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Autore Discussione: PARTITO DEMOCRATICO - ...  (Letto 39441 volte)
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« inserito:: Giugno 08, 2007, 05:19:13 pm »

Senza partecipazione la polis muore


George Papandreou
con Mauro Buonocore

 
Tratto da Reset


Al paragone con Clistene e Pericle, ride ringrazia e declina. Ma George Papandreou ha chiara in mente l’antica polis ateniese ed è a quegli antichi statisti, a quell’Atene tra il VI e il V secolo a.C., che pensa quando parla di "sperimentare nuove forme per ringiovanire le nostre democrazie", quando sostiene la necessità "di seguire il desiderio di partecipazione democratica che avvertiamo tra gli elettori", quando vede nel sondaggio deliberativo l’applicazione di queste idee che mette in pratica per scegliere il candidato sindaco che il suo partito, il Pasok, presenterà alle prossime amministrative nella città di Marousi, uno tra i più importanti e popolosi centri dell’area metropolitana di Atene.
Partecipazione è la parola chiave che Papandreou utilizza per cercare di aprire la porta del rinnovamento politico. Come nel 2004 quando, chiamato alla guida del Pasok, il partito socialista greco che si trovava allora nel pieno di una crisi di consenso e di scandali di corruzione che colpivano i vecchi dirigenti, George Papandreou decise di accettare l’incarico solo dopo aver chiamato la popolazione greca ad esprimersi sulla sua candidatura. Fu una specie di referendum, cui parteciparono oltre un milione di elettori (non solo iscritti al Pasok), che lo portò alla guida del partito.
E così Papandreou, il cui nome racchiude decenni di politica greca da suo nonno a suo padre (fondatore del Pasok) che furono entrambi capi del governo, si presenta come uomo nuovo, il politico che si è formato negli States e che cerca sistemi innovativi per rinvigorire la democrazia, a partire dalla sua Grecia fino a portare le sue esperienze sul palcoscenico più ampio dell’Internazionale Socialista che presiede dal gennaio 2006.

Mr. Papanderou, lei punta molto sull’idea di partecipazione come motore di rinnovamento politico. Da dove nasce questa sua idea?

Mi sembra che gli elettori in genere, e i più giovani in particolare, dedichino grande interesse ai tentativi di migliorare la loro partecipazione alla vita politica. Un esempio sta nella mia elezione alla guida del Pasok: ho voluto dare seguito alla decisione del partito solo dopo aver sottoposto la mia nomina all’approvazione popolare. Sono state una sorta di primarie aperte, chiunque poteva andare, iscritto o meno che fosse al partito, e dire se voleva o no che io guidassi il Pasok: il risultato è stato un milione di voti a mio favore. Un altro esempio lo troviamo in Italia, nell’alta affluenza degli elettori alle primarie vinte da Prodi. Io credo che quando si apre la porta alla partecipazione c’è sempre una grande risposta, le persone hanno voglia di entrare ed esprimere la propria opinione. È importante, allora, cercare nuove forme di democrazia, diretta, partecipativa, deliberativa, usando le nuove tecnologie e così via. Al di là dei nomi e delle definizioni dobbiamo cercare di sperimentare il più possibile per trovare meccanismi di partecipazione che meglio si adattino a realtà diverse.

E la sua scelta questa volta è caduta sui sondaggi deliberativi di James Fishkin, un metodo innovativo che tanto ha in comune con la democrazia dell’antica polis ateniese. Il rinnovamento che lei ha in mente guarda molto indietro nei secoli.

In Grecia abbiamo una tradizione e una storia democratica alla quale dobbiamo guardare in un modo più positivo e concreto di quanto non abbiamo fatto sin ora. Sono stato coinvolto, ad esempio, nell’organizzazione degli ultimi Giochi Olimpici di Atene, allora cercammo di rinnovare un’idea legata all’antica tradizione dei giochi e che ben si poteva sposare con la nostra realtà, cioè il concetto di tregua olimpica. Cercammo così di promuovere l’idea che si possono usare i Giochi Olimpici come una tregua, una pausa di riflessione, un momento di confronto.
Quello che stiamo facendo qui a Marousi ha molto in comune con la nostra storia: la democrazia ha una grande tradizione nel mondo antico ed è uno dei grandi motivi di interesse e discussione del mondo moderno. Noi dovremmo tornare dritti alle radici dell’antica Atene e rivisitarne alcune idee, alcune somiglianze e alcune differenze tra la democrazia di allora e quella di adesso. Una delle differenze più ovvie tra il V secolo a.C. e oggi è che allora bastava la sola voce per parlare al demos, ora sono necessari i media; ci sono poi delle idee che abbiamo perso e sarebbe bene recuperare. Una di queste riguarda il metodo di estrarre a sorte un gruppo di cittadini e fare in modo che siano bene informati prima di prendere le decisioni. Il sondaggio deliberativo recupera questo metodo e l’idea che vi è alla base secondo cui cittadini informati possono prendere su qualsiasi argomento la decisione migliore per tutti. Usiamo il deliberative poll come un tentativo di rinnovare, o meglio, ringiovanire la democrazia in un mondo che sta cercando di dare nuova credibilità alla politica.

Come mai la sua ricerca di nuove forme di partecipazione è caduta proprio sui sondaggi deliberativi?

Sia come leader del Pasok che come presidente dell’Internazionale socialista, sto guardando a nuove forme di partecipazione democratica. Questa è una grande sfida cui sono chiamate le nostre democrazie per combattere un trend mondiale che vede la gente alienarsi e allontanarsi dalla politica. Quando poi partecipano, votano, scelgono, i cittadini si trovano a decidere di questioni complesse in condizioni di conoscenza e consapevolezza molto superficiali. I deliberative polls sviluppano forme di partecipazione che si propongono come una soluzione a questo problema e hanno diversi elementi di grande interesse.
Sono un modello che guarda indietro alla nostra antica tradizione democratica da cui ereditano la scelta casuale di coloro che partecipano alla decisione secondo il principio per cui ciascuno ha la stessa possibilità di poter essere sorteggiato, è un meccanismo che rafforza e mette in pratica l’idea secondo cui tutti i cittadini sono uguali.
A questa caratteristica, il sistema di Fishkin aggiunge un supporto scientifico che garantisce la rappresentatività del campione e ci offre l’istantanea di un’opinione pubblica che prima di decidere si è nutrita di informazione, di conoscenza, di discussione. Inoltre il campione casuale garantisce l’assenza di pressioni da parte di gruppi di potere, politici o economici, e può essere un valido modo per abbattere quelle strutture clientelari che appartengono spesso alla politica tradizionale. Cerchiamo di portare le persone direttamente al centro delle cose, dei problemi, delle idee, cerchiamo il modo per far loro esprimere le loro opinioni, le loro visioni.

Il sondaggio deliberativo di Marousi decide il candidato sindaco che il Pasok presenterà alle prossime elezioni amministrative. Ci si poteva aspettare che il campione selezionato fosse formato da iscritti al partito o simpatizzanti, e invece è un campione rappresentativo dell’intero elettorato della città. Perché questa scelta?

Su questo punto abbiamo discusso molto. Abbiamo scelto di rivolgerci a tutta la popolazione, di non parlare solo ai membri del partito, iscritti o simpatizzanti. Abbiamo selezionato un campione casuale all’interno del quale ci saranno persone del Pasok, elettori abituali, persone che normalmente non sono schierate in politica, gli indecisi, ma anche simpatizzanti o iscritti di Nea Dimokratia (il partito della destra attualmente al governo, ndt), abbiamo scelto di non escluderli e chiamare anche loro a discutere di ciò che ritengono importante per la loro città.
Si può dire che abbiamo cercato di fare in modo che il partito non fosse una presenza incombente nel processo. Ad esempio ci siamo trovati di fronte ad un’altra scelta. Potevamo fare in modo che il sondaggio deliberativo vertesse non su candidati, ma sugli argomenti, cioè potevamo chiamare le persone a discutere informarsi e decidere sui temi che ritenevano più incombenti per la politica cittadina e così fare in modo che contribuissero a costruire il programma che il candidato scelto dal partito avrebbe portato in campagna elettorale. Una seconda opzione prevedeva invece una rosa di candidati che si esponessero di fronte a problemi e domande dei cittadini, proponessero le loro risposte e le loro soluzioni e venissero poi giudicati e votati dal campione. Abbiamo scelto questa seconda via, il partito si è limitato alla scelta dei candidati per le primarie, all’inizio erano quattordici, ne abbiamo poi scelti sei che si sono confrontati nel deliberative poll dove i temi e le discussioni hanno preso corpo. L’importante non era formulare un programma di governo, non era puntare sulla propaganda di un tema controverso, dalla centralizzazione del potere alle riforme scolastiche alla sicurezza sulle strade fino ai problemi dell’inquinamento e del traffico. Quello che è importante, qualunque sia l’argomento di dibattito, è che stiamo dando alle persone la possibilità di ragionare attentamente su questi temi, e offriamo loro l’opportunità di dare risposte che non siano puramente emotive, emozionali, ma molto ben ponderate, attraverso la lettura, l’informazione, il confronto delle idee.

Crede che questo tipo di primarie possa avere un effetto positivo sull’elezione finale del sindaco? Essere stato scelto in un sondaggio deliberativo da un campione dell’intero elettorato cittadino, potrà essere un vantaggio per il candidato del Pasok?

Credo di sì, anche se il campione è formato da un piccolo gruppo di persone, la tv manderà in onda un programma dedicato al deliberative poll di Marousi, chi non ha fatto parte del campione potrà vedere e capire come è stato scelto il candidato. Questo mi rende molto fiducioso sulla vittoria elettorale: prima di andare a votare, i cittadini di Marousi potranno chiedersi perché delle persone esattamente come loro hanno fatto questa scelta. Ho buone speranze per l’esito finale, ma staremo a vedere.

Vede un futuro più ampio per i sondaggi deliberativi? Pensa di portarli da Marousi verso realtà più grandi, a livello nazionale o anche oltre?

Assolutamente sì. È mia intenzione informare tutti i partiti dell’Internazionale Socialista dell’esperimento di Marousi, e il mio mandato di presidente mi vedrà impegnato a sviluppare e mettere in pratica i migliori modelli possibili di democrazia e di partecipazione, fino a trovare nuovi meccanismi che sappiano mettere i partiti al passo con i grandi problemi della modernità quali, ad esempio, le tematiche ambientali che vanno ben oltre i confini di nazioni e di schieramenti politici. L’Internazionale non serve solo a fare grandi dichiarazioni, ma serve a capire quale ruolo possiamo concretamente svolgere nella realtà globale, che cosa possiamo praticamente fare, quali soluzioni trovare e applicare attraverso il confronto delle nostre reciproche esperienze.

 
da www.caffeeuropa.it
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 08, 2007, 05:22:22 pm »

Partito e popolo

Furio Colombo


Il partito a cui si riferisce il titolo di questo articolo è il Partito democratico. Come tutti i lavori in corso crea una immensità di inconvenienti per coloro che eventualmente beneficeranno della nuova costruzione: non vedono, non sanno, non partecipano. E certo non li rappresentano alcune decine di persone per bene detti i «garanti» per il solo fatto di essere quadri di partito oppure nominati oppure cooptati senza che esistano indicazioni per la nomina e la cooptazione o istruzioni per l´uso (poteri e doveri). Le porte per ora sono chiuse, i percorsi sono al di là delle impalcature, le regole un atto di fede.

«Popolo» è una parola grossa (ricordate quando Alberto Asor Rosa poteva usare questa parola nel titolo del suo libro Scrittori e popolo per intendere, i creatori e i frequentatori di idee?). Bene, io non mi illudo che un´immensa folla prema ai cancelli chiusi del Partito democratico che non è pronto. Ma certo c´è un´attesa, sempre meno tollerante e paziente, che le ultime elezioni non vinte hanno indicato in due diverse tabelle: quelli che ancora hanno votato centrosinistra, e quelli che, per il momento, non hanno votato. Ecco, questo è il popolo di cui sto parlando, gli uni e gli altri, coloro che tengono ancora stretto il filo della fiducia. E coloro, forse meno indifferenti e più appassionati, che hanno battuto il tremendo colpo di gong delle schede bianche e del non voto, nel disperato intento di farsi sentire di là dalle impalcature, dentro il cantiere da cui sono esclusi i «non addetti ai lavori».

Dunque c´è un partito in corso di costruzione (evento arduo e difficile nella storia delle democrazie, con una tradizione simile a quella dei nuovi ristoranti: ne nascono cento, se ne afferma uno). E c´è, presumibilmente, un popolo in attesa. È fatto in parte di gente che sta già sgombrando le sedi, anche psicologiche, interiori, mentali, dei partiti che abitava prima.

E in parte da persone che - pur non essendo militanti di un partito - sono rimaste ostinatamente legate ai grandi valori democratici portati in Italia dall´antifascismo e dalla Resistenza (legalità, scuola pubblica, legge uguale per tutti, lotta alla malavita in tutte le sue incarnazioni, diritti umani, diritti civili) che vorrebbero ritrovare, ma non sono sicuri dove.

C´è anche la separazione nitida e rispettosa tra Chiesa e Stato, in questo elenco di valori dei cittadini che non sono in casa né in piazza, ma non sanno ancora con sicurezza dove dirigersi. C´è anche la separazione tra giornalisti e notizie da una parte e potere dall´altra. Sanno con sicurezza dove non c´è, e anzi viene negata e irrisa, questa separazione. È la casa del conflitto di interessi. Ma molti stanno ancora cercando un nuovo indirizzo.

E c´è la separazione fra i legittimi interessi dell´impresa e il legittimo diritto di difendere il lavoro. In una economia brada il lavoro è affidato all´esito di un continuo scontro e vinca chi può fare più profitto o più danni. In una buona democrazia, e in un buon partito che voglia fare da sostegno e da trave a quella democrazia, ti dedichi alla difesa di chi lavora non perché vuoi la lotta di classe ma, al contrario, perché sai di essere in un mondo moderno ed efficiente in cui si lavora insieme alla pari, non gettando il lavoro tra le scorie di cui la cosiddetta modernità vuole liberarsi. E poi il mercato chiede confronto fra parti altrettanto forti. Se no che mercato è?

Sarà vero che ognuno deve vedersela col nuovo mondo da solo e da bravo, secondo il merito. Ma resta il fatto che all´adunata dei giovani imprenditori, che si celebra come sempre a Santa Margherita Ligure, tutti i partecipanti - a cominciare da Michela Vittoria Brambilla - sono figli e nipoti di imprenditori. E nelle loro fabbriche tutti gli operai (se non sono immigrati) sono figli di operai.

Ovvio che questa è una questione che deve stare molto a cuore a un Partito democratico agile e nuovo. Di partiti in cui tutte le teste televisive parlanti sono pronte a cori di esultanza quando parlano Draghi e Montezemolo (sempre molto apprezzata l´ammonizione al taglio delle pensioni, sempre un po´ di stizza per quei perdigiorno conservatori annidati in fabbrica che vorrebbero, dopo anni, smuovere la barriera perenne dei mille euro al mese e quella "moderna" del contratto a progetto) ce ne è una quantità imbarazzante.

Il problema non è affatto uno scivolare, a seconda degli umori, o un po´ più a destra o un po´ più a sinistra. Però è inevitabile che un Partito democratico moderno si ispiri per forza a grandi voci nella cultura del mondo industriale avanzato, come Amartya Sen che ci ha narrato il cambiamento del poverissimo Stato indiano del Kerala attraverso il cambiamento della condizione delle donne, che sono passate, in una generazione, da nove a due figli (e difficilmente sarebbero state festeggiate all´italianissimo "Family day") che sono andate a scuola, che sono diventate dirigenti e amministratrici anche senza quota rosa. Come Joseph Stieglitz che, da grande economista, non andrebbe mai in giro a dire che la ripresa di un Paese «è merito esclusivo delle imprese». Come John Nash, che dalla sua cattedra di matematico a Princeton ha calcolato «il punto di equilibrio» fra investimento di capitali e investimento di lavoro (e la relativa equa retribuzione) e l´ha definito «l´equazione del socialismo». Come Paul Krugman che, dalla stessa Università di Princeton, calcola e pubblica ogni settimana sul New York Times «lo spreco americano di vite, destini, talenti, lavoro gettati nel buco nero di un precariato senza fine, mentre il punto più basso e quello più alto dei compensi di chi lavora sopra e sotto l´impresa sono mille volte più lontani che dieci anni fa». "Mille volte" non è un modo di dire ma il risultato di un calcolo. Nella visione di Krugman, il mondo dei manager diventa un club di cooptati lungo percorsi di favore, e quello del lavoro diventa polvere. Ho citato premi Nobel per l´economia per restare non fra i sogni ma nei fatti, anzi tra i numeri. Una solida ispirazione, no?

Mi chiederete perché mi impiccio dei lavori in corso per un nuovo partito che non mi ha chiesto niente né dato alcuna notizia, a parte quelle che tutti apprendiamo in televisione (come la curiosa proposta secondo cui il presidente del nuovo partito nomina il segretario del nuovo partito, motu proprio.

Risponderò che nel mondo libero tutti si impicciano, che la speranza è l´ultima a morire e che chi vivrà vedrà. Tre luoghi comuni utili e pertinenti in questo caso. Visto che il partito non c´è ancora, perché non sperare in un mondo più grande, più libero, più creativo dei chiusi e litigiosi vertici notturni di cui siamo spettatori indiretti e lontani, simpatizzanti per sentito dire?

Sul "chiuso" che è tipico dei cantieri, ricorderò una piccola idea geniale di Donald Trump, il grande costruttore americano sospetto di molte scorciatoie legali nel suo Paese, ma non privo di fantasia. Notando che i suoi cantieri incombevano su New York come astronavi aliene e impenetrabili, ha avuto la trovata di inventare i "cantieri aperti". Così adesso tutti possono vedere i lavori da grandi aperture nei recinti di legno o metallo degli scavi. L´ingombro resta ma diminuisce il fastidio perché - volendo - tutti possono seguire ciò che avviene e constatare, di giorno in giorno, il cambiamento nel cantiere.

Nella vita pubblica tutto ciò si chiama comunicazione. Forse spiriti liberi ed esperti di comunicazione come Gad Lerner potrebbero suggerire di rubare un´idea a Radio Radicale. Meglio, di chiedere a Radio Radicale di trasmettere, quando si può in diretta, e se no in differita, ogni seduta, confronto, discussione, litigio del costituendo Partito democratico. Di colpo l´atmosfera si farebbe diversa, la partecipazione meno impossibile, la fiducia più alta. O almeno un´attesa meno depressa, sottomessa e remota. Non è poco.

Vorrei raccomandare caldamente questa piccola trovata del cantiere aperto, attraverso l´espediente della trasmissione. Occorre ricordare che sono in corso due sgomberi, già di per se disorientanti, ognuno nel territorio dell´altro ma con un pesante bagaglio di cose proprie, cose di prima e progetti di dopo, che non sarà facile ricollocare. Ma mentre avvengono i due sgomberi e gli scambi di territorio, eventi di per sè disorientanti (specie se i leader parlano solo tra loro e spesso in codice) arriva - o potrebbe arrivare - il corteo di coloro che prima non c´erano e che ora esitano sulla soglia del voto, i cittadini senza gerarchie di partito detti, con un po´ di fastidio, "la società civile". Ma se ne potrebbero andare di brutto (e andare per sempre) se trovano le porte sbarrate e sono destinati a ricevere notizie solo dai "panini" dei telegiornali o dagli umilianti talk show che riproducono per sempre un´Italia immobile nel passato, come un brutto museo delle cere.

Intanto incombono, promettenti o minacciosi, nuovi eventi che chiedono nuova politica.

Propongo un parziale elenco di materie incombenti, che preoccupano tanti davanti alle porte chiuse perché il partito non è pronto ma le vecchie case sono state smontate ed è cominciata una lunga attesa. Coloro che aspettano sono carichi di oggetti smarriti e bagagli che ancora non sanno se e dove depositare. Per esempio.

Il costo della politica. Mentre scrivo mi passano rasenti sopra la testa nel centro di Roma, gli aerei militari che partecipano alla parata del 2 giugno, la parata dei settemila "soldati del futuro" con cui gli italiani sono invitati a celebrare la festa della Repubblica. E di colpo mi viene in mente una immensa parte sommersa dei costi della politica. Sono i costi delle grandiose spese di forma e di rappresentanza di questo Paese antico e barocco che si svena per questioni di forma. Ricordate il summit, realizzato con i fondi della Protezione civile, nel set teatrale di Pratica di Mare che, credo, data la stravaganza e l´incredibile eccesso di spesa, nessuno dei partecipanti ha dimenticato?

Giusto andare a vedere con comprensibile astio il costo di un cappuccino alla bouvette di Montecitorio. Ma intanto un mare di auto blu circola su tutte le strade e a tutti i livelli (i tre poteri e poi lo Stato-istituzione, e poi lo Stato-politica, e poi lo Stato-burocrazia con tutte le sue agenzie e poi Regione, Provincia, Comuni moltiplicato per tutti i suoi ambiti territoriali e poi tutte le authorities). E una flotta di aerei di Stato attraversa i cieli. E, alle scadenze dovute, le risorse non grandi della Difesa italiana vengono bruciate per fare bella figura, con costi difficili da immaginare, che infatti le corrispondenti autorità di altri Paesi europei si guardano bene dall´organizzare, tenendosi fuori dal costo dello spettacolo.

È solo un modo per dire che tutto ciò che furiosamente e sarcasticamente si elenca come dissipazione pubblica, quando arriva la brutta stagione per la parte visibile della politica, non è che una scheggia di un immenso oggetto sconosciuto e, in parte, impenetrabile.

Scuola, nella confusione del momento, partito di prima, partito di dopo, laici, credenti e valori condivisi, qualcuno si è accorto che i versamenti alla scuola privata (scuole religiose, non asili) sono improvvisamente aumentati (dunque a danno della scuola pubblica); e che, per la prima volta, con una grande violazione costituzionale, il voto di religione farà media con greco, latino, storia, geografia e matematica negli scrutini di fine anno del 2007? Forse i due partiti che arrivano a incontrarsi provenendo dal polo laico e da quello religioso, si scambiano doni, in occasione dello storico incontro. Ma "scambiare" non è la parola giusta. Noi vediamo i doni fervidamente offerti alla Chiesa. Ma lo "scambio" avviene in un modo curioso. Coloro che dicono di rappresentare la Chiesa, ora che ci mettiamo insieme, chiedono di più, molto di più di quando erano "partito cristiano". Il grido sessantottino immortalato dal libro di Balestrini "Vogliamo tutto" è diventato il motto del nuovo militantismo religioso che si insedia nel centrosinistra, fra inchini, saluti e cenni severi che ti dicono «bisogna tener conto della sensibilità cattolica». Ho capito, ma delle sensibilità estranee alle preferenze del Papa non dobbiamo tenere alcun conto?

Infatti dei Dico non si sente più parlare. Il "Family day" ha emesso la sua fatwa e non si deve irritare la sensibilità religiosa ai valori della famiglia che noi, non credenti, non possiamo neppure immaginare.

Quanto al testamento biologico, che vuol dire decidere in anticipo sulle cure che vorrai o non vorrai ricevere quando non sei più in condizione di decidere da solo (una legge che esiste in tutto il mondo libero), si tratta di un progetto preparato con meticolosità e competenza dalla Commissione Sanità del Senato presieduta da Ignazio Marino, medico noto e scrupoloso legislatore. Nella sua commissione sono stati sentiti gli esperti del mondo, scienza, legge, religione. Non importa. La "sensibilità" è scontenta.

Riusciremo a portare questo oggetto, simbolo della civiltà contemporanea, di là dalle porte chiuse del partito in costruzione quando quelle porte saranno aperte e chi vorrà potrà entrare? Che segno sarà se oggetti simboli di un Paese nuovo saranno lasciati fuori, per esempio abbandonandoli nelle insondabili dilazioni delle procedure parlamentari?

Un incubo è la legge Mastella sulle intercettazioni giudiziarie.

In essa ogni colpa, responsabilità e pena (pesantissima) sono esclusivamente a carico dei giornalisti. Con quella legge un governo e una maggioranza di centrosinistra metterebbero una pietra tombale sul diritto-dovere di informare e perfino sulla possibilità materiale di farlo. È chiaro, è ovvio che quella legge non si può votare. Ma la domanda è: che messaggio manda il nuovo partito lasciando sulla porta del suo nuovo insediamento la testa tagliata della libera stampa?

Infine vorrei scuotere i fondatori nominati o cooptati del nuovo partito da una curiosa indifferenza che sembra averli colti. La difesa e la liberazione di Ramatullah Hanefi, dovrebbe essere la causa del nuovo partito.

E in questi giorni la bandiera dovrebbe essere la moratoria mondiale contro la pena di morte da votare subito alle Nazioni Unite e per cui Marco Pannella rischia di nuovo con lo sciopero della sete iniziato ormai da sei giorni. È vero che il governo italiano ha tenuto fede, finora, al suo impegno per ottenere la moratoria. Ma una bandiera contro la pena di morte è un bel simbolo per un nuovo partito. Meglio che discutere di nomine, autonomie e cooptazioni. Altrimenti si impone e domina il grigio del vecchio mondo partitico. Ad esso tanti cittadini italiani hanno già voltato le spalle.


Pubblicato il: 03.06.07
Modificato il: 03.06.07 alle ore 12.27   
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« Ultima modifica: Agosto 26, 2007, 09:37:29 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Giugno 11, 2007, 10:20:26 pm »

Marie-Anne Matard-Bonucci: «L’effetto Sarkò spinge verso il bipolarismo»
Anna Tito


Analizziamo il voto con Marie-Anne Matard-Bonucci attualmente docente di storia contemporanea all'Università di Grenoble II e studiosa in particolare dell'Italia.

Queste elezioni legislative sono state percepite come una «conferma» di Sarkozy ? Tutti sono stati poco impegnati in campagna elettorale?
«La mobilitazione è stata molto meno importante che per le presidenziali. È evidente che vi è stata una forma di smobilitazione per queste elezioni che va spiegata».

Perché questo minimo interesse?
«A mio avviso perché troppo vicine nel tempo alle elezioni presidenziali, ed è stato forse un errore far seguire queste legislative alle presidenziali. E vi è d'altra parte il fatto che la destra ha vinto con il 53%, il che non è poco, e questo ha demoralizzato la sinistra. L'altro elemento che va spiegato è la bipolarizzazione, assistiamo a una vittoria massiccia della destra, poiché al di fuori dell'Ump e del Partito socialista non vi sarà praticamente nulla. E questo viene favorito dal tipo di scrutinio, che è maggioritario, e per arrivare al secondo turno si deve avere 12,5% dei voti al primo turno. Ed è poco probabile che, fatta eccezione, per il Ps e l'Ump, vi saranno altri gruppi parlamentari».

Il PS sarà il primo partito d'opposizione? Sembra che abbia rinviato a dopo le elezioni legislative il dibattito sul rinnovamento. Ha portato avanti una campagna elettorale soltanto per limitare i danni.
«È così. Il partito socialista ha impostato la campagna sull'argomento "dobbiamo evitare che Sarkozy abbia tutti i poteri", si deve fare in modo da limitare i suoi poteri. Ma non si doveva partire da vittoriosi quando si poteva effettivamente immaginare che le legislative sarebbero state vinte massicciamente dalla destra. Effettivamente i dibattiti interni del Partito socialista sono rinviati a dopo le elezioni poiché già il PS ha dato l'immagine di un partito diviso».

Ci troviamo di fronte al 39,5% di astensione, contro il 16% di astensione alle presidenziali.
«Vi è sfinimento nei confronti delle elezioni certo, ma anche da parte di un elettorato di sinistra che si era mobilitato, una sorta di rassegnazione e di disfattismo».

E altre formazioni politiche rischiano di non avere eletti.
«È così. Il Partito comunista, per la prima volta dall'inizio della Quinta Repubblica, rischia di non avere un gruppo parlamentare all'Assemblea, poiché occorrono almeno venti deputati e altre forze politiche, come il Partito di François Bayrou, che aveva rappresentato un elemento molto importante nelle presidenziali, avranno pochissimi deputati, il Fronte Nazionale lo stesso. È per questo che ha vinto l'Ump».

Ci troviamo quindi davanti a una Repubblica presidenziale?
«Quello che possiamo dire sulla dinamica della campagna elettorale, che spiega i risultati di ieri della destra, è che abbiamo un presidente che non ha mai smesso di essere in campagna elettorale, fin dalla sua elezione il 6 maggio, molto abile, che ha praticato alcune confusioni in seno all'elettorato, con alcune pseudoaperture, facendo andare al governo in particolare Kouchner, e alcune personalità provenienti dalla sinistra. Sarkozy è stato abile, da questo punto di vista: per motivi elettorali ha parlato in particolare nel calo delle imposte, tasse di successione, defiscalizzazzione delle persone che hanno fatto debiti per acquistare un appartamento, misure tutte che hanno avvantaggiato una minima parte della popolazione. E poi è di un attivismo straordinario: negli organi di stampa, negli stadi in occasione delle manifestazioni sportive, nel G8 per far proclamare che a lui si doveva l'impegno americano sulla riduzione dei gas a effetto serra.

Inaugura dunque uno stile nuovo?
«Certamente. Dal punto di vista della direzione degli affari dello Stato, poiché si tratta realmente di una presidenza imperiale. Sarkozy - va detto- non è anticostituzionale, ma ha una pratica del potere onnipotente, nel senso che il governo interviene ovunque, su tutto, su cose che dovrebbe decidere il governo - secondo l'articolo 20 della Costituzione - si sostituisce al posto del Primo ministro, ha già richiamato all'ordine dei ministri che si erano espressi in maniera diversa dalla sua, e dunque nei confronti del suo governo appare come un presidente imperiale».

È anche per questo che oggi hanno votato per lui?
«Forse sì. Vi è ancora bisogno di autoritarismo e di un uomo della provvidenza».

Pubblicato il: 11.06.07
Modificato il: 11.06.07 alle ore 8.44   
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« Risposta #3 inserito:: Giugno 13, 2007, 11:12:47 pm »

PD, UN PARTITO PER LE RIFORME 

Mattino di Padova 6 giugno 2007

Vorrei provare a sfatare un luogo comune sulle recenti elezioni amministrative. Non penso che la sconfitta del centrosinistra sia da attribuire solo al governo Prodi e non penso che la sua azione sia stata così disastrosa come oggi viene dipinta. L’esecutivo si è concentrato con successo per raggiungere un obiettivo impopolare ma necessario: la riduzione del debito pubblico e il risanamento dell’economia. Per questa ragione gli enti locali e le pubbliche amministrazioni hanno subìto tagli pesanti e alcune categorie sono state penalizzate dai provvedimenti sul fisco e dalla lotta all’evasione. Del resto, se si vuole rimettere in moto l’economia del Paese, non ci sono alternative: solo il risanamento può consentire di avviare interventi per lo sviluppo. In questo modo il governo ha deluso molte aspettative e ha favorito l’astensione dal voto degli elettori di centrosinistra. La situazione è stata aggravata dalle divisioni e dalle liti continue nel centrosinistra, spesso impegnato a cercare visibilità dei singoli ministri e dei relativi partiti.

Dall’altra parte, il centrodestra si è presentato più unito e compatto rispetto a 5 anni fa e ha cavalcato in modo demagogico il voto di protesta. Sulla sicurezza, ad esempio, non è possibile sostenere che tutti i problemi nascono adesso e sono dovuti alle inefficienze e al buonismo della sinistra. E lo stesso vale per l’immigrazione, visto che è in vigore la legge Bossi-Fini, che ha peggiorato la situazione e non ha risolto i problemi.

I limiti del centrosinistra vengono da lontano e per questo hanno bisogno di riflessioni e proposte serie. Infatti il dato elettorale conferma i risultati dello scorso anno e delle precedenti tornate. Tutti sembrano dimenticarsi che il centrosinistra è minoranza da tempo. Ad esempio nel 1996 il centrosinistra ha avuto la maggioranza in Parlamento grazie alla legge elettorale, che ha permesso di eleggere molti parlamentari con poco più del 35% dei voti grazie al fatto che Lega Nord e Casa delle libertà erano separati. Sia chiaro, non intendo minimizzare, anzi credo che la situazione sia gravissima. Per questo non sono sufficienti cambiamenti nominalistici o l’introduzione di elementi di localismo.

Penso che l’unica cosa da fare sia la costruzione rapida di un nuovo partito radicato nel territorio, con un programma chiaro di riforme. Faccio alcuni esempi. Alla piccola impresa dobbiamo proporre un patto per evitare il declino e per riprendere la crescita e lo sviluppo equilibrato. La politica deve offrire risorse per la formazione, per gli ammortizzatori sociali in caso di ristrutturazioni aziendali, deve assicurare agevolazioni fiscali per sostenere investimenti in ricerca e innovazione, e garantire una semplificazione amministrativa e burocratica. Bisogna investire di più nella formazione e nella conoscenza. L’innalzamento dell’obbligo scolastico a 16 anni costituisce una grande opportunità per affrontare la disgregazione sociale che colpisce i giovani e le famiglie e deve rilanciare l’istruzione e la formazione tecnica e professionale. Va rovesciata la distribuzione della spesa pubblica e dell’organizzazione dello stato sociale. Servono più risorse e investimenti per le donne, per i giovani e per le famiglie che hanno figli.

 Serve anche molto coraggio, perché l’andamento demografico del Paese favorisce le generazioni più anziane, che contano sempre di più in termini quantitativi e qualitativi, visto che occupano la maggior parte delle posizioni decisionali e costituiscono un elemento importante di consenso. Ma così non c’è futuro. Pensate alla discussione ridicola e surreale che si è aperta sul cosiddetto tesoretto, le maggiori entrate del bilancio dello Stato. Da tutte le parti si sono sentite solo richieste: imprese, sindacati, categorie economiche, come al solito tutti chiedono e nessuno pensa agli interessi generali, al fatto, per esempio, che si potrebbe decidere, come hanno fatto altri Paesi, con l’accordo di tutti, di ridurre il debito pubblico per pagare meno interessi ed avere così più risorse disponibili in futuro.

La costruzione del Partito democratico può diventare l’occasione per allacciare relazioni e rapporti con settori della società veneta che oggi ci percepiscono distanti e rivolgono l’attenzione verso il centrodestra o si rifugiano nel qualunquismo e nell’antipolitica. Per avviare questo lavoro è necessario un atteggiamento di umiltà, di apertura e disponibilità, bisogna avere il coraggio di mettersi in discussione.

Se vogliamo coinvolgere altre persone, avvicinare cittadine e cittadini al nuovo partito, non dobbiamo dettare condizioni, porre steccati. Altrimenti rischiamo di ripetere i fallimenti degli ultimi anni. Penso infatti che dobbiamo smetterla di avere la pretesa di spiegare agli altri come vanno le cose, di rivolgerci alla società come se noi avessimo la ricetta per tutti i problemi. Questo mi sembra l’unico modo per provare a convincere settori sociali e categorie che da troppo tempo guardano a destra.

Alessandro Naccarato segretario regionale Ds

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« Risposta #4 inserito:: Giugno 24, 2007, 11:02:07 pm »

Pd, costituente a tre incognite

Stefano Ceccanti


Nessuna fase costituente può essere vissuta senza alcune certezze minime e senza una gestione accorta delle incognite che ci si presentano davanti.

Per il Partito Democratico la prima certezza sembra stare a questo punto, tranne sorprese sempre possibili da qui a mercoledì, nella legittimazione diretta di Walter Veltroni, ossia di colui che agli occhi di tutti meglio si identificherebbe con la causa del Pd.

Veltroni trasmetterebbe infatti in modo del tutto immediato l’idea che non si tratta di «contaminare» oggi delle culture politiche che sarebbero rimaste intatte fino a ieri nel loro splendido isolamento, ma che ciascuno di noi è già oggi un «meticcio», si è confrontato con persone, realtà collettive di matrice diversa per far fronte a domande che non avevano risposte nelle appartenenze precedenti. Questa prima certezza, pur relativa fino a mercoledì, sarebbe anche una prima novità che il Pd inserirebbe: di solito nella vita politica italiana quando si prendeva una strada si sceglieva poi per attuarla qualcuno che vi si era opposto o che non l’aveva sostenuta in modo netto, in modo da diluire e sopire i contrasti. Non si tratterebbe quindi una larga convergenza che deriva da spinte di vertice, ma di una sorta di convergenza naturale imposta dagli elettori del Pd alla propria classe dirigente.

Una seconda certezza, più stabilizzata, sta nel carattere federale del nuovo partito, dato che il 14 ottobre saremo chiamati anche ad eleggere, oltre al segretario e all’Assemblea Costituente nazionale, che darà il quadro dei principi per i vari livelli, Assemblee costituenti e segretari regionali che avranno così una larga di autonomia. Ciò consentirà su quei livelli, su cui non vi è di solito una candidatura naturale analoga a quella di Veltroni, un’effettiva competizione anche tra candidature alternative alla segreteria. Una prima incognita deriva direttamente dal combinato disposto delle due certezze: il Pd sarà in grado di proporre per l’organizzazione dello Stato regole analoghe a quelle che sceglie per sé e quindi la scelta di elezioni dirette col principio maggioritario e quella di un federalismo che vede le diversità come una risorsa per l’unità? A ciò si potrebbe aggiungere la scelta per liste plurinominali corte, i cui candidati troveremo stampati sulla scheda il 14 ottobre, sfuggendo all’alternativa tra le liste bloccate lunghe con candidati invisibili del Porcellum e il corruttore sistema delle preferenze, che trasforma la competizione tra idee in guerra di micro-personalismi.

Anche qui è in gioco la credibilità del Pd, che non può essere un pacifico e continuistico compimento della storia dei partiti della prima fase della Repubblica. La convergenza su una candidatura largamente unitaria è credibile solo se non ci sono ambiguità tra questi contenuti, se le resistenze culturali che rimpiangono il centralismo, il proporzionalismo, le preferenze e che scindono in modo schizofrenico la scelta delle idee da quella delle persone che debbono attuarle vengono spinte a dichiararsi come tali, con propri candidati alternativi a Veltroni, che certo non potrebbe assumere quei contenuti. La seconda incognita è più specificamente relativa alle liste che accompagneranno la probabile candidatura Veltroni: in questo contesto una lista unica è impensabile e un certo grado di competizione tra proposte e quindi anche tra liste, purché compatibili con la proposta del candidato, è positiva.

Ad esempio potrebbe esservi una lista di coloro che sottolineano maggiormente la necessità di una riforma elettorale e costituzionale per chiudere la transizione e che magari sono impegnati nel referendum perché senza di esso la prospettiva è molto meno credibile, può esservene un’altra di coloro che sono più impegnati sul versante della modernizzazione economica e così via. Al di là di alcuni vincoli giuridici anti-frammentazione che sono necessari, dato che di tutto abbiamo bisogno tranne che di un partito balcanizzato con tante correnti quanti i partiti dell’Unione, è importante capire quale dovrebbe essere la migliore logica di competizione.

Se è vero, anche con la probabile scelta di Veltroni, che costruiamo il Pd perché nessuna tradizione è autosufficiente, non dobbiamo perseguire una strada di distinzione lungo la linea divisoria dei partiti di origine, sia nella versione Ds contro Margherita sia in quella più frammentata di tante liste di singole personalità diessine contro liste di singole personalità della Margherita. Per lo stesso motivo sarebbe del tutto contraddittorio unificare intorno a quel candidato segretario delle liste su base ideologica (la ricomposizione dei cattolici di Margherita e Ds magari contro una lista di «laici» di Ds e Margherita). Sarebbero tutte modalità per far ritornare dalla finestra l’idea di federazione che è stata cacciata dalla porta, prima con la decisione costituente e poi con la convergenza su Veltroni. Anche in questo caso, se posizioni di questo tipo esistono, è bene che emergano con candidati diversi alla segreteria che impersonino chiaramente e coerentemente questa linea alternativa. Invece nei due esempi prima proposti, modernizzatori istituzionali ed economici, le appartenenze e le culture si incontrerebbero e la scelta sarebbe solo quella di una gerarchia tra le priorità enunciate dal candidato.

Vi è poi una terza incognita che va al di là dello stesso Pd e che qui può essere solo enunciata: questo grande rilancio di innovazione scelto per il 14 ottobre deve anche coinvolgere con un nuovo slancio coordinato anche l’azione di Governo perché entrambi i livelli sono decisivi per creare un nuovo rapporto di fiducia col Paese. Il Pd sarà giudicato anche per quello che il Governo riuscirà a fare. Costruire un nuovo partito dal Governo è un’impresa particolarmente delicata e temeraria, è come dover riparare la nave mentre si è in viaggio, senza poterla portare in porto. Ma qui è la nostra responsabilità ineludibile, prima e dopo il 14 ottobre.

Pubblicato il: 24.06.07
Modificato il: 24.06.07 alle ore 8.15   
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« Risposta #5 inserito:: Luglio 26, 2007, 11:32:46 pm »

Partito democratico, Letta: «Le primarie sono un'occasione»



Il sito web di Enrico Letta «Mi è venuta l'idea durante una notte insonne. Sul piano personale ho deciso di farlo perché nella vita devi rimettere in circolo i talenti che hai ricevuto. Sul piano politico, stiamo costruendo un partito per durare decenni, non per restare uniti nelle prossime tre settimane. Il Pd è l'approdo finale di una lunga transizione: per questo le primarie sono un'occasione straordinaria».
Così Enrico Letta, sottosegretario alla presidenza del Consiglio e candidato alle primarie per la leadership del Partito Democratico, ha spiegato i motivi che lo hanno indotto a "scendere in campo" in vista del 14 ottobre.

«Chi dice - prosegue - che basta un candidato unico vede i partiti come una cosa statica, con le loro truppe che non si devono dividere, con i confini già definiti. Non è così: c'è una società piena di risorse e competenze. Le primarie saranno un volano».

Parlando della decisione di Pierluigi Bersani di rinunciare alla corsa per la guida del Pd, Letta spiega: «Rispetto le decisioni di tutti, e in particolare delle persone che stimo di più» («Tra me e Veltroni non c'è una distanza politica tale da giustificare una mia candidatura», sono state le parole di Bersani).

«Cosa penso io è implicito nella scelta che ho fatto: rischio in prima persona», sottolinea Letta, «ci metto la faccia. Potevo benissimo accodarmi» e invece «spero di essere un canale che fa entrare nel Pd gente nuova. E poi, il Pd ha un grande obiettivo di sistema: rompere lo schema del partito personale, il berlusconismo che si è insinuato ovunque, a destra, al centro, a sinistra, una malattia politica che il Pd deve estirpare».

Pubblicato il: 26.07.07
Modificato il: 26.07.07 alle ore 19.53   
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« Risposta #6 inserito:: Luglio 26, 2007, 11:35:05 pm »

Furio Colombo: «Le regole del Pd sembrano fatte per Harry Potter»


«Entri nella botola, poi apri una porta segreta, poi affronti un gigante... le regole per i candidati segretari del Partito democratico sembrano le prove che deve affrontare Harry Potter».

Così il senatore Furio Colombo, uno dei candidati alla segreteria del Pd, intervenendo al convegno "E se tornasse l'asinello?" organizzato giovedì a Roma da Willer Bordon e Roberto Manzione, ha parlato del meccanismo messo in moto per le primarie del Pd.

«Sono regole stravaganti - ha detto Colombo - non so quanto si possano definire democratiche». 

Pubblicato il: 26.07.07
Modificato il: 26.07.07 alle ore 19.34   
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 04, 2007, 09:49:13 pm »

Pier Luigi Bersani: «Nel Pd troppi verticismi»

Simone Collini


È preoccupato Pier Luigi Bersani. Guarda al modo in cui si sta lavorando alla fase costituente del Partito democratico e scuote la testa: «Vedo tre rischi, di cui uno molto serio e forse anche mortale se non si pone rimedio». Il ministro diessino per lo Sviluppo economico vede la possibile «sottorappresentazione» di una sinistra che definisce «popolare e di governo», vede il rischio che il «carattere federale» del nuovo partito sia trattato come fatto «burocratico anziché politico» quando è chiaro che «un assetto federale non può essere attraversato senza eccezione alcuna da meccanismi nazionali e verticalizzati nella composizione delle liste e nella scelta delle candidature»: «A livello regionale si deve consentire una certa autonomia nelle decisioni, ci deve essere un margine alla fedeltà sia alle regole che ai candidati e ci possono essere formule anche diverse da regione a regione». Ma soprattutto, Bersani guarda con preoccupazione al «rischio di sovrapporre una fase, che deve essere costituente, alla configurazione materiale di un assetto del partito»: «Il meccanismo trovato fin qui non deve diventare un verticismo a cascata. Abbiamo un livello nazionale, un livello regionale. Ora non vorrei che qualcuno pensasse che partendo dall´alto e scendendo giù per li rami si arrivasse a scegliere segretari e ticket fino all´ultima sezione di quartiere».

Per evitare quello che sarebbe un rischio «mortale» per il Pd, dice il ministro diessino Bersani, c´è solo un modo: «Il giorno dopo l´Assemblea costituente dobbiamo ripartire dal basso, dobbiamo mettere lo scettro in mano al popolo dei democratici».

Eppure, ministro Bersani, il Pd ha registrato una ripresa.

«Questa è la premessa ad ogni ragionamento. Le cose vanno bene, abbiamo un'attenzione larga sul processo, c'è un preludio a una partecipazione alta e anche una riscoperta della possibilità di discutere di politica che non avevamo da tempo. In fondo, anche le incursioni degli ultimi giorni, quelle di Pannella e Di Pietro che sono apparse un po' improprie perché un nuovo partito non è un autobus, testimoniano della capacità di questo progetto di suscitare attenzione».

Dopo la premessa tutta luci, arrivano le ombre?

«Arrivano i problemi, che vedo. Noi abbiamo bisogno che tutto il popolo dei democratici si senta motivato. Anzi, tutto il potenziale popolo dei democratici, che deriva sia dagli antichi partiti che dalle nuove attenzioni. Ora, per come è partita la corsa, per come sono state fatte le mosse d'avvio in termini di meccanismi di candidature e formazione delle liste, si affaccia un problema di possibile sottorappresentazione di una sinistra che definirei popolare e di governo. E questo soprattutto nei luoghi di maggior radicamento di questo popolo».

Lei punta il dito su candidature e liste: Veltroni, Bindi, Letta e, per quanto riguarda le liste che sostengono il sindaco di Roma, lista "istituzionale", lista ambiente-sapere e lista di sinistra. Dov'è il problema?

«Intanto, lei parla di lista "istituzionale"...».

Quella in cui dovrebbero candidarsi i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita, ma chi l'ha definita "lista principale" è stato contestato da chi lavora alle altre due liste.

«Perfetto, ma anche questo neologismo, giustamente virgolettato, segnala che c'è un certo problema. Dopodiché, basta far due conti e si capisce che così andando le cose può esserci un rischio di spaesamento di una parte importante di questo popolo di sinistra».

Il suo sembra un ragionamento che guarda più al passato che al futuro.

«Non è così, prescinde totalmente da idee di fazione o di partiti che non ci sono più. Lo stesso ragionamento varrebbe se ci fossero altre fette di popolo spaesate. E io vorrei che di questo primo problema se ne sia consapevoli tutti quanti, a cominciare da chi lavora sulle liste cosiddette "istituzionali", da chi lavora ad altre liste e anche dagli altri contendenti. Il discorso, che pongo semplicemente alla sensibilità politica di tutti anche se per come è il meccanismo riguarda fattori quasi matematici, riguarda il Pd. E io dico attenzione, c'è una radice molto forte, popolare di sinistra, che deve essere tenuta in conto. Quando sostengo che la parola sinistra non deve essere lasciata incustodita alludo naturalmente ai programmi, alla forma partito, ma alludo anche alle radici».

Diceva "questo primo problema". Vuole dire che non è l'unico con cui ha a che fare il Pd?

«Purtroppo non è l'unico, perché noi abbiamo sempre detto che il Pd dovrà essere un partito a base federale e abbiamo deciso di trattare i livelli regionali come quelli nazionali. Bene, ma adesso che si sta lavorando alle liste questa caratteristica deve avere anche un contenuto politico. Sarebbe cioè curioso che un assetto federale fosse attraversato senza eccezione alcuna da meccanismi di candidatura e di composizione delle liste che fossero nazionali e verticalizzati. Noi dobbiamo invece darci un po' di flessibilità politica».

Che cosa significa?

«Che ci deve essere un margine perché nei livelli regionali la fedeltà alle regole, ai candidati, possa avere anche delle correzioni, delle formule anche diverse. E questo perché abbiamo bisogno di incrociare territorio per territorio anche particolari conformazioni politiche e sociali. In concreto questo vuol dire che dobbiamo essere tutti quanti disponibili, a cominciare dai candidati, a consentire che i meccanismi di elezione dei segretari regionali e di composizione delle liste regionali possano avere anche un carattere di autonomia politica. Non è obbligatorio che in tutte le regioni, siccome si sono candidati Veltroni, Bindi e Letta, ci debbano essere i candidati segretari regionali di Veltroni, Bindi e Letta. Si vedrà sul territorio, senza chiedere a ciascun candidato fedeltà eccessive. Il federalismo è un fatto politico, non burocratico, non riguarda le regole. Altrimenti, diciamolo, abbiamo scherzato».

Eppure già si parla di organigrammi pronti, di segretari regionali già decisi: avete scherzato, ministro?

«Non è così. E però c'è un terzo problema, che per me è dirimente e può essere anche mortale per il Pd. È il rischio di sovrapporre una fase che comunque deve essere costituente alla configurazione materiale di un assetto del partito. Cioè noi facciamo l'Assemblea costituente per progettare il Pd, non possiamo arrivare a ottobre avendo allestito un partito senza aver discusso come farlo».

Dove dice che è stato commesso l´errore?

«Fin qui si è seguito un meccanismo che potrebbe portare ad un verticismo a cascata. In questo si rischia la sovrapposizione di cui parlo. Abbiamo cioè deciso come deve essere il livello nazionale e quello regionale. Bene, si doveva pur partire. Ma adesso temo, e se temo è perché ne ho qualche segnale, che qualcuno stia pensando, forse che tanti stiano pensando, che noi si possa andare avanti a cascata così, cioè che sempre partendo dall'alto, con meccanismi di candidature o di ticket, arriviamo dal nazionale al regionale al provinciale all'ultima sezione di quartiere. Io non sono d'accordo».

La soluzione per evitare un simile scenario?

«È assolutamente necessario che il giorno dopo l'Assemblea costituente si riparta dal basso. Il che vuol dire: si sceglie la platea, che può essere sia quella dei votanti del 14 ottobre che una più ampia, la si suddivide per comuni, per circoscrizioni, per quello che si vuole, e si convocano le unità di base».

Dopodiché?

«Attraverso discussioni politiche, di documenti, le unità di base eleggono i loro segretari e formano la platea per il livello provinciale. Cioè, in sostanza, parte una fase congressuale almeno fino al livello provinciale. È chiaro che questo processo potrà farsi solo dopo ottobre, però sarà meglio cominciare a discuterne, perché qui sta passando poco a poco l'idea che noi stiamo facendo non l'Assemblea costituente ma un partito così. E non va bene. Dobbiamo ripartire dalla base, dobbiamo dare lo scettro al nostro popolo».

Insomma dopo ottobre si apre il congresso del Partito democratico?

«Non pretendo tanto, però dico: attenzione ad un rischio di deriva che sta prendendo piede nel senso comune, per cui il meccanismo adottato fin qui lo trasferiamo tranquillamente giù per li rami fino a ogni singola sezione, dove qualcuno si presenta come candidato, gli altri votano e poi arrivederci e grazie. Una cosa del genere non può esistere. Se gli altri due problemi che vedo possono avere dei correttivi politici che in parte si possono ovviare, questo terzo rischio sarebbe strutturale».

L'Assemblea costituente è chiamata a votare lo Statuto e quindi affronterà anche queste questioni, non crede?

«Bene, appunto per questo bisogna cominciare a discuterne. E se lo dico fin d'ora è perché vedo veramente molta preoccupazione in giro. Se vuoi davvero la partecipazione non puoi chiamare i cittadini solo a scegliere tra due persone quando si tratterà di eleggere i segretari delle unità di base. Ognuno vuole sapere se quello che si candida sta parlando di una cosa che si chiama sinistra, sta parlando di una cosa che si chiama nuovo conio o altro. Si dice che facciamo un partito della società civile, molto partecipato. Bene. Ma facciamo un partito politico, dove la partecipazione è essa stessa formazione alla politica. E quindi prima di eleggere questo o quello, visto che sento già parlare di mezzi ticket per fare i segretari di federazione prossimi venturi, apriamo delle discussioni politiche dal basso e cominciamo a dire che cambieremo registro perché la gente non ha solo la mano da alzare ma anche la testa con cui pensare».

Sempre convinto di aver fatto la cosa migliore a non candidarsi a segretario del Pd?

«Cosa fatta capo ha. Ora guardiamo avanti».

Lei si candiderà nella lista cosiddetta "istituzionale"?

«Non ci crederà ma non ci ho ancora pensato. Sostengo Veltroni, con le mie idee come si vede, però con assoluta lealtà e convinzione. Ne parlerò con lui. Sono a sua disposizione, in questo senso».

Pubblicato il: 04.08.07
Modificato il: 04.08.07 alle ore 13.07   
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« Risposta #8 inserito:: Agosto 05, 2007, 10:18:01 pm »

Un rischio per Pd: il "vizio" del verticismo

Luca Sebastiani


Su un punto si dicono tutti d'accordo: il Partito democratico dovrà nascere dal basso ed essere federalista, altrimenti non sarà. Ma è in questa direzione che si sta avviando il processo fondativo del nuovo soggetto? Sulla risposta a questa domanda e la costatazione della realtà effettiva si apre invece il fronte del dissenso e s'innestano le polemiche che in questi giorni estivi stanno attraversando il dibattito intorno alle liste regionali del Pd.

Da giorni, infatti, circolano voci di accordi a tavolino tra i gruppi dirigenti dei Democratici di sinistra e Margherita, voci che parlano di trattative oggetto delle quali sarebbero la spartizione delle segreterie regionali. Una ai Ds, l'altra al partito di Francesco Rutelli. Voci talmente insistenti che alla fine Goffredo Bettini, braccio destro del candidato Walter Veltroni si è sentito di smentire categoricamente. Semmai, dice il senatore, sul territorio regna un vero e proprio caos, una sorta di confusione «democratica» che garantisce che la dialettica a livello territoriale sia ancora aperta. E parla di una «velenosa accusa nei confronti di Walter».

In effetti a rimetterci di più in questa polemica è proprio Veltroni. In quanto candidato designato dalle due maggiori formazioni del processo costitutivo del Pd, è lui che può apparire come il garante delle «logiche d'apparato» e che, in questa veste, è il centro degli attacchi dei suoi avversari. A determinare la situazione ci sono innanzitutto le regole. Rosy Bindi, candidata alla segreteria, non ha dubbi in proposito, del resto, rivendica, «io sono stata la prima a denunciarle». È chiaro, dice la ministra della Famiglia, che la «lista che parte con un consenso organizzato si mangia tutto». Di qui il rischio che dalle pagine dell'Unità individuava anche il ministro dello Sviluppo economico Pier Luigi Bersani, che cioè ci sia una verticalizzazione a cascata sulle liste regionali, che i territori che dovevano mantenere una loro autonomia federalista siano invece prigionieri di scelte dall'alto.

Bindi, anche in considerazione di «quello che succede in Toscana», è d'accordo con il giudizio del ministro e denuncia la tentazione «dell'alto» che sta determinando le scelte territoriali. Ma resta combattiva, del resto, dice, uno dei motivi per cui si è candidata è proprio per far sì che il nuovo partito sia veramente nuovo e aperto. Chi non condivide la visione verticistica imposta dalle regole è Antonello Soro della Margherita, che quelle regole ha contribuito a stendere. C'è una «soglia bassa» d'accesso alle primarie, dice, e la procedura garantisce «un processo aperto». Se poi ci siano dirigenti tentati dalle scelte verticali, quella è un'altra storia, più politica.

Su questo punto converge anche il ragionamento della Bindi che a questo punto considera il nodo squisitamente politico perchè se ormai le regole ci sono, quello che «deve cambiare è la politica». E, avverte, lei «verificherà» che la volontà politica del cambiamento si traduca in atti, da parte di tutti.

Tra gli sfidanti di Veltroni anche Enrico Letta condivide il timore di Bersani e Bindi. Il nuovo soggetto non deve «nascere dall'alto» come sta accadendo e confessa che è proprio per dare la parola al popolo dal basso, anche e soprattutto a livello regionale, che ha deciso di scendere in campo, «di metterci la faccia».

Ma insomma, qual è la situazione sul territorio? Non molto chiara a dire il vero, confusa anche per le polemiche e le accuse di questi giorni. Se infatti la Bindi denuncia una decisione dall'alto per quanto concerne la sua regione, la Toscana, vede altre realtà in cui la faccenda è più aperta e chiede che così rimanga. Di parere opposto alla ministra il diretto interessato della polemica, Andrea Manciulli, segretario regionale dei Ds e molto probabilmente prossimo candidato alla segreteria regionale toscana del Pd in ticket con l'attuale segretaria margheritina Caterina Bini. In effetti la conformazione della squadra fa pensare ad una replica del tandem nazionale Veltroni Franceschini, ma Manciulli non ci sta a passare per il candidato dell'apparato. «Io e la Bini facciamo settant'anni in due, ho la tessera dei Ds da neanche dieci anni, di quali apparati parliamo?». L'apertura effettiva, dice il diessino, la stiamo facendo praticando «il metodo partecipativo per la raccolta delle adesioni» e per la formazione di una lista aperta al territorio.



Pubblicato il: 05.08.07
Modificato il: 05.08.07 alle ore 19.55   
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« Risposta #9 inserito:: Agosto 08, 2007, 11:49:31 am »

POLITICA

Pd, dai pattini di Schettini alle dichiarazioni d'amore per Rosy le primarie sono già on line

Dalla homepage Letta guarda dritto negli occhi chi è davanti allo schermo

Clicca e scopri il candidato la sfida a sei corre sul Web

di ALESSANDRA LONGO


 ROMA - Il più schivo, al limite dell'autolesionismo, è Jacopo Gavazzoli Schettini. Il suo sito web è monacale, sfondo giallo canarino, una foto del titolare in primo piano, una pianta d'appartamento dietro. Gavazzoli Schettini sorride, il naso ammaccato. Spiega che cos'è successo, usando la terza persona, nella sezione "storia personale": "Jacopo porta ancora i segni di una caduta con i pattini mentre giocava con il figlio. Dice che è stato quel colpo alla testa a fargli venire in mente di candidarsi...". Per chi non lo ricordasse, Gavazzoli Schettini, 42 anni, una laurea in Studi Strategici, è uno dei candidati alla segreteria del Pd e anche lui, come gli altri, fa campagna on-line. Chi c'è dietro, chi lo sponsorizza? Siccome glielo chiedono in tanti, GS cerca di fare lo spiritoso, ha tre risposte pronte: "Il Priorato di Sion", "Maga Maghella" o, "più semplicemente, la voglia di voltar pagina".

Un bel viaggio nel web, comodamente, senza muoversi da casa, è un modo di conoscere gli sfidanti. C'è il sito, virato sul verde, e ipersofisticato, di Walter Veltroni (www. lanuovastagione. it), che si affida al blog e al social network, a Youtube, a Twitter e al Cannocchiale "per costruire la community". C'è quello "della Rosy", che è come lei, mosso e imprevedibile nei contenuti (Un tale, Filippo, supera la politica, passa la censura, e annuncia: "E' intelligente, furba, tenace, la sposerei, tanto sono vedovo..."). Prima pagina color arancio: www. scelgorosy. it, "per un partito democratico, davvero". E, se non basta, ci si può collegare a "iostoconrosy. it", che è il sito dei sostenitori della candidatura del ministro della Famiglia, "rigorosamente realizzato da volontari".

Mario Adinolfi gioca in casa. E' "un blogger di Generazione U" ("u come inversione a U, come Unione, come Ulivo, come Unione Europea, ma anche come gli U2"). Chi entra nella sua casa web trova il diario di Adinolfi candidato ("Ogni giorno che passa, ogni nazione che attraverso, ho la sensazione che io sia un mero strumento per una forma di ribellione concreta e collettiva") e apprende che sta lavorando molto all'estero, in Danimarca e Svezia, "tra i giovani esuli italiani". Con il tono di chi davvero ci capisce, Adinolfi loda generosamente il sito di Enrico Letta. "Il suo video - dice - è estremamente televisivo in stile broadcast. Se mi passa la battuta amichevole, il ragazzo si farà". Il ragazzo, Enrico Letta, ti guarda dallo schermo se clicchi su www. enricoletta. it. E' in maniche di camicia, informale, davanti ad un computer. Anche lui ha scelto lo sfondo giallo, ma non anemico come quello di Gavazzoli Schettini. E' un colore carico, da mare, adatto alle sette spiagge dove Letta sta proponendo "la sua idea di politica e di Italia".

Piergiorgio Gawronski, che ieri ha tenuto la sua conferenza stampa a Roma, si è scelto la classica immagine da manager. E' al telefono, camicia e cravatta. Forse chiede aiuto e sostegno, visto che, alle 18 di ieri, i messaggi on-line sui suoi "forum interattivi" erano solo tre, di cui uno di Daniele Capezzone. Ben diversa , comprensibilmente, la situazione nella casa web di Veltroni. Nei soli primi due giorni i visitatori sono stati 15 mila, ricordano soddisfatti quelli del Comitato per Walter. Navighi e leggi gli sfoghi, i sogni, le paure, le idee, dei militanti. Più che con altre parole c'è chi vorrebbe riassumere il nascente partito democratico in volti da murales: "La faccia precaria di un ragazzo di un call center, quella degli operai dell'Italsider o dell'imprenditore antiracket cui hanno bruciato il capannone... ma anche la faccia di Enrico Berlinguer, non perché fosse comunista ma perché si fermava ai semafori". Comunicano on-line, sono tutti blogger, come Marco: "Ognuno di noi saprà trovare i suoi canali per farle sapere, caro Veltroni, come vorremmo vedere il nostro Paese tra 10 anni e come vorremmo lasciarlo ai nostri figli". Pieni di dubbi come Lulu: "Per ora discordo da quanto detto fin adesso" (sic). Tecnologici e vagamente inquietanti nel linguaggio come Nardo: "Vorrei un partito open source, un partito wiki, dove si tenga in conto la voce dei Prosumer, cioè quelli che consumano la politica". Gradita traduzione per i compagni delle sezioni.

(8 agosto 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #10 inserito:: Agosto 08, 2007, 08:02:53 pm »

Pd, troppo chiasso sulle regole

Stefano Ceccanti


Il 14 ottobre siamo chiamati a votare per i delegati alle Assemblee Costituenti regionali e nazionale del Pd nonché dei rispettivi segretari. A loro volta quegli organismi saranno chiamati ad approvare i relativi statuti, la versione definitiva del Manifesto ed eserciteranno funzioni di indirizzo politico. I candidati segretari, se intendono agire per ampliare la partecipazione e per esercitare le loro responsabilità con un chiaro mandato politico, dovrebbero attenersi a quell’ordine del giorno. Vedo invece qualche tentazione di concentrarsi sulla recriminazione contro le regole vigenti e che, peraltro, a partita iniziata non sono ovviamente modificabili. Polemizzare sulle regole è facile, ma significa andare fuori tema, rischia solo di deprimere la partecipazione e non è comunque rispondente a dati obiettivi: non già perché le regole siano perfette o indiscutibili (in questi giorni il Papa ha modificato quelle del conclave, figurarsi a dogmatizzare quelle per le nostre assemblee), ma perché esse si sono costruite su un ampio consenso, in cui ciascuno ha riconosciuto le ragioni dell’altro. Il comitato dei 45 le ha infatti approvate nella votazione finale senza voti contrari e con una sola astensione, dopo vari emendamenti su opzioni alternative, che, volta a volta, hanno visto finire in minoranza esponenti diversi, compreso in vari casi lo stesso Veltroni. Non è quindi la legge Calderoli che ci è stata imposta e contro cui è stato giusto protestare anche col referendum. Queste regole ce le siamo date tutti noi del Pd, quasi all’unanimità, non solo le regole di Veltroni. Di conseguenza la polemica retrospettiva sul regolamento non ha in linea generale fondamento. Non ce l’ha neanche su due punti specifici che sono stati sollevati in questi giorni sui giornali.

Il primo è semplicemente sbagliato: non è vero che si sia cercato di ridurre l’elettorato attivo dando una definizione di «iscritti» ai partecipanti, dando loro l’impressione di inquadramento. Votano tutti coloro che dichiarano di voler partecipare al processo costituente: solo così si caratterizzano nel testo del regolamento-quadro. La seconda critica è quella di aver presupposto una candidatura unica alla segreteria nazionale. Al momento questa affermazione risulta già smentita dal fatto che i candidati in corso sono sei, di cui tre senza una grande notorietà nazionale che sono comunque riusciti a raccogliere le firme. Ma questa tesi è smentita anche dalla genesi del regolamento, che in origine aveva previsto solo il più ampio pluralismo per la presentazione di liste a livello di base (i 475 collegi della Camera) con 100 firme per collegio e su cui, solo in seguito, si è sovrapposta l’elezione del segretario in collegamento con quelle liste. La logica del collegamento è bidirezionale: in alcuni casi sono i candidati segretari a sollecitare la nascita di liste di collegio; in altri casi, invece, ci sono realtà di base già organizzate che stanno scegliendo il candidato segretario ritenuto più vicino. In entrambi i casi vi è la responsabilità di aprire al massimo il processo costituente, al di là di coloro che sono tradizionalmente impegnati nella vita dei partiti. Quindi, di per sé, una candidatura risponde a un consenso diffuso, ancorché minoritario, essa non deve creare dal niente una rete organizzativa, ma deve far spazio a realtà già organizzate per proprio conto.

Infine non vedo perché tirare in ballo l’indirizzario delle primarie dell’Unione se non per ribadire che nessun candidato dell’Ulivo può legittimamente utilizzarlo. L’Unione è più ampia dell’Ulivo e senza un accordo unanime di tutti i partiti che la compongono, nessuna parte, neanche la più grande, può utilizzarlo.

Torniamo quindi al vero ordine del giorno del 14 ottobre: regole e contenuti per il futuro, legame tra liste e candidati segretari in una logica di innovazione. Tutti coloro che hanno qualcosa da dire ne saranno avvantaggiati e i potenziali elettori avranno argomenti per capire e per mobilitarsi in positivo.

Pubblicato il: 08.08.07
Modificato il: 08.08.07 alle ore 9.47   
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« Risposta #11 inserito:: Agosto 11, 2007, 08:45:53 pm »

Il segretario metropolitano della Quercia propone il capoluogo come sede della kermesse del 2008

"A Firenze la prima festa del Pd"

Marzio Fatucchi


Barducci lancia l´idea a Fassino, e lui: "Ne parlo con Walter"

Dentro e fuori la Fortezza, oppure l´ipotesi Osman-noro  Il Partito democratico punta a Firenze per la sua prima festa nazionale, nel 2008. La candidatura del capoluogo toscano come sede per la prima kermesse del Pd è già stata avanzata dal segretario metropolitano della Quercia, Andrea Barducci, al segretario nazionale Piero Fassino. Una proposta che ha trovato pubblicamente il consenso anche del segretario della Margherita fiorentina, Giacomo Billi. Ed ora la palla passa nelle mani di Walter Veltroni, candidato a guidare il Pd che verrà. «Ne parlerò con Walter» ha assicurato infatti Fassino a Barducci.

Tutto questo è avvenuto lo scorso due agosto alla Fortezza da Basso. Prima del dibattito pubblico organizzato dalla Quercia alla Festa dell´Unità, Barducci ha lanciato l´idea di tenere a Firenze il primo raduno del Pd nazionale, chiedendo a Fassino di sostenerla. E prima Barducci e poi Billi hanno ripetuto questa idea dal palco, ricevendo l´applauso da parte dei militanti e dei volontari che stanno gestendo l´ultima Festa dell´Unità in versione Ds di Firenze.
Una «prima» che ha un valore altamente simbolico, dopo che proprio qui a Firenze i Ds, con l´ultimo congresso, hanno scelto di lanciare la sfida del nuovo partito. «Certo, abbiamo avanzato questa proposta a Fassino» conferma Barducci.

La candidatura del capoluogo ha dalla sua le capacità acquisite con le ultime edizioni della Festa del partito. A partire dalla location. Una delle ipotesi di lavoro dello staff di Barducci è che, dopo l´idea di dover abbandonare la Fortezza per i problemi di gestione nati con i nuovi e più pesanti vincoli posti dalla sovrintendenza per l´ultima edizione della Festa dell´Unità, lo spazio per la Festa del Pd si potrebbe sdoppiare, anzi triplicare: dentro la Fortezza gli eventi culturali e ricreativi; fuori, in piazza bambini e bambine di Beslan, stand ed altre iniziative; al Palacongressi ed al Palaffari tutto il programma politico ed altro ancora.

Barducci tiene la bocca cucita sulla sede: «Aspettiamo la decisione, a settembre, se decideranno per Firenze o meno» dice il segretario della Quercia. Tra le altre ipotesi prese in considerazione, c´è quella di usare l´area dell´Osmannoro "inventata" come sede di Italia Wave. Ma mentre questa avrebbe un carattere più "popolare", con una installazione molto simile a quella delle tradizionali feste di partito dei Ds, l´area congressuale intorno a piazza Bambini di Beslan potrebbe rappresentare una novità ed avere un appeal più consono al nuovo Partito democratico.

Il peso specifico dei partiti storici che confluiscono nel Pd. La capacità organizzativa. Un "humus" politico favorevole. Questi i punti di forza della candidatura di Firenze. Ma la vera incognita è la scelta politica: la presenza di una Festa nazionale del Pd è anche un forte segnale verso il territorio dove si tiene, e dopo che si è aperta la "questione settentrionale" per il governo dell´Unione, lanciare la sfida in una grande città del Nord (come Milano o nel Veneto) avrebbe un peso specifico importante per la scelta della sede. «Sarebbe una scelta comprensibile, anche condivisibile: certo, se ci dispiacerebbe» dice Barducci.

(10 agosto 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #12 inserito:: Agosto 14, 2007, 10:15:44 pm »

Emiliano: «Le tensioni nel Pd? La fusione è caldissima»

Enrico Fierro


Michele emiliano si candida a leader del Pd pugliese. E lo fa a modo suo, mettendo in campo quel misto di passione, irruenza, ma anche sano realismo, che è il segreto del suo successo in politica. Una formula sperimentata nel 2004, quando - smentendo tutti i sondaggi - stravinse alle comunali di Bari. Anche a dispetto dei partiti che lo sostenevano, troppo forti per accettare un outsider come lui, troppo deboli per dirgli di no.

Sindaco, anche adesso è successa la stessa cosa? Ds e Margherita hanno dovuto accettare di mala voglia la sua candidatura?
«Ma no, come al solito, insieme ad adesioni convinte, ci sono resistenze. Mi dispiace che una parte della Margherita sia contraria. Affronteremo anche questo problema, puntando sulla partecipazione di militanti, fette della società civile e singole persone interessate alla costruzione di questo partito».

Strada in salita, quindi?
«A me piace la gara. Ed è proprio lo scatenamento di queste tensioni, delle paure di apparati che si sentono messi in discussione, a determinare una energia creativa utilissima al Pd. Senza questi momenti avrebbe avuto ragione chi criticava il nuovo progetto bollandolo come l’assemblaggio di vecchi partiti e di apparati ormai bolliti. La fusione è calda, caldissima».

Perché un magistrato in prima linea come lei, poi passato ad amministrare una città difficile come Bari, decide di prendere le redini di un partito complicato come il Pd? Non dia una risposta in politichese...
«Nel 2004 promisi che avrei cambiato la politica. Da solo non ci sono riuscito. Mi ero impegnato per cancellare la vergogna delle lottizzazioni che mortificano i talenti. Ci sono riuscito solo in parte. Avevo giurato che l’affarismo sarebbe stato bandito dall’esercizio politico. Mi accorgo che c’è ancora tanto lavoro da fare. Come vede, i motivi per rimettersi in gioco e costruire una cosa nuova ci sono, sono tanti».

Bene, non negherà che ci sono due rischi: la resistenza dei vecchi apparati e la possibilità che una parte della vecchia nomenklatura la stringa in un consenso che può strozzarla.
«Rischi che ho ben presenti nella mia azione, certo, gli apparati resisteranno, altri faranno i furbi, la formula per evitare tutto ciò sta in una ampia partecipazione alle primarie, alla stesura del programma del nuovo partito e alla sua vita democratica. Se tanta gente entrerà nelle nostre sedi e si approprierà del partito faremo cose grandi. Altrimenti...

Vinceranno, anche in Puglia, i soliti noti detentori di grandi e piccole fette di potere...
«Può essere, ma sono fiducioso.Non accadrà mai più che i risultati dei congressi siano decisi a tavolino. Non si potrà scrivere un programma o mutarlo senza decisioni collettive. Non accadrà più che uomini e donne nuovi siano rifiutati solo per la paura di alterare equilibri».

Un bel festival delle illusioni.
«Altro che illusioni, si critica tanto il metodo scelto per le primarie, e le critiche in buona parte sono giustificate, ma senza queste regole la mia candidatura non sarebbe stata possibile. Nessuno avrebbe potuto candidarmi, nessuno avrebbe potuto votarmi. Tutto sarebbe avvenuto in un congresso al quale non avrei potuto partecipare. Ecco perché dico che il Pd è una occasione unica nel suo genere per rinnovare la politica in un momento in cui la sua crisi di credibilità è sotto gli occhi di tutti».

Nichi Vendola come prenderà questa sua candidatura?
«Credo bene, io e Nichi siamo amici da una vita. Gli voglio bene e non dimentico che è stato il primo a credere alla mia candidatura e il maggiore artefice della mia elezione a sindaco. Nichi è un patrimonio per la Puglia».

Lo vorrebbe accanto a sé nel Pd?
«Certo, ma ho troppo rispetto per le sue idee e non ho titoli per interloquire su una storia politica fatta di un impegno personale trentennale. Ma un pizzico di amarezza lo voglio esprimere: Nichi è un uomo moderno, un intellettuale sempre alla ricerca di qualcosa, forse troppo moderno per stare dove sta».

Pubblicato il: 14.08.07
Modificato il: 14.08.07 alle ore 9.54   
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 21, 2007, 12:20:56 pm »

I cantautori divisi Con Venditti o De Gregori: le correnti alle primarie dello spettacolo

Milva: voto Rosy.

Proietti: teniamoci quello «bono» di Roma.

E spunta la «terza via»: ma ne avevamo bisogno?

 
ROMA — Francesco De Gregori vuole «un bene dell’anima a Walter Veltroni », ha confidato al Corriere. Ma «ha la smania di piacere a tutti», «dice tutto e il contrario di tutto» ed è sostenuto «dai poteri forti e consolidati che sono sempre gli stessi da decenni». E così, per le primarie del Partito democratico a ottobre, voterà Rosy Bindi. Antonello Venditti non la pensa così: «Veltroni è semplicemente educato» ed «è il miglior sindaco che Roma abbia mai avuto ».
Così ora tra gli artisti serpeggia un dubbio: ha ragione De Gregori, Venditti o nessuno dei due? Milva è con De Gregori sulla scelta della Bindi: «Ho sempre votato Pci. Veltroni è molto preparato, ma lei la voterei in quanto unica donna».

Gigi Proietti opta, con Venditti, per Veltroni e ci scherza su: «Per uno "bono" che ce danno, teniamocelo. No?». E, più serio, aggiunge: «Ho un’età tale che mi consente di affermare con certezza: ha ragione Venditti, Veltroni è il miglior sindaco di Roma». «Non so se lo sia, ma è uno che non si tira indietro — sottolinea Michele Placido —. L’ho visto in azione di persona, nelle iniziative che abbiamo fatto in periferia a Tor Bella Monaca. E poi è positiva la sua capacità di comprendere gli avversari e la sua onestà intellettuale. Più che del politico, ora abbiamo bisogno proprio del tratto umano. E poi la sua capacità di comprendere gli avversari». Al Bano concorda con De Gregori su un punto: «Il problema è passare dalle parole ai fatti. Si discute sempre di leader e mai di cosa fare per l’Italia. Di parole i politici ne hanno spese veramente tante. Promettono tutto prima delle elezioni ma poi cambiano. Meglio i buonisti che gli stronzisti, ma che lavorino invece di pensare solo a riempirsi di potere ».

Fiorella Mannoia come Venditti confida nell’onestà di Veltroni «che è già una buona partenza». Apprezza che abbia «parlato di laicità dello Stato, cosa che avevano fatto solo i radicali». E ancora di più che abbia affrontato il tema dell’amore: «È da lì che bisogna ripartire ». «La verità — soggiunge — è che ci stiamo aspettando tutti troppo da un uomo solo. Il governo ci ha deluso. E aspettiamo uno che decida. Uno Zapatero. Veltroni ha coraggio ad assumersi questa responsabilità perché è l’ultima chance». L’errore «dell’amico» De Gregori, dice, è «purtroppo lo stesso della sinistra un po’ becera: quando siamo vicini a vincere ci scanniamo tra noi». Veltroni «è l’ultima speranzina» anche per Paolo Rossi.

E se per De Gregori «la cultura è una ciliegina sulla torta» per il comico «non si può parlare solo di Pil. Ogni riforma economica va accompagnata a una rivoluzione culturale. Berlusconi, con le sue tv, l’ha fatta: Silvio Pellico per scrivere Le mie prigioni ci ha messo anni, Fabrizio Corona una settimana.
Qualcosa di quei valori l’abbiamo assorbita tutti. E ora parliamo di leader del Pd come se votassimo per il Grande Fratello. La democrazia dovrebbe essere partecipazione, ma noi siamo trasformati in spettatori se non simpatizzanti».

Renzo Arbore, «fervido ammiratore di De Gregori, dai tempi di Rimmel e Generale stavolta sta con Venditti: «Veltroni non è uno dei soliti protagonisti del teatrino della politica e inoltre il Partito democratico ha bisogno di un consenso molto ampio». Anche Margherita Buy non diserterà le primarie: «Ho firmato il manifesto che appoggia Veltroni. Perciò è chiaro: sto con Venditti ».

Ci ha visto del «malanimo» Pippo Baudo nelle parole di De Gregori: «Quell’intervista—dice—era rancorosa. Forse Veltroni gli ha fatto qualche torto. Venditti, invece, mi è sembrato sincero». «Da 29enne che vive molto la città — dice Matteo Maffucci degli Zero assoluto — vedo che Veltroni l’ha valorizzata in un modo straordinario. Ci fa sentire orgogliosi di essere romani e ha creato un senso di appartenenza che credo saprà portare anche nel Pd». Amanda Sandrelli non sa per chi voterà alle primarie: «Una persona di sinistra come me — confessa — ancora si chiede se fosse necessario che nascesse un nuovo partito». Claudio Cecchetto da un consiglio a tutti i candidati: «La smettessero tutti di metterla giù dura con quelle facce serie. Un sorriso in più farebbe bene a tutti».

Nemmeno Paola Turci si schiera. Ma apprezza in De Gregori «la capacità di aver avviato un dibattito: ben vengano anche le sue critiche se servono a far discutere». Enrico Letta, altro candidato alla leadership del partito democratico, può contare sull’appoggio di Franco Califano. Che ha già avuto modo di dichiarare: «Letta me piace». Disperando di avere un cantautore tra i suoi fan, invece, il candidato Mario Adinolfi rovescia le parti: si schiera per Angelo Branduardi, da cui ha preso come inno Si può fare, per «l’eterno Vasco di Siamo solo noi» e per «Carmen Consoli di Malarazza ».
Decisamente con De Gregori Francesco Renga. «Non perché appoggia la Bindi — spiega — ma per il grandissimo coraggio che ha avuto: Veltroni è suo amico. Non sono sorpreso, lui è sempre stato coerente e, anzi, fa bene a non dare per scontata la vittoria di Veltroni. E poi bisogna avere il coraggio di prendere posizione e anche di farsi dei nemici perché il Pd non sia ciò che c’è ora, solo con un nome nuovo». Gene Gnocchi non riesce a decidersi: «Sono troppo angosciato. Mi sento appeso, come tutta l’Italia, a un dubbio. Mi chiedo: "ma con chi si schiererà Cristina D’Avena?"».

Mariolina Iossa
Virginia Piccolillo
21 agosto 2007
 
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« Risposta #14 inserito:: Agosto 22, 2007, 10:41:53 pm »

Pd, tre consigli per un milione

Stefano Ceccanti


A distanza di due anni dalle primarie dell’Unione del 2005 e a poche settimane dal 14 ottobre, possiamo tentare di cogliere le differenze di questi due passaggi chiave del centrosinistra italiano. La giornata del 2005 è incomparabile dal punto di vista quantitativo e non solo perché si rivolgeva alla platea più ampia di tutti gli elettori dell’Unione. Le motivazioni di voto furono allora eterogenee: c’erano quelle contrarie al governo Berlusconi e in particolare anche alla nuova legge elettorale appena approvata, ma c’erano anche quelle positive, che puntavano a stabilizzare una coalizione eterogenea rafforzando la persona di Romano Prodi. C’era infine il metodo nuovo, una breccia preziosa nella logica con cui i partiti avevano gelosamente preso le decisioni più importanti fino ad allora al proprio interno o con patti di vertice.

Il Pd, che oggi possiamo considerare già al governo, non può, anche per questa sua collocazione, sperare che funzionino ancora motivazioni negative, anti-Berlusconi. Nasce però allargando quella breccia aperta allora e per sostituire la garanzia data in quel caso dalla persona di Romano Prodi con una più solida, con un partito chiamato a supportare stabilmente il centrosinistra con una moderna cultura di governo.

Chiarita questa cornice di forti differenze e di alcune continuità col 2005, che rende, come hanno sottolineato vari osservatori, il milione di votanti il parametro più corretto per il successo del 14 ottobre, non spetta certo a me dare suggerimenti molto dettagliati e pratico-organizzativi. Fra l’altro il sito www.partitodemocratico.it pubblica già molto materiale ben fatto e socializzabile. Mi limito pertanto a tre sottolineature.

La prima, che occorre trasmettere meglio l’idea che non si chiede a nessuno di inquadrarsi rigidamente, militarmente, come nei vecchi partiti ideologici. Il 14 ottobre si dà il massimo di democrazia governante (elezione diretta di segretari e assemblee costituenti) a tutti coloro che, dai sedici anni in su, se la sentono di aderire a un testo costituente e che si riservano poi di valutarne in libertà gli esiti successivi. Questo lo chiarisce già il regolamento, ma deve essere veicolato con chiarezza: massimo di libertà e massimo di efficacia diretta della partecipazione.

Secondo: proprio perché il processo costituente è aperto, nei limiti della condivisione dei principi e dei valori di un moderno centrosinistra, non ci possono essere tabù su nessuna opzione programmatica e organizzativa né, nel contempo, ci possono essere persone che ricorrono a demonizzazioni delle opinioni altrui o a perentori richiami all’ordine. Sulle proposte si ha l’onere di cercare il consenso più ampio in positivo, nello stile di condivisione di chi ha deciso di militare non solo in una stessa coalizione, ma anche in un medesimo partito. Nessuno è proprietario o custode, tutti devono sentirsi in competizione senza rete.

Questa osservazione si lega anche a un terzo aspetto, quello della natura federale del partito, che sarà affermata il 14 ottobre dall’elezione dei segretari regionali e da quella delle assemblee costituenti regionali, queste ultime all’interno dei 475 collegi della legge Mattarella, utilizzati anche per l’Assemblea nazionale. Come ha già rilevato Miriam Mafai è più facile che la correttezza tra i candidati si affermi tra quelli alla carica di segretario nazionale (che debbono comunque dare l’esempio) perché essi sono maggiormente sotto i riflettori e una eccessiva litigiosità farebbe dubitare della loro consistenza programmatica. Quando invece ci si avvicina maggiormente alla base, e la visibilità complessiva è quindi minore, il rischio di colpi bassi cresce a dismisura.

Se queste dinamiche non sono attentamente dominate, la partecipazione può calare vistosamente. Infatti il potenziale elettore riceve stimoli a recarsi al seggio non solo dalla campagna nazionale, ma anche e soprattutto da chi localmente rappresenta le varie opzioni. Solo in questo momento occupano l’intera scena i candidati a segretario nazionale, ma da qui a un mese oltre ai candidati segretari regionali entreranno in competizione non meno di trentamila persone per ricoprire le cariche di costituente nazionale o regionale. Se esse daranno, nel legittimo pluralismo, l’impressione di poter cooperare dentro il medesimo processo costituente ciò costituirà un grandissimo moltiplicatore di partecipazione. In caso contrario, se dovessero riprodurre una litigiosità simile al sistema politico nel suo complesso, o anche solo alla nostra coalizione, si determinerebbe una grave incomunicabilità e ben pochi sarebbero coinvolgibili al di là di amici e parenti stretti dei candidati.

In sintesi, c’è una domanda di partecipazione che in libertà, dentro una competizione segnata da correttezza reciproca, può trovare risposta il 14 ottobre perché attraverso il Pd, sul versante del centrosinistra, quella domanda cerca da tempo uno strumento per veicolare le stesse richieste al sistema politico nel suo complesso. Dopo 15 anni di transizione i cittadini non possono più essere costretti a scegliere tra un bipolarismo litigioso nelle coalizioni e tra le coalizioni e ricorrenti tentativi di tornare a una democrazia bloccata al centro con deboli alleanze post-elettorali. Se vedranno la possibilità di aprire questa nuova breccia saranno ben più di un milione il 14 ottobre ad aprire con noi il processo costituente.

Pubblicato il: 22.08.07
Modificato il: 22.08.07 alle ore 10.27   
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