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Autore Discussione: GIORGIO BOCCA.  (Letto 141198 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Gennaio 08, 2010, 11:42:22 pm »

Di bolla in bolla

di Giorgio Bocca


Assolutamente incomprensibili alla gente e spesso anche agli esperti chiamati a fare chiarezza, le bombe economiche e finanziarie hanno per protagonisti i soliti noti
 
La crisi economica che ha afflitto il mondo non è ancora finita che già si prevede una sua prossima riedizione, la grande bolla è appena scoppiata che già si lavora alacremente a seminarne altre in ogni continente. Non proprio nuove, spesso identiche a quelle appena scoppiate fra il lamento e il lutto generali. Per nulla nuova, identica alle passate, l'oscurità che continua a circondare i fatti economici e finanziari.

Ogni sera sulle televisioni più potenti e popolari, avvenenti economiste - una giusta dose di sex appeal è d'obbligo anche nella 'triste scienza' - raccontano come è scoppiata la bolla in modo assolutamente incomprensibile dalla stragrande maggioranza dei telespettatori, e spesso dagli stessi esperti chiamati a fare chiarezza. Tutti ripetono che una delle cause della crisi è stata proprio l'ignoranza che circonda i fatti e misfatti dell'economia e della finanza, ignoranza che ha permesso al signor Madoff, re dei truffatori, di rubare migliaia di miliardi agli stessi esperti di Wall Street. Una feroce lezione di cui a quanto pare nessuno tiene conto, visto che una gigantesca bolla è appena scoppiata nell'emirato di Dubai.

Sul banco degli accusati in prima linea ci stanno i banchieri e gli esosi manager, cioè i protagonisti della 'economia creativa', cioè di azzardo e rischio estremi, alla quale tutti stanno ritornando come all'unica che permetta guadagni enormi alle spalle dei gonzi. I 150 anni di carcere inflitti a Madoff sono, direbbe Sciascia, uno dei lussi che la febbre speculativa si permette: non spaventano nessuno, non fermano nessuno dal riprovarci. La modernità del capitalismo sembra consistere nella sua incorreggibilità e nella sua irresponsabilità.

La rivoluzione dei manager che ha mandato in pensione i vecchi 'padroni del vapore' ha cambiato radicalmente i modi e i fini della produzione. Uno degli istituti su cui si basa la rivoluzione dei manager è la
stock option, premio 'all'aumento del valore' aziendale. Quale valore? Quello del profitto, comunque ottenuto.

È notorio che i guadagni sproporzionati, assurdi, dei grandi manager derivano dagli accordi per cui si assicurano a vicenda i posti di comando e i premi, indifferenti ai giudizi della pubblica opinione, spesso premiati anche se hanno condotto alla rovina un'azienda. Lloyd Blankfein, supermanager di Goldman Sachs, ha avuto nel 2008 una gratifica da più di 50 milioni di dollari, Gary Cohn, presidente dell'azienda, ne ha guadagnati circa la metà, Rick Wagoner, che ha portato sull'orlo del fallimento la General Motors, ha avuto una liquidazione da 20 milioni di dollari.

"Viviamo", dice il sociologo Edgar Morin, "con una bomba a scoppio ritardato nel nostro armadio". Ma ogni giorno una di queste bombe scoppia e provoca danni irreparabili. Gli economisti chiamati da Barack Obama a curare la grande crisi americana, come mister Paulson, il gigante dalla voce cavernosa, sono gli stessi che per decenni hanno incoraggiato l'indebitamento senza limiti, la superbolla dei mutui per la casa anche se non avevi i soldi per pagarlo.

È noto e stranoto dai tempi di Tacito che "i rimedi alle umane debolezze vengono sempre dopo il male che hanno causato". Il famoso signor Taylor, inventore del metodo produttivo omonimo, diceva amabilmente agli operai: "Non vi si chiede di pensare, c'è gente pagata per questo"; il guaio è che spesso c'è gente pagata per pensare a come rubare.

(08 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #121 inserito:: Gennaio 15, 2010, 03:54:55 pm »

Di bolla in bolla

di Giorgio Bocca


Assolutamente incomprensibili alla gente e spesso anche agli esperti chiamati a fare chiarezza, le bombe economiche e finanziarie hanno per protagonisti i soliti noti
 
La crisi economica che ha afflitto il mondo non è ancora finita che già si prevede una sua prossima riedizione, la grande bolla è appena scoppiata che già si lavora alacremente a seminarne altre in ogni continente. Non proprio nuove, spesso identiche a quelle appena scoppiate fra il lamento e il lutto generali. Per nulla nuova, identica alle passate, l'oscurità che continua a circondare i fatti economici e finanziari.

Ogni sera sulle televisioni più potenti e popolari, avvenenti economiste - una giusta dose di sex appeal è d'obbligo anche nella 'triste scienza' - raccontano come è scoppiata la bolla in modo assolutamente incomprensibile dalla stragrande maggioranza dei telespettatori, e spesso dagli stessi esperti chiamati a fare chiarezza. Tutti ripetono che una delle cause della crisi è stata proprio l'ignoranza che circonda i fatti e misfatti dell'economia e della finanza, ignoranza che ha permesso al signor Madoff, re dei truffatori, di rubare migliaia di miliardi agli stessi esperti di Wall Street. Una feroce lezione di cui a quanto pare nessuno tiene conto, visto che una gigantesca bolla è appena scoppiata nell'emirato di Dubai.

Sul banco degli accusati in prima linea ci stanno i banchieri e gli esosi manager, cioè i protagonisti della 'economia creativa', cioè di azzardo e rischio estremi, alla quale tutti stanno ritornando come all'unica che permetta guadagni enormi alle spalle dei gonzi. I 150 anni di carcere inflitti a Madoff sono, direbbe Sciascia, uno dei lussi che la febbre speculativa si permette: non spaventano nessuno, non fermano nessuno dal riprovarci. La modernità del capitalismo sembra consistere nella sua incorreggibilità e nella sua irresponsabilità.

La rivoluzione dei manager che ha mandato in pensione i vecchi 'padroni del vapore' ha cambiato radicalmente i modi e i fini della produzione. Uno degli istituti su cui si basa la rivoluzione dei manager è la
stock option, premio 'all'aumento del valore' aziendale. Quale valore? Quello del profitto, comunque ottenuto.

È notorio che i guadagni sproporzionati, assurdi, dei grandi manager derivano dagli accordi per cui si assicurano a vicenda i posti di comando e i premi, indifferenti ai giudizi della pubblica opinione, spesso premiati anche se hanno condotto alla rovina un'azienda. Lloyd Blankfein, supermanager di Goldman Sachs, ha avuto nel 2008 una gratifica da più di 50 milioni di dollari, Gary Cohn, presidente dell'azienda, ne ha guadagnati circa la metà, Rick Wagoner, che ha portato sull'orlo del fallimento la General Motors, ha avuto una liquidazione da 20 milioni di dollari.

"Viviamo", dice il sociologo Edgar Morin, "con una bomba a scoppio ritardato nel nostro armadio". Ma ogni giorno una di queste bombe scoppia e provoca danni irreparabili. Gli economisti chiamati da Barack Obama a curare la grande crisi americana, come mister Paulson, il gigante dalla voce cavernosa, sono gli stessi che per decenni hanno incoraggiato l'indebitamento senza limiti, la superbolla dei mutui per la casa anche se non avevi i soldi per pagarlo.

È noto e stranoto dai tempi di Tacito che "i rimedi alle umane debolezze vengono sempre dopo il male che hanno causato". Il famoso signor Taylor, inventore del metodo produttivo omonimo, diceva amabilmente agli operai: "Non vi si chiede di pensare, c'è gente pagata per questo"; il guaio è che spesso c'è gente pagata per pensare a come rubare.

(08 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #122 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:53:29 am »

Il mondo che piace ai liberisti

di Giorgio Bocca

La corsa a consumare di più e a lavorare di meno, l'aumento demografico e il matricidio della terra che stiamo compiendo, imporranno, non per saggezza ma per necessità, il liberalsocialismo
 
Chi vincerà fra liberalismo e comunismo? Vincerà, si spera, il liberalsocialismo della sopravvivenza.
Per l'avvento del buon senso e della saggezza? No, per necessità, per l'istinto fondamentale della sopravvivenza, perché andando avanti come andiamo arriveremo alla fine della specie umana.

Un socialismo obbligato e obbligatorio meglio comunque che l'estinzione? A lume di logica sì. E anche di matematica, perché due più due faranno quattro anche nel nostro prossimo avvenire, nonostante le menzogne della pubblicità e le megalomanie dei demagoghi. Niente profezie, ma previsioni elementari per evidenti, visibilissime ragioni.

Primo: il cosiddetto progresso, la corsa umana a consumare di più e a lavorare di meno ha assunto una velocità e un ritmo sempre più divoranti. Ci abbiamo messo decine, centinaia di millenni ma adesso ci siamo: l'informatica, il computer in tutte le case e in tutti gli uffici ci ha fatto passare dai mutamenti lenti della produzione, dai salassi delle epidemie e delle guerre a una corsa continua senza misura e senza meta.

Il saluto normale degli uomini, il buon giorno, buona salute, è mutato in quello di buon lavoro. Lo usiamo compiaciuti senza accorgerci che è un mutamento radicale del modo di essere umano: il lavoro punizione divina per il peccato originale, il lavoro imposto dal creatore all'uomo con il sudore della sua fronte che da condanna si trasforma in modello. Per giunta in un lavoro quasi sempre umiliante e alienante, il lavoro della catena fordista, il cui fondatore così diceva: "Operai, non vi si chiede di pensare, ci sono persone pagate per questo". Per la stragrande maggioranza un lavoro meno faticoso che in passato, ma così alienante che lo si compensa con il consumismo universale o con lo scoppio delle carceri, la crescita continua di quanti magari delinquendo, al lavoro stupido non ci stanno.

Secondo: l'assurdo aumento demografico, il fallimento del comandamento divino crescete e moltiplicatevi che le chiese continuano a predicare, dicendo che ci sarà cibo e tetto per tutti. Non è vero già oggi: nel mondo milioni di persone muoiono di fame e di freddo. Per rispondere al crescente numero di bocche affamate il progresso senza limite e ragione sta compiendo un matricidio, sta uccidendo la madre terra. Non sappiamo se l'effetto serra sia veramente prodotto dall'aumento di anidride carbonica che produciamo con le fabbriche e l'allevamento, ma sappiamo di certo, basta guardarci intorno, che stiamo divorando il territorio, cementificandolo, asfaltandolo al punto che il bel paese in cui siamo nati è diventato irriconoscibile nel giro di pochi decenni, basta percorrerlo dal Brennero a Capo Passero per constatare che campi e città sono ormai invisibili dietro le pareti antirumore, i cartelloni pubblicitari e la selva dei tralicci elettrici o televisivi. Che cosa è la delocalizzazione tanto lodata dai liberisti? È la progressiva occupazione e distruzione dei territori ancora intatti.

Nella corsa dissennata al progresso autodistruttivo le ideologie che si sono affrontate e combattute nel Novecento si sono dissolte: Berlusconi vale Putin, Sarkozy vale Lukashenko, tutti fanno a gara a chi divora di più e più in fretta i beni della terra. Un socialismo obbligato e obbligatorio è nel nostro prossimo futuro? Quanto prossimo non lo sappiamo, ma inevitabile di certo. Speriamo con un minimo di libertà e di diritti umani. È per questo che i 'piccoli Cesari' che ci ritroviamo sono ridicoli prima che nocivi.

(21 gennaio 2010)
da espressso.repubblica.it
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« Risposta #123 inserito:: Febbraio 01, 2010, 11:57:07 am »

Il paese che piace a Silvio


di Giorgio Bocca

Non sopporta le regole della democrazia parlamentare dettate dalla Costituzione e vuole farsi uno Stato a sua misura e comodo
 
Dalla sua stanza dell'ospedale San Raffaele, da lui finanziato per deviare da Milano 2 - suo investimento edilizio - le rotte aeree in partenza da Linate, Silvio Berlusconi, ferito al volto da uno psicolabile, che essendo tale ha usato per arma un modellino in polvere di marmo del Duomo, ha ripetuto agli amici: "Ma perché mi odiano tanto?". Domanda che solo un grande sovversivo, solo uno che fa di continuo l'elogio della pazzia, del superamento del modesto buon senso, convinto di poter andare oltre il possibile, oltre il normale e il lecito può porsi nel momento in cui la risposta dovrebbe essergli chiarissima: mi odiano perché non sopporto le regole della democrazia parlamentare dettate dalla Costituzione, perché voglio farmi uno Stato a mia misura e comodo.

E a sua imitazione, a suo eco, il Popolo della Libertà, come lo ha chiamato, accusa indignato, accorato la metà degli italiani a cui la democrazia parlamentare dei controlli e delle garanzie va bene, va meglio della democrazia autoritaria e del simil-fascismo che rialza la testa nel mondo.

Perché mi odiano tanto? Si stenta a credere che se lo chieda davvero. Lo avversano, cercano di resistergli per una ragione diremmo storica: per sfuggire al destino, alla condanna di essere uno Stato, un popolo incapace di essere libero, sempre in preda alle tirannie. Non è il solo, nel 'bel paese ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe'; come osservò Prezzolini il fascismo è stato una manifestazione di una nostra tendenza perenne, "autobiografia della nazione", diceva Gobetti, "adattamento alla storia e alla cultura del popolo" aggiungeva il Cuoco o, per citare Prezzolini, "gli italiani sono negati alla democrazia. Olandesi, svizzeri, inglesi, americani sono nati democratici. Noi autoritari e faziosi. Che l'italiano sia un popolo democratico è una assurdità".

Già, ma proprio per questa eterna assurdità agli italiani della Repubblica nata dalla Resistenza è sembrato un miracolo, una svolta prodigiosa essere arrivati a una Costituzione che prevede i controlli e sancisce i diritti.

Berlusconi si chiede perché è tanto odiato? Perché la metà degli italiani, e forse più della metà, lo ha visto nei 16 e passa anni della sua avventura politica sempre intento a svuotare e colpire, a disprezzare questa democrazia: non sopporta le sue regole, sempre alla testa del partito del fare che produce, che intraprende, ma se i giudici lo fermano quando varca il confine del lecito, li accusa di invidia e di odio, tipiche accuse generiche di chi vuol fare ciò che gli comoda.

Non a caso Berlusconi si è rifiutato per 16 anni di partecipare alle commemorazioni della Resistenza, non a caso ha sdoganato i fascisti, non a caso si è alleato con il separatismo antirisorgimentale della Lega, non a caso ha sdoganato i peggiori dittatori superstiti, sempre anteponendo i buoni affari ai buoni principi.

E si chiede perché è odiato da quanti hanno voluto, hanno sperato, hanno tentato di fare dell'Italia un paese dove la legge è uguale per tutti, dove gli oppositori non sono ipso facto 'comunisti assassini', dove chi si oppone alle forme risorgenti di fascismo non è ipso facto un seminatore di odio, un infame, un traditore?

C'è il pericolo di un ritorno del fascismo? La storia è imprevedibile, ma la possibilità è innegabile. Basta constatare come il delitto di un pazzo è stato sufficiente a rovesciare le parti, a mettere a prudente silenzio gli oppositori, sotto accusa i difensori della democrazia.

(28 gennaio 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #124 inserito:: Febbraio 12, 2010, 02:02:57 pm »

Bugie in nome della pace

di Giorgio Bocca

Da Putin a Obama si sprecano gli scambi di menzogne e ipocrisie. Da noi il Cavaliere ha addirittura inventato il 'partito dell'amore'
 

I giorni delle virtuose esortazioni si sono compiuti: imperatori e papi, presidenti della Repubblica eletti dal popolo e dittatori, capi tribù e stregoni con voci di circostanza hanno predicato pace e fratellanza con un'ammirevole perseveranza, visto che nel frattempo il signore di tutte le Russie, Putin, annunciava nuovi armamenti contro la minaccia del signore americano che, avendo vinto il premio Nobel per la pace, dichiarava aperta la caccia ai terroristi islamici dello Yemen.

Da noi il capo dello Stato ripeteva il suo appello alla concordia nazionale, fra il consenso quasi unanime dei capi partito, a cominciare dal cavaliere di Arcore che con ogni mezzo di pressione e di seduzione sta cercando dalla bellezza di quindici anni di affossare la Repubblica democratica e di instaurare quella presidenziale e autoritaria che più gli aggrada.

Intanto il sommo pontefice si è rivolto a tutti i soldati di tutti gli eserciti intenti a scannarsi nelle più assurde delle guerre di civiltà o di religione, economiche o ideologiche, e tutti i portavoce di tutti i partiti, progressisti o conservatori, comunisti o liberal hanno fatto avere a lui e al nostro capo dello Stato le loro solidali approvazioni; salvo uno di nome Di Pietro, che, rimasto fuori dal coro, si è subito meritato insulti e condanne di quasi terrorista.

Il generale scambio di menzogne e di ipocrisie si è svolto nel nome e nella sacralità del Natale in memoria di un nativo di Betlemme, che per aver predicato amore ai suoi contemporanei fu crocifisso fra due ladroni. Da noi il cavaliere di Arcore, signore della propaganda e del populismo ha addirittura inventato il 'partito dell'amore', il cui organo di stampa nel giro di poche settimane ha praticamente ucciso alla vita pubblica e alla professione il direttore di un giornale che aveva osato qualche timida critica, e poi fatto strame di editori, direttori e giornalisti avversi al nuovo regime in costruzione.

In questa gara a chi mente meglio e di più si sono segnalati i capi dei due imperi, l'americano e il russo. L'americano ha addirittura annunciato una guerra non dichiarata, una di quelle strane guerre contemporanee, in cui non si capisce bene chi sia l'alleato e chi il nemico, visto che l'alleato con il suo 'fuoco amico' e i suoi droni o aerei senza piloti fa strage senza distinzioni di ribelli armati e anche di pacifici cittadini, si proclama difensore dell'alleato ma ne occupa il territorio, e con il pretesto di salvare democrazie inesistenti bombarda e incendia a piacer suo.

Per non essere da meno il signore di tutte le Russie, per ragioni di potere sue, ha fatto sapere che fabbricherà nuove potentissime armi per rispondere a un sistema di difesa missilistico americano, difesa non si sa sa bene da chi, forse dalla Cina e dal sio comunismo che, a quanto pare, è il capitalismo più efferato del mondo.

E a giudizio dei più celebrati opinion leader del creato il pacifismo di facciata che è d'obbligo in Italia e il confronto atomico delle grandi potenze sarebbero gli argomenti seri, i dibattiti storici decisivi a cui dobbiamo aggiungere quelli sul terrorismo islamico diretto da miliardari arabi che addestrano i loro armati nelle montagne del Pakistan o dello Yemen e hanno fatto rinascere la pirateria nel Corno d'Africa e nella remota Indonesia. Che cosa voglia di preciso il terrorismo islamico nessuno degli esperti mobilitati sul tema è riuscito a spiegarlo: guerra di religione o di civiltà? Scontro tra seguaci di Maometto o di Gesù Cristo? Forse l'antica insopprimibile voglia della scimmia assassina di uccidere il prossimo.

(11 febbraio 2010)
da espresso.repubblica.it
 
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« Risposta #125 inserito:: Febbraio 27, 2010, 09:46:19 am »

Veleno e cemento oltraggiano acque millenarie

Sindaci e ambientalisti sono in allarme

Il padre Po avvelenato dai figli in 5 anni l'inquinamento è triplicato

di GIORGIO BOCCA


IL LAMBRO avvelenato, che minaccia di avvelenare il Po è l'ultima delle devastazioni compiute dal partito del fare e del non ragionare. Il Piemonte è "il padre di tutte le inondazioni", i suoi fiumi non tengono più, non regolano più. Contadini, industrie e cavatori hanno chiesto all'alto corso del Po più del ragionevole.

Hanno preso i suoi valligiani per farne dei manovali, le sue acque per derivazioni che in certi tratti, d'inverno, asciugano il fiume che è tanto più pericoloso quanto più è in magra. Tra Casalgrasso e Moncalieri, c'è il "materasso alluvionale" più profondo e più pregiato d'Europa. Ghiaie e sabbie depositatesi nei millenni per una profondità che arriva ai duecento metri, materiali di corso alto dunque puri e pregiati. Ogni tanto, dove il bosco fluviale s'interrompe, sembra di essere sul Canale di Suez dove passa fra alte dune sabbiose. Sono le colline di sabbia delle cave per cui si muovono come insetti mostruosi i camion giganti. Ricordano la confusione e il fervore dantesco dell'"arsenal dei viniziani", gru alte cinquanta metri, scavatrici mostruose, baracche e la pozza d'acqua della cava, delle voragini profonde fino a duecento metri, a centinaia in un territorio che dall'alto sembra un groviera con il rischio che le acque del fiume sfondino le paratie di terra e si uniscano alle acque delle cave con un caos idrologico imprevedibile.

Il rischio è grande, ma cosa è il rischio per i contemporanei? Gli esperti del Progetto Po ci perdono la testa, ma per i due milioni di Torino e dintorni è una cosa inesistente. Eppure le acque delle cave inquinatissime potrebbero penetrare nella falda acquifera che fornisce il settanta per cento dei consumi della metropoli. La grande difesa in superficie del depuratore del Po Sangone, il più grande e pare l'unico da qui al delta, potrebbe essere sottopassato. Ma che sanno i nostri governanti di questi rischi? Poi le genti del fiume Po hanno perpetrato il misfatto di rifiutare, di sabotare la navigazione commerciale del fiume. Ogni giorno arriva nel porto fluviale di Cremona una nave da carico. Potrebbero essere trenta, cinquanta se Cremona fosse collegata all'area di Milano, dove si concentra la metà della produzione industriale italiana, ma gli agrari si oppongono. Quanti sono? Forse cinquecento proprietari fra grandi e piccoli fra Pizzighettone e Crema. Più forti dei quattro milioni di abitanti della grande Milano e pronti a tutto. Il teorema degli agrari è il seguente: il canale è inutile perché il Po non è veramente navigabile: fondali bassi, nebbie, due periodi di magra. Non è vero, il professor Della Luna, un grande esperto del Po dice: "I giorni in cui il Po da Cremona al mare ha un fondale di due metri e cinquanta, due metri e ottanta sono duecentosessantanove, sui due metri trecentodiciassette. I fondali sui due metri e ottanta saranno necessari quando useremo le navi fluvio-marine lunghe centocinque metri e larghe undici e cinquanta, navi da duemila tonnellate, ma con le navi di oggi i fondali medi sono sufficienti. Quelli del Reno, che è la più grande via d'acqua d'Europa, sono analoghi". Credo che il professore, che è fra i progettisti del canale dica una cosa vera: il Po è il più navigabile fiume d'Europa e il meno navigato. Cremona è a trenta metri di altezza sul livello del mare mentre il Rodano a Lione a centosessanta. Il dislivello tra Cremona e Milano è di cinquanta metri, e il canale tedesco tra il Meno e il Danubio ha superato una quota di quattrocentosei metri. I francesi vogliono collegare con un canale Parigi a Lilla, ci sono due progetti ed è in corso una lotta aspra fra i sindaci dei due tracciati che se lo contendono. Qui i venti sindaci fra Pizzighettone e Milano sono tutti fortemente ostili. Perché? Perché i lombardi hanno perso il gusto per l'intrapresa e sono allineati sulla linea conservatrice di "sfruttiamo l'esistente".

Ma cosa è questo esistente? È un sistema di trasporto su strada prossimo a scoppiare anzi già scoppiato. Nonostante la terza corsia, la autostrada Milano-Bologna, è già un fiume rombante di camion che non possono, come un fiume vero, "esondare" in lanche o golene. E siccome il piano Delors prevede nel decennio un raddoppio del traffico o si usano anche le vie di acqua o si va verso una cementificazione folle. Nella metropoli milanese vivono quattro milioni di persone e ognuna di esse ha bisogno di un trasporto di materiali solidi di tre metri cubi: cifre terrificanti. Il Po è un fiume di rare piene ma disastrose, nel '51 e nel '94 ha inondato intere province. Ma per la navigazione è un fiume placido, riceve gli ultimi dei suoi trenta grossi affluenti, il Mincio e il Panaro a 160, 140 chilometri dalla foce, diciamo una portata costante con variazioni regolari, ma dei grandi fiumi europei è il meno usato, quattrocentomila tonnellate di merce contro milioni.

Il Po è il grande padre avvelenato dai suoi figli. "Spero di morire prima di veder morto il Po" si legge in uno degli ultimi scritti di Riccardo Bacchelli. L'agonia è stata, per un fiume millenario, rapida, quindici anni fa il Po era ancora un Nilo, invadeva secondo le stagioni le terre di golena e le fecondava, dico le terre comprese fra gli argini di maestra, alti, possenti, rinforzati ogni anno e gli argini di ripa, pian piano invase dai coltivatori padani che vi hanno costruito le loro case le loro "grange" o piccoli borghi mettendo nel conto che ogni tanti anni, magari cinquanta, magari dieci il fiume dà e toglie, arricchisce e impoverisce. Gente di Po, comunque, incapace di abbandonare il suo fiume, la sua storia. Ora dopo una esondazione - sono belli i nomi fluviali - restano sul terreno chiazze di olio, macchie calcinate di residui chimici. "Solo pochi anni fa - mi dice un uomo del fiume - andare per i pioppeti inondati era stupendo, si passava in barchino tra i filari nella luce ombra della piantagione, più che una violenza era una silente, pacifica comunione di acque e di piante. Ora, appesi ai rami più bassi, trovi i sacchetti di plastica, i nastri di plastica e sembra di stare in un film dell'orrore, ti aspetti che compaiano mostri esangui". Ma anche i pallidi eleganti pioppi hanno la loro parte nel disastro del Po. Li hanno piantati fino alla riva del fiume e non sono alberi che rafforzano l'argine, non si piegano all'onda come i canneti o i salici, non hanno radici forti come gli ontani, sono piante di poche radici sradicabili, per proteggerli si è imprigionato il fiume nei cassoni dei "bolognini" o delle prismate, difese dure che fanno impazzire la corrente. E inquinano, i tronchi sono cosparsi di insetticidi, la chimica arriva nel terreno, bisognerebbe arretrarli di almeno cento metri ma quel che è fatto è fatto, la barriera verde sta sulle rive. L'agonia per un fiume millenario che non era mai sostanzialmente cambiato è stata rapida, questione di venti, di quindici anni. Non molto tempo fa i pescatori si facevano la minestra con l'acqua del fiume prendevano l'acqua con la loro tazza di legno per berla. Ora non se la sentono più di entrarci a gambe nude, si proteggono con stivaloni e tute. L'inquinamento è salito negli ultimi cinque anni dai 14 milligrammi per litro ai 50. Pochi anni fa la gente del Po anche benestante faceva le vacanze sul fiume, preferiva i suoi ghiaioni alle spiagge affollate di Viareggio o di Rimini, conosceva gli accessi, sapeva tagliare le frasche con cui fare dei ripari al sole, non sentiva come Gioan Brera nessun complesso edipico verso il padre fiume feroce "rombante nelle notti di piena" semmai, adesso, il complesso è verso il padre sporco. Le società fluviali avevano nomi diversi ma sempre abbinati a "canottieri" e il legame è così antico che anche se ci si bagna in piscina in club aperti di recente a quindici chilometri dal fiume sempre canottieri sono.

Ha scritto uno studioso del fiume, Piero Bevilacqua: "Nella cultura dello sviluppo padano ci si è mossi verso l'ambiente come in una realtà da dominare, da schiacciare". Che il Po fosse il sistema nervoso di questa grande valle, il punto di riferimento, di identità, quello che dava una misura precisa alla nostra vita non ha avuto alcuna importanza: era solo un canale di scarico, un luogo per estrazioni di sabbia e allevamenti di maiali. Non si è più distinto fra rischi accettabili e rischi mortali, fra i rischi normali di un fiume e la sua uccisione; non si è più distinto fra convivenza accettabile e convivenza distruttiva. E così si è arrivati all'assurdo che per la manutenzione normale del fiume si sono spesi in sei anni settecento miliardi e per pagare i danni della piena del Tanaro diecimila. Che per l'auto ogni persona spende tre milioni l'anno ma tutti assieme i lombardi non sono stati capaci di bonificare la zona del Lambro, non se ne è fatto niente perché l'acqua del Lambro e dei pozzi è strumento di potere politico che i sindaci e i partiti non vogliono mollare. I soldi per la variante di valico dell'autostrada Bologna-Firenze li troveremo, ma quelli per collegare le vie d'acqua del Veneto e andare dal Po a Ravenna chi sa quando. Eppure sono ottimista, ho partecipato quest'anno a un convegno sul Po, c'erano quattrocento amministratori, tecnici, studiosi del fiume. Molti non si erano mai incontrati prima, eppure c'era un sentire comune: il governo civile del Po, il recupero del Po devono diventare senso comune, devono formare un nuovo pensiero sociale che riprenda il cammino del riformismo del primo Novecento. La secessione non risolve nulla, ci vuole l'autogoverno solidale. Come mai? La società impazzisce ogni tanto.

L'agonia del fiume e anche quella dei suoi pesci, non molti anni fa al mercato di Piacenza vendevano trance di storione di Po oggi se ne trovano ancora, non i giganti di quattro metri di cui Plinio il vecchio per Paduam navigante, seguiva le scie argentee, se ne pescano ancora nelle lanche di acqua tiepida dove vengono a digerire il pasto di carpe e di cavedani ma non superiori ai due metri. Sono scomparse anche le anguille di Ongina dove una ostessa con la faccia di Giuseppe Verdi le friggeva crocchianti e dolci mentre il marito era addetto al taglio perpetuo dei culatelli di Zibello, le cose miracolose che maturano solo all'aria umida del Po come i prosciutti e gli stradivari. Nel fiume si pescano ancora lucci, scardole, cavedani, carpe ma spesso "di gusto avariato". Imperversa il pesce siluro, lo squalo del Po. Venti anni fa non c'era o era rarissimo. Dicono che questo silurus flanis descritto dai naturalisti come "pesce tirannico, crudele vorace" sia arrivato dal Baltico. "C'è una Lombardia - mi dice il dottor Gavioli assessore all'Ambiente della Provincia di Parma - che ha prodotto i grandi costruttori di canali da Leonardo al Filarete e un'altra che ha prodotto Craxi e Formigoni", la Lombardia che ha impiegato venti anni a rendere percorribili le strade per Como e per Lecco, che non è stata capace di bonificare il bacino del Lambro che butta nel Po tutti i suoi rifiuti e veleni, incapace di capire che non ci sono solo gli interessi suoi ma anche quelli dei sedici milioni di italiani che stanno nei settantamila chilometri quadrati del bacino fluviale, nelle terre che Philippe de Commines, al seguito di Carlo VIII di Francia descrisse nel suo diario come "il paese più bello e il più abbondante di Europa". Non è facile capire per quale involuzione dello sviluppo questa Lombardia che scavava i navigli per cui passavano le merci provenienti da Genova e dall'Adriatico fino alla fossa interna milanese dove si legavano a quelli provenienti dall'Europa attraverso i laghi, come mai la Lombardia dei grandi ingegneri idraulici come l'Aristotele Fioravanti e il Bertola da Novate non sia capace oggi di collegare il Po a Milano, non riesca a fare di questo Po cadaverico e puzzolente il fiume della rinascita.

© Riproduzione riservata (27 febbraio 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #126 inserito:: Febbraio 27, 2010, 10:57:07 am »

Il furto generale

di Giorgio Bocca


È proprio il nostro modo mercantile di concepire la società a incoraggiare e spesso imporre la corruzione
 
Aerei Protezione Civile

Furto generale, indifferenziato, continuo e crescente fra chi sta al potere e chi dal potere è escluso ma al potere aspira. Giustificato dai dotti e astuti al servizio del potere. Nel silenzio rassegnato delle minoranze che anche in un recente passato davano stile e dignità al Paese, i moralisti disprezzati dagli uomini del fare. La loro assenza, il loro silenzio sono da società afasica, inerte. È questo distacco totale fra le minoranze e le masse che toglie il respiro.

Le cronache della corruzione dilagante sono ripetitive e di basso livello. Si tratti dello scandalo della Protezione Civile come delle violenze della democrazia autoritaria, l'indignazione è assente, la voce degli onesti soffocata sotto un mare di volgarità.

Se si pensa al rapporto tra minoranze e masse negli anni del fascismo, della guerra partigiana, del ritorno alla democrazia, e il presente pubblicitario e consumistico, la svolta appare grande e forse irreversibile. I maestri dell'Italia povera, progressisti o conservatori che fossero, comunisti o liberal-socialisti, pensavano la politica, il governo della città, come qualcosa d'inseparabile da un comportamento morale, persino casto. Da Norberto Bobbio il filosofo a Giancarlo Caselli il giudice, da Piero Gobetti a don Ciotti ritornava l'aspirazione a una politica pulita, casta, non da bacchettoni, ipocriti, ma nel senso della serietà, della disciplina.

Il giudice Giancarlo Caselli a chi gli domandava se era preoccupato per i rischi che correva negli anni di piombo rispondeva: "Credo che i rischi facciano parte della mia funzione di giudice". Ma oggi della castità di Gobetti e di Bobbio, del desiderio di rigenerare il mondo dei primi comunisti sembra non sia rimasta traccia.

Lo scandalo della Protezione Civile SPA, inteso come tentativo si sottrarre ai controlli la salute pubblica, l'ordine pubblico, si riduce alla curiosità da voyeur sugli amori dei politici con segretarie e massaggiatrici, e sui rapporti di do ut des di una società di libero e spesso sfrenato scambio senza capire che è proprio il nostro modo mercantile di concepire la società a incoraggiare e spesso a imporre la corruzione.

C'è in questa modernità un grande, logorante conflitto fra i due modi di concepire il modo di vivere associati. La filosofia degli uomini del fare, di cui è capintesta il presidente del consiglio, del fare tutto e subito per ottenere con il consenso dei cittadini nuovo potere e nuova ricchezza, e la filosofia della legge eguale per tutti e dei suoi continui controlli, di quanti hanno capito che l'attuale modernità è una macchina surriscaldata che corre troppo veloce, che necessita di freni ai suoi meccanismi impazziti, ai suoi desideri smodati.

Il sociologo Latouche ha detto che si sente la necessità di 'buttar sabbia' in questo processo vorticoso. Ma invece che discutere di questi problemi decisivi, invece che tradurre in politica queste scelte per la sopravvivenza, ecco che ci perdiamo negli scontri da voyeur, rumorosi e vani, sui pettegolezzi, sulle massaggiatrici cubane, sulle escort, sui gay, sui trans. Chi se ne duole passa per un moralista ipocrita, ma è solo uno che ha conservato un minimo di serietà, e se volete di decenza, se il mondo in cui viviamo è ancora un mondo pazzo e crudele in cui si continua a morire di fame o di guerre.

Non è un caso se il signore che ci governa è l'editore del più diffuso foglio della stampa rosa. E non per dabbenaggine e cattivo gusto, come si dice, ma perché da politico spregiudicato e abile ha capito che il consenso lo si ottiene anche alla maniera di Circe, trasformando gli uomini in porci.

(25 febbraio 2010)
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« Risposta #127 inserito:: Marzo 03, 2010, 11:15:43 am »

Veleno e cemento oltraggiano acque millenarie

Sindaci e ambientalisti sono in allarme

Il padre Po avvelenato dai figli in 5 anni l'inquinamento è triplicato

di GIORGIO BOCCA


IL LAMBRO avvelenato, che minaccia di avvelenare il Po è l'ultima delle devastazioni compiute dal partito del fare e del non ragionare. Il Piemonte è "il padre di tutte le inondazioni", i suoi fiumi non tengono più, non regolano più. Contadini, industrie e cavatori hanno chiesto all'alto corso del Po più del ragionevole.

Hanno preso i suoi valligiani per farne dei manovali, le sue acque per derivazioni che in certi tratti, d'inverno, asciugano il fiume che è tanto più pericoloso quanto più è in magra. Tra Casalgrasso e Moncalieri, c'è il "materasso alluvionale" più profondo e più pregiato d'Europa. Ghiaie e sabbie depositatesi nei millenni per una profondità che arriva ai duecento metri, materiali di corso alto dunque puri e pregiati. Ogni tanto, dove il bosco fluviale s'interrompe, sembra di essere sul Canale di Suez dove passa fra alte dune sabbiose. Sono le colline di sabbia delle cave per cui si muovono come insetti mostruosi i camion giganti. Ricordano la confusione e il fervore dantesco dell'"arsenal dei viniziani", gru alte cinquanta metri, scavatrici mostruose, baracche e la pozza d'acqua della cava, delle voragini profonde fino a duecento metri, a centinaia in un territorio che dall'alto sembra un groviera con il rischio che le acque del fiume sfondino le paratie di terra e si uniscano alle acque delle cave con un caos idrologico imprevedibile.

Il rischio è grande, ma cosa è il rischio per i contemporanei? Gli esperti del Progetto Po ci perdono la testa, ma per i due milioni di Torino e dintorni è una cosa inesistente. Eppure le acque delle cave inquinatissime potrebbero penetrare nella falda acquifera che fornisce il settanta per cento dei consumi della metropoli. La grande difesa in superficie del depuratore del Po Sangone, il più grande e pare l'unico da qui al delta, potrebbe essere sottopassato. Ma che sanno i nostri governanti di questi rischi? Poi le genti del fiume Po hanno perpetrato il misfatto di rifiutare, di sabotare la navigazione commerciale del fiume. Ogni giorno arriva nel porto fluviale di Cremona una nave da carico. Potrebbero essere trenta, cinquanta se Cremona fosse collegata all'area di Milano, dove si concentra la metà della produzione industriale italiana, ma gli agrari si oppongono. Quanti sono? Forse cinquecento proprietari fra grandi e piccoli fra Pizzighettone e Crema. Più forti dei quattro milioni di abitanti della grande Milano e pronti a tutto. Il teorema degli agrari è il seguente: il canale è inutile perché il Po non è veramente navigabile: fondali bassi, nebbie, due periodi di magra. Non è vero, il professor Della Luna, un grande esperto del Po dice: "I giorni in cui il Po da Cremona al mare ha un fondale di due metri e cinquanta, due metri e ottanta sono duecentosessantanove, sui due metri trecentodiciassette. I fondali sui due metri e ottanta saranno necessari quando useremo le navi fluvio-marine lunghe centocinque metri e larghe undici e cinquanta, navi da duemila tonnellate, ma con le navi di oggi i fondali medi sono sufficienti. Quelli del Reno, che è la più grande via d'acqua d'Europa, sono analoghi". Credo che il professore, che è fra i progettisti del canale dica una cosa vera: il Po è il più navigabile fiume d'Europa e il meno navigato. Cremona è a trenta metri di altezza sul livello del mare mentre il Rodano a Lione a centosessanta. Il dislivello tra Cremona e Milano è di cinquanta metri, e il canale tedesco tra il Meno e il Danubio ha superato una quota di quattrocentosei metri. I francesi vogliono collegare con un canale Parigi a Lilla, ci sono due progetti ed è in corso una lotta aspra fra i sindaci dei due tracciati che se lo contendono. Qui i venti sindaci fra Pizzighettone e Milano sono tutti fortemente ostili. Perché? Perché i lombardi hanno perso il gusto per l'intrapresa e sono allineati sulla linea conservatrice di "sfruttiamo l'esistente".

Ma cosa è questo esistente? È un sistema di trasporto su strada prossimo a scoppiare anzi già scoppiato. Nonostante la terza corsia, la autostrada Milano-Bologna, è già un fiume rombante di camion che non possono, come un fiume vero, "esondare" in lanche o golene. E siccome il piano Delors prevede nel decennio un raddoppio del traffico o si usano anche le vie di acqua o si va verso una cementificazione folle. Nella metropoli milanese vivono quattro milioni di persone e ognuna di esse ha bisogno di un trasporto di materiali solidi di tre metri cubi: cifre terrificanti. Il Po è un fiume di rare piene ma disastrose, nel '51 e nel '94 ha inondato intere province. Ma per la navigazione è un fiume placido, riceve gli ultimi dei suoi trenta grossi affluenti, il Mincio e il Panaro a 160, 140 chilometri dalla foce, diciamo una portata costante con variazioni regolari, ma dei grandi fiumi europei è il meno usato, quattrocentomila tonnellate di merce contro milioni.

Il Po è il grande padre avvelenato dai suoi figli. "Spero di morire prima di veder morto il Po" si legge in uno degli ultimi scritti di Riccardo Bacchelli. L'agonia è stata, per un fiume millenario, rapida, quindici anni fa il Po era ancora un Nilo, invadeva secondo le stagioni le terre di golena e le fecondava, dico le terre comprese fra gli argini di maestra, alti, possenti, rinforzati ogni anno e gli argini di ripa, pian piano invase dai coltivatori padani che vi hanno costruito le loro case le loro "grange" o piccoli borghi mettendo nel conto che ogni tanti anni, magari cinquanta, magari dieci il fiume dà e toglie, arricchisce e impoverisce. Gente di Po, comunque, incapace di abbandonare il suo fiume, la sua storia. Ora dopo una esondazione - sono belli i nomi fluviali - restano sul terreno chiazze di olio, macchie calcinate di residui chimici. "Solo pochi anni fa - mi dice un uomo del fiume - andare per i pioppeti inondati era stupendo, si passava in barchino tra i filari nella luce ombra della piantagione, più che una violenza era una silente, pacifica comunione di acque e di piante. Ora, appesi ai rami più bassi, trovi i sacchetti di plastica, i nastri di plastica e sembra di stare in un film dell'orrore, ti aspetti che compaiano mostri esangui". Ma anche i pallidi eleganti pioppi hanno la loro parte nel disastro del Po. Li hanno piantati fino alla riva del fiume e non sono alberi che rafforzano l'argine, non si piegano all'onda come i canneti o i salici, non hanno radici forti come gli ontani, sono piante di poche radici sradicabili, per proteggerli si è imprigionato il fiume nei cassoni dei "bolognini" o delle prismate, difese dure che fanno impazzire la corrente. E inquinano, i tronchi sono cosparsi di insetticidi, la chimica arriva nel terreno, bisognerebbe arretrarli di almeno cento metri ma quel che è fatto è fatto, la barriera verde sta sulle rive. L'agonia per un fiume millenario che non era mai sostanzialmente cambiato è stata rapida, questione di venti, di quindici anni. Non molto tempo fa i pescatori si facevano la minestra con l'acqua del fiume prendevano l'acqua con la loro tazza di legno per berla. Ora non se la sentono più di entrarci a gambe nude, si proteggono con stivaloni e tute. L'inquinamento è salito negli ultimi cinque anni dai 14 milligrammi per litro ai 50. Pochi anni fa la gente del Po anche benestante faceva le vacanze sul fiume, preferiva i suoi ghiaioni alle spiagge affollate di Viareggio o di Rimini, conosceva gli accessi, sapeva tagliare le frasche con cui fare dei ripari al sole, non sentiva come Gioan Brera nessun complesso edipico verso il padre fiume feroce "rombante nelle notti di piena" semmai, adesso, il complesso è verso il padre sporco. Le società fluviali avevano nomi diversi ma sempre abbinati a "canottieri" e il legame è così antico che anche se ci si bagna in piscina in club aperti di recente a quindici chilometri dal fiume sempre canottieri sono.

Ha scritto uno studioso del fiume, Piero Bevilacqua: "Nella cultura dello sviluppo padano ci si è mossi verso l'ambiente come in una realtà da dominare, da schiacciare". Che il Po fosse il sistema nervoso di questa grande valle, il punto di riferimento, di identità, quello che dava una misura precisa alla nostra vita non ha avuto alcuna importanza: era solo un canale di scarico, un luogo per estrazioni di sabbia e allevamenti di maiali. Non si è più distinto fra rischi accettabili e rischi mortali, fra i rischi normali di un fiume e la sua uccisione; non si è più distinto fra convivenza accettabile e convivenza distruttiva. E così si è arrivati all'assurdo che per la manutenzione normale del fiume si sono spesi in sei anni settecento miliardi e per pagare i danni della piena del Tanaro diecimila. Che per l'auto ogni persona spende tre milioni l'anno ma tutti assieme i lombardi non sono stati capaci di bonificare la zona del Lambro, non se ne è fatto niente perché l'acqua del Lambro e dei pozzi è strumento di potere politico che i sindaci e i partiti non vogliono mollare. I soldi per la variante di valico dell'autostrada Bologna-Firenze li troveremo, ma quelli per collegare le vie d'acqua del Veneto e andare dal Po a Ravenna chi sa quando. Eppure sono ottimista, ho partecipato quest'anno a un convegno sul Po, c'erano quattrocento amministratori, tecnici, studiosi del fiume. Molti non si erano mai incontrati prima, eppure c'era un sentire comune: il governo civile del Po, il recupero del Po devono diventare senso comune, devono formare un nuovo pensiero sociale che riprenda il cammino del riformismo del primo Novecento. La secessione non risolve nulla, ci vuole l'autogoverno solidale. Come mai? La società impazzisce ogni tanto.

L'agonia del fiume e anche quella dei suoi pesci, non molti anni fa al mercato di Piacenza vendevano trance di storione di Po oggi se ne trovano ancora, non i giganti di quattro metri di cui Plinio il vecchio per Paduam navigante, seguiva le scie argentee, se ne pescano ancora nelle lanche di acqua tiepida dove vengono a digerire il pasto di carpe e di cavedani ma non superiori ai due metri. Sono scomparse anche le anguille di Ongina dove una ostessa con la faccia di Giuseppe Verdi le friggeva crocchianti e dolci mentre il marito era addetto al taglio perpetuo dei culatelli di Zibello, le cose miracolose che maturano solo all'aria umida del Po come i prosciutti e gli stradivari. Nel fiume si pescano ancora lucci, scardole, cavedani, carpe ma spesso "di gusto avariato". Imperversa il pesce siluro, lo squalo del Po. Venti anni fa non c'era o era rarissimo. Dicono che questo silurus flanis descritto dai naturalisti come "pesce tirannico, crudele vorace" sia arrivato dal Baltico. "C'è una Lombardia - mi dice il dottor Gavioli assessore all'Ambiente della Provincia di Parma - che ha prodotto i grandi costruttori di canali da Leonardo al Filarete e un'altra che ha prodotto Craxi e Formigoni", la Lombardia che ha impiegato venti anni a rendere percorribili le strade per Como e per Lecco, che non è stata capace di bonificare il bacino del Lambro che butta nel Po tutti i suoi rifiuti e veleni, incapace di capire che non ci sono solo gli interessi suoi ma anche quelli dei sedici milioni di italiani che stanno nei settantamila chilometri quadrati del bacino fluviale, nelle terre che Philippe de Commines, al seguito di Carlo VIII di Francia descrisse nel suo diario come "il paese più bello e il più abbondante di Europa". Non è facile capire per quale involuzione dello sviluppo questa Lombardia che scavava i navigli per cui passavano le merci provenienti da Genova e dall'Adriatico fino alla fossa interna milanese dove si legavano a quelli provenienti dall'Europa attraverso i laghi, come mai la Lombardia dei grandi ingegneri idraulici come l'Aristotele Fioravanti e il Bertola da Novate non sia capace oggi di collegare il Po a Milano, non riesca a fare di questo Po cadaverico e puzzolente il fiume della rinascita.

© Riproduzione riservata (27 febbraio 2010)
da repubblica.it
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« Risposta #128 inserito:: Marzo 06, 2010, 11:25:01 am »

A chi piace il sultano

di Giorgio Bocca

Metà degli italiani hanno rinunciato alla facoltà, conquistata a caro prezzo dai loro padri, di giudicare e controllare colui che li governa
 

In attesa che Mosè scenda dal monte Sinai con le tavole della legge e disperda gli adoratori del vitello d'oro, prendiamo atto che nel paese Italia non esiste più una pubblica opinione degna del nome, un controllo dei sudditi su chi li governa, un limite al populismo debordante. Se questa non è una democrazia autoritaria, dove il sultano può dire e disdire a suo comodo, che altro è? Senza limiti, senza opposizione, spesso senza decenza.

Il capo del governo va in Israele e per avere il consenso dei suoi ospiti si mette in testa il kippah e dichiara senza la minima esitazione e prudenza che Israele ha fatto bene a bombardare Gaza e i palestinesi che ci vivono, bambini compresi, uffici e magazzini delle Nazioni Unite compresi. Interviene cioè in uno degli irrisolti drammi contemporanei senza preoccuparsi delle conseguenze, come un commesso viaggiatore che bada soltanto a vendere la sua merce.

Poi prosegue il suo viaggio elettorale andando a Ramallah dal governo palestinese, cui dice il contrario di quel che ha detto a Gerusalemme. E se qualcuno gli chiede che cosa pensi del muro che separa i due paesi, terribile segno del dramma irrisolto, dice di non averlo visto, occupato come era a preparare il suo prossimo disdire del detto, senza mancare durante il viaggio di raccontare l'ultima barzelletta sulla Madonna che dell'immacolata concezione dice "avrei preferito una femminuccia".

Silvio Berlusconi fa il mestiere che sa fare benissimo da quando dirigeva non solo la costruzione di Milano 2 quartiere residenziale, ma anche l'ufficio vendite, magari intervenendo di persona in incognito. Sono gli italiani, almeno una metà degli italiani, che sembrano aver rinunciato alla facoltà che va sotto il nome di democrazia di giudicare, controllare, approvare o disapprovare colui che li governa, si direbbe che questa facoltà, questo diritto acquisito a duro prezzo dai loro padri non li interessi più, che la sola cosa che veramente li interessi è di fare in qualche modo soldi, legalmente se possono, e se no illegalmente, per avidità o per togliersi il gusto di farla franca.

L'aspetto terribile del berlusconismo non è soltanto la licenza di dire e disdire che gli viene concessa, il potere di fare e disfare che gli è valso il nome di sultano, ma il fatto che mai come ora il paese Italia è 'nave senza nocchiero in gran tempesta', vascello di immemori e di servi che va dove porta il vento. Il nocchiero che gli va bene è uno che per aver successo va in giro per il mondo dando ragione a tutti, a chi è in guerra come a chi la subisce, scagliandosi contro i nemici immaginari come i comunisti defunti o scomparsi e avendo per amici i figli e i nipoti dello stalinismo come il suo caro amico Putin.

Ma le democrazie prive di opinione pubblica, prive di cittadini pensanti sono le peggiori, le più esposte a nuove dittature, sono nel migliore dei casi le dittature della maggioranza al potere, dei ricchi e potenti che ignorano la legge e possono pagare i migliori azzeccagarbugli per violarla. E abbiamo il sospetto, e forse più di un sospetto, che sia proprio questo a piacere di Silvio a metà degli italiani, il pensiero che ogni mattino ci fa vedere scuro il giorno, disperante il futuro, sempre vincente la stoltezza degli uomini.

Il nocchiero che va bene alla metà degli italiani è uno convinto che la ricchezza del mondo sia senza fine, che i pascoli della pubblicità, cioè del dire e disdire siano immensi, che l'avvenire sia dei furbi e dei profittatori. Il più noto dei consigli di buona fortuna e di buon governo che ha dato ai suoi concittadini è: "Sposatevi un milionario", l'equivalente di 'vincete alla lotteria'. Che sarà anche vero per quello che vince o che attacca il cappello al chiodo giusto, ma è pura illusione e diseducazione per tutti gli altri.

(04 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #129 inserito:: Marzo 14, 2010, 03:23:00 pm »

Tra pubblico e privato

di Giorgio Bocca

Nella pubblica opinione viene cancellata la divisione fra ciò che viene fatto per il bene dello Stato e ciò che serve a ottenere il consenso elettorale
 

Il mondo continua a essere pieno d'ingenui di buona volontà che si chiedono perché abbiano sempre la meglio i furbi, i pratici, gli uomini del fare, dell'agire, i costruttori d'imperi capitalistici che stanno uccidendo con il capitalismo la specie umana convinti di salvarla, convintissimi di avere ragione.

Da noi gli ingenui di buona volontà s'interrogano su alcuni misteri di Pulcinella come: perché essendo l'ultima o penultima provincia dell'impero chi governa l'Italia ha sentito il bisogno di spendere un miliardo di euro per dotare la nostra Marina militare di una portaerei di nome Cavour assolutamente superflua in una guerra finale e distruttiva fra le grandi potenze? Da noi gli ingenui di buona volontà si sono chiesti perché mai questa portaerei costata un miliardo di euro sia stata mandata in soccorso ai terremotati di Haiti e abbia fatto uno strano détour in Brasile? La risposta l'ha data sul quotidiano 'la Repubblica' un esperto di finanza militare, Giampaolo Cadalanu, risposta quasi incredibile ma vera sulla follia che governa il mondo, particolarmente attiva da noi da quando a capo del governo ci sta il più famoso dei 'faso tuto mi'.

Dunque, la portaerei Cavour ha traversato l'Atlantico con il détour in Brasile per arrivare finalmente ad Haiti a disastro avvenuto e irreparabile per le seguenti ragioni: perché comunque il dispendioso intervento era più utile alle finanze della nostra Marina e dell'industria cantieristica che andare avanti e indietro per il Mediterraneo in assenza di ogni possibile minaccia nemica, una faccenda comunque dell'impero americano, che di portaerei ne ha una decina. Il viaggio transatlantico della Cavour era un'ottima occasione per mostrare al mondo il talento della nostra industria navale, compreso il détour brasiliano, essendo il Brasile uno dei possibili acquirenti. Il tutto reso possibile e magari lodevole da una specialità del capitalismo contemporaneo, quella di essere fondato sul potere politico, sul governo, sull'uso del pubblico denaro ma conservando l'autonomia delle imprese private.


La protezione civile come la Marina militare, nel sultanato berlusconiano, funzionano come società private, le decisioni vengono prese da chi le comanda, il controllo parlamentare arriverà, se arriverà, solo a cose fatte. Ne deriva che viene cancellata nella pubblica opinione la divisione fra pubblico e privato, fra ciò che viene fatto per il bene dello Stato e ciò che serve a ottenere il consenso elettorale. Questa è la tendenza tipica delle democrazie autoritarie, la sua tentazione perenne.

Cosa fece il generale Dalla Chiesa quando gli fu affidata la lotta al terrorismo? Costituì un gruppo d'azione composto da specialisti che operava in piena autonomia, ricorrendo se necessario anche all'illegale come il controllo dei carcerati e dei loro rapporti familiari o alle operazioni di annientamento preventivo come la strage della colonna genovese.

Se questo premio all'efficienza sia preferibile al pubblico controllo è questione che divide anche i democratici convinti, come la domanda se sia giusto o meno trattare con il nemico, usare la clemenza se conviene o restare intransigenti. Negli anni di piombo alcuni uomini guida della democrazia e dell'antifascismo come Valiani, come Pertini, furono per la linea dura, convinti dalle loro esperienze che la democrazia aveva il diritto e il dovere di difendersi dal nemico terrorista che minacciava l'esistenza stessa dello Stato democratico.

Ma l'intransigenza degli uomini del fare può sempre sconfinare nel privilegio e nell'impunità. Questo è uno dei limiti, dei nodi, delle incognite delle democrazie moderne. Il 'yes we can' del cambiamento che diede la vittoria a Obama deve poi vedersela con chi detiene altri e più decisivi poteri.

(11 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #130 inserito:: Marzo 19, 2010, 06:40:12 pm »

Napoli e l'arte di vivere

di Giorgio Bocca


Dal dissesto dell'ospedale Cardarelli ai furti d'auto. Che qui sono normali come gli accoltellamenti
 

Nel quartiere Pallonetto di Napoli ci sono 400 falsi matti che ricevono sussidi e pensioni d'invalidità dalla pubblica sanità.
Un quartiere a ridosso dei grandi hotel, dei turisti. Il Municipio e ora anche la Procura hanno aperto una indagine per capire il nuovo monstrum della sanità partenopea. "Se ci sono delle mele marce", ha detto l'assessore competente, "verranno eliminate".

Quattrocento mele marce sono la normalità, che si traduce a livello civile medio in anarchia sanitaria. Questo monstrum sanitario all'evidenza era noto da tempo, perché in un piccolo quartiere dove la gente vive, per così dire, addosso al prossimo nel reticolo dei vicoli è impossibile che non fosse noto e arcinoto che decine e decine di finti ciechi per pazzia riscuotessero pensioni e sussidi continuando a guardare la televisione e a guidare l'automobile. Insomma al Pallonetto si era creata da chi sa quanto tempo un'organizzazione che funzionava come un orologio di precisione: medici compiacenti rilasciavano certificati d'invalidità, i falsi invalidi presentavano domande di assistenza all'azienda sanitaria locale, Asl, dove una commissione inoltrava la pratica al Comune, che a sua volta incaricava l'Inps di provvedere al pagamento.

Ora in Comune si dice che è stato un funzionario onesto e zelante a scoprire la truffa, ma è un modo per nascondere la verità: l'intera comunità sapeva da tempo, e taceva, per non dire che approvava. Siamo cioè a uno dei tanti monstrum di quell'incurabile piaga sociale, di quell'inestirpabile anarchia che resiste da secoli nelle grandi città del nostro Meridione. C'è chi traveste questa anarchia da manifestazione di colore locale, da napoletanità, e lo scrittore La Capria ne ha dato una brillante spiegazione: "Accortisi di non vivere in armonia con la natura e avendone estrema necessità, i napoletani cominciarono a recitarla. E così iniziò la loro recita collettiva".

Ma con le recite non si esce dal sottosviluppo, e il dramma di Napoli è che il suo non solo si riproduce, ma si aggrava. Vent'anni fa un amico napoletano mi accompagnò in visita del maggiore ospedale della città e mi fece incontrare il presidente della USL 40, quella del Cardarelli. "Il Cardarelli", mi disse, "opera come gli altri ospedali napoletani. Per ora riusciamo a garantire il minimo". Un anno dopo seppi dai giornali che anche lui era inquisito per illeciti amministrativi. Il Cardarelli funzionava al minimo come i ministeri romani, solo di mattina, il pomeriggio i medici si occupavano delle loro attività private. Molti in tre giorni esaurivano il lavoro settimanale e concentravano in un giorno le quattro ore che ogni giorno avrebbero dovuto dedicare alla formazione professionale. Ero stato al Cardarelli quattro anni prima, accompagnato da un cardiologo sindacalista, e ora constatavo che le cose erano cambiate. Ma in peggio: il Cardarelli stava sempre in una pineta lastricata di automobili, quasi tutte vecchie e arrugginite, il solo modo per non farsi rubare l'auto da una gang che opera lì da anni, che tutti conoscevano, come i falsi matti, e che nessuno in città denunciava perché in città i furti d'auto sono assolutamente normali come gli accoltellamenti. "Entri, vada in giro e nessuno", mi aveva detto il mio accompagnatore, "le chiederà chi è".

E chi mi ha accompagnato nelle visite successive: "Guardi, le pareti hanno la stessa tinta degli ospedali del Terzo Mondo". Un reparto modernissimo del primario che conosce 'le vie privilegiate' e accanto altri in cui gli ammalati sono sistemati nei corridoi, magari contorti, stralunati a occhi chiusi, come a dire che non vogliono vedere più niente di questa sporca vita. In alcuni di questi reparti sembra di essere in una stazione, gli ammalati in mezzo alla baraonda di parenti, amici, infermieri che continuamente si fanno un caffè.

(18 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #131 inserito:: Marzo 29, 2010, 04:37:11 pm »

Non sparate sul turista

di Giorgio Bocca

Nella disfida tra il turismo d'élite e quello popolare c'è un dato di fatto: la combinazione di bella natura e belle opere è in via di estinzione
 

Snobismo elitario o consumismo di massa, chi è che 'spara sul turismo'? Per dire chi è il nemico del turismo degli altri? Una risposta la ebbi dall'amico che mi accompagnava in una ricognizione alpina in Valle d'Aosta, sulla 'collina', come la chiamano i locali, sopra La Salle, la montagna dolce di prati e di pioppi che si alza verso Planaval e la Grande Rochère. Ci eravamo fermati a guardare dall'alto la valle velata nel mattino da una nebbiolina azzurra, e io dissi all'amico: "Speriamo non arrivi anche qui la folla di Courmayeur o di Cervinia". E lui: "Arriverà, arriverà certamente, perché quello che piace a noi non dovrebbe piacere anche agli altri?".

La letteratura è piena di queste ingenue scoperte del turismo di élite che a un certo punto si accorge che i posti belli piacciono anche ai vacanzieri di Ferragosto, "gli sfaccendati", come li chiamava Pierre Loti, "che invadono i siti alpini e marini". Ma la guerra tra turisti aristocratici e turisti popolari continua spesso solo a parole, a volte con ostilità più marcate. Come la volta che a Pugliola, un villaggio sulla collina di Lerici in vista del 'golfo dei poeti', del Tino e di Porto Venere, trovai nella cassetta delle lettere della mia casa questo messaggio poco amichevole: "Seconda casa, genocidio delle minoranze". O lo stupore con cui in una comitiva di sciatori in un ristorante di Rhémes-Notre-Dame riconobbi, o pensai di riconoscere, alcuni militanti di Prima Linea, in vacanza tra una gambizzazione e l'altra dei nemici di classe.

Ma cosa c'è dietro questo conflitto fra i due turismi a cui il sociologo Duccio Canestrini ha dedicato un prezioso saggio? C'è il fatto che nel turismo, come in tutto il resto, nel traffico, nei mercati, nel consumo di aria o di acqua, nello scambio di notizie, nella delinquenza e nella popolazione carceraria, nel consumo di droghe come di medicine, di leggende metropolitane come di luoghi comuni, la ressa umana si fa sempre più soffocante. Lo snobismo avrà la sua parte, ma la folla asfissiante non è un'invenzione elitaria, è una constatazione, spesso una sgradevole esperienza.

Ci sono due valli sotto il Monte Bianco, eleganti anche nei nomi: le valli Veny e Ferret. Solo trenta o quaranta anni fa, non secoli, erano come le aveva fatte madre natura, due giardini dell'Eden sotto le pareti di rocce precipiti, proibitive anche per camosci e stambecchi. Oggi nei giorni turistici dell'estate come dell'inverno sono gironi infernali, dove moltitudini senza fine si disputano con minaccioso accanimento un posto ai ristoranti dove la polenta concia scorre a fiumi, con il cervo arrivato dalla Serbia o dalla Carinzia. E cercando invano un posto arretri con la tua auto fino a ritrovarti espulso dal giardino dell'Eden, già in un prato spelacchiato lungo la Doria.

Non raccontiamoci storie sulla disfida tra il turismo dei signori e quello dei travet di Ferragosto. Il dato di fatto è che nella bella Italia la meta del turismo, cioè il paesaggio, la combinazione millenaria della bella natura e delle belle opere è in via di estinzione o comunque di oscuramento, di invisibilità, si può andare da Milano a Brindisi per la via Emilia e poi per la Adriatica fra due pareti antisuono oltre le quali ci sono due interminabili file di fabbriche e fabbrichette ciascuna con il nome del titolare a lettere cubitali. Il mare è scomparso dietro le villette unifamiliari e i condomini, dietro i tabelloni pubblicitari e le pompe delle stazioni di servizio. E lo scempio irrimediabile è questione di tre o quattro decenni, se siete uomo di media o lunga vita ricordate che il vostro turismo giovanile, la vostra esplorazione del mondo avveniva ancora fra scenari incantevoli, in un piacere e stupore continuo degli occhi.

A sparare sul turista oggi è il mondo in cui vive il progresso senza fine e senza senso.

(25 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #132 inserito:: Aprile 01, 2010, 03:06:57 pm »

Onnipotenti e impuniti

di Giorgio Bocca


Perché tutti o quasi tutti gli uomini di potere rubano come se il furto sia l'unico lavoro degno del loro potere, del loro comando?
 
Faccio il cronista da più di sessant'anni, osservo la gente, la studio nei suoi vizi e nelle sue virtù ma c'è una domanda a cui non ho ancora trovato risposta: perché si ruba? Perché rubavano nel Regno e poi nella prima e nella seconda Repubblica, perché rubavano i ricchissimi Raul Gardini e Carlo Sama? Alla morte di Serafino Ferruzzi, miliardario di Ravenna, avevano ereditato una fortuna, avevano proprietà agricole, navi, treni, aerei, fattorie e allevamenti in Patagonia, ma non gli bastavano, diventarono padroni della Montedison, una grande industria che fatturava all'estero il 60 per cento, un potentato, e la depredarono. Dell'industria non gl'importava niente, erano dei commercianti.

Insomma, in pochi anni sono riusciti a fare un buco di 31 mila miliardi di lire. Non si era mai visto nel mondo un buco simile, il precedente della Chrysler era stato di 16 mila. Soldi bruciati come? In spese folli per radio Telemontecarlo, per la regata del Moro di Venezia, per squadre di pallacanestro o di volley, per i componenti del clan, una cinquantina di persone, per auto Ferrari e per barche da 30 metri. Poveracci di questo mondo, ma lo sapete che si fa presto a spendere?

Rubava il Duilio Poggiolini, direttore del servizio farmaceutico pubblico, e rubava il direttore dei telefoni di Stato, Parrella. Non bruscolini: 70 e più miliardi di tangenti dalle industrie a cui davano una mano. Il sistema ladro seleziona ladri sempre più esperti. Anni fa un'inchiesta nel provveditorato delle opere pubbliche di Milano stabilì che 29 impiegati su 30 erano corrotti. La corruzione universale, omnicomprensiva è un cane che si morde la coda. Quando venne arrestato Giuseppe Garofalo, amministratore delegato della Montedison, e gli venne chiesto dove avesse preso i 250 milioni che aveva versato a un dirigente della Democrazia cristiana, prima disse che erano soldi suoi, poi che era il nero di un immobile venduto evadendo il fisco e poi ancora che erano frutto di una consulenza non registrata in bilancio. Insomma, per difendersi da un reato ne confessava altri due o tre che ai suoi occhi proprio reati non erano.

Hanno rubato politici eccellenti come Aldo Moro e Bettino Craxi, invocando come Javeh, il dio padre, la sospensione ideologica della colpa: "Sì, ho detto ad Abramo di uccidere Isacco, ma per metterlo alla prova". L'equivalente di "sì, abbiamo rubato, ma per il partito".

Un illustre sociologo, il professor Pizzorno, scrisse che uno dei pochi deterrenti contro la corruzione erano le manette dei carabinieri, la paura di essere messi al bando dal proprio gruppo, dalla propria professione, ma è un deterrente superato da tempo, da quando i funzionari di Stato e i politici corrotti non solo non se ne vergognano, ma se ne vantano, o peggio ancora come nel berlusconismo fingono di condannare la corruzione che hanno praticato e favorito.

Da più di sessant'anni mi chiedo come cronista del mio tempo perché tutti o quasi tutti gli uomini di potere rubino come se il furto fosse l'unico lavoro degno del loro potere, del loro comando e privilegio sociale. L'economista Giulio Sapelli mi ha dato questa risposta: "Per sentirsi pari a Dio, onnipotenti e impuniti. La società moderna non ha Dio e non ha suoi sostituti, ha perso la capacità di distinguere, non ha una stella polare, non ha un disegno politico, non ha istituzioni che riescano a sostituire Dio". Su per giù come diceva Dostoevskij: "Se Dio non esiste tutto è permesso".

Silvio Berlusconi dice che il furto generale di oggi non è come Tangentopoli. Che vuol dire? Che oggi i suoi compagni del Popolo della libertà non rubano più per il partito ma per se stessi o per i loro amici e parenti? Francamente più che un progresso ci pare un regresso verso l'età della pietra, verso l'età perenne della scimmia ladra e assassina.

(31 marzo 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #133 inserito:: Aprile 10, 2010, 11:15:25 pm »

C'era una volta l'informazione

di Giorgio Bocca


Ermetismo, oscurità, idiomi segreti della ricchezza e del potere non sono un capriccio: sono il prodotto di rapporti sociali inconfessabili

L'ermetismo dell'informazione va di pari passo con il falso elogio del popolo sovrano; più si dice che solo il popolo può scegliere chi ci governa e più l'arte del governo è incomprensibile, non dico al cittadino comune, ma alla stragrande maggioranza degli italiani che capisce una sola cosa, così evidente che è impossibile non capirla: lo Stato, come avverte il craxiano Rino Formica che di queste cose se ne intende, sta andando al collasso, il vuoto d'informazione chiara e comprensibile è diventato norma non trasgredibile.

Qualunque sia il tema di un'informazione di stampa o radio-televisiva lo scopo dichiarato, il risultato perseguito è di non informare, di essere oscuri e noiosi quanto basta perché la platea degli italiani cambi canale e si rifugi in qualche 'Verissimo' mignottificio e finalmente la gente capisca quel che si dice e si scrive: per far carriera bisogna andare a letto con i padroni. La logorrea ermetica copre gli spazi d'informazione come il petrolio degli spurghi industriali il fiume Lambro affluente del Po.

Quando entrai nel giornalismo una settantina di anni fa, che c'era ancora un re sul trono e non al Festival di Sanremo, i giornalisti migliori per sintesi e chiarezza erano i 'pastonisti', i corrispondenti da Roma dei grandi giornali, i Mattei, i Gorresio, i Negro che avendo a disposizione una colonnina su giornali allora a due fogli vi riassumevano i fatti politici ed economici della giornata in modo chiarissimo. Ed erano fatti spesso drammatici, decisivi per il Paese.

Oggi a leggere o ad ascoltare i resoconti di giornata, in un italiano bastardo zeppo di parole straniere, idiomatiche, gergali viene voglia di gridare basta, torniamo tutti a scuola, torniamo a parlare come si mangia. E mettiamo una cosa in chiaro: l'ermetismo, l'oscurità, gli idiomi segreti della ricchezza e del potere non sono un capriccio, sono un portato inevitabile di rapporti sociali inconfessabili.


Avete letto o ascoltato le registrazioni telefoniche dei nostri politici e affaristi? Si compongono di gerghi segreti, mafiosi, intercalati da scurrilità plebee, di affari sporchi e di 'vaffan', un linguaggio misto di banda del buco e di postribolo. Non è un caso che la scuola anglosassone d'informazione, i fatti distinti dalle opinioni, gli incipit essenziali i quando-come-dove, i dati anagrafici precisi, il tempo che faceva e anche il due più due fa quattro, siano sostituiti da tiritere senza fine, da confronti specialistici: tu giornalista che capisci i miei doppi sensi, le mie allusioni, quanto siamo bravi, quanto siamo nel giro che conta, alla faccia del popolo sovrano che per tenerlo buono basta dirgli che è il più intelligente e il più bravo del mondo.

Nella rete della comunicazione sovrabbondante, istantanea, poliglotta c'è una regola taciuta ma dominante: alla fine quelli che hanno la ricchezza e la conoscenza fanno i loro porci comodi, magari invidiati e votati dai poveracci.

Che informazione c'è stata sulle grandi truffe mentre si svolgevano? Che cosa ne abbiamo saputo in tempo debito delle truffe sulla banda larga, sui paradisi fiscali, sulle partite Iva evase, sulle grandi opere e sui grandi eventi, sulle opere del regime e del sultano? Nulla a tempo debito. Ora, a ladrocinio fatto, veniamo a sapere con larghezza di particolari osceni da chi è composta la nostra classe, non diciamo dirigente, ma affaristica. Da anarcoidi avidi, parenti dei 'pescicani' della prima guerra mondiale, di fronte ai quali il Mackie Messer brechtiano era un gentiluomo oxoniense.

Si parla della libertà di stampa quando stanno per soffocarla, quando televisioni e giornali rimbombano di voci incomprensibili, idiomatiche, specialistiche.

(08 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #134 inserito:: Aprile 16, 2010, 04:10:09 pm »

L'impossibile e il giusto

di Giorgio Bocca

È assurdo pretendere dai governanti la felicità o l'eterna giovinezza. Ma i cittadini dovrebbero chiedere quel che rientra nelle loro possibilità. Primo: non rubare
 
Con il loro governo gli italiani o hanno pretese eccessive, assurde, o sono di una condiscendenza, di una passività incredibili. Le richieste eccessive sono presto dette: al governo si chiede in primo luogo la sicurezza, cioè qualcosa che è affidata a ogni cittadino, al controllo dei desideri, impulsi, follie della 'scimmia assassina', alias homo sapiens sapiens. La cronaca nera quotidiana conferma che il nostro vicino di casa può essere uno come il giardiniere del re della pasta Amato, che un mattino, incontrandolo nella villa di Sorrento, non ha resistito alla voglia improvvisa di ucciderlo a coltellate; per non dire degli sposini di Erba che hanno sterminato una famiglia "perché facevano rumore". È assurdo pretendere da un governo il lavoro quando non ce n'è per colpe non sue, o addirittura la felicità come pretendono gli americani, o l'eterna giovinezza e la bellezza e il buon umore e altri doni che neppure il buon Dio può concedere a tutti ma che tutti vogliono.

Se invece si passa ai guasti, ai mali che un governo può fare il discorso cambia: qui i divieti elencati dal Decalogo sono una legittima richiesta dei sudditi, qualcosa che rientra nella possibilità dei governanti. Per cominciare: non rubare. Ma come? In Italia il furto non è generale, non c'è una gara ad arraffare, frodare, imbrogliare, rapinare? Sì ma non con la complicità del governo, non con il governo che tiene il sacco e fa da palo.

Si discute se il furto generale di oggi sia la stessa cosa di tangentopoli o diversa. Potremmo dire che tangentopoli era un furto generale della politica per mantenere se stessa e i suoi manovratori, mentre l'attuale è uno sport nazionale, un modo di vivere quasi universale che coinvolge politici e prostituti di ambo i sessi, che accomuna il ministro alla massaggiatrice, il paparazzo al regista, il posteggiatore al premier, il gentiluomo del papa allo spacciatore di droga.

Ai governanti non ha senso chiedere le virtù celesti, ma di non praticare senza ritegno i peccati capitali. Fosse solo con i cattivi esempi: come assoldare i migliori e più spregiudicati avvocati per ingannare i giudici, i più abili costruttori o organizzatori per rubare sugli 'eventi', i più celebri economisti per partecipare al sacco della pubblica finanza.

Ciò che colpisce nel comportamento civile degli italiani, nel modo in cui concepiscono la cittadinanza con i suoi diritti e i suoi doveri, è il distacco grandissimo, la sproporzione fra le domande impossibili e la giusta richiesta di ciò che il governo può e deve fare. Le vittime di sciagure naturali, terremoti, frane, inondazioni non chiedono a un governo di fare onestamente il possibile per aiutarli, chiedono il miracolo di riavere quello che hanno perso rimesso a nuovo e magari migliorato.

Conoscendo a fondo questo modo di pensare delle masse il sultano che le governa, le tacita e accontenta con i suoi miracoli, i villaggi modello ricostruiti in tempo record con tutto 'il ben di dio', come usa dire, compreso lo spumante. Trasforma cioè la sciagura naturale in un evento miracolo e gioioso. È così in tutta la pubblica amministrazione, nella finanza come nella scuola, nelle forze armate come nella politica estera. La meta da raggiungere non è più la normalità ma il primato storico, non la viabilità ma il ponte sullo stretto più lungo del mondo, non la nettezza urbana di ogni paese civile ma il miracolo in technicolor del lungomare di Napoli di nuovo frequentato dai turisti stranieri che scendono dalle navi da crociera.

Nulla di nuovo. Nella mia piccola città piemontese per una visita del Duce le facciate inesistenti dei palazzi vennero sostituite da pareti di amianto. Velenoso, come oggi si sa.

(15 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it
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