono arrivati, le banche traballano e la coesione monetaria resta incompleta. «Sappiamo tutti che dietro queste difficoltà economiche ci sono problemi di integrazione politica fra nazioni che per secoli sono state in guerra fra loro» è l’ammissione della francese Lagarde.

Terminate le conferenze stampa, a prendere il testimone delle pressioni sull’Europa sono i ministri di sette Paesi del G20 che scrivono alla presidenzadi turno francese per esplicitare la richiesta che sarà in cima all’agenda dei lavori: «Governi e istituzioni della zona euro devono agire in fretta per risolvere la crisi della moneta unica al fine da prevenire il contagio dell’economia globale». Australia, Canada, Indonesia, Gran Bretagna, Messico, Sudafrica e Sud Corea rappresentano uno schieramento nuovo negli equilibri dell’economia globale, lasciando intendere che Eurolandia è sotto assedio: «Devono considerare tutte le opzioni possibili per assicurare la stabilità di lungo termine della seconda valuta internazionale del mondo».

Il ministro del Tesoro americano, Tim Geithner, si esprime in marcata sintonia: «Prevenire il default della Grecia è più importante che sostenere la crescita europea, gli Stati Uniti nel 2008 reagirono in fretta alla crisi e così ora devono fare i Paesi della zona euro». «Abbiamo fiducia nell’Unione Europea e sappiamo che il Fmi ha la capacità di aiutare in simili situazioni» termina Geithner ed a spiegare cosa intende arriva nel pomeriggio il comunicato congiunto dei ministri delle Finanze e dei governatori delle Banche centrali dei Brics. Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica si dicono «aperti a considerare, se necessario, ulteriore sostegno al Fmi o ad altre istituzione finanziarie internazionali per affrontare le sfide alla stabilità globale» ovvero per aiutare l’Europa.

Il ministro delle Finanze brasiliano, Guido Mantega, è lapidario: «La crisi nella quale ci troviamo nasce dall’Unione Europea come quella del 2008 si originò dagli Stati Uniti, gli europei stanno impiegando troppo tempo per trovare una soluzione, devono essere più veloci e cooperare in maniera più efficace perché il rischio è un indebolimento del commercio internazionale e dunque un rallentamento della crescita dei nostri Paesi». Ministri e governatori di Cina e India confermano che «abbiamo esaminato possibili aiuti all’Europa» evitando di entrare nei dettagli, che vengono però discussi in maniera informale durante la cena ministeriale del G20.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2191&ID_sezione=58
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« Risposta #56 inserito:: Ottobre 12, 2011, 12:13:05 pm »

11/10/2011

L'ultima scommessa dell'America

MAURIZIO MOLINARI

Barack Obama sostiene l’iniziativa francotedesca per restituire stabilità a Eurolandia perché la ritiene l’unica capace di portare ad un forte accordo al G20.

Dietro le telefonate della Casa Bianca al presidente francese Sarkozy, al premier britannico Cameron ed alla cancelliera tedesca Merkel c’è una convergenza di intenti su cosa fare e una questione di tempi da rispettare. La convergenza sta nella necessità di rafforzare il pacchetto di misure europee varate il 21 luglio scorso su due fronti: aggiungere un piano per la ricapitalizzazione delle banche in difficoltà e aumentare le dimensioni del fondo «European Financial Stability Facility» per far fronte a pericoli finanziari considerevolmente aumentati negli ultimi settanta giorni. Sull’urgenza di questa piattaforma c’è una convergenza anche più ampia, come la recente assemblea annuale del Fmi ha dimostrato, perché le maggiori economie emergenti, a cominciare dalla Cina, ritengono che l’Europa ha avuto bisogno di troppo tempo per ratificare gli impegni del 21 luglio e dunque devono essere rafforzati. E’ proprio questa convergenza fra Usa, anglofrancotedeschi e economie emergenti la piattaforma sulla quale Obama e Sarkozy puntano a guidare il G20 di Cannes verso un accordo globale a sostegno della zona-euro. Ma affinché ciò possa avvenire il fattore-tempo è decisivo: il summit del G20 inizia il 3 novembre e per quella data i 17 Paesi dell’euro dovranno aver concordato il piano di salvataggio per consentire agli altri partner di sostenerlo con interventi individuali e multilaterali. Ciò significa che l’Europa ha appena 22 giorni di tempo per adottare le nuove misure ed affinché ciò avvenga Obama non vede alternative all’iniziativa Sarkozy-Merkel, che ha ottenuto ieri il sostegno di Londra. La chiave dell’intesa con Obama sta dunque nell’impegno preso domenica per iscritto da Parigi e Berlino di «avere il piano pronto per la fine del mese», ovvero in tempo per recapitarlo a Cannes. Il timore della Casa Bianca è che, se i dissensi politici nell’Unione Europea dovessero ostacolare questo percorso a tappe accelerate, il G20 potrebbe finire per ratificare l’impossibilità di aiutare l’euro a scongiurare il peggio, con effetti negativi a pioggia sulla debole crescita americana, sulla quale continua a incombere l’incubo della recessione.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9306
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« Risposta #57 inserito:: Ottobre 13, 2011, 04:44:01 pm »

13/10/2011

L'accelerazione di Washington con Teheran

MAURIZIO MOLINARI

Con la scelta di chiamare in causa Teheran per il presunto complotto contro l’ambasciatore saudita negli Stati Uniti, il ministro della Giustizia Eric Holder ha dato inizio ad una nuova fase della politica iraniana di Barack Obama. Arrivato alla Casa Bianca offrendo negoziati segreti sul nucleare ad Alì Khamenei e sostenitore della realpolitik con gli ayatollah fino al punto da esitare nel sostegno ai moti dell’Onda Verde del giugno 2009, il presidente americano ora affida al proprio vice, Joe Biden, il compito di far sapere a Teheran che «tutte le opzioni sono sul tavolo» per rispondere alla sfida alla sovranità nazionale pianificata da un cittadino iranianoamericano, Manssor Arbarbsiar, d’intesa con un agente della Forza Al Quds, l’unità scelta dei pasdaran. Alla genesi di tale capovolgimento di approccio alla Repubblica Islamica vi sono tre motivi convergenti: le rivolte arabe in Medio Oriente, la debolezza politica di Obama in patria e la guerra segreta dell’intelligence contro gli iraniani.

Barack Obama è convinto che le rivolte arabe sono il tema di politica estera più importante del quadriennio perché ridisegnano il quadro strategico in Medio Oriente e Nord Africa obbligando l’America e trovare nuove ricette per tutelare i propri interessi. Schierandosi a sostegno delle rivolte, Obama ha identificato nel campo opposto chi sostiene gli autocrati e poiché la «primavera» più incandescente è quella siriana gli avversari dell’America sono coloro che consentono al regime di Bashar Assad di continuare la repressione che ha già fatto, secondo l’Onu, oltre 2800 vittime. Assad ha molti alleati politici, da Mosca a Pechino, ma un unico partner militare: l’Iran di Mahmud Ahmadinejad. Per Obama è una minaccia strategica che rivaleggia con il programma nucleare perché se i servizi di sicurezza siriani, coadiuvati da quelli iraniani, dovessero riuscire a mettere a tacere le proteste ripetendo il successo di Teheran contro l’Onda Verde ad uscire sconfitta sarebbe la scelta, annunciata sin dal discorso al Cairo nel giugno 2009, di affidare la proiezione della leadership americana in Medio Oriente al sostegno per chi si batte in favore del rispetto dei diritti universali dell’individuo.

Se a ciò si aggiunge che Leon Panetta, un fedelissimo di Obama, prima nelle vesti di capo della Cia e poi di ministro della Difesa, ha esposto nello Studio Ovale le prove raccolte sul sostegno di Teheran alle milizie sciite in Iraq non è difficile dedurre che la Casa Bianca consideri l’Iran come il maggior pericolo alla sicurezza nazionale. Tutto ciò era vero già nel mese di giugno, quando Obama fu per la prima volta informato del presunto piano contro l’ambasciatore saudita, e se l’escalation nei confronti di Teheran avviene adesso è perché oltre alla tempistica dell’indagine pesa l’indebolimento di un presidente in difficoltà sull’economia al punto tale da cercare su altri terreni la possibilità di riconquistare la fiducia dei cittadini. La sicurezza nazionale è l’unico argomento sul quale Obama conserva una forte popolarità - oltre il 60 per cento - perché l’eliminazione di Osama bin Laden, i successi dei droni contro i jihadisti, il braccio di ferro con Islamabad, il ritiro quasi ultimato dall’Iraq e la transizione in Afghanistan hanno raccolto il favore degli americani.

Da qui la possibilità che i consiglieri di politica estera e sicurezza, a cominciare da Biden e Holder, abbiano visto nel piano iraniano contro l’ambasciatore saudita l’opportunità per rilanciare l’immagine del presidente come garante della sicurezza collettiva. Anche perché nulla potrebbe nuocere di più a Obama del primo devastante attentato terroristico in patria dopo l’11 settembre. E’ in tale cornice che si comprende l’importanza della guerra segreta dell’intelligence contro l’Iran perché, nei briefing quotidiani fatti al presidente, fornisce minuziosi preziose.

Finora ad averne la leadership era stata la Cia con operazioni dentro l’Iran mirate a indebolire il regime, sabotare il nucleare, e rafforzare l’opposizione ma adesso con l’arresto di Arbabsiar la protagonista è l’Fbi. Gli agenti federali hanno la loro arma preferita nelle infiltrazioni: negli Anni Settanta le usarono per disintegrare le Pantere Nere e dopo l’11 settembre le hanno adoperate per spiare le comunità musulmane americane, senza farsi troppi scrupoli. Anche in questo caso, come avvenne spesso contro le Pantere Nere, il blitz decisivo nasce nella zona grigia dove l’informatore può essere anche complice del nemico: è stato infatti un collaboratore, spacciandosi per inviato dei Narcos, a far dire ad Arbabsiar di essere disposto a «far saltare in aria centinaia di americani pur di uccidere l’ambasciatore saudita». Ottenendo così il tassello decisivo per l’arresto dell’iranianomericano e l’escalation con Teheran.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9313
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« Risposta #58 inserito:: Ottobre 20, 2011, 09:30:27 am »

20/10/2011 - A LAS VEGAS DIBATTITO INFUOCATO TRA I CANDIDATI ALLA NOMINATION DEL PARTITO.

POI IL GOVERNATORE DEL TEXAS PROPONE L'ALIQUOTA FISCALE UNICA

Usa, colpi bassi fra i repubblicani

Perry attacca Romney: hai assunto dei clandestini. Il rivale vacilla: fammi spiegare

Maurizio MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Incalzato da sondaggi negativi, scivolato al terzo posto nella corsa alla nomination repubblicana e reduce da due dibattiti in ombra, il governatore del Texas Rick Perry sfrutta il palcoscenico di Las Vegas per andare all’attacco del favorito Mitt Romney dando vita ad uno scontro, non solo politico ma anche personale, che a tratti sfiora lo scontro fisico.

Il dibattito fra i candidati repubblicani era iniziato come gli ultimi due, con Romney nella veste più autorevole e l’imprenditore afroamericano Herman Cain in quella di outsider. Perry si è reso conto che si stava ripetendo lo schema a tenaglia da cui era uscito molto penalizzato nelle scorse settimane e così ha messo in atto la controffensiva, pianificata meticolosamente. Ha iniziato rimproverando all’ex governatore del Massachusetts eccessiva vicinanza al presidente Barack Obama sulla riforma della Sanità e eccessiva lontananza dai valori conservatori, per poi giocare l’affondo sull’immigrazione clandestina. «Non è forse vero che degli illegali hanno lavorato per te?» ha chiesto Perry a bruciapelo ad un Romney, evidentemente colto di sorpresa, evocando un episodio svelato nel 2007 dal «Boston Globe». Il risultato è stato un botta e risposta talmente serrato da degenerare in battibecco con Perry che continuava a incalzare sui dettagli della vicenda e Romney che dopo averne sostenuto l’infondatezza si è lasciato andare in un crescendo di visibile irritazione, condito da ripetuti «Rick mi vuoi far parlare?» culminati in un frangente nel quale Romney ha messo la mano sulle spalle del rivale dando a chi guardava la tv la sensazione di un contatto fisico dovuto ad emozioni in ebollizione. Tanto più che Romney ha anche chiesto al conduttore di intervenire, svelando di essere sulla difensiva. Il risultato che Perry cercava, e ha ottenuto, è stato di mostrare agli americani un volto diverso dal Romney calmo, preparato e rassicurante, sollevando così dubbi sulla inevitabilità della sua affermazione nella corsa alla nomination che sarà assegnata dalla convention di Tampa.

Ma non è tutto, perché nel rispondere alle accuse Romney ha fatto un mezzo scivolone affermando che quando si rese conto che l’impresa impegnata nei lavori nella sua proprietà impiegava dei clandestini «andai dai titolare e gli dissi che mi stavo candidando ad una carica pubblica e dunque non potevo farlo». È una frase ambigua perché solleva il dubbio che Romney sia stato contrario all’impiego di clandestini solo in quanto era candidato e ciò consente ai portavoce di Perry di affermare che «questo dibattito è stato decisivo perché la corsa è tornata ad essere una sfida a due, come sarà nei prossimi mesi».

La risposta di Eric Fehrnstrom, consigliere di Romney, è che «Perry era venuto a Las Vegas per uccidere Romney e invece ha eliminato se stesso, presentandosi come un candidato disperato nel tentare di far tornare a galla una barca che affonda». In realtà Perry è riuscito a trascinare con sé negli attacchi a Romney altri candidati - Rick Santorum, Michele Bachmann e Newt Gingrich - lasciando intendere che l’ala conservatrice dei repubblicani non si riconosce in un candidato che su immigrazione, Sanità e diritti dei gay ha posizioni centriste. Da qui l’impressione che il dibattito di Las Vegas, moderato dalla «Cnn», abbia dato inizio ad un confronto fra le due diverse anime del partito che dominerà le primarie.

Al termine di una giornata tutta all’attacco, Perry ha sferrato un nuovo affondo proponendo l’aliquota fiscale unica.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplrubriche/finestrasullamerica/grubrica.asp?ID_blog=43&ID_articolo=2225&ID_sezione=58
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« Risposta #59 inserito:: Ottobre 23, 2011, 11:49:45 am »

Esteri

23/10/2011 - PER I SONDAGGI I MANIFESTANTI HANNO PIÙ CONSENSI DELLA DESTRA

Il Tea Party si smarca dagli indignati

I manifestanti di "Occupy Wall Street" mettono a disposizione i loro abiti puliti per tutti gli "indignados" di Zuccotti Park

Dai conservatori un duro attacco a "Occupy" "Gente poco istruita, vuole soltanto l'anarchia"

MAURIZIO MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

«Disoccupati, poco istruiti e male informati»: il Tea Party si scaglia contro i manifestanti di «Occupy Wall Street» insediati a Zuccotti Park, per sottolineare la loro differenza da un movimento di protesta che ha in realtà origini comuni a quello conservatore. Le convergenze stanno nella denuncia del ricorso al denaro pubblico per salvare le istituzioni finanziarie responsabili del crack del 2008, nella contestazione delle scelte della Federal Reserve e nella volontà di dare voce alla rabbia di milioni di cittadini colpiti da recessione e disoccupazione.

Non a caso, quando «Occupy Wall Street» ha messo le prime tende a Zuccotti Park, nei pressi di Ground Zero, c’erano anche dei militanti del Tea Party, al pari di alcuni seguaci di Ron Paul, il candidato repubblicano alla presidenza feroce avversario della Federal Reserve. Ma a sei settimane da allora, «Occupy Wall Street» è oramai un movimento di protesta dove a prevalere sono i temi dell’ala sinistra del partito democratico e dunque il Tea Party picchia duro. «Sembrano essere in favore più dell’anarchia che della risoluzione dei problemi attraverso il rispetto della Costituzione» afferma Jenny Beth Martin, co-fondatrice dei «Tea Party Patriot», spiegando al «New York Times» che la differenza «sta nel fatto che noi abbiamo lavorato duro per richiamarci alle leggi esistenti mentre loro si battono per violarle, esprimendo mancanza di rispetto verso la nostra forma di governo».

Sono queste le motivazioni che hanno portato i «Tea Party Patriots» a diffondere un comunicato, in tutti i 50 Stati, intitolato «Occupy Wall Street non è il Tea Party», nel quale si afferma che «quando riescono a spiegare cosa vogliono, ciò che si comprende è l’intenzione di danneggiare l’America dando vita a un governo più invandente». Il «Daily Caller», uno dei fogli e siti web nei quali il Tea Party si riconosce, va oltre, accusando i militanti di Zuccotti Park di «aver ricevuto il sostegno del partito nazista americano» e di aver «esposto insegne ostili a Israele», spingendosi fino a «ingiurie contro gli ebrei di puro stampo antisemita».

Lu Busse, capo del Tea Party in Colorado, parla di «militanti di estrema sinistra che avevano fra i ranghi anche gente mortper overdose di cocaina» mentre Ed Morrissey su «The Week» scrive che «Occupy Wall Street vuole solo più burocrazia e spesa pubblica», ovvero l’esatto contrario del Tea Party. Se questi sono alcuni dei motivi che hanno spinto gli iscritti al Tea Party che avevano partecipato ai sit in a Zuccotti Park ad andarsene, ciò che più distingue le due proteste è l’approccio alla riforma della Sanità promulgata da Obama perché, mentre gli ultraliberal vogliono rafforzarla, gli ultraconservatori puntano a cancellarla.

A dispetto di tali divergenze c’è tuttavia chi, come Josh Eboch direttore del gruppo conservatore «Freedom Works», afferma che «restano importanti similitudini perché entrambi sono contro grandi corporation, banche e imprese salvate grazie all’intervento di politici che hanno sfruttato il denaro dei contribuenti». Il duello a distanza fra gli opposti movimenti di protesta si profila come un tema della campagna presidenziale del 2012, anche se al momento nessuno dei due sembra godere del sostegno della maggioranza degli americani. Per un sondaggio Gallup-UsaToday «Occupy Wall Street» e Tea Party godono rispettivamente del 26% e 22% di sostegno, mentre coloro che si dicono «indifferenti» sono fra il 47% e 52%. «L’unica cosa certa - commenta il governatore del New Jersey, Chris Christie - è che dire a uno di questi due gruppi che assomiglia all’altro, significa rischiare grosso».

da - http://www3.lastampa.it/esteri/sezioni/articolo/lstp/426087/
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