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Autore Discussione: E Dini vuole il «governo del pareggio»  (Letto 5118 volte)
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« inserito:: Novembre 17, 2007, 07:40:36 pm »

L'ex premier e il futuro della maggioranza

«Ho i numeri per far cadere il governo»

Dini al Corriere: «Noi eravamo in 5. Ha prevalso il senso di responsabilità. Per adesso»

 
ROMA — Seduto sulla poltrona del suo studio, il giorno dopo il grande strappo, Lamberto Dini usa toni pacati. Ma la sua analisi è spietata: «Se si guarda oltre la Finanziaria, si trova un Paese in cui il degrado, il declino economico, l'insicurezza, la sfiducia nelle istituzioni, l'ondata di populismo, mostrano una situazione di scollamento della nostra società, alla quale si deve mettere assolutamente rimedio. Rimedio che il governo in carica, in questi 18 mesi, non mi pare sia stato in grado di trovare, tant'è che i consensi dei cittadini nei suoi confronti sono diminuiti costantemente ». Se questo è il passato, il futuro assume i contorni di un verdetto: «Siccome è molto improbabile che questo governo, con questa Finanziaria mediata fino all'estremo con le componenti di sinistra, sia in grado di recuperare terreno, ritengo necessario rivedere e superare il quadro politico attuale al più presto ».

Facile l'obiezione: perché non l'ha staccata subito la spina, Dini, perché ha votato sì alla Finanziaria? Forse non c'erano i numeri sufficienti per far cadere Prodi? Dini, un po' si arrabbia: «Ma c'erano eccome! Ne sarebbero bastati due ieri per respingere la Finanziaria, e noi eravamo cinque: io, D'Amico, Scalera e anche Bordon e Manzione, che miriamo a costituire prestissimo un gruppo in Senato al quale si aggiungeranno altri colleghi. Ma in una situazione difficile, senza sbocchi predeterminati, abbiamo fatto prevalere il senso di responsabilità. Per il momento...». Per il momento, appunto. «Vuole sapere cosa faremo ai prossimi passaggi? Aspettiamo di vedere quale Finanziaria tornerà al Senato, che mi auguro ripristini il taglio alle sedi del Tesoro cancellato da un emendamento di FI passato anche per il mio mancato voto, non per filibustering ma per la grande confusione che c'era in quel momento in Aula. E soprattutto, vediamo cosa ne sarà del protocollo su welfare e pensioni: se il testo finale sarà quello dell'accordo tra governo e parti sociali, bene, ma se ci saranno concessioni all'estrema sinistra, se non arriveranno risposte convincenti sul punto dei lavori usuranti, noi voteremo contro». È un annuncio di sfratto imminente? Dini lascia intendere, non dice, ma su un punto è chiarissimo: chi si aspetta che possa venir sedotto da un posto di prestigio in un Prodi bis, sbaglia: «Lo rifiuterei, perché intendo portare avanti il progetto politico a cui abbiamo dato vita e dal governo non potrei farlo. E perché un Prodi rimaneggiato che comportasse solo il cambio di alcuni ministri rimanendo invariata la maggioranza, non sarebbe un governo in grado di affrontare i problemi del Paese». È quindi un cambio di maggioranza che si chiede? «Beh, un governo fotocopia o una fotocopia di questa maggioranza, non sono davvero la soluzione per le emergenze del Paese». Già, ma come si arriva alla nuova stagione? L'ex premier vede una strada stretta: «È una prospettiva di breve termine quella a cui si può rivolgere lo stesso governo, così come i suoi interlocutori e sostenitori ».

Di poche settimane, perché «se il dibattito sulla nuova legge elettorale, che serve al Paese, porterà a un accordo, è chiaro che subito dopo ci saranno le elezioni, come credo Veltroni sappia bene. Se invece l'intesa fallisse, e la prospettiva fosse il referendum, ci sono forze politiche di maggioranza che hanno già annunciato che piuttosto che andare alla consultazione, sono pronte a staccare la spina». Insomma, per Prodi non c'è futuro, ma secondo Dini la strada migliore per uscire dall'impasse non è il voto nel 2008: «Per affrontare i gravi problemi del Paese c'è bisogno veramente di un grande scatto di orgoglio da parte di tutte le forze più responsabili della nazione. Lo sfilacciamento, lo sfaldamento del nostro tessuto sociale, richiederebbe la formazione di un governo di vasto consenso tra le forze politiche, un'unione forte che lanci un appello al Paese: queste sono le emergenze, tutti insieme dobbiamo agire per superarle, e poi ognuno prenderà la sua strada». Concetto sul quale secondo Dini anche D'Alema potrebbe essere d'accordo: «Ha appena detto che è stato un errore non aver gestito insieme la legislatura...».

E chi potrebbe guidare l'impresa? «Essendo un governo istituzionale, il presidente del Senato Marini potrebbe essere la prima persona a cui rivolgersi». L'ipotesi parrebbe complessa, viste le resistenze a sinistra e il no di Berlusconi al dialogo, ma Dini è possibilista: «Io credo che anche nella Cdl l'intendimento sia di tenere la porta aperta» e le parole di Gianni Letta, la sua perorazione per un governo di larghe intese per le riforme lo dimostrano: «Non è pensabile che quella sia una posizione che non ha ricevuto la benedizione di Berlusconi... Io credo che si stia cercando di capire quale è la strada migliore. E sulla legge elettorale molto può nascere: Veltroni sa che deve cercare consenso con i grandi partiti. Sa che deve parlare con Berlusconi, mica con me...».

Paola Di Caro
17 novembre 2007

da corriere.it
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 27, 2007, 05:32:46 pm »

La lettera

Dini: basta col «tassa e spendi» «Nelle Regioni e negli enti locali c’è un partito della spesa»


Caro direttore,

pochi osservatori hanno notato che il combinato disposto del primo «decreto Tesoretto», della legge Finanziaria, del secondo decreto e dell'accordo sul Welfare comportano circa 37 miliardi di spesa pubblica, sostanzialmente senza nessun taglio reale di spesa, e ovviamente senza nessuna riduzione di entrate. Il partito del «tassa e spendi» ha quindi vinto ancora una volta la sua battaglia. Se poi teniamo conto del fatto che non esistono strumenti parlamentari preposti a esaminare con obiettività la quantificazione delle spese, a questo si aggiungono flussi non marginali di spese occulte, che lasciano sul campo tanti cocci che pesano sulle tasche del cittadino.

A fronte di ciò ho lanciato ripetuti segnali di allarme, come sto facendo in questi giorni in relazione alle spese aggiuntive palesi e occulte che comporta il testo del disegno di legge sul welfare così come presentato dalla Commissione Bilancio della Camera (quanto ad esempio ai lavori usuranti). Ma mi sembra giunto il momento a questo punto di un’analisi più strutturale del profondo radicamento del nostro Paese, nel centrosinistra con maggior forza (specie nelle sue frange estreme) ma anche nelle altre parti politiche, di un vero e proprio «partito unitario della spesa pubblica », annidato specie nelle Regioni e negli enti locali. La seconda Repubblica in teoria doveva basarsi sui principi del sistema maggioritario, ma mi sembra che il «proporzionalismo all’italiana» non sia mai venuto meno. E «proporzionalismo all’italiana » significa partitocrazia invadente.

Il suo giornale da tempo è molto attento alla questione del «costo della politica» e non si può cogliere alle radici il fenomeno del costo della politica senza tenere conto degli effetti della partitocrazia. Il meccanismo operativo della partitocrazia è infatti quello della lottizzazione, e da esso trae origine il fenomeno —solo italiano—dell’esercito fatto di decine di migliaia di persone, di consiglieri di amministrazione, consulenti e quant’altro annidati in quelle migliaia di cellule del «socialismo reale all’italiana» che sono le migliaia di enti, aziende pubbliche e municipalizzate.

È lì che operano quelli che si possono definire «i funzionari della partitocrazia», tutti soggetti che giustificano, motivano e consolidano la propria ragion d’essere nel chiedere e generare flussi di spesa pubblica aggiuntiva. I deficit di molte aziende sanitarie locali, enti pubblici e municipalizzate sono lì a dimostrarlo. D’altronde, come si spiegherebbe il fatto che ad esempio il disegno di legge sulla privatizzazione e liberalizzazione dei servizi pubblici locali è stato sostanzialmente snaturato in Parlamento e ancora giace al Senato? Siamo quindi in presenza di una rete capillare diffusa nel territorio che attinge il proprio sangue ai mille rivoli della spesa pubblica, sacrificando l’interesse dei cittadini ad una minore pressione fiscale all’interesse loro e dei propri partiti alla moltiplicazione della spesa.

Mi pare che si tratti della questione delle questioni che attraversa il nostro sistema economico e il nostro sistema politico. Eppure nessuno ne discute e nessuno, tra le classi politiche, mostra intenzioni serie di affrontarla. Né possono bastare i timidi segnali volti a ridurre la dimensione dei consigli di amministrazione di qualche tipo di enti pubblici. Qualche osservatore nei giorni scorsi ha evidenziato che in presenza di due grossi partiti a sinistra e a destra, che sembra vogliano andare nuovamente verso una legge elettorale proporzionale, si aprirebbero le porte verso una terza Repubblica. Prima di questo eventuale passaggio, non è il caso di porsi il problema di aggredire dalle fondamenta le questioni connesse e intrecciate del modello del «tassa e spendi » e del modello della partitocrazia? Personalmente, e con i miei amici liberaldemocratici, non abbiamo alcuna intenzione di prescindere da tali cruciali questioni.

Lamberto Dini
leader Liberaldemocratici


27 novembre 2007

da corriere.iy
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 04, 2007, 11:28:25 pm »

Il retroscena

Tra i fedelissimi di Lambertow: non ci fermano

La maggioranza e il caso giudiziario


ROMA — «Solo noi sappiamo quante amarezze abbiamo subìto in questo periodo...».

Nel giorno in cui Donatella Dini viene condannata in primo grado per bancarotta, la battuta del diniano Natale D'Amico è rivelatrice di uno stato d'animo.

Racconta quel che finora era rimasto solo un pissi- pissi di Palazzo nei giorni roventi della Finanziaria, quando al Senato Lamberto Dini minacciava di non votare la manovra, ed era guardato con sospetto dagli alleati di centrosinistra, accusato d'intendenza con il nemico, Silvio Berlusconi, che era determinato a dare la spallata a Romano Prodi. Allora anche ai liberaldemocratici toccò ingoiare dei rospi, certe allusioni sulla sorte giudiziaria della moglie del loro leader, frasi smozzicate e pronunciate sottovoce. Il senatore D'Amico, che di «Lambertow» è uno degli uomini di fiducia, rammenta quell'atmosfera cupa, ne trasmette il clima. E dopo la sentenza del tribunale di Roma si toglie dei sassolini dalle scarpe: «Spero non sia una vendetta trasversale, spero che l'imbarbarimento del Paese non sia giunto a un simile livello, spero che non si cerchi di colpire un familiare per mandare un avvertimento, spero non si voglia strumentalizzare la vicenda». E quando un politico ripete ossessivamente il verbo «sperare» è per non usare il verbo «sospettare». Perciò, conclude, «spero non ci siano attacchi impropri e velenosi verso Dini e i liberaldemocratici, che sono già stati accusati in modo ridicolo di essere al servizio di chissà quali poteri».

Non dev'essere stato facile ieri per l'ex premier salire al Quirinale in un giorno così difficile, con il timore confidato a pochi intimi che «mia moglie possa subire un'esposizione mediatica accresciuta per via della mia esposizione politica ». Nel giro di consultazioni informali avviato dal capo dello Stato per capire quali saranno i prossimi scenari, il leader di Liberaldemocratici ha ribadito la sua linea delle «mani libere» rispetto all'attuale esecutivo. E non è dato sapere se la vicenda che lo ha colpito in famiglia sia stata toccata anche solo di sfuggita nel colloquio. È certa però l'amarezza di «Lambertow » per un procedimento che a suo tempo fu avviato «senza neppure una denuncia »: «Ma sono sicuro — ha spiegato ai suoi — che Donatella alla fine ne uscirà pulita, perché in secondo grado dimostrerà che le accuse contro di lei sono infondate». Ma la vicenda giudiziaria, come sempre in questi casi, assume un risvolto politico. E Dini — come confida D'Amico — «è preoccupato che sua moglie ne paghi il prezzo».

Quale sia il prezzo, il senatore lo spiega senza infingimenti: «Prendiamo la nostra iniziativa in Parlamento sul welfare: ha avuto grande successo. Abbiamo dimostrato che le battaglie si possono fare e vincere. E noi l'abbiamo vinta». Perciò, malgrado la botta di ieri, il fondatore di Ld ha riunito il suo gruppo per ripetere che «noi non ci fermeremo ». «E se qualcuno pensa di bloccarci così, si sbaglia di grosso», avverte il coordinatore dei Liberaldemocratici, Italo Tanoni: «Questa vicenda non porrà fine alla nostra iniziativa politica». È ovvio però che nessuno ha dimenticato quelle battute, quei bisbiglii che tenevano banco nei capannelli di Palazzo durante i giorni caldi della Finanziaria. Daniela Melchiorre, che fa parte della pattuglia diniana, ammette di averle sentire, «eccome se le ho sentite, ma le ho sempre respinte al mittente ». La sottosegretaria alla Giustizia cerca di derubricare quelle «poco gradevoli » conversazioni: «C'è sempre qualcuno che va millantando o paventando qualcosa. Ma non per questo ci siamo fermati». È vero, ma è altrettanto vero che sulla Finanziaria Ld non ha staccato la spina a Prodi. «Non siamo gli unici che potevamo farlo», replica: «E comunque la sentenza che riguarda la signora Dini, sentenza solo di primo grado, non possiamo interpretarla come un avvertimento. Io almeno spero non sia così».

Non è un caso che anche la Melchiorre usi il verbo «sperare », prima di ricordare che «vengo dalla magistratura e credo nella sua autonomia e indipendenza », e prima di sottolineare che «una cosa sono le aule di tribunale e altra cosa sono le Aule parlamentari ». Poi però molla il pedale del freno, si scaglia contro «le lingue biforcute », e dice: «Guai a loro». Così, riconosce che la politica è particolarmente sensibile sulla materia «dopo quanto accaduto in questi anni»: «Dunque capisco che possano lasciar stupiti certe straordinarie congiunture, le quali si verificano ogni qualvolta c'è chi fa sentire la propria voce». In gergo si chiama giustizia a orologeria, questione spinosa e irrisolta, che non dev'essere solo frutto di sospetti infondati di Palazzo. Altrimenti ieri il Guardasigilli Clemente Mastella, osservando la dinamica degli eventi che hanno colpito casa Dini, non avrebbe detto: «Per ragioni di correttezza non parlo. Però sono vittima di queste cose». Però.

Francesco Verderami
04 dicembre 2007

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Dicembre 08, 2007, 03:53:10 pm »

SETTEGIORNI

E Dini vuole il «governo del pareggio»

Il leader dei liberaldemocratici guarda a gennaio e pensa a un governo istituzionale


Lo spettacolo offerto giovedì al Senato dalla maggioranza è stato per Dini l'ulteriore prova che «serve un governo istituzionale». Il leader dei Liberaldemocratici è ormai convinto che «a gennaio bisognerà voltare pagina per evitare il declino e superare l'emergenza in cui versa il Paese », che «andranno coinvolte forze politiche, imprenditoriali e intellettuali, in una nuova stagione di intenti»: «Perché quando la casa brucia, tutti devono aiutare a spegnere l'incendio». La scelta di Dini non è maturata per le avances di Silvio Berlusconi, piuttosto è l'epilogo di un ragionamento iniziato nel 2006, subito dopo il voto, quando — inascoltato — invitò il centrosinistra a meditare sull'esito della sfida nelle urne. Era la «tesi del pareggio», che allora i prodiani bollarono come un'eresia, ma che nell'ultimo mese ha fatto proselitismo in una maggioranza piegata da una crisi profonda, e dove si è definitivamente persa la fede nell'«autosufficienza». È stato Massimo D'Alema ad avviare il processo revisionista durante l'ultimo convegno di Italianieuropei, quando ha ammesso che «il centrosinistra all'inizio della legislatura commise l'errore di non valutare appieno il risultato elettorale.

Quel risultato avrebbe dovuto suggerire l'assunzione di una iniziativa per una comune responsabilità nel governo della legislatura ». Il ministro degli Esteri si riferiva alle scelte compiute dall'Unione sugli incarichi istituzionali, ma Dini — ospite quella sera di Otto e mezzo — aveva colto l'occasione per andare oltre. E dopo essersi complimentato per «il riconoscimento dell'errore» da parte di D'Alema, aveva aggiunto che «l'unica soluzione sarebbe quella di raccogliere tutte le grandi forze del Paese, così da governare insieme». In effetti, se la «tesi del pareggio» fosse fondata, il passo successivo sarebbe la nascita di un «governo del pareggio». Proprio l'esecutivo istituzionale che il capo di Ld proporrà formalmente in vista di gennaio, considerando di fatto «conclusa » l'esperienza di Romano Prodi.

D'altronde le difficoltà del Professore sono evidenti, se persino il suo più fedele alleato del momento, Clemente Mastella, qualche giorno fa ha affermato che «alle elezioni per il Senato abbiamo perso con uno scarto di 400 mila voti»: «Perciò, diciamo la verità, è irregolare che a palazzo Madama noi siamo maggioranza». Certo, il tanto vituperato «Porcellum» nel 2006 garantì all'Unione gli eletti per governare, «e allora — come ricorda il senatore democratico Antonio Polito — pur di non riconoscere che era finita pari e patta, venne preso a mo' di paragone Winston Churchill, che faceva il primo ministro con un voto di vantaggio. Vabbé, ma quello era Churchill... E difatti la nostra debolezza non è dovuta al risicato vantaggio numerico al Senato, ma alla debolezza politica del governo che si è abbattuta sulla maggioranza». Pareggio, altro che vittoria. Le vecchie certezze si sono formalmente infrante dinnanzi alla clamorosa denuncia di Fausto Bertinotti sul «fallimento» dell'alleanza, affermazione che è frutto di una analisi elaborata a lungo nel Prc, e di cui c'è traccia in una frase pronunciata qualche settimana fa dal sottosegretario Alfonso Gianni: «Dopo le elezioni sbagliammo a sventolare il programma senza capire che 24 mila voti di scarto non sarebbero bastati per governare, e che avremmo dovuto assumere un'iniziativa». «Ma solo ora ci si accorge della realtà», accusa il diniano Giuseppe Scalera: «Dopo l'esternazione di Bertinotti, dopo la fiducia ottenuta solo grazie ai senatori a vita, dopo la sconfessione di Tommaso Padoa- Schioppa sul caso Rai, che in altri tempi — per molto meno — avrebbe portato alle dimissioni del ministro. È mai pensabile andare avanti così, aspettando il voto favorevole di Francesco Cossiga, le nevrosi di Rifondazione, i casi di coscienza dei Teodem e le richieste di Mastella? E chiedo: in queste condizioni è più irresponsabile staccare la spina al governo o proseguire tra minacce e ricatti?».

Che Prodi abbia esaurito il suo tempo lo pensano (e lo dicono) anche nel Pd. Peppino Caldarola sostiene che «Walter Veltroni non parlerà mai di governo istituzionale, ma l'altro giorno al coordinamento del partito ha spiegato che per fare le riforme istituzionali non si può stare con un piede dentro e l'altro fuori. Le riforme insomma sono la priorità, e tra le riforme e il governo, bisogna scegliere le riforme. E se è vero che sarebbe stato ragionevole nel 2006 prendere atto del voto e varare il governo del pareggio, a maggior ragione ora questa ipotesi è in campo ». Per costruirla c'è tempo fino a gennaio. Perché maturino le condizioni, è necessario l'impegno dei leader politici. Come dice Marco Follini, «basterebbe avere la consapevolezza del pareggio»: «Serviva due anni fa e servirebbe oggi, visto che siamo allo stallo».

Francesco Verderami
08 dicembre 2007

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