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Autore Discussione: GIORGIO BOCCA.  (Letto 141070 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Aprile 25, 2010, 11:28:14 pm »

La politica dell'odio

di Giorgio Bocca

Gli uomini come Berlusconi vengono al mondo con l'idea fissa che la vita è questa: guerra perpetua dei più forti a danno dei più deboli
 

Il capo del governo crede nel nominalismo, nel potere che hanno i nomi di diventare realtà, e dopo avere inventato il partito dell'amore insiste a deprecare il partito dell'odio, cioè l'opposizione, cioè quanti cercano di resistere alla democrazia autoritaria, alla dittatura morbida. Il trucco è sempre lo stesso, dei nomi spacciati per realtà, della propaganda gridata come se fosse verità indiscutibile: il comunismo della terza internazionale aggressivo, implacabile, astuto da combattere come ai tempi di Stalin e di Beria e della classe operaia che spezza le sue catene, e non di quella che vota Lega o chi le pare come normale cittadinanza.

Il trucco che piace al Cavaliere che sin qui ha funzionato, sollevandolo e conservandolo al potere, è il seguente: scambiare a parole, ma parole numerose e rimbombanti da coprire il cielo come può permettersi uno che è padrone delle televisioni, dei giornali, delle case editrici, scambiare - dicevo - l'odio, o più semplicemente l'avversione, la stanchezza, l'umiliazione dei concittadini per la causa e non per l'effetto del suo cattivo governo, un modo di ragionare questo sì da vecchio comunismo stalinista, accusare le vittime del sistema di esserne i colpevoli, la loro reazione al malgoverno per ostilità viscerale irragionevole, quel che si chiama odio.

L'antico e tenace vizio di 'rovesciar la frittata' è da sempre per il Nostro, metodo e ragion di vita. La prima cosa che Berlusconi si è chiesto nel letto d'ospedale dove era ricoverato per l'attentato di un folle è stata: "Perché mi odiano tanto?". Si stenta a credere che se lo sia chiesto davvero. Non lo sa il perché? Metà degli italiani, e forse più della metà, da 16 anni lo vede accanitamente intento a svuotare, colpire, disprezzare il bene comune della democrazia, cioè del vivere in un paese civile dove la legge è eguale per tutti, dove l'informazione cerca di essere la più corretta e libera, dove i codici vengono rispettati come i giudici, e non accusati da mattino a sera di essere dei persecutori invidiosi della sua fortuna, della sua eccellenza.

"Perché mi odiano tanto?", si chiede. Non lo sfiora il sospetto che i suoi concittadini, la metà almeno e forse più, hanno voluto, hanno provato a fare dell'Italia una democrazia simile a quelle dell'Occidente progredito, dove si è liberi di pensare e di votare secondo coscienza, dove gli oppositori non sono ipso facto dei 'comunisti assassini', dove i liberi cittadini che non amano la dittatura della maggioranza non sono ipso facto dei seminatori di odio, sabotatori dell'economia, pessimisti nemici del benessere.

Uno dei vizi dialettici del Nostro è di procedere per antitesi inconciliabili, per verità rivelate e indiscutibili. Lui è per il partito del fare, contro quello delle vane discussioni, per il partito che produce, che intraprende contro quello che parla e non fa, non si stupisca che metà e forse più degli italiani si è stancata di questa vecchia musica, della democrazia irrisa come 'ludi cartacei'.

Gli uomini come Berlusconi vengono al mondo e magari ci campano benissimo, da padroni, con l'idea fissa che la vita è questa: guerra perpetua dei più forti a danno dei più deboli, di quelli che fanno e non si chiedono mai se fanno bene o male. Non è un caso se l'uomo politico a lui più vicino, più amico è stato Craxi, il cui disegno politico era il seguente: "Voglio arrivare al governo, al potere, e per farlo ci vogliono i soldi, a costo di tollerare i mariuoli. Quando sarò al governo penserò a sistemare anche i ladri". Non è andata proprio così. Un vecchio amico del premier lo ha paragonato ad Anteo, il gigante che abbattuto a terra, dalla terra ritrova le forze. Ma per nostra fortuna l'era dei giganti è passata.

(22 aprile 2010)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #136 inserito:: Maggio 07, 2010, 12:05:03 am »

Marasma politico

di Giorgio Bocca

È la situazione dell'Italia di oggi con gruppi disomogenei, pronti a separarsi e a contraddirsi. E con un solo comun denominatore: arricchirsi a spese dello Stato
 
Lo stato della politica italiana è definibile in una parola: marasma. Esattamente la nausea da mal di mare. Una poltiglia politica senza senso e senza domani, composta da raggruppamenti disomogenei, pronti a separarsi e a contraddirsi con un solo comun denominatore: arricchirsi a spese dello Stato.

Il gruppo egemone, la destra, che va dal raggruppamento qualunquista di Berlusconi e Dell'Utri, Forza Italia, all'Alleanza Nazionale fascistoide di Gianfranco Fini, alla Lega separatista e antirisorgimentale di Bossi è un coacervo di contrari e di diversi tenuti assieme solo dal comune banchetto a spese dello Stato. Nessuno saprebbe dire che cosa è questo super partito di Berlusconi, se dell'amore o del fare, due cose che stanno assieme solo se unite dall'avidità che muove il fare ma uccide l'amore. Alla manifestazione romana il Popolo delle libertà è arrivato con uno striscione tricolore gigantesco dietro il quale sfilavano anche gli uomini della Lega, il cui leader ha dichiarato che lui la bandiera italiana la usa solo per pulirsi il culo. Anche i leghisti partito dell'amore? Ma non sono quelli pronti a scendere dalla val Brembana armati di fucile per liberare la Padania e cacciare gli immigrati ladroni e sporchi? Quando Bossi e Silvio celebrano la loro fedeltà al partito ambiguo del fare e dell'amore, dietro si sente l'accento forte della realpolitik, siamo diversi ma uniti nel banchetto del potere.

E che ci fa in quella compagnia Gianfranco Fini, il presidente della Camera, cioè il gran ciambellano della democrazia parlamentare? Cerca di sopravvivere, si prova a mettere insieme una destra legalitaria da paese civile, si defila dai bagni di folla di Silvio con la scusa che il presidente della Camera non partecipa alle manifestazioni elettorali, ma il suo progetto politico è incerto, esposto a una serie di mutazioni sociali che hanno cambiato il quadro politico.

Va scomparendo la classe media, la piccola borghesia che era indispensabile al buon governo, alle mediazioni fra le classi alte e il basso proletariato. C'è stata una rivoluzione plutocratica, si è formata una nuova classe di ricchi a cui si appartiene non per virtù di sangue o di merito, ma di censo, di soldi, non manifatturiera e neppure di razza, non legata alla qualità delle merci e neppure al colore della pelle, neppure razzista, ma dei soldi di cui disponi.

E ancora la rivoluzione dei manager, che hanno sostituito i vecchi padroni e creato una rete di reciproci favori e intese grazie alla quale si arricchiscono in modo spropositato rispetto ai lavoratori dipendenti, centinaia di volte di più. Con il conseguente affermarsi di un lusso esibito senza ritegni e di una speculazione finanziaria sfrenata. I 150 anni di carcere inflitti al finanziere Madoff non hanno frenato la corsa generale ai guadagni e agli sprechi. È accaduto che non solo i famosi Ceo, i supermanager, si siano arricchiti a miliardi, ma che per coprirli sia cresciuta la corruzione e la cortigianeria fino all'assurdo delle ricompense accordate a manager che avevano mandato in rovina l'azienda. Sicché a conclusione di una crisi economica gravissima, da cui si stenta a uscire, l'unica spiegazione trovata da politici ed economisti è stata l'avidità senza freni. Nessuno invece è riuscito a spiegare quali vantaggi siano venuti alle imprese o ai loro azionisti dai premi concessi ai dirigenti o all'aumento del valore di cui si vantano.

La crisi continua ma il peggio è passato, dicono giornali e televisioni, e gli scampati si raccontano compiaciuti che l'unico paese finito al tappeto è la piccola Islanda. Di tutto questo terremoto non si trova quasi traccia nel nostro modo di far politica, il berlusconismo continua a riempire di parole e di promesse la mancanza di interventi pianificanti, di new deal a imitazione di quello rooseveltiano.

(29 aprile 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/marasma-politico/2126062/18
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« Risposta #137 inserito:: Maggio 08, 2010, 02:58:50 pm »

La strategia del sultano

di Giorgio Bocca

Ogni giorno il premier se la prende con il catastrofismo dell'opposizione, ma poi le classifiche ci collocano al di sotto di Camerun e Malesia
 

Il mondo in cui viviamo è più misterioso o più chiaro che nel passato, i contemporanei amano più la privacy o la rete planetaria di Internet, gli arcana imperii o l'informazione su tutto continua o rimbombante? Dicono che noi uomini abbiamo costruito per sopravvivere uno spazio fra la libertà dei nostri desideri e le leggi che ci siamo date cui ci sottomettiamo, fra i nostri istinti e le costituzioni con cui ci proteggiamo. E ancora: che in questa permanente contraddizione la menzogna, il superamento delle realtà contrarie con le bugie utili o pietose sarebbe il solo modo per poter vivere. La ricerca del segreto, del non confessabile, sarebbe una delle maggiori conquiste sociali e politiche dell'uomo, ciò che fa la differenza dagli altri esseri viventi. Il monarca assoluto, il re Sole e il dittatore esemplare Stalin, così feroce da poter dominare la ferocia umana, sono come teorizzava Machiavelli l'unico modo per durare al sommo del potere? L'anima del commercio, per dire il motore dell'economia, è di parlare anzi di gridare tutto in continuazione o di tacere di tutto come fece il banchiere Cuccia che in vita sua non diede mai un'intervista? Aveva ragione Hitler quando chiedeva perdono a Dio 'per l'ora X e per gli ultimi cinque minuti di guerra' in cui avrebbe usato le armi segrete, le atomiche, o avevano ragione gli americani che le atomiche ce le avevano e le usavano?

Anche Bettino Craxi amava minacciare armi segrete che non aveva, quando diceva di avere 'in mano un poker d'assi' contro il suo accusatore Di Pietro. Non ce l'aveva e partì per l'esilio di Hammamet. Ma ciò che distingue gli arcana imperii del passato dai segreti del nostro presente è che di segreto c'è solo il banchetto a spese dello Stato del sultano e della sua corte, nessun potere reale sull'economia, sull'indipendenza, sulla difesa, sul futuro del nostro Paese: solo il potere delle parole, degli imbonimenti, ancora grandissimo se si unisce all'uso pubblico del denaro. Il sultano ha una politica estera? Non sembra degna del nome la sua propensione alla diplomazia viaggiante contraddittoria e spettacolare, cioè vana. Va in Israele e dà ragione a Israele, che di fatto con le colonie rivendica i confini del re Salomone, va dai palestinesi e dice il contrario e lo conferma in visita a quell'altro pittoresco sultano che è Gheddafi. È il fedele alleato degli Stati Uniti del presidente Obama, o lo specialista in barzellette che di Obama dice che è 'abbronzato'? È il primo della classe in economia, colui che ha salvato l'Italia dalla grande crisi, o il populista che si vanta di aver ridotto le tasse mentre le ha aumentate, e risolto i problemi del nostro bilancio con la signora Brambilla dalla chioma bionda e dalle belle gambe nominata ministro del turismo?

Ogni giorno se la prende con il catastrofismo dell'opposizione, ma poi arrivano le classifiche internazionali sui valori civili, ricerca, sanità, occupazione, libertà di stampa e così via, e siamo sempre al trentesimo posto dietro al Camerun o la Malesia. Ogni giorno insulta e accusa i cattivi magistrati 'comunisti', ma fa approvare delle leggi ad personam per non apparire nelle aule di giustizia e per non rispondere delle imputazioni che gli vengono mosse. Usando la stampa e le televisioni di cui ampiamente dispone per gridare alla persecuzione e al complotto. Ha messo riparo alle ingiustizie sociali, all'anarchia del tardo capitalismo? Pare proprio di no, l'Italia è piena di precari senza lavoro e senza previdenza, e lui continua dai suoi giornali e dalle sue emittenze a gridare che c'è lavoro per tutti insomma, l'antico dilemma fra il potere segreto e la pubblica informazione si è risolto a questo modo: che la pubblica informazione è controllata da chi il potere lo usa a comodo suo.

(06 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-strategia-del-sultano/2126498/18
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« Risposta #138 inserito:: Maggio 14, 2010, 11:06:16 pm »

Maledetta borghesia

di Giorgio Bocca

Il successo elettorale della Lega è dovuto a una sconfitta della politica e della democrazia
 
Sul finire del 1992 partecipai a una riunione della buona borghesia milanese per la campagna elettorale di Nando Dalla Chiesa contro i barbari della Lega ante portas. C'eravamo proprio tutti noi delle professioni, delle arti, delle buone scuole, delle buone letture pronti a difenderci dagli urlatori gutturali nelle valli Brembana e Seriana, di Quarto Oggiaro e della Bovisa. C'erano sociologi e storici, letterati e finanzieri, ma una cosa fu subito chiara: che della metropoli milanese e della provincia lombarda sapevamo poco o niente, che non c'eravamo accorti che i partiti della sinistra erano praticamente scomparsi dall'hinterland, che in quella sterminata distesa di case, di fabbriche e fabbrichette c'erano rimasti vivi e attivi solo i parroci, i neocattolici di Comunione e liberazione e quelli della Lega. Che ne era dei partiti della sinistra, il comunista, il socialista? E della Democrazia cristiana? Rimanevano delle sezioni abbandonate, delle insegne cadenti e dei percettori di tangenti. Una riunione di anime belle ma poco informate, di intellettuali impegnati ma poco attenti al dato di fatto che i sindaci di Varese, di Como, di Monza, di Paderno erano tutti finiti in galera o inquisiti per furti, sostituiti da leghisti zotici, incolti ma non ladri.

Fu in quell'anno 1992 che scrissi su "Repubblica" un editoriale intitolato "Grazie barbari", che mi valse presso alcuni amici della sinistra la fama di traditore della democrazia e della civiltà, ma che era semplicemente la presa di coscienza della involuzione della partitocrazia, del fatto che i socialisti di Craxi e i comunisti di Occhetto, o i democristiani di Bassetti padroni di Milano non si erano opposti all'affarismo e alla corruzione, ma l'avevano permessa e a volte favorita, che con Craxi presidente del consiglio non era conveniente denunciare i reati dei compagni, o rendere pubbliche le confessioni del gangster complice Epaminonda.

La critica che in quella riunione della buona borghesia progressista facemmo alla Lega e al suo egoismo localista, al suo poujadismo, alla sua Vandea, fu una critica meditata, salvo che sorvolò, ignorò il fatto o il misfatto delle nostre violazioni ai principi fondamentali della democrazia, al fatto che avevamo finto di non accorgerci che l'Italia restava divisa, che la Costituzione veniva quotidianamente violata e che la Lega era in crescita sotto i nostri occhi per nostra manifesta incapacità o volontà di fare del nostro paese un paese dei diritti, ma anche dei doveri civili.
In quel 1992 si capì che dietro l'ostilità per la Lega della buona borghesia italiana c'erano non solo il legittimo timore di una regressione politica democratica, ma il voler chiudere gli occhi sul fatto che questa regressione politica democratica era già in atto. Una signora di Milano colta e virtuosa mi spedì un telegramma con una sola parola: vergogna. Aveva ragione sul fatto che provavo vergogna, ma di far parte di una borghesia che negli ultimi 15 anni aveva sopportato quasi senza reagire il degrado della più ricca città italiana, il fatto incontestabile che si trovi al 34mo posto in Europa per la qualità della vita.
La situazione è davvero cambiata oggi nel 2010? Al contrario sembra peggiorata, perché, come dice il leghista Calderoli, la funzione prevalente della Lega attuale sembra quella di "salvare il berlusconismo", di sostenere il sultanato, la democrazia autoritaria che si va consolidando, che ha resistito alle recenti elezioni regionali, che sembra - più che una scelta politica - una propensione viziosa al tanto peggio tanto meglio.
Il successo elettorale della Lega, evidente, imponente in due delle maggiori regioni del Nord, il Piemonte e il Veneto, checché ci si consoli con il numero dei voti, è dovuto a una sconfitta della politica e della democrazia. Alla politica incapace di provvedere agli interessi nazionali i leghisti possono porre il localismo del neo eletto Cota: "A me di Termini Imerese non importa niente".
Una pietra tombale sul Risorgimento.

(13 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/maledetta-borghesia/2127026/18
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« Risposta #139 inserito:: Maggio 23, 2010, 11:01:41 am »

Poche parole senza pensiero

Giorgio Bocca

Usiamo frasi di una monotonia affliggente. Sempre le stesse per tutti i significati.

Prive di riflessione, di spirito poetico e profetico. Senza favole e senza sogni
 

Avanti con il progresso verso una vita sempre più comoda ma noiosa, verso una lingua sempre più insipida e inespressiva, alla portata di tutti. I mezzi di comunicazione sono abbondanti, onnipresenti, ma ripetono frasi di una monotonia affliggente. Chi ci ascolta potrebbe dire che siamo come gli inglesi che ci stupivano perché incontrandosi dicevano tutti le stesse cose sul tempo che fa, quasi sempre brutto, e sulla salute: "Oggi piove e come sta?". "Bene grazie".

Ci siamo anche noi. Poche parole, sempre le stesse, per tutti i significati e non tutte assieme, ma secondo la moda impostata dai media. L'ultima: concentrato, concentriamoci. Brutte parole che sanno di lager o di salsa di pomodoro. Che vogliono dire? Le cose più varie: stiamo attenti, diamoci uno scopo, riuniamo le forze dell'attenzione, facciamo chiarezza, non distraiamoci e simili. I commentatori della televisione, specie i cronisti sportivi, i calciatori e gli allenatori ne fanno un uso spropositato, è una delle pappe reali a cui ricorrono per sostituire una lingua che ignorano o che non padroneggiano o anche per riferirsi sommariamente a fatti agonistici composti da sentimenti, istintualità, coordinazione, intuizioni, fatiche, insomma da quel fascio di cose diverse e mutevoli che è la vita di tutti, che abbiano vinto o perso, che siano eccellenti o schiappe, tutti debitamente concentrati.

Non parlo il dialetto piemontese da quando ero soldato negli alpini 70 anni fa, ma a volte anche ora mi sorprendo a mormorare qualche frase, a raccontare in dialetto, a sentirne la nostalgia, la capacità di espressione, di partecipazione che aveva e che nella lingua sciapa di tutti si è persa.
Stiamo vivendo una mutazione della civiltà simile per importanza a quella che ci fu quando la scrittura subentrò alla tradizione orale tale da cambiare il nostro modo di vivere e di pensare. Con l'abbondanza dei mass media, delle informazioni che ci arrivano a ogni ora del giorno, che ci riempiono le orecchie e la memoria, diminuirà l'esercizio della riflessione, del pensiero, dello spirito poetico e profetico. Già oggi uno di noi che si dedichi a questa attività intellettuale appare un po' fuori dalla modernità, un po' perditempo, un po' estraneo al partito del fare, come lo chiama il capo del nostro governo, preferibile a quello del pensare e del sognare. Saremo più bravi, più intenti a produrre bisogni e desideri superflui, e più ricchi di informazioni inutili e ripetitive.

La marea dell'informatica, degli operatori robotici elettronici, del silicio arricchito, dei computer di quarta o di quinta generazione, la sbornia di tecniche e di calcoli ci esenterà dalla filosofia. Eppure rimane in noi il pensiero di vivere un grande inganno, una retrocessione umana scambiata per un passo decisivo verso l'immortalità e la divinità; dico il brutto presentimento di un'inevitabile punizione, di uno scoperto inganno per tutto ciò che ci viene donato con una mano ma tolto con l'altra: le favole splendide dell'immaginazione tradotte nei colori sgargianti e volgari dei cartoni animati, gli spettacoli della televisione pieni di tutti i cattivi gusti, l'arte oratoria sostituita dal parlar facile e volgare della pubblicità.
Nulla di nuovo intendiamoci, la storia degli uomini è sempre stata così, ha sempre superato il passato annullandolo, chi saprebbe dire se in meglio o in peggio? La televisione come un'immensa scuola dell'obbligo che insegna a tutti a "concentrarsi", cioè a fare qualcosa che non riusciamo più a descrivere.

(20 maggio 2010)

http://espresso.repubblica.it/dettaglio/poche-parole-senza-pensiero/2127408/18
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« Risposta #140 inserito:: Maggio 28, 2010, 08:30:21 am »

Il cavaliere in panchina

Giorgio Bocca

Il "taglio" di Leonardo, l'allenatore del Milan, colpevole di non vincere sempre, viene accettato come una normalità.
Perché la cortigianeria a favore dei ricchi si è enormemente diffusa
 

Il Cavaliere è davvero un uomo pubblico, interamente esposto al pubblico. Non ci sono misteri sulla sua psicologia, sui suoi punti di forza, sulle sue debolezze, e nel caso che qualcuno le avesse dimenticate è pronto a ricordargliele. Si occupi di affari di Stato come il calcio una cosa è certa: lui ha sempre ragione e gli altri sempre torto, lui è sempre leale e fedele, gli altri sempre infidi e traditori.

Recentemente è toccato all'allenatore del Milan, Leonardo, ultimo nella serie degli allenatori caduti in disgrazia. Che ha fatto di male questo Leonardo? Non ha vinto né il campionato italiano né la coppa dei campioni, fatti che per qualsiasi essere ragionevole non sono una colpa, dato che gli aspiranti al successo sono in molti e che per averlo avevano speso più del Cavaliere, il quale, volendo essere amato da tutti, dai cittadini contribuenti come dai tifosi del Milan, voleva continuare a vincere ma spendendo di meno. Una contraddizione in termini, ma inaccettabile dagli uomini che si credono fatali e irresistibili. Così per tutto il campionato in corso i cronisti al servizio del Cavaliere hanno dovuto vedersela con gli ordini e i contrordini del nostro, che ora come capo del governo predicava l'austerità e la correttezza dei conti, ora come presidente padrone del Milan voleva continuare a vincere e stravincere. Gli allenatori del Milan sono pagati lautamente e dunque nessuno piange se il loro padrone li maltratta. Ma accade nel gioco del calcio esattamente quello che accade in politica: che i capricci, le prepotenze del padrone vengano tollerati finché resta padrone, e gli errori dei dipendenti subito puniti, salvo i casi di defenestrazione dei padroni che di solito cadono sempre in piedi.

Insomma, l'allenatore Leonardo, come prima di lui gli allenatori Sacchi e Ancelotti, colpevoli di non vincere sempre, a un certo punto vengono "segati" dal padrone alla maniera cara al padrone: non improvvisa e drammatica, ma con una progressiva caduta in disgrazia, come i primi ministri alla corte del Re Sole o della regina Vittoria.

Durante una conversazione con gli amici o con i colleghi di governo, il Cavaliere padrone lascia cadere un giudizio, non già di condanna, ma malevolo, sull'allenatore dipendente, per esempio che Leonardo, il caro Leo, "è testardo", che sembra un'osservazione innocente, ma che per i cortigiani suona come una condanna irrimediabile. Tanto più se il Cavaliere con l'aria di scherzare tira fuori l'intera verità: "Il fatto è che l'allenatore dovrei farlo io".

A parziale scusante del Cavaliere c'è il fatto che la cortigianeria a favore dei ricchi si è enormemente diffusa, e viene accettata come una normalità. L'informazione al servizio dei padroni predica senza ritegno il teorema caro ai padroni: non ci sono datori di lavoro ma benefattori, non ci sono lavoratori che creano la ricchezza di tutti, anche dei padroni, ma degli ingrati che osano sputare nel piatto in cui mangiano. I giornali del padrone ripetono ossessivamente, impudentemente che uno scrittore, un regista, un cantante, chiunque per meriti suoi abbia fatto guadagnare miliardi al padrone impresario è tenuto all'obbedienza e alla perenne gratitudine.
I giornali del padrone e i loro direttori non lo sanno? Lo sanno benissimo, ma sanno anche che la calunnia "è un venticello" che lascia sempre il segno.
C'è una sorta di cupio dissolvi, di compiacimento servile nella comprensione e nell'accettazione delle prepotenze padronali, il che spiega la ferocia delle defenestrazioni e delle gogne nei rari casi in cui il padrone resta privo del potere e dei soldi.

(27 maggio 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/il-cavaliere-in-panchina/2127822/18
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« Risposta #141 inserito:: Giugno 04, 2010, 06:43:06 pm »

Meno male che Silvio c'è

Giorgio Bocca

Il segreto del consenso a Berlusconi è la scarsa educazione civile e democratica degli italiani cui va bene il partito della democrazia autoritaria
 

È da un bel po' di anni che gli italiani, che sono per la legge eguale per tutti, si chiedono perché il dannato berlusconismo non passi mai di moda, perché tutti ne parlino male ma a maggioranza continuino a votarlo.
Che cosa non abbiamo almanaccato? È un maestro nel gioco delle parole che da Giolitti a Crispi a Mussolini ha sempre incantato gli italiani, è un Paperon de Paperoni come ogni italiano vorrebbe essere, è un abile populista che dice agli italiani ciò che vogliono sentirsi dire: che sono belli, intelligenti, simpatici, furbi, che a loro non gliela fa nessuno. È un grande venditore, un esperto piazzista che racconta balle come acqua di sorgente, i potenti della Terra ne cercano i consigli, ridono alle sue barzellette, riducono l'armamento atomico, fermano le guerre, e se non ci fosse che ogni tanto uno tsunami o un vulcano islandese ci provano a ricordare che la matrigna natura è più forte del suo ottimismo, lui continuerebbe a vendere ottimismo fasullo, attivismo da "faso tutto mi". E ogni tanto, quando ci vuole, anche la sua zampata cattiva, il duro richiamo all'ordine dei critici e degli indisciplinati.
Tutte le abbiamo studiate, voltate e rivoltate, discusse fino alla noia, fino all'antiberlusconismo come vizio, come mangiarsi le unghie, come prurito irriducibile, come fobia, meno che meditare su due caratteri permanenti di noi italiani: la ritrosia a pagare le tasse e la propensione ad "aggiustarci" che è di tutti, dei Paperoni ma anche dei travet.
Questo è il grande partito trasversale su cui Silvio sta galleggiando, e che a piena voce o nell'intimo continua a dire "meno male che Silvio c'è", l'indistruttibile maggioranza berlusconiana che resiste a tutto, persino nomi osceni come il Partito della libertà o il Partito dell'Amore, che altrove provocherebbe ciniche risate.

Eppure le spiegazioni chiare, chiarissime ci sono. Una è quella che i sociologi chiamano la "dittatura della maggioranza", o anche dei benestanti sempre più benestanti e dei poveri sempre più poveri, dei garantiti sempre più garantiti e dei precari sempre più indifesi. Il Silvio del gioco delle parole esagera quando dice che la via alla ricchezza è alla portata di tutti, basta sposare un miliardario, o anche come è bello il mare di Sardegna - il suo - se lo guardi è pieno di italiani felici sulle loro barche, ma è anche vero che c'è una maggioranza di italiani che arriva alla fine del mese e non paga le tasse a spese dei lavoratori dipendenti dal prelievo automatico, anche per merito del comunismo d'ordine alla Togliatti, l'ideologo del Comintern, cioè di Stalin, cioè del capitalismo buono guidato dai comunisti.
La maggioranza degli italiani cui il berlusconismo tutto sommato va bene sono i commercianti che quando arrivò l'euro capirono che gli italiani continuavano a ragionare in vecchie lire, e ci guadagnarono su, i liberi professionisti di ogni libera professione che possono denunciare la metà o la metà della metà del reddito. E anche i ceti emergenti, cioè gli ex poveri che se non possono frodare il fisco frodano il pubblico impiego, timbrano il cartellino dell'ufficio e poi vanno a fare la spesa o le commissioni.
Il segreto del berlusconismo è un segreto di Pulcinella, è la scarsa educazione civile e democratica degli italiani che naturalmente si giustificano dicendo che l'Italia è troppo "lunga", per dire troppo diversa per clima, per storia, o troppo bella e troppo calda, per aver voglia di lavorare, per cui va sempre a finire che anche la gloriosa classe operaia vota Lega o Partito della libertà, cioè se va bene il partito della democrazia autoritaria.

(03 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/meno-male-che-silvio-ce/2128367/18
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« Risposta #142 inserito:: Giugno 11, 2010, 12:14:11 pm »

La politica come la moda

Giorgio Bocca

Il voto e la scelta dei candidati seguono sempre più criteri irrazionali, misteriosi conformismi che producono successi miracolosi. Come succede con i libri, le canzoni, gli abiti, salvo ricordarli solo come curiosi capricci
 
L'equivoco sta nello scambiare il meno peggio per l'ottimo, di pensare che la democrazia, il "one man one vote" sia la perfezione della libertà e del controllo, e non, come diceva Churchill, piena di difetti ma "non si conosce niente di meglio".
La delega popolare, il consenso popolare, il voto, non si basano solo sul libero e razionale convincimento dell'elettore, sulla sua facoltà di scegliere i programmi migliori, i governanti, ma anche su altro che non è sempre razionale e non sempre premia i migliori. Quali il carisma personale di un candidato, la sua capacità di seduzione che non coincide sempre con i suoi meriti, la noia per un governo durato troppo a lungo per buono che sia stato, la voglia di cambiare, la speranza che il nuovo sia meglio del vecchio. Insomma quei misteriosi conformismi, quei misteriosi messaggi conformisti che fanno cambiare le mode, che producono i successi miracolosi inspiegabili razionalmente, esteticamente, come i bestseller, il libro, la canzone, l'abito che tutti vogliono, tutti comprano salvo a ricordarli solo come curiosi capricci. In altre parole: in che misura la politica, cioè la nostra vita associata, i nostri usi e costumi e leggi sono un decalogo divino, e in quale invece conformismi che vanno e vengono?
Ci fu un tempo, a metà degli anni Settanta, in cui il conformismo più alla moda era quello del "comunismo liberale", del mitico "sorpasso" del Pci sulla Dc. La sera del 25 giugno del 1975 mi invitarono a cena dei vecchi amici cattolici di una grande famiglia di industriali milanesi; la televisione trasmetteva i risultati elettorali e i miei vecchi amici erano felici per la vittoria del Partito comunista, avevano votato anche loro comunista. Anche la zia Bice? La capofamiglia, l'erede del fondatore del famoso cotonificio, quella che ogni settimana riceveva l'amministratore che le portava i dividendi e i rendimenti? Anche allora, s'intende, c'erano i borghesi anticomunisti, ma non erano di moda, non si dichiaravano.

Oggi succede il contrario, oggi zia Bice vota Berlusconi e impreca contro il traditore Fini, perché in attesa che la ruota del conformismo giri di nuovo, se non tutti, i più sono di destra, cercano di ingraziarsela, o le assegnano i primi posti nelle gallerie televisive. E fra le destre molti stanno rivalutando la Lega e il senatur Bossi e suo figlio "la trota", già in carriera.
Sono di moda, ritornano di moda, anche i fascisti, consci o inconsci, come il sindaco di Salerno che ha pubblicato in occasione del 25 aprile, festa della Liberazione, un suo manifesto storico in cui ripudia i partigiani e ringrazia i giovani soldati americani "di aver salvato l'Italia dal comunismo staliniano". Pensate! Il sindaco di una città italiana che non sa che i giovani soldati americani sbarcarono in Italia anche grazie all'alleanza con l'Unione Sovietica e grazie ai suoi milioni di morti, e che nel primo governo dell'Italia libera a Salerno c'era anche il comunista Palmiro Togliatti. È l'abissale, tetragona, presuntuosa ignoranza della nuova eterna destra ad atterrirci, più della profezia Maya sulla fine del mondo nel 2012.
Questa predicazione ossessiva del fare a danno del pensare, questo correre alla cieca verso un futuro che sarà quel che sarà, come nella vecchia festa della rottura delle pignatte, con il rischio di rompere quella piena di acqua sporca.
La politica non è sempre razionalità, spesso è moda e conformismo. L'unico modo per evitare il peggio e quello dei reciproci controlli anche se difficili e defatiganti.

(10 giugno 2010)
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/la-politica-come-la-moda/2128681/18
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« Risposta #143 inserito:: Giugno 12, 2010, 11:18:29 am »

DDL INTERCETTAZIONI

Il cavaliere impunito e la regola del silenzio

di GIORGIO BOCCA

Giù la maschera. Quello che vuole, che pretende la maggioranza al potere è l'impunità totale, il silenzio sui suoi furti e malversazioni. Ai tempi di tangentopoli la maggioranza al potere si accontentava di far passare i suoi furti per legittima pubblica amministrazione. Ricordate la tesi del craxiano Biffi Gentili? Se i politici sono chiamati ad amministrare grandi città, grandi problemi con competenze da tecnocrati perché non devono essere pagati come tali? E se non lo sono perché si vuole impedire che si autofinanzino? Oggi la maggioranza al potere non ha più bisogno di questi sofismi. Rivendica il diritto di rubare attraverso la politica come un normale, dovuto diritto di preda. Al tempo di tangentopoli i socialisti craxiani ma anche quelli di altri partiti avevano nascosto i furti per mezzo della politica nei conti "protetti" cioè segreti in Svizzera a Singapore a Hong Kong. E avendo messo il bottino al sicuro si erano tolti anche il gusto di prendere per i fondelli i loro concittadini con la tesi assurda che l'autofinanziamento dei partiti non era solo una necessità ma un dovere di chi si faceva carico di amministrare lo Stato e la democrazia.

Oggi nella Italia berlusconiana il furto attraverso la politica è scoperto, normale. Appena si può si ruba e viene il sospetto che sia avvenuta una mutazione antropologica, che la maggioranza al potere sia convinta che l'uso della politica per rubare sia non solo normale ma lodevole e che le istituzioni abbiano il dovere di proteggerlo. L'Italia un tempo paese dei misteri, delle società segrete, delle congiure massoniche sotto l'egida del cavaliere di Arcore sta diventando una democrazia autoritaria dichiarata e compatta a difesa dei suoi vizi e dei suoi furti. Perché opporsi al bavaglio che viene imposto all'informazione? Non aveva ragione Mussolini ad abolire la cronaca nera e a coprire gli scandali del regime? Esiste un modo più efficace di lavare i panni sporchi in gran segreto senza che le gazzette li mettano in piazza? L'imprenditore Anemone che si rifiuta di rispondere ai magistrati che indagano sui suoi affari non è la pecora nera, l'eccezione ma la norma della società berlusconiana del fare tutto ciò che comoda ai padroni, senza pagare dazio.

La conferma della mutazione antropologica viene dal fatto che i politici presi con la mano nella marmellata mostrano più stupore che vergogna. La loro corruzione era normalissima, candida, da buon padre ladro di famiglia. A uno era bastato pagare una garconnière al centro di Roma, un altro aveva lasciato mano libera agli impresari edili dopo il terremoto in cambio di una revisione in casa sua dei servizi igienici, diciamo del funzionamento del cesso e del bagno. Ad altri ancora la possibilità di avere a spese dello Stato qualche mignotta, insomma la grande crisi della politica italiana, il grande rischio di una democrazia autoritaria, di una dittatura mascherata, morbida starebbe nella banalità del male, nei piccoli vizi nelle piccole tentazioni della cosiddetta classe dirigente.

Un'Italia senza misteri con un capo del governo schietto, schiettissimo. Che vuole? Che pretende? Il minimo di un uomo del fare più che del pensare: di non avere controlli, di non avere intralci e se gli viene in testa di allevare un cavallo nessuno si permetta di obbligarlo a tirar su una mucca. Che cosa ha scoperto il Cavaliere? Quello che avevano scoperto prima di lui tutti gli uomini autoritari del fare, che i controlli sono fastidiosi e a volte insopportabili. In una parola: che la democrazia è più complicata e faticosa della dittatura.

(12 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/12/news/bocca_intercettazioni-4778644/?ref=HREA-1
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« Risposta #144 inserito:: Giugno 19, 2010, 09:13:55 am »

Il Nord e il potere mafioso

Giorgio Bocca

Le cosche si sono trasformate in una nuova borghesia del malaffare. Che si è infiltrata negli uffici pubblici come nel sistema finanziario

(18 giugno 2010)

Non c'è accordo sulle celebrazioni dei centocinquanta anni dell'unità d'Italia. La Lega non nasconde il suo dissenso. Umberto Bossi ha dato il là e i suoi diadochi lo seguono con dichiarazioni solo in apparenza ambigue: "Ci sono problemi più seri da risolvere", "L'unità sì ma nel federalismo", eccetera. E siccome la Lega è decisiva in questo governo, Berlusconi non si impegna, lesina i soldi per le celebrazioni, non interviene a fermare la frana del comitato organizzatore.

Intanto la sinistra resta nel suo stato confusionale, non ha il coraggio o la voglia di raccogliere lo spirito unitario o risorgimentale della Resistenza partigiana fondamento della Repubblica democratica. Lo spirito unitario della Resistenza, per chi l'ha fatta, è fuori da ogni dubbio. I partigiani di ogni colore politico, comunisti, giellisti, liberal-monarchici furono da subito uniti dal fine comune di salvare l'unità e l'indipendenza nazionale. Pronti nella primavera del '45 a respingere le velleità annessionistiche di De Gaulle in Val d'Aosta e Susa e quelle al confine orientale di Tito.

Ricordo perfettamente che di fronte ai moti separatisti siciliani e calabresi, di Portella della Ginestra e di Caulonia, ci fu una spontanea offerta partigiana di riprendere le armi a difesa dell'unità nazionale. Il vento del Nord, come fu chiamata la presenza partigiana nei primi governi di Parri e di De Gasperi, guardasigilli il comunista Togliatti, fu chiaramente unitario e risorgimentale. Sentimento condiviso dagli italiani che si strinsero attorno a quei padri fondatori della Repubblica. Lo spirito unitario della guerra partigiana del suo governo che ebbe il nome di comitato di liberazione, è arrivato intatto fino ad oggi? Le voglie di secessionismo sono perdenti anche oggi?
Due fattori contrari, due pericoli sono emersi negli anni dell'Italia democratica. Uno è la progressiva salita al Nord delle mafie meridionali, l'Onorata società siciliana, la 'ndrangheta calabrese e la sacra corona pugliese, la progressiva conquista di basi operative nelle grandi città del Nord.

La presenza della criminalità organizzata, per sua storia e natura antistatale, è qualcosa di visibile, di onnipresente, di impudente. Ci sono ristoranti, mercati, club, sezione di partito, amministrazioni della Padania equamente divise fra la novità politica della Lega anti-unitaria e le cosche mafiose che di patria conoscono solo quella della rapina e delle consorterie criminali.

È accaduto così che il partito del fare berlusconiano, per cui il binomio denaro-potere è tutto, è diventato volenti o nolenti il punto di appoggio o di mascheramento della conquista malavitosa del Nord. Le mafie da società segrete si sono trasformate in nuova borghesia del malaffare, delle cricche politico-delinquenziali che non si accontentano dei ricatti delle minacce, ma occupano i pubblici uffici, s'infiltrano nel sistema finanziario, nelle gerarchie ecclesiastiche, negli uffici giudiziari. Siamo alla degenerazione del tessuto sociale, all'anarchia ladresca: tutti tentati dal furto invece che dal lecito guadagno.

Si dice che dei primi anni della sua unità l'Italia monarchica è stata ricca di scandali e di ruberie che riguardavano anche i ceti alti e altissimi. Ma quella odierna è una criminalità talmente diffusa da apparire, da essere pensata come normale. Non a caso l'estrema destra reazionaria va riscoprendo come suoi nemici mortali i partigiani e inalbera cartelli su cui scrive "partigiani assassini".

 

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« Risposta #145 inserito:: Giugno 23, 2010, 05:51:11 pm »

Secessione, la mafia ringrazia

di Giorgio Bocca

Le cosche si sono trasformate in una nuova borghesia del malaffare. Che si è infiltrata negli uffici pubblici come nel sistema finanziario

(22 giugno 2010)

Non c'è accordo sulle celebrazioni dei centocinquanta anni dell'unità d'Italia. La Lega non nasconde il suo dissenso. Umberto Bossi ha dato il là e i suoi diadochi lo seguono con dichiarazioni solo in apparenza ambigue: "Ci sono problemi più seri da risolvere", "L'unità sì ma nel federalismo", eccetera. E siccome la Lega è decisiva in questo governo, Berlusconi non si impegna, lesina i soldi per le celebrazioni, non interviene a fermare la frana del comitato organizzatore.

Intanto la sinistra resta nel suo stato confusionale, non ha il coraggio o la voglia di raccogliere lo spirito unitario o risorgimentale della Resistenza partigiana fondamento della Repubblica democratica.

Lo spirito unitario della Resistenza, per chi l'ha fatta, è fuori da ogni dubbio. I partigiani di ogni colore politico, comunisti, giellisti, liberal-monarchici furono da subito uniti dal fine comune di salvare l'unità e l'indipendenza nazionale. Pronti nella primavera del '45 a respingere le velleità annessionistiche di De Gaulle in Val d'Aosta e Susa e quelle al confine orientale di Tito.

Ricordo perfettamente che di fronte ai moti separatisti siciliani e calabresi, di Portella della Ginestra e di Caulonia, ci fu una spontanea offerta partigiana di riprendere le armi a difesa dell'unità nazionale. Il vento del Nord, come fu chiamata la presenza partigiana nei primi governi di Parri e di De Gasperi, guardasigilli il comunista Togliatti, fu chiaramente unitario e risorgimentale. Sentimento condiviso dagli italiani che si strinsero attorno a quei padri fondatori della Repubblica. Lo spirito unitario della guerra partigiana del suo governo che ebbe il nome di comitato di liberazione, è arrivato intatto fino ad oggi? Le voglie di secessionismo sono perdenti anche oggi?

Due fattori contrari, due pericoli sono emersi negli anni dell'Italia democratica. Uno è la progressiva salita al Nord delle mafie meridionali, l'Onorata società siciliana, la 'ndrangheta calabrese e la sacra corona pugliese, la progressiva conquista di basi operative nelle grandi città del Nord.
La presenza della criminalità organizzata, per sua storia e natura antistatale, è qualcosa di visibile, di onnipresente, di impudente. Ci sono ristoranti, mercati, club, sezione di partito, amministrazioni della Padania equamente divise fra la novità politica della Lega anti-unitaria e le cosche mafiose che di patria conoscono solo quella della rapina e delle consorterie criminali.

Accaduto così che il partito del fare berlusconiano, per cui il binomio denaro-potere è tutto, è diventato volenti o nolenti il punto di appoggio o di mascheramento della conquista malavitosa del Nord. Le mafie da società segrete si sono trasformate in nuova borghesia del malaffare, delle cricche politico-delinquenziali che non si accontentano dei ricatti delle minacce, ma occupano i pubblici uffici, s'infiltrano nel sistema finanziario, nelle gerarchie ecclesiastiche, negli uffici giudiziari. Siamo alla degenerazione del tessuto sociale, all'anarchia ladresca: tutti tentati dal furto invece che dal lecito guadagno.

Si dice che dei primi anni della sua unità l'Italia monarchica è stata ricca di scandali e di ruberie che riguardavano anche i ceti alti e altissimi. Ma quella odierna è una criminalità talmente diffusa da apparire, da essere pensata come normale. Non a caso l'estrema destra reazionaria va riscoprendo come suoi nemici mortali i partigiani e inalbera cartelli su cui scrive "partigiani assassini".

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« Risposta #146 inserito:: Giugno 27, 2010, 09:18:56 am »

L'opinione

Cricca parassita

Giorgio Bocca

Il sistema Anemone non è che la routine della burocrazia borghese che si arrotonda lo stipendio a spese dello Stato.

E che si spezza non per ragioni di qualità e di morale, ma di quantità

(25 giugno 2010)

Da cosa viene la grande pazienza, la grande connivenza che le classi medie italiane hanno per quelle alte ladrone e prepotenti, oggi per la cricca affaristica che si è spartita gli appalti più ricchi e i privilegi più sfacciati? Credo dalla comune concezione della vita sociale, dal comune modo di essere riassumibile in una parola: arrangiarsi. Una parola che vuol dire molte cose come: non solo sopravvivere alle iniquità sociali del censo e della nascita, ma trarne vantaggio, far pagare agli altri i nostri debiti, le nostre spese, migliorare il nostro posto nella graduatoria sociale.

Nel modo di vivere che si riassume nella parola arrangiarsi la separazione fra il legale e l'illegale dovrebbe essere stabilita dal codice dei delitti e delle pene, ma non è facile capire, in pratica, dove sia aggirabile e dove inflessibile. Per uno nato e cresciuto nella piccola e media borghesia italiana del Novecento, l'arrangiarsi consisteva nell'uso paziente e insistente dei piccoli privilegi di classe. Io, per dire, sapevo che il vigile urbano che mandava il figlio a scuola da mia madre maestra non mi avrebbe multato anche se andavo in un senso vietato, sapevo che per far ottenere a mio padre professore una cattedra nella stessa città dove mia madre era maestra era necessaria una raccomandazione forte, magari dello zio avvocato non iscritto al Fascio ma massone, o di monsignor Re canonico del Duomo, cugino di mia nonna.

Ricordo bene il potere e la necessità di quest'ombrello protettivo di classe a cui ogni famiglia ricorreva per ottenere non dico il proibito, l'impossibile, ma anche quello che onestamente si poteva desiderare. Per salvarmi da una di queste raccomandazioni che mi assicurava l'ingresso all'Accademia di Modena per accedere alla carriera militare che detestavo, dovetti farmi bocciare in ginnastica fra lo stupore mai risolto di chi mi aveva raccomandato e di mia madre. Che cosa c'era dietro questo sgarro alla regola? Perché mai un raccomandato metteva in crisi il sistema sacro delle raccomandazioni? Erano così stupiti che finsero di credere che davvero ero incapace di salire sulla pertica o di saltare sul cavallo da palestra.

Il sistema delle raccomandazioni, dei privilegi di classe leciti o tollerabili, si spezza non per ragioni di qualità e di morale, ma di quantità. Dall'attuale scandalo della cricca che si è formata attorno all'impresario Anemone vengono fuori i vecchi modelli borghesi del parassitismo statale.

La classe serve lo Stato, ma dallo Stato pretende servizi casalinghi, per esempio gli attendenti, che sono dei soldati di leva come gli altri arruolati per la difesa della patria, ma in pratica usati come camerieri, per le pulizie in casa o per accompagnare i figli a scuola. O gli autisti delle auto blu dei pubblici uffici usati dalla famiglia del funzionario per andare al mare o fare la spesa. Il grande scandalo della cricca Anemone e della Protezione civile nasce da questa routine, della burocrazia borghese che si arrotonda lo stipendio a spese dello Stato. Nei verbali delle procure si ripetono i racconti dei piccoli favori pretesi e ottenuti dalle famiglie dei grandi burocrati: uno si faceva "ristrutturare" la casa, in parole povere si faceva regalare una boiserie o una biblioteca o un salotto, un altro si faceva pagare la metà o i due terzi di un "mezzanino" di 200 metri quadrati con vista sul Colosseo, un altro sistemava moglie, cognati e figli nelle pubbliche imprese.

Si dirà che c'è di strano, di orripilante? Il sistema capitalistico, il nostro non è lo stesso che permette alla British Petroleum di pagare il disastro multimiliardario del Golfo del Messico e di guadagnarci ancora?

 
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« Risposta #147 inserito:: Luglio 18, 2010, 10:45:25 am »

Perché il premier in difficoltà cita Mussolini

Giorgio Bocca

L'onnipotente Berlusconi, come il Duce, dice di non avere potere. Perché scopre di doverlo spartire con i suoi collaboratori

(07 luglio 2010)

Silvio Berlusconi, l'uomo più ricco e più potente d'Italia, dice e ripete di essere privo di potere. Esattamente come lo diceva Mussolini quand'era il dittatore che faceva scrivere sui muri d'Italia "il Duce ha sempre ragione". Che significano queste dichiarazioni di impotenza di uomini nel pieno della loro onnipotenza? Direi la constatazione che non sono Dio, non sono il padreterno e la santissima trinità, non sono il motore unico dell'universo ma devono spartire il loro potere con i loro ministri i quali a loro volta devono spartirlo con i loro collaboratori, fra i quali certamente non mancano gli infidi e gli infedeli.

Insomma, scoprono che l'uomo è un animale sociale che esiste, domina ed è famoso solo se per lui lavorano altri uomini, cioè la società. E il fatto che gli uomini "fatali", i "pastori di popoli", i signori della storia prima o poi facciano la sensazionale scoperta che il loro potere esiste ed è possibile solo se condiviso e condizionato da tutti gli altri esseri umani che "strisciano fra cielo e terra", sembra miracoloso.

La vita di questi potenti è segnata dalla loro dominante megalomania che gli fa credere di non avere pari al mondo, ma anche da una serie di scoperte dell'acqua calda, del tipo che i loro sudditi sono gelosi, pigri, infidi, ladri e come non bastasse che ci sono anche la natura, il destino, la dea fortuna, la jella e ovviamente la morte a limitare il potere a cui hanno dedicato la loro vita.

Con l'inevitabile e spiacevole conseguenza che c'è un prezzo da pagare alla ricchezza e al potere, una forte dose del ridicolo di ritrovarsi tutti come il Nerone di Petrolini, alias Mussolini, di cui gli italiani risero.

Il paragone con Mussolini, privo di potere ma con il potere di trascinare l'intero Paese in una guerra disastrosa, appartiene alla megalomania dei sultani, alla loro illusione di poter sostituire la mancanza di reali poteri economici e militari con il rimbombo delle parole, con il castello di sabbia delle parole.

Il Mussolini messo sotto accusa dal Gran Consiglio del Fascismo il 25 luglio del '43 si difende ricorrendo per l'ultima volta alle parole di cui è maestro, che gli hanno permesso di durare per un ventennio. Il suo imperialismo era anacronistico, la sua marina militare non aveva i mezzi per dotarsi di portaerei? Rimediava, credeva di rimediare, con il sistema delle parole: "L'Italia - diceva - è tutta una portaerei".
I suoi seguaci applaudivano ma da lì a poco gli inglesi, che le portaerei ce le avevano, sarebbero arrivati nel mare di Taranto per affondare con i siluri il grosso della nostra flotta. A parole la sua Italia fascista faceva tremare il mondo.

In realtà arrivammo alla guerra con un esercito male armato. Nel maggio del 1940 il duce aveva approvato un piano per la fabbricazione di 8.543 bocche da fuoco di grande e di medio calibro. I prototipi erano buoni ma l'acciaio e i soldi per fabbricarli mancavano. Così alla vigilia della guerra Mussolini chiede all'alleato tedesco i mezzi per farle con la famosa "lista molibdeno", la lunghissima lista di quanto ci mancava per farla, la guerra.

Il Cavaliere di Arcore in fatto di guerre si accontenta di modesti interventi al seguito dell'alleato americano, ma è il ricorso al potere delle parole vale per tutto il resto, per la politica estera come per la crisi economica. A parole siamo i migliori del mondo, nelle statistiche dei valori reali sempre sotto il ventesimo o il trentesimo posto, magari dietro il Camerun o la Colombia.

Particolare interessante: il Mussolini che si lamenta di non aver potere è ricavato da un falso memoriale.

 
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« Risposta #148 inserito:: Luglio 18, 2010, 10:46:07 am »

Intelligence double face

di Giorgio Bocca

A cosa servono i servizi segreti? Ai buoni affari dei padroni degli Stati. E a far finta di fronteggiare il caos della società

(15 luglio 2010)

Niccolò Pollari e Mario Mori Niccolò Pollari e Mario MoriA cosa servono, perché esistono i servizi segreti? Un tempo si pensava che servissero per scoprire e parare le mosse del nemico, l'Unione Sovietica, per dire, l'"impero del male" o il pericolo giallo dei miliardi di cinesi con gli occhi a mandorla.

È ancora così? L'Urss non esiste più, è tornata la vecchia Russia ma anche lei con le mani legate dalle atomiche, cioè dalla distruzione della specie assicurata a tutti. E la Cina ha troppe bocche da sfamare per concedersi la follia di una guerra. Quale altro possibile nemico? La misteriosa e perfida speculazione che minaccia l'euro e fa crollare le Borse? No quella no, dipende dall'avidità degli uomini e non ci sono servizi segreti che possono sconfiggerla. La mafia? Ma no, la mafia ormai è un'istituzione degli Stati moderni, necessaria alla circolazione del capitale e al finto gioco fra ladri poliziotti, che si danno la caccia per le strade ma si accordano nelle banche.

E allora? Allora c'è venuto il sospetto, l'idea che la cosiddetta intelligence, la politica segreta dei servizi segreti, serva a due altri scopi concreti: ai buoni affari dei padroni degli Stati, che è sempre un buon motivo, e poi a far finta di fronteggiare in qualche modo lo stato caotico della società, cioè a giustificare chi essendo al governo dispone dei servizi segreti con cui domina il caos.
Se non ci fossero queste due ragioni, diciamo così psicologiche, sarebbe difficile trovarne altre, di pubblica utilità, dato che i servizi segreti non fanno altro che mettersi l'un l'altro il bastone fra le ruote, a opporre servizi fedeli a servizi deviati.
La vicenda degli attentati mafiosi del '93 è per l'appunto una conferma dell'assurdità e della confusione che regna nei servizi segreti, cioè la prova che essi esistono solo per via di questa inguaribile umana confusione. Noi, persone che aspiriamo alla normalità, stentiamo a raccapezzarci.

Cominciamo dall'attentato alla villa del giudice Falcone all'Addaura. Pare che fossero all'opera due rami dei servizi segreti e nessuno ha capito quale dei due fosse deviato. Uno che preparava la superbomba che doveva far saltare la villa e il suo padrone, l'altro che disinnescava la bomba e rimandava la morte di Falcone al prossimo attentato, non si sa se mafioso o dei servizi deviati, cioè della mafia che si annida nella direzione dello Stato. E come non bastasse il mistero di questo Stato bifronte che ora aiuta la mafia e ora la combatte, ci hanno pensato le ricostruzioni filmate delle televisioni a rendere impenetrabile il mistero.
Qualcosa del genere accadde per l'altro misterioso apparato parastatale e cossighiano di Stay Behind, l'organizzazione paramilitare che avrebbe dovuto intervenire nel caso di un colpo di Stato comunista. E l'unica cosa che si capì fu che i suoi dirigenti e militanti avevano passato a spese dello Stato delle vacanze di lusso nelle più note stazioni turistiche della Sardegna per sorvegliare i campi di addestramento dei presunti congiurati.

La storia italiana è piena di questi misteri ambigui, ce ne furono anche nella Repubblica di Salò, dove il principe Junio Valerio Borghese, un nobile monarchico passato alla Repubblica lacustre, organizzò una marcia, ovviamente mai fatta, su Salò per disarcionare o rimettere in linea il Mussolini al tramonto.

O se preferite anche la misteriosa vicenda del "ponte" tra fascisti sconfitti e socialisti rampanti organizzato, a parole, dal Bonfantini di Novara.

O anche la "vera" morte di Mussolini con cui dei furboni necrofili strapparono un po' di milioni agli editori di rotocalchi.


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« Risposta #149 inserito:: Luglio 23, 2010, 11:23:03 am »

Questo Marchionne pare Silvio

di Giorgio Bocca


Come Berlusconi, il capo del Lingotto è convinto che il potere debba avere mano libera. Ed entrambi sembrano stupiti quando scoprono che i sottoposti non gradiscano

(22 luglio 2010)

L'idea che il potere, in un'impresa come in uno Stato, debba avere mano libera sui dipendenti e sui cittadini è di quelle dure a morire.
Il manager della Fiat Marchionne in questo è simile al capo del governo Berlusconi, entrambi stupiti e quasi delusi che i lavoratori sottoposti non capiscano, non gradiscano il ricatto del capitalismo globale: o mangiate questa minestra o saltate dalla finestra.
Appartiene alla filosofia del potere la convinzione che la legge del più forte, nel caso del mercato globale, sia anche la più giusta.
Ma è un'idea di comodo, cara a chi sta al potere, smentita dalla storia, cioè dalla lotta di classe e dal progresso produttivo e sociale: se l'automazione è arrivata nelle fabbriche rivoluzionando e migliorando il modo di produrre lo si deve anche alla lotta di classe, alle rivendicazioni operaie. Marchionne è certamente un manager intelligente come lo fu prima di lui Cesare Romiti, e magari i toni ricattatori e autoritari possono servire nel tempo breve, ma non alla creazione di una durevole crescita civile.

Non sembra il caso di ricorrere di continuo nei rapporti di lavoro alle superiori, indiscutibili esigenze del mercato globale, cioè della facoltà che il capitale scambia per un suo inalienabile diritto: trasferire la produzione dove più gli comoda. È una pretesa inaccettabile da un paese civile: non si può compiere la prima accumulazione del capitale, la prima crescita produttiva e tecnica usando le risorse umane locali e poi trasferirsi dove al capitale conviene. Soprattutto in paesi come il nostro dove la formazione di una società industriale è avvenuta anche grazie ai privilegi e alle discipline autoritarie, anche grazie ai riarmi e ai bagni di sangue delle guerre mondiali.
Come Cesare Romiti, come altri manager e imprenditori, Marchionne è convinto che la crescita economica di un paese sia la stessa cosa della sua crescita civile e che essa sia possibile solo se si rispettano le regole fondamentali che legano il lavoro al salario e che rifiutano come utopie suicide quelle sessantottesche del più salario e meno lavoro. Ma questo rispetto delle regole non può essere una prerogativa dell'imprenditore razionale da imporre ai dipendenti immaturi che preferiscono la partita della Nazionale di calcio al lavoro, non può essere la richiesta di rinunciare nel nome della produzione ai diritti conquistati con duri sacrifici.

Anche il capitale, anche il potere capitalistico inseguono utopie come quella che sia possibile e augurabile abolire la lotta di classe.
Non è così, sia che i padroni siano liberali, sia che siano comunisti come la Cina, dove i grandi balzi produttivi maoisti stanno finendo secondo logica nella ripresa degli scioperi e nelle lotte per i diritti umani.

Ha detto Marchionne: "Stiamo facendo discussioni su principi e ideologie che ormai non hanno più corrispondenza nella realtà.
Parliamo di storie vecchie di trenta o quarant'anni, stiamo a parlare del padrone contro il lavoratore. Sono cose che non esistono più".
Davvero? Forse il Ceo della Fiat si sbaglia o si illude. I padroni esistono ancora, come i lavoratori che dai padroni dipendono.
 
E per governarli occorre anche modestia, pazienza e sapersi mettere, come usa dire, nei loro panni.

   
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