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Autore Discussione: IL PD - Partito Democratico  (Letto 72313 volte)
Arlecchino
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« Risposta #60 inserito:: Aprile 04, 2018, 12:29:18 pm »

IL BLOG

03/04/2018 12:07 CEST | Aggiornato 10 ore fa

Il ping-pong nel Pd su opposizione o dialogo è sterile e senza senso, serve un nuovo soggetto politico

Roberto Morassut Parlamentare del Partito democratico

Dopo il voto il Pd consuma il suo confronto interno in uno sterile ping pong tra i fautori di un indefinito "dialogo" e quelli "dell'opposizione e basta". Una discussione ridotta alla sola tattica parlamentare non ha però alcun senso e testimonia semmai, ancora una volta, quel che ho segnalato già almeno dalla metà del 2016 parlando "dell'esaurimento della spinta propulsiva del Lingotto" e della necessità di una "rifondazione del Pd", attraverso una "fase costituente". In quel momento usare certe espressioni era "scandaloso". Matteo Renzi era a capo del partito e del governo e ancora non si era verificata la sconfitta del referendum costituzionale. Oggi, dire queste cose dopo un colpo elettorale ma senza trarne le conseguenze è colpevole.

Senza un'iniziativa di portata storica nel paese e di rifondazione del soggetto politico democratico, il dibattito sul nostro posizionamento parlamentare assume il profilo di un balletto. Bisogna comprendere che il Movimento 5 Stelle e la Lega hanno raccolto, in forma populistica, le istanze di "nuova cittadinanza" generatesi nella società italiana, per successive stratificazioni, dal '68 in poi e caratterizzate da una sempre più netta distanza dai "partiti" come strumenti di mediazione e organizzazione delle forme di partecipazione civile.

La globalizzazione, l'avvento dei social e la crisi economica mondiale hanno dato l'ultima e decisiva spinta a tutto questo e la sinistra, che ha inventato e introdotto tra l'800 ed il '900 lo strumento del partito politico di massa come soggetto della partecipazione, ne paga il maggior prezzo. Con la nascita del Pd siamo stati i primi, grazie a Veltroni, a intuire tutto questo e a tentare di costruire un nuovo soggetto politico che abbiamo definito ancora "partito" ma che era, nei suoi presupposti, più un "movimento" aperto e orizzontale, collocato oltre la tradizione socialista e teso verso quella "nuova cittadinanza" (che oggi si esprime in modo distorto) e per questo lo abbiamo chiamato "democratico". Eravamo sulla strada giusta ma siamo stati incapaci di percorrerla e il vecchio che era in noi, sostenuto dalle regole elettorali incostituzionali introdotte in Italia nel 2006, ha afferrato il nuovo.

Non c'è da stupirsi allora che altri abbiano raccolto, in forma illusoria e distorta, la funzione storica che ci eravamo dati e che era storicamente matura e necessaria per il popolo. Tale processo di sostituzione accade spesso nella storia e nella politica. Per questo oggi dobbiamo trarne tutte le conseguenze e provare a salvare il principio che era alla fonte del Pd.

Serve un nuovo soggetto politico che raccolga i "Democratici" nella forma di un movimento federato e aperto alle realtà civiche e associative e spazzi via il finto e sterile pluralismo correntizio di potere e di conformismo che tiene in ostaggio il Pd da quasi dieci anni.

Un soggetto politico che abbia come principale asse culturale di riferimento la costruzione di un "nuovo ordine" democratico europeo basato sulla crescita, la sicurezza, la difesa e la cittadinanza comune della Ue; l'unica concreta e storica possibilità di determinare un modello di convivenza umana opposta a quella oggi dilagante nel mondo delle diverse, ma con tratti comuni, oligarchie populiste e olocratiche, come la Russia di Putin, la Cina di Xi, gli Usa di Trump, la Turchia di Erdogan, e in un certo senso, lo stesso Isis; i quali tutti lavorano, non a caso, per destabilizzare l'Europa, il cui percorso democratico, federale e statale considerano per loro mortale. "Rifondare il Pd e aprire una fase costituente", come ha deciso la Direzione, non può essere perciò la consumazione di un rito formale, la definizione di una stanca "collegialità" tra queste correnti.

Occorre una rottura che rimetta tutti sulla linea di partenza insieme ad nuova linfa, esterna alla attuale struttura del Partito, ma interna ai suoi valori più profondi, una linfa che è uscita dal partito o non vi è mai entrata in questi anni e che è di sinistra e democratica. Rinunciare alle rendite di posizione interne è il solo modo per riaprire le porte del Pd senza retorici appelli, per rendere conseguente lo "scioglimento delle correnti attuali" che tutti annunciano senza mai agire, per modellare un nuovo pluralismo di idee e persone dove le correnti si fondino sul pensiero e non esclusivamente come oggi su tessere e preferenze elettorali. Per questo ho chiesto, nel dibattito in Direzione e lo chiederò in occasione dell'Assemblea nazionale di aprile, che la "fase costituente" (se, del resto, i fatti debbono seguire alle parole) venga formalmente strutturata attraverso delle "primarie di idee" che precedano sostanzialmente la scelta del leader futuro.

La reggenza attuale del Pd deve nominare una Commissione aperta e composta da personalità autorevolissime interne ed esterne al Pd e non solo politiche che abbia il compito di predisporre un documento per un "programma fondamentale dei Democratici in Italia e in Europa". Tale documento dovrà essere discusso in tutto il paese, nelle città, nei quartieri, nei luoghi di studio e di lavoro, sulla rete, per essere integrato e emendato con ulteriori apporti e i partecipanti singoli o organizzati alle varie assemblee dovranno registrarsi in un nuovo albo dei Democratici che sarà la nuova base associativa aperta del nuovo soggetto politico costruito su comitati promotori in ogni città, quartiere, luogo di lavoro e di studio.

La vigilanza sulla regolarità delle procedure basate su un codice etico rigoroso e su una carta dei valori sarà affidata a una seconda Commissione aperta. Serve un confronto popolare sulla politica, sui contenuti, sui valori e sulle forme organizzate del soggetto politico, della democrazia e dello stato; sui "fondamentali" della sinistra. Solo dopo questo vasto processo popolare potremo discutere dei leader e delle persone e avrà dunque un senso scegliere un capo piuttosto che un altro.

Considero questa strada l'unica possibile, benché impervia e con rischi, per affrontare quattro temi attualissimi:

1. Sfruttare la curva negativa che i populismi possono incontrare nella verifica di governo che, per un certo tempo, dovranno affrontare. Questo nodo è per loro invalicabile e rischioso, come testimoniano i fatti in tutta Italia. Del resto il populismo oclocratico è una bestia dal volto mutevole e chi si abbevera alla fonte della demagogia, viene presto sostituito, in virtù delle promesse facili tradite, da altri soggetti che assumono gli stessi contenuti con diversi simboli. Lo abbiamo visto attraverso la progressiva sostituzione del populismo berlusconiano con quello a Cinque stelle e con quella in corso, come a Roma, tra Cinque stelle e Lega. È qui la principale ragione di conflitto mortale tra costoro e il paese civile può approfittare di questo o esserne totalmente fagocitato. Dipende dai Democratici e dalla loro capacità di mostrare un "alternativa democratica".

2. Creare da subito, in vista di una probabile correzione della legge elettorale in senso maggioritario, il nuovo soggetto politico maggioritario dei Democratici, che in tutta evidenza, per ragioni di usura non può essere "questo" Pd.

3. Dare sostanza, con una iniziativa strategica nel paese reale a quella "opposizione responsabile" che abbiamo detto di voler fare in Direzione e nei gruppi. Un'opposizione responsabile e tatticamente accorta è un'opposizione sui contenuti e sui valori che dialoga e combatte su questi senza pregiudizi, né settarismi, né opportunismi e che porta le sue ragioni nel paese e fuori dal parlamento. Diversamente il nostro attuale confronto tra "dialogo e opposizione" è inutile, infantile, astratto e dannoso.

4. Evitare ogni tentazione, da parte di chiunque, di fare uno "switch" politico e imitare un gioco di borsa, spostando le sue "quote" in un soggetto politico personale lontano dal ceppo fondamentale della sinistra democratica, liberale e riformista. Creare un nuovo soggetto politico democratico che superi e sviluppi l'esperienza del Pd è, a questo punto, un'esigenza storica posta all'ordine del giorno dagli eventi. Può riuscire se assume il profilo di una grande impresa popolare e collettiva. Un tentativo personale sarebbe illusorio e tragico e ricadrebbe nei caratteri di una variante delle modalità populiste che dobbiamo invece contrastare.

Infine, per concretizzare i termini di un' opposizione responsabile e che "guardi ai fatti senza rinunciare agli artigli" (cit. Berlinguer all'inizio del governo Craxi) e che viaggi nel paese oltre che in parlamento, proporrò di sostenere le due proposte di legge che ho presentato con altri colleghi già dal 2013, sulla riforma del Codice Civile in materia di nomine pubbliche (per introdurre procedure di evidenza pubblica) e per riformare la Costituzione in materia di regionalismo, riducendo il numero delle regioni italiane e istituendo la regione di Roma capitale.

Due iniziative per sfidare il civismo parolaio dei Cinque stelle e contrastare l'incipiente costruzione di un sistema di potere attraverso le grandi nomine concordate con i poteri lobbistici e finanziari, via Casaleggio. E per sfidare il "federalismo della felpa" di Salvini che coltiva un localismo primordiale e rozzo, senza alcun rapporto con la nazione e con l'Europa come invece racconta la tradizione democratica da Cattaneo, a Mazzini, a Salvemini, a Spinelli.

Da - https://www.huffingtonpost.it/roberto-morassut/il-ping-pong-nel-pd-su-opposizione-o-dialogo-e-sterile-e-senza-senso-serve-un-nuovo-soggetto-politico_a_23401465/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #61 inserito:: Aprile 07, 2018, 12:16:26 pm »

Nel PD si devono “resettare” molte idee, ma non è possibile farlo gettando in Arno il cervello.

Renzi annulli le dimissioni e da segretario ripari il riparabile nell'immediato.

Il Polo Democratico di CentroSinistra deve essere preso in considerazione non come coalizione (stramaledetta) ma unicamente come fondamenta e base di un serio Progetto Nazionale.

Il CentroSinistra avversario delle destre e soggetto riformista determinato a non dover più subire accuse false (anche interne), voli pindarici e guasconate da feroce grillismo diffuso.   

ciaooo
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« Risposta #62 inserito:: Aprile 16, 2018, 11:51:19 am »

Pd, rinvio dell'Assemblea.
Martina appoggia la richiesta dei renziani. No della minoranza
A lanciare la proposta sono esponenti vicini all'ex segretario: "Discutere adesso sul Congresso non è responsabile".
L'opposizione interna è contraria: "Si cerca di indebolire Martina".
Ma il reggente si dice favorevole: "Ho chiesto a Orfini il posticipo". Con lui i franceschiniani

Di ALBERTO CUSTODERO
13 aprile 2018

ROMA - La giornata di fibrillazione interna al Pd si conclude poco prima delle 20 con la nota ufficiale del segretario reggente, Maurizio Martina. "Ho chiesto al presidente Orfini di posticipare l'assemblea", dice.

Ma per tutto il pomeriggio si rincorrono voci sul nuovo colpo di scena interno. I renziani chiedono di rinviare a dopo la formazione del governo l'assemblea del partito, fissata per il 21 aprile. In mattinata c'era stato un incontro tra Renzi e Martina, ufficialmente sul rebus del governo e sulle consultazioni appena concluse. Sono proprio le trattative per trovare una maggioranza in Parlamento a rendere necessario un rinvio, secondo la componente che fa capo a Matteo Renzi (sulla carta il 70 per cento dell'assemblea). "In un contesto politico come quello che stiamo vivendo, la discussione se fare o no il congresso del pd, e se sì quando, è del tutto fuori luogo", dice il dem Dario Parrini, vicinissimo all'ex segretario. "Per questo penso che dobbiamo rinviare l'assemblea nazionale del 21. E che non farlo sarebbe poco responsabile".

Il 21 - è il mantra dei renziani - potrebbe esserci una divisione in assemblea tra candidature contrapposte o proposte diverse sullo svolgimento del congresso. Visto che la discussione fra le varie anime dem potrebbe protrarsi, potrebbe accadere che il partito si trovi ancora in una fase di definizione del proprio assetto nel pieno delle consultazioni per il futuro governo. Insomma, prima di affrontare le scelte relative al nostro futuro, dicono, sarebbe meglio affrontare quelle relative al futuro del Paese.

Ma, poco dopo, insorge la minoranza del Pd. Nessuna comunicazione è arrivata ad Andrea Orlando e agli altri big del partito. Ma, aggiungono fonti parlamentari, se i renziani dovessero seguire quella strada sarebbe gravissimo. Dietro al tentativo dell'ex segretario, sospettano dalla minoranza, "c'è la volontà di mettere in difficoltà Maurizio Martina", ma non solo: "I renziani non vogliono rinunciare a controllare il partito" per mezzo del parlamentino dem e, soprattutto, "vogliono poter fare loro le liste per le europee del 2019 e per le politiche", in caso di voto anticipato. L'area di Emiliano prende posizione con Francesco Boccia. "No, non siamo d'accordo. Un rinvio sarebbe assolutamente inopportuno, al partito servono certezze".

A fine giornata, però, arrivano le prime indiscrezioni da Martina e dai franceschiniani che non sarebbero contrari al rinvio dell'assemblea. Sarebbe anzi questo un modo per svelenire il clima e arrivare con più serenità all'appuntamento delle trattative per il governo. Un modo per tenere fede all'impegno preso al quirinale, di sostenere lo sforzo del presidente Sergio Mattarella. Dello stesso parere anche il segretario reggente, Maurizio Martina.

 © Riproduzione riservata 13 aprile 2018

Da - http://www.repubblica.it/politica/2018/04/13/news/pd_renziani_premono_per_rinvio_assemblea_temono_di_arrivare_divisi_alle_consultazione_per_la_formazione_governo-193774322/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T1
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« Risposta #63 inserito:: Aprile 19, 2018, 01:48:16 pm »

Renzi non scende dall’Aventino, ma il Pd si prepara a trattare
L’ex segretario pronto a un braccio di ferro in stile Merkel col M5S: «Se ci sediamo al tavolo con loro non vuol dire che abbiamo un accordo»
Ieri Renzi ha fatto vedere di essere spensierato twittando di prima mattina una foto della sua città commentando: «Come è bella la primavera a Firenze»

Pubblicato il 19/04/2018 - Ultima modifica il 19/04/2018 alle ore 11:40

CARLO BERTINI
ROMA

Nelle ore di massima fibrillazione, quando fin dalla mattina nei Palazzi volgono già gli sguardi al «forno del domani», quello tra Pd e 5Stelle tutto da costruire, Matteo Renzi interpreta il ruolo della sfinge: l’ex segretario lascia tutti col fiato sospeso a rimuginare su quale sia il suo vero intento, dando così la stura alle più svariate ipotesi. E creando non poca fibrillazione nei poli istituzionali, così come nei gruppi del Pd. Dove ieri, dopo la nomina dell’ufficio di presidenza e prima di uscire da Montecitorio, Graziano Delrio si raccomandava con la sua vicaria Alessia Rotta di stare «zitta, perché le cose migliori maturano nel silenzio». Dando così la stura a congetture su chissà quali colloqui con i grillini. E del resto sono girate voci d’ogni sorta: perfino quella secondo cui Renzi vorrebbe che Berlusconi dia mandato a Forza Italia di astenersi di fronte ad un esecutivo con i voti grillini, «per far vedere di non essere il solo a concedere credito a questi qui», racconta un deputato. Guarda caso, esce un tweet di Guido Crosetto, ex azzurro passato con la Meloni, che pronostica proprio questo scenario: «Sembra sempre più vicino il Governo di Centrosinistra: 5 stelle, Pd, Leu. FdI e Lega, felicemente all’opposizione durissima e FI ultrafelicemente all’opposizione dura alla Camera e... “responsabile” al Senato».

Ecco, le voci si rincorrono su una tela ancora tutta da imbastire. Che avrebbe come telaio un incarico affidato a Roberto Fico come grimaldello per scongelare i Dem anchilosati all’opposizione. Tra i renziani scatta il panico, perché nessuno sa cosa pensi il capo e molti temono la «strambata» improvvisa verso i pentastellati senza che nessuno sia preparato alla bisogna, anzi dopo che tutti sono stati costretti a dire urbi et orbi che «non se ne farà nulla». Renzi fa vedere di essere spensierato, «come è bella la primavera a Firenze», twitta in mattinata. Facendo preoccupare ancor di più i suoi, subissati da messaggi «di militanti ed elettori infuriati che ci chiedono se sia vero che andiamo coi grillini...», racconta uno delle sue parti. Alle otto di sera l’ex segretario fa trapelare che per lui il governo Pd-5Stelle non esiste, «non ci sono scongelamenti, avvicinamenti, ipotesi o trattative. Niente», assicura il suo portavoce.

 Certo è che la prossima settimana ci sarà un altro esploratore e a quel punto i Dem si dovranno sedere al tavolo. Se sarà un esponente grillino o vicino a quel mondo, la partita entrerà nel vivo. Tanto che i big Pd senza darlo a vedere si stanno già disponendo alla battaglia. «Se ci sediamo con loro, ciò non vuol dire che abbiamo fatto un accordo per il governo, anzi», spiega uno dei pochi ad aver frequentato le stanze del Colle in questi giorni. «Con le distanze che ci sono tra noi, nulla è scontato, tutt’altro». Tradotto: il Pd di fede renziana non esclude nulla, ma non scommette un euro sulla riuscita dell’operazione. E in ogni caso si prepara ad intavolare un braccio di ferro lungo e defatigante, «in stile Merkel», che ha impiegato sei mesi a scrivere il patto programmatico con gli alleati. Come sempre, le varie anime si posizionano sul campo di battaglia. Insieme a quella di Orlando ed Emiliano, anche quella veltroniana vede di buon occhio un cantiere con i grillini. «Loro questa volta si sono rimpolpati con 4 milioni di voti del Pd e sarebbe una fesseria non dialogarci», sostiene Walter Verini, che con Veltroni costruì la narrazione del Lingotto e che vede un approdo insieme ad una forza che comunque sia ora difende il patto atlantico. 

Anche Gentiloni su questo versante, che trova sensibili molti padri del Pd, nella sua modalità felpata si muove. Ieri, ad un convegno insieme a Romano Prodi su De Gasperi, faceva notare che in Parlamento ci si torna a dividere sulla Nato, come avvenuto dagli anni ’50 agli anni ’70 e «chi tocca i pilastri dell’alleanza fa una scelta pericolosa per il paese». Un discorso che agli osservatori è parso come un modo per aiutare il Pd e i grillini a fare un governo sotto l’ombrello atlantico.

 Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati.

Da - http://www.lastampa.it/2018/04/19/italia/renzi-non-scende-dallaventino-ma-il-pd-si-prepara-a-trattare-YwuJSWcyfflATS7o85qs4L/pagina.html
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« Risposta #64 inserito:: Aprile 19, 2018, 01:57:35 pm »

DIBATTITO

La sinistra ora è in prestito ai Cinque Stelle

Dalle battaglie sociali alla partecipazione. Il Movimento Cinque Stelle, con tutti i suoi difetti e le sue contraddizioni interne, si è impadronito di un'eredità. Per adesso o per sempre?

DI S. BORGHESE, V. FABBRINI, L. NEWMAN
18 aprile 2018

Dopo l'intervento di Paola Natalicchio della scorsa settimana, prosegue il dibattito sul destino della sinistra. Gli autori sono tre giovani ricercatori*

Essere di sinistra può assumere tante connotazioni: estetiche, industriali, clientelari, campanilistiche, e dipolicy. In modi diversi sono identificabili come di sinistra le scarpe Camper, le cooperative, il sistema di relazioni che girava attorno alla Monte dei Paschi di Siena, il Livorno calcio e la legge Cirinnà. Nozioni di cosa è non è di sinistra possono però cambiare con il tempo. Che Guevara è un’icona della sinistra, ma è riverito anche da CasaPound.

Fondamentalmente, però, essere di sinistra vuol dire credere in un ideale di giustizia sociale in favore dei meno abbienti. Quest’accezione moderna di sinistra nasce nell’immediato post rivoluzione francese quando, durante l’assemblea degli Stati Generali, le forze rivoluzionarie occuparono la parte sinistra dell’emiciclo. Nel solco di questa tradizione, secondo il filosofo italiano Norberto Bobbio, chi è di sinistra vede l’eguaglianza come il valore più importante.

Il mezzo attraverso il quale si persegue l’ideale egualitario cambia però a seconda delle dottrine politico-economiche. Il socialismo offre il mezzo della collettivizzazione. Si tratta di una dottrina che è stata a lungo dominante e spesso identificata tout court con l’ideale di sinistra, ma non è l’unica. Il keynesismo, ad esempio, rientra nel paradigma economico capitalista, ma è generalmente considerato di sinistra perché prevede un sostegno alla domanda interna durante i cicli economici recessivi.

A prescindere da dottrine economiche, marche di calzatura e sistemi di potere, l’essere di sinistra significa senz’altro avere a cuore le condizioni di vita di chi sta peggio. È innanzitutto un’attitudine, qualcosa che si fa tutti i giorni, prima ancora di declinarsi in una posizione politica.

Dopo Tangentopoli e la caduta del muro di Berlino, si è presentata in Italia una classe dirigente nuova, che in tante aree non è mai cambiata. Sono gli anni in cui a destra emergono i berlusconiani e a sinistra i dalemiani e i veltroniani – forze sociali che hanno visto il loro tramonto solo con il risultato delle politiche del 2018.

L’establishment di sinistra, dai partiti ai sistemi di potere privato e pubblico che li circondano, è quindi rimasto sostanzialmente immutato in quest’ultimo quarto di secolo. L’elettorato, invece, no.

I dati elettorali più sofisticati, disponibili dalle politiche del 2008 in poi, dimostrano come quello che era il bacino elettorale di riferimento della sinistra ha visto cambiare radicalmente le proprie condizioni e prospettive socio economiche in questi anni. Quella classe operaia che aveva sempre votato a sinistra si è progressivamente impoverita, invecchiata o precarizzata. Anche la classe media ha visto ridursi drasticamente il proprio reddito pro-capite, in maniera talvolta vertiginosa. Continuano a votare a sinistra soprattutto coloro che continuano a sentirsi rappresentati da una leadership anziana che focalizza la propria offerta politica su tematiche tradizionalmente affini ai più anziani e chi da loro dipende: immigrazione, rigore fiscale, pensioni, tutti temi tradizionalmente di destra.

I dati più recenti evidenziano proprio come il bacino elettorale di riferimento sia cambiato, diventando anziano e arroccandosi nei centri borghesi delle grandi città.

Già nel 2013 infatti il voto al PD era stato quasi direttamente proporzionale all’età, restando sotto il 20 per cento tra chi aveva meno di 40 anni e salendo al 37 per cento tra gli over 65 (dati ITANES); una dinamica che si è ripetuta anche nel 2018, quando il PD ha ottenuto più del 20 per cento solo tra chi ha più di 55 anni, e il 28 tra gli ultra 65enni, secondo i dati del sondaggio Quorum/YouTrend per Sky Tg24.

Lo stesso istituto ha calcolato come il PD abbia fatto registrare la migliore tenuta, in un contesto di arretramento generale, proprio nei grandi centri urbani con più di 300 mila abitanti, mantenendo il 70% dei propri elettori 2013, a fronte di una tenuta del 65-66 per cento nei comuni inferiori; ancora più indicativo il dato in voti assoluti, dove si nota che il PD (e il centrosinistra “tradizionale” nel suo complesso) va meglio solo nei comuni di maggiori dimensioni, superando il 20 per cento (e il 30 per cento considerando tutta l’area progressista) soltanto nelle città con più di 100 mila abitanti.

Il consenso trasversale nelle regioni rosse (che lo sono sempre meno) ha resistito fintanto che c’è stato un ricambio della classe dirigente locale, capace di una buona gestione economica a favore della propria la base, portando avanti un’agenda progressista, egualitaria. Le elezioni del 4 marzo hanno visto crollare questa certezza: per la prima volta dal 1946, in Emilia-Romagna la sinistra non è stata la prima forza politica. Qui, come altrove in Italia, Il grosso del bacino elettorale ha sofferto tutte le conseguenze del declino macroeconomico, senza paragoni nel mondo occidentale, patito dall’Italia dal 2000 in poi. I pochi investimenti e la mala-gestione della globalizzazione hanno decimato gli ecosistemi produttivi da cui dipendeva l’impiego degli elettori di sinistra. L’establishment di sinistra, come quello di destra, non ha saputo rispondere a questa sfida, se non a livello pratico sicuramente non a livello di retorica, cultura e capacità di ascolto. Il bacino elettorale di riferimento ha quindi buone ragioni per aver perso fiducia, ed è tra questi delusi che i Cinque Stelle hanno trovato la loro più importante fonte di consenso.

Gli studi sui flussi elettorali confermano che sia nel 2013 che nel 2018 una parte consistente dell’elettorato del M5S aveva votato, in precedenza, per uno dei partiti progressisti “tradizionali”: PD, IDV o sinistra. Nel 2013 tale quota era pari al 42% dell’elettorato complessivo dei Cinque Stelle (dati ITANES), mentre la principale destinazione – ad eccezione dell’astensione – degli elettori che sia nel 2013 che nel 2014 avevano votato il PD (quindi, guidato sia da Bersani che da Renzi) è stata, nel 2018, il Movimento (secondo il sondaggio Quorum/YouTrend per Sky TG24). L’elettorato di riferimento della sinistra sembra aver trovato nel Movimento qualcosa che il suo establishment di riferimento ha perso. 

Si può capire cosa esattamente analizzando le battaglie identitarie del Movimento. Analizzando i media, queste sono principalmente il richiamo all’onestà e il sostegno ai poveri. L’onestà è predicata attraverso la battaglia sui vitalizi, il giustizialismo sommario verso i politici indagati e una retorica distruttiva nei confronti di qualsiasi autorità sospettata di corruzione. Il reddito di cittadinanza – una proposta, per quanto fiscalmente discutibile, di normale social welfare – è invece l’espressione più concreta della battaglia contro la povertà.

Anche la lotta all’immigrazione, perlomeno a livello di cornice ideologica, gioca un ruolo. La battaglia contro il disagio sociale è al centro della cultura dei Cinque Stelle, che hanno nella restituzione della voce alle persone comuni uno dei loro valori fondanti.

I sondaggi confermano che le battaglie a cui gli elettori Cinque Stelle tengono maggiormente sono proprio queste. Sono temi che hanno una presa naturale su chi ha un profilo sociodemografico più giovane, tendenzialmente disagiato o comunque caratterizzato dall’aver subito le conseguenze della stagnazione economica che dura dal 2000. Il rapporto di fiducia tra l’elettorato dei Cinque Stelle e il suo nascente establishment passa per questa condivisione di obbiettivi.

È importante anche precisare che l’opposizione ai vaccini, il razzismo becero, l’anti-intellettualismo sono posizioni minoritarie tra i seguaci del Movimento.

La vera proposta del Movimento però non risiede nei suoi contenuti ma nei processi rappresentativi.
I Cinque Stelle teorizzano infatti la nascita di una democrazia digitale diretta, in cui internet consente la formazione di un consenso su posizioni trasversali. Le primarie digitali, battezzate parlamentarie, e i referendum online su decisioni cruciali del Movimento, per quanto amatoriali o manipolative nella loro esecuzione, sono prassi fondanti. Consentono all’ex-elettore di sinistra di sentirsi nuovamente ascoltato da un establishment.
Si tratta di idee tipiche della sinistra radicale. La genesi intellettuale della democrazia diretta digitale risale infatti ai campus universitari americani di sinistra. Discende intellettualmente dal sogno collettivista di Marx, attuato poi attraverso la Comune di Parigi del 1871, nei primi Soviet e nei kibbutz israeliani. Alcune scelte lessicali adoperate dai Cinque Stelle – direttorio, Rousseau – sembrano voler ricondurre idealmente i processi di governance del Movimento allo spirito della rivoluzione francese.

Poche settimane fa, Luigi Di Maio è stato deriso dal New York Times per aver lasciato la casa dei genitori solo cinque anni prima. Le statistiche dimostrano che la vicenda personale di Di Maio, e di tanti altri quadri del Movimento, è simile a quella di molti dei loro elettori. L’inesperienza professionale e il disagio vissuti da Di Maio, Fico e altri sono asset politici.

Riassumendo, il nascente establishment del Movimento è uno in cui un elettorato mediamente giovane, che normalmente tenderebbe a sinistra, si riconosce. I processi partecipativi proposti dal Movimento sono, almeno filosoficamente, di sinistra. Le loro battaglie identitarie – onestà e sostegno ai poveri – sono di sinistra. Il bacino elettorale della sinistra – inteso sia come vecchi elettori che come profilo socio-demografico degli elettori del 2008 – è in buona parte defluito ai Cinque Stelle. Se la sinistra istituzionale paga l’aver tentato a lungo di offrire soluzioni al malcontento senza doverlo ascoltare e rappresentare, il Movimento, al contrario, nei suoi primi nove anni ha potuto sia ascoltare che rappresentare il malcontento egregiamente. Il Movimento Cinque Stelle è, con tutti i suoi difetti e con tutte le sue contraddizioni interne, il nuovo partito di sinistra italiano.

Le battaglie politiche dei Cinque Stelle sono le stesse che l’establishment e i partiti di sinistra hanno smesso di fare, almeno a livello comunicativo. Se i governi di sinistra hanno attuato misure di contrasto al disagio sociale come il reddito d’inclusione, raramente questa questione è stata al centro della loro retorica. La lotta alla corruzione e alle clientele, elementi centrali nell’identità dei Cinque Stelle, è avvenuta concretamente attraverso provvedimenti del PD quali l’istituzione dell’ANAC e il nuovo codice degli appalti. Eppure non sono diventati elementi identitari dei partiti di sinistra. In tempi più recenti, scandali minori come quello di Banca Etruria sono stati gestiti male sul piano comunicativo, accrescendo l’impressione che l’establishment di sinistra sia un sistema di potere più che l’espressione di un consenso politico.

Tutto ciò è vero non solo a livello partitico ma di classe dirigente in senso lato e di cultura politica. Al calo continuo del numero degli iscritti dei partiti di sinistra negli ultimi 25 anni si è accompagnato il declino delle cooperative, dei centri sociali e delle banche e aziende con consigli direttivi espressi dai partiti di sinistra. La cultura di sinistra si è evoluta di pari passo. Nella percezione mediatica, i suoi simboli odierni sono diventati confusi e autoreferenziali: il cashmere, i film in lingua originale, Capalbio. Si tratta di ossessioni da élite che non verrebbero così derise se la sinistra istituzionale avesse mantenuto una capacità di ascolto e rappresentanza propria delle élite politiche in una democrazia rappresentativa, come insegna Bernard Manin.

Più che il fallimento di un leader, Renzi o D’Alema o Bersani, è un fallimento di leadership. Renzi è solo l’espressione finale di un declino pluridecennale. Il suo tentativo di eversione è stato l’ultimo respiro dell’ultima classe dirigente giovane dell’ultima regione rossa. Questo scollamento dalla base è stato così lento da essere ignorabile dall’establishment di sinistra. Fino al risultato del 4 marzo.

Storicamente, nel mondo occidentale, l’asse sinistra-destra non scompare. Cambiano semplicemente i partiti e le loro identità. E le ragioni per cui i partiti cambiano ideologia sono spesso legate alle loro strutture di potere. In America, fino agli anni ’50, il partito Repubblicano era la forza progressista e il partito Democratico quella conservatrice. In passato questo bipolarismo è stato interpretato dai Whigs, i Federalisti e altri. Nel Regno Unito vi è stato un percorso simile. Gli odierni partiti progressisti del Regno Unito e degli USA nascono da frange insoddisfatte dei partiti progressistiche c’erano prima. In Italia molti attribuiscono l’emergere del proto-fascismo di ispirazione socialista alla perdita di contatto con la base della Sinistra Storica e alla frustrazione del primo Mussolini con l’establishment socialista.

Similmente, spesso i quadri grillini sono persone che hanno rinunciato a permeare l’establishment, spesso quello di destra, ma più spesso quello di sinistra. Se Di Maio e Di Battista hanno vissuto le delusioni dei padri, dirigenti locali delle destre sociali, Virginia Raggi e Roberto Fico sono dei delusi dalla leadership di sinistra. Da ragazzo, anche lo stesso Di Battista si è definito di sinistra. La rosa di ministri proposta per il governo dai Cinque Stelle è composta da persone relativamente giovani, relativamente di sinistra, rimaste però ai margini dell’establishment progressista.

Questo è l’altro specchio della medaglia degli elettori grillini, che sono appunto più spesso vecchi elettori delusi della sinistra che della destra.

I tanti delusi tra le aspiranti classi dirigenti del post‘92, soprattutto ma non solo di sinistra, stanno formando un nuovo establishment che, per quanto possa essere poco qualificato, sta sostituendo quello precedente. È verosimile che delle componenti dell’attuale o aspirante classe dirigente di sinistra si lascino cooptare dai Cinque Stelle pur di sopravvivere o avere la propria occasione di ribalta. In alcune frange della società civile, questo sta già avvenendo.

La destra in Italia non è cambiata in questi anni, rimanendo sostanzialmente reazionaria, nonostante la tentata evoluzione berlusconiana. Per l’elevata età anagrafica della sua leadership, e a causa della centralità di Silvio Berlusconi, Forza Italia e la rete di relazioni che la circonda sono irriformabili. L’ha scoperto Gianfranco Fini proprio come lo sta scoprendo Matteo Renzi con il PD. Molti vedono però nell’avventura di Matteo Salvini un altro percorso: un tentativo di superare Forza Italia sostituendola, piuttosto che cambiandola dall’interno. I quadri della Lega salviniana sono infatti più giovani dei berlusconiani, ma molti sufficientemente moderati da essere ideologicamente ascrivibili a Forza Italia se volessero.

Queste nuove destra e sinistra sono protagoniste di un nuovo bipolarismo geografico. Un Settentrione che esce dalla crisi, più che schierarsi contro l’Europa o la migrazione, ha semplicemente votato un partito che propone una misura pro-crescita: la flat tax, ovvero un’aliquota IRPEF unica. Si tratterebbe di una riforma, per quanto utopica nell’attuale contesto fiscale italiano, essenzialmente di destra. Il Meridione, che non ha visto la ripresa economica, ha sostenuto con maggioranze schiaccianti un partito, il Movimento Cinque Stelle, che propone una misura assistenzialista altrettanto inverosimile, ma fondamentalmente di sinistra. L’emergere della Lega e dei Cinque Stelle tra le principali forze politiche ha più a che vedere con un ricambio di establishment che con un superamento ideologico.

Con la fine della cortina di ferro, si afferma il Washington Consensus. È la convinzione, nel seno della sinistra istituzionale americana, che le soluzioni economiche tipicamente liberali – globalizzazione, competizione – rappresentino l’unica ricetta credibile per la crescita macroeconomica. La sempre minor attenzione all’egualitarismo che vediamo oggi nella sinistra italiana nasce qui, traducendosi per la prima volta in politiche pubbliche con la Terza Via di Bill Clinton. Il primo ad adottare la Terza Via in Europa è Tony Blair, seguito via via da altri colleghi europei. Il principale punto di riferimento estero di Renzi, sia dal punto di vista ideologico che per come ha riformato il proprio partito, è proprio Tony Blair.

E fino al duplice trauma dell’elezione di Trump e la Brexit, molte sinistre occidentali hanno più o meno continuato su questa scia. Oggi, non avendo saputo tradurre la Terza Via in una dottrina egualitaria e credibile per le proprie basi, i partiti di sinistra tornano alle loro origini, come Corbyn nel Regno Unito e Sanders negli USA, oppure rischiano di scomparire a causa della concorrenza di un’offerta politica più innovativa, come è avvenuto con i socialisti in Francia o il PASOK in Grecia.

La sinistra istituzionale italiana dovrebbe cambiare radicalmente visione politica per trovare o ritrovare una base. Potrebbe farlo in direzione centrista oppure tornando a valori di sinistra tradizionale. In entrambi i casi, l’establishment di sinistra e l’elettorato che gli è rimasto fedele dovranno partire dal riconoscimento che il Movimento Cinque Stelle si è impadronito delle loro battaglie storiche. I meme sul reddito di cittadinanza, condivisissimi nei giorni del post-voto, suggerirebbero che questo non stia avvenendo.

Un cambio di paradigma potrebbe arrivare da un cambio di leadership in seno ai partiti. Molti sperano che un Nicola Zingaretti o un Carlo Calenda abbiano il carisma per dare una nuova identità politica alla sinistra. Ma il problema è di classe dirigente e non solo quella dei partiti. Un cambio di visione difficilmente può essere imposto univocamente dall’alto come ha provato a fare, nel bene e nel male, Renzi. Strutturalmente e storicamente, infatti, è molto raro che un establishment sostanzialmente anziano e diffuso viva grandi cambi di rotta. Non a caso Potere al Popolo, ovvero la parte della sinistra radicale che più aveva avvertito la distanza tra sinistra istituzionale ed elettorato, ha una leadership e una base giovane. Se altri giovani dirigenti che si identificano nella sinistra percepiscono di avere maggiori chance di emergere altrove, appunto tra i Cinque Stelle, è giusto essere scettici chela sinistra istituzionale per come la conosciamo possa sopravvivere a questa legislatura. Il 18,7% registrato dal PD il 4 marzo potrebbe essere stata un’ultima resistenza. La sinistra è viva, ma non lotta insieme a noi.

**************

Gli autori *
Lorenzo Newman è Principal Consultant di Learn More, una società di consulenza. Ha scritto su istruzione, politica nazionale ed internazionale per Slate, Aspenia, Pagina99, Linkiesta e altri. Nel 2017 ha pubblicato il suo primo libro, Paura e Rischio in Italia, edito da Castelvecchi.

Salvatore Borghese è caporedattore di Youtrended è stato tra i fondatori di Quorum, un istituto di ricerca demoscopica. I suoi pezzi di analisi elettorale sono apparsi su Slate, Il Fatto Quotidiano, Il Mattino, La Stampa, e altri. Commenta spesso gli ultimi sondaggi su Rai 3 e La7

Valeria Fabbrini è una ricercatrice economica specializzata nel monitoraggio e valutazione degli investimenti e della spesa pubblica. Su questi temi ha collaborato per sei anni la Presidenza del Consiglio dei Ministri e pubblicato numerosi articoli, saggi e una monografia.

© Riproduzione riservata 18 aprile 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/04/18/news/la-sinistra-ora-e-in-prestito-ai-cinque-stelle-1.320672?ref=RHRR-BE
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« Risposta #65 inserito:: Aprile 19, 2018, 01:59:04 pm »

Cinque stelle-Pd, il dibattito sul cambio di scenario

Le interviste: Massimo Cacciari, Ugo Mattei, Tomaso Montanari e Diego Fusaro
Filosofo. Massimo Cacciari. Il suo ultimo saggio è «Generare Dio» (Il Mulino)

Pubblicato il 19/04/2018 - Ultima modifica il 19/04/2018 alle ore 07:30

NICOLA PINNA, ANDREA FIORAVANTI, MATTEO INDICE, FILIPPO FEMIA
TORINO

Massimo Cacciari: scenario incredibile, i vincitori trattano con i perdenti 
L’unico scenario a cui Massimo Cacciari è certo di non dover mai assistere è proprio questo: «Che il Movimento 5 Stelle tenti di fare un accordo col Pd. Questo mi sembra davvero incredibile. Assurdo che il partito vincitore delle elezioni accetti di essere condizionato dalla forza più sconfitta». 

Neanche se a guidare un ipotetico governo fosse Fico, il grillino che in qualche modo sembra più vicino alle idee della sinistra? 
«Cambia davvero molto poco. Il vero problema è che i Cinque Stelle dovrebbero ritrovarsi a trattare con Renzi, che ha ancora la guida della parte più forte e più rappresentativa del partito. Non solo: il Movimento dovrebbe accettare le proposte del Pd, dovendo persino concordare i nomi delle persone a cui affidare tutti gli incarichi». 

Quale può essere ora la via d’uscita? 
«Quella di un governo istituzionale. Per Mattarella questa può essere l’unica soluzione realmente praticabile. Vista la situazione che si è creata, il M5S ha l’ultima possibilità per riuscire a far parte di un governo: quella di un esecutivo in cui sono dentro tutti, scelto dal Capo dello Stato, magari con l’incarico di riformare la legge elettorale. Soltanto in questa situazione i grillini e il Pd potranno stare insieme». 

La trattativa tra Lega e M5S oggi è fallita definitivamente oppure c’è un’altra possibilità? 
«La soluzione a questo caso resta ancora nelle mani di Berlusconi. Di Maio e il Movimento su questo punto hanno la strada sbarrata: non possono in nessun modo tornare indietro. Sarebbe una figuraccia se facessero cadere il veto che hanno posto fin da subito sull’ex premier. La mossa più utile, se si vuole sbloccare la situazione, potrebbe farla Berlusconi: si faccia da parte». 

Ma quanto le sembra probabile che possa accadere? 
«Poco, ma sarebbe bello a quel punto vedere se Di Maio e Salvini sono in grado di formare un governo. Tutti gli italiani li potrebbero giudicare alla prova dei fatti. L’alternativa è che i vincitori delle elezioni dicano chiaramente di aver fallito».
(Nicola Pinna) 

Ugo Mattei: ma prima facciano le primarie per sentire la base 
«Il Movimento Cinque stelle e il Partito democratico devono sentire i loro iscritti per capire con quale programma e su quali valori si può governare insieme». Secondo Ugo Mattei, docente di diritto privato a Torino e a Berkeley, si è già perso troppo tempo. «Ormai sono passati 45 giorni di teatrino politico fatto di capi e capetti che si alternano in consultazioni formali. Per uscire dallo stallo bisogna ridare la parola ai cittadini e capire qual è la vera volontà popolare. Serve un nuovo metodo».

E come si fa? 
«Si potrebbe incaricare il presidente della Camera Roberto Fico e dare 15 giorni di tempo ai leader di Movimento Cinque Stelle e Partito democratico per consultare le loro basi e capire se è possibile un’alleanza. Ormai non ci sono molte alternative. Il Movimento Cinque Stelle ha sempre detto di aver preso decisioni con le consultazioni online, il Partito democratico si vanta e stra vanta di aver fatto le primarie. Che le facciano una buona volta per una giusta causa!».

Quali potrebbero essere i punti in comune per un governo M5S - Pd? 
«Lavoro, beni comuni, ambiente, ecologia e modifica della legge Fornero».

Roberto Fico è l’uomo giusto per creare questa alleanza politica? 
«Sì, Fico ha fatto un percorso importante sulla lotta per i beni comuni e contro la privatizzazione dell’acqua pubblica. È il prodotto di un movimento importante, fatto di forze che vengono dalla base sociale del Paese e che devono portare al potere qualcuno che abbia a cuore queste lotte».

Ma il capo politico del Movimento è Luigi Di Maio. Questo può essere un ostacolo? 
«Non è pensabile che il 30 per cento delle persone abbia votato il Movimento Cinque Stelle e questo significhi che il capo interpreta da solo, in totale autonomia e a suo piacimento, l’esito del voto. Perché non è così che funziona in politica».
(Andrea Fioravanti) 

Tomaso Montanari: chi tocca Berlusconi muore: non c’è alternativa a Pd-M5S 
«Chi tocca Berlusconi muore: è praticamente successo a Renzi e Di Maio non poteva che comportarsi come ha fatto, altrimenti oltre alla premiership avrebbe perso la faccia».

Stallo insuperabile o l’accordo fra dem e grillini si farà? 
«Premessa: vedere l’“avvocatessa” di Silvio Berlusconi consultarsi con lui m’ha fatto un certo effetto. Per me che sono uno storico dell’arte poi, quell’immagine nella cornice di Palazzo Giustiniani ha riportato le lancette dell’orologio parecchio indietro. Ciò detto, che alternative ci sono al Movimento che si allea con il Pd?».
Governi istituzionali, il voto... 
«Ma non si può andare avanti o votare all’infinito, con l’idea di trasformare in maggioritario un sistema proporzionale: sarebbe come aprire una noce con un badile. Quelle due forze devono fare una cosa abbastanza semplice, sedersi a un tavolo».

E se Di Maio mette qualche veto? 
«È notorio che quando ci si siede a un tavolo per un confronto fra due parti non sovrapponibili, non si può sapere prima come ci si alzerà».

Di Maio ha detto cose tremende del Pd e il Pd di Di Maio. 
«Milioni di voti dei democratici sono andati ai Cinquestelle, è questo il dato fondamentale che li mette in comunicazione».

Perché Salvini non molla Berlusconi? 
«Mah, ci sono in ballo un po’ di giunte al Nord e poi lui senza la coalizione rischierebbe di ritrovarsi a fare la spalla di Di Maio, e basta».

Ovvero? 
«Salvini è il capo del centrodestra perché la Lega è il partito che lì ha preso più voti; ma senza le altre componenti non è il leader di nulla, conta assai meno».

È un momento tetro, drammatico? 
«Ma no, la democrazia e le trattative sono una bella cosa, smettiamola con questo strisciante desiderio di autoritarismo. Ci si confronti e magari il Partito democratico smetta di lasciare che la Lega su certi temi, la guerra per esempio, sia l’unica a dire le cose tipiche della sinistra sociale». 

(Matteo Indice) 

Diego Fusaro: Di Maio eviti il Pd come la peste e insista con la Lega 
«L’unica soluzione è un governo di cambiamento tra Movimento 5 Stelle e Lega. In questo momento Di Maio deve evitare il Pd come la peste». Diego Fusaro, filosofo marxista acclamato all’ultima convention grillina a Ivrea non usa giri di parole di fronte all’impasse dopo il primo giro a vuoti di Casellati: «Nessuna apertura ai democratici. Meglio tornare a votare».



Di Maio fa bene a insistere nel suo veto a Berlusconi? 
«Assolutamente sì. Peggio di Berlusconi c’è soltanto il Pd. Se uno di questi due attori entra in scena, è una sconfitta per l’Italia. Sarebbe come far rientrare dalla finestra ciò che abbiamo cacciato dalla porta». 

Perché crede che il Pd sia il nemico numero uno? 
«In tutti questi anni si sono schierati al fianco degli sfruttatori e contro gli sfruttati. Hanno difeso soltanto gli interessi della finanza globale».

Dunque non vede alternativa a un governo M5S-Lega? 
«Assolutamente no. Tutte le altre strade neutralizzano la spinta del cambiamento che i Cinquestelle incarnano. M5S e Lega sono le uniche due forze contro i sostenitori della mondializzazione turbocapitalista e a favore dei dannati della capitalismo. Se, come sembra, non riusciranno a trovare un accordo è meglio tornare alle urne». 

Crede che il M5S sia ostaggio di Di Maio? 
«Dopo il risultato delle elezioni i Cinque Stelle sono ostaggio di loro stessi: devono decidere se imboccare la strada del cambiamento e diventare il partito di rappresentanza dei precarizzati e degli sconfitti oppure diventare un Pd 2.0. Io spero nella prima strada». 

Un mandato esplorativo a Fico potrebbe essere una soluzione? 
«Perché no. Potrebbe rivelarsi una possibilità interessante». 

Anche se è l’indiziato ad aprire al Pd? 
«In questo caso no. Ripeto: il Pd, simbolo dell’élite mondialista, è il nemico numero uno per i Cinque Stelle». 
(Filippo Femia) 

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Alcuni diritti riservati

Da - http://www.lastampa.it/2018/04/19/italia/scenario-incredibile-se-i-vincitori-trattano-con-i-primi-perdenti-ipAPpjtxRj7kKNZ6Ll8OCK/pagina.html
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« Risposta #66 inserito:: Aprile 24, 2018, 04:52:48 pm »

Incarico a Fico, Martina: "Sì a dialogo se finiscono ambiguità". Ma i renziani chiudono
Molti no al tavolo con i 5Stelle dal fronte vicino all'ex segretario.

E la minoranza insorge: "Dichiarazioni gravi e irrispettose, anche nei confronti di Mattarella".
Il reggente: "Ci confronteremo, ma no a trattative parallele con la Lega"

23 aprile 2018

Il Pd torna sulla scena delle consultazioni dopo l'esclusione per il mandato di Casellati, quando l'incarico era sondare un possibile governo centrodestra-Lega. Ma il partito rischia di andare ancora una volta in ordine sparso. Roberto Fico era appena uscito dal Quirinale e già fioccavano gli altolà del fronte renziano. "Un contratto? È fiction. Ascolteremo ovviamente con rispetto e attenzione Fico, per la funzione che rappresenta. Ma il mio parere resta quello dei giorni scorsi: eravamo, siamo e resteremo alternativi ai Cinque Stelle", dice il presidente dem, Matteo Orfini, a Repubblica tv.

Incarico a Fico, Orfini: ''Per il Pd non cambia niente. E il contratto del M5s è fiction''
E subito dopo parla il capogruppo al Senato, Andrea Marcucci, anche lui renziano ortodosso: "Non ci sono le condizioni minime per una maggioranza politica tra Cinquestelle e Pd". E il senatore dem, Dario Parrini: "Le distanze con M5s appaiono invalicabili".  Un altro senatore, Francesco Verducci: "Siamo totalmente alternativi". Una raffica di no, insomma. Appena meno tranchant il vicepresidente della Camera, Ettore Rosato: "Pieno rispetto per il lavoro del presidente della Repubblica, ma se c'è ancora un tavolo operativo con la Lega, è giusto che i 5Stelle lo concludano. Quando avranno deciso sarà più facile confrontarsi. Nonostante le distanze siano enormi". Poi precisa: "Anche una eventuale chiusura del 'forno M5s-Lega' non significa automaticamente l'avvio di una trattativa con noi".

Finché a rompere il coro arriva un esponente della minoranza dem, Francesco Boccia, area Emiliano: "Esprimere giudizi sulla linea che dovrà tenere il Pd subito dopo le decisioni di Mattarella e senza attendere l'incontro istituzionale tra il presidente Fico e la delegazione del partito è grave e irrispettoso verso le più alte istituzioni dello Stato". E ancora: "Le minoranze sono state fin troppo pazienti per ben 3 giri di consultazioni in nome dell'unità. Ora si è superato ogni limite" e "diventa urgente e improcrastinabile un confronto politico in direzione" dopo le regionali.

Pd, Boccia contro Orfini: "Folle chiudere a Fico senza nemmeno averlo ascoltato"
Poi arriva la voce del segretario reggente, Maurizio Martina che sembra riassumere la posizione dell'ala dialogante, quella cui fanno riferimento tanti ministri dell'esecutivo Gentiloni: "Ci confronteremo con il presidente Fico con spirito di leale collaborazione secondo il mandato conferitogli dal presidente Mattarella. Lo faremo con serietà e coerenza a partire da una questione fondamentale e prioritaria: la fine di ogni ambiguità e di trattative parallele con noi e con lega e centrodestra. Per rispetto degli italiani, dopo 50 giorni di tira e molla, occorre su questo totale chiarezza".

E Piero Fassino: "Fallito e archiviato, per esplicita ammissione di Di Maio, il tentativo di dar vita a un governo Lega-M5S, si tratta adesso di raccogliere le indicazioni del presidente della repubblica. È dovere del Pd non sottrarsi a questa verifica, portando al confronto le proposte più utili per dare al paese un governo". Insomma, la partita dem sembra appena cominciata. Domani alle 14.30 il primo incontro con Fico.

© Riproduzione riservata 23 aprile 2018

Da - http://www.repubblica.it/politica/2018/04/23/news/incarico_a_fico_martina-194647260/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P2-S1.8-T1
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« Risposta #67 inserito:: Aprile 24, 2018, 04:54:19 pm »

LE FALSE PREMESSE DELL’AVENTINO IMPOSTO DA RENZI

ENRICO PALUMBO
23 aprile 2018

Conviene riflettere un po’ sulla storia, ma anche sull’attualità, con quegli esponenti democratici e i loro seguaci tra gli elettori che sono promotori della campagna per l’«Aventino» del Pd e che, slogan #senzadime in punta di tastiera, insultano gli esponenti del partito favorevoli al dialogo con il M5S.

In un sistema proporzionale non esiste il «mandato per fare opposizione», benché sia necessario tenere conto delle variazioni tra un’elezione e l’altra: un partito che ha perso il 7% rispetto al 2013 e oltre il 22% rispetto al 2014 non può pretendere che il dialogo parta dall’inappellabile difesa dell’eredità dei cinque anni trascorsi (“Jobs act”, “buona scuola”, bonus e mance varie, riforma costituzionale, banche…), perché si presume che proprio gli aspetti salienti e più contestati della precedente esperienza governativa siano le ragioni della sconfitta. Saggio sarebbe sedersi a un tavolo e verificare come questa eredità può essere conciliabile, con correttivi, con le istanze degli interlocutori.

Non si può nemmeno contestare al M5S la scelta di tenere aperti i “due forni”, cioè la possibilità di allearsi sia con la destra sia con la sinistra, enfatizzando alcuni aspetti o altri del proprio programma. Non è strano che ciò avvenga, né sarebbe la prima volta. Vent’anni di finto maggioritario ci hanno illuso che dalle urne possa sempre uscire una maggioranza chiara, ma non è mai stato così, nemmeno in questi vent’anni. Le coalizioni vincenti, dal 1994 in poi, sono sempre state coacervi complessi e confusi di liste e personalità quasi sempre in contrasto tra loro e spesso erano i risultati della parte proporzionale a determinare gli equilibri nei governi in formazione. La breve durata dei governi Prodi e la moltiplicazione delle accuse di “tradimento” nel campo berlusconiano sono gli esempi più evidenti che non abbiamo mai avuto vere e stabili maggioranze di governo.

Oggi siamo tornati quasi alla normalità, nella tradizione italiana ed europea: un sistema per lo più proporzionale che comporta l’apertura di tavoli successivi alle elezioni. E la necessaria ricerca di un compromesso. E’ in fondo meglio così: ora che il sistema è diventato tripolare (salvo che nel Pd prevalga la tentazione renziana di trasformare il partito in un circolo famigliare, seppur minuscolo, tipo il Pri di La Malfa), sarebbe squilibrato un premio a una coalizione che sia lontana dalla maggioranza assoluta di 10-15 punti.

Nel corso della storia repubblicana, il partito centrale del parlamento, la Democrazia cristiana, ha sempre avuto la possibilità di giocare su più tavoli, variando le alleanze: dopo la fine dei governi eredi del Comitato di liberazione nazionale (1947) e fino alla nascita del Pentapartito (1981), nei governi guidati dalla Dc erano alternativi i liberali e i socialisti e la maggioranza con gli uni precludeva la maggioranza con gli altri. L’ingresso di un partito o dell’altro al governo significava anche variazioni (a volte minime) di alcune scelte di politica economica o sociale, che però trovavano agganci in alcune componenti più conservatrici o più progressiste presenti nella stessa Dc: è la natura plurale dei partiti interclassisti e “nazionali”. Lo stesso Renzi aveva immaginato un destino simile per il Pd, con l’idea del “partito della nazione” pronto a ad aprire svariati forni con la destra o con la sinistra, salvo farsi soffiare l’idea e il successo dell’iniziativa dal M5S, forse anche perché in quel partito non aveva previsto il pluralismo necessario in un progetto a vocazione maggioritaria.

Certo, rispetto a oggi, la Dc doveva compiere passi spesso traumatici prima di giungere a un cambio di maggioranza, spesso con un combattuto congresso: si pensi al lungo e faticoso, ma fruttuoso, processo di apertura ai socialisti. Oggi al M5S basta una telefonata dalla Casaleggio Associati o una votazione su un blog. Ma che differenza c’è tra questo metodo, che i renziani contestano, e la convocazione di un’assemblea di corrente in una vecchia stazione ferroviaria, dove negli ultimi anni si sono tracciate le linee di governo e di leadership di partito?

Anche nell’Europa continentale si discute dopo le elezioni, con l’eccezione della Francia, dove la forma semipresidenziale accentua il successo del partito del presidente eletto. Ma anche lì del resto le liste vincenti sono a loro volta frutto di ampie aggregazioni, spesso contraddittorie. Altrove però il modello è molto più simile a quello che abbiamo oggi in Italia: partiti che, dopo essersene dette di tutti i colori nel corso della campagna elettorale e nella dialettica maggioranza-opposizione, dopo le elezioni sono costretti ad allearsi per governare. In Germania la Cdu ha governato nella sua storia sia con i liberali del Fdp sia con i socialdemocratici dell’Spd. In Spagna c’è un governo di centrodestra di minoranza che deve quotidianamente contrattare con la destra di Ciudadanos e con i socialisti del Psoe, entrambi pronti a farlo cadere. In Austria si sono sempre costituiti governi di coalizione tra forze spesso contrapposte. E così si potrebbe continuare citando i paesi minori.

Se il 18% degli elettori che ha votato il Pd avesse voluto dargli il «mandato per fare opposizione» avrebbe scelto di non votarlo, come hanno fatto gli elettori, ben più numerosi, che gli hanno dato questo mandato andandosene. Il culto della fierezza nella sconfitta – che ricorda l’orgoglio infervorato di Milošević nel commemorare la sconfitta militare del 1389 alla Piana dei Merli – e la pretesa purezza da preservare di fronte agli approcci del M5S ricordano proprio il grillismo della prima ora. Con la differenza che Renzi e tutta la corte dei miracoli che lo circonda non ha nessuna purezza da difendere, avendo per anni governato ed esercitato il potere in modo divisivo e in alcuni casi disinvolto.

Se c’è davvero un’eredità di questi cinque anni da difendere, il modo migliore è portare tale eredità al tavolo della trattativa; e se c’è un interesse nazionale e un prestigio internazionale da non mettere a rischio con un governo M5S-Lega, evitare che questa alleanza si crei e contribuire a temperare alcune posizioni del M5S è il modo migliore per svolgere un servizio al paese. Dialogo e mediazione. Ma forse, in questo gioco di potere tra correnti di un partito sempre più piccolo, a Renzi non interessa né la sua presunta eredità né il ruolo internazionale dell’Italia.

Da - http://www.glistatigenerali.com/governo_partiti-politici/le-false-premesse-dellaventino-imposto-da-renzi/
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« Risposta #68 inserito:: Aprile 24, 2018, 05:17:11 pm »

"Partito della Nazione" è un concetto nuovo o vecchio?

    Giorgio Fabretti
    Antropologo della storia e dell’archeologia

Parlare delle parole è come una barca senza timone: non c'è contatto con la realtà, tra marinai e mare, e lo scafo è abbandonato alle correnti. Quando si leggono certi arzigogoli dialettici su "Il Partito della Nazione", quelli che hanno una certa memoria si sentono come turaccioli trascinati dalle "correnti".

Anche "Yes we can", "Podemos!", significano solo che "tutto potrebbe essere", ovvero "non controlliamo nulla", "siamo in balia delle onde", "la speranza è l'ultima a morire", "Viva l'Italia autoreferenziale!", ecc. Sono slogan da coda dell'Idealismo romantico ottocentesco, sempre buono in tempi di virtualismo, in cui si vendono più sogni che realtà. Sono Anacronismi contro le scienze, che contengono le uniche novità degli ultimi due secoli.

Dopo la sconfitta genocida di ogni nazionalismo, a questo serpente a cento code rispuntano i tentacoli anche in tempi di globalizzazione galoppante. "Partito della Nazione" è una parola fuori tempo massimo, come lo è la concezione che la sottende. Non ci sarebbe niente di male a parlare di "Destra contro Sinistra", se non ci fossero tutte le prove di fatto e statistiche che la partita è "Conservatori contro Progressisti" in senso lato tecnologico e bioetico.

Se una "Nazione" trascura di studiare i beni comuni dell'ambiente e della natura, quale efficacia può avere nella lotta contro la povertà? Se sposta la logica da "Indietro o Avanti" a "Ricchi o Poveri" sarà una barca senza timone. Se sposta verso "Globale o Nazionale" sarà ancor meno in controllo: sarà un turacciolo sulle onde.

Del neo-neocolonialismo nel nascente ordine mondiale si capiscono ancora solo poche cose. Una di queste è che gli egoismi locali è meglio che ragionino da "nazioni", affinché facciano meno danno possibile e non disturbino i manovratori. È un modello antico dei monarchi verso i vassalli, ma si è rinnovato con la Guerra Fredda, quando ai localismi si consentiva di diventare Comunisti, ovvero impotenti aggressivi autolimitantisi.

A sentire "Partito della Nazione", come prima "Forza Italia", a uno storico verrebbe da ridere, se non fosse anche antropologo che osserva gli stadi pieni e gli indici d'ascolto dei programmi sportivi. Allora commisererebbe darwinianamente la specie umana. Ad Hitler veniva attribuito un altro concetto inesistente, quello di "darwinismo sociale": un controsenso in termini, giacché il neodarwinismo è "logico" e tutt'al più "naturale". Dire "darwinismo" significa il contrario di "sociale".

Il nazismo era invece "nazionalismo sociale". Era una concezione della "Nazione", perdente e da non ripetete neppure a parole. Sarebbe quindi da cancellare la parola "Nazione" dal vocabolario della politica, per la sola ragione che di "nazionale" ormai ci sono solo le squadre sportive, i muri finti, le bislaccherie identitarie, e giù via dicendo.

Il concetto che ha di fatto già cancellato quello di "Nazione" è quello di "Natura", ovvero qualcosa di spietato ma reale, dal cui studio si possono trovare rimedi alla prepotenza di chi ha ignorato la natura umana e ambientale, causando buona parte dei fallimenti e delle catastrofi che ci affliggono, a cominciare da inquinamento, tossicità, obesità, fame, depressione, ecc. A questi mega-problemi molto poco "sportivi", esiste un rimedio meramente "nazionale" o "sociale"? Oppure il rimedio è piuttosto "naturale" e "globale"?

Allora, se dobbiamo usare le parole per guidare i fatti e non solo nasconderli, abbandoniamo la fuorviante "Nazione" e il velleitario "Sì, io posso", in quanto puerili anacronismi contro la partecipazione educata e matura alla democrazia. La linea politica dei tempi nuovi può solo partire da cosa ci dicono le istruzioni contenute nei Dna, ovvero cosa sia o non sia "sostenibile", in una proporzione molto biologica e un po' meno etica.

Per chi ama le inutili definizioni, si tratterebbe molto più di "ambientalismo alla Laudato sì" che di inesistente "socialismo darwiniano", come pensano alcune menti che mentono. Il mondo ingenuo post-Lennon di "Imagine" e di "Podemos", meglio farebbe a capire che il loro pensiero è un tentativo puerile di fare riferimento ad una "naturalezza" contenuta nei Dna di piante, animali ed uomini, che si manifesta con una certa "spontaneità" anticasta, contraria alla burocrazia dei socialismi e delle nazioni.

La politica del nostro secolo biotecnologico e bioetico ha dunque una direzione da seguire, che è quella della riscoperta scientifica di una "naturalità" abusata e calpestata da un industrialismo primitivo e inconsapevole.

Dunque se "Partito" e "Nazione" puzzano di Novecento velleitario e sanguinario, meglio sarebbe usare "Movimento" per la "Naturalità", che perlomeno ha qualcosa di durevolmente fisiologico. "Naturalità" è inoltre una parola più diffusa e globale di "Nazionalità", ed è compresa con piccole varianti da gran parte dell'umanità. In Inglese si dice "Naturalness", in spagnolo "Naturalidad", in tedesco "Naturlichkeit", in francese "Naturalitè", ecc.

Per i nostalgici degli idealismi ottocenteschi, la "naturalité" è quel diritto umano che le Rivoluzioni Illuminista, Francese, Sovietica, non hanno aggiunto a "Liberté, Egalité, Fraternité", e la cui mancanza le ha fatte fallire. Adesso tocca al Consumismo che ignora la Naturalità, di fallire storicamente.

Troppa teoria? Si entri in un grande supermercato e si vedrà fisicamente che i poveri mangiano mondezza (trash food), mentre in altri angolini c'è il cibo "bio", che per ora fa il verso alla "naturalità". È solo l'inizio. Dna di tutto il pianeta unisciti! E la via è scientifica all'evoluzione. La politica è servizio alla "naturalezza". Parola di antropologo.

Da - https://www.huffingtonpost.it/giorgio-fabretti/partito-della-nazione-e-un-concetto-nuovo-o-vecchio_b_8174668.html?utm_hp_ref=it-matteo-renzi-partito-della-nazione
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« Risposta #69 inserito:: Maggio 01, 2018, 12:16:59 pm »

Critiche da vecchio regime (dalemiano) e osservazioni ancora più vetuste.

Non si "guida" un partito in evoluzione come il PD, con trasformazioni ancora da decidere, soltanto perchè ci si è fatto mettere una targhetta al collo.

Occorrono valori e visioni prospettiche NUOVE, Calenda e Renzi sembra le abbiano, lasciamogliele sviluppare anche se il travaglio ci costerà.

CentroSinistra (come l'Ulivo) deve avere apertura ben definite, ma non circoscritte soltanto a sinistra.

L'Italia ha bisogno di RIFORME ANCHE COSTITUZIONALI e per farle il consenso del Centro ci è più utile di quello della sinistraSinistra, se non si vuole finire nelle mani di chi si diverte a giocare nel Caos.

ciaooo
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« Risposta #70 inserito:: Maggio 03, 2018, 12:04:37 pm »

2 MAGGIO 2018

Documento contro accordo Pd-M5S, Faraone: ''È ecumenico''; Boccia: ''Irrispettoso della direzione''

Alla vigilia della direzione del Pd, fa discutere il documento firmato da oltre cento parlamentari vicini all'ex segretario Matteo Renzi - tra cui i capigruppo Graziano Delrio e Andrea Marcucci - in cui si ribadisce il 'no' a qualsiasi ipotesi di accordo con il Movimento 5 stelle. Il deputato della minoranza Pd Francesco Boccia sottolinea: "Prima con un'intervista televisiva e poi con questo documento, Renzi prende in ostaggio l'intera comunità del Partito democratico e pretende di dare una risposta al capo dello Stato, come se non esistessero gli organismi di partito". Ribatte il senatore renziano Davide Faraone: "Il nostro documento ribadisce solo il rispetto della volontà degli elettori". E sull'ipotesi che il segretario reggente Maurizio Martina - criticato dai renziani per le sue aperture al Movimento - chieda in direzione un voto di fiducia sul suo ruolo, Faraone afferma: "Non è in discussione la fiducia su Martina. Ascolteremo la sua relazione e vedremo"

Da - https://video.repubblica.it/politica/documento-contro-accordo-pd-m5s-faraone--e-ecumenico--boccia--irrispettoso-della-direzione/303675/304307?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
 

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« Risposta #71 inserito:: Maggio 03, 2018, 08:50:51 pm »

POLITICA

03/05/2018 15:41 CEST | Aggiornato 1 ora fa

Direzione Pd, passa la linea Renzi. Martina: "Con M5S capitolo chiuso".
E chiede la fiducia fino all'assemblea (e non al Congresso)
Resa incondizionata del segretario reggente

By Huffington Post

Con M5s "capitolo chiuso". "Parlavamo molto di loro ma il tema vero eravamo noi, il nostro ruolo e la nostra funzione anche quando si è minoranza. Per me era non condannarci all'irrilevanza e accettare una sfida. Era un'ipotesi più rischiosa ma l'ho immaginata per come potevo fino a qui con questa ambizione". Lo dice, a quanto si apprende il reggente Maurizio Martina in direzione Pd. "Ora il dato di fatto è il rischio di un voto anticipato", ha aggiunto. "Chiedo a questa direzione di rinnovare la fiducia fino alla assemblea nazionale".

"Serve un immediato cambio di passo, pena l'irrilevanza, la marginalizzazione", ha detto Martina chiedendo la "fiducia" alla direzione Pd. "Serve una direzione salda e univoca, non solitaria ma collegiale. Non dobbiamo consentire che dicano che ci sono diversi partiti nel partito. Non chiedo sostegni di facciata ma un passo consapevole. Non false unanimità che si sciolgono al primo minuto".

In altre parole, l'ex segretario Renzi ha vinto su tutta la linea ottenendo sia la chiusura a ogni confronto con il M5S dopo l'avvio delle consultazioni con il presidente della Camera Roberto Fico; sia la richiesta di fiducia solo fino all'assemblea e non, come volevano le minoranze, fino al Congresso. Non stupisce che i renziani approvino la relazione di Martina: secondo fonti renziane presenti in direzione, le parole di Martina possono portare ad un via libera al reggente da parte dell'area che fa capo all'ex segretario.

Il presidente Orfini ha annunciato in apertura che la direzione si chiuderà con un voto.

A pochi minuti dall'inizio della Direzione del Pd, davanti alla sede di Largo del Nazareno si è formata l'ormai consueta ressa che fa da cornice agli appuntamenti più delicati in casa Dem. Accanto ai numerosi cronisti, infatti, l'area antistante alla sede del partito è "presidiata" da una parte dai militanti che si oppongono, con tanto di adesivi, all'ipotesi di un accordo con M5s, e dall'altra da altrettanti militanti che, con un cartello in mano, criticano energicamente l'ipotesi di un accordo con Berlusconi. Tra i più bersagliati, l'esponente della sinistra interna Gianni Cuperlo, protagonista di un incandescente botta e risposta con un contestatore.

Da - https://www.huffingtonpost.it/2018/05/03/al-via-la-direzione-pd-e-ressa-tra-militanti-fuori-la-sede-del-nazareno_a_23426214/?utm_hp_ref=it-homepage
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« Risposta #72 inserito:: Maggio 03, 2018, 08:56:07 pm »

VERSO LA DIREZIONE DEM

Da Franceschini a Gentiloni, da Calenda a Zingaretti, ecco chi sono gli uomini forti del Pd

Di A. Gagliardi e A. Marini

03 maggio 2018

Nessuna conta sanguinosa nel partito. Tregua armata sul documento che conferma la fiducia al reggente Martina e no ad ogni ipotesi di governo del Pd con Di Maio o Salvini. È così che potrebbe concludersi la direzione dem prevista nel pomeriggio. Restano fortissime però le tensioni tra i dem: a confrontarsi sono gli uomini forti del Pd. Dall’ex segretario Matteo Renzi, al ministro dei beni Culturali Dario Franceschini, dagli emergenti Carlo Calenda (ministro dello Sviluppo) e Nicola Zingaretti (governatore del Lazio) al premier Paolo Gentiloni, che, dato il ruolo che ancora ricopre, ha mantenuto finora un comportamento defilato.

DEMOCRATICI  27 aprile 2018
Renzi fermo sul no, Pd alla «conta» in direzione
Il ritorno in campo dell’ex segretario
Dimessosi da premier dopo la batosta al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, Matteo Renzi è rimasto in secondo piano dopo l’addio anche alla segreteria a seguito della debacle elettorale del 4 marzo. Tuttavia l’ex sindaco di Firenze ha dimostrato tutto il suo peso e il suo seguito domenica scorsa, con l’irruzione sulla scena e l’intervista a “Che Tempo che fa” nella quale ha stroncato ufficialmente ogni ipotesi di fiducia a un governo Di Maio o Salvini. L’ex segretario ha ancora la maggioranza in direzione e nei gruppi parlamentari del Pd.

Franceschini e lo scontro con l’ex rottamatore
Il ministro dei Beni Culturali Dario Franceschini è considerato l’unico che, a livello di macchina, può spostare davvero gli equilibri nel Pd. Già nella scorsa legislatura furono i parlamentari a lui vicini che permisero il passaggio dall’era bersaniana a quella renziana dopo le primarie che incoronarono l’ex rottamatore. Iscritto nel partito dei “governisti” o “aperturisti” a un esecutivo con il M5s, ha visto deteriorarsi i rapporti con Renzi. Dalla sua Franceschini - che paga lo scotto di aver perso malamente la sua battaglia elettorale a Ferrara - ha 20 delegati in direzione.

Delrio renziano critico
In direzione c’è Graziano Delrio, che nel suo ruolo chiave di ministro delle Infrastrutture è emerso come figura di primo piano nel partito. Vicino a Renzi, ha acquisito piano piano una certa autonomia. Eletto capogruppo alla Camera, si può considerare un renziano critico. Annoverato tra i “mediatori” insieme al coordinatore dem Lorenzo Guerini, non è considerato da Renzi certo un nemico, tanto che fu lo stesso ex premier a cercare di convincerlo a fare il segretario in vista dell’assemblea (proposta declinata, sembra, per motivi personali) poi rimandata. Ma la sua scelta come capogruppo fu lodata anche da Dario Franceschini e Andrea Orlando, contrari alla scelta dell’Aventino dem. E Delrio si è pronunciato a favore di un congresso ravvicinato, a differenza di Renzi.
LO SCONTRO NEL PD DOPO LO STOP AL M5S 30 aprile 2018
Martina contro Renzi dopo stop al M5s: «così è impossibile guidare il partito»
La difficile mediazione di Martina
Il reggente Maurizio Martina aveva vinto il Congresso in ticket con Renzi, facendo il suo vice. Ex ministro dell’Agricoltura, dopo la sconfitta del Pd il 4 marzo e le dimissioni di Renzi, è stato trovato nel partito un accordo sul suo nome per la reggenza. Un ruolo che gioco forza lo ha messo in primo piano. Pur cercando di tessere la tela della mediazione, invocando «unità» e offrendo «collegialità», Martina ha incontrato sempre maggiori difficoltà: critiche e attacchi alla sua linea considerata troppo “governista” sono arrivate sempre più dai renziani.

La variabile Calenda
Iscrittosi al Pd all’indomani della sconfitta alle elezioni del 4 marzo, Carlo Calenda è considerato un astro nascente nel partito. Arrivato al vertice del ministero della Sviluppo economico quasi come figura tecnica, da quella posizione ha visto crescere il suo attivismo politico, tanto che si sono scomodati paragoni con Emmanuel Macron. E proprio Matteo Renzi chiese al suo portavoce di far sapere alla stampa che «è stato lui il primo a sentirsi con Calenda e ad apprezzare la sua decisione» di iscriversi al Pd. Netta la posizione contraria di Calenda ad un governo Pd-M5s, che certo un suo peso lo avrà, pur non essendo il ministro presente in direzione. «In caso di alleanza mi dimetterei da nuovo iscritto», ha dichiarato.

Il premier Gentiloni defilato
Il premier Paolo Gentiloni figura ancora tra i componenti della direzione Pd. Tuttavia, dato il suo ruolo di premier (anche se dimissionario), ha preferito non entrare nelle polemiche che hanno investito il partito dopo il 4 marzo. Considerato vicino a Renzi, e proprio per questo scelto come suo successore a Palazzo Chigi dopo la sconfitta al referendum costituzionale, Gentiloni è ora uno dei leader del Pd. Forte anche sella sua vittoria nel collegio uninominale Roma 1 alla Camera (42,1% dei consensi). Non sono mancati momenti di tensione con lo stesso Renzi, come per esempio durante la riconferma del governatore Ignazio Visco.

La minoranza di Orlando
Il Guardasigilli Andrea Orlando è l’uomo della minoranza che ha sfidato Renzi alle primarie. Partendo da una piattaforma più di “sinistra” e aperta al dialogo con gli scissionisti di Mdp. Orlando ha criticato la scelta (presa da Martina su pressing dei renziani) di rinviare l’Assemblea Nazionale di aprile. E accusa Renzi, con le sue “incursioni”, di costringere il partito a non avere una linea. Soprattutto sostiene che nessuna seria discussione sia stata avviata sulle cause della sconfitta del 4 marzo.

Il pasdaran Emiliano
Favorevole sin dalla campagna elettorale ad un governo M5s con appoggio esterno Pd, il governatore della Puglia Michele Emiliano (già sfidante di Renzi alle ultime primarie), ha chiesto con inisistenza di «aprire una discussione franca col M5S». Ponendosi come punto di riferimento dell’ala del partito che guarda a sinistra, è convinto che «salvaguardare i nostri punti di vista politici e le nostre conquiste, sia pure negoziandoli col partito di maggioranza relativa partendo dai programmi di quest’ultimo, serve al Pd ed è utile all’Italia».

VERSO IL NUOVO ESECUTIVO  26 aprile 2018
Governo: da Chiamparino a Sala: governatori e sindaci Pd in campo per «confronto» con M5s
Zingaretti, il governatore vincente
Di fronte alla debacle politica del Pd il 4 marzo, il governatore del Lazio Nicola Zingaretti, con la sua riconferma alla guida della Regione, è emerso come figura di primo piano nel partito. Tanto da fare un passo avanti di fronte all’ipotesi di primarie del Pd per la scelta del nuovo segretario post-Renzi. Durante la precedente consiliatura in Regione il governatore si è tenuto lontano dalle lotte di partito, anche se non ha fatto mancare il proprio consenso a tutti gli sfidanti di Matteo Renzi, alla premiership prima e alla segretaria nazionale poi: Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo e Andrea Orlando. Uomo “di governo” ma che ha sempre tenuto aperti i canali con la sinistra fuori dal Pd, in questa fase, si è messo sulla linea dialogante con il M5S «a partire dai temi».

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-05-02/da-franceschini-gentiloni-calenda-zingaretti-ecco-chi-sono-uomini-forti-pd-184704.shtml?uuid=AESG8rhE
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« Risposta #73 inserito:: Maggio 06, 2018, 12:17:35 pm »

Roma, Zingaretti rilancia il "modello Lazio": "Noi unici a vincere in Italia"
Alla convention organizzata dopo il successo alle Regionali, il governatore invita il Pd ad aprire "un cantiere per una nuova alleanza. Ma stop agli schemi del passato"

Di MAURO FAVALE
05 maggio 2018

"Noi abbiamo vinto". Nicola Zingaretti lo ripete a gran voce davanti alle 2000 persone stipate sotto il capannone industriale dell'Ex Dogana, a due passi dalla stazione Termini, il luogo scelto per festeggiare, a due mesi dalle elezioni, il successo alle Regionali del Lazio. "Siamo gli unici in Italia ad essere stati riconfermati. Anzi, in tutta Europa, chi governa perde, nel Lazio no", spiega il governatore che vuole fare della sua esperienza un modello per il centrosinistra nazionale a cominciare dal primo appuntamento elettorale, le Amministrative del 10 giugno.

"Chi è solo perde, chi è isolato perde, chi è debole perde - scandisce Zingaretti - e noi dobbiamo aiutare chi sta combattendo e chi combatterà in questi comuni con una alleanza forte". Nessuno spiraglio ad accordi con l'M5S che pure, in Consiglio regionale (dove Zingaretti, seppur vittorioso, non gode della maggioranza per un solo voto), è un interlocutore privilegiato. "Noi costruiamo l'alleanza del fare esattamente per essere autonomi, liberi, indipendenti da altre proposte politiche. L'unica garanzia della nostra autonomia politica è avere una nostra alleanza competitiva per vincere".
Elezioni, Zingaretti (Pd): "Costruiamo un'alleanza del 'fare' dove contano le persone"

Un concetto che ripete spesso rilanciando un'alleanza larga proprio sul modello Lazio, dove la vittoria è arrivata "sì, per le divisioni della destra. Però potevamo andare divisi anche noi e invece abbiamo avuto l'intelligenza di stare uniti". In quasi un'ora di discorso, il presidente della Regione Lazio ribadisce per 4-5 volte il concetto che "noi non smobilitiamo". Un avvertimento a chi teme (o auspica) un suo impegno per la "scalata" del Pd: "Non siamo qui per presentare una candidatura e questo non è un trampolino di lancio.
Quando qualcuno si candiderà se ne accorgeranno tutti". Infine, c'è spazio anche per un'analisi della sconfitta alle Politiche del 4 marzo, "la peggiore del dopoguerra": "Governiamo per liberare le persone dalle difficoltà della loro condizione, è l'unica motivazione, altrimenti la politica rimane gestione del potere per il potere e la gente giustamente ci caccia".

© Riproduzione riservata 05 maggio 2018

Da - http://roma.repubblica.it/cronaca/2018/05/05/news/roma_zingaretti_rilancia_il_modello_lazio_noi_unici_a_vincere_in_italia_-195584119/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P3-S3.3-T1
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« Risposta #74 inserito:: Maggio 06, 2018, 12:21:16 pm »

Domenica 06 maggio 2018

 Frasi di
Kenneth Boulding   

“Prendere decisioni sull'onda dell'incertezza è già abbastanza dannoso, ma farlo in base a delle convinzioni è catastrofico.”

KENNETH BOULDING
Da - frasicelebri.it
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