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Autore Discussione: SERGIO ROMANO.  (Letto 96315 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Febbraio 16, 2014, 11:01:09 pm »

Rischi e opportunità di uno strappo
L’impazienza di un leader

Matteo Renzi è impaziente. Conosceva le intenzioni del presidente del Consiglio. Sapeva che Letta si preparava a prendere la parola in Parlamento per esporre al Paese una versione aggiornata del suo programma e chiedere la fiducia delle Camere. Ma il sindaco di Firenze non è né deputato né senatore e ha preferito evitare un voto parlamentare spostando il dibattito là dove il podio sarebbe stato interamente suo. Il galateo democratico avrebbe richiesto una diversa procedura, ma l’impazienza non è necessariamente un difetto. Può anzi accadere, soprattutto in un Paese di cavilli e dilazioni, che la rapidità con cui Renzi ha rovesciato in pochi giorni la sua linea politica e organizzato la propria designazione possa sembrare alla pubblica opinione una prova di carattere e di energia. Le reazioni dei mercati e dei governi amici sembrano dargli ragione; e la fortuna, come è confermato dal giudizio di una agenzia di rating (che concerne peraltro i suoi predecessori) aiuta notoriamente gli audaci. Toccherà a lui, ora, convincere il Paese che potrà contare sulle sue promesse.

È questo, tuttavia, il punto su cui è lecito fare qualche domanda. Sino a qualche giorno fa il leader del Partito democratico sembrava convinto che l’Italia avesse bisogno, anzitutto, di due riforme istituzionali: una nuova legge elettorale, secondo i criteri concordati a suo tempo con Silvio Berlusconi, e un nuovo Senato. Senza queste due riforme il Paese avrebbe corso il rischio di tornare alle urne con un sistema proporzionale «puro» (che garantisce l’ingovernabilità) e avrebbe eletto un Senato che presenta un duplice inconveniente: raddoppia i tempi della politica nazionale e ha generalmente una maggioranza diversa da quella della Camera. Renzi ci spiegava allora che il presidente della Repubblica, dopo l’approvazione in Parlamento di quelle due riforme, avrebbe sciolto le Camere e permesso agli italiani di scegliere, infine, un governo. E aggiungeva che era quello il momento in cui lui avrebbe vinto la partita.

La stessa persona, tuttavia, ci dice ora che desidera governare sino alla fine della legislatura. Con quale legge elettorale? Con quale sistema bicamerale? Con quali alleati? Se continuerà a lavorare per una nuova legge elettorale e un nuovo Senato, dovrà mettere in conto la possibilità che le elezioni abbiano luogo subito dopo le due riforme. Se preferirà restare al governo il più a lungo possibile, cercherà di rinviare le riforme all’ultima fase della legislatura.

Vi è un altro aspetto del problema che nessun candidato alla presidenza del Consiglio dovrebbe dimenticare. Anche Renzi, come Silvio Berlusconi, ha cambiato lo stile e i tempi della politica italiana. Ma l’Italia non ha cambiato la sua Carta costituzionale ed è ancora il Paese dove il presidente del Consiglio è il più precario degli uomini di Stato europei. Quanti presidenti del Consiglio, nei panni di Letta, sarebbero stati costretti a dimettersi? Se Renzi non vuole correre lo stesso rischio, è necessario che nella sua agenda di governo vi sia anche il capitolo delle riforme costituzionali.

16 febbraio 2014
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Sergio Romano

Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_16/impazienza-un-leader-1321c51a-96d9-11e3-bd07-09f12e62f947.shtml
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« Risposta #151 inserito:: Aprile 13, 2014, 05:45:44 pm »

L’ex Senatore e l’ex Cavaliere

Di Sergio Romano

Sul piano giudiziario il caso di Marcello Dell’Utri sembra avviato alla sua conclusione. Un uomo, condannato a sette anni da un tribunale del suo Paese per concorso esterno in associazione mafiosa, va all’estero «per ragioni di salute», senza chiedere il permesso ai magistrati, grazie a complicità che sembrano avvalorare la condanna. La polizia riesce ad arrestarlo nel giro di un paio di giorni. L’uomo sarà probabilmente costretto a rientrare in patria. Ma non è un cittadino qualsiasi. È stato per molti anni l’amico e il principale collaboratore della persona che ha già dato il suo nome a un ventennio della storia nazionale. Ha modellato un partito, ne ha scelto e formato i quadri, ha applicato con successo alle campagne politiche il linguaggio e le tecniche delle campagne pubblicitarie e degli annunci promozionali. È stato parlamentare della Repubblica.

Non è sorprendente quindi che la sua improvvisa scomparsa dall’Italia e il suo forzato ritorno in patria facciano discutere. Abbiamo letto e continueremo a leggere per parecchi giorni commenti indignati o comprensivi, a seconda della collocazione politica e delle simpatie o antipatie di chi scrive o manifesta pubblicamente le sue impressioni. In un Paese dove gran parte della classe politica finisce, prima o dopo, in una aula di tribunale, (l’ultimo caso è quello dei coniugi Mastella), la giustizia si è inevitabilmente politicizzata; e il passaggio di tanti magistrati alla vita politica, soprattutto negli ultimi vent’anni, ha finito per rendere questa anomalia ancora più vistosa.

Ma il caso Dell’Utri è diverso e dovrebbe essere valutato, anche da chi crede nella sua innocenza, in un’altra prospettiva. Nel corso del processo, in uno Stato democratico, l’imputato ha il diritto di difendersi, contrattaccare e può essere umanamente compreso persino se sostiene di essere vittima di una giustizia ostile. Può fare, in altre parole, tutto ciò che Berlusconi e altri imputati eccellenti hanno fatto in questi anni. Ma la sentenza è un’altra cosa. Chi si batte nel corso del processo, anche con manovre dilatorie, dimostra di accettare, sia pure a malincuore, le regole del sistema. Chi sfugge alla sentenza, invece, accetta il sistema sino a quando ritiene di poterlo usare a suo favore e gli volta la spalle non appena constata di non esservi riuscito. La fuga, in questo caso, è un gesto eversivo. Se è consentito fare confronti tra personalità alquanto diverse, Dell’Utri non è il primo politico italiano che fugge all’estero nel corso di una vicenda giudiziaria. Giovanni Giolitti andò in Germania nel dicembre del 1894, quando gli fu detto che correva il rischio di essere arrestato per lo scandalo della Banca Romana, e rimase a Berlino per un mese e mezzo. Ma tornò in Italia non appena fu raggiunto da un mandato di comparizione del tribunale di Roma. Bettino Craxi lasciò l’Italia per Hammamet durante i processi di Mani pulite e commise un errore che il socialismo italiano non ha ancora smesso di pagare. Giolitti si difese in Parlamento e fu per quasi vent’anni il dominus della politica italiana. Craxi, anche per le sue cattive condizioni di salute, è divenuto irrilevante e ha trascinato con sé il Psi. Se Forza Italia non vuole subire la stessa sorte, soprattutto in un momento in cui l’immagine di Berlusconi si sta appannando, occorre che il suo leader e i suoi maggiori esponenti dicano sulla vicenda Dell’Utri una parola chiara. Devono semplicemente, senza distinzioni fumose e poco convincenti, disapprovare e condannare.

13 aprile 2014 | 10:25
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Da - http://www.corriere.it/politica/14_aprile_13/ex-senatore-l-ex-cavaliere-e066c14c-c2e4-11e3-a3de-4531ca6bc782.shtml
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« Risposta #152 inserito:: Maggio 05, 2014, 11:43:29 pm »

ESTERI
Cina e Stati Uniti, conseguenze molto reali del sorpasso che non c’è

di SERGIO ROMANO

Sulla effettiva rilevanza politica ed economica di alcune statistiche mondiali è permesso avere qualche dubbio. Se il Prodotto interno lordo della Cina, secondo i calcoli della Banca mondiale, ha superato quello degli Stati Uniti, è bene ricordare che i confronti tra realtà eterogenee sono spesso ingannevoli. La Cina ha un miliardo e 350 milioni di abitanti, gli Stati Uniti 300 milioni. Quale è il reddito medio dei cinesi e degli americani? La Cina spende ogni anno per le forze armate il 2% del suo Pil e gli Stati Uniti spendono il 4%; ma la somma complessiva del loro bilancio militare è superiore a quella di tutti i bilanci militari del pianeta. È vero che fra il 2011 e il 2014 la Cina ha registrato una crescita pari al 24% mentre gli Stati Uniti sono cresciuti del 7%. Ma converrebbe tenere presente che il tasso di crescita del colosso cinese dipende dalle condizioni economiche in cui versava il Paese quando Deng Xiaoping dette il via alle sue riforme. Non è possibile che il ritmo di crescita di un mercato interno pressoché saturo, come quello degli Stati Uniti, sia meccanicamente comparabile con quello di un Paese che emerge da un lungo sottosviluppo.

Ma la politica e l’economia non sono fatte solo di cifre. Sono fatte anche di percezioni psicologiche e di reazioni popolari, spesso sollecitate e manipolate da partiti e gruppi di interessi. Lo scavalcamento cinese nuocerà all’immagine di Barack Obama e darà argomenti più o meno pretestuosi a quella parte della società politica americana che lo considera inetto, remissivo, esitante e del tutto incapace di far fronte alle nuove sfide che minacciano il ruolo mondiale del suo Paese. Gli verranno sempre più frequentemente rimproverate quelle che critici e oppositori considerano le sue colpe maggiori: il negoziato con l’Iran, il passo indietro nella crisi siriana, gli inutili tentativi per la soluzione della questione palestinese, la prudenza dimostrata durante la vicenda ucraina e nei rapporti con Putin.

Non è tutto. Il sorpasso cinese fornirà argomenti anche a coloro che annunciano e profetizzano il declino dell’Occidente di fronte all’ascesa di nuovi colossi continentali: la Cina, l’India, il Brasile, per non parlare di antichi concorrenti come la Russia e Giappone. Obama potrà replicare che la sua riluttanza di fronte alla possibilità di altre avventure armate, come quelle di George W. Bush, è approvata dal 53% dei suoi connazionali. E potrà ricordare che gli isolazionisti repubblicani e democratici, sempre più numerosi, non hanno in realtà una politica estera degna di questo nome. Ma le circostanze, in un mondo agitato da parecchie crisi, non gli sono favorevoli. Dovrebbero essere favorevoli, invece, all’Unione Europea. La Cina compete con gli Usa, ma non smette di dirci che sarebbe felice di assistere a una maggiore presenza europea negli affari mondiali. All’Ue non viene chiesto di fare guerre o imporre sanzioni. Le viene chiesto piuttosto di provare che la sua posizione non è sempre soltanto una variante di quella americana e che è pronta ad assumersi responsabilità corrispondenti al suo peso e al suo prestigio.

3 maggio 2014 | 08:06
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_maggio_03/cina-stati-uniti-conseguenze-molto-reali-sorpasso-che-non-c-e-83ab127e-d283-11e3-8ae9-e79ccd3c38b8.shtml
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« Risposta #153 inserito:: Luglio 07, 2014, 12:01:58 am »

Noi e i tedeschi, così vicini così lontani
Il pianista e i pastori

Di SERGIO ROMANO

Come altre coppie europee, l’Italia e la Germania hanno un ingombrante bagaglio storico da cui possono trarre, a piacimento, materia per risentimenti, rimproveri, accuse reciproche. Accade generalmente quando gli uomini pubblici dei due Paesi (politici, ma anche imprenditori, banchieri e giornalisti) cedono alla tentazione di solleticare i pregiudizi e gli umori nazionali delle loro rispettive società. Ne vale la pena? È utile scomodare il passato per complicare il presente e allontanare soluzioni che possono essere soltanto comuni? Credo che ciascuno dei due Paesi dovrebbe piuttosto rendersi conto delle difficoltà dell’altro ed evitare di aggravarle.

Gli italiani, anzitutto, dovrebbero smetterla di trattare Angela Merkel come l’incarnazione femminile di Bismarck e Guglielmo II. La cancelliera è intelligente, autorevole, abile, non priva di un certo opportunismo, ed è rispettata dalla maggioranza dei suoi connazionali. Ma è molto meno forte di quanto non appaia. Governa con il partito socialdemocratico (a cui ha dovuto concedere in questi giorni il salario minimo garantito) ed è guardata a vista da due pastori tedeschi che non hanno alcuna intenzione di farle favori. Il primo, la Bundesbank, approfitta di alcune pagine nere della finanza nazionale fra la Prima e la Seconda guerra mondiale per atteggiarsi a custode dell’ortodossia finanziaria del Paese. Il secondo, il Tribunale costituzionale di Karlsruhe, difende le prerogative del Bundenstag ed esige che ogni cessione di sovranità, a differenza di quanto previsto dalla Costituzione italiana nel suo articolo 11, passi un severo esame nel Parlamento nazionale.

I tedeschi, dal canto loro, dovrebbero rendersi conto di quali e quante difficoltà Matteo Renzi debba superare per realizzare le sue ambizioni. Il Partito democratico ha vinto le elezioni europee con un risultato che ha sbalordito i partner dell’Italia in Europa e ha regalato al suo leader una grande popolarità. Ma una vittoria a Strasburgo non modifica il rapporto delle forze a Roma. Renzi non ha una maggioranza, deve concordare le sue mosse con interlocutori discussi e discutibili, deve combattere su due fronti: quello delle riforme costituzionali e quello delle riforme economico-sociali. Quando i tedeschi pretendono i «fatti» dovrebbero capire che la fine del bicameralismo perfetto e una nuova legge elettorale non sono meno utili, per il futuro del Paese, di quanto siano altre riforme destinate a ridurre la spesa e il debito pubblico. Spesa e debito sono anche il risultato di un sistema in cui i tempi della politica sono infiniti e ogni decisione viene presa alla fine di una tortuosa via crucis costellata di patteggiamenti e compromessi.

È probabile che Renzi, insieme al suo invidiabile dinamismo giovanile, abbia anche qualche difetto della gioventù. Un discorso scritto, in qualche circostanza, può essere più opportuno di un discorso appassionato e improvvisato. Ma Angela Merkel e i suoi pastori tedeschi non possono dimenticare che l’Italia ha bruciato tre leader nel giro di tre anni e che la caduta del quarto provocherebbe una crisi nazionale ed europea dai risultati imprevedibili. Aiutare Renzi, con qualche concessione in materia di flessibilità, a guidare il suo Paese fuori della crisi è anche un interesse tedesco. Parafrasando un cartello che si leggeva un tempo nei saloon del West, è il solo pianista italiano, cercate di non azzopparlo.

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5 luglio 2014 | 07:54
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_05/pianista-pastori-563ff910-0403-11e4-80b4-bb0447b18f3b.shtml

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« Risposta #154 inserito:: Luglio 11, 2014, 11:48:11 pm »

Una candida arroganza
Di SERGIO ROMANO

Può sembrare sorprendente che un fedele alleato, la Repubblica federale tedesca, adotti contro gli Stati Uniti una misura frequente fra i due blocchi durante la Guerra fredda. Ma fra le espulsioni d’allora e quella delle scorse ore contro un funzionario della Cia in servizio a Berlino corre una importante differenza. Quando la Nato e il Patto di Varsavia si guardavano in cagnesco attraverso il sipario di ferro, le espulsioni erano parte del gioco. Chi metteva la mano su una spia mascherata da diplomatico la cacciava dal suo Paese. Sapeva che l’altro Paese avrebbe protestato la propria innocenza e risposto alla «provocazione» espellendo a sua volta un funzionario del campo opposto. Ma le regole volevano che i casi di spionaggio fossero partite a somma zero da cui nessuno dovesse uscire perdente. Questo scambio di scortesie accadeva molto frequentemente soprattutto fra l’Urss e la Gran Bretagna, ma accadde almeno due volte negli anni Ottanta anche fra l’Italia e l’Urss. In ultima analisi non erano atti di reciproca ostilità. Saldato il conto, nemici come prima, vale a dire senza eccessivi rancori e desideri di ulteriori rappresaglie.

Quello che è accaduto fra la Germania e gli Stati Uniti è diverso ed è il risultato di almeno tre fattori. In primo luogo gli attentati dell’11 settembre hanno creato negli Usa un senso d’insicurezza e vulnerabilità che giustifica, agli occhi di molti americani, qualsiasi misura protettiva. Il Patriot Act (la legge voluta da Bush) ha attribuito a tutti i servizi di sicurezza poteri e facoltà che in altri momenti sarebbero parsi clamorosamente illiberali.

In secondo luogo le nuove tecnologie hanno aperto prospettive inimmaginabili. È sempre utile pedinare una persona, ascoltare le sue conversazioni telefoniche e dare un’occhiata al suo conto corrente. Ma è anche possibile gettare nello spazio una enorme rete elettronica e raccogliere una massa d’informazioni in cui gli algoritmi e alcune parole-chiave permetteranno di pescare informazioni interessanti. Ed è anche possibile ascoltare le conversazioni telefoniche di parecchi milioni di persone. Naturalmente, insieme a notizie utili per la sicurezza nazionale, la rete raccoglierà anche imbarazzanti conversazioni private, trattative confidenziali per la conclusione di un affare, scambi d’informazione e di esperienze fra scienziati che stanno lavorando a uno stesso progetto. Siamo davvero sicuri che queste notizie saranno scartate e ignorate? Che non verranno conservate a profitto di chi ne è divenuto proprietario?

Il terzo fattore è la candida arroganza degli Stati Uniti. Il Paese è uscito male dalle sue ultime guerre, ma continua a considerarsi «indispensabile» e quindi autorizzato a fare ciò che ad altri sarebbe proibito. Può promulgare leggi extraterritoriali valide per i giudici americani anche quando il reato, vero o supposto, è stato commesso fuori del territorio degli Stati Uniti. Può pretendere che tutte le linee aeree del mondo forniscano ai servizi americani informazioni sui loro passeggeri. Può pretendere che i contingenti militari americani, quando sono all’estero, godano di una totale impunità. Può considerare Edward Snowden un traditore per avere detto al mondo ciò che il mondo aveva il diritto di sapere.

Nella reazione tedesca vi è anche un fattore personale. Angela Merkel sa che le sue conversazioni telefoniche erano ascoltate e non ha ancora digerito l’affronto. Ma dovremmo piuttosto chiederci se non sia giusto, nell’interesse dell’Europa e dei rapporti con gli Stati Uniti, che qualcuno manifesti finalmente il suo disappunto.

11 luglio 2014 | 07:27
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DA - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_11/candida-arroganza-d688464e-08b9-11e4-89ec-c067e3a232ce.shtml
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« Risposta #155 inserito:: Luglio 18, 2014, 06:10:16 pm »

LE DUE CRISI E IL RISCHIO DELL’IRRILEVANZA
Il paravento occidentale

Di Sergio Romano

Per conoscere con certezza le cause del disastro aereo nei cieli ucraini, di cui è stato vittima un Boeing delle linee malesi, con la morte di 298 persone, occorrerà attendere probabilmente le fotografie scattate dai satelliti americani. Soltanto allora sapremo se si tratti di un incidente, di un collasso strutturale o se il velivolo sia stato colpito da un missile che potrebbe essere stato lanciato dal suolo (secondo prime indicazione di fonte americana) o da un altro aereo. Ma vi sono situazioni, come quella ucraina, in cui tutto assume immediatamente una valenza politica. Ancora prima di attendere i risultati delle indagini, i ribelli filorussi accusano le forze armate ucraine, e il governo di Kiev a sua volta ritorce l’accusa sui ribelli o addirittura sulla Russia, «colpevole» di avere considerevolmente aumentato negli scorsi giorni il numero delle truppe (ora circa diecimila) dislocate lungo la frontiera. Vi sarà persino qualcuno che non mancherà di ricordare il volo 007 delle linee sudcoreane, durante il viaggio da Anchorage a Seul, abbattuto da un missile sovietico il 1° settembre 1983 mentre sorvolava le coste occidentali delle isole Sakhalin. I portavoce dell’Urss negarono dapprima qualsiasi responsabilità e sostennero poi di avere eliminato un aereo spia.

Non era vero e fu un terribile errore che provocò la morte di 269 passeggeri e membri dell’equipaggio, ma ebbe luogo durante la Guerra fredda, quando ogni crisi, anche la più drammatica e sanguinosa, veniva trattata nella inconfessata convinzione di entrambe le parti che niente giustificasse un conflitto fra le maggiori potenze. Due anni dopo, quando Gorbaciov divenne segretario generale del partito comunista dell’Unione Sovietica, il dramma era già stato dimenticato.

Quell’era è finita. Oggi assistiamo a sanguinosi scontri in Ucraina, ma anche nella Striscia di Gaza, per non parlare della Siria e dell’Iraq, in cui la logica di chi governa non è necessariamente quella di chi combatte. Non credo che Vladimir Putin voglia una guerra con l’Ucraina e penso che ne abbia dato una prova, dopo l’annessione della Crimea, abbassando il volume delle deprecazioni e delle accuse. Non credo neppure che il governo di Kiev coltivi la strategia avventurista del tanto peggio tanto meglio. E non credo infine che il primo ministro israeliano sia deciso a continuare l’assalto a Gaza fino alla definitiva distruzione della Striscia, rischiando di vincere sul terreno e perdere nella guerra delle percezioni e delle immagini. Ma temo che nessuno dei tre sia in condizione di controllare totalmente le sue fazioni più radicali e le reazioni di coloro che hanno sul terreno un rischioso compito operativo. Ci sono russi, non soltanto nel campo dei ribelli dell’Est, che vogliono liquidare una volta per tutte la questione ucraina anche a costo di un grande conflitto regionale; ucraini che vogliono suscitare una generale indignazione e provocare un più incisivo intervento delle democrazie occidentali; israeliani che vogliono mandare all’aria la riconciliazione fra Hamas e l’Autorità nazionale palestinese; fanatici islamisti per i quali una guerra si vince soltanto costringendo il nemico ad uccidere il maggior numero possibile di civili innocenti.

Non è facile fare proposte e suggerimenti. Ma è lecito dire che gli Stati Uniti e l’Unione europea dovrebbero smetterla di baloccarsi con misure punitive di discutibile effetto. Le sanzioni più severe adottate da Washington nelle ultime ore e quelle di cui si è discusso anche nell’ultimo incontro del Consiglio europeo, colpiscono spesso la popolazione più di quanto non feriscano la dirigenza del Paese e sono diventate il paravento dietro il quale le democrazie occidentali nascondono l’irrilevanza della loro diplomazia. Nella questione ucraina occorre impedire che il partito della guerra imponga ai governi la propria logica. È un obiettivo a cui Putin dovrebbe essere non meno interessato del leader ucraino Petro Poroshenko e, per quanto concerne Gaza, del presidente iraniano Hassan Rouhani. Sono loro i nostri migliori interlocutori.

18 luglio 2014 | 07:23
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_luglio_18/paravento-occidentale-69e0ecee-0e3b-11e4-8e00-77601a7cdd75.shtml
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« Risposta #156 inserito:: Agosto 12, 2014, 06:50:56 pm »

LA STRATEGIA PERDENTE
Iraq: Obama, l’ostinazione di un Presidente

di Sergio Romano

Nell’ultima crisi irachena vi è un’altra crisi, forse più grave: quella di Barack Obama e della sua politica. Il presidente degli Stati Uniti non può ignorare che le condizioni dell’Iraq, anche dopo il ritiro delle truppe americane, restano una responsabilità morale del suo Paese. Non può dimenticare che la nascita a Bagdad di un regime settario, ottusamente sciita, ostile alla minoranza sunnita, è avvenuta quando il Paese era occupato dalle sue truppe, non da quelle del suo predecessore. E non può nemmeno ignorare, soprattutto dopo la disastrosa esperienza libica, che le operazioni dall’aria sono sempre insufficienti e, quando occorre liberare centomila esseri umani, inutili. Per salvare i prigionieri dello Stato Islamico bisogna intervenire militarmente sul terreno, respingere le milizie jihadiste, aprire corridoi umanitari, consentire ai profughi di rientrare nelle loro case o trovare alloggio in campi protetti. I droni possono soltanto prolungare l’assedio o addirittura rendere gli islamisti ancora più spietati.

Ma l’intervento militare non sembra rientrare fra le opzioni di Obama. È profondamente convinto che il principale scopo della sua presidenza sia quello di riparare agli enormi danni politici, morali e finanziari provocati dalle due guerre del suo predecessore. Sin dal primo giorno alla Casa Bianca vuole riconfigurare il ruolo degli Stati Uniti nel mondo, ampliare la gamma dei rapporti con l’Asia, aprire un nuovo fronte diplomatico nel Pacifico, evitare nuovi coinvolgimenti, liquidare le troppe questioni pendenti di un passato ingombrante. Si è duramente scontrato con tutte le correnti imperialiste e belliciste del suo Paese, ha subito insulti e atti ostili generalmente risparmiati al presidente. Ma non ha mai rinunciato al suo programma e ritiene che il ritiro delle truppe americane dai due Paesi in cui hanno combattuto per più di dieci anni sia la decisione politica di cui potrà andare maggiormente orgoglioso. Non è sorprendente che anche in questa recente vicenda irachena si attenga a un impegno continuamente riaffermato: gli Stati Uniti non possono e non vogliono essere un poliziotto globale.

Eppure vi sono almeno due considerazioni di cui Obama, in questa particolare vicenda irachena, dovrebbe tenere conto. In primo luogo l’intervento sarebbe completamente diverso da quelli di Bush e persino da quello del 2011 contro Gheddafi. Le guerre del predecessore e quella dall’aria contro il colonnello libico volevano eliminare un regime ed ebbero l’inevitabile effetto di creare instabilità. L’intervento contro lo Stato Islamico, invece, dovrebbe restaurare la stabilità là dove è minacciata da una forza fanatica. In secondo luogo, Obama agirebbe per scopi oggi condivisi da alcune potenze regionali: l’Egitto del generale Al Sisi, anzitutto, ma anche la Turchia del neopresidente Erdogan e l’Iran di Rouhani. Il primo detesta gli islamisti radicali; il secondo è preoccupato dall’incendio che ha contribuito ad alimentare nella vicina Siria; il terzo non desidera perdere le posizioni conquistate a Bagdad. Sarebbe un’alleanza insolita, una inedita Triplice, ma proprio per questo, forse, promettente. Dimostrerebbe che vi sono circostanze in cui gli interessi dell’America coincidono con quelli di una parte importante del mondo musulmano, sunnita e sciita. E potrebbe favorire indirettamente sia la soluzione della crisi siriana sia una più rapida intesa sulla politica nucleare di Teheran. Per gli effetti che potrebbe avere, questa guerra potrebbe essere, oltre che umanitaria, intelligente.

12 agosto 2014 | 08:12
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_agosto_12/iraq-obama-l-ostinazione-un-presidente-125ee91c-21dc-11e4-81f2-200d3848d166.shtml
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« Risposta #157 inserito:: Agosto 21, 2014, 07:04:29 pm »

Editoriale
Le violenze in Iraq: Occidente, Onu e Lega Araba assenti ingiustificati
Il fanatismo islamico avanza e miete vittime mai grandi del mondo sembrano passivi di fronte al dramma.
Serve una grande coalizione per fermare l’Isis

di SERGIO ROMANO

Persino il gesto più efferato e inumano può contenere un segnale politico. La decapitazione del giornalista americano James Foley dimostra che il contrattacco dei peshmerga (il corpo combattente del Kurdistan iracheno) può fermare e respingere l’avanzata del fanatismo islamico verso il cuore dell’Iraq quando è fortemente sostenuto dai raid dell’aviazione americana. Il «Califfato dell’Isis» (Stato islamico dell’Iraq e della Siria) sa ora che può essere battuto.

Le condizioni, oggi, sono potenzialmente alquanto diverse da quelle delle scorse settimane. Nonostante le pressioni di alcuni settori dell’opinione pubblica e del Congresso, il presidente degli Stati Uniti sembra deciso a non intervenire militarmente; ma ha inviato un migliaio di «consiglieri» che appartengono in parte alle forze speciali, e ha stretto un’alleanza operativa tra le milizie curde e l’aeronautica militare degli Stati Uniti. Mentre i peshmerga riconquistano la diga di Mosul e cercano di liberare la città fulmineamente occupata all’inizio d’agosto, l’esercito iracheno sta operando con maggiore efficacia nella zona di Tikrit. Non è, sperabilmente, lo stesso esercito che è fuggito in disordine cedendo le sue armi al nemico durante la prima fase del conflitto. A Bagdad esiste un nuovo presidente del Consiglio, Haider Al Abadi, gradito sia a Washington che a Teheran, meno settario e imbelle del suo predecessore. Molte tribù sunnite sembrano avere compreso che il Califfato sarebbe più pericoloso per il loro futuro di quanto siano stati sinora gli sciiti di Bagdad.

Indifferenti e passive sino a qualche giorno fa, potrebbero domani combattere contro i fondamentalisti dello Stato islamico come combatterono contro Al Qaeda nell’ambito della strategia perseguita dal generale Petraeus nel 2007.

Esistono ancora molti vuoti che occorre riempire. Obama reagisce all’avvenimento del giorno, ma non sembra avere un disegno complessivo degli obiettivi da raggiungere, una strategia all’altezza delle circostanze. Gli europei si muovono in ordine sparso con decisioni spesso giuste (come quella adottata ieri dalle commissioni parlamentari italiane sulla fornitura di armi ai peshmerga), ma senza riferimenti a una politica comune. La Lega Araba è assente. L’Onu è inerte, impotente. La responsabilità è anche di coloro (i membri della Nato) che decisero di scavalcare la maggiore organizzazione internazionale all’epoca della guerra del Kosovo. Ma il segretario generale non può limitarsi a essere il silenzioso e condiscendente notaio delle grandi potenze: ha responsabilità internazionali e ha l’obbligo di fare maggiormente sentire la sua voce.

Per salvare l’Iraq ciò che serve in questo momento è una grande coalizione fra tutti coloro che hanno un evidente interesse a fermare per tempo l’avanzata di una minoranza fanatica. Quando esiste un nemico comune - non meno pericoloso per l’Iran, la Turchia e la Russia di quanto sia per gli Stati Uniti e l’Unione Europea - le altre divergenze divengono irrilevanti e devono passare in seconda linea. Occorre fare, in altre parole, ciò che riuscì a George H. W. Bush quando decise che la liberazione del Kuwait, aggredito dall’Iraq di Saddam Hussein, avvenisse sotto l’egida dell’Onu con il consenso esplicito o tacito di tutte le maggiori potenze. Oggi, mentre il suo lontano successore sembra esitante e incerto, questo compito dovrebbe ricadere anche e soprattutto sulle spalle dell’Unione Europea.

21 agosto 2014 | 07:22
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Da - http://www.corriere.it/cultura/14_agosto_21/violenze-iraq-occidente-onu-lega-araba-assenti-ingiustificati-58095c24-28f1-11e4-8091-161094bc7e0e.shtml
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« Risposta #158 inserito:: Agosto 30, 2014, 09:21:19 am »

Turchia, la retrovia del disordine
Il ruolo ambiguo della Repubblica di Erdogan.
Voleva essere amico di tutti e oggi ha più nemici di quanti ne avesse prima dell’avvento del neo presidente al potere

di SERGIO ROMANO

Dall’inizio alla fine della Guerra fredda la Turchia è stata per la Nato il più sicuro degli alleati e per Israele il più prezioso degli amici. Il Paese ha attraversato fasi difficili e momenti tumultuosi, ma era pur sempre governato, dietro le quinte, da una casta militare filo-occidentale con cui il Pentagono aveva ottimi rapporti. L’assuefazione addormenta gli spiriti critici e molti americani furono colti di sorpresa quando il Parlamento di Ankara, nel 2003, non permise alle truppe degli Stati Uniti di attraversare il territorio turco per colpire l’Iraq di Saddam Hussein anche da Nord.

La fine della Guerra fredda aveva cambiato la collocazione geopolitica del Paese. La Turchia non era più il custode occidentale degli Stretti e la sentinella della Nato nel Mar Nero, ai confini con un mondo ostile. Era diventata (meglio: ridiventata, come durante l’Impero Ottomano) il cuore di una larga area euro-asiatica che comprende una parte del Levante e si estende sino alle repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale. Poteva continuare a essere il fianco sud-orientale della Nato, ma poteva anche diventare il partner favorito di alcuni Paesi emersi dalla disintegrazione dell’Impero sovietico. La vittoria di un partito musulmano nel 2002 e la formazione di un governo presieduto dal suo leader, Cerep Tayyip Erdogan, nel marzo del 2003, hanno accentuato la seconda tendenza. Erdogan ha dimostrato che il ritorno alla fede non è incompatibile con lo sviluppo e che un Paese musulmano può essere protagonista di un miracolo economico.

Nel giro di pochi anni il «modello turco» si è imposto in molte società musulmane come il solo capace di conciliare democrazia, fede e progresso. Non sapevamo ancora quale uso Ankara avrebbe fatto di questo nuovo capitale politico e constatavamo, d’altro canto, che non intendeva rinunciare all’ingresso nell’Unione europea. Potevamo dunque continuare a contare su una Turchia filo-occidentale? È vero che la domanda di adesione permetteva a Erdogan di usare l’Europa per meglio sbarazzarsi dell’ingombrante presenza dei militari al vertice dello Stato, ma noi avremmo potuto incoraggiare la scelta europea della Turchia abbreviando i tempi del negoziato. Per compiacere alcuni Paesi, fra cui Germania e Francia, li abbiamo invece enormemente allungati: una scelta che ha probabilmente incoraggiato in Turchia i partigiani della politica neo-ottomana del suo ministro degli Esteri, Ahmet Davutoglu.

Il momento della scelta fra queste due possibili strade è giunto nel 2011. Erdogan e Davutoglu hanno creduto che la Turchia, sostenendo le rivolte arabe, avrebbe potuto prenderne la guida. Nel settembre di quell’anno Erdogan corse al Cairo dove fu accolto trionfalmente. Attratta da questa nuova prospettiva, la Turchia ha sostenuto la Fratellanza musulmana e il governo di Mohammed Morsi, ha abbandonato il presidente siriano Bashar Al Assad, con cui Erdogan aveva avuto eccellenti rapporti, è diventata la retrovia della guerra siriana e l’inevitabile complice delle sue componenti più radicali. Voleva essere amica di tutti e ha oggi più nemici, in Africa del Nord e nel Golfo Persico, di quanti ne avesse prima dell’avvento di Erdogan al potere. Potrebbe rivedere le sue scelte e correggere la sua politica estera, ma la recente promozione di Davutoglu alla presidenza del Consiglio sembra suggerire il contrario. Il Paese che credeva di avere una ricetta per i mali della regione, rischia di finire in corsia con gli altri malati.

27 agosto 2014 | 07:20
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Da - http://www.corriere.it/cronache/14_agosto_27/turchia-retrovia-disordine-7cefd2bc-2da5-11e4-833a-cb521265f757.shtml
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« Risposta #159 inserito:: Settembre 14, 2014, 06:37:58 pm »

Il sospetto ricorrente

di Sergio Romano

Fra i dati sull’Italia, elaborati periodicamente dall’Istat e da Eurostat, manca quello sulla fiducia. Se esistesse, scopriremmo che i nostri partner, indipendentemente dalle pubbliche dichiarazioni dei loro governi e dai comunicati ufficiali alla fine di un incontro bilaterale, non credono nel nostro Paese. Alcune ragioni sono storiche: le guerre fatte a metà, i cambiamenti di campo, il continuo divario fra il Nord e il Sud, gli impegni non rispettati, il familismo amorale, la giungla burocratica, la democrazia clientelare, il peso della criminalità organizzata sulla vita politica e sociale. Altre sono più recenti e più importanti. Come tutti i membri dell’Unione europea, l’Italia è passata attraverso le crisi della modernità, da quella sociale e generazionale del ‘68 a quella delle nuove tecnologie, dal ritorno ai mercati dopo il declino dello Stato assistenziale negli anni Ottanta alla crisi del credito nel primo decennio del nuovo secolo.

Gli italiani, a tutta prima, sembrano consapevoli della necessità di cambiare, ma il loro sistema politico, a differenza di quelli dei partner maggiori, ritarda i mutamenti o finisce per annegarli in un diluvio di norme insufficienti e contraddittorie. Le Commissioni bicamerali per una nuova Costituzione muoiono senza avere prodotto alcun risultato. Berlusconi fa promesse che non verranno mantenute. Ogni riforma, da quella del lavoro a quella della giustizia, trova sulla sua strada un partito della contro-riforma, composto da corporazioni che difendono i loro privilegi chiamandoli ampollosamente «diritti acquisiti». Le leggi, quando vengono approvate, sono redatte in modo da produrre risultati parziali e mediocri. Da Tangentopoli a oggi sono passati ventidue anni: una generazione perduta.

Vi sono momenti in cui i nostri partner sarebbero felici di credere nell’Italia. Mario Monti è stato accolto entusiasticamente. Enrico Letta, agli inizi del suo governo, godeva di molte simpatie e di grande comprensione. Ma la rapidità con cui entrambi sono stati espulsi dal sistema politico trasforma il credito iniziale in nuovo pessimismo e in più radicale sfiducia. Matteo Renzi ha acceso qualche nuova speranza, ma il modo in cui saltella da un annuncio all’altro e sembra essere continuamente alla ricerca di un nuovo obiettivo, a maggiore portata di mano, comincia a creare diffidenza e scetticismo anche negli ambienti che lo avevano salutato come il Tony Blair italiano.

Niente è irreparabile. In un libro recente, apparso in Italia presso il Mulino e in Inghilterra presso la Oxford University Press, un economista, Gianni Toniolo, dimostra che l’Italia è quasi costantemente cresciuta dagli anni Novanta dell’Ottocento agli anni Novanta del Novecento. Ma non si cresce, nel mondo d’oggi, senza la fiducia dei mercati internazionali e i capitali degli investitori stranieri. E non si crea fiducia se il governo non riesce a sconfiggere con qualche cambiamento reale e immediatamente visibile, quei partiti della contro-riforma che sono da troppo tempo i veri padroni dell’Italia.

14 settembre 2014 | 09:18
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_14/sospetto-ricorrente-ab89d260-3bd5-11e4-b554-0ec832dbb435.shtml
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« Risposta #160 inserito:: Settembre 28, 2014, 03:45:07 pm »

Una battaglia, anche culturale
I terroristi che sono tra noi
La posta è troppo alta perché l’Europa e gli Stati Uniti possano limitarsi a combattere per procura

Di Sergio Romano

Nella guerra contro lo Stato islamico vi sono almeno due battaglie da combattere con metodi diversi. La prima è militare. Sarà necessario liberare i territori iracheni occupati dalle milizie islamiste e riconquistare Raqqa (la loro capitale siriana) senza troppo disquisire sulla possibilità che l’operazione possa giovare al regime di Bashar al Assad.

Questa guerra verrà fatta prevalentemente dall’aria per consentire ai peshmerga curdi di cacciare l’Isis dalle loro terre e all’esercito iracheno di riconquistare le regioni perdute. Ma non è escluso che qualche contingente occidentale debba partecipare alle operazioni. La posta è troppo alta perché l’Europa e gli Stati Uniti possano limitarsi a combattere per procura. Questa non è una vicenda in cui basti raccogliere qualche successo militare. Occorre dimostrare che il progetto del Califfato non è soltanto una intollerabile manifestazione di barbarie; è anche un disegno assurdo, irrealizzabile, dannoso per tutti i Paesi della regione. La guerra a oltranza, in questo caso, serve anche a convincere i giovani combattenti dell’Isis che il fanatismo non rende invulnerabili, che la vita non merita di essere bruciata in questo modo.

La seconda battaglia deve essere combattuta in Occidente contro cellule composte da fanatici alla ricerca di una nuova fede e da veterani di altre battaglie islamiste (più di 3 mila secondo il coordinatore europeo della lotta contro il terrorismo). Conosciamo i loro obiettivi: creare quinte colonne che ci minaccino nelle nostre case, coinvolgere nella lotta le comunità musulmane, costringerci ad adottare misure che rendano lo scontro sempre più aspro, promuovere se stessi al rango di nemici ufficiali dei nostri Paesi. Sono gli obiettivi di tutti i terrorismi, dalle Brigate Rosse agli irlandesi dell’Ira e ai baschi dell’Eta. Vincono quando il loro nemico comincia a subire ricatti e a trattarli come combattenti. Spetta a noi evitare reazioni che possano favorire la loro strategia.

Per vincere abbiamo un’arma che potrebbe rivelarsi efficace: i musulmani europei. Se sapremo coinvolgerli, saranno i nostri migliori alleati. Ne esistono le condizioni. Come quella creata durante la prima guerra del Golfo, la coalizione contro l’Isis non potrà mai essere definita una «crociata» composta da Paesi cristiani. È una ragionevole alleanza fra Paesi di tradizione cristiana e Paesi di tradizione musulmana. Mi piacerebbe che gli storici, un giorno, parlassero della guerra contro l’Isis come dell’evento che maggiormente avvicinò il mondo della cristianità e quello dell’Islam.

27 settembre 2014 | 09:44
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/14_settembre_27/i-ter-roristi-che-sono-noi-484db1c4-4604-11e4-a490-06a66b2e25ed.shtml
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« Risposta #161 inserito:: Gennaio 12, 2015, 10:16:42 pm »

IL COMMENTO

Una guerra che non va perduta
Allearsi con il diavolo per battere il terrore


Di Sergio Romano

Dopo avere pianto i morti e condannato il crimine, questo è il tempo delle decisioni. Se le strategie adottate sinora non hanno impedito l’aggressione di Parigi occorre rifare i conti con la realtà. A una minaccia così evidente e diffusa è necessario rispondere con altri mezzi e programmi. Dobbiamo sapere anzitutto che cosa vogliono i nostri nemici. Distruggere le democrazie occidentali? Uccidere o convertire tutti i fedeli di altre religioni? Strappare Roma al Papa, come sembra essere nelle intenzioni del «califfo» Al Baghdadi? Commetteremmo un errore, a mio avviso, se pensassimo di essere il principale bersaglio dell’Islam jihadista.

La vera guerra, oggi, è quella che si combatte all’interno del mondo musulmano. È la guerra tra una setta fanatica e regimi politici spesso incerti, titubanti, ma tutti più o meno collegati, per ragioni di affinità o convenienza, con l’Europa, gli Stati Uniti e la Russia. È una guerra civile senza quartiere dove le vittime musulmane sono incomparabilmente più numerose di quelle provocate dagli attentati terroristici nelle nostre città. Ed è ulteriormente complicata dall’antico odio fra le due famiglie religiose dell’Islam: sunniti e sciiti. Si combatte sulle frontiere meridionali della Tunisia, in Cirenaica, nel Sinai, in Siria, nelle province che separano la regione di Baghdad dal Kurdistan iracheno, nello Yemen, nel Caucaso, in Afghanistan, in Pakistan, Somalia, Kenya e Nigeria, con improvvisi focolai che si accendono anche negli Stati musulmani dell’Asia sud-orientale.

La guerra contro l’Occidente, in questo quadro, è un conflitto parallelo diretto contro Paesi che i jihadisti considerano protettori o padroni dei loro odiati fratelli. È utile alla loro causa perché serve anzitutto a dimostrare la vulnerabilità dell’Occidente e la micidiale forza del movimento islamista. Ma il principale obiettivo strategico è il reclutamento di nuovi adepti in comunità musulmane dell’Occidente che vorrebbero trasformare in altrettante quinte colonne. Ogni attentato è un appello alle armi, un bando di concorso. Il vero nemico è altrove.

Se questa è la situazione in cui occorre combattere non abbiamo molte scelte. I nostri amici e alleati sono tutti i Paesi musulmani o cristiani che si battono sullo stesso fronte, sono minacciati dagli stessi nemici e rischiano di soccombere di fronte all’ondata islamista.

Winston Churchill disse un giorno che se Adolf Hitler avesse invaso l’inferno, lui non avrebbe mancato di parlare gentilmente del diavolo alla Camera dei Comuni. Il presidente egiziano Al Sisi, il presidente siriano Al Assad, il presidente russo Putin e il presidente iraniano Rouhani non sono diavoli. Sono alla testa di regimi che noi consideriamo carenti di democrazia, polizieschi e repressivi. Ma conoscono l’Islam meglio di noi, hanno già fatto in passato dolorose esperienze (abbiamo dimenticato ciò che accadde nella scuola di Beslan, nell’Ossezia del nord?) e hanno buone ragioni per battersi affinché il loro Paese non venga continuamente insidiato dall’estremismo sunnita o sia destinato a divenire una provincia del Califfato. Se qualche Paese occidentale fosse disposto a mettere truppe sul terreno potremmo forse fare a meno della loro collaborazione. Ma da quando gli Stati Uniti hanno eliminato questa opzione non abbiamo altra scelta fuor che quella di sostenere con tutti i mezzi di cui disponiamo quelli che sul terreno già ci sono.

11 gennaio 2015 | 09:13
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_gennaio_11/guerra-che-non-va-perduta-020eac8c-995f-11e4-a615-cfddfb410c4c.shtml
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« Risposta #162 inserito:: Febbraio 04, 2015, 07:50:05 am »

Editoriale
Grecia, i numeri che contano

Di Sergio Romano

È stato detto che la Grecia è troppo piccola perché la sua uscita dall’eurozona abbia effetti irreparabili sulle sorti dell’euro e dell’Unione Europea. Sarebbe forse vero se l’economia fosse soltanto cifre e la politica un teorema basato su fattori esclusivamente quantitativi. Ma la Grecia è anche altre cose che la buona politica non può ignorare. È una parte essenziale della nostra storia, della nostra cultura e di quella che, con parola abusata ma particolarmente adatta in questo caso, viene definita identità. Se l’Ue vuole essere molto più di una semplice alleanza, non è realistico pensare che i grandi Paesi, dagli Stati Uniti alla Cina, reagirebbero distrattamente all’abbandono di Atene. Penserebbero che l’Europa di Bruxelles e Strasburgo è soltanto una costruzione utilitaria e contingente, priva di qualsiasi motivazione ideale, pronta a sbarazzarsi del più vecchio dei suoi passeggeri se la barca s’imbatte in una tempesta. E da questa constatazione trarrebbero inevitabilmente conclusioni negative sull’autorità e sull’affidabilità del progetto europeo.

Le critiche sarebbero rafforzate da un fattore politico e geografico di cui non tutti sembrano ancora consapevoli. Per molto tempo, il Mediterraneo è stato oggetto di una percezione dominante. I Paesi europei che si affacciano su questo mare, erano considerati meno sviluppati e dinamici, per di più al confine con regioni a cui occorreva prestare attenzione soltanto quando scoppiava un conflitto con Israele, o il prezzo del petrolio subiva variazioni troppo brusche, o un colonnello conquistava il potere con un colpo di Stato.

Le frontiere europee importanti erano quelle dell’Atlantico con gli Stati Uniti e quelle orientali con l’Unione Sovietica e i suoi eredi. Oggi i confini meridionali dell’Unione sono la frontiera dell’Europa con l’Islam in un momento in cui l’intero mondo musulmano è attraversato da guerre civili e crisi istituzionali. Esistono problemi d’immigrazione e di sicurezza che richiedono politiche comuni. Ed esistono problemi di convivenza che l’Europa potrà risolvere soltanto quando riuscirà a fare dei suoi dirimpettai, in Africa del Nord e nel Levante, altrettanti partner economici. Non possiamo risolvere i loro problemi ma possiamo offrire prospettive che aiuteranno i riformatori a conquistare il consenso dei loro connazionali.

La Grecia, in questo quadro, è indispensabile. Lasciata a se stessa, soprattutto in questo momento, diverrebbe il malato cronico dell’Ue, sarebbe costretta ad affrontare da sola problemi troppo grandi per i suoi mezzi e finirebbe per rendere l’Europa ancora più vulnerabile. Unita agli altri Stati europei, invece, permetterebbe di fare una politica più coerente ed efficace.

Alexis Tsipras non potrà sottrarsi all’obbligo di avere una politica finanziaria seria e responsabile. Ma i suoi interlocutori, quando verrà in discussione il problema dell’austerità, faranno bene a ricordare che l’uscita della Grecia dall’eurozona, e forse dall’Ue, non è una scelta immaginabile e ragionevole.

26 gennaio 2015 | 08:32
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_gennaio_26/grecia-numeri-che-contano-1f77aff6-a523-11e4-a533-e296b60b914a.shtml
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« Risposta #163 inserito:: Febbraio 18, 2015, 07:48:38 am »

Conoscere chi ci minaccia
La maschera del nemico

Di Sergio Romano

È giusto che l’apparizione in Libia dell’Isis, l’autoproclamato Stato islamico, susciti le nostre preoccupazioni. È naturale che il governo, anche se il premier dichiara che non è tempo d’interventi, debba prendere in considerazione la possibilità di un conflitto. Il riferimento all’Onu, soprattutto in una situazione in cui l’Italia avrebbe un ruolo di primo piano, è inevitabile. Ricordiamo che cosa accadde quando Berlusconi desiderava competere con la Gran Bretagna per l’ambito ruolo di alleato degli Usa nella guerra irachena. Bastò una riunione del Consiglio superiore di Difesa e un richiamo all’art. 11 della Costituzione sul «ripudio» della guerra, perché la missione militare italiana divenisse una paradossale missione di pace. Per chi voglia opporsi con le armi all’Isis occorre un mandato internazionale.

Ma il mandato dell’Onu da solo non basterebbe. Vorremmo qualche notizia in più sulla natura dei nemici. Chi sono? Una delle tante milizie libiche create dopo la dissennata operazione franco-britannica del 2011? Sono salafiti (una delle varianti più radicali dell’Islam) provenienti dal Sahara? Obbediscono al «Califfo» Al Baghdadi o hanno scelto il marchio di fabbrica che è oggi vincente nella gara del terrore? L’Isis sta combattendo anche una guerra psicologica e non meno pericolosa. Conosciamo male l’organizzazione, ma sappiamo che ogni gruppo terroristico sopravvive soltanto se sostituisce i morti con nuove reclute.

E il reclutamento è tanto più facile quanto più l’organizzazione può rivendicare successi proiettando di se stessa un’immagine di audacia e ferocia. Un governo deve dare la sensazione di non avere sottovalutato il pericolo, ma sbaglierebbe se non ricordasse che un’opinione pubblica allarmata è esattamente l’obiettivo dell’Isis.

Siamo male attrezzati, militarmente e psicologicamente, per vincere guerre di guerriglia contro chi non esita a usare la propria vita come un’arma. La spedizione franco-britannica ha dimostrato che i bombardamenti non bastano a creare le condizioni per una Libia pacificata e rinnovata. Ma potrebbero servire a cacciare l’Isis da Sirte, a impedirgli altre conquiste e a rafforzare le milizie del generale Khalifa Haftar.

La Libia è certamente un problema italiano. Ma è anche un problema mediterraneo e dell’Unione Europea. Francia e Spagna non possono attendere che venga risolto da altri. Una coalizione tripartita, sostenuta da altri Paesi dell’Ue, non sarebbe utile soltanto sul piano militare. Dimostrerebbe che l’Europa non è esclusivamente il luogo in cui si parla di euro, stabilità e crescita. È anche una patria da difendere.

17 febbraio 2015 | 07:23
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Da - http://www.corriere.it/editoriali/15_febbraio_17/maschera-nemico-b8481ee6-b66c-11e4-a17f-176fb2d476c2.shtml
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« Risposta #164 inserito:: Marzo 23, 2015, 11:05:22 am »

L’EDITORIALE
Strage di Tunisi, i segnali trascurati

Di Sergio Romano

La Tunisia non è la Libia, dove la rivolta contro il regime di Gheddafi è diventata una caotica guerra civile in cui è impossibile distinguere le motivazioni politiche e religiose da vecchie faide tribali e regionali. E non è neppure l’Egitto, dove il ritorno all’ordine è il risultato del golpe con cui i militari hanno conquistato il potere e decapitato la Fratellanza musulmana. In Tunisia esistono un ceto politico e amministrativo di educazione francese, capace di controllare la transizione, e un partito musulmano ( Ennahda , rinascita) che ha preferito farsi da parte, dopo l’approvazione di una nuova carta costituzionale, piuttosto che tentare, come in Egitto durante la breve presidenza di Mohamed Morsi, l’islamizzazione del Paese. Credo che la Tunisia possa continuare a essere, nonostante gli avvenimenti delle ultime ore, il luogo dell’Africa del Nord, in cui la democrazia ha buone possibilità di crescere e irrobustirsi.

Ma l’assalto al Parlamento e al museo del Bardo non sono avvenimenti imprevisti e imprevedibili. Sapevamo che l’esercito combatte da parecchi mesi, lungo la frontiera algerina, contro bande salafite che hanno rapporti organici con Al Qaeda nel Maghreb. Sapevamo che la polizia deve fare fronte a insidiosi gruppi di terrorismo urbano. E sapevamo infine che la Tunisia è stata negli ultimi tempi uno dei maggiori fornitori di reclute jihadiste (i foreign fighters ) alle milizie dell’Isis che combattono in Siria e in Iraq.

Due anni fa il gran mufti di Tunisi, il vecchio e stimato Othman Battiqh, ricordò ai suoi connazionali che il loro Paese aveva un preoccupante primato nella «jihad del sesso», come fu chiamato il fenomeno delle numerose adolescenti che lasciano le loro famiglie per dare «conforto» ai combattenti nelle retrovie siriane e irachene.

Ciò che è accaduto a Tunisi è sperabilmente soltanto un episodio nella vita politica del Paese. Ma dimostra che nessuna società o comunità, musulmana, in questo momento, può essere considerata immune dal contagio dell’Isis. Prima di considerare il mondo islamico definitivamente incurabile dovremmo ricordare che anche alcune società europee, negli «anni di piombo», fecero una esperienza analoga e che da queste malattie si può guarire.

19 marzo 2015 | 08:47
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Da - http://www.corriere.it/esteri/15_marzo_19/strage-tunisi-segnali-trascurati-05311ad6-cdfc-11e4-b573-56a67cdde4d3.shtml
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