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Autore Discussione: MAURIZIO MOLINARI  (Letto 72051 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Gennaio 29, 2010, 03:44:58 pm »

29/1/2010

In trincea da solo contro tutti
   
MAURIZIO MOLINARI

Incalzato dalla disoccupazione che cresce e dall’economia che arranca, contestato dai leader del suo partito e irriso da quelli repubblicani, con la riforma della Sanità impantanata, i sondaggi in costante calo e tradito dalle roccaforti liberal come il New Jersey e il Massachusetts, Barack H. Obama sfrutta i 71 minuti dello Stato dell’Unione per sfidare a viso aperto tutti gli avversari. Con toni e termini che evocano la campagna vinta nel 2008 e aprono quella che si concluderà il 3 novembre con il voto per il rinnovo del Congresso.

Lasciandosi alle spalle un 2009 nel quale ha invano tentato di governare Washington ricorrendo al pragmatismo, Obama affronta il 2010 rispolverando l’approccio lincolniano che lo aveva fatto vincere.

Portiamo avanti il sogno americano e rafforziamo una volta ancora la nostra Unione». La svolta è fotografata dal cambio di equilibrio nella West Wing, dove è in calo il finora onnipotente capo di gabinetto ex clintoniano Rahm Emanuel mentre torna in auge David Plouffe, l’architetto del «The Change We Can Belive In» (Il cambiamento in cui possiamo credere), la formula che portò alle urne milioni di giovani e che Obama ha ripetuto alla fine del discorso sullo Stato dell’Unione, dopo averla tenuta in soffitta per dodici lunghi mesi.

L’impronta di Plouffe sul discorso scritto dallo «speechwriter» Jon Favreu e ritoccato più volte da Obama la si è vista nell’impostazione come nei contenuti. L’impostazione è quella di un leader che va incontro, da solo, a tutti gli ostacoli che l’America ha di fronte. Obama incalza entrambi i partiti. Ai democratici dice: «Vi ricordo che abbiamo ancora la più ampia maggioranza delle ultime decadi e la gente si aspetta che governiamo, non che ci diamo alla fuga». Come dire, niente scuse. E ai repubblicani aggiunge: «Dire di no a tutto può essere utile nei giochi politici di corto termine ma non significa possedere qualità di leadership». Ovvero, non basta stare alla finestra. Sul piano dei contenuti, l’avversario che Obama indica alla nazione in diretta tv è il Senato di Washington ovvero l’aula dove i repubblicani grazie alla vittoria di Scott Brown in Massachusetts hanno tolto ai democratici la supermaggioranza di 60 seggi - su 100 - potendo contare oggi su 41 voti che gli consentono di bloccare leggi e nomine.

La sfida al Senato è l’ossatura del discorso in un alternarsi di affondi politici, ironie feroci e battute in slang popolare. Obama rimprovera al Senato di fare resistenza sulla nuova legge sull’occupazione, sulla riforma finanziaria per porre limiti alle grandi banche, sulla task force anti-debito, sul taglio delle emissioni nocive, sugli sgravi fiscali agli studenti. E in ogni occasione mette in rilievo come invece «la Camera ha già votato» o «ha già deciso». Sono le premesse per una campagna elettorale nella quale Obama si prepara a additare la minoranza repubblicana al Senato, e forse anche la debolezza dei democratici, come responsabili del ritardo delle riforme. E’ una strategia di pressing sugli avversari, esterni e interni, sulla quale la Casa Bianca punta per riuscire a centrare l’obiettivo che più ha a cuore: la nuova Sanità pubblica. Non a caso è per discutere di questo che Obama tende la mano ai leader del Congresso: «Vorrei avere ogni mese incontri con democratici e repubblicani». L’intento del presidente è di passare i prossimi 11 mesi in trincea a Capitol Hill dando vita ad un confronto a tutto campo con il Congresso destinato a trasformare il voto di novembre in un referendum sul suo operato. Forse non è un caso che Plouffe, secondo il tam tam di Pennsylvania Avenue, sta già rimettendo mano ai nomi dei candidati per scegliere volti più nuovi, obamiani, anziché democratici vecchia maniera.

In tale cornice gli attacchi frontali, e con accenti populisti, alle grandi banche «che devono pagare una tassa », alle lobbies degli «interessi particolari » e alla Corte Suprema colpevole di «rovesciare un secolo di finanziamento alla politica» sono le avvisaglie di una campagna lunga e dura, dalla quale il presidente punta a uscire con un Congresso a lui assai più affine.

La scelta di andare all’attacco contro tutti ricorda, secondo il politologo E. J. Dionne, quanto fece il repubblicano Ronald Reagan nel 1982 riuscendo a risollevarsi con successo da un primo anno di brutte sorprese e sondaggio in calo. Resta da vedere se Obama riuscirà a centrare lo stesso risultato: sulla carta è una scommessa tutta in salita, complicata dalle due guerre in corso e dalle minacce di Al Qaeda, mentre lo scontento della classe media per la disoccupazione resta la mina più difficile da disinnescare.

da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Febbraio 01, 2010, 10:35:33 am »

1/2/2010

Un sogno infranto sulla Luna
   
MAURIZIO MOLINARI


Eletto con il mandato di trovare nuovi orizzonti per il sogno americano, Barack Obama rinuncia al progetto di tornare sulla Luna ovvero a creare basi permanenti da dove lanciare l’esplorazione umana fino agli estremi limiti del Sistema Solare. Con un bilancio oberato da 1,35 trilioni di dollari di debiti, un disavanzo pubblico pari al 9,2 del pil e la prospettiva di nuove voragini nelle casse federali destinate ad aprirsi nei prossimi mesi, il presidente americano è costretto a sacrificare il programma «Constellation» immaginato dal predecessore George W. Bush rinunciando a seguire le orme di John F. Kennedy nel sospingere l’America verso la frontiera più avvincente. E questo significa che il prossimo essere umano a camminare sulla Luna sarà probabilmente un cinese, in considerazione degli ingenti investimenti che sta facendo Pechino per centrare questo traguardo.

Il passo indietro è una decisione amara per Obama, che in campagna elettorale aveva detto di voler consentire alle nuove generazioni di americani di «perseguire liberamente i propri sogni», che era stato paragonato da Ted Kennedy al fratello John proprio per «l’audacia» dei suoi sogni.

Aveva assicurato a più riprese di credere nell’utilità dell’esplorazione umana del Sistema Solare per promuovere la ricerca scientifica e in maggio aveva tradito la passione personale per lo spazio chiamando dallo Studio Ovale gli astronauti a bordo dello shuttle Atlantis, parlando con loro come si fa fra vecchi amici.

Ma ancora più difficile deve essere stato per Obama avallare un’idea di programma spaziale che per la prima volta rovescia il rapporto fra la Nasa e le imprese private. Se finora l’Agenzia spaziale degli Stati Uniti era leader assoluta nei progetti su vettori, ricerca e astronauti, ora invece il timone appare destinato a passare nelle mani di una dozzina di gruppi come SpaceX, fondata dal creatore di PayPal Elon Musk, Orbital Sciences, inaugurata nel 1982, e Virgin Galactic di Richard Branson, pioniere spericolato del turismo nel cosmo dalla sua pista nel deserto del Mojave. Saranno infatti le aziende private a realizzare in «outsourcing» missili, navette e altri programmi spaziali che poi la Nasa farà propri, sperando così di far risparmiare quanto possibile ai contribuenti. L’immagine di un presidente democratico, tenace sostenitore del pensiero neokeynesiano sul ruolo dello Stato nell’economia, che decide di ridimensionare il ruolo dello Stato nella ricerca spaziale a vantaggio dei privati - come avrebbe potuto fare un leader repubblicano seguace di Milton Friedman - è destinata a segnare Obama come la fotografia delle difficoltà in cui versa l’amministrazione dopo neanche 13 mesi di lavoro. Tanto più che a pagare il prezzo della scelta saranno le migliaia di dipendenti della Nasa - tradizionale serbatoio di voti democratici - a cominciare dalla base di Cape Canaveral in Florida, uno Stato strappato con molta fatica ai repubblicani nella campagna presidenziale del 2008.

Sacrificando interessi politici e slancio kennedyano, Obama ammette i limiti che costringono l’America nell’anno 2010: la superpotenza per reggere la sfida delle aggressive economie emergenti ha anzitutto bisogno di rimettere in ordine le proprie finanze e fino a quando ciò non avverrà dovrà mettere nel cassetto molti dei sogni che era abituata a inseguire. Per chi nel mondo scientifico immaginava di vedere presto un astronauta della Nasa in viaggio verso Marte o prevedeva lo sfruttamento del sottosuolo della Luna alla ricerca di nuovi carburanti si tratta di una doccia fredda. Resta da vedere quali saranno le conseguenze dell’abbandono della nuova missione-Luna. In una nazione dove ogni politico e imprenditore non deve risparmiare risorse se vuole affermarsi ed avere successo, sforzando di trasformare ogni difficoltà in opportunità, è prevedibile che saranno altri attori a fare proprio l’ambizioso obiettivo di «Constellation». Puntando magari a dimostrare allo Stato federale che non c’è bisogno di ricorrere ai soldi dei contribuenti per riuscire a navigare verso Saturno.

da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Febbraio 06, 2010, 11:46:43 am »

6/2/2010 - INTERVISTA

Shenker: "Pace con Damasco per poi colpire l'Iran"
   
Colloquio con l'esperto americano, Direttore del «Program on Arab Politics» al Washington Institute

MAURIZIO MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Israele persegue un solido negoziato con la Siria e Berlusconi è il leader europeo di cui si fida di più». Parola di David Schenker, fino al 2006 titolare del dossier siriano al Pentagono e analista al centro studi Washington Institute.

Cosa pensa delle indiscrezioni sulla volontà di Netanyahu di affidare a Berlusconi o allo spagnolo Miguel Moratinos il ruolo di mediatore con Damasco?
«Dimostrano che Netanyahu è intenzionato ad accelerare i tempi del negoziato con Damasco e che si fida molto di Berlusconi. Moratinos lo ha aggiunto perché è gradito a Bashar Assad».

Incominciamo dal negoziato. Perché Netanyahu accelera?
«Per il motivo che sta diventando verosimile un attacco militare contro l’Iran. Che sia Israele o l’America a lanciarlo poco importa. Potrebbe avvenire e il rischio maggiore è che inneschi una guerra regionale, con gli Hezbollah che attaccano Israele dal Libano e la Siria che entra in guerra con loro. Per scongiurarlo Netanyahu vuole accelerare l’accordo con la Siria».

Washington che posizione ha?
«L’amministrazione Obama sta tentando di staccare Damasco da Teheran. Ha profuso molti sforzi ma non è un’opera facile perché i due Paesi hanno un’alleanza trentennale assai solida, basti pensare che nel 2007-2008 la Siria ha acquistato un avanzato sistema antimissile russo grazie al fatto che è stata Teheran a pagare il conto: 750 milioni di dollari. Ci sono due modi per allontanare Damasco da Teheran: spingerla a rompere i legami con gli Hezbollah, Hamas e i pasdaran oppure un accordo di pace con Israele. Obama prova la prima carta, Netanyahu la seconda».

Perché Netanyahu punta sul premier italiano?
«È il leader europeo che più condivide la visione strategica di Israele. La sua recente visita a Gerusalemme lo ha confermato».

Quali i punti di forza o debolezza di una mediazione italiana?
«Berlusconi è credibile per Netanyahu ed è al tempo stesso un importante partner commerciale di Assad. La Siria da tre anni è afflitta dalla siccità e soffre per una crisi economica pesante. Berlusconi è nella posizione migliore per aiutare Damasco a risollevarsi».

Lei è un veterano del negoziato israelo-siriano. Può ripartire?
«Bashar Assad ha negoziato con Ehud Olmert, quando era premier d’Israele, sulla base della bozza d’accordo discussa da Netanyahu col padre Hafez Assad nel 1998-1999. Ma la situazione è molto diversa dal 1998».

Quali le differenze?
«Israele non si accontenta più di uno scambio sul Golan basato sul principio della pace in cambio di territori. Netanyahu vuole che Assad cambi strategia, cessi di aiutare i terroristi, abbandoni Teheran e diventi un partner a tutto campo. Per ottenere questo risultato non serve la mediazione di una nazione come la Turchia, che guarda all’Iran. Molto meglio l’Italia».

Quali potrebbero essere le mosse di Bashar Assad?
«Assad ci ha dimostrato in passato che negozia con Israele solo quando gli serve per ottenere dell’altro. E al momento ha tre problemi che gli causano seri grattacapi: la crisi economica, il tribunale internazionale sull’omicidio a Beirut dell’ex premier libanese Hariri e l’indagine dell’Agenzia atomica dell’Onu sul reattore nucleare distrutto dagli israeliani nel settembre 2007».

da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Febbraio 17, 2010, 09:30:55 am »

17/2/2010

Barack Obama ai giornalisti: niente domande
   
MAURIZIO MOLINARI


Risposte immediate ad ogni attacco ricevuto, giornalisti tenuti a debita distanza, meno conferenze stampa e più dialogo diretto con gli americani ricorrendo al web come agli eventi pubblici: è il nuovo vademecum di Barack Obama per i rapporti con i media, redatto nell’intento di proteggere il Presidente da una stampa percepita come aggressiva.

Il memo scritto da Dan Pfeiffer, direttore delle comunicazioni della Casa Bianca, riporta le relazioni fra Obama e i media al punto di partenza, ovvero all’inizio del febbraio 2007 quando lanciò da Springfield, in Illinois, la campagna che lo avrebbe portato alla Casa Bianca. Obama allora temeva il peggio e blindò i messaggi esterni della campagna affidandone fattura e diffusione al rigido controllo di tre stretti collaboratori - il guru politico David Axelrod, l’architetto elettorale David Plouffe e il portavoce Robert Gibbs -, la disciplina imposta fu ferrea, venne rispettata da ogni militante della campagna, e contribuì alla vittoria finale grazie al fatto che la maggioranza dei media fece propri i messaggi-chiave su speranza e cambiamento. Ad elezione ottenuta, circondato dal favore di gran parte di giornali, siti web e tv, Obama decise di rinunciare a quella rigida impostazione e nel 2009 è stato protagonista di un’esposizione pubblica senza precedenti per un Presidente degli Stati Uniti, evidenziata da una raffica di conferenze stampa alla Casa Bianca, 161 interviste in 12 mesi - oltre il triplo del predecessore George W. Bush - e una miriade di dichiarazioni, battute, apparizioni tv e copertine di magazine, dallo sport alla musica. L’assenza di altri volti dell’amministrazione in grado di attirare l’attenzione del grande pubblico - anche per la scelta di Hillary Clinton di avere un basso profilo - ha ulteriormente aumentato la visibilità del Presidente.

Ma i risultati non sono stati quelli sperati perché gli americani hanno finito per individuare in lui il maggior responsabile della perdurante crisi economica evidenziata da una disoccupazione arrivata alla soglia del 10 per cento. E di conseguenza i media sono diventati più aggressivi, con i giornalisti accreditati alla Casa Bianca impegnati a bersagliare il Presidente e i suoi collaboratori su deficit record e riforma della sanità impantanata proprio come facevano con Bush sulla guerra in Iraq. «Nelle conferenze stampa puntano a mettersi in vista facendo concorrenza al Presidente» ha commentato un collaboratore del Presidente. E’ in questa cornice che si è consumato il calo nei sondaggi di Obama - per la Cnn è al 49 per cento di popolarità - e il conseguente timore dei democratici di andare incontro ad una cocente sconfitta nelle elezioni di novembre per il rinnovo del Congresso, come dimostra anche la defezione del senatore dell’Indiana Evan Bayh che ha deciso di non ricandidarsi facendo capire che il vento soffia a favore dei repubblicani.

Per rovesciare la situazione i tre fedelissimi Axelrod, Plouffe e Gibbs si sono riuniti a più riprese durante la settimana che ha visto Washington paralizzata dalla tempesta di neve, affidando a Pfeiffer il compito di ridisegnare l’immagine del Presidente e quindi di allontanarlo quanto più dai media. Per riassumere la svolta Pfeiffer dice: «Faremo solo ciò che ci servirà, nulla di più». Da qui l’inversione di tendenza: meno conferenze stampa e più comizi, interviste solo con i maggiori conduttori in orari di grande ascolto - come avvenuto sulla Cbs prima del Super Bowl - e disposizione al portavoce Gibbs di «ribattere colpo su colpo ad ogni attacco repubblicano» come avveniva in campagna elettorale.

Gibbs si è adattato in fretta: prima è sbarcato su «Twitter» con la sigla «PressSec» per poter comunicare in tempo reale messaggi brevi a migliaia di giornalisti e poi ha replicato a tinte forti agli attacchi ricevuti da John Brennan, consulente anti-terrorismo del Presidente, per i presunti errori compiuti nell’interrogatorio del kamikaze nigeriano arrestato a Detroit a Natale. Sempre a questa strategia «aggressiva e mirata», come spiega Pfeiffer, è da ricondurre quanto avvenuto domenica allorché la Casa Bianca ha chiesto e ottenuto dalla Cbs un’intervista al vicepresidente Joe Biden per ribattere agli attacchi giunti da Dick Cheney poco prima dagli schermi della Abc. Solo pochi mesi fa Gibbs irrideva gli affondi di Cheney sulla «scarsa competenza di Obama sulla sicurezza nazionale» ritenendo che «i dibattiti con lui sono finiti nel 2008» ma adesso il nuovo vademecum impedisce di «sottovalutare ogni avversario».

Resta da vedere se il metodo di comunicazione che nel 2008 portò Obama alla Casa Bianca gli consentirà nel 2010 di governare in maniera da conservare la maggioranza democratica in entrambi i rami del Congresso. A credere che possa funzionare è Plouffe, convinto che «ogni elezione in fin dei conti è una scelta» e dunque concentrare ogni messaggio contro i repubblicani «servirà a far capire che non c’è un’alternativa ai democratici» mentre ad avere qualche dubbio è proprio Pfeiffer che ammette: «Non c’è alcuna strategia di comunicazione in grado di far apparire il 10 per cento di disoccupati come qualcosa di positivo per l’America».

da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Febbraio 22, 2010, 09:29:34 am »

22/2/2010 - MEDICI SOTT'ACCUSA. RICERCA E MANIPOLAZIONE

"Una grande truffa dietro le staminali"
   
Denuncia americana: inutili le banche del cordone ombelicale

"E' soltanto business: c'è chi chiede fino a 150mila dollari"

Maurizio Molinari
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Cellule staminali
Le banche che conservano le cellule staminali dei cordoni ombelicali celano spesso un’autentica frode e i dottori che girano il mondo offrendo miracolose terapie a peso d’oro, in realtà, ingannano i genitori che si trovano in situazione disperate: la dura denuncia viene da Irving Weissman, un’autorità nella medicina rigenerativa in America, ed appare destinata a innescare un terremoto nella comunità scientifica. Weissman ricopre l’incarico di direttore dell’Istituto di biologia delle cellule staminali e di medicina rigenerativa all’Università di Stanford, California, ed ha scelto di pronunciare il proprio atto d’accusa in occasione dello svolgimento dell’incontro annuale dell’Associazione americana per l’avanzamento della scienza (Aaas) in corso a San Diego. La scelta di tempo non appare casuale, in quanto in aprile la Società internazionale per lo studio delle cellule staminali pubblicherà un rapporto sulle «terapie non dimostrate», chiamando in causa - secondo alcune anticipazioni - proprio le modalità con cui operano spesso le banche del cordone ombelicale. Weissman ha scelto dunque di alzare il velo sulle motivazioni di un giudizio che si annuncia molto negativo, lasciando intendere che un’aspra battaglia scientifica e legale si profila all’orizzonte.

Capacità limitata
La tesi è la seguente: «I cordoni ombelicali contengono cellule staminali in grado di formare il sangue come avviene in un bambino molto piccolo» e dunque hanno solo «una limitata capacità di creare ossa e grasso», che non include la possibilità di creare «cervello, sangue, cuore e muscoli dello scheletro». «C’è chi afferma che le cellule staminali contenute nei cordoni abbiano anche tali capacità, ma ciò non corrisponde al vero», aggiunge Weissman, riferendosi a costoro come a «terapisti clinici privi di basi» che «si installano in nazioni con regolamenti medici assai deboli» al fine di promuovere «terapie che non hanno alcuna possibilità di successo», presentandole invece come efficaci e risolutorie a «famiglie bisognose alle prese con malattie incurabili». L’efficacia delle «banche dei cordini ombelicali» sarebbe dunque assai minore rispetto a quanto viene in genere affermato, garantendo la possibilità di cure future solo nei confronti di un ristretto gruppo di malattie.

A caccia di soldi
A innescare la decisione del docente di Stanford, che nel 2002 ha ottenuto il titolo di scienziato dell’anno in California, di uscire allo scoperto è stato il fatto di aver appurato l’esistenza di un malcostume dilagante: «In alcune occasioni questi terapisti arrivano a chiedere cifre fra 50 mila e 150 mila dollari», promettendo soluzioni tanto miracolose quanto impossibili sulla base dello sfruttamento delle staminali contenute nei cordoni ombelicali. Il danno è duplice, perché, se da un lato creano illusioni infondate in chi si trova in situazioni disperate, dall’altro privano le famiglie bisognose di fondi necessari per continuare altre cure. Un altro filone di questi «inganni clinici» ha a che vedere con la constatazione che «in nazioni con leggi carenti», come il caso della Thailandia, queste «banche delle staminali» chiedono ai genitori di fare depositi di circa 3600 dollari «come se fosse una sorta di assicurazione sanitaria sulla salute dei figli negli anni a venire», mentre in realtà la scienza al momento non garantisce nulla di tutto ciò. L’idea di poter disporre di una sorte di bacchetta magica nel futuro è infondata.
«Questo tipo di promesse e comportamenti sono errati», ha sottolineato Weissman, chiamando in causa il proliferare delle «banche delle staminali», che in realtà si registra anche negli Usa ed in alcune nazioni dell’Ue. Non è infatti un segreto che numerosi ospedali delle maggiori città Usa offrono ai genitori di neonati la possibilità di conservare una parte del cordone ombelicale dei figli in «banche» esterne, gestite da cliniche private, al fine di garantire future possibilità di cure di qualsiasi tipo di malattie. L’intento di Weissman sembra essere quello di porre un freno al proliferare delle «banche» ed anche di lanciare un monito a quei medici che, in patria o all’estero, se ne fanno promotori, sollecitando speranze destinate in molti casi a restare inappagate.
Il passo compiuto da Weissman coincide anche con la riflessione in corso nel «National Institutes of Health» (l’Istituto nazionale della sanità) sulla possibilità di modificare la definizione di «cellule staminali embrionali umane» a seguito della richiesta avanzata dal presidente Barack Obama di aggiornare le linee guida per assegnare fondi alla ricerca.

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« Risposta #35 inserito:: Aprile 14, 2010, 02:35:03 pm »

14/4/2010

Il mondo senza steccati
   
MAURIZIO MOLINARI

La firma dei 47 leader sull’accordo di Washington contro il terrorismo nucleare sancisce la nascita della nuova architettura internazionale promossa da Barack Obama che già aveva iniziato a prendere forma nel settembre scorso in occasione del G20 di Pittsburgh contro la minaccia della recessione globale. I due summit internazionali che Obama ha presieduto hanno in comune un format.

Questo tipo di format archivia i dogmi dell’architettura della comunità internazionale ereditata dal Novecento: non ci sono più i blocchi geopolitici di Est e Ovest o quelli economici di Nord e Sud, scompaiono gli steccati fra Paesi ricchi e poveri come fra quelli che possiedono armi nucleari o ne sono privi. A sostituire l’equilibrio fra i blocchi ci sono tavoli multilaterali dove il numero dei presenti cambia in forza dell’agenda discussa e gli invitati dicono la propria, assumendosi precise responsabilità, in una cornice di pari rispetto e dignità. Tanto il G20 che il summit sulla Sicurezza Nucleare si rifanno al modello delle Nazioni Unite che si originò dal summit di San Francisco del 1945 ma con qualche correzione, perché se da un lato si tratta di forum globali dall’altro non vi si è ammessi per diritto ma in quanto si è pronti ad assumere specifici compiti, con tanto di cifre e scadenze da rispettare. Di conseguenza l’America esercita il proprio ruolo di leadership non per i diritti acquisiti vincendo le guerre del secolo passato contro militarismo, nazifascismo e comunismo ma in forza delle maggiori responsabilità che è disposta ad assumersi. Sono infatti gli Stati Uniti a spendere di più sia per mettere al sicuro le scorte nucleari disseminate dall’ex Urss all’America Latina sia per varare stimoli fiscali che sostengano una debole crescita economica globale.

Ciò significa che anche le altri potenze, più o meno grandi e ricche, possono auspicare a ritagliarsi ruoli di primo piano nell’affrontare le emergenti sfide globali. Ma a patto che accettino di sostenere i costi, economici e politici, che ciò comporta. Nella nuova architettura che Obama sta iniziando a realizzare l’America resta la «nazione indispensabile», come dice l’ex segretario di Stato Madeleine Albright, ma lascia agli altri tutto lo spazio che vogliono occupare.

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« Risposta #36 inserito:: Maggio 22, 2010, 10:39:24 pm »

18/5/2010

Un attacco contro la trattativa

MAURIZIO MOLINARI

L’attentato nel quale sono morti due militari italiani dimostra la volontà dei taleban di tenere sotto pressione la Nato nell’incombere dei due eventi che possono decidere le sorti dell’Afghanistan: l’assemblea dei capi tribali e l’offensiva di Kandahar in estate.

Per il 29 maggio il presidente Karzai ha convocato la tradizionale Loya Jirga sulla quale conta per coinvolgere nell’apparato di governo i taleban pronti a voltare le spalle al Mullah Omar, a Osama bin Laden e alla lotta armata. La scelta è di Karzai,maWashington la sostiene come è emerso dal summit della scorsa settimana nello Studio Ovale e come confermano episodi come quello che ha visto il colonnello dell’Us Army Robert Brown scrivere di proprio pugno una lettera al capo guerrigliero Mullah Sadiq - ricercato dalla Cia dal 2005 e nascosto ai confini con il Pakistan - per invitarlo a partecipare alla ricostruzione dell’Afghanistan. La mano tesa ai taleban punta a ridurne la resistenza quando McChrystal darà il via libera all’offensiva di Kandahar - in una finestra di tempo che si apre a giugno - puntando a eliminare le roccaforti dei guerriglieri irriducibili, alimentate da armi, volontari e rifornimenti che arrivano dalle aree tribali del Pakistan.

Questa strategia fatta di offerte di pace e preparativi di guerra punta a «modificare la situazione sul terreno», come dice il presidente americano Barack Obama, per arrivare al luglio 2011 in una condizione di sicurezza tale da consentire l’inizio del passaggio delle consegne di singoli distretti territoriali fra militari Nato e truppe regolari afghane.

Ma a questa direzione di marcia, che Obama condivide con Karzai e la Nato, i taleban oppongono la loro. Tornano a piccoli gruppi a Marjah, la città riconquistata dai marines a febbraio, per terrorizzare di notte gli agricoltori che al mattino salutano i soldati americani.

Bersagliano Kabul di attentati preferendo gli obiettivi governativi per palesare la debolezza di Karzai, obbligato a muoversi protetto da nugoli di guardie del corpo. Effettuano incursioni nei distretti a ridosso della capitale ripetendo la strategia con cui i mujaheddin islamici sconfissero l’Armata Rossa. Consolidano le basi nel Waziristan pakistano evadendo la caccia dei droni della Cia e beffandosi dei militari di Islamabad. E adoperano i potenti ordigni «Ied» lasciati lungo il ciglio delle strade contando di uccidere più soldati Nato possibile, ostacolando i movimenti di mezzi fra le diverse basi per paralizzare le operazioni.

Se l’Alleanza Atlantica ha una strategia che punta ad accelerare i tempi della ricostruzione civile, i taleban puntano invece alla guerra infinita consapevoli che le opinioni pubbliche dei Paesi occidentali non riescono neanche a immaginare un simile scenario. Il paradosso è che a decidere chi prevarrà potrebbero essere un pugno di comandanti taleban. «Ci troviamo in un momento di passaggio - riassume Stephen Biddle, veterano della guerra al terrorismo che adesso indossa giacca e cravatta dietro una scrivania del Council on Foreign Relations di Washington - nel quale quanto avverrà dipende dalle decisioni che saranno prese da un ristretto numero di capi taleban». Si tratta di guerrieri delle montagne che vivono isolati con i propri uomini, dei quali in Occidente si ignorano anche i nomi, fedeli a nessuno, sempre pronti a cambiare alleato per sfruttare l’opzione migliore ma molto legati al territorio e capaci di sfuggire ai droni passando giorni interi senza muoversi, parlando a monosillabi per non farsi identificare dai sensori più sofisticati. Karzai è convinto di riuscire a convincerne una buona parte a venire alla Loya Jirga in cambio della promessa di condividere il potere e l’intelligence britannica crede che abbia qualche possibilità di riuscirci davvero, ma a Washington c’è più cautela e, comunque andrà l’assemblea tribale, McChrystal si prepara a dar luce verde all’assalto a Kandahar. Nella convinzione che la fine del conflitto non è ancora vicina.

E’ un’orizzonte di guerra che preannuncia per la Nato un delicato summit a Lisbona: la riunione autunnale immaginata per concordare il nuovo concetto strategico, imperniato sulla necessità di affrontare le nuove minacce del XXI secolo, potrebbe doversi confrontare con la perdurante sfida di una guerriglia medioevale capace di resistere per quasi dieci anni all’armata più potente del Pianeta. Forse non è un caso che in queste settimane i diplomatici al lavoro sull’agenda del vertice sono tornati a discutere di Afghanistan, dopo aver tanto trattato di lotta alla proliferazione.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7364&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #37 inserito:: Luglio 01, 2010, 10:30:44 pm »

26/6/2010 - Ai summit di Toronto

L'agenda di Obama ha gli occhi a mandorla
   
Sei incontri per il presidente Usa: cinque con l'Asia, l'Europa è ignorata

MAURIZIO MOLINARI

Asia-Europa 5 a 1. È l’agenda del presidente Barack Obama ai summit canadesi e descrive una politica americana che guarda al Pacifico a scapito del Vecchio Continente. Il pesante punteggio concerne gli incontri bilaterali che il team della Casa Bianca ha preparato per affiancare a G8 e G20 un’agenda parallela tesa a promuovere gli interessi degli Stati Uniti. Ben Rhodes, consigliere per gli Affari Strategici, e Jeffrey Bader, direttore per gli Affari Asiatici nel consiglio di sicurezza nazionale, sono i registi di una 48 ore di faccia a faccia con tutti i maggiori leader dell’Asia. Si inizia alle 15.15 di oggi con il sudcoreano Lee Myung-Bak per discutere della grave crisi militare in atto con la Nordcoreana, proseguendo un’ora dopo con il cinese Hu Jintao per l’atteso braccio di ferro sulloapprezzamento dello yuan, mentre domani mattina il primo appuntamento, alle 8.40 del mattino, è con l’indonesiano Susilo Bambang Yudhoyono - per scusarsi delle due visite annullate negli ultimi quattro mesi -. Nel pomeriggio, l’indiano Manmohan Singh e il nuovo premier giapponese Naoto Kan con un’agenda che in entrambi i casi va dalla ricetta della crescita globale alla lotta alla proliferazione delle armi non convenzionali. Senza contare temi più specifici come il futuro della base militare Usa a Okinawa e il dialogo sul commercio hi-tech con Nuova Delhi che ha per protagonista il Segretario di Stato Hillary Clinton. «Il fatto che cinque dei sei bilaterali di Obama in Canada sono con nazioni dell’Asia-Pacifico - spiega un alto funzionario dell’amministrazione - è un’eloquente prova dell’importanza che il presidente assegna all’Asia per la nostra politica di sicurezza ed i nostri interessi economici» anche perché «si tratta di un’area la cui influenza globale è in crescita».

Rhodes e Bader non lesinano dettagli sulle intenzioni di Obama: dal viaggio in preparazione a novembre che lo porterà in Giappone, Sud Corea, India e Indonesia alle agende dei prossimi summit del G20 e dell’Apec, da ruolo di Giakarta nel dialogo con l’Islam a quello di Tokio nella sicurezza dell’Asia nord-ordientale. E l’Europa? L’unico bilaterale certo con un alleato della Nato avviene alle 14.15 di oggi e vedrà Obama soffermarsi con il britannico David Cameron: ma è quasi di un atto dovuto trattandosi di un nuovo premier. Un consigliere del presidente lo dice con una frase molto cerimoniale: «Abbiamo scelto Cameron come primo bilaterale per sottolineare le relazioni speciali con la Gran Bretagna». Ma sui contenuti è silenzio ad eccezione della battuta: «Parleranno di sicuro anche di calcio, visto che le nostre nazionali hanno passato il turno ai Mondiali in Sudafrica». Tutto qui. Per il resto gli europei non figurano nella scaletta presidenziale. E quando viene fatto notare a Robert Gibbs, portavoce di Obama, che i leader di Germania e Francia non l'hanno presa troppo bene, la replica è: «Stiamo tentando di vedere se qualcos’altro può essere aggiunto». Per comprendere come sia possibile che un colloqui con Angela Merkel o Nicolas Sarkozy venga declassato a una «possibile aggiunta» dalla Casa Bianca - per non dire del silenzio sull’Italia - bisogna ascoltare Stewart Patrick, direttore del programma Global Governance del Council on foreign relations (relazioni con l’estero) di New York: «questi summit del G8 a Muskoka e del G20 a Toronto segnano una svolta epocale dall’era del dominio occidentale a quello dell’era multipolare». La svolta sta nel fatto che gli Stati Uniti, d’accordo con l’anfitrione Canada e il partner del Cremlino, hanno preparato i lavori in maniera da separare per la prima volta in maniera netta le competenze: assegnando al G8 quelle relative a sicurezza, pace e aiuti allo sviluppo per concentrare sul G20 l’agenda economica. «Si avvera quanto aveva detto Obama nel settembre del 2009 a Pittsburgh sul G20 foro prioritario per la cooperazione economica internazionale» sottolinea Patrick, lasciando intendere che il ridimensionamento del G8 «è cosa oramai fatta».

Ma non è tutto perché anche sul tavolo del G8 l’Europa appare in declino in quanto i temi che Obama aveva più a cuore - dall’applicazione delle nuove sanzioni Onu all'Iran alla risposta da dare a Pyongyang per l’affondamento della nave sudcoreana fino alle tensioni etniche in Kirghizystan - le ha sviscerate giovedì alla Casa Bianca in un summit con Dmitri Medvedev conclusosi con la firma di 11 differenti dichiarazioni congiunte, inclusa quella sull’Afghnistan per sottolineare l’importanza delle rotte di rifornimento della Nato attraverso la Russia. La convergenza fra Obama e Medvedev su Iran e Nord Corea è tale da aver trasformato quasi in formalità la cena di lavoro, ieri sera, con gli altri leader del G8 in quanto nessuna potenza europea è in grado - o vuole - prendere le distanze sui temi della sicurezza.

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« Risposta #38 inserito:: Luglio 30, 2010, 09:31:06 am »

30/7/2010 - IL CASO

Per la prima volta l'ambasciatore Usa ricorda Hiroshima

Presenzierà alla commemorazione del 6 agosto

Maurizio MOLINARI
CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Barack Obama manda l’ambasciatore americano in Giappone a presenziare per la prima volta alle cerimonie per l’anniversario dell’atomica su Hiroshima e Tokyo plaude al gesto di svolta ma per le vittime di allora non basta: «Vogliamo le scuse dell’America».

L’annuncio del passo dell’amministrazione Obama arriva da Philip Crowley, portavoce del Dipartimento di Stato: «L’ambasciatore John Roos rappresenterà gli Stati Uniti il 6 agosto al memoriale di Hiroshima per esprimere rispetto a tutte le vittime della Seconda Guerra Mondiale». Il cerimoniale è stata studiato per dare massima rilevanza all’evento infatti Roos deporrà una corona di fiori al monumento che ricorda i 140 mila abitanti di Hiroshima uccisi dalla bomba lanciata dall’«Enola Gay» dell’aviazione miliare americana, facendo seguire poi un minuto di raccoglimento destinato a entrare in diretta tv nelle case di milioni di giapponesi. Ross è già stato al memoriale, in ottobre, ma la coincidenza con le cerimonie di ricordo delle vittime dà a questa visita un rilievo ben maggiore. Non è ancora chiaro se tre giorni dopo, quando cadrà l’anniversario della seconda atomica che su sganciata su Nagasaki, Roos parteciperà anche all’identica cerimonia di ricordo per le 74 mila vittime che vi furono ma la scelta della Casa Bianca sembra quella di voler sfruttare il 65° anniversario del primo bombardamento atomico per attestare con forza la condanna dell’uso e della proliferazione delle armi nucleari. «La presenza del nostro ambasciatore è la cosa giusta da fare» ha sottolineato il portavoce, ricordando che dal 1988 la città di Hiroshima chiede agli Stati dotati di armi nucleari di presenziare all’evento, ma gli Stati Uniti non avevano finora mai accolto l’invito.

La reazione del governo nipponico è arrivata da Yodhito Sengoku, capo di gabinetto del premier, che ne ha dato un giudizio molto positivo in quanto «si tratta di un’opportunità per l’America di comprendere la nostra determinazione a perseguire il disarmo nucleare affinché una simile terribile devastazione non possa ripetersi mai più». Tokyo spera che la decisione della Casa Bianca preannunci la volontà di Barack Obama di recarsi in visita a Hiroshima questo novembre, quando arriverà in Giappone per partecipare ai lavori del summit dell’Apec - il Forum dei Paesi del Pacifico - in programma a Yokohama. Nel gennaio scorso fu il sindaco di Hiroshima, Tadatoshi Akiba, a estendere personalmente l’invito a Obama che rispose «Vorrei davvero venire» innescando un’attesa che continua a crescere. Sull’ipotesi della visita di Obama resta però l’incognita del rischio di possibili proteste da parte delle associazioni delle vittime degli attacchi atomici, che anche ieri hanno tenuto a distinguersi dalle reazioni del governo. «La decisione di mandare l’ambasciatore americano a Hiroshima è sicuramente una mossa benvenuta - ha commentato Kazushi Kaneko, direttore del Consiglio che riunisce i gruppi di vittime dell’atomica lanciata il 6 agosto 1945 - e ci aspettiamo che l’ambasciatore Usa contribuirà a correggere l’opinione di chi ancora ritiene che quell’esplosione atomica fu una cosa giusta, affinché il presidente Obama possa venire qui a presentare le scuse dell’America». Masaaki Tanabe, 72enne che al momento dell’esplosione viveva poco lontano da dove oggi sorge il memoriale, aggiunge: «La decisione di scagliarci contro l’atomica fu irragionevole, prendere atto delle immense perdite avute allora deve portare Obama a scusarsi e a impegnarsi per la totale distruzione di tali armi».

Sin dal discorso pronunciato a Praga nell’aprile del 2009 il presidente americano si è detto intento a perseguire un «mondo senza armi nucleari» ma la richiesta di scuse è stata finora accolta con grande prudenza dalla Casa Bianca, nella consapevolezza che per la maggioranza dei veterani della Seconda Guerra Mondiale furono proprio gli attacchi atomici a scongiurare la necessità di una campagna di terra contro il Giappone che minacciava di costare alle forze armate oltre un milione di vite umane. Senza contare che alcune nazioni dell’Estremo Oriente, come Singapore, ricordano ancora oggi le atomiche sul Giappone come il momento in cui l’esercito invasore accettò di arrendersi ponendo fine ad una difesa che si proponeva di condurre ad oltranza.

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« Risposta #39 inserito:: Agosto 29, 2010, 09:09:43 am »

29/8/2010

Contro il Presidente in nome di Luther King
   
MAURIZIO MOLINARI

L’assalto dei conservatori all’America di Barack Obama inizia con una contesa su Martin Luther King. A meno di settanta giorni dal voto per il rinnovo del Congresso di Washing- ton il popolo dei Tea Party ha invaso il Mall per rivendicare l’eredità del reverendo afroamericano protagonista delle lotte contro la segregazione razziale. L’affronto alla Casa Bianca non potrebbe essere più palese. Se Obama considera la sua presidenza come il frutto politico delle marce per i diritti dei neri compiute dalla generazione di King negli Anni Cinquanta e Sessanta, i conservatori Glenn Beck e Sarah Palin ribattono che la declinazione contemporanea del movimento dei diritti civili di allora è nella tutela dei cittadini dall’invadenza dello Stato federale promossa proprio dall’amministrazione Obama.

Si tratta di un duello sull’identità nazionale che conferma come negli Stati Uniti gli avversari politici puntino a impossessarsi dei simboli più efficaci degli avversari per riuscire a prevalere: nella campagna del 2008 Obama citava Ronald Reagan e John McCain faceva lo stesso con Bill Clinton, così come George W. Bush prese ad esempio F. D. Roosevelt e Harry Truman dopo l’11 settembre. Senza contare che la modernizzazione di Teodoro Roosevelt viene rivendicata come propria tanto dai leader democratici quanto da quelli repubblicani. Puntando a Martin Luther King, i Tea Party vogliono neutralizzare la maggiore carica innovativa di Obama, spostando il focus del confronto politico e del dibattito pubblico dall’emancipazione razziale alle libertà del cittadino, dai diritti delle minoranze a quelli dei contribuenti. E’ lo stesso motivo che spinge Beck e Palin ad affermare che Abramo Lincoln appartiene assai più ai conservatori che non ai liberal, perché se Obama lo considera il presidente-simbolo dell’Unione americana - sacrificò la vita alla sconfitta della schiavitù - a loro avviso ciò che più conta è il fatto di essere il simbolo perenne dell’«onore nazionale» dei patrioti a stelle e strisce.

Dietro questi duelli sui simboli sacri della vita pubblica nazionale c’è l’aspro scontro in atto sulla leadership del ceto medio flagellato dalla crisi economica. Rassicurati dai sondaggi, i conservatori sentono di poter recuperare nelle urne molti dei consensi - soprattutto nel Midwest - perduti due anni fa e vogliono ottimizzare il momento favorevole per riuscire a cogliere un obiettivo ancora più importante: far coincidere l’attesa vittoria al Congresso con l’azzeramento del mito di Obama. A intuire cosa sta avvenendo è l’opinionista del «Washington Post» David Ignatius che ha suggerito all’inquilino dello Studio Ovale di iniziare a «ripensare in fretta la presidenza» perché dopo il voto di Midterm «il copione sarà molto diverso da quello attuale».

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« Risposta #40 inserito:: Novembre 29, 2010, 12:06:54 pm »

29/11/2010 - WIKILEAKS. LE NUOVE RIVELAZIONI

Wikileaks, una tempesta sul mondo

I Paesi del Golfo agli Usa "Attaccate subito l'Iran"

MAURIZIO MOLINARI

Le pressioni arabe per un attacco militare all’Iran, gli attacchi cibernetici cinesi, il progetto di riunificare la Corea sul modello tedesco, il braccio di ferro col Pakistan sul controllo delle armi nucleari, la corruzione dei leader afghani, la sinuosa infermiera ucraina di Gheddafi e un bazar di trattative per convincere Paesi minori ad ospitare i detenuti di Guantanamo: i 251.287 documenti diplomatici americani rivelati da Wikileaks alzano il velo su una messe di segreti gelosamente custoditi da Washington, innescando conseguenze internazionali difficili da prevedere.

I documenti sono telegrammi diplomatici scambiati dal Dipartimento di Stato con 180 ambasciate americane attraverso il sistema Internet dell’esercito Usa denominato Siprnet - Secret Internet Protocol Router Network - e con la dicitura Sipdis ovvero Secret Internet Protocol Distribution.

Wikileaks ne è entrato in possesso e li ha fatti avere a cinque giornali - New York Times , Guardian , Der Spiegel , El País eLe Monde - e da ieri ne è iniziata la pubblicazione che consente di ricostruire quanto sta avvenendo dietro le quinte della politica internazionale. Anche perché i testi risalgono agli ultimi 10 anni, arrivando fino allo scorso febbraio, con la maggioranza concentrata fra 2006 e 2009.

Ciò che ne emerge è un mondo segnato anzitutto dall’allarme per l’atomica iraniana. Il re saudita Abdullah chiede a più ripresa a Washington di «tagliare la testa del serpente» di Teheran, il sovrano del Bahrein preme per un attacco per «fermare il programma nucleare» perché «il pericolo di lasciarlo procedere è superiore a quello di fermarlo», i leader militari degli Emirati definiscono «pazzo» Mahmud Ahmadinejad, il principe ereditario degli Emirati Arabi afferma «Ahmadinejad è Hitler» e una miriade di leader, ministri e generali arabi ritiene che solo la caduta del regime degli ayatollah potrà bloccare la corsa dell’Iran all’atomica. La pressione su Washington è tale che quando il presidente americano Barack Obama nel 2009 invia un messaggio tv di apertura ai leader di Teheran, gli Emirati parlano di «testo confuso» perché «non è questa la maniera di agire».

Washington preme per sanzioni rigide, chiedendo a sauditi e cinesi di rompere i rapporti petroliferi con Teheran ma nelle conversazioni private è l’attacco militare a tenere banco, come avviene il 12 febbraio a Parigi quando il ministro della Difesa francese Hervé Morin chiede a bruciapelo al capo del Pentagono Gates se Israele attaccherà «senza il sostegno Usa». La risposta è: «Israele può farlo ma non so se avrebbe successo e comunque ritarderebbe i piani iraniani solo per 1-3 anni, con il risultato di unificare gli iraniani contro l’aggressore». Gli israeliani da parte loro sfruttano ogni occasione per spiegare a Washington che la finestra di tempo per evitare l’attacco si sta per chiudere. Nel maggio 2009 il ministro della Difesa di Gerusalemme, Barak, dice all’ambasciatore Usa Cunningham: «Il mondo ha ancora 6-18 mesi», ovvero fino all’inizio del 2011.

Se le rivelazioni sulle pressioni arabe per l’attacco sono destinate ad accrescere la tensioni fra Teheran e i vicini, il piano per la riunificazione della Corea conferma i timori di Pechino. Ecco di cosa si tratta: alti ufficiali di Washington e Seul hanno discusso i piani della riunificazione sul modello di quanto avvenuto in Germania nel 1991, arrivando a ipotizzare «incentivi commerciali» per Pechino come allora Berlino garantì al Cremlino. Lo scorso febbraio l’ambasciatrice Usa a Seul ha scritto a Washington che «gli opportuni accordi economici potranno far venir meno le preoccupazioni cinesi sulla riunificazione» di una Corea «alleata degli Usa». La possibilità di far leva sul business con Pechino per ottenere l’«implosione della Nord Corea» è uno scenario del quale nessun funzionario americano hai mai pubblicamente discusso così come si ignorava il braccio di ferro in atto dal 2007 fra Washington e Islamabad sull’uranio arricchito di un reattore ad alto rischio. Washington preme per rimuoverlo ma Islamabad si oppone perché, come scrive l’ambasciatore Patterson nel maggio 2009, «se una sola parola di questo uscirà sui giornali la conseguenza sarà far apparire l’intero arsenale pachistano in mani americane».

Riguardano la Cina anche le rivelazioni sugli attacchi via Internet contro Google: è una fonte cinese che rivela all’ambasciata Usa a Pechino che l’incursione è stata ordinata «dall’interno del Politburo del Partito comunista». Si tratta di un’operazione di guerra cibernetica «iniziata nel 2002» e prima di Google ha avuto per obiettivi «i computer del governo Usa, quelli degli alleati occidentali e del Dalai Lama». La formulazione di queste accuse è tale da non poter escludere che anche il furto di documenti rivelati da Wikileaks possa esserne coinvolto.

A descrivere il bazar sui detenuti di Guantanamo sono i telegrammi seguenti all’insediamento del nuovo Presidente Usa, quando viene detto alla Slovenia di «accettarne qualcuno in cambio di un incontro con Obama», vengono offerti «milioni di dollari» di incentivi a Kiribati e suggerito al Belgio che accogliendone «acquisterebbe visibilità in Europa». Sul fronte della lotta al terrorismo sorprende il giudizio negativo del Dipartimento di Stato nei confronti dell’Intelligence del Qatar, definita «la peggiore della regione contro Al Qaeda» perché «esitante ad agire nel timore di soffrire rappresaglie». La sorpresa si deve al fatto che il Qatar ospita a Doha il quartier generale delle operazioni Usa nel Golfo e dunque ciò significa un'esposizione alta al pericolo di attentati per i soldati Usa.

Per quanto riguarda le notizie sui singoli leader stranieri spiccano la descrizione della «sinuosa infermiera ucraina» che «segue ovunque» Gheddafi come le affermazioni sul «comportamento improprio» di un componente della famiglia reale britannica nonché le definizioni di «imperatore nudo» per Sarkozy e di «ostinata e raramente creativa» per la tedesca Merkel. Ma ciò che forse preoccupa più la Casa Bianca sono i contenuti dei telegrammi sull’Afghanistan per via della valigia con 52 milioni di dollari trovata negli Emirati in possesso del vicepresidente Massoud e del ruolo del fratello del presidente Karzai descritto come implicato in «corruzione e traffico di stupefacenti». Poiché i fondi Usa all’Afghanistan vengono dati dal Congresso è facile prevedere che i leader repubblicani ne renderanno conto a Obama. La Casa Bianca reagisce con un comunicato in cui spiega che «i contenuti di questi documenti non esprimono politiche governative». Ma la bufera è solo all’inizio.

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« Risposta #41 inserito:: Gennaio 09, 2011, 05:05:49 pm »

9/1/2011 - LA STORIA

Il Polo si sposta troppo velocemente: aerei e uccelli in tilt

L'aeroporto di Tampa in Florida chiude una pista d'atterraggio

CORRISPONDENTE DA NEW YORK

Maurizio MOLINARI

L’aeroporto internazionale di Tampa ha chiuso una delle piste d’atterraggio per lo stesso motivo che potrebbe essere all’origine della morìa di pesci e uccelli che si è verificata in più parti del mondo: la massa magnetica al Polo Nord della Terra sta oscillando più rapidamente di quanto avviene di solito.

Lo scenario, fra fisica e fantascienza, richiama alla memoria la trama del romanzo «The Core» di Paul Preuss che nel 2003 il regista Jon Amiel portò sul grande schermo con l’omonimo titolo, raccontando la scelta del presidente degli Stati Uniti di fare esplodere degli ordigni nucleari nel magma terrestre per riattivare la rotazione terrestre misteriosamente bloccata. Non siamo certo a tali scenari apocalittici ma le prime scene di quel film, con stormi di uccelli morti che cadevano dal cielo e aerei che precipitavano all’improvviso hanno a che vedere con gli stessi motivi che hanno spinto le autorità dell’aeroporto internazionale di Tampa in Florida a chiudere una delle principali piste d’atterraggio, spiegandone i motivi con dovizia di dettagli.

Il motivo, come hanno sottolineato i portavoce dello scalo, è che «il Polo Nord magnetico si è spostato dal Canada verso la Russia di circa 40 miglia» - 64,3 km - ad una velocità «più alta del solito» e di conseguenza devono essere ricalcolati circa cento pannelli e quaranta segnali che guidano gli aerei in fase di atterraggio. Se infatti il Polo Nord geografico è un punto convenzionale fisso stabilito sulle mappe, quello magnetico è in continuo spostamento fra il Canada e la Siberia e la sua posizione serve a orientare i piloti degli aerei proprio come una semplice bussola.

Per avere un’idea dello spostamento del Polo Nord magnetico basti tener presente che 700 mila anni fa era invertito con quello al Sud del Pianeta. L’umanità è comunque abituata a convivere con spostamenti minimi e di conseguenza «i piloti volano con l’aiuto delle bussole magnetiche e le piste di atterraggio sono disegnate lungo i punti di questa bussola», come ha spiegato uno dei portavoce dello scalo, sottolineando però «che il problema è che un punto ritenuto a 180 gradi si trova ora, diciamo, a 190 gradi».

L’idea che i piloti dei jet commerciali adoperino ancora bussole magnetiche nell’era del Gps via satellite può sembrare anomala ma in attesa di modifiche della strumentazione di bordo delle maggiori compagnie civili l’aeroporto non ha avuto alternativa che ordinare il blocco dell’uso di una pista. Anche le autorità dello scalo di Atlanta, in Georgia, stanno valutando una simile decisione per garantire la massima sicurezza ai passeggeri.

A conferma delle preoccupazioni di Tampa e Atlanta la «Federal Aviation Administration», che controlla il traffico aereo civile sugli Stati Uniti, ha avallato la necessità di ridisegnare «almeno una delle piste di atterraggio» in tempi stretti. Le notizie in arrivo da Florida e Georgia hanno spinto comunità scientifica ed esperti meteo a prendere in considerazione l’ipotesi che anche l’improvvisa morte di migliaia di uccelli e pesci in Brasile, Gran Bretagna, Italia, Svezia, Nuova Zelanda e Stati Uniti possa essere legata al brusco movimento del magnetismo terrestre.

Se il Polo Nord infatti si muove in fretta gli uccelli si confondono, perdono l'orientamento, cambiano i loro soliti comportamenti e seguono rotte insolite rischiando di urtare contro correnti d’aria sconosciute che ne possono causare la morte improvvisa. Lo stesso vale per i pesci, il cui orientamento errato può spingerli in acque troppo gelide per sopravvivere, causando la morte di branchi molto numerosi.

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« Risposta #42 inserito:: Gennaio 10, 2011, 03:59:58 pm »

10/1/2011 - DIPLOMAZIA ROMA E WASHINGTON

"I rapporti Usa-Italia mai così stretti malgrado Wikileaks"

L'ambasciatore a Roma Thorne: "Andrò dai soldati ad Herat. La vostra presenza sul territorio afghano è fondamentale"

INVIATO A WASHINGTON
Maurizio MOLINARI

I legami fra Roma e Mosca preoccupano meno l'amministrazione Obama, sul dossier Iran la cooperazione è intensa e l’ambasciatore David Thorne andrà a Herat per rendere omaggio alle nostre truppe in Afghanistan: Washington mette l’acceleratore sui rapporti bilaterali con il governo Berlusconi puntando ad allontanare «il momento di negatività» scaturito dalla pubblicazione da parte di Wikileaks di documenti diplomatici americani contenenti giudizi severi su Palazzo Chigi. È questo ciò che emerge da un incontro con lo stesso Thorne, avvenuto in un hotel vicino alla Casa Bianca a margine della sua visita a Washington incentrata sulle relazioni con l'Italia.

Ambasciatore, qual è lo stato di salute dei rapporti bilaterali?
«Non c’è mai stato un momento migliore ma aleggia uno stato temporaneo di negatività dovuto soprattutto a Wikileaks».

Negli ambienti del governo italiano il contenuto di alcuni dei documenti diplomatici americani rivelati da Wikileaks e attribuiti a lei ha suscitato forte disappunto. Come giudica quanto è avvenuto?
«Non commenterò il contenuto di questi documenti ma non posso negare che in Italia, come in altri Paesi, Wikileaks ha creato delle difficoltà, è diventato un diversivo rispetto all'attività di politica estera. In particolare credo che Wikileaks ha avuto questo effetto in Italia per la coincidenza con la fase politica interna, segnata da toni elettorali. È stato come gettare benzina sul fuoco».

C'è bisogno di un «reset» delle relazioni bilaterali?
«Non credo ci sia bisogno di un "reset" perché l’Italia è per noi un partner di grande valore dall’Afghanistan al Medio Oriente, dalla Russia all’Iran fino al Corno d’Africa. Per noi nulla di questo è cambiato. Anzi dal mio punto di vista l’importanza dell'Italia è aumentata nell’ultimo anno. Il ministro degli Esteri Franco Frattini è stato un sostenitore dei rapporti bilaterali fuori dal comune. Non dobbiamo consentire a Wikileaks di oscurare tutto questo».

Cosa si pensa a Washington del governo Berlusconi?
«C’è grande apprezzamento. Ho lavorato per l’incontro fra il Segretario di Stato Hillary Clinton e il premier Berlusconi in Kazakhstan proprio per sottolinearlo. E credo che nei prossimi tempi vi saranno ulteriori sviluppi per rafforzare il dialogo fra le leadership dei nostri due Paesi».

Pensate a una «linea rossa» fra Casa Bianca e Palazzo Chigi?
«Non ne voglio parlare ma l'Italia è uno dei nostri partner più importanti e abbiamo bisogno di un livello di comunicazioni bilaterali che sia conseguente».

Ricordo che un anno fa nell’amministrazione Obama c’era grande preoccupazione per la vicinanza fra Berlusconi e Putin. È ancora così?
«No, non più. Siamo meno preoccupati di allora. L’Italia è stata una forte sostenitrice del riavvicinamento con la Russia e questa è anche la posizione di Obama. Vi sono stati progressi con la Russia che hanno migliorato lo scenario».

Questo è vero anche per i legami energetici dell’Eni con Mosca?
«Sì perché vi sono stati molti incontri con Paolo Scaroni, a Roma e a Washington. L’Eni ha cambiato il suo approccio, ipotizzando una convergenza fra gli oleodotti South Stream e Nabucco. Direi che siamo in una fase di dialogo costruttivo».

È vero che sta per andare in visita in Afghanistan?
«Si, andrò anche a Herat per rendere omaggio ai soldati italiani. Sono stato sotto le armi e mi sento molto vicino ai vostri militari. L’Italia come Paese svolge un ruolo cruciale nella coalizione essendo il terzo partner per numero di effettivi e nella transizione afghana i vostri carabinieri sono molto importanti per l’addestramento delle truppe afghane».

In luglio il Pentagono inizierà a ritirare le truppe quando crede che gli italiani potranno incominciare a lasciare Herat?
«È una decisione che spetta alla Nato, ai comandi sul campo, ma quando ho parlato con il generale David Petraeus a Roma mi sono reso conto che vi sono dei miglioramenti sul terreno. Stiamo facendo dei progressi sulla sicurezza e ciò è di buon auspicio».

Che giudizio date dell’adesione italiana alle sanzioni all’Iran?
«La cooperazione italiana sull’Iran è molto utile. Non solo per il sostegno alle sanzioni. Ciò che noi apprezziamo sono i legami di vecchia data, umani e commerciali, che avete con l’Iran perché in prospettiva potrebbero risultare molto utili nei rapporti con loro quando anche noi, speriamo presto, potremo averne».

Perché ha citato il Corno d'Africa fra le aree di forte cooperazione bilaterale?
«Ho parlato qui a Washington con il capo della Cia Leon Panetta e mi ha detto che l’Italia può essere di grande aiuto nel Corno d'Africa contro il terrorismo. L’Italia già svolge un ruolo cruciale in Europa, come dimostrato dalla recente cattura nel Sud di un importante capo di Al Qaeda. E questa competenza regionale dell’Italia può essere utile anche per stabilizzare l'area attorno al Sudan nella fase successiva al referendum».

La tenuta dell’economia italiana è fonte di preoccupazioni?
«Non solo in Italia ma in tutta l’Europa per noi è importante stimolare la crescita e tagliare la spesa pubblica. In Europa non c'è stato un grande confronto sugli stimoli fiscali all’economia mentre l’attenzione è stata più sui tagli, come fatto da Giulio Tremonti. Si possono avere ricette diverse ma ciò che conta per l'America è che l’Europa e l’Italia crescano».

Il presidente Obama cerca nuovi mercati per le esportazioni americane. L’Italia è fra questi?
«Tutti vogliamo esportare, noi come voi. In Italia vi sono grandi opportunità per noi come lo sviluppo della rete a banda larga e la presenza di impianti per energia alternativa, solare e eolica, nell’Italia del Sud o a Montalto di Castro. Sono opportunità delle quali parlo spesso con i miei interlocutori».

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« Risposta #43 inserito:: Gennaio 29, 2011, 11:33:43 am »

29/1/2011

Satana non è più l'America


MAURIZIO MOLINARI

L’America segue con passione l’affermarsi di una piazza araba che chiede libertà e democrazia anziché maledire lo Zio Sam. Ciò che accomuna i resoconti dei media, dal Washington Post ai maggiori network tv, e le analisi dei centri studi, dalla Brookings Institutions alla Fondazione Carnegie, è la descrizione di una novità: da Tunisi al Cairo, da Alessandria a San’a, le nuove generazioni arabe manifestano non contro i Satana dell’Occidente ma a favore di più diritti, politici ed economici. «Le crisi interne al mondo arabo hanno preso il sopravvento sull’ostilità verso l’America e sul conflitto israelopalestinese nei cuori di milioni di musulmani» spiega Eliott Abrams del «Council on Foreign Relations». Abituati a considerare le manifestazioni oceaniche di musulmani come nemiche, gli americani scoprono che «la strada araba oggi ha valori comuni con la Main Street del Midwest» osserva Fuad Ajami, orientalista della Johns Hopkins University. Le notizie frammentarie di manifestazioni pro-democratiche che arrivano da Giordania e Siria consentono al «Center for American Progress» di John Podesta, molto vicino alla Casa Bianca, di affermare che «la rivoluzione dei gelsomini in Tunisia sta diventando qualcosa di più ampio».

E’ in questa cornice che la Casa Bianca di Barack Obama esprime due priorità nell’affrontare quanto sta avvenendo. Primo: far prevalere i diritti universali dell’individuo. Secondo: impedire che ad avvantaggiarsi della fase di instabilità siano le cellule jihadiste apparentate con Al Qaeda. L’auspicio di un rispetto dei «diritti universali» è stato espresso da Obama a proposito della Tunisia e dal Segretario di Stato Hillary Clinton riguardo all’Egitto diventando il concetto che ogni esponente del governo, dal vicepresidente Joe Biden al portavoce Robert Gibbs, ripete per commentare quanto sta avvenendo. L’origine di tale approccio è nel discorso che Obama pronunciò all’ateneo di Al-Azhar al Cairo il 4 giugno 2009 quando disse: «Credo fermamente che ogni popolo abbia diritto a dire ciò che pensa, a giudicare i suoi governanti, ad avere uno Stato di Diritto ed alla libertà di scegliere come vivere. Non sono solo idee americane ma diritti umani e per questo li sosteniamo ovunque». Il 44° Presidente degli Stati Uniti è convinto che nel mondo arabo e musulmano i cambiamenti democratici possono arrivare dall’interno - come avvenuto in Europa, Asia e Sud America - e per favorirli scommette sul sostegno all’idea di «diritti universali dell’individuo» connaturata alla Costituzione americana, sfruttando ogni occasione per far sapere ai popoli del Maghreb e del Medio Oriente che sono le «libertà di espressione, assemblea e fede» ad accomunare ogni essere umano.

In occasione delle proteste di piazza in Iran di due anni fa contro la rielezione di Mahmud Ahmadinejad, Obama scelse un profilo basso che politicamente lo fece apparire debole e non piacque agli americani ma ora l’approccio è rovesciato: il sostegno alle aspirazioni democratiche prevale sulla Realpolitik a conferma della scelta di individuare, anche nella politica estera, una terreno bipartisan con i repubblicani. Ciò non significa tuttavia sostenere sbrigativamente la rimozione di un leader alleato come Hosni Mubarak che, osserva l’arabista Juan Cole, «non è il tunisino Ben Alì», essendo l’Egitto la nazione più importante del mondo arabo.

La Casa Bianca teme che un crollo improvviso di Mubarak possa favorire i gruppi jihadisti, molto radicati nella terra natale di Ayman al Zawahiri vice di Bin Laden, e preme dunque per disinnescare la crisi attraverso un’accelerazione delle riforme proprio da parte di Mubarak, in vista delle imminenti presidenziali. Washington in queste ore sta facendo pressione per ottenere dal Cairo una svolta democratica - ovvero la garanzie di elezioni davvero libere - capace di porre fine agli scontri aprendo la strada alla transizione. Da qui l’attenzione della Casa Bianca per il ruolo delle forze armate egiziane - dal 1979 finanziate e armate dagli Stati Uniti - considerate in questo frangente come il baluardo contro un caos che potrebbe favorire i jihadisti. Resta da vedere se Mubarak farà ciò che Obama gli sta chiedendo.

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« Risposta #44 inserito:: Marzo 15, 2011, 05:04:11 pm »

15/3/2011

Ma Obama si batte con Tokyo

MAURIZIO MOLINARI

Obama schiera l’America in prima fila nei soccorsi al Giappone flagellato da tsunami e incidenti nucleari ma senza arretrare di un passo sui progetti di rilancio dell’energia atomica nazionale. Da quando è stato svegliato alle 4 di sabato dal capo di gabinetto Daley con le prime notizie sullo tsunami il Presidente sta affrontando la crisi giapponese.

Obama ha un duplice intento: porre l’America alla guida della coalizione internazionale dei soccorsi e impedire che le esplosioni di Fukushima dirottino la sua politica energetica. Per testimoniare lo slancio verso l’alleato ferito, Obama ha detto di aver il «cuore spezzato», ha ricordato «la cultura giapponese che ho sentito mia durante l’infanzia alle Hawaii» ed ha inviato unità della Us Navy, dozzine di elicotteri e centinaia di marines a partecipare ad un’operazione umanitaria che un portavoce della Casa Bianca descrive come «la sintesi fra l’inondazione di New Orleans, l’ecatombe di Haiti e il sisma del Cile». Ma soprattutto Obama ha autorizzato la mobilitazione della task force nucleare per tentare di evitare il peggio nel reattore di Fukushima: l’invio di un team di super-esperti sostenuto dalle più moderne tecnologie create dall’uomo punta ad evitare la fusione che evoca nei giapponesi l’incubo di Hiroshima e negli americani lo spettro di una nube di radiazioni sui cieli del Pacifico. La Casa Bianca sta facendo ricorso ai segreti della propria scienza nucleare per sostenere un alleato in difficoltà e testimoniare al tempo stesso alla sua opinione pubblica che, come avvenuto già dopo i violenti sismi di Haiti e Cile, Obama vuole l’America nel ruolo di leader.

Ma ciò non comporta abdicare alla convinzione che il nucleare sia un tassello cruciale della rivoluzione energetica necessaria per emanciparsi dalla dipendenza dal greggio importato dall’estero. Ai leader del partito democratico che premono sulla Casa Bianca per ottenere una sospensione degli stanziamenti varati nel 2010 per costruire in Georgia la prima nuova centrale nucleare in 30 anni, Obama risponde facendogli sapere che «i nostri impianti sono sicuri» ribadendo che il nucleare serve «a dipendere di meno in futuro dai gas nocivi» e dunque a proteggere il clima. Anche questa scelta per Obama implica ritagliare all’America un ruolo di leadership: nella rivoluzione energetica.

Abituato ai combattimenti duri della politica di Chicago, atteso fra 10 mesi da una difficile campagna per la rielezione ed alle prese in Libia con una crisi che evidenzia il rischio di dipendere dal greggio dei dittatori, il Presidente che viene dalle Hawaii e scelse Tokyo per rivolgere all’Asia il discorso sulla partnership del XXI secolo, vede nel dopo-tsunami l’opportunità di confermare il ruolo di guida dell’America nel mondo multilaterale. Scommettendo sull’abilità dei tecnici della «National Resources Commission» di scongiurare una catastrofe nucleare.

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