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Autore Discussione: IL PD - Partito Democratico  (Letto 72181 volte)
Arlecchino
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« Risposta #90 inserito:: Giugno 26, 2018, 04:23:18 pm »

15 giugno 2018

La sinistra distrutta dalle rivalità insanabili
Fatta eccezione per il confronto glorioso tra Amendola e Ingrao, le rotture a gauche hanno solo scarnificato l'area. Craxi-Berlinguer, D'Alema-Occhetto.
Fino a quella tra il lìder Maximo e Renzi che ha dato solo frutti avvelenati.

PEPPINO CALDAROLA
Liberiamoci della sinistra che ammira Salvini
Le rivalità, non sempre accompagnate da vere divergenze politiche, hanno poco a poco scarnificato la sinistra. Intendiamoci, ci sono state rivalità, come dire, “gloriose”. Lo è stata sicuramente quella fra Amendola e Ingrao, due personaggi di grande statura con una visione diversa e una concezione opposta del fare politica.

LA DIALETTICA NEL PCI. Fu quella una rivalità che fece bene al Pci, ne allargò i confini e dette prova, dentro un partito per definizione monolitico, di essere un momento di dialettica insuperabile. Fu uno scontro pieno di rispetto.

Qualche anno dopo non ebbe le stesse caratteristiche, e distrusse completamente i rapporti fra partiti che un tempo erano stati fratelli, lo scontro fra Craxi e Berlinguer. Sappiamo che ci sono scuole che interpretano diversamente quella straordinaria divergenza (termine in verità poco efficace) fra due leader che non si stimavano e che si combatterono con un linguaggio in molti momenti terribile. Resta a tutt’oggi lo scontro politico-personale più importante della storia della sinistra. Senza vincitori.

LA FINE DI DUE LEADER. Berlinguer morì poco prima di vedere la grande sconfitta del referendum sulla scala mobile. Craxi fu costretto a rifugiarsi in Tunisia inseguito da una magistratura e da una opinione pubblica guidate da una informazione ostile che ne fiaccarono le resistenze fino a portarlo alla morte.

Tuttavia gli scontri più evitabili ma perniciosamente perseguiti furono quelli nello stesso partito. Prendete il primo, quello fra Occhetto e D’Alema. Entrambi non furono leali verso Alessandro Natta di cui provocarono le dimissioni in occasione di un infarto leggero del vecchio galantuomo. Fu la mia radio, Italiaradio, a ospitare la dichiarazione di uno dei due che spinse Natta ad andar via e per anni, come mi disse nelle telefonate che avemmo prima della morte, mi considerò responsabile di connivenza con i suoi sleali compagni di viaggio.

OCCHETTO VS D'ALEMA. Quando Occhetto divenne segretario era già cresciuta nel partito la stella di D’Alema. L’uno aveva fatto con la Bolognina la scelta più rischiosa, e l’aveva fatta nel modo più avventato, che tuttavia portò in salvo la sinistra dalle macerie del comunismo reale. L’altro era il figlio prediletto e predestinato del partito, l’uomo che sapeva la politica come pochi, un totus politicus che il suo partito aspettava. Qui non voglio, per ragioni di sintesi, dire come avvenne, ma accadde che Occhetto dopo insuccessi vari andò via e D’Alema divenne segretario. Da qui l’odio fra i due con un accanimento da parte di Occhetto che ha nuociuto a lui stesso. Il partito non fu generoso con lui, cambiò persino nome per negargli la qualifica di fondatore, tuttavia Occhetto ha passato la sua vita a inseguire D’Alema e la sua ombra consumando tutte le sue energie intellettuali.

UNA FERITA ANCORA APERTA. Sorvolo sullo scontro D’Alema-Veltroni che fu una delle più sciocche divisioni nella sinistra, spesso fomentata dai rispettivi staff e tuttora, malgrado i due fingano riappacificazione, ferita non sanata. Sorvolo anche sullo scontro Prodi-D ’Alema perché continua a girare la tesi del complotto anti-Prodi ordito da D’Alema al fine di farlo dimettere da premier che è del tutto infondato (il complotto, non la antipatia reciproca).

Vengo all’oggi, vengo a Renzi-D ’Alema. La cronaca è freschissima e non v’è dubbio che Renzi abbia cercato freddamente lo scontro con D’Alema con l’obiettivo di mettersi il distintivo di chi aveva fatto fuori il vecchio leader sia per dimostrare che era venuta avanti una nuova generazione, sia per tentare di liquidare l’esperienza comunista, sia per compiacere il mondo di destra a cui guardava sia per fare largo alla propria struttura di potere senza controlli di chi era politicamente più esperto.

LO SCONTRO MORTALE. D’Alema ha retto la botta, poi gli è sfuggita la frizione. Da allora lo scontro è stato mortale. Ciascuno dei due ha cercato di buttare l’altro fuori dal gioco. Entrambi, in verità, lo sono già. Restano però i frutti avvelenati della mela anti-dalemiana e della mela anti-renziana. In qualche modo si sta riproducendo lo scontro simile a quello fra Occhetto e D’Alema. Non voglio dire chi sembra essere nei panni di Occhetto (a cui rivolgo un saluto affettuoso). Tuttavia ne ho chiaro in testa il nome.

Renzi: Il contratto? Scritto con l'inchiostro simpatico
Pause
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - https://www.lettera43.it/it/articoli/politica/2018/06/15/sinistra-divisioni-dalema-renzi-berlinguer-craxi-occhetto/221094/
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« Risposta #91 inserito:: Giugno 28, 2018, 05:00:37 pm »

Pd, Zingaretti pronto a correre per la segreteria. Orlando sta con lui.
Calenda: “Fronte Repubblicano oltre attuali partiti”

Il governatore del Lazio, appoggiato ufficialmente da Andrea Orlando, avrebbe dalla sua anche Gentiloni, Minniti e Veltroni.

Intanto Carlo Calenda lancia il manifesto del Fronte Repubblicano attraverso le colonne de Il Foglio: "Riorganizzare il campo dei progressisti".

E Renzi per il momento resta nel mezzo.

Vendola: "Il partito ha rotto con i propri riferimenti. In tanti mi chiedono di tornare"

Di F. Q. | 27 giugno 2018

Nicola Zingaretti da una parte, Carlo Calenda dall’altra. E Matteo Renzi nel mezzo, al momento senza una posizione precisa. Il Partito Democratico inizia il percorso che lo porterà a eleggere un nuovo segretario (Matteo Orfini ha convocato l’assemblea il 7 luglio) e si delineano le candidature. Il governatore della Regione Lazio chiede il “congresso subito” e si dice pronto a correre, appoggiato da Paolo Gentiloni, che viene però indicato dall’ex ministro del Mise come un “punto di riferimento”, Walter Veltroni, Marco Minniti e in maniera chiara da Andrea Orlando. Il leader della minoranza dem lo dice chiaramente a Repubblica: “Il candidato segretario più forte per ripartire è lui”.

Zingaretti, forte del successo del suo “modello” sia alle Regionali nel Lazio che nelle recenti amministrative non solo nella sua regione, guarda a sinistra, ai sindaci e alla rete dei Comuni messa in piedi da Federico Pizzarotti. Sull’altro fronte per superare l’era renziana, con un manifesto pubblicato su Il Foglio, l’ex ministro Calenda lancia il Fronte Repubblicano, “un’alleanza repubblicana che vada oltre gli attuali partiti e aggreghi i mondi della rappresentanza economica, sociale, della cultura, del terzo settore, delle professioni, dell’impegno civile “. Serve, spiega, “riorganizzare il campo dei progressisti per far fronte alla minaccia mortale” da Lega e M5s, quello che Calenda chiama “l’incrocio tra sovranismo e fuga dalla realtà “. Per farlo, aggiunge, “è necessario definire un manifesto di valori e di proposte e rafforzare la rappresentanza di parti della società che non possono essere riassunti in una singola base di classe”. Un campo largo, oltre il Pd.

Il tutto, spiega Calenda in cinque punti, per “tenere in sicurezza l’Italia”, “proteggere gli sconfitti” rafforzando “gli strumenti come il reddito di inclusione, nuovi ammortizzatori sociali, le politiche attive e l’apparato di gestione delle crisi aziendali in particolare quanto causate dalla concorrenza sleale di Paesi che usano fondi europei e i vantaggi derivanti da un diverso grado di sviluppo per sottrarci posti di lavoro”, scrive l’ex ministro. “Investire nelle trasformazioni, per allargare la base dei vincenti, su infrastrutture materiali e immateriali (università, scuola e ricerca); promuovere l’interesse nazionale in UE e nel mondo – aggiunge Calenda – Riconoscendo che non esistono le condizioni storiche oggi per superare l’idea di nazione e un piano shock contro analfabetismo funzionale “.

Un piano, quello dell’ex ministro, criticato lunedì da Orlando che lo aveva bollato come “una cosa che c’è già stata, Scelta civica “, il partito dell’ex premier Monti con cui Calenda si era candidato nel 2013. Ora, intervistato dal quotidiano romano, l’ex Guardasigilli dice “l’ansia di creare altri contenitori è la spia di una difficoltà di trovare altri contenuti. Non è escluso che questo possa essere l’esito, ovvero ridiscutere il Pd, ma prima ci vuole una costituente”. A suo avviso, “nessuno da solo può portare il Pd fuori dalle secche” perché “non è una crisi di leadership, ma della funzione e del ruolo del Pd. E quindi c’è il problema di ridefinirsi e di riposizionarsi “.

La drammaticità della condizione del centrosinistra, afferma, “ce l’ho chiara dall’indomani delle elezioni del 4 marzo e dal referendum costituzionale. Già quella sconfitta ci segnalava che avevamo perso definitivamente il popolo. Questa tornata dei ballottaggi aggiunge fatti nuovi. Quando il no al referendum ha vinto nelle periferie con il 90%, non puoi pensare né che sia tutta colpa di Renzi, né che fossero tutti fan del bicameralismo. C’era una rottura che si è continuato a rimuovere”.

Intervistato dall’edizione barese di Repubblica, Nichi Vendola, nel commentare le amministrative pugliesi “del paradosso” perché “vince il centrosinistra, ma perde il Pd”, spiega che i dem devono “guardarsi allo specchio, vedere i propri lineamenti sociali e culturali, domandarsi il perché del rancore che raccoglie negli strati più popolari e fra i giovani”. Per l’ex presidente della Puglia, il Pd “ha rotto con i propri riferimenti” dal mondo del lavoro a quello della scuola fino alle periferie pensando che “la modernità fosse fare cose di destra”. E mettendo un punto al dialogo con il M5s (“sono alleati con un partito xenofobo”), ammette che “tantissimi pugliesi, ogni giorno, mi chiedono di tornare. Una sollecitazione affettuosa che proviene dai mondi più disparati e che mi commuove e mi turba”. E alla domanda sulla possibilità di escludere che possa essere della partita, almeno regionale, dice: “È presto per rispondere”.

Da - https://www.ilfattoquotidiano.it/2018/06/27/pd-zingaretti-pronto-a-correre-per-la-segreteria-orlando-sta-con-lui-calenda-fronte-repubblicano-oltre-attuali-partiti/4454245/?utm_source=newsletter&utm_medium=email&utm_campaign=newsletter-2018-06-27
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« Risposta #92 inserito:: Luglio 04, 2018, 12:44:39 pm »

UNA PREGHIERA DI MASSA: OCCUPIAMO IL PD

Giuseppe Genna

Vivo, aggirandomi per la città, con un vago vorticare di immagini e parole attorno a me, dai sembianti dei governativi alle loro battaglie di inciviltà. L'aria è satura intorno a me: di mefitica onnipotenza, che il Ministro degli Internamenti emette senza soluzione di continuità. Il filtro fascistoide declina la realtà attorno, che assume una colorazione rossobruna, gialloverde, blu. In mezzo a tutto ciò, si appalesa un'ancora di salvezza: è l'e-letter del sito di Matteo Renzi. Devo perciò ringraziare il buon cuore del senatore scandiccio, che spunta con dichiarazioni dirimenti e certificate dal sé e dallo stesso, spezzando il silenzio assoluto e complice che vige mentre si consuma la guerra dei bottoni nelle segrete stanze del partito Democratico. Essi sono Quelli Là, che ammutiscono, denegano, assentano i sé e gli stessi, anziché fare partecipare o informare il popolo che quel partito ha votato e non è detto che continui a votare. Dunque il senatore fiorntino non entra affatto nel momento politico, che egli stesso ha alacremente contribuito a determinare, con la sua egoreferenza, tutta votata al sé e allo stesso e però votata da nessuno, bensì si fa sentire dalle remote lontananze in cui è immerso, tramite l'invio di questa e-letter piuttosto ridicola che postmoderna, pubblicata sul sito del sé e dello stesso. Nella sua giovale giovanile sincopata ed emblematica prosa, l'ormai immemorabilmente antico presidente del Consiglio tiene a inquadrare la situazione, non storica, ma del sé e dello stesso. Ci informa che corre 14 km in 75 minuti. Precisa che prenderà una casa con tre stanze a Firenze, chiedendo un mutuo. Si picca di realizzare un emozionante ed emozionato documentario su Firenze con la piattaforma Netflix, per parlare ai giovani, istruendoli sul presente e non soltanto del passato, e immaginiamo il brivido conoscitivo che darà vedere Hieronymus Boschi a fianco di Michelangelo. Puntualizza, il Senatore Che Non Ha Sentore, che gli odierni dati Istat sull'occupazione sono un merito del suo Jobs Act, utilizzando la prima persona plurale, che è poi la voce con cui parlano il sé e lo stesso. Fulmineamente analizza con banalità recriminatoria la sconfitta alle amministrative, che ha portato all'inesistenza il Pd, una debacle più apocalittica che memorabile, e l'analisi politica di un fatto abissale e storico Egli la contiene in cinque righe: "Il PD ha perso la maggior parte dei ballottaggi. E qualcuno ha dato a me la responsabilità. Ancora? Mi fa piacere essere considerato l’alibi per tutto, ma questa lettura del voto è poco più che una barzelletta. Credo necessario fare chiarezza: scriverò sul PD con calma nei prossimi giorni in vista dell’Assemblea Nazionale del 7 luglio". E tutto incredibile, ma non con l'euforica esaltazione che coglie chiunque si trovi all'improvviso di fronte all'impensabile, perché piuttosto si esce piuttosto mesti da questa lettura piuttosto superficiale e piuttosto egoriferita. Il Mostro di Scandicci detiene il controllo sull'assemblea nazionale di un partito che è stato in grado di rattrappirsi e sparire in scrigni di irrilevanza assoluta. Non è soltanto colpa di Matteo Renzi, sia chiaro: c'è da accusare in toto la nomenklatura, incapace di dire o fare alcunché contro l'azione di potere del governo destrorso più estremista dell'intera vicenda repubblicana. L'unica ruminazione, oltre al pentalogo liberista dell'ex Scelta Civica, Carlo Calenda, è una risposta imbarazzante, da parte di Quelli Là e la risposta sarebbe questa: Zingaretti. Come se non fosse fondamentale e ancor più urgente aprire un dibattito intenso, per elaborare collettivamente le ragioni e l'efficacia di un popolo progressista, che non si identifica più con la sua istituzione di riferimento. Zingaretti: capite? In tutta franchezza: io occuperei il Pd. Per avere detto ciò, usando la metafora dell'assedio al Nazareno, ho anche dovuto sorbirmi sui social le isterie dei fondamentalisti nomenklatori, strani assolutismi renziani e impertinenze franceschiniane - lo dico non perché conti la politica dell'io, ma in quanto è allegorico della totalità. Non è la prima volta che partirebbe un #OccupyPD. Non sono personalmente in grado, in solitaria e contando su un seguito davvero minimo, di organizzare questo assedio. Basterebbero 1.000 democratici davanti al Nazareno, che riescano a farsi ricevere e a consegnare a stretto giro la documentazione dello sfratto esecutivo, per queste entità lovecraftiane, che bisungono le pareti cerebrali e cardiache della parte democratica della nazione. Organizzerei in prima persona i torpedoni, mostrando a tutti l'alta qualità dell'inox delle pentole, con cui intraprendere un cacerolazo chiassosissimo. Se scrivo e dico queste cose, tuttavia, è perché sono disperato ed esasperato dalla solitudine collettiva in cui verso, insieme a migliaia di altre e altri dispersi e altrettanto disperati. Non è, questo, un esito secondario delle politiche del partito democratico di riferimento: si è perduto il tessuto sociale, sbrecciandolo in ogni modo, avvilendone le istanze più creative, sbregando le relazioni e le dialettiche. E non è soltanto responsabilità di Hieronymus Boschi o di Orfeo Mattini - è una disgregazione che abbiamo interiorizzato in tante e tanti, un intollerabile grado di separazione dall'altra e dall'altro, una polverizzazione del nostro stesso consenso. Basterebbe poco - una comunità on line, una manifestazione di riappropriazione, un'emissione pubblica dei valori di base, la pratica del discorso reinstallata nel reale. Se non accade tutto questo, aspettiamo la prossima e-letter del Nostro di Scandicci.

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« Risposta #93 inserito:: Luglio 04, 2018, 12:47:40 pm »

SABATO L’ASSEMBLEA

Tregua Pd: sì a Martina e congresso nel 2019

Insoddisfatti Gentiloni e l’area pro-Zingaretti, ma anche molti renziani

Uno: confermare Maurizio Martina, l’ex vicesegretario di Matteo Renzi, alla guida del Pd con l’elezione formale in assemblea nazionale sabato 7 luglio. Due: fare il congresso anticipato nel 2019, ma senza date predefinite. O prima delle europee della prossima primavera, come vorrebbero i sostenitori della candidatura del governatore del Lazio Nicola Zingaretti, o alla fine del prossimo anno dopo le elezioni regionali in Emilia Romagna, come vorrebbe la maggior parte dell’attuale maggioranza renziana nella speranza di logorare Zingaretti. Le varie correnti del Pd, in queste ore impegnate in incontri e colloqui telefonici incrociati, stanno lavorando alla soluzione unitaria pro-Martina per non trasformare la prossima riunione del parlamento dem in una faida interna mentre il governo giallo-verde si sta rafforzando.
La soluzione Martina è incoraggiata dallo stesso Renzi, che comunque ci tiene ad avere una posizione “ecumenica” facendo sapere che anche l’avvio del congresso subito non lo vedrebbe contrario (la decisione finale verrà presa stamane in un vertice ristretto dei renziani con i capigruppo Graziano Delrio e Andrea Marcucci, con il coordinatore Lorenzo Guerini e con l’ex braccio destro di Renzi, Luca Lotti). Ed è incoraggiata dall’anti-Renzi Dario Franceschini, convinto che dividersi ora in una battaglia congressuale finirebbe solo per avvantaggiare il governo “populista”. Oltre che naturalmente dallo stesso Martina, che vede questa fase che si apre come “costituente” per preparare un congresso vero, sui temi e non sulle persone, a cominciare dalla battaglia parlamentare (ieri è stata presentata la proposta dem per gravi fiscali in favore delle famiglie, nei prossimi giorni sarà la volta del salario minino). L’accordo prevede una segreteria collegiale, e probabilmente la conferma di Matteo Orfini alla presidenza del partito e di Francesco Bonifazi come tesoriere. Una vera e propria tregua, insomma, che rimanda la battaglia interna post-Renzi al 2019 e che lascia più di un big insoddisfatto. A cominciare dall’ex premier Paolo Gentiloni, che pur volendo restare fuori dalle “beghe congressuali” non fa mistero di appoggiare la candidatura di Zingaretti e di preferire il congresso subito. E tra gli insoddisfatti ci sono anche alcuni renziani di rilievo come Lotti ed Ettore Rosato. Come spesso accade nel Pd, fino a sabato la strada è lunga. E non rettilinea.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
Emilia Patta

Da - http://www.quotidiano.ilsole24ore.com/edicola24web/edicola24web.html?testata=S24&edizione=SOLE&issue=20180704&startpage=1&displaypages=2
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« Risposta #94 inserito:: Luglio 08, 2018, 04:44:43 pm »

UNA PREGHIERA DI MASSA: OCCUPIAMO IL PD

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Vivo, aggirandomi per la città, con un vago vorticare di immagini e parole attorno a me, dai sembianti dei governativi alle loro battaglie di inciviltà. L'aria è satura intorno a me: di mefitica onnipotenza, che il Ministro degli Internamenti emette senza soluzione di continuità. Il filtro fascistoide declina la realtà attorno, che assume una colorazione rossobruna, gialloverde, blu. In mezzo a tutto ciò, si appalesa un'ancora di salvezza: è l'e-letter del sito di Matteo Renzi. Devo perciò ringraziare il buon cuore del senatore scandiccio, che spunta con dichiarazioni dirimenti e certificate dal sé e dallo stesso, spezzando il silenzio assoluto e complice che vige mentre si consuma la guerra dei bottoni nelle segrete stanze del partito Democratico. Essi sono Quelli Là, che ammutiscono, denegano, assentano i sé e gli stessi, anziché fare partecipare o informare il popolo che quel partito ha votato e non è detto che continui a votare. Dunque il senatore fiorntino non entra affatto nel momento politico, che egli stesso ha alacremente contribuito a determinare, con la sua egoreferenza, tutta votata al sé e allo stesso e però votata da nessuno, bensì si fa sentire dalle remote lontananze in cui è immerso, tramite l'invio di questa e-letter piuttosto ridicola che postmoderna, pubblicata sul sito del sé e dello stesso. Nella sua giovale giovanile sincopata ed emblematica prosa, l'ormai immemorabilmente antico presidente del Consiglio tiene a inquadrare la situazione, non storica, ma del sé e dello stesso. Ci informa che corre 14 km in 75 minuti. Precisa che prenderà una casa con tre stanze a Firenze, chiedendo un mutuo. Si picca di realizzare un emozionante ed emozionato documentario su Firenze con la piattaforma Netflix, per parlare ai giovani, istruendoli sul presente e non soltanto del passato, e immaginiamo il brivido conoscitivo che darà vedere Hieronymus Boschi a fianco di Michelangelo. Puntualizza, il Senatore Che Non Ha Sentore, che gli odierni dati Istat sull'occupazione sono un merito del suo Jobs Act, utilizzando la prima persona plurale, che è poi la voce con cui parlano il sé e lo stesso. Fulmineamente analizza con banalità recriminatoria la sconfitta alle amministrative, che ha portato all'inesistenza il Pd, una debacle più apocalittica che memorabile, e l'analisi politica di un fatto abissale e storico Egli la contiene in cinque righe: "Il PD ha perso la maggior parte dei ballottaggi. E qualcuno ha dato a me la responsabilità. Ancora? Mi fa piacere essere considerato l’alibi per tutto, ma questa lettura del voto è poco più che una barzelletta. Credo necessario fare chiarezza: scriverò sul PD con calma nei prossimi giorni in vista dell’Assemblea Nazionale del 7 luglio". E tutto incredibile, ma non con l'euforica esaltazione che coglie chiunque si trovi all'improvviso di fronte all'impensabile, perché piuttosto si esce piuttosto mesti da questa lettura piuttosto superficiale e piuttosto egoriferita. Il Mostro di Scandicci detiene il controllo sull'assemblea nazionale di un partito che è stato in grado di rattrappirsi e sparire in scrigni di irrilevanza assoluta. Non è soltanto colpa di Matteo Renzi, sia chiaro: c'è da accusare in toto la nomenklatura, incapace di dire o fare alcunché contro l'azione di potere del governo destrorso più estremista dell'intera vicenda repubblicana. L'unica ruminazione, oltre al pentalogo liberista dell'ex Scelta Civica, Carlo Calenda, è una risposta imbarazzante, da parte di Quelli Là e la risposta sarebbe questa: Zingaretti. Come se non fosse fondamentale e ancor più urgente aprire un dibattito intenso, per elaborare collettivamente le ragioni e l'efficacia di un popolo progressista, che non si identifica più con la sua istituzione di riferimento. Zingaretti: capite? In tutta franchezza: io occuperei il Pd. Per avere detto ciò, usando la metafora dell'assedio al Nazareno, ho anche dovuto sorbirmi sui social le isterie dei fondamentalisti nomenklatori, strani assolutismi renziani e impertinenze franceschiniane - lo dico non perché conti la politica dell'io, ma in quanto è allegorico della totalità. Non è la prima volta che partirebbe un #OccupyPD. Non sono personalmente in grado, in solitaria e contando su un seguito davvero minimo, di organizzare questo assedio. Basterebbero 1.000 democratici davanti al Nazareno, che riescano a farsi ricevere e a consegnare a stretto giro la documentazione dello sfratto esecutivo, per queste entità lovecraftiane, che bisungono le pareti cerebrali e cardiache della parte democratica della nazione. Organizzerei in prima persona i torpedoni, mostrando a tutti l'alta qualità dell'inox delle pentole, con cui intraprendere un cacerolazo chiassosissimo. Se scrivo e dico queste cose, tuttavia, è perché sono disperato ed esasperato dalla solitudine collettiva in cui verso, insieme a migliaia di altre e altri dispersi e altrettanto disperati. Non è, questo, un esito secondario delle politiche del partito democratico di riferimento: si è perduto il tessuto sociale, sbrecciandolo in ogni modo, avvilendone le istanze più creative, sbregando le relazioni e le dialettiche. E non è soltanto responsabilità di Hieronymus Boschi o di Orfeo Mattini - è una disgregazione che abbiamo interiorizzato in tante e tanti, un intollerabile grado di separazione dall'altra e dall'altro, una polverizzazione del nostro stesso consenso. Basterebbe poco - una comunità on line, una manifestazione di riappropriazione, un'emissione pubblica dei valori di base, la pratica del discorso reinstallata nel reale. Se non accade tutto questo, aspettiamo la prossima e-letter del Nostro di Scandicci.

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« Risposta #95 inserito:: Luglio 08, 2018, 04:46:30 pm »

La tregua armata tra le correnti del Pd, spiegata in breve
Maurizio Martina confermato segretario, il congresso si terrà prima delle Europee del 2019.

Articoli di Repubblica, Stampa e Corriere della Sera

Di GIOVANNI LAMBERTI 08 luglio 2018, 07:30

Martina eletto segretario, congresso prima delle Europee, primarie il 24 febbraio 2019. Sui nodi politici sul tavolo le varie anime del Pd hanno trovato un'intesa. Siglata una tregua, ufficialmente nessuna spaccatura tra le correnti. L'armistizio serve a prendere tempo ma non piace a tutti i delegati dell'assemblea dem che già guardano avanti. Tra rassegnazione per il vento in poppa della maggioranza giallo-verde, l'orgoglio di chi punta a ripartire riconquistando consensi e il timore per l'incertezza su chi debba guidare la barca. "Commettete un errore, non si può lasciare appeso il partito per un anno", la protesta di Giachetti. Per ora alla corsa per la conquista del Nazareno è iscritto Zingaretti che non è intervenuto in Assemblea, si è limitato a chiedere una discussione vera, "ora - ha spiegato - apriamo comitati per l'alternativa". I suoi ripetono che "serve una svolta".

All’Assemblea Nazionale del @pdnetwork per portare avanti l’unica alternativa ai populismi. Un grande grazie a @matteorenzi che ci ha guidato in questi anni con coraggio tenendo in alto i sogni della nostra comunità perché l’Italia sia il Paese della bellezza e non della paura

Sul governatore della Regione Lazio ("non si predispone mai all'ascolto degli altri e delle loro ragioni. È un grandissimo limite per un leader", la critica a Renzi) c'è tutta l'area orlandiana e altri 'big' del Pd, come Gentiloni e Zanda. La minoranza dem affila le armi: "È finita la fase di Renzi, basta parlare di lui. Perderà il partito". L'area renziana non ha ancora un candidato, per questo teme di perdere terreno, auspica che l'ex premier l'anno prossimo possa avere margini di manovra magari per riprendere il timone.

15:24 - 7 lug 2018

Maurizio Martina è il nuovo segretario del PD - Il Post
Lo ha eletto a stragrande maggioranza l'assemblea nazionale del partito, rimarrà in carica fino al congresso che si terrà nei prossimi mesi

E Renzi si è limitato a lanciare la sfida: "Ci rivedremo al congresso e perderete. E poi dal giorno dopo contesterete chi ha vinto". "Il tempo del congresso è già oggi", la risposta del fedelissimo di Emiliano, Boccia. Ancora una volta è il senatore di Scandicci ad aver infiammato la platea. Acclamato dai suoi, contestato appunto dall'area di Orlando e Emiliano. All'assemblea si sono confrontati due modelli. Quello di Martina con la sua 'rivoluzione d'ascolto' e quello di Renzi.


L'ex segretario dem l'ha messa sul piano calcistico: "Ci siamo innamorati dell'idea di giocare con il 'falso nueve'. È importante la comunità ma come non c'è un io senza un noi così non c'è comunità senza leadership".

 “Un grande musicista non è chi suona più forte, ma chi ascolta più degli altri. Così i problemi diventano opportunità”. Le parole di Ezio Bosso ci riguardano. Ora facciamo del Pd una grande orchestra!

L'ex ministro dell'Agricoltura pur sottolineando di voler smascherare "la demagogia" M5s ("Non regaliamo ai grillini la sfida del reddito di base") ha sottolineato che "noi siamo fondamentali per costruire l'alternativa ma non basteremo a noi stessi" ("Noi ci siamo alleati con i monarchici per cacciare i fascisti", l'osservazione di Orlando). "M5s è una corrente della Lega, la vecchia destra", la posizione di Renzi. Ma al di là del tema delle alleanze e della discussione sulle proposte arrivate dal palco ("Dividere la figura del segretario da quella del candidato premier", chiede la Serracchiani), il confronto resta vincolato sul 4 marzo. Sulle ragioni della sconfitta. Renzi ne elenca 10 (lo stop sui vitalizi al Senato, l'insistenza sulla legge elettorale per puntare sulla coalizione, le accuse sulla buona scuola e sul jobs act) ma soprattutto spinge sulle divisioni interne, sull'attacco alla leadership. Perché il commerciante che allestisce la vetrina del suo negozio non può sentire attaccare continuamente il suo marchio, "chiaro poi che non vende". Perché "mi sarei aspettato una maggiore solidarietà dalla classe dirigente" nel momento in cui è arrivata un'ondata social "contro la mia famiglia".

Il j'accuse dell'ex premier è "sulla guerra fatta al Matteo sbagliato": "Il problema non è quando aprire il congresso, ma quando chiuderlo". Ed ancora: "Quando hai il tuo governo e dici che nulla va bene devi votare M5s non Pd. Basta alle risse da cortile, la riscossa partirà se finiremo di prendercela con chi lavora affianco a noi". La richiesta, invece, dell'area non renziana a Martina è quella di mettere pace al Pd. "Il partito è una grande orchestra. Elaboreremo idee, persone, strumenti nuovi. Serve una riorganizzazione di tutto, sarà un percorso lungo, scriviamo tutti insieme una pagina nuova", dice l'ex ministro dell'Agricoltura Martina che si dice pronto ad aprire a chi è fuori dal partito.

E qui emerge un'altra differenza con Renzi, visto che l'ex presidente del Consiglio ha sottolineato che "la direzione non deve essere quella di un simil Pds o Unione". L'ex premier è stato interrotto soprattutto quando ha citato Blair e si è riferito alle dimissioni di Marino. "Basta tifoserie, così segate il ramo sul quale siete seduti", l'attacco dell'ex presidente del Consiglio alla minoranza dem. "Non è possibile limitarsi al brusio delle minoranze interne, alle colpe di Leu o al mancato carisma di Gentiloni", la reazione di Orlando. L'ex premier presente nella sala "è stato l'unico in prima fila - ha fatto notare un renziano - a non applaudire Renzi neanche una volta".

Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a dir@agi.it

Da - https://www.agi.it/politica/pd_martina_renzi_zingaretti_tregua_armata-4125664/news/2018-07-08/
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« Risposta #96 inserito:: Luglio 08, 2018, 04:51:13 pm »

IL FUTURO DEL PD
I calcoli fantasiosi a sinistra
C’è chi già ipotizza un successo alle Europee del maggio prossimo
Ma i risultati delle Amministrative e i sondaggi fanno pensare ben altro

  Di Paolo Mieli

Colpisce l’esitazione del Pd al cospetto del decreto «dignità» di Luigi Di Maio che si propone di «licenziare» il Jobs act, con ciò provocando a sinistra del partito guidato pro tempore da Maurizio Martina entusiasmi appena trattenuti. Susanna Camusso e Maurizio Landini, pur con accenti diversi, hanno detto che quel decreto «va nella direzione giusta». La segretaria della Cgil non ha nascosto la propria emozione per l’impegno del governo nella lotta al gioco d’azzardo. I dirigenti di Leu, per voce di Roberto Speranza, hanno annunciato che d’ora in poi faranno un’opposizione «intelligente» il che può lasciar supporre qualche differenziazione tra l’atteggiamento nei confronti dei provvedimenti di matrice grillina e quelli leghisti. L’unico del Pd ad essersi pronunciato con toni decisi è stato Paolo Gentiloni. Il quale Gentiloni alla prima sortita televisiva dopo l’uscita da Palazzo Chigi, aveva detto, per di più, che il Pd deve e può tornare ad essere il primo partito del nostro Paese, già alle elezioni europee del maggio prossimo. Un obiettivo che, stando ai recenti ultimi risultati nelle amministrative di giugno, appare assai ambizioso. Ma Gentiloni ha indicato quel traguardo come se si trattasse di una meta raggiungibile. Salvo poi essere un po’ più vago al momento di specificare in quale compagnia la più importante formazione della sinistra italiana dovrebbe e potrebbe compiere l’impresa.

In ogni caso l’incoraggiante prospettiva indicata da Gentiloni merita una riflessione. Soprattutto se la consideriamo nel contesto dell’afasia piddina sul decreto «dignità». L’elettorato italiano al momento appare instabile e — stando ai sondaggi — si assiste ad un movimento centripeto che allarga fino al 60% il bacino dell’area governativa composta da Lega e 5 Stelle (il 4 marzo era al 50). Cresce il consenso a Matteo Salvini, mentre il movimento di Beppe Grillo appare in leggera flessione. Secondo un rilevamento di Nando Pagnoncelli — pubblicato su questo giornale — ad un mese esatto dalla nascita del governo Conte, i delusi dai 5 Stelle si trasferirebbero al 9% sulla Lega (trattenendosi con ciò in area governativa) e solo l’1% sceglierebbe il Pd. Talché, tornando agli auspici di Gentiloni, si può dire che per i democratici ad oggi sarebbe già più che soddisfacente attestarsi attorno al 20%. Ma ammettendo che per un miracolo il partito dell’ex presidente del Consiglio riuscisse a veleggiare attorno al 30%, dove troverebbe il resto? Dove andrebbe a pescare, cioè, quel 20% che mancherebbe per raggiungere quota 50, fare maggioranza in Parlamento e conseguentemente poter dar vita ad un muovo governo?

I partiti non di sinistra vivono attualmente in un sistema solare che ha al centro la Lega e dove — secondo quel che annunciano le proiezioni — saranno possibili maggioranze diverse. Il Pd avrebbe invece una sola opzione per agguantare il 50% di cui si è testé detto: allearsi con il Movimento 5 Stelle. Gira e rigira di questo si parlerà nei prossimi mesi e lì si andrà sempre a parare: l’individuazione di una strategia capace di mandare in frantumi l’asse Salvini-Di Maio per provocare una rottura simile a quella che nel ’94 fece entrare, temporaneamente, in crisi il rapporto tra Bossi e Berlusconi. Nella speranza che, rotto questo asse, il movimento grillino — magari sotto la guida di Roberto Fico o Paola Nugnes — tragga in salvo i superstiti della sinistra e li faccia salire a bordo per riportarli dalle parti di Palazzo Chigi. Forse a questo alludeva Nicola Zingaretti nell’intervista di qualche giorno fa ad Aldo Cazzullo quando ha azzardato la previsione che tra i 5 Stelle «si aprirà un conflitto», talché «in futuro conosceremo un movimento diverso» con il quale «sarà indispensabile confrontarsi». Nel senso, par di capire, che con quel «movimento diverso» il Pd potrà, anzi dovrà (di qui l’uso dell’aggettivo «indispensabile») stabilire un’alleanza che non avrà carattere esclusivamente tattico.

In che senso? Precedenti di «alleanze tattiche» non mancano. Marco Minniti ha rievocato recentemente la sapiente manovra dalemiana di ventiquattro anni fa che provocò la rottura dell’asse Bossi-Berlusconi, e portò alla nascita del governo guidato da Lamberto Dini. Purtroppo — osservava Minniti — proprio perché «tattico», il ribaltone del ’94 finì per dare, nel medio periodo, nuova linfa a Berlusconi anziché metterlo — come era parso sul momento — alle corde (con quella manovra, ha specificato l’ex ministro dell’Interno, «una minoranza nel Paese divenne maggioranza di governo; ma per la sconfitta politica di Berlusconi abbiamo dovuto attendere ventiquattro anni e non l’abbiamo sconfitto noi, bensì Salvini»). A maggior ragione — sembrava voler dire Minniti — una simile manovra potrebbe rivelarsi azzardata oggi che, diversamente da allora, i rapporti di forza sono a svantaggio della sinistra: nel ’94 il Pds ebbe più del 20% — a cui si aggiungeva il 6 di Rifondazione — contro l’8,36 della Lega; oggi i 5 Stelle sono molto più forti del Pd, quasi il doppio. Sicché, in caso di successo del nuovo ribaltone, nell’alleanza con i grillini, al Pd verrebbe inevitabilmente assegnato un ruolo subalterno.

È per questo che adesso — come due mesi fa all’epoca della formazione del governo — la prospettiva di incunearsi «tatticamente» tra la Lega e i 5 Stelle nel tentativo di ammaliare i parlamentari grillini e convincerli all’abbraccio con il Pd, è un’illusione che può sedurre la parte più sprovveduta dei gruppi dirigenti della sinistra ma non quelli che hanno memoria di ciò che accadde nel 1994. In politica le scorciatoie non esistono e, se esistono, non portano lontano. Incamminarsi adesso lungo quel genere di sentieri per realizzare il sogno di un temporaneo ritorno in posizioni di comando, oltre ad essere irrealistico rischierebbe di fare entrare l’intera sinistra in un labirinto identitario dal quale sarebbe difficile vederla uscire rafforzata. Tant’è che fino ad oggi nessun partito socialista europeo ha ritenuto di lanciarsi in avventure del genere.

Ma si può ugualmente provare. La sinistra italiana sembra però sprovvista di una leadership adatta alla bisogna. Ha scritto su Repubblica Elisabetta Gualmini che il Pd — la formazione a nome della quale è vicepresidente della Regione Emilia Romagna — le appare «ostaggio di una densa rete di politici di mestiere usi fin da piccoli a combattere guerre di trincea dentro il partito per rimanere a galla». Nadia Urbinati, esterna al partito, sul Fatto Quotidiano ha usato nei confronti dei dirigenti del Pd parole ancor più dure definendoli «insopportabili». Entrambe due mesi fa furono favorevoli al dialogo tra Pd e 5 stelle. La Urbinati, in più, adesso sostiene che «bollare l’attuale governo come fascista è sbagliato». Si spinge più in là Stefano Fassina, da tempo uscito dal Pd, che spende parole di parziale apprezzamento nei confronti del governo Conte («dovremmo sostenere il decreto dignità», ha dichiarato al Foglio). Il quadro non è confortante: i dirigenti del Pd post-renziano vengono descritti da osservatori esterni (ma anche da appartenenti alla loro stessa area) come persone che preferiscono affondare lentamente, perdere tutti assieme, piuttosto che provare a rimettersi in partita sotto la guida di un leader energico, trascinatore, carismatico. Un capo che — a rigor di logica — in un momento così drammatico dovrebbe essere scelto al termine di una competizione vera, aperta come lo fu ai tempi del primo scontro tra Pierluigi Bersani e Matteo Renzi. E invece...

Sarebbe un pessimo segnale — diciamolo fin d’ora — se nella riunione di sabato prossimo si prendesse altro tempo. E se poi venisse scelto per le primarie un candidato «unitario» destinato a vincere una falsa sfida contro due o tre competitori di bandiera. In tal caso potrebbe emergere solo un personaggio la cui caratteristica fondamentale sarebbe quella di non dare ombra a nessuno dei sopravvissuti della interminabile stagione postcomunista e postdemocristiana. Sopravvissuti che, in abbondante misura, guardano adesso ai 5 Stelle non perché ritengano realistica l’ipotesi del nuovo ribaltone ma perché le buone relazioni con quel movimento potrebbero tornar loro utili nella partita che si giocherà — probabilmente in questa stessa legislatura — per la successione a Sergio Mattarella. Sulla base di calcoli (fantasiosi) che, in un mondo e in un’Europa in cui soffia sempre più forte il vento anti-sistema, rischiano di consegnare l’intera sinistra italiana all’irrilevanza.

4 luglio 2018 (modifica il 4 luglio 2018 | 22:06)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - https://www.corriere.it/opinioni/18_luglio_05/i-calcoli-fantasiosi-sinistra-9d23af50-7fc1-11e8-8b30-21507ef7c055.shtml
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« Risposta #97 inserito:: Luglio 08, 2018, 05:03:39 pm »

Dopo l’assemblea
Tregua armata nel Pd, ma ormai nel partito convivono due anime

 Di Emilia Patta @emiliapatta 07 luglio 2018

Alla fine un Pd ancora scioccato dalla sconfitta elettorale del 4 marzo e dalla formazione del governo giallo-verde egemonizzato dal leader della Lega Matteo Salvini sceglie la via più semplice, quella dell’unità attorno alla guida – sia pure temporanea – dell’ex vicesegretario di Matteo Renzi. L’elezione di Maurizio Martina a segretario da parte dell’assemblea avviene quasi all’unanimità, senza sorprese (solo 7 i voti contrari, 13 gli astenuti).

Tregua armata: sì a Martina
L’accordo tra i vari big del Pd è di avviare il congresso in autunno in modo da concluderlo con le primarie tra febbraio e marzo, in tempo per le elezioni europee del giugno 2019. Martina sarà dunque un segretario traghettatore, che preparerà il confronto vero solo rimandato di qualche mese. «Propongo che il partito avvii un percorso congressuale straordinario da qui a prima delle europee che ci porti a elaborare idee, persone, strumenti nuovi. Dobbiamo riorganizzare tutto – sono le parole del nuovo segretario -. In autunno terremo i congressi territoriali, perché nei territori il partito è collassato. E poi a ottobre un grande appuntamento che si rivolga al Paese. Chiedo di poter fare un lavoro ricostruttivo e rifondativo: in ballo ci sono le ragioni fondative del Pd».

Blair contro Corbyn
Già, le ragioni fondative. Perché mai come ora, proprio mentre l’assemblea elegge un segretario all’unanimità, il Pd è stato diviso. Si è visto plasticamente all’Ergife duranteil discorso di apertura dell’ex segretario e premier Renzi, con una parte dei delegati in piedi per la standing ovation e una parte fischiante e contestante. Da un lato definire, o ridefinire, che cosa significa essere un partito di sinistra di governo mentre in tutto l’Occidente avanzano i populismi di destra (e qui fa bene il premier venuto dopo Renzi, Paolo Gentiloni, a ricordare ai democratici il contesto internazionale della sconfitta). E su questo punto Renzi nel suo discorso, per nulla conciliante, è stato molto netto. A chi come Martina guarda agli scissionisti di Leu (è di un paio di giorni fa l’incontro con Pier Luigi Bersani), Renzi ricorda che «ripartenza non può essere ricostruire un simil Pds o una simil Unione. Se qualcuno pensa che sia la nostalgia la chiave non coglie la novità». La parte renziana del partito non è intenzionata a fare passi indietro sulla via del riformismo, insomma, e non a caso nel suo discorso Renzi cita Tony Blair tra i fischi di una parte della platea («smettiamola di considerare nemici quelli accanto a noi, ci rivediamo al congresso: riperderete il congresso e il giorno dopo tornerete ad attaccare chi ha vinto», è la replica stizzita). Blair contro Corbyn, insomma.

Il nodo delle future alleanze
Alla questione dell’identità si lega poi la questione fondamentale delle alleanze. Perché la spaccatura profonda del Pd è rimasta là, a quell’intervista televisiva di Renzi in cui veniva stroncata la possibilità di un accordo tra Pd e M5s nei giorni delle consultazioni per la formazione del governo. Nella visione renziana il Pd è alternativo al M5s, considerato una costola leghista piuttosto che una costola della sinistra. «Rispetto chi dice che il M5s è la nuova sinistra, sono cantanti e intellettuali, ma io trovo che sia la vecchia destra. Restano una corrente della Lega». E in questa visione gli alleati in vista delle europee del prossimo anno sono gli europeisti e antipopulisti del vecchio continente, e il riferimento non può che essere il presidente francese Emmanuel Macron tanto inviso alla sinistra. «Di Maio dice che il nemico numero uno è Macron. Capisco che attaccare i francesi ti dà like su Facebook, specie durante i Mondiali, ma Emmanuel Macron è uno dei punti di riferimento contro i populisti, per impedire che diventino con la Lega delle leghe la prima forza del Parlamento Ue».

Gli anti-Renzi e la porta socchiusa al M5s
Gli anti-Renzi, che si stanno coagulando attorno alla candidatura del governatore del Lazio Nicola Zingaretti, ragionano invece nell’ottica di un centrosinistra tradizionale che raccolga tutte le forze a sinistra del Pd e guardano alla sponda dei Cinque stelle. In un sistema ormai tripolare – è lo schema di Zingaretti ma anche di Gentiloni, che del costituendo nuovo centrosinistra punta a fare il candidato premier alle prossime politiche – il centrosinistra a guida Pd deve per forza cercare alleati se vuole tornare al governo. Mirando appunto a rompere l’asse “populista” ora al governo nella convinzione che l’alleanza tra M5s e Lega non sia strutturale. Certo prima occorre vincere le prossime elezioni, ossia arrivare primi, come ha sottolineato lo stesso Gentiloni in una recente intervista televisiva. Ma la porta ai Cinque stelle resta socchiusa.

Due partiti in uno: per quanto?
Possono due visioni così diverse restare insieme? Potrà la parte sconfitta accettare l’esito del prossimo congresso restare nel partito? Non sarà facile. Renzi ha ribadito anche ieri che il suo posto è e resta nel Pd, deludendo i suoi avversari interni che sperano neanche tanto velatamente in una sua uscita. Contro Zingaretti i renziani sperano di poter schierare un candidato del calibro di Graziano Delrio. Mancano ancora mesi e i giochi sono aperti. Ma certo è difficile immaginare che in caso di sconfitta al congresso Renzi e i suoi restino in un partito che si “riconcilia” con Bersani e si allea con il M5s. Insomma, lo scontro decisivo è solo rimandato.

© Riproduzione riservata

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2018-07-07/tregua-armata-pd-ma-ormai-partito-convivono-due-anime-183018.shtml?uuid=AEDhdhIF
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« Risposta #98 inserito:: Luglio 12, 2018, 11:01:04 am »

Pd, Delrio sta con Franceschini: “Dialogo col M5s utile al Paese”.

I renziani: “Sul decreto dignità? Dibattito assurdo”

Si allarga il blocco dem a favore di discussione aperta coi 5 Stelle.

Ma la componente legata all'ex segretario chiude il dibattito sul provvedimento firmato da Di Maio.

A partire dalla Boschi: "Va contro la storia del Pd"

Di F. Q. | 11 luglio 2018

Dario Franceschini nel Pd non è solo. Salvini e i Cinquestelle non sono la stessa cosa, ha detto lunedì dopo aver incontrato il sindaco di Milano Beppe Sala, e semmai c’è bisogno di far emergere le contraddizioni “in questo schieramento così improbabile”. Lo spartito non è così diverso dalla risposta che oggi Graziano Delrio, un altro ministro dei governi renziani, ha dato ad Agorà Estate, su Rai3. “Io penso che noi dobbiamo dialogare certamente con i 5 Stelle – dice il capogruppo del Pd alla Camera – perché questo dialogo è utile al Paese. Con la Lega non ci sono le condizioni per un dialogo vero, sui provvedimenti. Con i 5 Stelle ci potrebbero essere. Ma dipende molto se loro non si schiacciano sulla Lega. Perché questo è il punto. Questo governo ormai ha un’agenda dettata continuamente dalle esternazioni, dalle promesse di Salvini”. Come dire che l’atmosfera, almeno in alcuni ambienti del Partito Democratico, sta cambiando gradualmente, visto che il punto di partenza è stato quello di divorarsi confezioni di pop-corn, atteggiamento che poi ha dato il via implicito al governo M5s-Lega.

Quello di Delrio è un ragionamento in linea generale. Ma dentro al Pd c’è già chi vuole passare ai fatti. C’è per esempio l’ex ministro della Giustizia Andrea Orlando che sul decreto dignità dice che c’è una forte componente “propagandistica “, ma aggiunge che se ci sono elementi che limitano la precarietà nel lavoro essi “vanno guardati con obiettività”. Una linea simile alla sinistra di Liberi e Uguali, ma anche a quella sindacale. E’ stato Roberto Speranza, per esempio, nei prossimi giorni a dire che sul decreto dignità bisogna lavorare per migliorarlo, approvando le parti positive. Mentre la Cgil ripete di essere a favore di qualsiasi provvedimento che smantelli il Jobs Act, ma ribadisce la cautela perché ancora non c’è un testo e per ora, mentre da giorni il governo annuncia come “imminente” la versione definitiva, siamo alle enunciazioni generali.

Ma è proprio questa parola-chiave che fa irrigidire i campioni del renzismo. A partire dall’ex ministra per le Riforme Maria Elena Boschi: “L’idea di votare a favore del decreto legge pseudo-dignità del governo Salvini-Di Maio è assurda – twitta – È un decreto che va contro la storia del Pd. E che soprattutto va contro il futuro dell’Italia, creando lavoro nero, non lavoro stabile”. D’altra parte già al mattino il ragionamento del segretario Maurizio Martina era stato di chiusura, con un intervento più nel merito: “No, non penso sia votabile per i contenuti annunciati. Non affronta i veri nodi ancora aperti in particolare per sostenere sul serio il lavoro stabile”.

I più fedeli al suo predecessore, in realtà, non mollano e vanno all’arrembaggio: per Dario Parrini il decreto “è un mostriciattolo invotabile con forti dosi di dannoso dirigismo e potenti disincentivi alla creazione di posti di lavoro e agli investimenti”, il capogruppo al Senato Andrea Marcucci parla di “opposizione durissima”, mentre il presidente del partito Matteo Orfini definisce il provvedimento “sbagliato” e “assurdo” il dibattito sul fatto che votare alcuni pezzi del decreto porta a fare “sponda a Di Maio contro Salvini e riusciremo a convincerlo a governare con noi. O peggio, siccome modifica il jobs act è giusto a prescindere perché se lo votiamo diamo un segnale di discontinuità rispetto a quanto fatto prima”

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Di F. Q. | 11 luglio 2018
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« Risposta #99 inserito:: Luglio 12, 2018, 07:03:58 pm »


MASSIMO   | 11 luglio 2018 alle 8:44

UN PARTITO DEVE AVERE UN LEADER FORTE ALTRIMENTI NON E’ NULLA.
ESEMPIO IL PERIODO DI RENZI IL PD ERA FORTE.CON IL CALO DI FORZA LEADER
IL PD E’ SPROFONDATO. IL LEADER E’ TUTTO PER UN PARTITO.
-------------
Storto Giovanni | 11 luglio 2018 alle 7:06

Se si credesse che Renzi ed il PD che lo ha passivamente sostenuto è andato incontro ad una debacle elettorale per la sua politica permissiva sull’immigrazione, si farebbe un torto al buonsenso degli italiani, in realtà l’ex segretario si è infilato in una serie di progetti politici come la riforma della costituzione, l’abolizione del senato, l’abolizione dell’articolo 18, una serie di agevolazioni a favore di Confindustria con muovi e più flessibili contratti di lavoro precario, che andavano esattamente al l’opposto delle aspettative degli italiani. Il job a t si è rivelato un fiasco e no. Ha invertito la situazione economica dell’Italia. In conclusione Renzi si è trovato ad avere molto potere politico ma non ha saputo fare scelte giuste per invertire un trend economico disastroso. Il declino del binomio Renzi PD non si identifica con il concetto di declino della sinistra, concetto che è stato ripreso ma in modo del tutto contraddittorio dal M5S , che sta rivelando scarsità di progetti politici ed inesperienza, che non vuol essere per adesso una condanno senza se e senza ma come per Renzi ed il suo PD, ma i tempi stringono ed anche per il M5S stanno per arrivare i per più degli esami, dei consuntivi a cui verranno sottoposti dagli italiani e chi sbaglia va a casa, perché la legge è uguale per tutti, per Renzi per il PD è per il M5S, perché i disoccupati del meridione che hanno deciso di non emigrare ed hanno fatto male, non possono più aspettare. A loro va dato lavoro non reddito di cittadinanza o gli 80 euro alla re zia a per acquisire voti. Queste iniziative portano sfortuna e non fortuna. Gli italiani vogliono un lavoro, non la mancetta che li umilia. Il M5S gode ancora per poco della simpatia che si concede ai parvenu ma i tempi stringono e gli italiani sono diventati molto volubili in tema di scelte politiche ed anche Di Maio potrebbe essere preso per mano e sbattuto fuori della porta come quello stranissimo compagno da villa di oltre un milione di euro, settimana bianca a Courmayeur, partita di tennis in America con force one, i politici di scarsa valenza sociale fanno un declino politico perché non hanno spessore e gli italiani ti fanno un selfie e ti buttano via
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« Risposta #100 inserito:: Luglio 12, 2018, 07:41:41 pm »

IL NECESSARIO PARRICIDIO DI RENZI E LE DUE STRADE PER IL PD
   
PAOLO MANFREDI.
9 luglio 2018

Per ottundermi i sensi nella sala d’aspetto del dentista ho guardato il video dell’intervento di Matteo Renzi all’Assemblea nazionale del PD. Mi è sembrato uno di quei calciatori che si vedono alle partite delle vecchie glorie, tocco di piede spettacolare ma pancia prominente a ricordare che il tempo passa inesorabile, anche se il suo tempo è stato addirittura più veloce della carriera di Adriano, per dire di un formidabile dissipatore del proprio talento.

Matteo Renzi è ancora un assoluto fuoriclasse per velocità di pensiero, contemporaneità, adesione spontanea e di animale naturalezza a tutti gli stilemi della comunicazione politica contemporanea, compresa l’inarrivabile citazione di Temptation Island. Eppure questo ragazzo più giovane di me e capace, lo ha ricordato, di fare del PD il partito più potente della storia repubblicana, sembrava un Keith Richards invecchiato male, un reperto storico della politica che tenta di rimanere aggrappato al potere e per questo risulta altrettanto patetico del novantenne De Mita Sindaco di Nusco.

Tutto questo “live fast and die young” sorprende e disorienta ma, riflettevo mentre la combinazione di anestesia e Orfini mi apriva le porte della percezione sulla poltrona del cavadenti, al tempo stesso racconta alla perfezione di una mutazione climatica profonda della politica e del comportamento dell’opinione pubblica che non può essere ignorata.

Come e molto più di Berlusconi, Matteo Renzi ha inaugurato e incarna la fase tropicale e monsonica della politica italiana. Leader fisici, giovani e velocissimi, che scalano il sistema politico con la stessa virulenza delle tempeste tropicali che stiamo conoscendo con i cambiamenti climatici. La politica come tessitura paziente di orizzonti e cursus honorum personale è gozzanianamente confinata fra i cimeli che ispirano tenerezza ma non funzionano più, ombrellino per le pioggerelle di aprile.

Si sarebbe potuto parlare di Renzi come di un would be dittatorello messo fuori gioco dal proprio delirio di onnipotenza se nel frattempo i monsoni non si fossero diffusi per tutto l’Occidente, finanche a suo modo nella civilissima Francia, e soprattutto se alla defenestrazione con pernacchie di un Matteo non fosse seguita la canonizzazione di un altro Matteo. Canonizzazione contraria ma uguale nella velocità dell’ascesa, nella trasformazione del leader politico in personaggio, nella commistione fra politica a e social network, e si spera nella rapida conclusione.

Da convinto elettore di Renzi (e della necessità del suo ritiro) ritengo ovviamente che un Matteo abbia governato bene e l’altro Matteo sia un pericolo pubblico, ma qui non stiamo parlando della qualità della musica ma delle regole (cannibali) dello star system politico, che sono appunto “live fast and die young”, ossia rottama, dichiara, sorridi, nuota, twitta, vinci, perdi, resisti, muori. Tutto in avanti veloce almeno 4x.

Qui sta il paradosso distruttivo del PD: non tanto contenere più linee politiche divergenti ma tenere insieme Renzi e Cuperlo (o Renzi e tutti gli altri esclusi i renziani, che senza Renzi semplicemente non esistono), modelli completamente opposti e inconciliabili di politica e antropologia, analogico e digitale.

Si discute di sinistra, di alleanze, di percorso congressuale e candidati alla Segreteria senza avvedersi che nel frattempo un uragano ha scoperchiato il tetto e quell’uragano è stato l’ascesa e declino della rockstar Renzi, che oggi ha ancora una mano sopraffina ma ha la pancia di birra e non regge più un concerto, gli impresari e i musicisti lo odiano e lui rompe le palle a tutti con i suoi ricordi (ha citato anche “Luci a San Siro”, tenero giovane vecchissimo). Peggio ancora, quel che resta del gruppo dirigente del principale partito italiano degli ultimi 20 anni pensa di sostituire la rockstar con degli anonimi turnisti promossi frontman.

Pensare che dopo i due Matteo si tornerà al tepore delle mezze stagioni è un’illusione che in politica è pericoloso coltivare, perché i vuoti si riempiono in fretta e con il materiale che c’è.

Le leadership riflessive alla Gentiloni possono rappresentare un buon intermezzo fra le guerre lampo, raffreddare la temperatura della società e soprattutto fare le cose dopo tanti tweet, ma non reggono e non reggeranno più alla prova del consenso, semplicemente perché non riescono a superare il rumore di fondo.

Anche il modello del governo dei mediocri inaugurato da 5 Stelle arranca di fronte alla comodità e alla prepotenza del leader monsonico, alla sua totale duttilità ideologica e comunicativa, alla sua giovanilistica ubiquità. In luogo della fatica democratica di comprendere i temi, farsi un’opinione e accettare l’altrui, l’elettorato occidentale sembra tornato a preferire l’adesione fideistica al leader, con la variante digitale della velocità, per cui si passa da giovane promessa a solito stronzo ancora prima di finire il liceo e non si campa mai a sufficienza per diventare venerato maestro.

Convinto come sono del carattere strutturale di questa mutazione mi spingo a dire che anche la Lega, passata la festa della crescita nazionale e salviniana, potrebbe trovarsi a fare i conti con questo stesso smarrimento quando Salvini sarà rottamato dal peso delle promesse mancate e soprattutto dalla noia degli elettori che dopo gli immigrati e la Kasta vorranno un nuovo nemico.

Tornare indietro dal cambiamento climatico oggi non è più possibile e, in politica come in ogni campo della società fondato sul consenso, attestarsi sulla difesa del passato (o essere troppo avanti) e un errore marchiano che si paga con cocenti sconfitte. Per questa ragione non è possibile mettere crocianamente Renzi tra parentesi, pensando che passata la sbornia si possa tornare tranquillamente a un prima fatto di Sinistra (lasciate in pace Bobbio e ditemi dov’è la Sinistra se la CGIL plaude al Decreto Dignità), caminetti di gestione del Partito e Ulivo.

Né è altrettanto possibile, ed esteticamente accettabile, pensare che l’egomaniaco e testosteronico Renzi si faccia placidamente da parte, gatto castrato che dormicchia in poltrona. L’unica fine letterariamente accettabile per quello che rimane il leader più sveglio, abile e intelligente del campo democratico, azzoppato dalla colpa imperdonabile di essere diventato sfigato, è (politicamente, s’intende) l’omicidio alla Borgia, magari per mano di qualcuno dei suoi cortigiani, cavalieri troppo improbabili per sedere alla Tavola Rotonda.

Oltre Renzi, per la cui uscita di scena mancano i dettagli, il PD deve evitare di trasformare la difficoltà momentanea nel peccato più grave per un partito politico, l’irrilevanza. Non credo che tutto sia perduto e la Storia ci ha abituato a grandi e repentini rivolgimenti. Lo stesso raduno di Pontida, quest’anno celebrato anche dai venditori di n’duja, non si tenne nel 2006 perché la Lega aveva perso il referendum sul federalismo e nel 2012 per solidarietà al compagno Belsito ingiustamente carcerato, mentre oggi celebra gli ungheresi al potere.

La stessa storia insegna però che stare fermi non è quasi mai una buona idea e dunque tocca che i democratici elaborino il lutto, regalino Emiliano a chi se lo viene a prendere e, se non vogliono diventare un museo della politica del ‘900, scelgano tra due strade.

La prima è aprire il casting per un altro Renzi, un altro condottiero e giocatore d’azzardo che si lanci in un’altra campagna di conquista. È difficile ma non impossibile, come non lo è che esca lo stesso numero due volte consecutive alla roulette.

La seconda è inventarsi un modello nuovo di leadership, che potremmo chiamare renzismo temperato. Il renzismo temperato riconosce che ormai la politica vuole bulimicamente facce e corpi e non pensa di sostituirli con l’assemblearismo. D’altra parte, con la presunzione di rappresentare nel campo democratico individui più sensibili e senzienti, invece dell’uomo solo al comando si lavora per dare vita ad una generazione di leader moderni, cazzuti e spendibili ma con un asset in più rispetto all’originale, ossia il radicamento territoriale.

Se Renzi ha colpevolmente disboscato al partito e a Governo ogni articolazione territoriale perché gli faceva ombra (e il suprematismo toscano altro non era che provinciale bisogno di clan), il renzismo temperato deve sposare il territorio (e il lavoro) come dimensione di senso. Una Camelot senza cavalli promossi Governatori di Regione ma fatta di sindaci e assessori e leader di comunità, che siano credibili e portino a casa il risultato, magari non col carisma di Mick Jagger ma nemmeno con quello di Frate Cionfoli.

Io un partito così lo voterei.

Da - https://www.glistatigenerali.com/partiti-politici/il-necessario-parricidio-di-renzi-e-le-due-strade-per-il-pd/


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« Risposta #101 inserito:: Luglio 18, 2018, 09:17:44 pm »

Che fine ha fatto il Pd? i numeri della crisi delle socialdemocrazie dal 1990 ad oggi

•   Filippo Mastroianni
•   10 luglio 2018

Il voto italiano del 4 marzo si aggiunge al complicato puzzle europeo, lasciandoci in eredità la conferma di una tendenza che è andata rivelandosi elezione per elezione. I partiti socialisti e socialdemocratici europei stanno vivendo un lento declino. La sinistra italiana, o quel che ne resta, si è adeguata. Esaurito l’effetto Renzi, che aveva portato il Partito Democratico, ancora a ranghi completi, al 40% delle europee 2014, i democratici sono sprofondati al 18.8%. Il peggior risultato della breve storia del PD.
Il calo è reale? Il declino inesorabile? Osserviamo i dati.
Il grafico sottostante mostra le percentuali ottenute dai maggiori partiti di sinistra in Europa, dal 1990 al 2018. Le etichette visualizzate rappresentano la percentuale minima e massima ottenuta nel periodo preso in esame. Per ogni partito due trend line mostrano i risultati nel tempo: linea grigia per le elezioni generali, linea blu per le elezioni europee. I pallini colorati si riferiscono alle ultime elezioni. Un pallino verde indica una crescita rispetto alle elezioni precedenti. Al contrario un pallino rosso simboleggia una decrescita.
 
Il declino nel cuore dell’Europa
Il primo avvertimento si è registrato nel 2015. Il Movimento Socialista Panellenico, conosciuto anche come Pasok, d’ispirazione socialdemocratica e socialiberalista, sprofonda al 4.7%, distante anni luce dal 47.1% ottenuto nel 1993. Poi è stata la volta dei Paesi Bassi e del Partito del Lavoro (Partij Van De Arbeid), principale partito politico olandese di centro-sinistra, espressione del pensiero socialdemocratico moderato. Alle elezioni del 2017 il partito subisce un fortissimo calo ottenendo il 5,7% dei voti (- 19,1%) e solo 9 seggi alla Camera.
Il terremoto che ha sconvolto l’Europa socialista e socialdemocratica non si è però fermato qui. In Francia il Partito Socialista aveva già mostrato scricchiolii dopo la presidenza Hollande. Alle presidenziali francesi del 2017 il candidato Benoît Hamon scese al 6.44%, minimo storico dal 1969. Le elezioni politiche hanno confermato il crollo. Il PS francese si è infatti fermato al 7.4% al primo turno e al 5.7% al secondo.
Tra i partiti presi in esame, anche in Germania l’SPD risulta in calo del 20.2% rispetto alle precedenti elezioni. Il segretario Martin Schultz ha ottenuto il 20.5% dei voti. Il partito rimane al governo, dopo l’approvazione di una nuova edizione della Grosse Koalition, con la Cdu/Csu di Angela Merkel. Mentre in Europa la famiglia socialista non è più al governo in diversi stati membri, come capitato anche nel nostro paese.

E l’Italia?
Come le ultime elezioni ci hanno confermato, lo stivale non è immune dalla crisi che la sinistra europea sta vivendo. Nell’animazione possiamo ripercorrere la storia della elezioni italiane, soffermandoci sul partito egemone della sinistra al tempo dell’elezione. Una storia che, al contrario di molte nazioni europee, non comincia con un partito socialdemocratico, ma con il Partito Comunista d’Italia, poi Partito Comunista Italiano.
Italian-left-parties

Cosa ci racconta questa grafica? Il Partito Comunista, dopo l’esordio del 1946 al 18.9%, si è sempre mantenuto sopra la soglia del 20%, superando in 10 occasioni il 25%, sforando il 30% in 3 diverse elezioni. Dopo l’esperienza dei Democratici di Sinistra e, successivamente, dell’Ulivo, il Partito Democratico, su posizioni ovviamente più moderate, è riuscito a riportare percentuali simili a quelle raggiunte a sinistra prima della svolta della Bolognina da un partito unico (senza dunque considerare la coalizione dell’Ulivo).
Mentre il trend del Partito Comunista è sostanzialmente in crescita per tutto il periodo di vita del soggetto politico, il Partito Democratico ha vissuto una stagione che lo ha portato gradualmente a diminuire le proprie percentuali. Nonostante lo storico 40% ottenuto alle europee, sotto l’effetto del primo Renzi. Non considerando la tornata elettorale del 2014 il trend è ancora più evidente. Nel giro di 4 anni il PD è passato dal suo massimo storico (e massimo storico per un partito della sinistra italiana), al suo minimo storico, con una discesa del 26.2%. Difficile dire se sia un record storico a livello europeo, lo è certamente per quanto riguarda la sinistra italiana. Per tempistiche e valore percentuale della discesa. Il dato rimane incontrovertibile e pane per analisi politiche.
A rischio estinzione? La tendenza è costante in tutta Europa? Possiamo dire di no. In un quadro abbastanza cupo splende qualche raggio di sole nel mondo socialista e socialdemocratico. In Gran Bretagna si registra il risveglio del Partito Laburista. Le elezioni dell’8 giugno 2017 sembravano uno scoglio insormontabile, visto che i conservatori partivano da un vantaggio di 20 punti sul Labour. Corbyn è però riuscito a recuperare, ottenendo 262 seggi, guadagnandone più di 30, con il 40% dei voti. Il massimo dal 2001. In controtendenza anche il Partido Socialista Obrero Español. Alle ultime Elezioni generali, tenutesi il 20 dicembre 2015, il PSOE guidato da Sánchez ha raggiunto il 22.7% dei voti. Il Partito Popolare del Capo del Governo uscente, Mariano Rajoy, ha però ottenuto premio di maggioranza e l’incarico di formare il Governo, grazie al 28.7% dei voti. Il PSOE ha comunque registrato un +3% rispetto alle elezioni precedenti. Gli ultimi avvenimenti hanno addirittura portato alle dimissioni di Rajoy. Sanchez, che aveva presentato al Congresso dei Deputati una mozione di sfiducia contro il premier uscente, ha così riportato il PSOE al potere dopo quasi sette anni di governo di centro-destra.
Il declino è dunque reale? I dati ci dicono di si. Anche i casi più positivi, in Gran Bretagna e Spagna, nascono comunque dopo un periodo negativo. Il PSOE, seppure in risalita, viene dal 44.4% del 2008. In 10 anni sono stati persi circa 20 punti percentuali. Il Partito Laburista attraversa invece un reale periodo di crescita nell’ultimo decennio. Alle elezioni amministrative del 2008, il Labour perse moltissimi consensi, diventando addirittura il terzo partito britannico, superato dai liberaldemocratici, a fronte della crescita del partito conservatore. Da allora il trend mostra un’effettiva crescita.
I dati ci raccontano una socialdemocrazia in fase di crisi che, secondi gli esperti, potrebbe durare una generazione. Quale sia la soluzione è invece una domanda ancora senza risposta, sebbene alcuni osservatori sostengano che le stesse scosse globali che hanno scatenato la crisi del centrosinistra potrebbero anche dimostrarne il valore come forza politica.

Da - http://www.infodata.ilsole24ore.com/2018/07/10/fine-pd-numeri-della-crisi-delle-socialdemocrazie-dal-1990-ad-oggi/
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« Risposta #102 inserito:: Agosto 18, 2018, 03:37:13 pm »

Gualmini: Il Pd deve cambiare pelle. Servono un nuovo nome e una moderna idea di socialismo
Intervista alla vicepresidente dem dell’Emilia Romagna che chiede «un’altra Bolognina»: «Alle feste incontro gente che mi chiede perché abbiamo spinto il M5s nelle braccia della Lega. Già dalle regionali del 2019 un nuovo simbolo, e recuperiamo il socialismo», di Luca Telese, La Verità

Pubblicato il 13 agosto 2018 in News, Partito

Professoressa Elisabetta Gualmini, è vero che lei ha sostenuto che il Partito democratico debba cambiare nome?
«Come fa a saperlo? Ne ho parlato solo in Svizzera…».

Lei dovrebbe sapere che La Verità ha orecchie ovunque…
«Bene. Allora è importante dire che in quell’occasione, quando ho reso pubblica la mia riflessione, non ho fatto riferimento solo al nome. Ho fatto un ragionamento più complesso che riguarda l’identità del partito».

Non parlava in astratto, dunque.
«Si figuri. Io sono convinta che il Pd debba cambiare pelle e volto al più presto, fin dalle prossime elezioni regionali. Oppure rassegnarsi al rischio di scomparire».

Addirittura?
«C’è un malcontento profondo nella nostra base. C’è rabbia, incomprensione, delusione e scontento. Tutti questi sentimenti legati insieme. Questa volta, per salvarsi dal declino, non può bastare un semplice lifting».

Perché lo dice in termini così drastici?
«Perché dalla mattina alla sera parlo con i nostri militanti in quella che era la regione più rossa d’Italia. C’è ancora gente che mi chiede perché non abbiamo fatto il governo con il M5s!».

E lei cosa risponde loro?
«Non posso rispondere su quale sia stato il motivo della scelta, perché nel partito un serio dibattito politico su questo punto non c’è stato. Adesso si è sterilizzata ogni attività del Pd, nella speranza che passi la tempesta, e nell’interesse esclusivo delle correnti».

E questo non le piace.
«Scherza? Io credo che se il Pd resta in stato di catalessi politica non abbia la possibilità di sopravvivere alla crisi. C’è il rischio concreto di una dissoluzione del partito e se vuole le spiego perché».

Elisabetta Gualmini è vicepresidente della Regione Emilia Romagna. Ma è anche una studiosa, un’intellettuale che viene dal gruppo del Mulino, una persona che in passato ha studiato la politica con strumenti scientifici.
Ma oggi è anche un’amministratrice con antenne sul territorio, angosciata per il futuro del Pd. Sta partendo per pochi giorni di vacanza, ma spiega perché è convinta che al ritorno «non ci sia un minuto da perdere».

Lo sa che lei parla come una oppositrice interna?
«E di chi? Vorrei che la si finisse con queste etichette aprioristiche».

Sta con Andrea Orlando? Con Gianni Cuperlo? Oppure guarda a Pier Luigi Bersani?
«Veramente io ero una renziana. Ho creduto in Matteo Renzi finché è stato possibile. Ma siccome sono una persona seria, e realista, mi rendo conto che il discorso che sto facendo deve riguardare tutto il gruppo dirigente, nessuno escluso».

Pensa che la sconfitta sia stata colpa sua? O che ci sia stato un «errore di comunicazione» nei confronti dell’esterno, come dicono in tanti, a partire dal segretario Maurizio Martina?
«Non penso ci sia stato solo un problema di comunicazione sulle cose fatte. E non penso nemmeno che ci sia stata una colpa ascrivibile esclusivamente alla leadership di Renzi. Anche altri dirigenti di questo partito, probabilmente, al suo posto avrebbero ottenuto lo stesso risultato».

Come mai?
«Perché ci troviamo in uno scenario europeo. Da un lato, sono in crisi tutte le socialdemocrazie, davanti alle conseguenze negative della globalizzazione soprattutto per le fasce deboli, molto difficili e complesse da governare; dall’altro, non sono ancora arrivati gli effetti benefici delle riforme introdotte e della crescita economica che, seppure debole, è ripartita».

È stato proprio Renzi, però, a fare le barricate contro l’accordo con il M5s.
«Quella chiusura per me è stato un errore gravissimo. Abbiamo consegnato il paese al connubio M5s-Lega, con i risultati che sono davanti agli occhi di tutti».

Lei pensava davvero che fosse possibile aprire un dialogo con Luigi Di Maio?
«Conosco bene il M5s per averlo studiato a lungo, da accademica. È un movimento molto trasversale e chiaramente composto da persone e militanti provenienti dalla sinistra e da persone provenienti dalla destra. È un “partito” molto duttile e plastico, che tende ad adattarsi anche alle situazioni in cui si trova. Non c’è dubbio che interagire con la parte del Mss più orientata a sinistra sarebbe stata una strategia interessante, soprattutto all’interno di uno scenario proporzionale; il Pd ha invece spinto Di Maio tra le braccia di Salvini: un patto che porterà il Paese allo sfascio».

In Renzi, come in tanti altri, c’era l’idea della cosiddetta «strategia dei pop corn»: quella cioè che la nascita del governo gialloblù avrebbe fatto emergere rapidamente le contraddizioni tra i partiti che lo sostenevano.
«Non ho condiviso in nessun modo il ritiro sull’Aventino che è stato deciso dai dirigenti nazionali. Il secondo partito in parlamento aveva un obbligo politico».

Quale?
«Avrebbe dovuto almeno confrontarsi e scoprire le carte con il Movimento 5 stelle: evitare di fare il tifo per l’alleanza iper-populista tra Lega e grillini».

Non pensa che quell’accordo possa essere logorante per Salvini e Di Maio, come credono i dirigenti del Pd che si sono opposti?
«A me pare che ci stiamo logorando noi. Il voto del 4 marzo è stato un urlo, una richiesta di protezione sociale, di sostegno e aiuto alle famiglie. Proporre a gente che chiede altro, dibattiti astratti e fumosi, istituzionali o politologici che siano, mi pare suicida».

Non le è piaciuto il dibattito interno del Pd dopo il voto di marzo?
«Quale dibattito?».

Non sia sarcastica…
«No, è una domanda seria. lo vedo solo una cosa, che è stata avvertita anche dai cittadini. Perché nessuno dei dirigenti della prima linea si facesse male, in sostanza, si è deciso di non decidere: questo proprio nel momento in cui non bisognava attendere un solo minuto. Questa è stata la scelta che ha fatto e fa più male al partito».

Perché lei invece pensa a un gesto drastico come il cambio del nome?
«Perché vado esattamente nella direzione opposta a quella dei temporeggiatori. Bisogna cambiare subito, e bisogna dare l’immagine di un cambiamento forte, e radicale».

A cosa pensa?
«A un passaggio di rottura che sia paragonabile a quello di una nuova Bolognina. Ad un passaggio di discontinuità simile a quello della svolta di Achille Occhetto. Sono stata renziana, e lo ripeto, perché non amo i trasformismi, ma credo che ora si debba prendere atto che il Pd non è stato quello che noi immaginavamo. Oggi il Pd non viene percepito come un grande partito riformista che sta dalla parte dei più deboli».

Le piace più il nuovo gruppo dirigente di Martina o quello «vecchio» renziano?
«Non credo che noi possiamo presentarci con i volti dei soliti noti. E non ho avvertito grandi cambiamenti. Ma in questo caso sto parlando di identità politiche».

Quindi, in che direzione guarda?
«Credo che si debba tornare ad ancorare questa nuova identità a sinistra. E che, forse, in questo nuovo nome ci debba essere un moderno riferimento all’idea del socialismo».

Lei è convinta che si potrebbe collaudare questo progetto fin dalle regionali dell’Emilia Romagna?
«Assolutamente sì. E credo anche che pure un uomo come Stefano Bonaccini (il presidente della stessa Regione, ndr) condivida, se non tutta l’analisi che sto facendo, almeno queste mie preoccupazioni».

Le elezioni regionali sono fra circa un anno. Perché tanta fretta?
«Perché non abbiamo più molto tempo davanti a noi. Mentre il fattore tempo in politica è decisivo, necessario perché qualsiasi cambiamento non sembri un processo trasformistico. Bisogna che il cambiamento sia vero».

Ha già in mente il nome e il simbolo che le piacerebbe adottare?
(Sorriso). «No, le ho già detto troppo. Non sono decisioni che si possono prendere da soli, deve essere un percorso condiviso. E fin lì non sono ancora arrivata».

Da - https://www.partitodemocratico.it/news/intervista-gualmini-pd-cambio-nome/
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« Risposta #103 inserito:: Agosto 20, 2018, 09:15:14 pm »

AVVOCATI DEGLI ITALIANI O AVVOCATICCHI?

Ho aspettato a scrivere perché, di fronte a tragedie enormi come quella di Genova, c’è il rischio di essere fraintesi. Però, in questi giorni, ne ho lette tante, che vorrei provare a svolgere qualche riflessione.

Se cercate un post di lettura istantanea, non è qui che lo troverete. Di fronte a questioni complesse, non sono capace di semplificazioni. È un mio limite, dovete prendermi così. Non sono un ingegnere. Quindi non sono in grado di fare valutazioni tecniche. Per questo starei sulla prospettiva che mi appartiene. Quella giuridica, partendo dalle intenzioni espresse dal Presidente Conte quando si è insediato. Disse: “io sarò l’avvocato degli italiani”.

Ebbene, vediamo come dovrebbe comportarsi un bravo avvocato in un frangente come questo. Anzitutto, un bravo avvocato sa che, nel suo agire, deve avere due stelle polari: l’interesse dei suoi assistiti e i fatti. È proprio partendo dai fatti che il bravo avvocato traccia gli obiettivi raggiungibili, avendo sempre cura di dire la verità ai propri assistiti. Perché non c’è avvocato peggiore di quello che mente a chi gli ha affidato il bene più caro, ossia la tutela dei propri diritti.

Gli interessi dei cittadini dunque, ossia i “clienti” che Conte ha scelto di rappresentare. Mi pare che in questo caso siano tre:

1. ottenere misure urgenti e immediate che preservino il più possibile la viabilità di Genova e riducano il terribile impatto economico del crollo sulla città, assicurando il ripristino dell’opera e la realizzazione di vie d’accesso alternative.

2. ottenere che i responsabili paghino fino all’ultimo centesimo i danni materiali e non, tenendo conto del rischio oggettivo che lo Stato possa essere chiamato in causa in quanto proprietario della rete autostradale.

3. creare le condizioni, ove ritenuto opportuno, per poter sciogliere i vincoli contrattuali in essere, mettendosi al riparo dal rischio di soccombere in eventuali contenziosi.

Quanto ai fatti, proviamo a metterli in fila:
Il crollo del ponte Morandi non è una fatalità. Non c’è stato un terremoto, una valanga, un evento esterno di portata tale da farà crollare il ponte.

Ciò detto, nessuno è ancora in grado di affermare con certezza quale sia la causa esatta del crollo del ponte.

La gestione di quel ponte autostradale è in capo ad Autostrade per l’Italia, società privata quotata in borsa che opera sulla tratta in forza di una concessione il cui testo (contrariamente a quanto affermato da alcuni membri del Governo) è pubblico. Non era così fino a poco fa. Oggi, invece, il documento è consultabile (salvo alcuni allegati tecnici che sono secretati per ragioni antitrust) grazie a quanto deciso dal precedente Esecutivo.

La concessione è disciplinato da uno schema di convenzione sottoscritto da Anas e Autostrade nell’ottobre 2007 ma divenuto operativo solo nel 2008, con il Decreto Legge 59 del Governo Berlusconi/Lega. Come ben spiegato da Chiara Braga, tale Decreto prevedeva, tra l’altro, “l’approvazione per legge di tutte le nuove convenzioni con i concessionari autostradali già sottoscritte da ANAS ma che ancora non avevano ricevuto il parere favorevole di NARS, CIPE e Commissioni Parlamentari”.

In tal modo, la convenzione è stata adottata senza possibilità per il Parlamento di dire la propria sulle clausole ivi contenute, compresa quella che riconosceva aumenti tariffari annuali di almeno il 70% dell’inflazione reale, indipendentemente dalla valutazione sulla qualità del servizio e la realizzazione degli investimenti. Tale previsione sarebbe stata inesigibile in forza di norme approvate dal Governo Prodi nel 2006, che - sempre come ricorda puntualmente Chiara Braga - legavano la possibilità di aumenti tariffari a qualità del servizio e investimenti realizzati e davano titolo ad Anas di revocare la concessione e metterla a gara se la concessionaria non avesse accettato la richiesta di applicare migliori condizioni per interesse pubblico. Norme abrogate dal Governo Berlusconi/Lega.
Lo schema di convenzione prevede una durata della concessione fino al dicembre 2038.

Nel 2017, il Governo Gentiloni ha notificato alla Commissione EU (DG Competition) un piano di investimenti volto a consentire la realizzazione di una serie di opere di ammodernamento e adeguamento di alcune delle tratte stradali date in concessione ad Autostrade. In sostanza, il piano contempla che, a fronte di una proroga della scadenza della concessione di 48 mesi, dal 2038 al 2042, Autostrade realizzi con tempistiche stringenti una lista di interventi. La proroga è funzionale a evitare che l’incremento degli investimenti richiesti ad Autostrade si trasformi in un eccessivo aumento dei pedaggi stradali pagati dagli utenti.

Tra gli investimenti previsti dal piano vi è quello relativo alla realizzazione della così detta Gronda, la tratta necessaria per consentire di alleggerire il traffico del ponte Morandi e che, se oggi esistesse, avrebbe evitato di avere Genova tagliata in due.
La Commissione EU ha esaminato approfonditamente il piano presentato dal Governo e ha autorizzato la proroga (qui si trova il testo della decisione http://ec.europa.eu/competit…/elojade/isef/case_details.cfm…) dando atto di come l’approvazione del progetto relativo alla Gronda abbia richiesto 15 anni (sono note le opposizioni feroci a tale progetto da parte di comitati appoggiati dal M5S) e di come, in questi 15 anni, e stanti tutte le modifiche via via richieste o rese necessarie dalle mutate esigenze, l’opera inizialmente prevista per 34,1 km e per un costo di 1,8 miliardi di Euro oggi debba essere realizzata per 72 km con un costo di 4,32 miliardi di Euro. Un costo, grazie alla proroga, interamente coperto da Autostrade che, pertanto, contrariamente a quanto affermato dal Ministro Salvini, non è calcolato ai fini dei parametri europei.

Alla data di notifica alla Commissione del progetto descritto la norma dello Sblocca Italia (ripetutamente invocata dal Ministro Di Maio e che contemplava la possibilità di estendere le concessioni autostradali) non era più in vigore, essendo stata abrogata dal Codice dei Contratti pubblici del 18 aprile 2016. È, quindi, una norma che non ha avuto alcuna rilevanza sulla proroga della concessione con Autostrade.
In ogni caso, quella proroga è del tutto ininfluente rispetto alla circostanza che alla data del crollo fosse in vigore la concessione disciplinata dalla convenzione del 2008, posto che sin dall’origine è previsto che tale concessione scadrà nel 2038, ossia tra 20 anni.

Chiariti gli obiettivi ed ricostruiti i fatti, il buon avvocato deve mettere in campo la propria strategia, evitando innanzitutto di scoprire le proprie carte con annunci non basati su un attento studio delle carte. Attento studio da cui emergerebbe come lo schema di convenzione con Autostrade preveda due fattispecie distinte: la decadenza, che può essere invocata dal concedente a fronte di gravi inadempienze e che non contempla indennizzi in favore del concessionario, ovvero la revoca (quella annunciata dal Presidente Conte), a fronte della quale Autostrade ha diritto a vedersi riconosciuto un indennizzo pari ai ricavi previsti fino alla data di scadenza della concessione. La decadenza può essere attivata solo seguendo una procedura precisa di contestazioni e contraddittorio con il concessionario. Quindi, se vuole evitare di far pagare ai propri assistiti/cittadini italiani un indennizzo miliardario e se vuole ottenere da Autostrade la messa in sicurezza del sito, il ripristino dell’opera, la realizzazione degli investimenti, prima di parlare, il buon avvocato avvia tutte le necessarie verifiche tecniche, legali ed economiche (anche solo ipotizzare una quantificazione dei danni, in un caso come questo, richiede un enorme lavoro da parte di espertissimi). Il buon avvocato procede così non solo per disporre di un quadro informativo completo ed esaustivo sulla base del quale fondare le proprie valutazioni sull’opportunità e la convenienza della decadenza, ma anche e soprattutto per raccogliere tutte le evidenze utili a costruire un dossier solido da utilizzare nei confronti di Autostrade, qualora fossero accertate sue responsabilità, ed essere così pronti a ribattere colpo su colpo in un eventuale contenzioso con la stessa concessionaria e, particolare di non poco conto, a disporre degli elementi utili nell’ambito di eventuali cause civili di terzi.
Questo è il modo in cui procederebbe un bravo avvocato, quello che non si preoccupa di alimentare il proprio ego e di ottenere un facile ed effimero consenso, ma che persegue con determinazione assoluta un unico solo obiettivo: portare a casa risultati per i propri assistiti.

Poi c’è quello che in gergo chiamiamo avvocaticchio. Si tratta di una tipologia di leguleio che spara contestazioni al buio, promettendo la luna ai propri assistiti, assicurando che, lui sì, menerà le mani, mica come gli altri. L’avvocaticchio perde puntualmente le cause, con condanna alle spese per i clienti. Quando questi attoniti chiedono “ma come, non dovevamo vincere a mani basse?”, risponde, scuotendo la testa, “guardate, sono imbufalito, questo sistema è marcio, ci sono le lobby, le pastette, uno schifo, ci vorrebbe una rivoluzione. In appello, però, li facciamo neri” ...

Lisa Noja, Parlamentare PD

Da Fb del 19 agosto 2018
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« Risposta #104 inserito:: Agosto 25, 2018, 05:57:11 pm »

Forse il maggior partito della sinistra italiana cambierà generalità. Di nuovo
Dal Pci fondato da Gramsci ai dubbi amletici di Pasolini, alla svolta di Occhetto a Matteo Renzi: quattro nomi in tre decenni, tutte le volte che a sinistra hanno deciso per il restyling

Di NICOLA GRAZIANI
22 agosto 2018, 14:55

Partito democratico nuovo nome
PD PCI PDS DS

In piedi di fronte alla tomba di Antonio Gramsci, fondatore del Pci, Pier Paolo Pasolini ammise un giorno “Lo scandalo del contraddirmi; dell’essere con te e contro te”. Dell’essere, insomma, fedele alla sinistra, pur venendo dalla borghesia.

Questione lacerante, che da sempre attanaglia un modo che in Italia ha incarnato, per un secolo, le attese di mutamento e di eguaglianza sociale; ma lo ha fatto partendo da posizioni sostanzialmente borghesi, perché borghesi bisogna essere per avere i soldi per studiare, e affermare magari con Marx che il mondo non va capito, va solo cambiato.

Il problema è che talvolta il mondo cambia te. O almeno ti costringe a cambiare, dopo decenni di certezze rosse come il porfido e immarcescibili come il granito. La sinistra italiana, erede o meno che sia delle Ceneri di Gramsci, è stata così per decenni fissa e rigida, pronta ad affrontare sfide della contemporaneità senza muovere un baffo.

Ma poi all’improvviso ha preso a cambiare tutto: natura, alleanze, credo. Persino il nome, persino quello. Almeno quattro volte in meno di trent’anni, il che fa una volta ogni sette. Per intenderci, con la stessa frequenza con cui in Italia si cambiano i presidenti della Repubblica.

Partito democratico nuovo nome
E oggi, complici i risultati ben magri delle elezioni del 4 marzo e i sondaggi poco lusinghieri, pare che voglia mettervi mano una volta ancora, o almeno ci pensa intensamente. Di nuovo, perché tutto sembri oggi come allora destinato ineluttabilmente ad un successo sulla cresta dell’onda del futuro.

Il Muro seppellì il Pci
In principio era il Pci, come lo aveva voluto Gramsci che lo aveva strappato dal costato del Partito Socialista. Ad essere precisi, si chiamava Partito Comunista d’Italia, ma a voler asserire che tra le due denominazioni vi sia discontinuità si farebbe sterile esercizio letterario. La differenza tra l’uno e l’altro sta nella data del 1943, anno dell’inizio della Resistenza e della rinascita dei partiti oppressi dal fascismo. Piena continuità, quindi, con i desideri di un ispiratore che pure nel frattempo era morto in carcere.

Comunista il partito lo restò a lungo: blocco di pietra dura, una vera e propria chiesa (qualcuno direbbe: post-tridentina) che né si piega né si spezza. Ma poi il mondo cambiò, non nel senso auspicato da Marx, e venne l’indimenticabile 1989. Di fronte al crollo del Muro di Berlino ed al tracollo del socialismo reale, un giovane segretario chiamato Achille Occhetto si presentò ad una sezione del Partito della periferia di Bologna. Era un 12 novembre, e lui disse che, come insegnava il compagno segretario generale del Pcus Mikhail Gorbaciov, occorreva “non continuare sulle vecchie strade, ma inventarne di nuove per unificare le forze del progresso”.

Le lacrime di Achille Occhetto che "archivia" il PC il 12 marzo 1990
Unificare le forze del progresso attraverso nuove strade: un concetto che sarebbe stato evocato più di una volta nei calamitosi tempi successivi.

La Rivoluzione Copernicana che restò ferma la palo
Un anno e mezzo più tardi il Pci, al termine di un dibattito che lo aveva dilaniato al di là della percentuale bulgara con cui venne presa la decisione finale, si trasformava nel corpo e nell’anima. Assumeva il nome di Partito Democratico della Sinistra e scolpiva nel suo statuto l’impegno “a costruire nella prassi un rapporto nuovo tra la funzione del mercato e l’esigenza di una direzione consapevole della produzione e dello sviluppo sociale”. Insomma, il faro è quello della dimensione sociale, ma il mercato non è poi così malvagio.

Occhetto, che amava l’iperbole, parlò addirittura di una “Rivoluzione Copernicana”.

Il Pds durò sette anni esatti. Nel 1994 tentò per la prima volta la vittoria alle politiche ma Occhetto, presentatosi in televisione con un taglio di capelli sovietico ed un vestito marrone come una foglia marcia, si trovò davanti la sorpresa di Silvio Berlusconi. Fu così che la coalizione dei Progressisti, primo tentativo di unificare le forze del progresso attraverso nuove strade, subì una sconfitta memorabile. Uno stigma che avrebbe segnato la storia successiva.

La quercia e i suoi cespugli
Eppure il Pds al potere ci andò, anche se per interposta persona. Le forze progressiste vinsero le elezioni del 1996, ma alcuni punti non tornavano. Innanzitutto erano in coalizione (con i cattolici del Ppi e i centristi di Rinnovamento Italiano), il che non era paragonabile agli obiettivi del progetto originale. Seconda cosa: il presidente del Consiglio era anche lui un cattolico, anche se per carità cattolico di una pasta tutta sua. Si chiamava Romano Prodi.

Nel 1998 nacquero allora i Democratici di Sinistra, con l’ambizione di unificare una volta di più tutte le forze della sinistra italiana, che fluttuavano nel mare della politica tra ricordi del passato, diatribe del presente e aspettative per il futuro. Attorno al tronco del Pds, rappresentato nel simbolo da una quercia, vennero a trovarsi così i cespugli (termine usato correntemente in quella stagione politica, a dispetto di un’accezione non del tutto positiva): laburisti, comunisti unitari, cristiano sociali, sinistra repubblicana, riformatori per l’Europa. Persino troppo facile immaginare che ci fosse un po’ di confusione. Prodi dovette lasciare Palazzo Chigi, al suo posto andò Massimo D’Alema (padre dell’operazione Ds) e alle elezioni successive vinse un‘altra volta Silvio Berlusconi.

Tutti insieme, appassionatamente
Un ciclo politico più tardi Prodi era di nuovo lui a Palazzo Chigi, Berlusconi perdeva le elezioni di 20.000 voti e la sinistra più o meno unitaria era costretta a governare in alleanza con un Ppi che nel suo piccolo una fusione l’ha già fatta, con i rutelliani. È nata la Margherita, nel nome dell’unità delle componenti di centro. Perché non chiudere il cerchio? Nasce nel 2007 il Partito Democratico, all’americana nel nome e nei fatti. Nel nome perché il riferimento al partito dell’Asinello è una costante, almeno nei primi mesi; nei fatti perché, stando alla critica più diffusa, di partito in senso tradizionale non si può parlare, quanto piuttosto di una fusione a freddo tra componenti troppo eterogenee per mescolarsi con un processo dettato da Madre Natura.

Ad ogni modo, per la seconda volta Prodi ci rimette lo scranno, e Berlusconi ne approfitta per tornare al governo. Nel frattempo il partito, che finita l’opera di assorbimento delle principali componenti del centrosinistra enuncia ufficialmente la propria vocazione maggioritaria, cambia segretario. Se ne va Walter Veltroni, l’uomo della trasformazione, e prende il suo posto il cattolico Dario Franceschini.  Gli succede Pier Luigi Bersani, poi arriva un altro cattolico, Matteo Renzi. Ma questi compie l’errore di legare il suo destino personale e quello del partito al referendum popolare su un pacchetto di riforme costituzionali che viene bocciato sonoramente.

Da quel giorno parte il declino, dell’uno e dell’altro. Fino ad arrivare all’idea di cambiar nome per dare l’idea di aver cambiato tutto. E quello che una volta era il Partito Comunista Italiano, nato grazie a Gramsci e alle sue ceneri, ora rischia di chiamarsi Movimento Democratico Europeo. Chissà, forse una cosa che ricorda Emmanuel Macron potrebbe funzionare. Sempre che nel frattempo anche Macron non abbia perso lo smalto.
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