LA-U dell'OLIVO
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Autore Discussione: GIORGIO BOCCA.  (Letto 141291 volte)
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« Risposta #90 inserito:: Marzo 21, 2009, 12:10:13 pm »

Giorgio Bocca


Prevalenza del peggio


Dalle infinite code in autostrada ai sondaggi televisivi. Dalle ronde al cartello dei pastai per aumentare i prezzi. Le scelte 'bulgare' del popolo sovrano  Vista dalla parte dei ricchi questa grande crisi, la più grande dal '29, ma non molto più grande, è grottesca più che drammatica, si morde la coda, si contraddice. Al rientro in auto dalla Valle d'Aosta la prima constatazione che fai è che del risparmio energetico tutti parlano, ma nessuno lo pratica.

Che insomma la regola generale è di fare il contrario di ciò che si predica. Non siamo il paese delle microauto utilitarie? Quelli della Chrysler o della General Motors non hanno chiesto alla Fiat di insegnargli a fare le auto tascabili? Sulle gazzette non si parla di altro, ma fra Courmayeur e Milano di microauto non ne vedi una, Cinquecento e Seicento sono scomparse.

Il mio vecchio gioco di contare i 'pentolini', come li chiamavo, è impossibile, non ci sono più, è pieno di bisonti, di corazzate, di caimani, una sola coda dal Monte Bianco a corso Sempione. Perché tutti partono alla stessa ora, quando è già buio, perché trovano tutte le scuse per tirar tardi? Prima era solo un sospetto, adesso è una certezza: perché stare in coda gli piace, perché non c'è solo, come hanno scritto Fruttero e Lucentini, la prevalenza dei cretini, c'è anche la prevalenza del peggio.

La coda in auto è la cosa più stupida del mondo, stupida come le statistiche. Non c'è nulla di misterioso nelle code, dipendono dai numeri, dalla quantità. A un certo punto, senza un'apparente ragione, senza imprevisti e incidenti drammatici, la marmellata metallica rallenta, i cambi di corsia, le uscite dal benzinaio, lo stop and go, la noia, gli sbadigli si sommano; non c'è nulla da fare, neppure tirare a indovinare, la marmellata come si era intasata si apre, la strada si libera, correte di nuovo alla velocità di un pedone. Nell'Italia povera non c'erano code di auto, e neppure funivie, ma chi tornerebbe indietro?


Il peggio della modernità ci piace, ci piacciono le tre S: i soldi, il sangue, il sesso. Il padrone della televisione satellitare Rupert Murdoch è un australiano, ma è uno che ci conosce bene. Ogni giorno alla sua televisione appaiono dei sondaggi di opinione, naturalmente tradotti in immagini, gli striscioni blu o rossi che si allungano come serpenti. In blu quelli che non approvano una novità, in rosso i favorevoli.

Ebbene, con i sondaggi del popolo sovrano non si sbaglia, sceglie sempre il peggio, con percentuali bulgare come usa dire, ma i bulgari sono autorizzati a chiamarle italiane.
La stragrande maggioranza è favorevole alle ronde. Dicono che i carabinieri hanno la testa dura, ma forse in materia di ronde sarebbe più giusto tener conto della loro esperienza. La quale gli fa dire cose ovvie.

Per esempio che in tutte le regioni dove fioriscono le mafie e le camorre, e sono molte per non dire tutte, saranno le organizzazioni criminali a impadronirsi delle ronde o a usarle, e che spendere un sacco di euro per armare e attrezzare i nostri Rambo non è il migliore degli affari.

L'effetto più visibile della modernità è di aver aumentato e posto fuori controllo la prevalenza del peggio. Ogni occasione è buona per favorirla. I nostri pastai hanno formato un cartello per non farsi la concorrenza, e aumentano i prezzi di spaghetti e maccheroni proprio mentre la povera gente non aveva i soldi per arrivare alla fine del mese e mentre il prezzo del grano crollava.

Dite che la prevalenza del peggio non c'è? Faccio una facile previsione: la maggioranza del popolo sovrano aspetta con malcelata ansia che i ladri di Wall Street facciano a pezzi Barack Obama. Da molti si sente già dire: finirà come i Kennedy.


(20 marzo 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #91 inserito:: Aprile 08, 2009, 10:06:27 am »

Giorgio Bocca,


A chi piace l'immigrato

Le grandi migrazioni di massa sono come le maree e i terremoti che nessuno riesce a regolare. C'è chi viene danneggiato e chi ci guadagna sopra  Siamo qui per lavorare è la frase che riassume pensieri e sentimenti degli immigrati poveri nel nostro Paese, il 'fin de non recevoir' alle nostre profferte di amore, eguaglianza, solidarietà. Grazie per le buone parole, ma siamo qui per fare le badanti, raccogliere i pomodori, spaccare le pietre o fondere i metalli. Dite che ci integreremo con voi, che finiremo per avere i vostri diritti e il vostro benessere? Forse tra 50, fra cento anni, per ora tiriamo la carretta, stiamo in guardia, viviamo nelle nostre comunità, ci fidiamo solo dei nostri amici e parenti.

Questo è oggi lo stato dell'immigrazione nel nostro Paese, l'ultima immigrazione di massa dopo le invasioni e le conquiste millenarie. È un bene o un male? Diciamo che è un fatto naturale, come le correnti marine o i terremoti, con il cattivo e il buono che ci portano, ci piacciano o meno.

Sulle migrazioni in genere, su questa di massa in particolare, si esercitano tutte le retoriche e gli opportunismi possibili. Anche se alla resa dei conti sono riedizioni della schiavitù: i poveri e i vinti della Terra lavorano per i vincitori e i ricchi. In questa riedizione aggiornata della schiavitù gli svizzeri tedeschi sono dei maestri: nelle grandi stazioni turistiche della valle del Rodano come dell'Engadina gli schiavi di giorno non si vedono, stanno chiusi nei loro alloggi, solo di sera escono furtivamente, appaiono nelle case e per le strade a trasportare pesi o a raccogliere immondizie. Nei luoghi deputati della ricchezza la vista degli schiavi non è gradita.

Sono un bene o un male le immigrazioni? Sono un fatto naturale che si ripete nel bene come nel male. In tutte assieme ai migliori e coraggiosi arrivano i peggiori e sventurati. La criminalità marocchina o rumena riproduce con delitti diversi quella di noi italiani nel gangsterismo del Nord America. In cui accadevano le stesse cose di oggi in Campania o a Duisberg, che i gangster calabresi o campani di recente importazione si ammazzavano con quelli irlandesi o londinesi delle precedenti.

Sulle migrazioni di massa ci sono pareri diversi. Non piacciono a chi viene danneggiato, piacciono a chi ci guadagna sopra. Il loro grande guaio comune è che sono di lunga, lunghissima digestione, che occorrono molti decenni, a volte secoli, perché si chiudano le loro ferite e si ricostituisca una civile normalità. Ci fu al principio del secolo breve, come chiamano il Novecento, la grande illusione del comunismo, la speranza nella rivoluzione delle rivoluzioni che avrebbe eliminato le differenze tra i ricchi e i poveri, i vincitori e i vinti. Finita nell'inferno stalinista quella grande speranza, siamo tornati a considerare queste invasioni di massa come le maree o i terremoti, come fenomeni naturali che pochi lodano, molti deprecano e nessuno riesce a regolare, come si conferma con il popolo dei naviganti e dei naufraghi che nessuno al mondo può trattenere da affrontare la fame e la sete e il mare impietoso.

E il fallimento della grande rivoluzione ha segnato anche la fine dei miti e dei riti della classe centrale, la classe operaia che si faceva carico delle sofferenze del mondo. Cose di altri tempi. Oggi come oggi la grande migrazione è un'opportunità per i ricchi di fare altri soldi o di permettersi altri comodi, e per la maggioranza dei comuni cittadini, né santi né eroi, di viverla come una sgradevole necessità, come un prezzo da pagare a questo famoso progresso, a questa conclamata modernità di cui tutti parlano come necessità, come obbligo. Che non è proprio il massimo della libera scelta.

(03 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #92 inserito:: Aprile 10, 2009, 10:47:19 am »

Giorgio Bocca


Preistoria neofascista


A questi nemici giurati e inguaribili della Repubblica democratica basta recitare il ritorno al passato, non di progettarlo. Ma attenzione: neanche la marcia su Roma e le leggi speciali erano state progettate  Un militante di Forza NuovaSto leggendo con sgomento e rassegnazione il saggio di Paolo Berizzi sul rinascimento italiano ed europeo. Perché ciò che sta rinascendo e potrebbe di nuovo sommergerci è qualcosa d'incomprensibile e di inafferrabile: il vuoto, il vuoto completo d'idee, di cultura, di storia. Solo pulsioni generazionali, di violenza giovanile. 'La ricreazione è finita', si legge nei loro proclami. Per dire che è finito il tempo della ragione e ritorna il tempo della violenza, il tempo del fascismo come malattia dello spirito, come moda, come follia comune a ogni classe, a operai, borghesi, contadini con i moti di massa simili alle maree, sindacati rossi che in una notte diventano neri, socialisti internazionalisti che si riscoprono nazionali, cioè nazisti.

L'onda lunga della destra porta con sé l'onda torbida del neofascismo. Quanti sono i giovani con le teste rasate, le svastiche, il saluto romano, che rinnegano la democrazia e le sue libertà per tornare al culto razzista, alla voglia di un dominio della razza bianca, all'odio millenario, sempre lo stesso, per gli ebrei? Pare quasi 200 mila, una cifra enorme, una massa che aumenta a valanga, una prospettiva di lacerazioni e scontri feroci inevitabili, una maledizione eterna.

La televisione di 'Repubblica' ha trasmesso un'inchiesta sul neofascismo. Vi ho trovato conoscenze e personaggi che credevo finti. Il capo dei naziskin romani che conobbi a una trasmissione di Giuliano Ferrara. Grottesco, preistorico. "L'Olocausto?", diceva: "Forse qualcuno è stato ucciso nei campi di prigionia, ma lo sterminio di massa è un'invenzione. Dove sono le prove? Le camere a gas le hanno inventate gli ebrei".

Con chi ce l'hanno i nazifascisti? Con tutti e con nessuno. Contro le droghe e gli hamburger degli americani, ma anche contro i comunisti nemici degli americani, contro gli ebrei che perseguitano i palestinesi, ma anche contro tutti i movimenti di liberazione, contro tutti i sindacati, e anche contro i liberisti, contro i banchieri che stanno rovinando il mondo con la loro finanza truffaldina.


La storia? I nazifascisti la ignorano spavaldamente, si radunano dietro i loro labari, picchiano i malcapitati, ma ignorano anche i fatti da cui sono nati, la grande crisi capitalistica del '29 e le lotte sociali da cui sono nati loro stessi, l'attuale terremoto economico. Niente. Qualche fotografia del duce e di Hitler, di camerati festanti, di croci uncinate e il vuoto.

Che cosa schedano e indagano le questure, che cosa vuol sapere il ministero degli Interni di questi che ogni giorno platealmente violano una delle leggi fondamentali della Repubblica, l'articolo 139 della Costituzione: "È vietata la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista"?

Sul tema della congiuntura antidemocratica, del colpo di Stato autoritario, della presa del potere non una riga, non un pensiero, per questo la Repubblica democratica può dormire tranquilla, i suoi nemici giurati e inguaribili pensano a tutto meno che a sovvertirla, gli basta, si direbbe, la libertà di recitare il ritorno al passato, non di progettarlo.

Ma attenti: neanche la marcia su Roma e le leggi speciali erano state progettate, sono arrivate da sole quando la democrazia si è arresa senza combattere, quando i ludi cartacei hanno cessato di essere una politica credibile.

(09 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #93 inserito:: Aprile 21, 2009, 11:26:42 pm »

Giorgio Bocca


I colonnelli del Cavaliere


Generazioni di italiani non hanno lavorato, patito, combattuto per ritrovarsi in questa Italia che è riuscita a liberarsi dal fascismo ma non dai fascisti  Berlusconi ed altri leader del Pdl alla chiusura del congresso di fondazioneAh non per questo dal fatal di Quarto... Ritorna il lamento dell'Italia garibaldina, di azione e di qualità, per l'Italia degli affari sporchi e delle mafie, inevitabilmente clerico fascista. E non è uno dei soliti cambi generazionali, ma la fine di un'epoca e soprattutto di una grande speranza.

Pierre Teilhard de Chardin diceva di poter credere in Dio solo attraverso una crescita morale e civile del genere umano. Qualcosa di simile ci era parso di cogliere nel primo cinquantennio della Repubblica: volgeva al termine una triste società di classi, dove i poveri e gli umili erano riconoscibili anche dal modo di vestire e di parlare, la guerra partigiana, guerra di popolo e di volontari, aveva creata con le sue grandi alleanze orizzontali una prima, imperfetta ma per noi miracolosa unità nazionale, alla civilizzazione delle parrocchie si era aggiunta quella dei partiti e dei sindacati.

I forti conflitti sociali erano anche terreni d'incontri e di conoscenze, i grandi partiti storici e ideologici creavano comunque nuove spinte all'eguaglianza e al benessere. E ci eravamo lasciati alle spalle il grande inganno di un imperialismo tardivo in un'età in cui il colonialismo era al tramonto, e il razzismo si era inabissato assieme al Terzo Reich. Insomma l'Italia della ricostruzione, del miracolo economico, della modernità, delle autostrade e della democrazia.

E adesso, nel volgere di pochi anni, la fine delle speranze e il ritorno al passato, a qualcosa di molto simile, ma in peggio, all'Italia monarchica e fascista, questo regime dove non c'è un monarca per grazia di Dio, ma un padrone che non sopporta limiti e controlli, che allo Stato di diritto è andato sostituendo quello d'eccezione, delle leggi ad personam, della corte familiare e clientelare.

La vecchiaia è una brutta malattia, ma se le si unisce, come ora, questo penoso, deludente ritorno al passato e ai suoi vizi, può mutarsi in tormento. Dove sono i modelli, le speranze, le nobili ambizioni che diedero gioia e interesse alla nostra vita? Dove la speranza o l'illusione di Pier Paolo Pasolini di vedere nei comunisti gli uomini nuovi? O quella di Enrico Mattei su un'economia operosa e indipendente?


Persino la riedizione del fascismo sembra di corto respiro. Sopravvissuto alla tragedia di Salò e poi alle umiliazioni e alle durezze dell'isolamento, oggi il fascismo dei colonnelli, dei nuovi gerarchi nati a imitazione dei granduchi del regime ha imitato il fondatore nel più spericolato trasformismo. Il nuovo leader Gianfranco Fini ha guidato la sua cordata nelle giravolte più audaci in tutte le direzioni: dei nemici della democrazia e del Parlamento ha fatto i loro più zelanti difensori, ha rinnegato l'imperialismo e il razzismo mirando a un posto nelle democrazie europee. L'unico insegnamento mussoliniano rimasto vivo è di giocare spregiudicatamente tutte le carte che portano al successo.

Invecchiare in un paese che guarda al passato, che ripercorre le vie sbagliate del passato è umiliante prima che inutile e faticoso.

'Ah non per questo dal fatal di Quarto', non per questo generazioni d'italiani hanno lavorato, patito, combattuto; non per ritrovarsi fra questi neo liberali che non sanno cosa sia la libertà, fra questi uomini di Stato che ogni giorno combattono e disgregano lo Stato. In questa Italia che è riuscita a liberarsi dal fascismo ma non dai fascisti.

(16 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #94 inserito:: Aprile 22, 2009, 04:13:11 pm »

La Resistenza non ha colore


di GIORGIO BOCCA


SILVIO Berlusconi, accogliendo l'invito del segretario pd Franceschini, parteciperà per la prima volta al 25 aprile. È una decisione che va giudicata positivamente perché in essa oltre che a un diritto si riconosce il dovere del presidente del Consiglio di celebrare assieme a tutti gli italiani la festa della Liberazione e i valori della Resistenza, dell'antifascismo e della Costituzione. Ma quando aggiunge che lo farà perché di questa festa non se ne appropri soltanto la sinistra il premier rivela di essere ancora lontano da una autentica maturità democratica e storica. Più fallace di lui si dimostra il ministro della Difesa Ignazio La Russa.

La Russa, uno dei neofascisti sdoganati da Berlusconi, dichiara che "i partigiani rossi meritano rispetto ma non possono essere celebrati come portatori di libertà", cioè fra i fondatori della democrazia italiana. È difficile capire su cosa si basi l'affermazione di La Russa dato che il Partito comunista italiano che organizzò e diresse i partigiani rossi, meglio noti come garibaldini, fece parte e parte decisiva dell'Assemblea costituente da cui è nata la Repubblica democratica.

Che i comunisti italiani abbiano scelto la democrazia invece che la dittatura potrà sembrare ai loro avversari una scelta opportunistica, obbligata dai rapporti di forza in Europa e nel mondo ma si prenda atto anche da chi avrebbe preferito un esito diverso che essa ci fu e fu per i comunisti italiani vincolante. Gli storici non hanno ancora fornito la prova di chi fu la responsabilità di questa scelta: se fu decisa da Stalin o dalla Internazionale comunista di cui l'italiano Palmiro Togliatti era un autorevole dirigente, ma l'accettazione da parte comunista della divisione del mondo in due sfere di influenza fu un dato di fatto accettato sin dagli anni della guerra di Spagna, riconfermato nell'incontro fra i vincitori della guerra contro la Germania nazista e rispettato anche dopo l'invasione sovietica dell'Ungheria.

Fosse interprete del pensiero politico di Stalin o convinto della necessità di convivere con le grandi democrazie occidentali Togliatti, arrivato in Spagna durante la guerra civile, dettò i tredici punti di una costituzione che sarebbe entrata in vigore a guerra finita di chiara impostazione democratica: autonomie regionali, rispetto della proprietà e della iniziativa privata e dei diritti civili, libertà di coscienza e di fede religiosa, assistenza alla piccola proprietà, riforma agraria per la creazione di una democrazia rurale, rispetto delle proprietà straniere non compromesse con il nazismo, ingresso della Spagna nella Società delle nazioni. Naturalmente già allora gli avversari dei comunisti dissero che era una scelta tattica in attesa della rivoluzione, ma una scelta vincolante come si dimostrò in Grecia quando i partigiani rossi di Markos e il loro tentativo di impadronirsi del potere furono abbandonati alla più dura sconfitta. Che la scelta democratica fosse valida nella Repubblica fu chiaro quando tutte le fiammate rivoluzionarie della base comunista, dall'occupazione della prefettura di Milano a quella del monte Amiata dopo l'attentato a Togliatti, furono spente dalla polizia diretta da Scelba senza reazione del partito.

Possiamo dire che le affermazioni di La Russa sull'inaffidabilità democratica dei partigiani rossi sono un processo alle intenzioni smentito dal rispetto alla Costituzione dei comunisti italiani, che al contrario dei neofascisti alla Borghese o delle trame nere, non hanno mai progettato colpi di Stato e si sono schierati con decisione contro il terrorismo delle Br. Ma c'è un'altra ragione, anche essa storica, per dissentire dalla dichiarazione di La Russa ed è quella di considerare il movimento partigiano garibaldino come un tutt'uno con il partito comunista e il partito comunista come la stessa cosa di una dittatura stalinista. Procedere per generalizzazioni arbitrarie è un cattivo modo di fare la storia e anche la politica.

Chi ha conosciuto il movimento partigiano nella sua improvvisazione e varietà estrema sa bene che diventare un partigiano rosso non era sempre una scelta politica, ideologica, che si andava nelle brigate Garibaldi per molte ragioni non politiche, perché erano fra le prime formatesi o le più vicine, le prime che si incontravano fuggendo dalle città occupate dai nazifascisti magari per raggiungere dei conoscenti, degli amici. Si pensi solo al comando garibaldino piemontese, che si forma in valle Po con gli ufficiali di cavalleria della scuola di Pinerolo che seguono Napoleone Colajanni, nome partigiano Barbato, perché loro amico non perché comunista, o gli altri che in Val Sesia vanno con Cino Moscatelli perché è uno della valle come loro non perché è comunista.

Così come noi delle bande di Giustizia e Libertà nel Cuneese che non avevamo mai sentito parlare del partito di azione e del suo riformismo liberal-socialista, ma che eravamo compagni di alpinismo di Duccio Galimberti o Detto Dalmastro. Nella guerra partigiana prima veniva la sopravvivenza, la ricerca delle armi e del cibo, poi sul finire arrivò anche la politica, ma le ragioni di lealtà e di amicizia restarono dominanti per cui egregio ministro La Russa mi creda ma per uno che è stato partigiano le differenze di cui parla non ci sono state. Per venti mesi, per tutti, la ragione di combattere era la libertà.

(22 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #95 inserito:: Aprile 25, 2009, 10:09:13 am »

Giorgio Bocca


I giorni peggiori


La retorica e la mediocrità piccolo borghese restano e rinascono. Il ritorno dilagante delle menzogne sta oscurando il cielo  Mara CarfagnaI fascisti c'erano all'incoronazione del Cavaliere, gli squadristi eterni e i reduci di Salò, ma chi conosce l'Italia prefascista ha ritrovato la piccola borghesia padronale e ambiziosa che rotea gli occhi e gonfia le gote quando canta la strofa dell'inno nazionale 'che schiava di Roma Iddio la creò' sciaguratamente adottato dai costituenti democratici.

L'Italia (ma potremmo dire l'Europa sciovinista e 'über alles') che pensavamo, speravamo di esserci lasciata alle spalle dopo il massacro dell'ultima guerra mondiale. E invece eccoli lì come usciti da una vecchia fotografia del 'secolo breve', felici e trionfanti attorno al nuovo ducetto: come un mazzo di fiori, con le camicette bianche sull'impetuoso seno, le donne- ministro, la Carfagna e la Meloni, le gallinelle del padrone, a memoria di privilegi maschili antichi.

Poi, come in una foto scolastica, tutti i nuovi gerarchi e gerarchetti, la faccina protesa verso il capo. E ancora. Grazie alla televisione che tutto vede, i giovani entusiasti, uomini e donne, finalmente anche per loro nati e cresciuti nella grigia democrazia un capo, un superuomo, un duce.

Ecco la ragione per cui questi sono a nostro parere i giorni peggiori della nostra vita, quelli per cui possiamo mestamente pensare di averla vissuta invano. Questo ineluttabile slittamento verso il passato, questa terribile delusione: il tempo passa, i troni e le dominazioni cadono, i ladri e i malvagi muoiono come tutti, ma la retorica e la mediocrità piccolo borghese restano e rinascono. Il ritorno dilagante delle retoriche, delle menzogne sta oscurando il cielo.

Più di tutte insopportabile e affliggente la retorica del 'popolo della libertà', un nome impudicamente rivendicato dalla nuova razza padrona. Diciamo impudicamente perché se c'è un paese al mondo dove la libertà è un bene raro e misterioso, un regalo talmente prezioso che a volte facendone uso ci sembra di sfiorare l'eresia, è il nostro.


Sentimmo il desiderio di libertà negli anni della dittatura morente e poi ne parlammo molto, concitatamente, nei giorni della guerra di liberazione. Noi liberalsocialisti eravamo per la libertà totale, pura e ingenua, i vecchi combattenti comunisti ci mettevano in guardia: libertà, sì, ma che sia anche libertà dal bisogno. E i costituenti non poterono ignorarlo (ecco ciò che il Cavaliere definisce influenze bolsceviche), fondarono la Repubblica sulla libertà e anche sul lavoro.

Poi per oltre mezzo secolo abbiamo cercato di capire, di sopravvivere, di avanzare nella giungla degli appetiti umani dominanti, nella lotta continua, quotidiana per affrontare il disonesto e il corruttore, e, in primis, di riconoscerlo dietro le menzogne e le propagande. Di nuovo, ancora convinti dalle esperienze quotidiane che la libertà è una distinzione umana ma non gratuita, non regalata ma conquistata e conservata con quotidiana fatica, con quotidiano impegno personale, al di fuori delle belle parole che applicate a una realtà indecente, indecenti appaiono.

C'è da chiedersi come 'l'animale politico' Mussolini, uomo non sprovvisto d'intelligenza politica, abbia potuto pensare di cambiare gli italiani con il profluvio di retorica nazionalista, ma evidentemente questo tipo di errore è inevitabile, se oggi l'abile affarista che ci ritroviamo a capo del governo crede di sostituire la patria e l'impero con la libertà, anzi, le libertà, perché lui è abituato a far le cose in grande, e a presentarle come in un supermercato.

(24 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #96 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:48:31 pm »

Giorgio Bocca


Come uscire dalla crisi


L'abbandono forzato del gigantismo, malattia perenne del capitalismo, avrà l'esito sociale noto: ceto medio punito, capitalisti in fuga col bottino e il rombo di nuove voglie rivoluzionarie  Obama è una brava persona, uno che sta dalla parte degli onesti, ma è il presidente degli Stati Uniti, il più grande Stato capitalistico del mondo, e bon gré mal gré dovrà pure risolvere la grande crisi finanziaria ed economica in cui versa il mondo.

Come farà? Farà come tutti i capi di Stato che lo hanno preceduto: toserà le monete d'oro, stamperà miliardi di dollari e magari seguirà i consigli un po' truffaldini dei nuovi Casanova, inventerà qualche lotteria o qualcosa di simile per far soldi, si farà consigliare da finanzieri esperti, gli stessi che insegnano l'arte capitalistica di fare soldi. Ai miei tempi il principe degli esperti era il professor Bruno Visentini, il più abile dei consiglieri fiscali e al tempo stesso dirigente industriale venerato dalla nascente specie dei manager.

Negli anni Sessanta ne conobbi parecchi a Courmayeur, la stazione alpina dove si davano il cambio gli antifascisti perseguitati e i capitalisti al potere, e la prima cosa che notai fu questa: i manager godevano di una straordinaria facoltà di cadere sempre in piedi, licenziati da un'azienda con congrua liquidazione ne trovavano subito un'altra con stipendi e poteri aumentati, quale che fosse stato l'esito della loro gestione.

Un'altra prerogativa della corporazione era l'impunità. In carcere per bancarotta e frode andavano solo e raramente i loro contabili, anche se tutti citavano i tristi casi dei loro colleghi americani o inglesi finiti in qualche penitenziario. L'economista Giulio Sapelli sostiene che i manager hanno fatto un vero colpo di Stato decidendo di comune accordo di darsi delle retribuzioni sempre più grandi, addirittura stratosferiche, centinaia di volte quelle di un comune operaio e impiegato con le stock option, delle vere e proprie truffe ai danni degli azionisti, con la scusa che avevano creato del valore aggiunto che andava premiato, come se il valore aggiunto di un'azienda non fosse dovuto a tutti coloro che ci lavorano.

Come farà il bravo Obama a tirar fuori gli Stati Uniti e il mondo dalla crisi che ci attanaglia? Con tutte le sapienti manovre di cui parlano i mezzi d'informazione, ma soprattutto con l'antico, insostituibile metodo della tosatura dell'oro, con il conio di nuova moneta, con la svalutazione e con la sua inevitabile conseguenza sociale: la punizione del ceto medio, la sua riduzione forzata a una ristrettezza proletaria.

Tutto avviene secondo i tempi e i modi canonici: nessuno sa spiegare il mistero della grande crisi senza fine dell'industria automobilistica americana e mondiale. Che c'è di misterioso in questa crisi? Niente. Tutti sanno che essa è dovuta a crescite incontrollate: automobili sempre più grandi e più care e richieste salariali sempre più alte, in una parola il gigantismo, malattia perenne del capitalismo, la cui cura principale un tempo consisteva nei grandi salassi economici e di vite umane che erano le guerre.

E quali sono oggi le cure che Obama e gli altri governanti ci propongono e c'impongono? L'uscita forzata dal gigantismo, automobili più economiche e salari meno alti, con l'esito sociale noto: ceto medio punito e retrocesso, capitalisti in fuga con il bottino e un rombo, per ora soffocato, di nuove voglie rivoluzionarie, come alla City londinese.

(30 aprile 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #97 inserito:: Maggio 08, 2009, 04:48:55 pm »

Giorgio Bocca


Le macchine intelligenti


Con la modernità computerizzata tutto è più comodo e facile, ma anche più mediocre e deludente. Ci risparmia fatiche inutili e ripetitive, ma non ci fornisce genio, arte, intuizione  Il punto debole della modernità, delle macchine intelligenti, dei computer e di Internet è che ci risparmiano le fatiche stupide, ripetitive, ma non ci forniscono genio, arte, intuizione. Almeno nel lavoro che è il mio e che credo di conoscere, la letteratura, la scrittura, il narrare. Tale essendo l'argomento, diventa molto difficile trovare le parole per spiegare, ritorna la tentazione dell'ermetismo, dell'oscurità sacerdotale.

Le macchine della modernità, computer, copiatrici, calcolatrici, eccetera, mi rendono più facile, meno faticoso il mio mestiere di scrittore. Tutto ciò che scrivo viene ricordato, annotato, ricopiato a piacimento in centinaia di copie. Fatiche che hanno segnato la mia vita e i miei incubi di appunti persi, di pagine cancellate da gesto maldestro, persino capitoli rosicchiati dai criceti, come mi capitò con la 'Storia della guerra partigiana' durante una vacanza a Courmayeur.

Per non parlare delle nevrosi da perfezione che trasformava ogni articolo in una tortura: al minimo errore il foglio strappato, un senso d'impotenza, il gusto giallo della sigaretta in bocca. Per non parlare di tutto il resto: sofferenza per i nomi dimenticati o sbagliati, per le date errate, per i luoghi confusi, le memorie perse, sicché per uscirne bisognava ricorrere a una sorta di autoanalisi, accettare gli errori e le manchevolezze, dare per normale l'errore e la stupidità.

Con la modernità computerizzata tutto è più comodo e facile, ma tutto più mediocre e deludente. Non è che voglia vantarmi di aver scoperto ciò che tutti sperimentano in questa modernità, ma la percezione dell'inganno modernista la ebbi subito, quando un giovane sardo di nome Soru aveva creato in Sardegna una società di nome Tiscali fatta di aria, di segni leggeri come l'aria, parole, memorie, calcoli che il giovanotto intraprendente vendeva come fossero pane o carne. Se le vendeva aveva ragione lui, ma a me sembrava che fossero opera di magia, da far sparire come il Maligno con il segno della croce.

Poi venne la marea dell'informatica, del basic, degli operatori robotici, elettronici, del silicio arricchito, dei computer di terza o quarta generazione, della sbornia di tecniche e di calcoli che ci avrebbero portato alla conquista non solo della Luna, ma dell'Universo.

Eppure quel dubbio, quella cautela, quel pensiero di assistere a un grande inganno, a una retrocessione umana scambiata per un passo decisivo per la sopravvivenza in un futuro radioso, non mi ha mai abbandonato, perché quello che ci veniva donato con una mano ci veniva tolto con l'altra o comunque non regalato e a volte peggiorato: la letteratura scritta con il computer che sa di frigorifero e di conservanti, gli spettacoli della televisione troppo ricchi di trucchi, l'invasione dell'immaginario e dell'immaginato per cui i fotogrammi di film sostituiscono spesso la cronaca, per cui le guerre che si vedono sugli schermi sono messe assieme con il repertorio di magazzino, i combattenti sono embedded addetti alle trasmissioni dei servizi stampa.

La storia dell'uomo è fatta così, cambia annullando il passato, innovando. Ma un miglioramento vero e proprio non lo si vede, le bandiere, gli eserciti, i nazionalismi retorici del 'Right or wrong, my country' restano come le stragi naziste o staliniane. Tutto stampato meglio, con una grafica più elegante. Ma il peggio è che il tempo di sopravvivenza sembra più corto.

(07 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #98 inserito:: Maggio 17, 2009, 12:01:05 am »

Giorgio Bocca.


Poveretti e furbetti

Il terremoto dell’Aquila ha mostrato la propensione al furto di massa, la partecipazione di massa a stragi premeditate pur di guadagnare sulla costruzione, sull’affitto, sulla manutenzione delle case  Qual è la regola di vita italiana dominante e perenne? Detta alla brutta: tirare a campare e, se si può, rubarci sopra. Il terremoto in Abruzzo dopo i terremoti millenari in Sicilia, Calabria, Molise, Marche, Emilia Romagna e su su fino al Friuli lo confermano, nell?insieme, nei particolari e anche nelle eccezioni virtuose.

Il baccano polemico che si è fatto su alcuni resoconti della carta stampata e della televisione non cambia di una virgola la regola eterna che è di piangere sul latte versato. Versato da noi italiani sordi a ogni avvertimento, prevenzione, lezione della geografia, dell?economia e della storia.

Una correità di massa, una complicità totale, un fatalismo che passa di generazione in generazione che ha trovato persino una sua immagine falsa e retorica, lo ?stellone d?Italia?, la fortuna che ci protegge, sempre smentita dalle successive catastrofi, sempre coperta da una retorica plebea, dalle rituali consolazioni clericali, con il porporato di turno che esorta e corregge a disastro avvenuto.

Un quadro impietoso ma ampiamente documentato, il 30 per cento delle case dell?Aquila oggi è inagibile, dicono i tecnici. Che significa? Che una casa su tre è stata costruita con un progetto sbagliato, con materiale scadente, o addirittura con il nulla, con il vuoto. La definizione dei colpevoli grandi e piccoli, di solito affidata a commissioni d?inchiesta che non vogliono o non possono indagare, è in realtà notissima: la colpa è di tutti o quasi tutti. Il capo del governo lo ha dichiarato a suo modo: «Nel disastro non c?è stato dolo».

Cioè tutti colpevoli. Nessun colpevole. Tutto si può dire del terremoto abruzzese ma non che sia stato una sorpresa. Anche un bambino con gli occhi bendati potrebbe puntare il suo ditino su uno qualunque dei borghi dell?Italia sismica, cioè appenninica e carnica, stretta tra le masse in movimento africane ed europee e dire: «Prima o poi qui». Fin qui, come dice Silvio, nessun dolo.

Ma con i progetti sbagliati, i materiali scadenti, il cemento fatto con la sabbia marina come la mettiamo? Perché c?è questa propensione al furto di massa, questa partecipazione di massa a stragi premeditate, perché pur vivendo sopra faglie e voragini la società nel suo complesso ha corso il rischio della catastrofe pur di guadagnare sulla costruzione o sull?affitto o sulla manutenzione delle case? Prendersela con la televisione per un resoconto critico o con la Protezione civile, che ancora una volta ha dato prova di essere uno dei pochi servizi pubblici funzionanti, e tacere sulle complicità o sul fatalismo di massa è cosa priva di senso e perciò largamente da noi praticata.

E allora diciamo una buona volta che come società nazionale siamo ancora dei poveri, con il modo di pensare dei poveri: tiriamo a campare ?del doman non c?è certezza?, la prevenzione costa troppo, spartiamoci quel poco che c?è, se i più furbi rubano in grande, noi approfittiamo degli avanzi del loro banchetto. Questo modo di essere, di pensare è antico quanto il nostro Paese e forse la storia può in parte spiegarlo.

Basta girarlo, questo Paese: quasi tutte le sue città, i suoi borghi, stanno in cima a una rupe o a un colle, fortificati contro il continuo passar di nemici. La nostra solidarietà non è per tempi di pace, ma dopo un sacco del nemico. Ma questo divagare per la storia è anche un modo di consolarci. Con i terremoti che continuano.

(15 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #99 inserito:: Maggio 24, 2009, 11:29:19 am »

Giorgio Bocca


Il G8 che divertimento


Il vertice che piace tanto a Berlusconi è una inutile recita dal vivo dei potenti e serve a dimostrare che esistono. A simulare una ragione, una necessità, una provvidenza: immaginarie ma necessarie  Il premier Silvio BerlusconiDopo la caduta definitiva di Napoleone, i grandi d'Europa si riunirono a Vienna per accordarsi sul nuovo ordine, che era poi l'antico degli aristocratici al potere. Il Congresso si diverte, scrissero i cronisti del tempo.

E fu davvero così: re e cortigiani sopravvissuti alla bufera della rivoluzione francese e alle guerre napoleoniche passarono gran parte del tempo in pranzi e in balli e in amori. Fu il capostipite dei G8 che tanto piacciono a Silvio Berlusconi, che è riuscito a imporli all'intero Occidente come sacra rappresentazione del potere.

Qualcosa di cui il potere sentiva il bisogno: l'occasione di mostrarsi in tutta la sua pompa, i suoi sprechi e la sua recita per i sudditi di un ordine ricomposto, di gerarchie ristabilite, di una storia che continua.

In occasione del terremoto in Abruzzo affidato alle cure di Guido Bertolaso, capo della Protezione civile, ci parve giusto riconoscergli funzioni effettive di gran ciambellano del regno, capace di provvedere ai suoi bisogni e alle cure dei suoi mali. E lo conferma la notizia testé appresa che si occupava anche del G8 che doveva svolgersi alla Maddalena, ma che per evidenti necessità di rappresentazione è stato trasferito all'Aquila, capoluogo dell'Abruzzo terremotato.

Bertolaso ci ha spiegato che il trasferimento è tutto sommato un buon affare sia dal punto di vista spettacolare, emotivo, sia da quello economico. Il G8 alla Maddalena sarebbe infatti costato una montagna di milioni di euro per le spese di sicurezza e di alloggi per le migliaia di delegati e di giornalisti da ospitare in navi gigantesche e da proteggere con migliaia di poliziotti e di soldati. A che pro? Per quale reale e urgente necessità? Ma che domande ingenue.

I G8, come il Congresso di Vienna, come tutte le rappresentazioni del potere, militare, politico o religioso che sia, servono prima di tutto a dimostrare che esistono, a simulare una ragione, una necessità, una provvidenza, immaginarie ma necessarie. Al punto che queste manifestazioni continuano a dispetto della modernità e del progresso tecnico.


Che bisogno c'è di organizzare questi convegni dei potenti in questo o in quel punto del pianeta con spese colossali e rischi terribili quando ci sono gli apparati delle telecomunicazioni che consentono tutti i tele-eventi che si desiderano? Al massimo c'è da trovare un certo accordo tra i fusi orari, ma si può fare.

Ma a cosa servono i G8? Quali accordi per il governo del mondo producono? Uno solo, diremmo: convincere i potenti riuniti e i loro sudditi in rispettoso ascolto che è possibile, o perlomeno tentabile, un avvento della ragione, una tregua degli egoismi e delle follie umane.

Ecco una delle ragioni per cui i G8 piacciono tanto a Silvio Berlusconi e in genere ai potenti. Gli piacciono non perché pensino davvero che servano a cambiare lo stato caotico delle umane faccende, ma perché le buone intenzioni sono tutto ciò che si può pretendere da una specie dissennata come la nostra.

E soprattutto perché cosa c'è di più caro al potere, se non la sua recita dal vivo, davanti agli uomini in carne e ossa, con le bandiere multicolori che palpitano al vento, con la folla schierata al passaggio delle automobili presidenziali? Anche ai G8 i potenti si divertono come al Congresso di Vienna. La diplomazia non è una delle conquiste del genere umano?

(22 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #100 inserito:: Luglio 19, 2009, 04:58:18 pm »

Questo lusso non fa per me

di Giorgio Bocca


Sono stato ospite di un hotel 'cinque stelle L'. Soffi di porte dorate, ascensori bomboniere, tende bianche e morbide come un mantello regale... E a me vengono i crampi 

Mi è capitato di essere ospite di un hotel cinque stelle L, che vuol dire lusso, e di rendermi conto che il lusso, anche quello vincente, ammirato, dichiarato, esposto, sicuro di sé, che sta egnando l'attuale era globale, non fa per me. Per questi motivi.

Il primo è il crampo, non dico dell'avarizia, ma di chi rispetta il denaro e teme la povertà come imago mortis. Un crampo delicato, tenue, ma che ti segue da quando sei nella hall del cinque stelle L a quando approdi tra soffi di porte dorate e ascensori bomboniera nell'appartamento - attento a non chiamarlo alloggio, logis, alla piemontese - grande più di casa tua in città.

E già tre cameriere stanno aprendo le tende bianche, spesse e morbide come un mantello regale, sul paesaggio bellissimo, unico al creato della 'divina costiera' che ti blocca il respiro al pensiero che dovrai vederlo ogni giorno e dire "sembra una cartolina", come si dice al tuo paese fra la gente comune.

La tv. Dov'è la tv? Un maggiordomo, come intuendo il tuo pensiero, si avvicina a una libreria antica, con i volumi rilegati in rosso porpora, sfiora con una mano un volume e la libreria si apre sullo schermo opalescente. E il telecomando? È lì sul tavolo, accanto al vassoio di ciliegie rosse, carnose e morbide come se ne vedono dal fruttivendolo di via Montenapoleone a Milano, dove le impacchettano nella carta argentata come fossero gioielli. Non chiedere come si accendono o spengono le decine di lampade con l'abat-jour di pergamena, non riuscirai a capirlo per tutto il soggiorno.

Il crampo al pensiero del mucchio di denaro che se ne va a ogni secondo di soggiorno nell'hotel a cinque stelle L ti ritorna prepotente quando arrivano i camerieri del servizio in camera, tre, del luogo diresti, magri e belli come il 'Monello' di Gemito.

Quando se ne vanno, ti getti sul letto, stanco per il viaggio, ma è un letto alto e grande come quello del re Sole, e sul tavolino c'è una bottoniera dorata con indicazioni comprensibili solo per gli habitué del lusso di cui Giulio Sapelli ha scritto: "Sempre più numerosi sono i fautori di una società basata sulla glorificazione del lusso, mai vertiginoso come in questi anni. Intendiamoci, la presenza e il mito del lusso hanno sempre accompagnato la storia delle comunità umane, ma è l'ostentazione che li caratterizza".

E proprio questa ostentazione che, assieme al poco rispetto per il denaro guadagnato con fatica, m'insegue con i crampi delicati ma insistenti, con la scoperta del superfluo in un palazzo dove si aprono saloni dominati da busti di imperatori romani seguiti da scale e scalette prive di senso, verso una cappella con altare, da cui si passa a giardini pensili in cui si muovono giardinieri in divise turchesche, qui un piccolo bar, là un mini-ristorante, dovunque cascate di fiori e d'improvviso l'azzurro di una piscina in cui stanno tuffandosi due giovani clienti, nordiche si direbbe dal pallore del corpo e il biondo dei capelli.

I clienti del super lusso sembrano tutti come assopiti nel loro superiore benessere, sdraiati su lettini candidi sotto i rami di una limonaia, serviti di bevande da camerierine locali, l'orecchio a un telefonino da cui arrivano voci da Stoccolma o da New York.

Ogni tanto, a prova che esiste il resto del mondo, arrivano dei botti sordi, le mine delle cave che sulla montagna celeste preparano nuovi nidi d'angelo. Domani si torna in città, nei suoi fragori e nei suoi fetori. Se Dio vuole.

(17 luglio 2009)


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Quelle guerre dimenticate

di Giorgio Bocca

Declassate a disordini spontanei, a febbri passeggere, hanno motivazioni ideologiche più che di sopravvivenza, e sono presentate come missione civilizzatrice  Un marine Usa in AfghanistanIl Mulino pubblica un saggio sulle dr les de guerres contemporanee che insanguinano il mondo anche se fingiamo che non siano vere guerre. L'attacco alle torri gemelle di New York dell'11 settembre 2001, risposta dei poveri e barbari all'impero dei ricchi e occidentali, ha aperto una serie di nuove guerre del Terzo Millennio, nei Balcani, in Georgia, nel Medio Oriente, nell'Africa nera, in Thailandia, nelle Filippine, nella Corea, nel Pakistan, in Afghanistan, a Ceylon.

Strane guerre, ma guerre. Guardate quasi con fastidio e imbarazzo dagli esperti di relazioni internazionali, estranee alla narrativa trionfalistica dei nuovi miti, come la globalità dei mercati che ha superato le vecchie frontiere. Questo rifiuto delle guerre che sono in corso segna le relazioni internazionali come un gigantesco autoinganno accettato da tutti pur di non contraddire il mito imperante dell'ordine globale del libero mercato.

Le molte guerre in corso a tutti note e da tutti declassate a disordini spontanei, a febbri passeggere, sono in realtà necessarie a torto o a ragione al nuovo unico impero mondiale, l'americano, arrivato al punto critico di tutti i grandi imperi, nel classico dilemma tra la moderazione e l'espansione, fra la conservazione dei confini attuali e la ripresa alla corsa senza fine alle conquiste. Il dilemma che fu già dell'impero romano fra i confini stabili sul Reno e sul Danubio e la necessità di mantenere il primato e l'influenza, economica e politica, sul mondo intero.

Le molte guerre in corso hanno motivazioni ideologiche più che di sopravvivenza. Gli Stati Uniti, egemoni nel continente americano, hanno a loro disposizione tutte le risorse necessarie. Ma non gli bastano: eserciti americani sono nei Balcani, in Italia, nei paesi arabi del Medio Oriente, in Israele, in Pakistan, nell'Iraq, nell'Afghanistan, in Giappone, nell'isola di Diego Garcia, al Polo Nord e in Antartide. Per evidenti motivi di dominio, ma presentati come missione civilizzatrice, e negli ultimi anni come meritoria esportazione della democrazia.


Sono guerre inevitabili, legate a una fisica del potere, alla mancanza di equilibrio dei poteri nel mondo, per cui il più forte è quasi costretto a occupare il vuoto lasciato dai deboli. Si tratta perciò di guerre 'ineguali', che possono cessare come nel Vietnam solo per una resipiscenza, un recupero di saggezza di fronte all'uso di armi che potrebbero portare all'autodistruzione della specie umana.

Nuove guerre con nuovi caratteri. Non più legate ai confini delle patrie, ma estendibili al mondo intero, reticolati sovrapponibili ai rapporti di pace. Come la caccia ai terroristi che gli Stati Uniti e la loro agenzia di sicurezza, la Cia, svolgono in tutto il mondo. Con grave, forse inguaribile ferita a quanto si era riusciti a creare di diritto internazionale. Guerre come una 'necessaria tecnologia di controllo', cioè come un modo per capire a che punto è arrivata nel mondo la corsa all'autodistruzione. La guerra non come prova di vita e di morte per un popolo, ma per il mantenimento della sua way of life. Come nei 'Tre giorni del condor', il film dove la Cia fa strage di innocenti pur di garantire alla nazione imperiale la benzina necessaria alle sue auto e ai suoi grattacieli sempre illuminati. Guerre minacciate o simulate, come fa la Corea del Nord perché sia tolto l'embargo commerciale che la strozza.

Concludendo, il vero pericolo del nuovo imperialismo e delle sue guerre infinite non è risolvibile, perché sta nel peccato originale dell'uomo, nelle sue debolezze, nelle sue incontenibili passioni, nelle sue avidità che si riaccendono a ogni tentazione.
(10 luglio 2009)


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La morale corrente

di Giorgio Bocca


Chi ha pagato le spese delle feste di Berlusconi? Quanto è costato il servizio poliziesco di protezione nei luoghi di 'Gomorra' e dei Casalesi? E i soldi per il G8 alla Maddalena sono serviti pure per la campagna elettorale?  Centro congressi costruito
alla MaddalenaGli italiani hanno perso con il modo di governare berlusconiano la cognizione di ciò che appartiene al privato o al pubblico. In parole semplici: di ciò che va pagato dallo Stato e di ciò che tocca al premier.

A Capodanno, riferiscono le cronache più o meno piccanti, ci fu a villa Certosa, residenza estiva del primo ministro, una festa di difficile definizione: mondano-partitica, estetico-elettorale, di formazione politica o di alta ruffianeria. Sessanta avvenenti signorine furono trasportate in aereo da Roma alla Sardegna, ospitate per due giorni nella villa e istruite ai fondamentali della politica (quali esattamente non si è capito, se alla ricerca del consenso o allo studio della Costituzione).

Che la festa sia avvenuta è certo, perché una delle peculiarità per cui Silvio è famoso è quella di fare scandalo, ma di farlo documentare e pubblicizzare dai suoi giornalisti e fotografi di fiducia, per esempio dal giornale di gossip 'Chi' che è diventato un vero house organ della casa, decisivo nella formazione della sua immagine.

Chi ha pagato le spese? Ci voleva pochissimo a saperlo: se lui di tasca sua, se il suo partito per l'uso politico delle veline candidate alle elezioni, se qualche azienda pubblica, se il ministero degli Interni che deve provvedere alla sicurezza del premier e dei suoi ospiti. Nessuno nei giornali o nelle televisioni ha creduto opportuno chiederlo. La rivoluzione plutocratica vincente, il trionfo del lusso che ormai fa parte del costume contemporaneo lo sconsigliavano.

Nessuno che abbia chiesto quanto sia costato il servizio poliziesco di protezione, come nessuno se lo è chiesto per la festa napoletana per il compleanno di Noemi, anche se era di pubblica conoscenza che il ristorante e la zona erano stati blindati da agenti e mezzi questurini. E qui il rischio era ben più forte che in Sardegna: fare un banchetto nei luoghi di 'Gomorra' e dei Casalesi, essere attorniato per le fotografie ricordo da decine di sconosciuti, era un po' giocare alla roulette russa.


Anche qui silenzio e ossequio al volere del potente cui il popolo ha delegato il governo. È lo stesso ragionamento che si fa per la legge ad personam, il lodo Alfano, per cui Berlusconi è esente durante l'incarico da ogni inchiesta giudiziaria: come farebbe a governare, dicono, se dovesse correr dietro a tutti i processi istruiti da una magistratura in mano ai comunisti?

In fatto di etica, di rispetto dell'opinione pubblica, i politici si adeguano a quella che viene chiamata la morale corrente, che in pratica è la negazione della morale, la propensione umana a chiedere allo Stato tutti i benefici e dare in cambio il meno possibile.

Quando la morale corrente nella classe dirigente aveva un minimo di rispondenza alla morale tout court, Quintino Sella la sera spegneva le luci al ministero delle Finanze, Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi accettavano di essere processati per le accuse di lesa patria di un giornalista come Guareschi, e il povero Ferruccio Parri dormiva su una branda in uno stanzino della presidenza del Consiglio. Era la chiarezza di una morale condivisa.

Ora chi si chiede più se i soldi spesi per il G8 alla Maddalena servissero più alla campagna elettorale del premier che alla politica estera, e se le 'opere del regime' tornate ogni sera in televisione, alcune spettacolari come l'inaugurazione del complesso per l'incenerimento dei rifiuti di Acerra con sapiente regia del nuovo duce che apre una tendina e appare il mostro divoratore d'immondizia, qualcosa di simile all'inaugurazione della bonifica pontina dei cinegiornali dell'epoca, con centinaia di trattori che appaiono sulla piana come un'armata provvidenziale, se le opere del regime, dicevo, sono una propaganda personale o no?

(07 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #101 inserito:: Agosto 04, 2009, 03:43:26 pm »

L'equilibrio del terrore

di Giorgio Bocca


Mentre Usa e Russia decidono di ridurre le armi di distruzione totale, altri Stati medi e piccoli ce le hanno e gli abitanti le desiderano fortemente e festeggiano come una liberazione il fatto di poterne disporre
 Mentre i grandi della Terra si incontrano nei G8 in preparazione del G20 per tentare di risolvere i terribili problemi dell'umanità, è arrivata finalmente una buona notizia. Stati Uniti e Russia avevano deciso di tagliare una notevole parte delle armi di distruzione totale. Per un salutare ritorno alla ragione? No, perché i missili intercontinentali e i radar e le altre apparecchiature super moderne arrugginiscono, si disarmano da sole e vanno sostituite con una spesa che neppure le grandi potenze possono scatenare. Si è capito che il fallimento economico è l'unico freno alla follia degli scienziati e dei generali. Ma la follia resta e con essa la speranza che il mondo le sopravviva.

Avete capito di che misura è la riduzione degli armamenti decisa da Obama e dal presidente russo? Milleseicento missili intercontinentali a testa, come a dire la quantità sufficiente a distruggere la vita sul pianeta Terra più volte. D'accordo le superpotenze a mantenere, a costi astronomici, le altre migliaia di missili pronti al lancio.

A questo equilibrio del terrore non si è arrivati per caso, ma per opera dei più avanzati stati maggiori di scienziati e di generali che hanno continuato per anni a chiedere ai governanti di adeguarsi alla minaccia nemica che da teorica diventava pratica. Ed è per conoscenza di causa che i grandissimi della Terra sanno che scienziati e generali dei paesi meno forti e ricchi sono pronti a tutto pur di aver anche loro missili e bombe di distruzione totale.

Perché giornali e televisioni si occupano ossessivamente del G8 e già si preoccupano dei G20 del prossimo futuro? Credo perché si è capito che in qualche modo bisogna pur ricostruire un diritto internazionale, una regola della convivenza e della sopravvivenza.

Siamo ancora in tempo? Sempre dal G8 in preparazione dei G20 si è capito che il disarmo parziale voluto dagli Stati Uniti e dalla Russia non risolve il problema decisivo della sopravvivenza se altri Stati medi e piccoli le bombe ce le hanno e soprattutto se tutti gli abitanti del pianeta a quanto pare desiderano fortemente averle e festeggiano come una liberazione dal terrore il fatto di potervi anche loro partecipare.


Quando il buon Pertini socialista all'antica esortava a "riempire i granai e a svuotare gli arsenali" fra l'approvazione generale, una nostra industria riforniva i campi minati del mondo intero con le bombe che hanno riempito il mondo di morti o di mutilati. E quando i sacerdoti e pontefici di tutte le religioni fanno a gara a ricordarci che la vita è sacra, e considerano assassini coloro che per pietà aiutano a morire i quasi morti come la povera Englaro, ma poi continuano a gestire le loro chiese fornendo cappellani militari agli eserciti, i dubbi sul futuro dell'umanità rimangono. Perché c'è sempre chi, non avendo rubato o ucciso al tempo dell'Impero romano delle Crociate o delle invasioni barbariche, rivendica il diritto di farlo nel prossimo futuro, come fanno oggi gli imperi nascenti della Cina e dell'India che all'invito dell'Occidente a non inquinare il pianeta con la industrializzazione forzata, rispondono: vogliamo solo fare quello che voi avete fatto prima di noi e di cui vi gloriate continuamente.

Ha destato grande scandalo Bernie Ecclestone organizzatore di corse automobilistiche per aver fatto in pubblico la lode di Hitler che "certe cose sapeva come risolverle". Con il vecchio sicuro metodo di eliminare i concorrenti.(30 luglio 2009)
 
da repubblica.it
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« Risposta #102 inserito:: Agosto 08, 2009, 07:06:04 pm »

Se lo scandalo non fa notizia

di Giorgio Bocca


Siamo il Paese dove il partito di maggioranza si vanta di essere il partito della libertà. Che in pratica vuol dire la libertà dei ricchi e dei potenti di fare ciò che vogliono
 Gli uomini di potere, conservatori, ma anche riformisti, preoccupati del bene pubblico, dicono, invocano la fine 'della stagione dell'odio', dello scontro sociale, cioè della lotta di classe senza cui saremmo ancora al feudo e alla servitù della gleba. Sarebbe bene che spiegassero di chi parlano. Degli uomini in genere o di noi italiani?

Certamente non dei primi, visto che gli europei cristiani e civili stanno rispedendo a sicura fame e probabile morte i poveracci che cercano scampo da noi, che i cinesi ammazzano i sudditi in cerca di libertà, gli americani sono in armi in tutti gli angoli del mondo. Di noi italiani farebbero bene a non parlare almeno dei nuovi razzisti che vorrebbero instaurare la separazione razziale sui tram. Ma restiamo ai patetici appelli alla union sacrée. Che cosa è per noi italiani la democrazia? È il bene sociale e civile per cui abbiamo fatto la guerra civile o di liberazione, con 30 mila morti, più di 100 mila feriti e grandissima sofferenza? Se così è, e se è vero che siamo uomini liberi, democratici, perché mai dovremmo sopportare senza muover un dito che questo bene venga giorno dopo giorno insidiato, svuotato, corrotto? Se la democrazia è il sistema politico delle libertà e dei reciproci controlli, perché mai dovremmo fraternamente abbracciare quanti indefessamente operano per privarcene?

Chiudiamo la stagione dell'odio, si sente dire da più parti. D'accordo, ma la stagione della corruzione imperante, delle mafie in espansione, della corsa al vitello d'oro, del rifiuto di ogni regola etica, questa stagione non la chiudiamo mai? Dite che esagero? Forse siamo scesi a un punto così basso della pubblica coscienza che il peggiore degli scandali non fa più scandalo.

Per esempio, la notizia recente che la stragrande maggioranza degli italiani denuncia un reddito annuo inferiore ai 25 mila euro e che non più del 2 per cento degli italiani dice di superare i 200 mila euro annui. E con questa civiltà fiscale che si fa un paese moderno? Abbracciamoci pure e rotoliamoci pure soddisfatti nella nostra anarchia servile. Nelle province della Italia ricca e soi disant civile, nelle provincie lombarde decine di amministrazioni comunali sono state denunciate per complicità nella truffa dei semafori taroccati, truccati dove il segnale giallo era ridotto al minimo per moltiplicare le multe. E nell'Abruzzo terremotato a cui abbiamo dato prova di civile solidarietà, metà degli edifici sono crollati perché gli impresari edili avevano messo sabbia marina nel calcestruzzo.

La cementificazione del territorio procede a ritmi folli, il terreno agricolo viene divorato ogni anno quanto più si parla di fame nel mondo e chi partecipa alle speculazioni? I comuni, le pubbliche amministrazioni che pur di fare cassa offrono sconti e facilitazioni, per far crescere metropoli come la Roma delle periferie abbandonate a sé e degli stupri, priva di vigilanza e di servizi.

E insieme alla scomparsa di una vigilante opinione pubblica scompare anche la difesa della democrazia, la difesa della libertà. Nel paese dove il partito di maggioranza si vanta di essere il partito della libertà. Una libertà che è l'equivalente della falsa concordia nazionale, che in pratica vuol dire la libertà dei ricchi e potenti di fare ciò che vogliono.(06 agosto 2009)
 
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #103 inserito:: Agosto 14, 2009, 11:36:00 am »

Quanti amici ha Totò Riina

di Giorgio Bocca


I carabinieri, specie quelli che arrivano da altre provincie, sanno che in Sicilia un colpo di lupara può raggiungerli in ogni vicolo, in ogni tratturo.
È naturale, allora, che si creino delle tacite regole di coesistenza

L'ex sindaco di Palermo Leoluca Orlando, il capo siciliano della mafia Totò Riina, lo scrittore della sicilitudine Leonardo Sciascia, il generale dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa ucciso dalla mafia perché la conosceva bene, Massimo Ciancimino il figlio del sindaco mafioso di Palermo don Vito e altri esperti della onorata società hanno spiegato invano agli italiani che il problema numero uno della nazione non è il conflitto fra il legale e l'illegale, fra guardie e ladri, fra capi bastone e le loro vittime inermi, ma il loro indissolubile patto di coesistenza. L'essere la mafia la mazza ferrata, la violenza che regola economia e rapporti sociali in province dove la legge è priva di forza o di consenso.

Eppure la maggioranza degli italiani non se ne vuol convincere, si rifiuta di crederlo e quando il capo della mafia Totò Riina fa sapere che l'assassinio del giudice Paolo Borsellino è stato voluto o vi hanno partecipato i tutori dell'ordine, ufficiali dei carabinieri o servizi speciali, il buon italiano si dice: è l'ultima scellerataggine di Riina, mette male nel nostro virtuoso sistema sociale. Se ci sono due scrittori italiani e siciliani che hanno larga e meritata popolarità nel paese essi sono Giuseppe Tomasi di Lampedusa autore del 'Gattopardo' e Andrea Camilleri i cui libri sono in testa alle vendite, salvo il libro migliore, uno dei primi edito da Sellerio in cui spiegava per filo e per segno i compromessi fra mafia e Stato su cui si fonda l'unità d'Italia.

Senza alcuna presunzione di avvicinarmi a questi maestri, vorrei umilmente ricordare ai miei connazionali le ragioni per cui il capo delle mafie Totò Riina ha potuto scrivere il famoso 'papello' al capo del governo italiano per chiedergli, come ora ci fa sapere Massimo Ciancimino custode del documento, se, viste le buone relazioni correnti, il capo del governo non poteva mettere a disposizione del capo della mafia una rete della televisione. Proprio come chiesero e ottennero la Terza rete i comunisti quando condizionavano il mercato del lavoro.

Massimo Ciancimino, il figlio del sindaco mafioso di Palermo, ha detto o lasciato capire che i carabinieri 'nei secoli fedeli' si attennero nelle operazioni di mafia ad attenzioni speciali, clamorosa quanto rimasta senza spiegazioni credibili la mancata perquisizione nella villetta in cui Riina aveva abitato e guidato per anni la 'onorata società'.

Del pari sono rimaste senza spiegazioni le accuse e le richieste di chiarezza mosse, quando era sindaco a Palermo, da Leoluca Orlando. Eppure una ragione del 'comportamento speciale' della più efficiente polizia italiana verso la mafia c'è ed è evidente: i carabinieri, come la mafia, non sono qualcosa di estraneo e di ostile alla società siciliana, fanno parte e parte fondamentale del patto di coesistenza sul territorio, di controllo del territorio condiviso con la Chiesa e con la mafia. In ogni paese siciliano accanto alla Chiesa e al parroco c'è una caserma dei carabinieri e una cosca mafiosa. Spiega Camilleri nel suo aureo libretto: i parroci sono persone oneste, ma sanno che a mettersi apertamente contro la mafia restano isolati, senza sussidi, senza ragazzi negli oratori. E i carabinieri? I carabinieri, specie quelli che arrivano da altre provincie, sanno che la loro vita è appesa a un filo che un colpo di lupara può raggiungerli in ogni vicolo, in ogni tratturo. Non è naturale, obbligatorio che si creino delle tacite regole di coesistenza o di competenza?

(12 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #104 inserito:: Settembre 03, 2009, 10:26:37 pm »

La grande delusione

di Giorgio Bocca


Viene dalla fiducia non solo marxista che il dominio dell'economia avrebbe risolto tutti i nostri problemi, mentre metà della gente non ha più un soldo da spendere, da investire, o il coraggio di farlo
 
Un giovane che lavora nella pubblicità mi dice più stupefatto che impaurito: sembra che nessuno dei miei clienti commercianti, imprenditori, sarti, impresari teatrali abbia più una lira. Non spendono, non investono non ti chiedono più nulla. Io per campare sono pronto a vendere per cinquemila euro un lavoro che a me ne costa diecimila. Tutti quelli che conosco navigano come me in un mare senza più acqua, respirano un'aria senza più ossigeno, bussano a porte che si aprono solo per dirti che non hanno bisogno di te.

Il mondo si è diviso improvvisamente fra quelli che i soldi ce li hanno ancora, li fanno ancora girare e quelli che non sanno più bene che cosa li attenda domani, che la siccità un bel giorno finisca così come è arrivata.

Ma in questo mondo spaccato in due, dove la circolazione del denaro che per gli uomini di oggi è come la circolazione sanguigna, che per alcuni funziona e per altri si è fermata, restano ancora dei beni, dei consumi, degli usi, delle abitudini comuni a tutti e ora insostituibili: le vacanze, le automobili, come la voglia di staccare dal lavoro. Ma staccare come, se sei tu che sei stato staccato? La televisione, il tempo che fa e allora, in questo paese rimasto per metà a secco, avvengono incredibili migrazioni vacanziere, sulla circolare di Mestre si formano delle code di sei-sette ore, la protezione civile distribuisce in un'ora diecimila bottiglie di minerale agli automobilisti assetati, i telegiornali fanno vedere spiagge e montagne gremite di gente, anche di stranieri venuti chissà perché come sempre a questi patimenti estivi.

Sarà così la fine del mondo? Un progressivo consumo di risorse, di macchine, di valute pregiate, di case, di tutto, fino al vuoto finale, fino alla parificazione di tutti nella fame e nella sete.

È singolare che proprio nella modernità super liberista della
Thatcher e di Reagan, dell'ossessione anticomunista, dei dominanti miti del più feroce individualismo, tutti, ma proprio tutti, siano costretti da questa grande crisi che nessuno sa bene cosa sia e da dove sia arrivata a provare sulla propria pelle che non siamo padroni della nostra vita, dei nostri destini, dei nostri comodi. Che siamo ancora, come nel tempo antico, come sempre, in balìa delle tempeste e delle sette piaghe che un dio crudele può mandare quando vuole sulla terra.

Stupefatti e come paralizzati dalle recenti sanguinose delusioni di tutti gli 'ismi' provati nel secolo scorso: nazismi, fascismi, comunismi che hanno seminato guerre e lager e torture cui ora si aggiunge più che il dubbio la certezza che anche il capitalismo fabbrica di abbondanza non riesca a liberarsi dalle due malattie congenite e misteriose. Come questa per cui improvvisamente metà della gente non ha più una soldo da spendere, da investire, o il coraggio di farlo, sicché non avendo consolazioni migliori partiamo tutti negli stessi giorni verso le infernali code di auto, verso le puzzolenti resse estive.

Per gli uomini di lunga vita come il sottoscritto c'è un altro motivo di stupore: la grande delusione dell'economicismo, la fiducia non solo marxista che il dominio dell'economia avrebbe risolto tutti i nostri problemi. Ma di fronte al giovane pubblicitario che mi racconta più stupito che impaurito che il denaro è sparito dalle sue sorgenti e dai suoi fiumi, che la circolazione sanguigna di cui viviamo si è per metà fermata, come non ricordare che negli anni della fame e del terrore eravamo aperti alle più meravigliose speranze, che c'erano giovani che sacrificavano la vita per tenerle in vita?

(28 agosto 2009)
da espresso.repubblica.it
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