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Autore Discussione: SERGIO ROMANO.  (Letto 96268 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Aprile 15, 2012, 11:28:47 am »

IL GOVERNO TECNICO E LE IMPRESE

Una frattura insostenibile

Il governo Monti non ha «sospeso la democrazia», come qualcuno sostiene. Ha una maggioranza parlamentare, ha discusso i suoi programmi con tutti i partiti pronti ad ascoltarlo, e ha ascoltato a sua volta le proposte delle associazioni che rappresentano interessi di categoria. Ma nessuno - partiti, sindacati, Confindustria - può dimenticare perché è nato e che cosa sarebbe accaduto se l'Italia non fosse riuscita a restaurare rapidamente la sua credibilità. A quale prezzo avremmo dovuto rifinanziare il debito pubblico se il divario fra il rendimento delle nostre obbligazioni e quello dei Bund tedeschi non fosse notevolmente diminuito? Avremmo potuto riconquistare il posto che ci spetta nelle riunioni di Bruxelles e nei vertici mondiali?

Sembra che da noi non vi sia soltanto la vista corta, di cui parlava Tommaso Padoa-Schioppa, ma anche la memoria corta. Partiti e sindacati (anche Confindustria è un sindacato) hanno ignorato l'obiettivo comune per rivendicare interessi particolari. Il governo ha giustificato queste dimenticanze. Certi aggiustamenti, fatti quando le riforme erano presentate come definitive, hanno risvegliato vecchi appetiti. Non si può cedere a una richiesta senza provocarne altre e senza rimettere in moto la macchina degli egoismi. Ogni partito, ogni sindacato si è ritenuto autorizzato a chiedere qualcosa che tenesse conto della propria base. Il rischio oggi non è soltanto quello di riforme diluite e inefficaci. Il vero rischio è il progressivo sfaldamento di quella solidarietà tra le maggiori forze nazionali che è stata sinora la più importante dote del Paese. Continuare così esporrebbe l'Italia al fallimento del governo, alla brusca fine della legislatura e a elezioni anticipate. Vi è qualcuno, tra le forze più responsabili, che sia disposto ad accettare questa prospettiva e a raccoglierne l'eredità? Anche se la cosa non piace ai nemici dell'Ue e della globalizzazione, in Europa siamo tutti (ma l'Italia in particolare per l'importanza della sua economia) sorvegliati speciali. Un Paese in campagna elettorale rischierebbe di somigliare alla Grecia delle prossime settimane.

Forse il futuro del governo sarebbe meno travagliato se la riforma del mercato del lavoro fosse accompagnata da misure che non dimentichino la crescita e le imprese. Con le dichiarazioni fuori tono del suo presidente e con il nuovo contenzioso aperto ieri da una polemica risposta al ministro Fornero, Confindustria ha ottenuto l'interessato appoggio del Pdl e ha accentuato le divisioni della maggioranza. Ma sul problema degli accessi e sulla sorte delle troppe partite Iva di alcune aziende, le preoccupazioni degli imprenditori meritano di essere ascoltate.

Nella sua forma attuale la legge Fornero rischia di scoraggiare le assunzioni. Ciò che maggiormente deve premere al governo oggi è sanare questa intollerabile frattura con gli industriali ed evitare che la rappresentanza dei loro interessi venga regalata a un partito. Un emendamento concordato potrebbe chiudere questo capitolo e permettere al governo di aprire gli altri di cui, per ricominciare a crescere, abbiamo urgente bisogno.

Sergio Romano

15 aprile 2012 | 8:35© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_aprile_15/una-frattura-insostenibile-sergio-romano_e91c2462-86c3-11e1-9381-31bd76a34bd1.shtml
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« Risposta #121 inserito:: Maggio 09, 2012, 03:04:46 pm »

Il voto in Francia e Grecia

Segnali contrastanti

Chi crede nell'unità dell'Europa ha spesso constatato con un certo rammarico che nelle campagne elettorali dei suoi membri si parlava di tutto fuor che del futuro dell'Ue. Quello stesso europeista potrebbe constatare oggi, forse con altrettanto rammarico, che negli ultimi giorni, soprattutto in Francia e in Grecia, dell'Europa si è parlato sin troppo. Lo hanno fatto beninteso soprattutto coloro che all'Ue e alla globalizzazione (per molti sono due volti della stessa cosa) attribuiscono tutti i mali del momento: l'oppressione fiscale, la perdita del posto di lavoro, il precariato, l'attesa della pensione prolungata nel tempo. Insieme alla crisi olandese e al malumore spagnolo le elezioni francesi e greche dimostrano che nell'Unione europea esiste ormai un partito d'opposizione formato da un largo ventaglio di movimenti troppo diversi per marciare insieme, ma abbastanza numerosi per rendere la vita difficile a chi nei prossimi anni avrà il compito di governare il suo Paese.

Il quadro sarebbe incompleto, tuttavia, se non aggiungessimo almeno due osservazioni, di cui la prima concerne la Francia e la seconda interessa particolarmente la Grecia. In Francia il sistema politico ha concesso a tutti gli schieramenti di giocare la loro partita, ma ha lasciato sul campo, alla fine del primo turno, due candidati egualmente convinti, anche se con stile diverso e qualche reticenza, che il loro Paese non può fare a meno dell'Europa. Nicolas Sarkozy ha ceduto alla tentazione di corteggiare i voti del Fronte Nazionale con argomenti protezionisti e xenofobi che appartengono al bagaglio del vecchio nazionalismo francese; mentre François Hollande ha dichiarato di volere rinegoziare o ammorbidire il patto fiscale. Ma il primo è stato il migliore alleato del cancelliere tedesco nella politica europea del rigore. Mentre François Hollande, quando il suo partito fu attraversato da un'ondata di euroscetticismo, rimase fedele alla linea che era stata di François Mitterrand.

Il caso della Grecia è politicamente più complicato. Il presidente francese potrà contare su un sistema costituzionale che fa del vincitore, quale che sia il margine della vittoria, un monarca repubblicano. In Grecia, invece, non vi sarà un vincitore. Il voto si è disperso fra molti partiti e il Paese sarà governato da una coalizione traballante, costretta a misurarsi continuamente con i malumori della piazza. Ma il voto riflette la rabbia della società e il suo giudizio sugli uomini da cui è stata governata piuttosto che i suoi sentimenti sull'Europa. La grande maggioranza dei greci (forse il 70% secondo alcuni sondaggi), crede che la Grecia, fuori dell'Europa, sarebbe perduta. Da queste elezioni e da quelle che verranno nei prossimi mesi l'Europa non uscirà acclamata e trionfante. Ma i suoi nemici non saranno riusciti a dimostrare che esiste qualcosa di meglio su cui investire le proprie speranze.

Sergio Romano

7 maggio 2012 | 8:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_maggio_07/segnali-contrastanti-Romano_c7f439ea-9808-11e1-b99c-a30fdbaea52f.shtml
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« Risposta #122 inserito:: Giugno 15, 2012, 11:55:02 pm »

LE FORZE POLITICHE E IL GOVERNO

Una solidarietà non di facciata

Dopo un incontro a Palazzo Chigi, i partiti della «strana coalizione» (come fu definita da Mario Monti in un momento in cui poteva dare prova di maggiore sicurezza e senso dell'umorismo) hanno fatto alcune cose serie e utili. Si sono accordati per una mozione unitaria in sostegno del governo e hanno permesso che la Camera approvasse con il voto di fiducia una parte importante della legge sulla corruzione.

Non è poco. I maggiori partiti sembrano avere compreso che non potevano assistere, con una sorta di compiaciuta indifferenza, al declino dell'autorità del presidente del Consiglio. Fra gli indici che misurano la salute di un Paese non vi è soltanto il divario fra il rendimento delle obbligazioni italiane e quello dei Bund tedeschi. Vi è anche quel deficit di solidarietà, unità nazionale e testarda volontà di superare la crisi che è stato il peggiore segnale dell'Italia all'Europa in queste ultime settimane. Se vorrà dare un'occhiata alla più recente stampa internazionale, il lettore scoprirà che il giudizio sulla crescente impopolarità del presidente del Consiglio è fondato sul clima politico del Paese e sulla strisciante campagna elettorale che sembra essere la maggiore preoccupazione dei partiti. Se le forze politiche della coalizione ne sono consapevoli, faranno bene a smetterla di alimentare lo scetticismo sul governo Monti e a tenere conto di due realtà.

Dovranno chiedersi anzitutto quale effetto la fine anticipata della legislatura avrebbe in Europa e nel mondo. Tutti (non soltanto i mercati) penserebbero a una riedizione italiana della situazione greca e giungerebbero alla conclusione che l'Italia sta rimettendo in discussione le misure decise per il risanamento dei conti pubblici. I partiti sono pronti a ereditare una situazione verosimilmente molto peggiore di quella che affligge oggi il Paese?

Dovranno ricordare, poi, che il vincitore delle elezioni dovrà affrontare gli stessi dilemmi che sono stati il quotidiano menu di Monti.
È possibile diminuire le tasse e aumentare la spesa sociale senza attendere che i tagli alla spesa pubblica comincino a produrre i loro effetti sul bilancio statale? È possibile colpire più duramente i grandi patrimoni senza favorire la loro uscita dal Paese (il fenomeno è già iniziato) e privare l'Italia degli investimenti di cui ha bisogno? È possibile creare con la Francia e altri Paesi un «fronte della crescita» senza tenere conto delle riserve, non sempre irragionevoli, della Germania?

Monti ha commesso qualche errore e ha fatto qualche mossa sbagliata, ma ha affrontato con coraggio problemi difficili e non poteva certo correggere in sette mesi tutte le cattive scelte politiche ed economiche dei decenni precedenti. Nessuno, a Palazzo Chigi, potrà quindi evitare le questioni che Monti lascerebbe insolute. Se ne saranno consapevoli, i partiti dovranno capire che hanno un obbligo e un interesse: sostenere il governo Monti patriotticamente (parola invecchiata, ma in altri Paesi ancora usata e sentita), lasciargli fare sino alla fine della legislatura ciò che essi, probabilmente, non sarebbero in grado di fare.

P.s. All'inizio del suo governo, Mario Monti ha dato prova di un senso dell'umorismo poco abituale nella politica italiana. Sdrammatizzava le maggiori difficoltà. Dimostrava che certi ostacoli si possono smontare con un sorriso. Infondeva ottimismo. Possiamo suggerirgli di tornare a farne uso?

Sergio Romano

14 giugno 2012 | 9:05© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_giugno_14/monti-solidarieta-non-di-facciata-romano_55085684-b5e3-11e1-a717-30326103327c.shtml
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« Risposta #123 inserito:: Agosto 16, 2012, 07:08:27 pm »

PAUL RYAN E LA DEMOCRAZIA CHE SI RADICALIZZA
 
I moderati nell’angolo
 
L’uomo politico che sarà vicepresidente degli Stati Uniti, se Mitt Romney conquisterà la Casa Bianca, ha alcune delle caratteristiche che molti elettori, non soltanto americani, sembrano apprezzare in questo momento. Paul Ryan è giovane (42 anni, ma è membro del Congresso da quando ne aveva 24), ha il talento del grande comunicatore ed è risolutamente schierato sulle posizioni più radicali della famiglia politica (la destra repubblicana) a cui appartiene. Non ha dubbi. Per l’America dei suoi sogni occorre ridurre drasticamente le tasse, dimezzare quelle sulle imprese, tagliare spietatamente la spesa pubblica per la sanità, le pensioni e gli aiuti alimentari alle fasce più povere della società, vigilare severamente sull’immigrazione. È liberista, ma conservatore in materia di aborto e matrimoni fra omosessuali. E sul diritto di portare armi sembra essere vicino alla National Rifle Association, potente lobby di coloro per cui fucili a ripetizione e pistole di grosso calibro sono un irrinunciabile diritto costituzionale.
 
In apparenza, niente di nuovo. Negli Stati Uniti vi sono sempre state personalità politiche che credono appassionatamente in Dio e nel mercato. Ma Ryan è stato scelto per rafforzare l’immagine elettorale di un uomo che, quando era governatore del Massachusetts, era considerato uno dei più «centristi » fra i maggiori esponenti repubblicani.
 
Oggi, invece, Romney sembra credere che avrà più possibilità di vincere se avrà con sé un compagno conosciuto, tra l’altro, per avere presentato al Congresso un controverso progetto di bilancio che era polemicamente l’opposto di quelli di Barack Obama per il 2010 e il 2011.
 
Stiamo assistendo quindi a una nuova strategia. Per molto tempo i candidati più credibili, nelle maggiori democrazie occidentali, facevano campagne elettorali in cui l’obiettivo, al di là della rituale retorica, era la conquista del centro moderato, vale a dire di quella zona intermedia che non è ideologicamente schierata e che gli inglesi chiamano il «voto fluttuante». È possibile che il nuovo calcolo abbia qualche fondamento. In tempi di crisi economiche e forte conflittualità politica la zona intermedia si è ristretta e le soluzioni più radicali, di destra o di sinistra, esercitano una maggiore attrazione.
 
Quello che accade negli Stati Uniti è già accaduto in alcune recenti elezioni europee, dove le frange radicali sono diventate quasi ovunque più consistenti, e potrebbe accadere anche nelle elezioni italiane e tedesche del 2013. Potremmo consolarci pensando che i vincitori saranno costretti a tenere conto della realtà e ad annacquare i loro programmi. Nessuno oggi, nemmeno il presidente degli Stati Uniti, può fare una politica economica che prescinda da una pluralità di incontrollabili fattori esterni, dal futuro dell’euro a quello del sistema politico cinese. Ma un governo che non mantiene le promesse elettorali avrà l’effetto, soprattutto in questo momento, di esasperare le delusioni degli elettori che a quelle promesse avevano creduto e di alimentare i movimenti dell’anti-politica, oggi presenti in tutti i Paesi occidentali. Abbiamo già una grave crisi dell’economia e corriamo il rischio di avere domani, di questo passo, una crisi peggiore: quella della democrazia.
 
Sergio Romano

14 agosto 2012 | 9:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_14/romano-i-moderati-nell-angolo_c11b0490-e5cf-11e1-aa1f-b3596ab6a873.shtml
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« Risposta #124 inserito:: Agosto 26, 2012, 05:27:00 pm »

LA FASE DUE DEL GOVERNO MONTI

Seminario delle ambizioni

Posso immaginare i sentimenti di Mario Monti e dei suoi ministri. Dovevano raddrizzare il credito del Paese agli occhi dell'opinione europea e vi sono indubbiamente riusciti. Dovevano «mettere in sicurezza i conti pubblici», secondo l'espressione usata dal premier nelle scorse settimane, e l'operazione sembra avere dato buoni risultati. Sanno che non tutte le loro speranze potranno essere realizzate, ma vorrebbero che i loro successori trovassero sul tavolo del Consiglio dei ministri, dopo le elezioni, parecchie riforme già avviate a cui sarà difficile rinunciare. Sanno di dipendere da una maggioranza instabile e contraddittoria, ma vorrebbero metterla di fronte a un fatto compiuto. Hanno un mandato limitato, ma vorrebbero utilizzarlo sino in fondo, anche al di là dei limiti iniziali, e trasformare la crisi dello scorso dicembre in un nuovo miracolo italiano.

Quello che è stato discusso nel lungo Consiglio dei ministri di avant'ieri, tuttavia, è un programma di legislatura. Esiste davvero la possibilità di usare i pochi mesi che ci separano dalle urne per riformare il Fisco, riorganizzare le autonomie locali e la giustizia, tagliare i rami secchi dell'apparato statale, correggere il codice militare di pace, adattare alla legislazione italiana una dozzina di misure europee rimaste nel cassetto, dare un colpo di acceleratore alle privatizzazioni, promuovere la concorrenza e il merito, creare percorsi più rapidi e funzionali tra la scuola e il lavoro, favorire la nascita di nuove imprese, attrarre investimenti esteri, mettere in cantiere nuove infrastrutture per 15 miliardi di euro? Dopo le esperienze degli scorsi mesi, il governo non può ignorare che sono molto rari i casi in cui le riforme, anche quando sono approvate dal Parlamento, diventano immediatamente applicabili. Molto spesso queste leggi assomigliano a quei piani militari di cui il grande Clausewitz diceva che si scontrano nella realtà con la «frizione», vale a dire con una somma di fattori difficilmente misurabili che sorgono sulla loro strada e ne impediscono l'applicazione.

È una regola che vale per tutti i Paesi, ma particolarmente per l'Italia, terra di lobby, corporazioni e legulei. Sappiamo quanto tempo sia stato necessario per la riforma del mercato del lavoro e quante difficoltà il suo funzionamento debba superare in questi giorni. Per fare tutto ciò che è stato discusso avant'ieri, Monti ha bisogno di due condizioni che non ha: il tempo e la collaborazione di una Pubblica amministrazione che, guarda caso, è in cima alla lista delle cose da rifare.
Forse è meglio, a questo punto, che il governo riveda le sue priorità. Il seminario di Palazzo Chigi è stato utile e molti progetti esaminati in quella occasione dovranno essere materia di confronti tra i partiti e l'opinione pubblica durante la campagna elettorale. Ma il tempo stringe e al governo conviene puntare su un numero limitato di misure importanti. Credo che a molti italiani piacerebbe rivedere a Palazzo Chigi alcune delle persone che hanno partecipato all'ultimo Consiglio dei ministri. Ma avranno maggiori possibilità di tornarvi se non avranno promesso agli italiani, di qui alle prossime elezioni, ciò che non sono in grado di mantenere.

Sergio Romano

26 agosto 2012 | 9:28© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_agosto_26/seminario-ambizioni-romano_9ff60dee-ef45-11e1-a77a-6fc61f313bc3.shtml
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« Risposta #125 inserito:: Settembre 10, 2012, 08:40:16 pm »

Il QUIRINALE E LA CAMPAGNA ELETTORALE

Un percorso ragionevole

Un anno fa, al Seminario Ambrosetti di Cernobbio, il presidente della Repubblica, rispondendo a una domanda, disse che cosa avrebbe fatto se si fosse aperta una crisi di governo. Si sarebbe valso dei suoi poteri e della prassi costituzionale per chiamare a consulto tutte le forze politiche e si sarebbe assunto la responsabilità «anche di fare una proposta per la soluzione della crisi». Chiarì ancora meglio il suo pensiero aggiungendo che la Costituzione gli dava tra l'altro la facoltà d'incaricare la persona che avrebbe dovuto formare il nuovo governo. Descrisse, in altre parole, quello che sarebbe accaduto tre mesi dopo.

Ieri a Cernobbio Napolitano ha fatto un intervento molto europeo fondato sulla convinzione che il riordino dei conti pubblici, le riforme e l'impegno europeo dell'Italia siano le componenti necessarie di una stessa politica. Vi è nel suo pensiero una sorta di teorema. L'Italia non ha un futuro se volta le spalle all'Europa, ma non sarà europea se non coglierà questa occasione per eliminare molti dei vizi che l'hanno progressivamente allontanata dai principali standard europei. In questo spirito Napolitano ha parlato anche delle prossime elezioni, che si terranno non dopo il prossimo aprile, e ha lanciato alle forze politiche un messaggio che a me è parso avere il sapore di un ammonimento. Dovranno fare una nuova legge per l'elezione del Parlamento perché è richiesta dal Paese. E dovranno fare una campagna elettorale con i loro rispettivi programmi, come deve accadere in ogni battaglia democratica, ma senza rimettere in discussione l'opera del governo Monti. Mi è parso che in queste parole si debba leggere l'invito a incorporare nelle proposte dei partiti quell'insieme di riforme che è stato realizzato o impostato dal governo. Credo volesse dire che non vi è spazio, dopo quanto è accaduto e sta accadendo nell'eurozona, per arretramenti o cambiamenti di rotta. L'Europa non comprenderebbe e i mercati ricomincerebbero a scommettere contro l'Italia. Di qui al giorno delle elezioni, il governo farà il possibile per completare il lavoro iniziato, ma chiunque governerà l'Italia dovrà ereditarne il programma.

Il presidente della Repubblica ha lasciato intendere che fra le riforme messe in cantiere dal governo e il pensiero del Quirinale esiste una forte consonanza. Qualche giorno fa, scrivendo su questo giornale, avevo espresso l'opinione che l'azione del governo si fosse allargata sino a comprendere molte nuove iniziative, forse troppe per un Paese in cui ogni legge diventa operativa con esasperante lentezza. Oggi ho l'impressione che quelle iniziative rispondessero a una strategia in cui il Quirinale ha avuto un ruolo decisivo.
Le parole di Napolitano non piaceranno a quelle forze politiche che promettono di capovolgere, se conquisteranno il potere, tutto ciò che il governo ha realizzato in questi mesi. Tanto meglio. Se l'esortazione di Napolitano verrà accolta dai partiti della «strana coalizione», il Paese avrà di fronte a sé una scelta netta: per il risanamento e con l'Europa, per la demagogia senza l'Europa.

Sergio Romano

9 settembre 2012 | 11:54© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_09/editoriale-sergio-romano-un-percorso-ragionevole_cceeca46-fa37-11e1-8b17-dca3fd9108f4.shtml
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« Risposta #126 inserito:: Settembre 19, 2012, 04:49:33 pm »

IL CONTENZIOSO FRA CINA E GIAPPONE

Venti di guerra ad uso interno

Le isole che hanno il nome di Dyaou a Pechino e quello di Senkaku a Tokyo formano un piccolo e inospitale arcipelago roccioso. Ma le loro acque contengono grandi risorse petrolifere e sono quindi un boccone attraente per ciascuno dei grandi Paesi, la Cina e il Giappone, che ne rivendicano il possesso. Accanto al petrolio vi è poi, in entrambi i campi, l'orgoglio nazionale, vale a dire la scintilla che può sempre, soprattutto fra popoli che si sono duramente combattuti sino alla prima metà del Novecento, dare fuoco alle polveri. Ma è difficile immaginare che le piazze cinesi, in questi giorni piene di folle tumultuanti contro il Giappone e le sue aziende, assomiglino alle piazze arabe dove le proteste furono certamente spontanee e colsero il governo di sorpresa.
Non è necessario essere un dietrologo per sospettare l'esistenza di un nesso tra queste manifestazioni e la situazione politica della Repubblica popolare. La trasmissione del potere a una nuova classe dirigente, prevista per la fine dell'anno, è stata turbata da scandali di cui non abbiamo ancora compreso la reale portata. Sul caso di Bo Xilai, ricco e ambizioso governatore maoista del Chongqing, e su quello di sua moglie, processata nelle scorse settimane per l'assassinio di un uomo d'affari inglese, conosciamo poco più delle scarse notizie che le autorità cinesi hanno lasciato trapelare. Ma le vicende degli scorsi mesi e la reticenza del regime sembrano dimostrare che il malessere è grave, investe il vertice del partito e ha provocato rotture non ancora riparate. Il contenzioso con il Giappone è reale, ma non è possibile escludere che le manifestazioni contro Tokyo servano a distrarre l'attenzione dei cinesi dalla crisi del partito e a unirli patriotticamente contro il vecchio nemico. Come abbiamo constatato quando un missile americano, l'8 maggio 1999, colpì l'ambasciata cinese a Belgrado durante la guerra del Kosovo, il nazionalismo è un interruttore che il partito comunista cinese può accendere e spegnere a piacimento.
Ma vi sono circostanze che rendono la situazione inquietante. La Cina e il Giappone attraversano momenti difficili. La crescita dell'economia cinese è stata bruscamente rallentata dalla crisi dei maggiori mercati mondiali. Quella dell'economia giapponese è da due decenni vicina allo zero. La Cina ha nelle sue casseforti 900 miliardi di dollari americani e dipende dallo stato di salute del suo debitore. Il Giappone ha un debito pubblico pari al 200% del prodotto interno lordo. La Cina è malata di corruzione. Il Giappone, dopo lo tsunami, ha bisogno di energia nucleare, ma l'opinione pubblica ha costretto il governo ad annunciare, sia pure con qualche riserva, la chiusura delle centrali entro trent'anni. Quanto più i litiganti sono deboli e nervosi, tanto più le liti diventano pericolose. In altri tempi questa sarebbe stata una faccenda asiatica di cui avremmo potuto occuparci con un certo distacco. Oggi, in un mondo globalizzato e interdipendente, una guerra tra Cina e Giappone avrebbe ripercussioni negative sulla crisi dell'euro, sull'economia europea e quella americana, sulla stabilità dell'India e sul ruolo asiatico della Russia. Ci restano le grandi istituzioni internazionali create negli ultimi decenni: l'Onu, le maggiori organizzazioni asiatiche e quella del commercio mondiale (Wto) di cui Obama ha suggerito l'intervento nelle scorse ore. Sappiamo per esperienza che non fanno miracoli. Ma possono servire a imporre quella pausa di riflessione di cui Cina e Giappone, in questo momento, hanno urgente bisogno.

Sergio Romano

18 settembre 2012 | 9:18© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_18/contenzioso-cina-giappone-Romano_bd9535d8-0150-11e2-a63e-daa4ff219e76.shtml
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« Risposta #127 inserito:: Ottobre 06, 2012, 04:11:22 pm »

OBAMA SCONFITTO DA ROMNEY IN TV

Un presidente nell'angolo


A giudicare dai sondaggi, oracoli delle società moderne, Mitt Romney è stato molto più convincente di Barack Obama. Ma non è chiaro se la maggioranza degli americani abbia creduto al suo programma o abbia soprattutto apprezzato la sua recitazione. La politica è sempre stata spettacolo e l'agorà fu, sin dagli inizi, un palcoscenico. Ma la democrazia di massa, il suffragio universale, la personalizzazione del potere, la televisione, i riflettori puntati sul volto dei contendenti e i tempi assegnati dall'arbitro ai loro interventi hanno trasformato il confronto delle idee in una gara in cui i giocatori vengono giudicati per il loro stile, la prontezza dei riflessi, la capacità di alternare fermezza e ironia, l'efficacia di una battuta usata come un colpo di fioretto.

Obama è uno straordinario oratore. Il suo primo successo politico nazionale fu il discorso che pronunciò alla Convenzione del Partito democratico il 27 luglio del 2004: una commovente combinazione di ricordi familiari e di idealismo americano. Il genere in cui eccelle è quello delle disquisizioni accademiche, appreso e praticato lungamente sulla cattedra dell'Università di Chicago. Ma preferisce parlare a una platea e non essere interrotto. Romney invece è disteso, rilassato, spontaneo. Le sue numerose gaffe sono il sottoprodotto di un'oratoria più affabile e naturale.

Sulle cose che faranno i due avversari non hanno detto alcunché di nuovo. In una diversa sede, di fronte a un centinaio di persone, il rigore di Obama sarebbe stato più convincente degli argomenti con cui Romney ha sostenuto che i ricchi sono tanto più bravi, nell'interesse del Paese, quanto meno vengono tassati. Ma di fronte a una platea composta da milioni di elettori la sua ricetta è parsa migliore di quella dell'avversario. La partita, tuttavia, non è finita. Molti spettatori si chiederanno a mente fredda per quale dei due contendenti convenga davvero votare e vi saranno ancora due dibattiti durante i quali Obama farà tesoro della lezione che gli è stata impartita a Denver. Ma non dovrà dimenticare che lo scontro televisivo per la Casa Bianca è ormai la versione moderna del giudizio di Dio. Non è un fenomeno recente. Si dice che Richard Nixon abbia perduto la sua gara contro Kennedy, nel 1960, perché i riflettori avevano spietatamente rivelato che sul suo volto vi era «l'ombra delle cinque del pomeriggio», quel velo nero che resiste alla più accurata delle rasature.

Al di là di queste riflessioni sulla politica come teatro, il duello di Denver sembra dimostrare che Romney, dopo una campagna impostata su temi che piacevano alla destra repubblicana e al movimento del Tea Party, vuole ora conquistare i voti del centro moderato. Quando annunciò che il candidato alla vice-presidenza sarebbe stato Paul Ryan, irriducibile avversario dei programmi sanitari di Obama, Romney parlava a tutti coloro per cui il presidente è un pericoloso socialista. Di qui al giorno delle elezioni, invece, dovrà parlare a chi non è necessariamente schierato da una parte o dall'altra. Sono questi gli elettori che decideranno il risultato dell'elezione. Per loro, probabilmente, i dati economici non sono meno importanti dei duelli televisivi. Se la politica monetaria della Federal Reserve (acquisto illimitato di titoli di credito a tasso zero per favorire la crescita) continuerà a segnalare qualche progresso, forse Obama ha ancora qualche possibilità di restare alla Casa Bianca.

Sergio Romano

5 ottobre 2012 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_05/un-presidente-nell-angolo-romano_6c486f1c-0eaa-11e2-8205-e823db4485d4.shtml
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« Risposta #128 inserito:: Ottobre 11, 2012, 06:35:15 pm »

L’ISTITUZIONE LOMBARDIA DA DIFENDERE

Un sospetto intollerabile


Sicuro di sé, infastidito dalle domande della stampa, il presidente della Regione Lombardia continua a sostenere che le accuse mosse contro la sua amministrazione sono «fiction» e che il caso dell’assessore Domenico Zambetti, accusato di avere pagato 200.000 euro a una organizzazione criminale per l’acquisto di 4.000 preferenze, è un caso personale. Formigoni sembra dimenticare che il caso Zambetti non è un episodio isolato. È l’ultimo capitolo, per ora, di una serie di vicende in cui sono coinvolti 14 esponenti della Regione (di cui quattro assessori tra l’attuale e la precedente giunta) e che hanno avuto per risultato l’arresto di cinque persone. Non mi azzardo ad anticipare un giudizio su indagini non ancora concluse. Mi limito a osservare che le dimissioni o il rapido ricorso al voto, in queste circostanze, non sono necessariamente un indice di colpevolezza. Un governo si dimette o si rinnova quando le accuse e i sospetti incidono sulla sua credibilità, interferiscono nelle sue funzioni quotidiane, rendono sempre più difficile il lavoro per cui è stato eletto. Il compito di un’amministrazione nazionale o locale è quello di rendere un servizio ai suoi cittadini, non quello di fare una logorante battaglia polemica su un terreno ricoperto da scandali e indagini giudiziarie. Non è tutto. Formigoni dimentica di essere alleato di una Lega che aspira a conquistare la Regione ed è ora guidata da un ex ministro dell’Interno, orgoglioso della propria politica contro le mafie.

Con quale animo Roberto Maroni avrebbe potuto continuare a sostenere un’amministrazione di cui faceva parte, sino a poche ore fa, un uomo accusato di avere commerciato voti con una di esse? Come è possibile che sull’amministrazione di una delle maggiori Regioni italiane pesi il sospetto di una collusione con la ’ndrangheta proprio nel momento in cui il governo ha deciso di commissariare Reggio Calabria? Formigoni, invece, rivendica i meriti della sua amministrazione, vanta le virtù della Sanità regionale o preferisce eludere l’argomento accusando il governo Monti di praticare una anacronistica e dannosa politica centralizzatrice. È vero che la Lombardia, almeno in termini relativi, è stata in questi anni una delle Regioni più efficienti del Paese.

Ma un gesto coraggioso del suo presidente, in questo momento, dimostrerebbe che quanto più alti sono gli standard dell’efficienza tanto più alti devono essere quelli dei comportamenti civili. Mentre l’ex presidente della Provincia Filippo Penati rinvia le proprie dimissioni e Renata Polverini non si decide a sciogliere il suo Consiglio, Formigoni, prendendo atto di una situazione intollerabile, avrebbe il merito di rendere l’aria del Paese un po’ più pulita. Sino ad ora il presidente della Regione è parso conformarsi alle vecchie abitudini della peggiore politica italiana. È a metà del suo quarto mandato, nella fase decisiva che precede l’inaugurazione dell’Expo, ma preferisce correre il rischio di un patetico epilogo in cui dovrà impiegare buona parte del suo tempo a difendere se stesso anziché gli interessi della propria città e della propria regione. Se accettasse il diktat della Lega («un passo a lato o un passo indietro») e prendesse l’iniziativa di sciogliere il Consiglio e tornare alle urne, farebbe ai lombardi e, in particolare, ai milanesi, il migliore dei regali possibili: quello di arrivare all’appuntamento dell’Expo senza i sospetti e le vicende giudiziarie che avvelenerebbero gli ultimi tre anni del suo mandato.

Sergio Romano

11 ottobre 2012 | 8:09© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #129 inserito:: Ottobre 28, 2012, 10:36:30 am »

L'EDITORIALE

Il Paese in ostaggio

Quando abbiamo appreso che Silvio Berlusconi avrebbe fatto un passo indietro e lasciato ad altri la guida del suo partito, ho pensato che nessuno dei suoi futuri biografi, indipendentemente dal loro giudizio politico, avrebbe potuto ignorare la sua capacità di entrare e uscire al momento giusto. Il suo messaggio televisivo del 26 gennaio 1994 ha riempito un vuoto e suscitato molte speranze in una parte dei suoi connazionali. Il suo «passo indietro» di qualche giorno fa sembrava avere tolto di mezzo una ipoteca e un alibi.

Il suo partito avrebbe smesso di aspettare, inerte, la decisione del padre-padrone e sarebbe diventato infine «maggiorenne», vale a dire costretto a scegliere un leader, un programma, una strategia elettorale. I partiti dell'opposizione avrebbero dovuto smetterla di fare della lotta contro Berlusconi una delle principali ragioni della loro esistenza. Avrebbero dovuto chiedere voti con un programma credibile e spiegare al Paese con quali alleati lo avrebbero realizzato. Il dibattito elettorale sarebbe stato meno fazioso, il confronto fra diversi programmi più utile al Paese e al suo futuro, la risposta dell'elettore meno condizionata dall'ingombrante presenza di un uomo che ha molto contribuito a dividere l'Italia in due opposte tifoserie. E i giornali non sarebbero stati costretti a riempire le loro pagine di accuse reciproche su temi che non hanno alcun rapporto con la realtà economica e sociale del Paese.

Con il suo intervento di ieri Berlusconi rende questa prospettiva molto più difficile. L'ex presidente del Consiglio ha confermato il suo messaggio precedente, ma lo ha contraddetto con una perorazione per se stesso che è parsa in molti momenti un regolamento di conti. Ha rivendicato i meriti della politica finanziaria del suo governo dopo lo scoppio della crisi. Ha accusato Germania e Francia, tra le righe, di avere complottato contro la sua persona. Ha implicitamente rimproverato al governo Monti di non avere mantenuto un impegno preso al momento della sua formazione (la riforma della Costituzione) e, più esplicitamente, di avere fatto la politica imposta da Berlino. Ha prospettato soluzioni demagogiche sulla fiscalità e sulla casa che sembrano essere la versione forbita delle filippiche di Beppe Grillo. Ha messo in discussione l'obiettività della Corte costituzionale e le funzioni della presidenza della Repubblica.

Ha dipinto un quadro troppo ottimistico del Paese nel 2011 e troppo pessimistico nel 2012. Ha trasformato una questione personale in una questione nazionale e ha presentato il proprio caso come la prova della ingovernabilità del Paese. Ha dimostrato di avere un ego gigantesco, impermeabile a qualsiasi altra considerazione e preoccupazione. Si è chiesto ad esempio quale sarà domani la reazione dei mercati e degli investitori quando giungeranno alla conclusione che il leader del partito di maggioranza (così viene ancora percepito) ha sconfessato il governo dei tecnici, dichiarato guerra alle istituzioni e delineato un programma che riporterebbe il Paese alle condizioni del novembre 2011? Resta da capire come Berlusconi, dopo avere confermato il suo «passo indietro», intenda agire nei prossimi mesi per dare un seguito pratico alle sue analisi e battersi, come ha promesso, per la riforma della giustizia.

Nessuno può negargli il diritto di fare le sue battaglie. Ma il suo partito, se desidera essere una forza politica nazionale, deve prendere le distanze dal fondatore. Se riuscirà a sbarazzarsi del «padre» potrà aspirare alla conquista di una parte del voto moderato. Se continuerà a essere il partito di Berlusconi, verrà inevitabilmente considerato uno strumento del suo conflitto d'interessi.

Sergio Romano

28 ottobre 2012 | 8:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_ottobre_28/paese-in-ostaggio-romano_a564bd48-20cd-11e2-89f5-89e01e31e2ac.shtml
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« Risposta #130 inserito:: Novembre 30, 2012, 11:32:34 am »

BERLUSCONI E I RESTI DEL PDL

La casa vuota dei moderati

Diciotto anni fa Silvio Berlusconi ebbe il merito di comprendere che la crisi della Democrazia cristiana e dei socialisti avrebbe privato molti italiani delle due case politiche con cui avevano una certa tradizionale familiarità. Gli orfani non avrebbero saputo per chi votare e il vuoto creato dalla scomparsa dei due partiti avrebbe regalato alle sinistre una vittoria sproporzionatamente superiore al reale seguito di cui godevano nel Paese. Berlusconi esagerò la prospettiva di una minaccia comunista, ma la creazione di Forza Italia ebbe l'effetto di riequilibrare il sistema politico e di offrire agli italiani la possibilità di una scelta. Capimmo che il fondatore di Mediaset aveva fatto la cosa giusta quando constatammo che una parte importante della sinistra aveva deciso di imitarlo. La scelta di Romano Prodi fu un omaggio indiretto alla iniziativa politica di Berlusconi. Molti conservatori liberali capirono che la nuova casa dei moderati era stata costruita dall'uomo sbagliato e che il conflitto d'interessi del costruttore, con le sue numerose ricadute giudiziarie, avrebbe acceso un'ipoteca sul futuro del Paese. Ma la logica imposta dalle circostanze non è necessariamente la migliore. L'iniziativa fu di Berlusconi e il merito, al di là degli errori e delle omissioni dei suoi governi, è certamente suo.

Oggi, tuttavia, Berlusconi sta facendo esattamente l'opposto di ciò che aveva fatto nel 1994. Anziché prodigarsi per la sopravvivenza della sua creatura, non sembra avere altra stella polare fuorché se stesso. Non si chiede che cosa possa giovare al Pdl per conservare credibilità agli occhi degli elettori moderati. Si chiede, passando continuamente da una tattica all'altra, che cosa convenga maggiormente alla sua persona e alla sua immagine. Recitare la parte del padre nobile? Riesumare Forza Italia? Sostenere Angelino Alfano, segretario del partito, o congedarlo? Attaccare Mario Monti o indicarlo al Paese come il suo erede e successore? Sostenere l'agenda Monti o diventare una sorta di Grillo in doppio petto, pronto a sfruttare tutti i malumori e i rancori della società nazionale? Assorbito nella contemplazione di se stesso Berlusconi non si accorge che la sinistra, nel frattempo, ha aperto le finestre della sua casa, ha indetto una sorta di pubblico concorso per la sua leadership, è diventata molto più credibile di quanto fosse negli scorsi mesi. Per uno straordinario rovesciamento dei ruoli Berlusconi sta creando il vuoto che diciotto anni fa era riuscito a riempire. Per chi voteranno nella prossima primavera i conservatori liberali e i moderati?

Le primarie, se organizzate per tempo, sarebbero state, probabilmente, la migliore delle soluzioni possibili. Se è troppo tardi, l'unica strada percorribile per il Pdl è quella di un congresso che non sia la solita convention, fatta di luci, applausi, canzoni, discorsi di circostanza e trionfo finale del leader. Al Pdl occorre un appuntamento in cui vi sia spazio per discussioni, denunce, proposte ed esami di coscienza. Soltanto così gli elettori che non si sentono sufficientemente rappresentati da altre formazioni politiche del centrodestra, sapranno se nel Pdl vi siano ancora donne e uomini, possibilmente nuovi, degni di aspirare alla loro fiducia. Beninteso il congresso sarà utile soltanto se Berlusconi accetterà di assistere dalle quinte. Farebbe un bel regalo di Natale al suo partito e a se stesso.

Sergio Romano

30 novembre 2012 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_novembre_30/la-casa-vuota-dei-moderati-sergio-romano_3d08654c-3ab8-11e2-b4fa-74f27e512bd0.shtml
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« Risposta #131 inserito:: Febbraio 24, 2013, 04:11:01 pm »

RITORNO ALLA DUREZZA DEI PROBLEMI

Il principio di realtà


In democrazia le elezioni sono il momento della scelta e del confronto. Se un candidato spiega quali misure possano ridurre il debito e aumentare la crescita, un altro lo smentirà sostenendo che è meglio agire diversamente. Non siamo tutti economisti ma il confronto può servire a rendere il quadro più chiaro e il voto più consapevole.

Ho scritto che le elezioni «sono» il momento del confronto ma avrei dovuto usare il condizionale e aggiungere che nel caso italiano quasi tutti i candidati hanno rifiutato di parlarsi (o non si sono accordati sul modo in cui farlo) e hanno declamato i loro programmi senza contraddittorio. Non tutti sono demagoghi e populisti ma la presenza in scena di due consumati commedianti (Silvio Berlusconi e Beppe Grillo) ha fissato le regole della partita e ha indotto gli altri ad adottarle. Abbiamo ascoltato insulti, affermazioni perentorie e promesse che non saranno mantenute. Quando alcune proposte apparentemente più concrete sono state sottoposte all'esame di istituti specializzati, come ha spiegato Roger Abravanel sul Corriere di ieri, sono emersi molti dubbi sulla loro «fattibilità e coerenza».

Nessuno, salvo errore, ha avuto il coraggio di spiegare che nell'eurozona e nel mercato globale gli strumenti tradizionali, con cui i governi manovravano l'economia, sono in buona parte scomparsi. Non è possibile stampare moneta, svalutare, imporre dazi sulle importazioni e, soprattutto, impedire che i mercati giudichino la credibilità dei nostri bond fissando il tasso d'interesse che lo Stato italiano dovrà pagare a chi gli presta il suo denaro. Forse l'aspetto più paradossale di questa campagna elettorale è la frequenza con cui i giudizi di governi e giornali stranieri sono stati considerati intollerabili interferenze. Non possiamo compiacerci di essere, nonostante tutto, una grande economia mondiale e pretendere che altri aspettino pazientemente il risultato delle nostre elezioni senza esprimere preferenze. Abbiamo il diritto di eleggere chi ci piace senza dare retta ai consigli di Angela Merkel ma non possiamo ignorare che esiste ormai uno spazio europeo in cui il voto di un Paese può influire sulla sorte degli altri.

Resta una speranza: che il risultato dissolva la nebbia in cui è stato avvolto sinora il campo di battaglia e provochi un soprassalto di realismo e buon senso. Vi sono pur sempre persone e partiti che sanno di quali riforme il Paese abbia bisogno per ripartire. Abbiamo una economia ingabbiata, ostaggio di settori privilegiati e organizzati che non hanno altro obiettivo fuor che quello di difendere i loro diritti acquisiti. Uno studio recente dell'International Monetary Fund, citato dall' Economist , sostiene che lo smantellamento di queste fortezze, con un alleggerimento della pressione fiscale, regalerebbe all'Italia, in 10 anni, un aumento del Pil (Prodotto interno lordo) pari al 20%. Ma sulla strada di quell'obiettivo vi sono i cavalli di frisia degli interessi personali e corporativi. Al Paese occorre un governo che abbia il coraggio di abbatterli.

Sergio Romano

24 febbraio 2013 | 8:54© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #132 inserito:: Marzo 13, 2013, 11:36:53 am »

PARTITI, ISTITUZIONI: TUTTI CONTRO TUTTI

La sindrome dei Balcani


Per alcuni anni il partito di maggioranza relativa in Svizzera (Unione democratica di centro, fondata dall'industriale Christoph Blocher) è stato una forza politica intollerante, xenofoba, attraversata da umori razzisti e pregiudizialmente ostile a qualsiasi forma di integrazione europea. Le sue posizioni non erano condivise dagli altri maggiori partiti democratici (cristiano-sociali, socialisti, liberali) ma non hanno impedito che fra questi fratelli nemici si stabilisse un pragmatico rapporto di collaborazione nell'interesse del Paese. È accaduto perché tutti, anche Blocher, hanno capito che un dissidio interno, portato alle sue estreme conseguenze, avrebbe impedito alla Confederazione di affrontare e superare le grandi crisi economiche e finanziarie degli ultimi anni. Il risultato della convivenza fra i maggiori partiti svizzeri, nell'ambito di una grande coalizione, è un Paese prospero in cui le grandi banche hanno risanato i propri conti, la maggiore preoccupazione della Banca centrale è quella di evitare che l'eccessivo apprezzamento della moneta nazionale pregiudichi le esportazioni, il tasso di disoccupazione è al 3,1%, i cittadini elettori dicono no alla riduzione delle ore di lavoro e sì a quella dei bonus con cui i banchieri gratificano se stessi.

L'Italia ha imboccato la strada opposta. I partiti e persino le istituzioni (fra cui la stessa magistratura) non hanno altro orizzonte fuorché quello della propria sopravvivenza, della propria identità, della difesa delle proprie prerogative. Conosciamo bene i nostri mali: spese inutili, un Parlamento pletorico, una classe politica avida, una burocrazia e una giustizia paralizzanti, un gettito fiscale che non giova alla crescita perché serve in buona parte a pagare i debiti del Paese. Ma ogniqualvolta un governo cerca di prendere il toro per le corna, quasi tutti vedono nelle riforme soltanto il danno che potrebbe derivarne per la famiglia politica o sindacale a cui appartengono. Come nella penisola balcanica all'inizio degli anni Novanta, il desiderio di sfogare la propria rabbia e punire il «nemico» prevale su qualsiasi altra riflessione.

Per un breve periodo (i primi mesi del governo Monti) abbiamo sperato che le maggiori forze politiche avrebbero assicurato all'esecutivo la loro collaborazione. Più recentemente abbiamo sperato che il risultato inconcludente delle elezioni avrebbe costretto i maggiori partiti (quelli che hanno grosso modo programmi convergenti) ad accantonare i loro dissensi. Avrebbero dato al Paese un governo e al Movimento 5 Stelle lo spettacolo di una classe dirigente ancora capace di un soprassalto di orgoglio e buon senso. È accaduto esattamente il contrario. Nessuno è disposto a sacrificare qualcosa o a fare un passo indietro. Come nei Balcani, durante il decennio degli anni Novanta, si è perduto, a quanto sembra, il sentimento di un destino comune. I primi ad accorgersene saranno i partner europei e, naturalmente, i mercati. Quando constateranno che l'Italia balcanizzata è soltanto un campo di battaglia fra corporazioni economiche e istituzionali, tutti smetteranno di attendere il suo risanamento e cominceranno a scommettere sul suo collasso. Il costo del debito aumenterà e tutto diventerà ancora più difficile. Beninteso, quel giorno le battaglie corporative che hanno paralizzato il Paese avranno perduto qualsiasi significato: non vi sarà più niente da spartire.

Sergio Romano

13 marzo 2013 | 7:44© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_13/la-sindrome-dei-balcani-sergio-romano_2e2d9900-8ba0-11e2-8351-f1dc254821b1.shtml
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« Risposta #133 inserito:: Marzo 22, 2013, 06:29:38 pm »

LA CONVERGENZA SULLE ISTITUZIONI

L'equilibrio indispensabile

Se il leader del Pd avesse preso atto della realtà, il tempo trascorso sarebbe stato impiegato per preparare soluzioni diverse


Se tenessero alle sorti del Paese, le forze politiche avrebbero dovuto riconoscere, subito dopo il voto, che vi sono almeno tre fattori da cui è impossibile prescindere. In primo luogo non esistono vincitori. In un momento di buon senso Pier Luigi Bersani aveva ammesso che neppure il 51% avrebbe consentito al suo partito di governare il Paese. Oggi sembra invece convinto che lo 0,4% in più rispetto alla coalizione di centrodestra arrivata seconda lo autorizzi a pretendere per la sua parte, insieme alla presidenza delle Camere, la guida di un governo che vivrà alla giornata contrattando continuamente la fiducia con forze e gruppi decisi a pretendere, per esserne ripagati, concessioni non sempre utili e ragionevoli.

In secondo luogo occorrerà tornare alle urne, ma non con questa legge elettorale. Sapevamo che quella dell'on. Calderoli è una pessima legge, ma non potevamo immaginare che le elezioni si sarebbero concluse con un photofinish e che il voto avrebbe regalato il 54% della Camera al minor perdente. Votare con questa «lotteria» sarebbe molto più azzardato di quanto non fosse il secondo voto greco nel giugno del 2012. Potremmo avere un altro risultato inconcludente al Senato e addirittura una maggioranza del Movimento 5 Stelle alla Camera.

In terzo luogo ciò che maggiormente serve all'Italia in questo momento è un governo che non susciti i dubbi dell'Europa e lo scetticismo dei mercati. Ancora prima delle molte riforme necessarie al Paese occorre far capire immediatamente a tutti che la linea politica sarà quella concordata a Bruxelles nelle scorse settimane: la crescita, indubbiamente, ma senza deroghe al programma di risanamento dei conti pubblici, se non quelle concordate con l'Ue. Considerata alla luce di questa esigenza la strategia di Bersani ha avuto l'effetto di allungare i tempi dell'incertezza e di rendere la crisi italiana intraducibile in qualsiasi altra lingua europea.

Se il leader del Pd avesse preso atto della realtà, il tempo trascorso tra il voto e le consultazioni sarebbe stato impiegato per preparare soluzioni diverse, più adatte alle esigenze del Paese. So che non è realistico pensare a un'alleanza organica tra il Pd e il Pdl. Berlusconi ha risollevato le sorti del suo partito e continua ad avere un consenso che corrisponde grosso modo a un terzo dei votanti. Ma è una figura troppo controversa per essere accettabile alla maggior parte del Pd. Le differenze tra i due partiti, tuttavia, non sono tali da precludere il loro appoggio convergente a un governo istituzionale composto da persone competenti, credibili non soltanto in Italia, soprattutto estranee al clima delle contrapposizioni frontali e delle reciproche scomuniche. Non sarà comunque un governo di legislatura. Quando avrà cambiato la legge elettorale (un obiettivo che richiede quanto meno un accordo fra i due maggiori partiti), avviato qualche riforma istituzionale tra quelle su cui vi è un più diffuso consenso e dimostrato all'Europa che l'Italia non intende rinunciare al risanamento dei conti pubblici, vi saranno nuove elezioni in un clima diverso. Aggiungo che un paio d'anni all'opposizione sarebbero per il Movimento di Grillo la migliore delle scuole possibili.

È questa, credo, la strada per uscire dalla crisi. Permetterebbe di non perdere altro tempo alla ricerca di una maggioranza improbabile e il nuovo governo darebbe al mondo, ancora prima di cominciare a lavorare, il più efficace dei segnali.

Sergio Romano

22 marzo 2013 | 9:59© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_marzo_22/equilibrio-indispensabile-romano_76d2ba72-92b8-11e2-b43d-9018d8e76499.shtml
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« Risposta #134 inserito:: Aprile 02, 2013, 12:33:41 pm »

SUI PROGRAMMI CONVERGENZE POSSIBILI

Il tempo vuoto della politica

Le due commissioni create dal presidente della Repubblica hanno sollevato critiche fondate e condivisibili, ma servono anzitutto a riempire un tempo vuoto della crisi e a meglio fare comprendere, implicitamente, che l'Italia non è senza governo. Quello di Mario Monti, anche se le elezioni per i centristi sono andate male, non è mai stato sfiduciato ed è competente per gli affari correnti: un'area deliberatamente mal definita che può essere allargata sino a comprendere, per esempio, molte decisioni prese d'intesa con le istituzioni europee. Se Napolitano voleva lanciare ai partner dell'Unione un segnale rassicurante, quello delle commissioni era il più adatto al momento.

Ma supponiamo che il capo dello Stato avesse anche uno scopo pedagogico: dimostrare che dieci persone intelligenti e di buona volontà sono perfettamente capaci di mettersi d'accordo su alcuni obiettivi utili al futuro del Paese. I dieci non sono privi di un profilo politico e sono quasi tutti riconducibili a un partito. Ma non sono schierati sul campo di battaglia con il grosso delle truppe, non obbediscono alle regole di un match da cui si esce vittoriosi o sconfitti, partecipano a un esercizio in cui tutti possono essere egualmente vincitori.

È molto meno difficile di quanto non sembri. Quando sono sul palcoscenico sotto la luce dei riflettori, i partiti tendono a esasperare le loro differenze e ciascuno di essi rappresenta l'altro come una minaccia alla salute della Repubblica. Ma anche in Italia, come in ogni altro Paese europeo, le distanze tra i programmi si sono considerevolmente accorciate. È finita l'era delle ideologie, quando ogni grande partito prometteva un futuro totalmente diverso ed egualmente radioso. È cominciata da tempo una fase in cui il Pd e il Pdl, per non parlare dei centristi e di altre formazioni minori, non mettono in discussione né l'Unione Europea, né l'economia di mercato, né alcuni fondamentali principi delle relazioni internazionali. Abbiamo paradossalmente il vantaggio di attraversare una crisi che è stata ormai perfettamente diagnosticata. Conosciamo bene le parti invecchiate della nostra Costituzione. Sappiamo perché il Paese, da vent'anni, cresce poco e male. Sappiamo che il debito pubblico ci costa ogni anno, per il pagamento degli interessi, circa 80 miliardi di euro e che il gettito fiscale, in queste condizioni, non può essere usato né per finanziare la crescita né per alleviare le condizioni dei ceti sociali più bisognosi di aiuto. Sappiamo infine che l'economia è frenata dalla mentalità illiberale di corporazioni, ordini professionali e famiglie di ogni genere, tutte fondate sulla lealtà interna e unite da uno stesso odio per la concorrenza.

I partiti che non hanno fumosi programmi di totale rinnovamento, come il Movimento 5 Stelle, lo sanno e dovrebbero conoscere ormai i rimedi. Ma la loro principale preoccupazione è esistere, anche a scapito del Paese, e magari riportarlo alle urne, come ha chiesto ieri il Pdl, con una legge elettorale che non garantisce certezze. In queste condizioni è meglio lasciare che le commissioni di Napolitano facciano il loro lavoro. Se riusciranno a riunire in uno stesso documento un certo numero di obiettivi comuni, avranno almeno dimostrato che governare l'Italia è possibile.

Sergio Romano

2 aprile 2013 | 7:46© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_02/tempo-vuoto-della-politica-romano_0f04f464-9b55-11e2-9ea8-0b4b19a52920.shtml
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