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Autore Discussione: SERGIO ROMANO.  (Letto 91170 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Aprile 20, 2013, 12:13:24 pm »

Il profilo necessario


Ogni giudizio sulla persona di Franco Marini diventa a questo punto irrilevante. Se una candidatura nasce dall'intesa fra i leader dei due maggiori partiti nazionali e se il candidato esce malconcio dalla prima elezione, la sconfitta investe anzitutto la formazione politica a cui appartiene e che lo ha proposto agli altri gruppi. Non sarebbe accaduto, forse, se gli inconvenienti dell'ingorgo istituzionale (la coincidenza fra l'inizio della legislatura e la fine del settennato) non fossero stati aggravati dall'insistenza con cui Bersani ha preteso un incarico inutile. Non sarebbe accaduto se fosse stato possibile separare le due scadenze trattenendo Napolitano al Quirinale per un certo periodo. Ma questo è «latte versato» su cui è inutile sprecare lacrime e rimpianti. Decideremo più in là, a mente fredda, se l'accordo fra Bersani e Berlusconi fosse ragionevole o sbagliato. Oggi occorre ripartire dalla realistica constatazione che i registi dell'intesa hanno fallito e che in ogni battaglia perduta vi è sempre, inevitabilmente, un vincitore.

Benché altri, in questo caso, abbiano contribuito all'insuccesso di Marini, la persona che può maggiormente compiacersi del risultato e rivendicare la vittoria è Beppe Grillo. Il leader del Movimento 5 Stelle si vanterà di avere evitato l'«inciucio» e farà del suo meglio, nelle prossime ore, per apparire agli occhi del Paese il grande elettore del capo dello Stato. Non basta. Grazie ai pegni pagati da Bersani ancora prima dell'incarico - la presidenza delle Camere - Grillo potrà sostenere che il suo arrivo nella politica italiana ha già rinnovato il vertice dello Stato.

Non credo che questo ribaltamento della politica nazionale rifletta gli equilibri politici e le esigenze della società. Non credo che la maggioranza del Paese desideri avere un Lord Protettore nella persona di un uomo per cui l 'agorà è un teatro e i cittadini un pubblico da intrattenere e sedurre. È comprensibile quindi che Bersani, dopo avere preso atto del fallimento del suo disegno, cerchi di restituire a se stesso e al suo partito il controllo della situazione. Vuole proporre un nome ai grandi elettori e vuole che il nuovo candidato abbia il crisma di un'assemblea del Pd convocata prima della prossima votazione. È un rammendo cucito in tutta fretta su una tela troppo rapidamente strappata. Può essere utile, ma occorrerà che nelle ore successive, quando si ricomincerà a votare, la scelta del Presidente prescinda dai calcoli della cattiva politica e risponda alle esigenze del Paese in uno dei momenti più complicati della sua storia repubblicana. Prima di scrivere un nome sulla loro scheda, i grandi elettori dovranno chiedersi se il loro candidato abbia le qualità necessarie in questo momento. Proviamo a ricordarle.

Deve conoscere anzitutto la macchina statale, le sue potenzialità inutilizzate, le sue virtù, i suoi angoli bui, i trabocchetti e i vizi della sua burocrazia. Le buone idee e le buone intenzioni non bastano. Se deve apporre la sua firma, deve anche sapere che cosa accadrà quando una proposta diventa legge e comincia la corsa a ostacoli che la separa dalla sua piena esecuzione.

Occorre che abbia familiarità con i problemi dell'economia e della finanza. Non è possibile giudicare la concretezza di un programma senza tenere conto della reazione dei mercati e di tutte le forze della produzione che dovranno assicurare la loro collaborazione. Non è possibile favorire soluzioni di cui non siano stati valutati scrupolosamente gli effetti. Deve avere esperienza di mondo ed essere pronto ad affrontare con argomenti e atteggiamenti convincenti i pregiudizi e i sospetti che pesano oggi sull'Italia, soprattutto in Europa. Giorgio Napolitano lo ha fatto in modo ammirevole e il Paese deve essergliene grato. Il suo successore dovrà fare altrettanto.

Occorre infine che il nuovo Presidente sia in grado d'ispirare fiducia e rispetto. Nessuno può piacere a tutti e ogni personalità politica ha una storia personale fatta di scelte che hanno suscitato critiche e risentimenti. Ma ciò che maggiormente conta, in ultima analisi, è quella combinazione di cultura, equilibrio e serietà che sono la materia prima di un uomo di Stato. Il Presidente sarà tanto più forte quanto più avrà saputo suscitare, nel corso della sua vita politica, il rispetto dei suoi avversari. Sarà tanto più autorevole quanto meno apparirà a una parte del Paese come un irreducibile nemico. La scelta di un presidente della Repubblica, soprattutto in questo momento, non deve cadere soltanto sulla persona che ha la maggioranza; deve cadere anche su quella che non è respinta a priori da una minoranza consistente.

Sergio Romano

19 aprile 2013 | 10:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_aprile_19/il-profilo-necessario-sergio-romano_a1a8c0ae-a8aa-11e2-bb65-9049b229b028.shtml
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« Risposta #136 inserito:: Maggio 11, 2013, 05:41:09 pm »

LE PRIME DIFFICOLTA' DEL GOVERNO

Sabbie mobili ben segnalate

Il presidente del Consiglio è giovane, soprattutto per gli standard italiani, ha esperienza di governo, conosce l'Ue e i suoi labirinti. In viaggi recenti nelle maggiori capitali europee ha dimostrato di sapersi muovere a suo agio e di ispirare fiducia. Ma appartiene alla scuola della Democrazia Cristiana e sembra conoscere soprattutto l'arte della conciliazione, del patteggiamento, della laboriosa ricerca di soluzioni condivise. Non sono queste le virtù di cui l'Italia ha maggiormente bisogno in questo momento. In altri tempi il problema dell'Imu potrebbe «slittare» (un verbo caro alla Dc) da una riunione all'altra sino a scomparire sotto una fitta coltre di aggiustamenti e compromessi mal decifrabili. Ma il modo in cui è stato trattato sinora sta dicendo all'Europa e ai mercati che il governo presieduto da Letta potrebbe essere quello del negoziato perpetuo, dei continui rinvii e delle soluzioni parziali.
Ne abbiamo avuto una indiretta conferma quando si è constatato, negli scorsi giorni, che molti dei suoi membri si ritengono autorizzati ad avere un programma personale o pensano di avere ricevuto il loro incarico per garantire gli interessi preelettorali del partito di cui fanno parte. Il presidente del Consiglio è intervenuto nel caso di una sottosegretaria troppo loquace e ha fatto bene. Ma dovrà spiegare ad altri sottosegretari e viceministri (fra cui in particolare quello dell'Economia) che il loro compito non consiste nell'esternare idee proprie, non sempre corrispondenti a quelle del ministro con cui lavorano, ma di agire nell'ambito di deleghe decise dal capo del loro dicastero. Letta ha parlato con chiarezza a Grillo quando questi ha detto che il governo è nato da un golpe. Potrebbe essere altrettanto chiaro e fermo con i suoi colleghi di governo quando sembrano rivendicare una autonomia ingiustificata e inopportuna.
Il presidente del Consiglio italiano, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi europei, non è né un primo ministro né un cancelliere. La Costituzione italiana, a differenza di altre costituzioni democratiche, non conosce l'istituto dei pieni poteri e dei governi d'emergenza. Ma il numero degli interventi stonati dei primi giorni del governo Letta ha fatto una pessima impressione e la serietà del momento impone uno stile diverso. Forse il programma dei saggi nominati dal presidente della Repubblica è troppo vasto per una esperienza che sarà probabilmente limitata nel tempo. Ma occorre allora che Letta faccia una scelta, dica con chiarezza al Paese quali sono le prime questioni da affrontare e si serva di una autorità che gli è conferita, se non dalla Carta, dalla gravità delle circostanze e dal sostegno del Quirinale.
Potrebbe spiegare ai partiti che quanto più questo governo riuscirà a fare nel corso del suo mandato tanto meno difficile sarà governare l'Italia quando il compito tornerà nelle loro mani. Potrebbe spiegare ai suoi connazionali che l'obiettivo non è, come sostengono gli euroscettici della politica italiana, quello di compiacere Bruxelles o conformarsi al diktat dei tedeschi. Il vero obiettivo, per un Paese con un debito pubblico che sfiora il 130% del suo Prodotto interno lordo, è quello di provare ai mercati che possono continuare a rifinanziarlo comprando bond italiani senza correre troppi rischi. Il modo in cui si sta gestendo la questione dell'Imu rischia di convincerli che i loro soldi sono in pericolo. E a quel punto nessuno, nemmeno la Banca centrale europea, riuscirà a risolvere i nostri problemi.

SERGIO ROMANO

11 maggio 2013 | 7:39© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_11/sabbie-mobili-ben-segnalate-romano_f2eb549e-b9f9-11e2-b7cc-15817aa8a464.shtml
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« Risposta #137 inserito:: Maggio 27, 2013, 05:01:03 pm »

LA SVOLTA DI OBAMA SUL TERRORISMO

Metamorfosi di un leader


Nel suo discorso alla National Defense University anche Barack Obama, come il suo predecessore, ha parlato di «guerra al terrorismo», una espressione che a molti europei parve, sin dall'inizio, eccessiva e pericolosa. Ma la parola «guerra», in questo caso, è stata usata con intenzioni e obiettivi alquanto diversi. Per George W. Bush, Dick Cheney, Donald Rumsfeld e un agguerrito manipolo di neoconservatori, la guerra proclamata dopo l'11 settembre avrebbe consentito agli Stati Uniti di mantenere la società in un permanente stato di allerta, di aggirare con nuove norme le regole della giustizia democratica, di invadere la vita privata di americani e stranieri, di colpire chiunque venisse definito «nemico» e di giustificare qualsiasi azione militare fosse considerata opportuna. «Guerra al terrorismo» era la formula passe-partout che il presidente avrebbe potuto usare a suo piacimento.

Durante il suo primo mandato Obama aveva già fatto capire la necessità di una svolta, ma non ha dato prova di grande coerenza. Non è riuscito a chiudere il carcere di Guantanamo. Ha permesso che la Cia continuasse ad agire come un esercito nell'ombra piuttosto che come un normale servizio d'intelligence. Ha tollerato i brutali interrogatori dei servizi di sicurezza. Ha autorizzato le discutibili incursioni dei droni anche quando il rischio di vittime civili era particolarmente elevato. Ha ignorato, nella migliore delle ipotesi, le indagini dell'Fbi che hanno recentemente coinvolto alcuni giornalisti. Prudenza elettorale in attesa di un secondo mandato? Desiderio di non perdere, al momento del voto, la parte più preoccupata e impaurita della società americana? È probabile. Ma il risultato è stato uno stridente contrasto tra ciò che il presidente diceva di voler fare e ciò che veniva fatto da alcuni organi dello Stato.

Oggi il periodo della duplicità e della ipocrisia sembra fortunatamente concluso. Nel suo discorso il presidente ha detto che ogni guerra deve terminare e che è giunto per l'America il momento di restaurare le regole dello Stato di diritto. Il mondo è ancora pieno di pericoli, ma la situazione, soprattutto dopo la morte di Osama bin Laden, ricorda ormai, secondo il presidente, quella degli anni precedenti l'11 settembre e non giustifica un perenne stato di emergenza. Non tutte le riforme e le correzioni annunciate nel discorso sono state chiaramente descritte, ma se il coraggio e la fortuna non lo abbandoneranno, Obama avrà avuto il merito di chiudere una brutta fase della storia americana.

Vi sono cose, tuttavia, che il presidente ha taciuto. Accanto alle responsabilità di Bush vi sono anche quelle dell'uomo che ha occupato la Casa Bianca nei primi quattro anni del suo mandato. Dopo avere proseguito l'azione del predecessore cercando inutilmente di vincere le guerre in Afghanistan e Iraq, Obama si lascia alle spalle, ritirando le truppe, due sanguinose guerre civili, due focolai destinati ad alimentare episodi di fanatica violenza come quelli recenti di Boston, Londra e Kabul. Se le condizioni del grande Medio Oriente sono ogni giorno più gravi, esiste anche un «capitolo Obama» che gli storici non potranno ignorare.

Sergio Romano

27 maggio 2013 | 7:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_maggio_27/metamorfosi-di-un-leader-sergio-romano_cae26b60-c686-11e2-91df-63d1aefa93a2.shtml
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« Risposta #138 inserito:: Giugno 16, 2013, 09:05:48 am »

IRAN, UN REGIME E IL VOTO MANIPOLATO

Il termometro di Teheran

Le elezioni iraniane non sono un esercizio formale, una falsa liturgia democratica. Il regime è autoritario e poliziesco, può manipolare il voto come è accaduto nelle elezioni precedenti e il suo leader supremo, l'Ayatollah Ali Khamenei, può servirsi di un «Consiglio dei guardiani» per eliminare i candidati che potrebbero mettere in discussione la sua autorità. Ma nella fase che precede il voto esistono pur sempre comizi, incontri televisivi, candidati che si contrappongono, programmi elettorali che lasciano trasparire diverse linee politiche ed economiche, dichiarazioni di notabili che esprimono pubblicamente le loro preferenze. È interessante, per esempio, che due ex presidenti poco amati dal leader supremo - Mohammed Khatami e Akbar Hashemi Rafsanjani - abbiano chiesto ai riformisti di concentrare i loro voti su Hassan Rohani, un candidato che nei suoi discorsi ha promesso di formare un governo di «speranza e prudenza». Ed è altrettanto interessante che un esponente delle Guardie rivoluzionarie abbia chiesto a tre candidati della destra fondamentalista di accordarsi per lasciare il campo a quello che ha maggiori possibilità di vittoria. In altre parole tutti ragionano e agiscono come se le elezioni fossero libere e il loro risultato potesse avere grande importanza per il modo in cui il Paese sarà governato nei prossimi anni. Nessun candidato mette in discussione la scelta nucleare, su cui il consenso nazionale è pressoché totale, ma su altri temi vi sono differenze. Dopo avere reso un necessario omaggio al nucleare, Rohani, per esempio, ha detto che il suo governo, se verrà eletto, lavorerà per «riconciliare l'Iran con il mondo».

Se i governi occidentali avessero espresso preferenze per un candidato ne avrebbero irrimediabilmente pregiudicato la sorte. Quale che sia il risultato delle elezioni, il nostro interlocutore sarà il presidente uscito dalle urne e avrà comunque sempre, dietro di sé, un'autorità più alta, un potere di ultima istanza: Ali Khamenei, subentrato nel 1989 a Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica. Nessuno dei due sarà un leader democratico. Ma saranno il vertice di un regime che vuole essere legittimato dalle elezioni, permette ad alcuni candidati di andare a caccia di voti e lascia così spazi di libertà che altri sistemi autoritari non permetterebbero. In questi spazi vi sono uomini e donne, studenti, professionisti, mercanti, imprenditori, chierici disponibili al dialogo, una nuova borghesia urbana che condivide la scelta nucleare, ma ha sete di libertà e ne ha dato un prova scendendo in piazza dopo le elezioni presidenziali del 2009. Questo è l'Iran con cui dovremo parlare nei prossimi anni se vogliamo fare una politica medio-orientale che non sia soltanto una litania di auspici retorici e luoghi comuni.

Parlare con l'Iran è necessario per almeno tre ragioni. È una potenza regionale, ha un capitale petrolifero che può giovare all'intera regione ed è la guida autorevole di una minoranza musulmana, gli sciiti, che attraversa il Golfo, è maggioranza in Iraq, si estende sino alla Siria e soprattutto al Libano. Non riusciremo a spegnere i fuochi della Siria senza la collaborazione dell'Iran. E non vi saranno prospettive di pace in Afghanistan se l'Iran non sarà chiamato a fare la sua parte. Qualcuno propone che il presidente degli Stati Uniti ripeta al nuovo arrivato l'offerta fatta ad Ahmadinejad all'inizio del suo primo mandato: una mano aperta. Quell'offerta fu rifiutata da un uomo che aveva l'ambizione di costituire, con Chávez e altri, una sorta di cartello anti americano. E che sulla questione nucleare non fece alcuna apertura. Ma quella mano aperta può essere ancora una buona idea.

Sergio Romano

14 giugno 2013 | 7:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_14/termometro-teheran-romano_824822e0-d4b0-11e2-afc2-77c7bab72214.shtml
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« Risposta #139 inserito:: Giugno 20, 2013, 11:56:36 am »

Trattative con i talebani

Il conto amaro della storia


La notizia proviene dal Qatar, vale a dire da un piccolo Paese straordinariamente ricco, divenuto in questi ultimi anni la potenza regionale che persegue i propri obiettivi internazionali con maggiore fantasia ed efficacia. I talebani hanno aperto un ufficio sul suo territorio e sono pronti a trattare la fine del conflitto afghano. A Washington e a Belfast, dove Barack Obama partecipa alla riunione del G8, la notizia è confermata. Vi sarà un negoziato e gli americani ne faranno parte insieme al governo di Kabul.

L'annuncio cade nel giorno in cui gli Stati Uniti e i loro alleati della Nato trasferiscono alle forze afghane il compito di garantire la sicurezza del territorio. In altre parole il negoziato comincia nel momento in cui la parte che si considera vincitrice abbandona un Paese che è in parte occupato dal nemico, in parte continuamente insidiato dai suoi attacchi terroristici. I trattati di pace, generalmente, si negoziano mentre il vincitore tiene saldamente nelle sue mani il controllo del territorio e può in qualsiasi momento interrompere le trattative senza perdere nulla di ciò che ha conquistato. In questo caso, invece, il vincitore negozierà mentre se ne sta andando. Può sempre tornare con i suoi droni e con le altre forze di cui dispone nella regione.

Ma la partenza degli americani ha un valore simbolico che peserà sull'andamento del negoziato e sui suoi risultati.
Per dimostrare che il ritiro delle truppe non è una ritirata Washington comunque ha già annunciato le sue condizioni. I talebani dovranno rompere i loro rapporti con Al Qaeda. Dovranno rinunciare alla violenza e impedire che il loro territorio divenga una base per operazioni militari contro altri Paesi. Dovranno rispettare la Costituzione afghana con particolare riferimento allo stato delle donne e delle minoranze. Non sono questi gli obiettivi di cui l'America di Bush si sarebbe accontentata nell'ottobre del 2001 e soprattutto non sono quelli perseguiti dal momento in cui gli Stati Uniti dovettero rafforzare il loro contingente e sollecitare l'intervento della Nato.
Nessun segretario di Stato o capo di Stato Maggiore sembrava disposto, in quegli anni, a riconoscere l'esistenza di un territorio talebano indipendente.

Ma gli obiettivi fissati dagli americani per le trattative ora annunciate saranno pur sempre, se i talebani s'impegneranno a rispettarli, il meglio che l'America e l'Occidente potessero aspettarsi da una guerra iniziata con l'invasione sovietica del dicembre 1979. Gli Stati Uniti, allora, finanziarono la resistenza, fornirono armi ai mujaheddin e costrinsero i sovietici ad andarsene nove anni dopo. Ma furono le levatrici del movimento talebano e di un impresario del terrorismo, Osama bin Laden, che sarebbe divenuto, parecchi anni dopo, il loro più pericoloso nemico. Dobbiamo ora sperare che il negoziato si concluda nel migliore dei modi. Ma gli americani dovrebbero chiedersi se questa vicenda non abbia qualche somiglianza con quelle del Vietnam e dell'Iraq, per non parlare della dissennata operazione militare contro la Libia in cui gli Stati Uniti, per la verità, non hanno avuto il ruolo principale. Stiamo parlando di guerre fatte in nome della democrazia che producono risultati diametralmente opposti a quelli che la superpotenza si era prefissa e si lasciano alle spalle più nemici di quanti l'America e l'Occidente ne avessero all'inizio delle operazioni.

Sergio Romano

19 giugno 2013 | 7:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_19/romano-conto-amaro-della-storia_0f95bae0-d89e-11e2-8ffc-5f2d0b7e19c1.shtml
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« Risposta #140 inserito:: Luglio 01, 2013, 12:25:59 pm »

L'EUROPA E I CONFLITTI NEL MONDO ISLAMICO

Il Mediterraneo dimenticato

I «bollettini di guerra» che occupano gran parte della nostra attenzione sono quelli che provengono dal fronte elettorale di Berlino, dal tribunale costituzionale di Karlsruhe, dal numero 10 di Downing Street, dall'ultima conferenza stampa di Mario Draghi, dal palazzo dell'Eliseo, dai mercati finanziari. È normale. Il nostro futuro dipende dalle sorti dell'euro, dall'accordo sull'Unione bancaria, dalla ricerca di un punto di equilibrio fra il rigore e la crescita e, in ultima analisi, dalle elezioni tedesche. Ma non possiamo ignorare il Mediterraneo o trattare le sue vicende come questioni esotiche a cui dedicare un'attenzione saltuaria e qualche velleitaria iniziativa di pace.
Per una serie di circostanze, che lascio volentieri agli storici e ai sociologi, quello a cui stiamo assistendo, dopo la rivolta tunisina del dicembre 2010, è il fallimento dello Stato arabo-musulmano. È fallito lo Stato dei nuovi sultani: l'Egitto di Hosni Mubarak, la Tunisia di Zine El Abidine Ben Ali, la Libia del colonnello Gheddafi. È fallito il nazionalsocialismo iracheno di Saddam Hussein e quello siriano della famiglia Assad. È fallita la democrazia multireligiosa e multiculturale del Libano. È fallita la Lega Araba. E potrebbero fallire, prima o dopo, gli Stati patrimoniali del Golfo. Sopravvivono paradossalmente le monarchie, da quella di Mohammed VI in Marocco a quella di Abdullah II in Giordania, ma il rischio del contagio, soprattutto nella seconda, è altissimo. In alcuni casi, Siria e Libia, la crisi è diventata rapidamente guerra civile. In altri casi, Egitto e Libano, la guerra civile potrebbe scoppiare da un momento all'altro.
Se l'Europa crede che lo scontro sarà fra il partito dei tiranni e quello dei democratici, s'inganna. In molti Paesi vi saranno almeno tre conflitti: fra laici e islamisti, fra musulmani moderati e musulmani fanatici, fra sunniti e sciiti. E vi sarà spesso, pronta a rimestare nel torbido, la mano lunga della Russia, dell'Iran e della Cina. Non è tutto. Che cosa accadrebbe se Israele, preoccupato dall'instabilità della regione, credesse di potere meglio garantire la propria sicurezza con una prova di forza?
Non è facile suggerire all'Europa ciò che potrebbe fare di fronte a fenomeni che si concluderanno sperabilmente (ma dopo una lunga gestazione) con la nascita di nuovi Stati. Dovrebbe almeno astenersi, tuttavia, dal trattare le crisi dei suoi dirimpettai come un semplice problema di democrazia e soprattutto evitare i tic nazionalistici e post coloniali di quelle potenze che hanno già preso iniziative avventate e velleitarie. Non possiamo risolvere i problemi degli Stati arabi, ma possiamo almeno cercare di non aggravarli giocando inutili partite individuali. Se Lady Ashton è davvero l'Alto rappresentante dell'Unione Europea per la politica estera, batta un colpo e richiami i suoi colleghi alla necessità di una politica concordata. Non cureremo tutti i mali della regione ma saremo più rispettati e più efficaci del coro di voci stonate che abbiamo ascoltato negli scorsi mesi. L'Italia nonostante i suoi guai ha ancora un capitale mediorientale che può essere utilmente impiegato e ha anche, per di più, un ministro degli Esteri che conosce bene la regione per lunga esperienza personale. Anche l'Italia, se c'è, batta un colpo.

Sergio Romano

30 giugno 2013 | 9:08© RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.corriere.it/editoriali/13_giugno_30/il-mediterraneo-dimenticato-sergio-romano_a6fa2238-e13e-11e2-a879-533dfc673450.shtml
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« Risposta #141 inserito:: Luglio 03, 2013, 11:58:50 pm »

COSA È CAMBIATO DOPO L'11 SETTEMBRE

L'ossessione del controllo

Esiste un filo che lega il caso di Edward Snowden alle vicende dell' Intelligence americana negli ultimi decenni. La storia comincia nel 1975 quando il senatore Frank Church fu chiamato a presiedere una commissione d'indagine sulle attività della Central Intelligence Agency e del Federal Bureau of Investigation. La guerra del Vietnam, la pubblicazione sul New York Times nel 1971 dei «Pentagon Papers» (una imbarazzante fuga di notizie sulla strategia americana durante il conflitto) e lo scandalo del Watergate nel 1972 avevano suscitato una irresistibile domanda di pulizia e trasparenza. La Commissione produsse centinaia di pagine sulle armi tossiche, lo spionaggio epistolare, le operazioni segrete, gli omicidi mirati, le frequenti violazioni del Quarto emendamento (la necessità di una autorizzazione giudiziaria per le perquisizioni e gli arresti). Il rapporto gettò le basi per una radicale limitazione della libertà con cui i maggiori organismi della sicurezza americana avevano operato negli anni precedenti. Non tutti accettarono di buon grado le nuove regole d'ingaggio e parecchi analisti sostennero che il Senato, con le sue misure restrittive, aveva pregiudicato la sicurezza del Paese.

Le critiche divennero ancora più aspre dopo il crollo del muro di Berlino quando un gruppo d'intellettuali della destra repubblicana (i neoconservatori) sostennero che gli Stati Uniti, vincitori della Guerra fredda, avevano ormai il diritto e il dovere di governare il mondo senza sottostare ai limiti paralizzanti del passato. Bill Clinton, durante la sua presidenza, fece qualche concessione fra cui il lancio del satellite Echelon per la raccolta di informazioni soprattutto economiche. Ma evitò d'intaccare lo spirito della Commissione. Il quadro cambiò dopo l'assalto alle Torri gemelle nel settembre del 2001. I neoconservatori erano arrivati al potere nelle salmerie della presidenza Bush e colsero l'occasione per una svolta radicale. Tutto ciò che Cia e Fbi avevano perduto grazie alla Commissione Church fu restituito con gli interessi. Una legge, il Patriot Act, sostenne che era indispensabile e patriottico ascoltare, intercettare, registrare, trattare i prigionieri di guerra come banditi e criminali, giudicarli di fronte a commissioni militari o lasciarli invecchiare senza giudizio in un pezzo di territorio cubano chiamato Guantanamo. Qualcuno osservò che l'America stava combattendo per la democrazia con i metodi della Santa Inquisizione, ma i neoconservatori e i loro leader (Dick Cheney alla vicepresidenza, Donald Rumsfeld al Pentagono) poterono contare per parecchio tempo sulla paura e l'indignazione di una società che aveva improvvisamente scoperto, l'11 settembre del 2001, la propria vulnerabilità. Le legittime preoccupazioni dell'opinione pubblica divennero da quel momento l'alibi di cui i consiglieri di Bush si servirono per sciogliere i molti vincoli che avevano limitato in passato i poteri dell'esecutivo.
Sembrò che Barack Obama, dopo l'elezione alla Casa Bianca, avrebbe restaurato l'ordine costituzionale e mantenuto una promessa (la chiusura di Guantanamo) fatta durante la campagna elettorale. Ma voleva vincere le guerre di Bush, raggiungere lo scopo con il minore numero possibile di vittime americane, dare qualche soddisfazione all' establishment militare.

Prigioniero di queste contraddizioni, il presidente trasformò la Cia in un corpo combattente e le affidò un'arma, il drone, che ha un pilota in camice bianco a diecimila miglia dal campo di battaglia e il vizio di distinguere male il nemico dall'amico. Il risultato è un servizio d' intelligence che ha un numero di segreti incomparabilmente superiore a quello del periodo che precede la Commissione Church. Non è tutto. Questa fase della politica americana coincide con l'avvento di nuove tecnologie della comunicazione che consentono di ascoltare e intercettare, letteralmente, tutto e tutti: una raccolta indifferenziata, una pesca allo strascico in cui gli algoritmi possono pescare tutto ciò che può servire all'esercizio del potere. Julian Assange, fondatore di Wikileaks , non è simpatico e le sue rivelazioni hanno esposto a molti rischi la vita di coloro che combattono in Afghanistan. Ma la sua apparizione sulla scena internazionale ha colto una domanda di pulizia e trasparenza che ricorda per molti aspetti il clima della metà degli anni Settanta.

Edward Snowden, dal canto suo, ha qualche merito in più. Mentre Assange ha rivelato segreti militari (una categoria che molti considerano legittima), Snowden dice al mondo che gli Stati Uniti entrano sistematicamente nelle nostre case e nella nostra vita. Tutto ciò è accaduto, per di più, in una fase in cui l'America non perdeva occasione per rimproverare a Vladimir Putin la sua sistematica violazione dei diritti umani e ai cinesi le loro scorrettezze cibernetiche. Non è sorprendente che russi e cinesi si comportino ora con la soddisfazione di chi è finalmente in grado di saldare il conto. E non è sorprendente che Snowden diventi tanto più popolare quanto più l'America cerca di processarlo per alto tradimento. Quanto all'Europa non v'è ragione per cui debba astenersi dal dire a Washington che un rapporto di amicizia è tale soltanto quando non è sfacciatamente ineguale. Ma in ultima analisi il fattore di cui Barack Obama dovrà tenere maggiormente conto è la sua opinione pubblica. Se gli americani gli chiederanno pulizia, il presidente dovrà probabilmente ricorrere a una nuova Commissione Church.

Sergio Romano

3 luglio 2013 | 8:23© RIPRODUZIONE RISERVATA

da corriere.it
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« Risposta #142 inserito:: Luglio 14, 2013, 11:37:05 pm »

L'immagine nazionale

La nostra vocazione a finire nei pasticci

Sergio ROMANO

Cerchiamo di tralasciare, almeno per il momento, tutti i risvolti del pasticcio kazako su cui abbiamo notizie incomplete e approssimative. Conosciamo male la vita, gli affari e le opinioni politiche di Mukhtar Ablyazov, ricercato dal governo del Kazakistan per reati di cui non ci è stata data notizia. Non sappiamo se il suo caso assomigli a quello di Mikhail Khodorkovskij e Boris Berezhovskij, nemici di Vladimir Putin, o a quello di Yulija Timoshenko, nemica del presidente ucraino Viktor Janukovic.

Non ci è stato detto ufficialmente se e da chi siano state fatte pressioni sulle autorità italiane per ottenere l'arresto e la fulminea estradizione di sua moglie e sua figlia. E neppure fino a che punto sia salita, lungo la scala gerarchica, la notizia che la polizia si preparava a espugnare con cinquanta uomini, nel cuore della notte, un villino di Casal Palocco nei pressi di Roma. Abbiamo il diritto di avere risposte chiare e speriamo che il governo non si limiti a dirci, come nelle scorse ore, che non era informato e che l'operazione «presenta elementi e caratteri non ordinari».

A noi sembra che una definizione più adeguata dell'intera vicenda, in questo contesto, sia «non professionale». La semplice elencazione degli interrogativi evocati dal caso (per non parlare del frettoloso noleggio di un aereo speciale a nome del governo kazako per l'estradizione di Alma Shalabayeva e della figlia Alua) avrebbe dovuto suggerire una maggiore circospezione e il coinvolgimento di autorità politicamente responsabili. Era davvero impossibile avere qualche dubbio e sospettare che la polizia italiana corresse il rischio di lasciarsi invischiare in una oscura vicenda straniera?

Mi piacerebbe credere che quello di Casal Palocco sia un episodio isolato, l'occasionale «errore umano» che capita prima o dopo in tutte le forze di sicurezza e in tutti i servizi d'intelligence. Ma la stessa mancanza di professionalità è evidente in altri casi, solo apparentemente diversi. Penso al naufragio della Costa Concordia e alla fuga del suo capitano dalla nave in pericolo. Penso alla vicenda dei marò arrestati in India per l'uccisione di due pescatori indiani nell'ambito di una operazione contro la pirateria nel mare Arabico: un caso ancora non sufficientemente chiarito che è stato ulteriormente complicato da una politica ondeggiante, promesse non mantenute e un bisticcio tra due ministri recitato di fronte al Parlamento e alle telecamere di tutto il mondo.

Il filo che lega questi diversi casi è l'indifferenza dei loro protagonisti per il modo in cui saranno giudicati e interpretati da tutti coloro che assisteranno allo spettacolo sugli schermi della televisione globale. Un capitano lascia la sua nave senza chiedersi che cosa penserà il popolo del turismo mondiale. Un ministro degli Esteri si dimette senza chiedersi quale effetto avrà il suo gesto sulla sorte di un governo che è stato costituito per recuperare il credito perduto dal Paese sui mercati internazionali. La polizia conquista Casal Palocco con l'animo di chi sembra ignorare quanto siano imbrogliate le vicende degli oligarchi e dei dissidenti nei Paesi post-sovietici. E un manipolo di deputati si spoglia di fronte alle telecamere, come è accaduto negli scorsi giorni, per convincere il mondo che l'Italia è sempre e soprattutto «commedia dell'arte». Usciremo dalla crisi, prima o dopo. Ma vincere contro questi connazionali è una fatica di Sisifo.

14 luglio 2013 | 8:44
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da - http://www.corriere.it/editoriali/13_luglio_14/immagine-nazionale-kazakistan-Romano_4f6f07fc-ec4e-11e2-b462-40c7a026889e.shtml
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« Risposta #143 inserito:: Agosto 05, 2013, 11:00:43 am »

UN INCOMPRENSIBILE TEATRO ESTIVO

Farsi del male isolati da tutti


Nel Pdl molti sembrano pensare che il nostro maggiore problema sia Berlusconi e la sua sorte. Coloro che vogliono riscattarlo dall'«infamia» di una sentenza «ingiusta» chiamano i seguaci a scendere in piazza anche in una domenica d'agosto e fronteggiano quelli che vogliono trasformare il verdetto della Corte di cassazione nella sua definitiva eliminazione dalla politica nazionale. Le intenzioni sono opposte, ma entrambi i campi si comportano come se l'Italia non avesse altri problemi, come se questa fosse una questione di famiglia e i due fronti avessero il diritto di risolverla fra le quattro mura della loro casa comune senza preoccuparsi del giudizio di quanti ci guardano dall'esterno e attendono di sapere con chi avranno a che fare nei prossimi mesi. Accecati dallo spirito di parte, i paladini del riscatto e quelli della punizione hanno dimenticato che l'Italia è un problema europeo e che il suo futuro dipende in larga misura dal modo in cui gli altri giudicheranno la tenuta del Paese e la sua credibilità.

Questo accecamento era già percepibile negli ultimi mesi del governo Monti ed è nuovamente evidente da qualche settimana nel giudizio di una parte dell'opinione pubblica sul governo Letta. Le critiche sono comprensibili e spesso giustificate, ma non sembrano tenere alcun conto del modo in cui Monti e Letta sono riusciti a correggere l'immagine dell'Italia, a renderla un interlocutore credibile e necessario. Della riforma Fornero ricordiamo soltanto il problema degli esodati, ma un articolo di Enrico Marro sul Corriere del 28 luglio ci ha segnalato che la diminuzione dei pensionamenti è già significativa e potrebbe risparmiare all'erario 80 miliardi nel corso di un decennio. Abbiamo parlato molto di Imu, ma abbiamo dimenticato che la diminuzione dello spread (il divario fra i tassi d'interesse delle obbligazioni italiane e tedesche) ha sdrammatizzato il problema del rifinanziamento del debito pubblico. Abbiamo trattato la questione dei marò in India e il caso kazako come indici della nostra irrilevanza internazionale, ma abbiamo dimenticato che Barack Obama, preoccupato dal caos libico, ha chiesto l'aiuto dell'Italia, non quello della Francia. Che cosa accadrebbe dello spread e dello status del Paese come interlocutore europeo se il caso Berlusconi ci sembrasse più importante della nostra stabilità politica? Come reagirebbero i governi e i mercati se apprendessero che l'Italia sta tornando alle urne con una legge elettorale che non garantisce maggioranze? Che cosa accadrebbe se impiegassimo i prossimi mesi a fare campagna elettorale e i mesi successivi a ricucire coalizioni precarie?

Ho accennato al giudizio di chi ci guarda dal di fuori, ma esiste anche quello degli italiani. Credono davvero i partigiani del riscatto di Berlusconi che l'Italia moderata, ragionevole e con la testa sulle spalle sia disposta a seguirli in questa nuova avventura elettorale?
Credono gli altri che il Pd sia già pronto a un nuovo appuntamento con le urne? Entrambi, dopo il voto, potrebbero scoprire di avere ingrossato le file degli astensionisti e di avere lavorato per il re di Prussia, vale a dire, in questo caso, per il movimento di Beppe Grillo.

5 agosto 2013 | 7:39
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Sergio Romano

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_05/farsi-del-male-isolati-da-tutti-sergio-romano_12749a2e-fd88-11e2-a2a4-b405456a2122.shtml
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« Risposta #144 inserito:: Agosto 12, 2013, 09:08:47 am »

GLI ERRORI DI OBAMA E LE CARTE CHE GLI RESTANO

Ambizioni perdute di un presidente


Prima di partire per qualche giorno di riposo in uno dei luoghi più amati dai presidenti americani, Barack Obama ha annunciato la riforma del Patriot Act, vale a dire di quella legge marziale con cui il suo predecessore, dopo gli attentati dell'11 settembre, aveva enormemente aumentato, a scapito dei diritti civili, i poteri dei servizi di polizia e sicurezza. È probabile che questo fosse da tempo il suo desiderio. Ma ha potuto agire soltanto dopo le rivelazioni di un uomo che la Casa Bianca è costretta a definire «traditore». Il «caso Snowden» ha avuto quindi tre effetti imprevisti. Ha permesso a Obama di essere finalmente «liberal», ma ha guastato i suoi rapporti con Putin e ha reso poco efficace, se non addirittura risibile, l'accusa delle «aggressioni cibernetiche» che gli Stati Uniti hanno recentemente rivolto alla Cina. Non è tutto. Mentre Obama iniziava le sue vacanze, una ennesima catena di attentati gli ha ricordato che in Iraq, dopo la partenza delle truppe americane, il numero delle vittime sembra destinato ad avere proporzioni siriane: 1.075 morti e 2.327 feriti nel corso del mese di luglio.

Questi sono soltanto due esempi delle disavventure che hanno turbato i sonni di Obama. Quando fu eletto, nel 2008, voleva fare esattamente il contrario di ciò che aveva fatto George W. Bush. Voleva incoraggiare la democrazia nel mondo musulmano con generose dichiarazioni di fiducia, tendere una mano all'Iran, liberare i prigionieri di Guantánamo, chiudere il più rapidamente possibile la partita afghana e quella irachena, promuovere la soluzione della questione palestinese, «resettare» i rapporti con la Russia. Non è interamente colpa di Obama se le primavere arabe non hanno schiuso ai loro Paesi le porte della democrazia, se il partito americano della sicurezza gli ha impedito la chiusura di Guantánamo, se gli ayatollah iraniani non hanno accolto la sua offerta, se l'Afghanistan è sempre per metà talebano, se i sunniti iracheni contestano ai loro fratelli sciiti il diritto di governare il Paese, se il primo ministro israeliano ha preferito puntare sulla vittoria dei repubblicani nelle ultime elezioni presidenziali americane, se la Russia di Putin è più poliziesca e repressiva di quella di Medvedev. Obama ha avuto la sventura di entrare alla Casa Bianca nel momento in cui era già iniziato il lento declino dell'impero americano, e deve ora convivere con una società politica che reagisce a questa prospettiva troppo nervosamente.

Ma anche le reazioni del presidente hanno prodotto risultati mediocri o addirittura peggiorato la situazione. È stato un errore combattere Gheddafi senza accettare le responsabilità politiche dell'intervento. È stato un errore chiedere all'ambasciatore americano in Siria di prendere posizioni inutilmente provocatorie contro il regime di Bashar Al Assad. E non ha giovato alla politica americana oscillare ambiguamente in Egitto fra i militari e la Fratellanza musulmana.

Obama ha ancora qualche buona carta. Nella questione palestinese il suo segretario di Stato ha dimostrato di essere un tessitore paziente e tenace. A Teheran vi è ora qualcuno che potrebbe stringere la sua mano. La Russia e la Cina hanno buoni motivi per evitare tensioni e rotture che avrebbero conseguenze incalcolabili. Ma è necessario che il presidente non si aspetti gli sconti dovuti agli Stati Uniti quando erano la sola superpotenza. Dopo due guerre perdute e una crisi finanziaria scoppiata a Wall Street, quel mondo è finito. Obama è troppo intelligente per non esserne consapevole.

12 agosto 2013 | 8:00
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Sergio Romano

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_12/ambizioni-perdute-di-un-presidente-romano_d38b86bc-030c-11e3-a0a3-a0e457635e2f.shtml
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« Risposta #145 inserito:: Agosto 23, 2013, 11:33:04 pm »

DOPO LA SENTENZA IN CASSAZIONE

La maturità della politica


Piaccia o no, la sentenza della Cassazione ha creato una situazione che nessuno può ignorare. Occorre aspettare che la Corte d'appello di Milano definisca nuovamente la durata delle pene accessorie e del periodo nel corso del quale Silvio Berlusconi non sarà eleggibile. Ma è ormai certo, salvo circostanze oggi imprevedibili, che il leader del Pdl trascorrerà un periodo agli arresti domiciliari o in affidamento ai servizi sociali e non farà parte del Parlamento. Non so se la sua carriera possa considerarsi definitivamente conclusa. Ma un uomo duttile e realista, come Berlusconi ha dimostrato di essere in parecchi casi, non può ignorare che la sentenza, nella parabola della sua vita politica, è un imprescindibile spartiacque.

È ancora aperta, invece, un'altra questione più gravida di immediate conseguenze politiche: se Berlusconi abbia il diritto di restare in Parlamento in base alla legge Severino sulla corruzione. Quando l'applicazione della legge a un deputato o a un senatore esige un passaggio parlamentare (prima nella giunta delle elezioni, poi nell'Assemblea di appartenenza), il problema smette di essere esclusivamente giuridico. Nessuno può dimenticare che la cacciata di Berlusconi dal Senato avrebbe effetti politici. È possibile delegittimare il leader di un partito senza che quest'ultimo resista alla tentazione di considerarsi punito, offeso, vittima di una strategia ostile? È possibile, se il partito è membro di una coalizione governativa, che la sua decapitazione, per mano di quelli con cui deve governare, non si ripercuota sulla qualità e sulla durata della convivenza? È utile per il Paese andare con gli occhi bendati verso una crisi (possibile se non addirittura probabile) nel momento il cui il maggiore interesse nazionale è la stabilità?

È difficile immaginare che i membri della giunta non siano consapevoli dell'esistenza di questi e altri interrogativi. Si potrebbe osservare che vi sono questioni di pubblica moralità in cui un parlamentare ha il diritto e il dovere di votare secondo coscienza. È vero. Ma la coscienza dei membri della giunta sarebbe ancora più tranquilla se si dimostrassero consapevoli di questi rischi e dessero spazio, prima di pronunciarsi, all'esame di certi dubbi sulla applicabilità delle legge Severino che sono stati sollevati anche da giuristi non conosciuti per le loro simpatie berlusconiane. Se accettassero questa riflessione dimostrerebbero, oltre a tutto, che anche la politica ha diritto alla sua autonomia e che non vi è equilibrio fra i poteri dello Stato là dove uno trasferisce automaticamente le decisioni dell'altro nell'area di propria competenza.

Questo delicato passaggio diverrebbe meno difficile se Berlusconi, dal canto suo, si rendesse conto delle proprie responsabilità. Ha fondato un partito che continua ad avere i consensi di una parte del Paese e ha creato così le condizioni per una democrazia dell'alternanza. Spetta a lui evitare, con un passo indietro, che questo partito dipenda interamente dalla sua leadership. Spetta a lui assicurare la transizione e lasciare dietro di sé un personale politico capace di raccogliere quella parte della sua eredità che è ancora utile al Paese. È questo il lavoro «socialmente utile» che potrebbe dare un senso al crepuscolo della sua avventura politica.

21 agosto 2013 | 7:32
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Sergio Romano

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_agosto_21/maturita-della-politica-romano_59a24a10-0a1f-11e3-b366-05f9348e8c80.shtml
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« Risposta #146 inserito:: Settembre 01, 2013, 11:57:04 am »

Armi democratiche

Barack Obama corre il rischio di passare alla storia come uno dei più tentennanti presidenti degli Stati Uniti. Nella sua ultima dichiarazione, sul prato della Casa Bianca, ha chiesto un voto del Congresso sull'opportunità di un intervento militare contro il regime siriano di Bashar Al Assad.
Ma ancor prima di appellarsi ai rappresentanti del Paese aveva annunciato, in una recente intervista alla televisione Pbs, che la sua intenzione era quella di inviare uno shot across the bow , uno di quei colpi di cannone che vengono tirati di fronte alla prua di una nave per intimarle di fermarsi e tornare indietro.


Non sappiamo se con l'appello al Congresso il presidente americano chieda una formale autorizzazione o voglia più semplicemente metterlo di fronte alle proprie responsabilità. Ma sappiamo che una tale decisione, se adottata, avrebbe in ultima analisi l'inconveniente di non piacere a nessuno. Non ai pacifisti americani per cui sarebbe pur sempre un atto di guerra. Non ai paladini dell'ingerenza umanitaria e del dovere di proteggere le popolazioni civili, a cui sembrerebbe irrilevante. Non a quella fazione della destra repubblicana, erede dei «neocon», che accusa il presidente di essere debole, inetto, incapace di pestare il pugno sul tavolo nell'interesse dell'America. Non ai ribelli siriani, convinti che l'uso delle armi chimiche avrebbe fatto traboccare il vaso dell'indignazione occidentale e segnato la fine di Assad. Non agli alleati internazionali della Siria: Russia, Iran, Cina. Non, infine, alla maggioranza della sua opinione pubblica (una percentuale vicina, sembra, all'80%) per non parlare di quella delle altre maggiori democrazie occidentali. Sono contrari all'intervento persino coloro che in altri tempi avevano approvato le guerre di Bush e salutato con soddisfazione l'offensiva anglo-franco-americana contro la Libia di Gheddafi.

Non è sorprendente. Oggi, dopo l'esperienza degli ultimi tredici anni, nessuno può ignorare quali siano stati il costo e gli effetti di quelle guerre. L'operazione afghana parve giustificata dal patto che legava Al Qaeda e i suoi fedeli al regime talebano di Kabul. Sostenuti dalla Nato e persino dall'Iran, gli americani credettero di avere eliminato la maggiore base di Al Qaeda nel Medio Oriente. Ma nella caccia allo sceicco yemenita si perdettero, come altri eserciti occidentali, nel labirinto delle montagne che separano l'Afghanistan dal Pakistan; e di lì a poco lasciarono il Paese agli europei per concentrare ogni loro sforzo sull'Iraq di Saddam Hussein. Un'altra guerra, un'altra vittoria apparente.

Qualche mese dopo la conquista di Bagdad, Washington dovette constatare che quella dei talebani in Afghanistan era stata soltanto una ritirata strategica, che in Iraq non vi erano armi di distruzione di massa, che i sunniti iracheni non erano disposti ad accettare la sconfitta e che gli sciiti liberati dal giogo di Saddam amavano i confratelli iraniani più degli americani.
Comincia da allora la lunga sequenza dei rimedi falliti. In Afghanistan tornarono con forze più importanti e cercarono di sloggiare i talebani dalle regioni riconquistate. In Iraq cercarono di armare i sunniti contro il variegato fronte dell'integralismo islamico. Subentrato a George W. Bush, Barack Obama concepì un piano apparentemente razionale e un calendario inderogabile. In Afghanistan avrebbe lanciato un'ultima offensiva contro i talebani e offerto un negoziato a coloro che erano pronti a deporre le armi. In Iraq avrebbe assicurato la presenza militare americana soltanto sino alla fine del 2011.

Il risultato di quel piano, all'inizio del suo secondo mandato, è deprimente. I talebani non hanno alcuna intenzione di negoziare con una potenza che ha già, comunque, deciso di ritirare le proprie truppe nel 2014. L'uccisione di Osama bin Laden nel suo fortilizio pachistano è parsa uno straordinario successo della presidenza Obama (la vendetta è sempre, per un certo periodo, consolatoria) ma ha peggiorato i rapporti degli Stati Uniti con il Pakistan. In Iraq si muore, grazie alle bombe sunnite, molto più di quanto si morisse all'epoca di Saddam Hussein. In Libia, infine, Obama ha avuto il merito di comprendere prima dei suoi alleati i rischi di una operazione che era divenuta molto più lunga del previsto.
Ma del caos in cui il Paese è precipitato dopo la vittoria dei ribelli Obama non è meno responsabile di Nicolas Sarkozy e David Cameron.
È davvero sorprendente che dopo tre guerre non vinte, come la buona educazione internazionale preferisce chiamare quelle perdute, gli americani e le opinioni pubbliche occidentali non vogliano essere trascinati nella quarta?

Resta da capire, a questo punto, perché un uomo politico accorto e razionale come Barack Obama dovrebbe a tutti i costi prendere una iniziativa militare contro la Siria. Per non permettere che l'uso dei gas vada impunito? Per evitare che l'America, agli occhi del mondo, appaia inaffidabile? Credo che il criterio dell'affidabilità, in questo caso, concerna soprattutto il presidente degli Stati Uniti. Quando ha dichiarato, un anno fa, che l'uso dei gas sarebbe stato una «linea rossa» e che l'attraversamento di quella linea lo avrebbe costretto a rivedere la propria posizione, Obama è diventato prigioniero di se stesso. Ha usato la «linea rossa» per mascherare le proprie incertezze e allontanare per quanto possibile il momento delle decisioni. Ora quella «linea rossa» gli si è ritorta addosso come un boomerang e il presidente, privo di argomenti, è nudo di fronte al mondo come il re della favola di Andersen.

Vi è infine in questa vicenda un tragico paradosso. Le armi chimiche sono atroci, ignobili e suscitano una comprensibile condanna.
Ma le vittime della periferia di Damasco rappresentano una minuscola percentuale di quelle provocate dalla guerra. Le armi letali in Siria sono i fucili mitragliatori, le mitragliatrici, i cannoni, le bombe, i mortai. Collegare il giudizio sull'opportunità dell'intervento all'uso delle armi chimiche ha l'assurdo effetto di rendere altre armi più legittime o meno deprecabili. Non è tutto. Mentre l'Occidente si scandalizza per l'uso dei gas, vi sono probabilmente altri popoli per cui i droni, i proiettili all'uranio impoverito, il napalm e le bombe a grappolo, per non parlare delle armi nucleari, non sono meno tossici dell'arsenale chimico di Assad. In questo scontro di culture e di civiltà è meglio evitare che l'Occidente venga accusato di considerare tossiche soltanto le armi degli altri.

1 settembre 2013 | 8:34
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Sergio Romano

da - http://www.corriere.it/editoriali/13_settembre_01/armi-democratiche_114e22ee-12c0-11e3-b29f-7fb8749168ea.shtml
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« Risposta #147 inserito:: Novembre 26, 2013, 06:19:19 pm »

L’INTESA SUL NUCLEARE IRANIANO
Le clausole invisibili

L’accordo con l’Iran, raggiunto nelle prime ore del mattino di domenica, può sembrare, a un primo sguardo, oltre che temporaneo, modesto e incompleto. Durerà soltanto sei mesi. Sembra lasciare impregiudicato il problema dell’arricchimento dell’uranio che l’Iran rivendica come un diritto e i «Cinque più uno» negano di avere concesso. Non avrà per effetto la fine di tutte le sanzioni e concede allo Stato degli Ayatollah una boccata d’ossigeno (sette miliardi di dollari) che non basterà a rimettere in sesto i conti dello Stato e a rilanciare l’economia.

Eppure vi sono almeno due fattori che rendono questo accordo, al di là delle sue clausole, un evento internazionale. In primo luogo tutte le potenze sedute al tavolo di Ginevra hanno capito che un altro rinvio avrebbe lasciato spazio ai nemici dell’intesa, molto numerosi nelle loro rispettive società nazionali, e proiettato un’ombra sulla possibilità di un nuovo incontro. In secondo luogo, questo primo compromesso, anche se parziale e temporaneo, è bastato a suscitare la collera del primo ministro israeliano e, probabilmente, quella del governo saudita. Se gli accordi si giudicano soprattutto per il modo in cui vengono percepiti da coloro che cercano d’impedirli, la reazione di Netanyahu conferma indirettamente l’importanza di quello raggiunto a Ginevra. Israele ha avuto sinora, nelle vicende iraniane, qualcosa di molto simile a un diritto di veto e teme di averlo perduto.

Vi è un altro aspetto dell’accordo che lo rende politicamente cruciale. I patti internazionali contengono spesso clausole invisibili che tutti conoscono, ma preferiscono tacere. Al di là delle sue formule tecniche e dei problemi non ancora risolti, l’accordo di Ginevra ci dice che l’Iran può ora uscire dal girone degli Stati inaffidabili, se non addirittura «canaglia», in cui ha vissuto, fra alti e bassi, negli ultimi decenni e, in particolare, durante le due presidenze di Mahmud Ahmadinejad. I suoi interessi non saranno sempre condivisibili, le sue ambizioni continueranno a preoccupare una parte della società internazionale. Ma l’Iran diventerà sempre di più, d’ora in poi, lo Stato con cui, pur dissentendo dalla sua linea, sarà utile scambiare idee e informazioni, fare affari, cercare terreni di possibile collaborazione. Gli Stati Uniti non approvano molti aspetti della politica cinese o saudita, ma questo non ha impedito a Washington di considerarli utili interlocutori. Lo stesso dovrebbe accadere domani per i rapporti con l’Iran. Beninteso, molto dipende anche dalla classe politica iraniana. Non basta spalancare le porte degli impianti agli ispettori dell’Agenzia per l’energia atomica.

Non basta dare serie garanzie sull’uso dell’uranio. I dirigenti iraniani dovranno dimostrare che sanno tenere al guinzaglio i Guardiani della rivoluzione, i servizi di sicurezza, la fazione fanatica del clero. Ma toccherà contemporaneamente agli Stati Uniti e all’Occidente dimostrare che ogni passo in questa direzione sarà apprezzato. Senza reciproca fiducia nessun accordo è destinato a durare.

25 novembre 2013
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Sergio Romano

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_novembre_25/clausole-invisibili-f810887e-5597-11e3-8836-65e64822c7fd.shtml
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« Risposta #148 inserito:: Dicembre 24, 2013, 05:49:02 pm »

LA SIRIA DEGLI ORRORI E L’OCCIDENTE
La crudeltà dimenticata

Accade agli Stati ciò che accade a una personalità politica quando è colpita da un ictus o da un infarto. Finché vi è speranza di salvarlo, i dottori descrivono in un bollettino medico le sue condizioni di salute. Quando si accorgono che le cure non hanno effetto e che il malato è incurabile, i bollettini diventano sempre più rari. La stampa internazionale avrebbe materia per dedicare ogni giorno una buona parte della prima pagina alla guerra civile siriana.
Due rapporti recenti - uno di agenti delle Nazioni Unite, l’altro di Amnesty International - dimostrano che ciascuna delle due parti, per fare il vuoto intorno al nemico, colpisce sempre più crudelmente la popolazione civile. Gli uomini, le donne, i bambini, vengono arrestati, imprigionati, torturati. Molti, soprattutto nelle zone controllate dal governo, scompaiono. Ciascuna delle due parti si accanisce soprattutto su coloro che possono, sia pure indirettamente, servire all’altra. Tutti obbediscono alla regola secondo cui «è mio nemico anche il medico che cura le ferite dei miei nemici».
Le responsabilità maggiori, dal punto di vista del diritto internazionale, sono del governo di Bashar Al Assad, colpevole di quella che appare sempre di più una guerra a oltranza dello Stato siriano contro i propri cittadini; ma quelle morali sono equamente distribuite. Abbiamo denunciato l’uso delle armi chimiche perché erano state lungamente sul banco degli accusati e avevano provocato interminabili dibattiti internazionali. Ma questo stillicidio di violenze quotidiane è persino peggio. Perché i bollettini medici sono diventati sempre più rari?
Conviene ricordare che non tutti i medici erano d’accordo sulla diagnosi e sulle cure. I principali dottori accorsi al capezzale del malato - Arabia Saudita, Iran, Qatar, Russia, Stati Uniti, Francia, Turchia, per non parlare della Cina e di altre potenze europee - volevano la guarigione del proprio paziente e la morte dell’altro. Non somministravano medicine, ma armi, intelligence, sostegno logistico. Non lavoravano per la pace, ma per la vittoria del loro rispettivo pupillo. Poi, gradualmente, ogni dottore ha capito che il suo paziente gli stava scappando di mano, non accettava consigli e si rimetteva alla strategia della sua fazione più radicale. È accaduto nel campo del regime, ma anche in quello della resistenza, sempre più soggetta alle infiltrazioni di Al Qaeda. Nessuno lo ammette esplicitamente e qualcuno, come un principe saudita, ventiduesimo figlio del fondatore del Regno, ha scritto recentemente su un giornale americano, che il suo Paese, se necessario, farà da sé, anche se la sua politica sarà radicalmente diversa da quella degli Stati Uniti. Ma tutti sanno che da una guerra come questa uscirà vincitore soltanto quello che sarà riuscito ad annientare spietatamente tutti i suoi nemici.
La conferenza di Ginevra sulla Siria, se verrà convocata, avrà un senso soltanto quando i Paesi coinvolti nella crisi (fra cui finalmente anche l’Italia) si saranno accordati su due misure: la sospensione di qualsiasi assistenza che non sia strettamente umanitaria e la creazione di un cordone sanitario intorno al territorio siriano per impedire il passaggio di qualsiasi fornitura militare. Non sarebbe la fine della guerra, ma potrebbe essere l’inizio di una fase nuova, il primo passo verso un reale negoziato.


21 dicembre 2013
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SERGIO ROMANO

Da - http://www.corriere.it/editoriali/13_dicembre_21/crudelta-dimenticata-eb217bd6-6a06-11e3-aaba-67f946664e4c.shtml
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« Risposta #149 inserito:: Febbraio 11, 2014, 05:32:51 pm »

EDITORIALE: il referendum in svizzera
I confini del realismo

Molti referendum svizzeri sono strettamente locali e, al di là delle frontiere della Confederazione, pressoché incomprensibili. Ma quello di ieri è un referendum «europeo», vale a dire destinato a provocare discussioni e ripercussioni in tutti i Paesi dell’Unione. Quando decidono, sia pure con un piccolo margine, che l’immigrazione deve essere soggetta a limiti quantitativi, gli svizzeri affrontano un problema comune ai loro vicini. Non sarebbe giusto sostenere che il loro «sì» abbia necessariamente una nota razzista e xenofoba. L’opinione pubblica xenofoba esiste e si riconosce nell’Unione Democratica di Centro, oggi maggioranza relativa. Ma parecchi elettori della Confederazione, nei cantoni di lingua tedesca e in Ticino (una scelta, questa, che potrebbe nuocere ingiustamente ai frontalieri italiani) hanno espresso preoccupazioni diffuse anche altrove.

È forse opportuno che il principio della libera circolazione (a cui la Svizzera ha aderito con un referendum del 2000) continui a essere adottato in un momento in cui alcuni Paesi soffrono di una forte disoccupazione e altri, più fortunati, temono tuttavia che il loro mercato del lavoro venga sconvolto da arrivi eccezionali di persone provenienti dai Paesi in crisi? È opportuno assorbire ora nuovi disoccupati a cui non potremo dare un lavoro, ma a cui sarà necessario garantire alcuni benefici del nostro Stato assistenziale? Sappiamo ciò che ogni Paese vorrebbe fare, anche se non osa sempre confessarlo: aprire le sue porte a personale specializzato quale che sia la sua provenienza e chiuderle di fronte a lavoratori non qualificati, anche se cittadini di membri dell’Unione. Ma di tutte le soluzioni possibili, questa è la più inaccettabile. Abbiamo il diritto di essere realisti, ma non sino al punto di calpestare il principio di solidarietà. Se vuole essere qualcosa di più di una semplice aggregazione utilitaria, l’Europa non può voltare le spalle alle persone maggiormente colpite dalla crisi. Anche questo è realismo. Non si fa nulla di serio e duraturo se la costruzione non è fondata su diritti e doveri comuni.

La Svizzera è legata all’Ue da un accordo e non potrà applicare il referendum senza un negoziato con Bruxelles. Ma se il problema è europeo tanto vale cogliere questa occasione per affrontare la questione della libera circolazione delle persone in tempi di crisi. Sarà più facile farlo, tuttavia, se il problema della solidarietà verrà affrontato in un contesto più largo. Qualche giorno fa, al Parlamento di Strasburgo, Giorgio Napolitano ha ricordato che la politica del rigore deve essere accompagnata e completata da nuovi investimenti privati e pubblici al servizio di progetti europei e nazionali. Vi è forse in quelle parole il disegno di un New Deal per l’Europa, nello spirito di quello voluto da Franklin D. Roosevelt per gli Stati Uniti quattro anni dopo la grande crisi del 1929. La politica del rigore, applicata sinora dall’Ue, era indispensabile. Oggi quella della crescita non è meno necessaria. Se il problema dell’immigrazione e del lavoro verrà affrontato in questa prospettiva, qualche temporaneo aggiustamento al principio della libera circolazione sarà forse opportuno e comprensibile.

10 febbraio 2014
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Sergio Romano

Da - http://www.corriere.it/opinioni/14_febbraio_10/i-confini-realismo-59935d48-9219-11e3-b1fa-414d85bd308d.shtml
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