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Autore Discussione: LORENZO MONDO  (Letto 65276 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Ottobre 01, 2012, 04:47:02 pm »

PANE AL PANE

30/09/2012

Fiorito? Facile demonizzarlo

Lorenzo Mondo

Franco Fiorito è indifendibile, non fosse altro che per ragioni estetiche. Non mi riferisco alla pantagruelica prestanza (1 metro e 90 per 170 chili), ma alla spacconeria da bullo, all’improntitudine con cui si difende e contrattacca, alla scaltra rozzezza che sembrerebbe assegnarlo ad un Lazio plebeo e rissoso di altri tempi. Ma poi vengono le accuse di peculato: avrebbe dirottato 800.000 euro dai conti correnti del Pdl su quelli a lui intestati. E resta il dubbio che altre somme, più consistenti, siano sparite. Vien da chiedersi di primo acchito con quale coraggio gli abbiano affidato il tesoro del suo gruppo consigliare alla regione Lazio. Per di più con la facoltà, stabilita da un regolamento interno per il capogruppo, di non giustificare le spese. Ma in forza della sua stazza, non soltanto fisica, qualcuno avrebbe potuto accorgersi, prima che intervenisse la magistratura, della sua inaffidabilità. Vero è che un tal fiume di denaro è stato elargito dalla Regione al gruppo consigliare del Pdl (e proporzionalmente agli altri, solidali gruppi politici), da rendere forse incontrollabili e ininfluenti le ruberie. 

Ma il fenomeno dei tesorieri che rubano ai rispettivi partiti, da Fiorito a Belsito a Lusi, poggia su un vizio di fondo. La finanza allegra - fatta di privilegi, sprechi, abusi - che riguarda tutti i partiti, e segnatamente le loro rappresentanze nelle Regioni, è favorita dagli spropositati contributi concessi benevolmente per attività politiche sul territorio (che, anche quando siano certificate, si risolvono spesso in non memorabili convegni, tagli di nastri, cene elettorali). Assistiamo, in altre parole, a un fatto paradossale e sconvolgente: che nel nostro Paese, di cui si esalta la civiltà giuridica, si finisce per «rubare» con il crisma della legge. Fiorito è indifendibile, ha rubato al suo partito e. ciò che più conta, ai cittadini. Ha attinto però a un deposito di denaro pubblico raccolto in modo formalmente legittimato ma moralmente inaccettabile. Assume, davanti all’opinione pubblica, la veste di un ladro che ha approfittato in modo spregiudicato della comune refurtiva. E’ questo in fondo che indigna la gente onesta, e malmenata dalla crisi, più dei loschi figuri emersi alla ribalta. Tant’è che il caso Lazio ha dato la stura a serrate inchieste «conoscitive» della Finanza e della Magistratura in altre regioni. Dove, prescindendo dalle malefatte dei tesorieri, deve essere garantita una pulizia integrale. Perché è nei palazzi della politica, e non nelle esasperate reazioni della gente, che si annida la vera antipolitica.

da - http://www.lastampa.it/2012/09/30/cultura/opinioni/editoriali/fiorito-facile-demonizzarlo-ZlfSSZGk0XpMpiWnMEZnfO/index.html
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« Risposta #121 inserito:: Ottobre 07, 2012, 03:29:29 pm »

Editoriali

07/10/2012 - PANE AL PANE

Il Dio sconosciuto e il bene comune

Lorenzo Mondo

Dio, questo sconosciuto. A discorrerne nel Cortile dei Gentili, apprestato ad Assisi davanti alla basilica di San Francesco, sono stati due interlocutori di eccezione: il presidente Napolitano e il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, introdotti da Ferruccio de Bortoli. Rappresentavano le ragioni di chi crede e di chi non crede, o quanto meno sta cercando ancora una risposta a quelle che sogliono definirsi le domande ultime. Allargava il cuore sentirli non duellare ma incontrarsi nei riferimenti a letture comuni, ad autori variamente toccati da un assillo religioso e morale (inattesa e significativa l’ammissione, da parte di Napolitano, di avere scoperto Pascal e di volerlo approfondire). A colpire, era il possesso di una cultura intesa come lezione di vita, la civiltà del tratto, perfino il reciproco riconoscimento di una metodica del dubbio. Fornivano l’esempio di quello che dovrebbe significare la parola dialogo, non adulterata dalle consuete banalizzazioni e dai sottesi, pervicaci pregiudizi. 

Ma l’alto profilo intellettuale del loro confronto non confinava le argomentazioni nella serra degli spiriti magni (da Giobbe a Thomas Mann, Benedetto Croce, Ingmar Bergman, Norberto Bobbio). Ne ha dato avviso il Presidente nel suo esordio, dove rammentava di rappresentare tutti gli italiani, credenti e non credenti. Quando ha esaltato lo spirito dell’Assemblea Costituente che ha saputo conciliare diverse ispirazioni ideali in vista del bene comune e dell’interesse generale. Questo deve essere il minimo comun denominatore, il punto d’incontro delle rispettive culture e vocazioni. Il discorso è inevitabilmente franato dalle cime trascendentali sulla considerazione dei mali che affliggono l’Italia, sul degrado politico e morale dei nostri giorni che esige, nelle parole di Napolitano, una vigorosa riscossa: «Abbiamo bisogno in tutti i campi di apertura, di reciproco ascolto e comprensione, di dialogo, di avvicinamento e unità nella diversità. abbiamo cioè bisogno dello spirito di Assisi».

Il cardinal Ravasi ha sostenuto, di rincalzo, che non si tratta soltanto di atei e credenti. Il Paese ha vissuto momenti più tetri e dolorosi, all’ombra delle guerre e dei totalitarismi che hanno insanguinato il Novecento. Ma tutta nuova nuova è la diffusa amoralità, l’incapacità di distinguere tra nero e bianco, tra bene e male. Si arriva a giustificare con tracotanza, in questa zona grigia, i comportamenti più aberranti. L’idea del Dio sconosciuto, della sua assenza, sembra proiettarsi sul deserto di un qualsivoglia ideale.

da - http://www.lastampa.it/2012/10/07/cultura/opinioni/editoriali/il-dio-sconosciuto-e-il-bene-comune-s0Yn6Kl4cLBQ87zkC4U1hO/index.html
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« Risposta #122 inserito:: Ottobre 14, 2012, 04:03:38 pm »

pane al pane
14/10/2012

Due Nobel a confronto

Lorenzo Mondo

Il Nobel per la Pace attribuito all’Unione Europea dovrebbe essere accolto con pieno consenso, essere perfino considerato come una ovvietà. Le inadempienze che le si possono imputare, le resistenze opposte all’integrazione politica del continente vagheggiata dai padri fondatori, non diminuiscono i suoi grandi meriti. Il premio, che arriva paradossalmente da una Norvegia che non fa parte dell’Unione Europea, vale semmai come uno strattone ad osare di più, a procedere celermente verso altri traguardi. Basti pensare al secolo che abbiamo alle spalle, ai popoli che si sono sbranati nella «guerra civile europea» del ‘15-’18, alla ferocia dei contrapposti totalitarismi, fino all’ultimo, devastante conflitto che sembrò segnare la finis Europae. L’Unione, come si legge nella motivazione del premio, ha garantito un periodo di pace e riconciliazione che non ha equivalenti nella Storia, ha operato una forte promozione della democrazia e dei diritti umani. Oggi a nessuno verrebbe in mente di ipotizzare un conflitto franco-tedesco o la spartizione di zone d’influenza per mano militare. E’ un dato acquisito che soltanto l’insipienza può sottovalutare.

Ma il Nobel per la Pace va considerato anche a confronto con il discusso Premio per la Letteratura che lo ha preceduto. E’ stato assegnato al cinese Mo Yan, l’autore del celebrato Sorgo rosso. Nessuno mette in dubbio il suo talento, la forza del suo «realismo magico», ma è considerato dagli esuli e dai contestatori del governo di Pechino come uno scrittore di regime, perchè non ha mai denunciato crimini, persecuzioni e oltraggi alla libera espressione. Di qui l’accusa al Nobel di avere operato una scelta politica difforme dalle sue tradizioni: quasi per bilanciare il Premio per la Pace attribuito nel 2010 al dissidente Liu Xiaobo, che si trova tuttora in carcere. Per quanto riguarda il neolaureato si tratta di critiche forse ingenerose: non tengono conto infatti del clima pesante che opprime il suo paese, di una non esigibile professione di eroismo. Per quanto riguarda i giudici del Nobel, è possibile che abbiano dato prova di opportunismo. Ma il premio all’Europa e alle sue ispirazioni ideali sembra operare indirettamente una distinzione, gettare una luce riflessa sul gigante asiatico e le sue ombre. Ed è comunque un acquisto il fatto che Mo Yan auspichi ora la liberazione di Liu Xiaobo, insieme alla possibilità di esprimere le proprie idee. Mo Yan è un nom de plume, vuol dire «quello che non parla». Grazie al Nobel, alle emozioni e pressioni psicologiche che sta vivendo, si è deciso a parlare.

da - http://lastampa.it/2012/10/14/cultura/opinioni/editoriali/due-nobel-a-confronto-wl5dfBk6TLA4FNfoV3jpyK/pagina.html
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« Risposta #123 inserito:: Ottobre 28, 2012, 10:32:00 am »

Editoriali
28/10/2012 - pane al pane

Ma sul terremoto, Galileo non c’entra

Lorenzo Mondo

Ferve il dibattito sulla condanna - addirittura a sei anni, per omicidio - dei sette esperti della Commissione Grandi Rischi, accusati di «avvertimenti insufficienti» sul terremoto che ha distrutto L’Aquila. Fino a che punto sono responsabili gli scienziati, i più competenti sulle falde sismiche ramificate in buona parte del nostro territorio? Si potevano scongiurare i 300 e passa morti sotto le macerie della capitale
d’Abruzzo? La questione, di per sé complicata, non sfugge alle pur comprensibili accensioni emotive e alle interferenze di natura politica.
E la levata di scudi che arriva dalla comunità scientifica internazionale a difesa dei condannati non è esente da stonature. Come si fa a sostenere che l’Italia sta macchiandosi di un nuovo processo a Galileo? Soltanto per astrazione si può parlare di un processo alla scienza.

Galileo è stato perseguito per conoscenze reali, per inascoltate verità. Gli studiosi di terremoti, questo il paradosso, sono puniti per ciò che non sanno. Essi stessi ammettono che i terremoti non sono prevedibili. I più sofisticati strumenti si limitano a registrarne i movimenti latenti o superficiali senza anticipare l’esplosione della loro terrificante potenza. Ai profani resta l’impressione che gli esperti siano costretti a dibattersi tra mappe e statistiche che la realtà si adopera a correggere con beffarda impudenza (il terremoto di questi giorni nell’area del Pollino è il frutto di uno sciame sismico che ha dato origine negli ultimi due anni a migliaia di sussulti). 

Si obietta che il giudice non contesta la mancata previsione, ma l’insufficiente allarme sulla pericolosità dei sintomi. In realtà, non si capisce come le due cose possano essere del tutto disgiunte. Come muoversi sul dubbio crinale della rassicurazione e dell’allarmismo?
Ora si discute se, nella presunzione di eventi temibili, l’ultima decisione spetti ai tecnici o ai politici. Ma il problema resta.
Decapitare gli organismi preposti alla vigilanza sui terremoti è comunque un non senso. Lasciamoli lavorare, esortandoli semmai a una minor saccenza, all’umiltà richiesta da una scienza così limitata e fallace.

Resta piuttosto, come si va da più parti sottolineando, la responsabilità politica - di lungo termine - nella mancata prevenzione.
Perché la scienza, questo sì, aiuta a costruire case che resistono a forti scosse.

Ma non sono quelle costruite a milioni nel più completo abusivismo, prive di ogni dotazione antisismica, benedette da compiacenti licenze e condoni edilizi. Quanti processi meriterebbe questo malcostume dettato dall’avidità e dalla stupidità?

da - http://lastampa.it/2012/10/28/cultura/opinioni/editoriali/ma-sul-terremoto-galileo-non-c-entra-2UPBj44eJKoafdOxuM6rhI/pagina.html
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« Risposta #124 inserito:: Novembre 04, 2012, 05:18:03 pm »

Editoriali
04/11/2012

Allen-Faulkner, eccesso di causa

Lorenzo Mondo


Siamo in tanti ad avere apprezzato Midnight in Paris, il film di Woody Allen che evoca con malinconica eleganza l’attrazione esercitata dalla Ville Lumière sugli artisti di ogni parte del mondo, a cavallo tra Otto e Novecento. Il film ha ottenuto un premio Oscar per la migliore sceneggiatura, ma adesso riporta l’attenzione sul geniale Woody per un’accusa stupefacente. Gli eredi di William Faulkner hanno querelato la Sony Pictures, casa produttrice del film, per una frase tratta da un racconto del Premio Nobel della Letteratura, Requiem per una monaca. E’ quella pronunciata dal giovane protagonista Gil Pender, esploratore della Parigi d’antan: «Il passato non è morto! A dire il vero non è neanche passato. Sai chi l’ha detto? Faulkner. E aveva ragione. L’ho incontrato l’altra sera a una cena». Per una citazione di poche righe (non l’utilizzo di una pagina o di un capitolo) viene imposto il rispetto del copyright e richiesto un sostanzioso risarcimento per danni, insieme a una percentuale dei profitti cinematografici. Si lamenta perfino, da questi improbabili filologi, l’inesattezza della citazione.

 

La denuncia appare talmente risibile che, crediamo, verrà sollecitamente archiviata. Ma è il sintomo di un costume, di una mentalità lucrativa insensibile allo spirito di un’opera d’arte, che aspira a soffiare dovunque senza costrizioni. Essa offende tra l’altro la memoria del severo patriarca della contea di Yoknapatawpha. Da sempre la citazione segnala infatti la notorietà e l’eccellenza di uno scrittore, la sua acquisizione ad un comune patrimonio culturale. Di più, mette in circolo il suo nome, ne promuove la conoscenza e la familiarità fuori dalla cerchia delle persone colte. Anche soltanto da questo punto di vista, i gretti eredi di Faulkner dovrebbero essere grati a Woody Allen, invece di inquisirlo per un presunto abuso perpetrato sulla sua opera (il cinema può rappresentare un potente traino per l’opera scritta). Pensiamo ad esempi eccelsi, come quello di un Dante. 

 

Le citazioni dalla Commedia sono diventate perfino luoghi comuni, vengono memorizzate da persone che non si sono mai piegate sulle sue terzine: «Lasciate ogni speranza, voi che entrate», «Fatti non foste a viver come bruti», eccetera. Correvano per tempo di bocca in bocca e a nessuno dei suoi eredi sarebbe venuto in mente di lagnarsene. Miliardi ne avrebbero ricavato, se avessero mai potuto appellarsi a uno stringente, punitivo diritto d’autore. Almeno a questo riguardo, si potrebbero contestare le parole di Faulkner. Per certi aspetti, il passato sembrerebbe morto, definitivamente passato.

da - http://lastampa.it/2012/11/04/cultura/opinioni/editoriali/allen-faulkner-eccesso-di-causa-IxNSNYAWEE68HwA4pu2uqK/pagina.html
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« Risposta #125 inserito:: Novembre 11, 2012, 04:08:20 pm »

Editoriali
11/11/2012 - PANE AL PANE

Onorevoli, rinunciate almeno all’ombrello

Lorenzo Mondo

Ce la farà il ministro Anna Maria Cancellieri a ridurre gli sprechi dovuti ad auto blu e agenti di scorta? Si tratta di 4000 mezzi e 2100 uomini impiegati ogni giorno per la sicurezza di varie personalità della politica e delle istituzioni. La commissione del Viminale incaricata di revisionare il sistema di protezione ha suggerito nuove regole che, oltre a diminuire i costi delle prestazioni (250 milioni all’anno), dovrebbero incidere sul costume, in termini di sobrietà e di aderenza al sentire comune. Si propone di alleggerire perfino le scorte di «massimo livello», di cui usufruiscono, con pieno diritto, le alte cariche dello Stato (contemplano tre macchine blindate, ciascuna con tre agenti a bordo). Una tutela che, salvo eccezioni, dovrebbe essere drasticamente ridotta al termine del mandato. Si stabilisce inoltre che gli agenti non debbano più seguire una personalità sull’aereo col quale si sposta. Ma si tratta soprattutto di verificare se il dispositivo di sicurezza sia ancora necessario, se non debba essere, in tutti i casi di minor rilievo, ridimensionato o annullato. Più volte i sindacati di polizia hanno chiesto di riformare un servizio che spesso costringe gli agenti «a svolgere funzioni di autista visto che il pericolo è attenuato o addirittura cessato». 

Saggi propositi del ministro, che incontreranno ovviamente forti resistenze. Risulta infatti da palpabili riscontri che macchina e scorta sono diventati un gradevole benefit, un ambito status symbol. Capita di chiederci a chi mai verrebbe in mente di attentare a personaggi che appartengono a obliate stagioni o che brillano per una comprovata insignificanza. A meno che, nei frangenti dell’antipolitica, ciascuno di loro debba sentirsi a rischio, come se non bastassero dileggio e discredito. Anche per una semplice mancanza di stile. Nei giorni scorsi la tv ha mostrato alcune scenette che, nel loro minimalismo, non accrescono l’amicizia per chi ci rappresenta. Abbiamo visto un onorevole che, all’uscita da Montecitorio, si imbatteva in un’acquerugiola inoffensiva, affrontata a capo scoperto dai cittadini di passaggio. Ma alle sue spalle stava un aitante poliziotto, che lo accompagnava alla macchina proteggendolo con l’ombrello. Il personaggio incedeva come un dignitario d’altri tempi, come un imperatore o un papa. Riducendo l’agente scelto al ruolo umiliante del servitore. L’episodio si è ripetuto, rigorosamente bipartisan accomunando, massì, Fini a D’Alema. Veniva da pensare alla difficile impresa del ministro Cancellieri. Veniva da invocare, con uno stentato sorriso: «Rinunciate almeno all’ombrello».

da - http://lastampa.it/2012/11/11/cultura/opinioni/editoriali/onorevoli-rinunciate-almeno-all-ombrello-ffm2gCYyZODwgwxhI8UhdI/pagina.html
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« Risposta #126 inserito:: Novembre 18, 2012, 03:14:08 pm »

Editoriali
18/11/2012

Il caso Sallusti e la voglia di altolà

Lorenzo Mondo

I nostri parlamentari stanno congedandosi dalla legislatura nel modo peggiore e tra i molti comportamenti riprovevoli, e scandalosi, figura anche il voto al Senato che «condanna» al carcere i giornalisti colpevoli di diffamazione. Sono 131, contro 94, quelli che hanno votato il famigerato emendamento della Lega e dell’Api al disegno di legge inteso a regolare in modo equilibrato la materia. Un voto trasversale, che coinvolge cioè le varie forze politiche. A nessuno sfugge che si tratta di una rabbiosa rivalsa contro chi ha denunciato, oltre ai macrocospici episodi di corruzione, gli arroccamenti intorno a intollerabili privilegi. E’ tanto il livore contro il mondo dell’informazione che ha indotto a trascurare la stessa sorte di Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale, che ha innescato la vicenda con la sua condanna a 14 mesi: una noncuranza espressa presumibilmente da molti che pure dovrebbero simpatizzare con le sue battaglie giornalistiche orientate risolutamente a destra. Come se prevalesse su tutto la voglia di impartire un altolà all’intera categoria. (A mente fredda, Sallusti dovrebbe farci qualche pensierino).

Ora, non si tratta di conferire patenti di immacolatezza ai giornalisti di cui sperimentiamo spesso faziosità e inescusabili mende. Ma occorre evitare che una pena così pesante come il carcere comprometta un valore così alto come la libertà d’espressione che è uno dei cardini della democrazia. Al di là del merito, va contestato tuttavia il metodo. Nel voto a scrutinio segreto è stato contraddetto un patto siglato dai gruppi parlamentari, vanificando una faticosa opera di mediazione. E già questo denota una vigliacca assenza di lealtà e senso di responsabilità. Aggiungiamoci la leggerezza, esibita con improntitudine. 

Cadono le braccia al sentire Maroni che liquida il suo emendamento come una innocua «provocazione». Mentre Rutelli, il capetto dell’Api, fa un mezzo passo indietro, suggerendo un pasticciato espediente per risolvere il caso Sallusti: depenalizzare cioè il reato di omesso controllo e la responsabilità del direttore per gli articoli firmati con pseudonimi o privi di firma. La prossima settimana il magistrato di sorveglianza di Milano deciderà sull’esecuzione della pena. Si ignora a quale escogitazione si ricorrerà per evitare l’arresto, per inibire a Sallusti la corazza dell’eroe. Resta il fatto che dalla classe politica arriva un altro vistoso segnale di egoismo, ipocrisia e inettitudine. Riuscirà, con le prossime elezioni, a depurarsi di certi personaggi? Mah...

da - http://lastampa.it/2012/11/18/cultura/opinioni/editoriali/il-caso-sallusti-e-la-voglia-di-altola-YIBml7w2oPJpXbbZBMZjPO/pagina.html
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« Risposta #127 inserito:: Novembre 26, 2012, 05:36:55 pm »

Editoriali
25/11/2012

La barista e i poliziotti

Lorenzo Mondo

Ha fatto sensazione, almeno nella sua città, almeno per qualche giorno, il gesto della barista Monica Pavesi. Nel suo locale alla periferia di Cremona, tiene due slot machine ma, di punto in bianco, ha deciso di staccare la spina. I clienti sono avvisati, qui non si gioca più. Il motivo? Non sopportava più di vedere persone che si rovinavano alle macchinette mangiasoldi. Gente che, giudicando dall’apparenza, soldi ne aveva pochi e si illudeva di moltiplicarli, sedotta dalla giocosa trappola di suoni e di luci. E’ tanto più significativo il comportamento della signora Pavesi perchè non è dettato da un astratto moralismo, dalla compassione che si suole spendere con effluvi di parole. Perchè le sue slot incassavano 40-50 mila euro al mese, e il 6 per cento andava a lei. Risultato? Una perdita secca di migliaia di euro. Il Comune, che si batte da tempo contro questa rapina legalizzata, promette il suo sostegno alla barista, esalta l’esempio da lei fornito a tutti i suoi colleghi. Ma le cronache, implacabili, non confortano le speranze, la generosità è merce rara e viene di fatto irrisa. 

Pochi giorni dopo la storia di Cremona, le infernali macchinette sono tornate alla ribalta. A Bergamo, dove si è scoperto che pattuglie delle squadre volanti della polizia amavano indugiare in una sala giochi cercando la fortuna per ore, anche di notte, con la Pantera parcheggiata a due passi. A dispetto delle esigenze di sicurezza, delle ricorrenti lamentele sulle carenze di organico. Si è aperta una inchiesta per abbandono di servizio e truffa aggravata ai danni dello Stato. Degli 11 agenti denunciati dalle telecamere e inquisiti, 4 sono stati colpiti dalla misura cautelare del divieto di dimora, e connesso lavoro, a Bergamo. Un ovvio provvedimento. Ma balza all’occhio un aspetto, sanzionabile moralmente, dell’incredibile vicenda. Non un cliente, non il gestore della Sala si è stupito, non dico che abbia protestato, davanti a uomini in divisa distolti bellamente da compiti di così alta responsabilità nei riguardi dei cittadini, compresi i silenziosi testimoni del misfatto. 

Tutti infoiati davanti agli esosi giochini. Al di là dell’inerzia morale e civile segnalata dall’episodio, resta il problema di uno Stato di bocca buona che, a beneficio dell’erario, specula sulle umane debolezze e si rende di fatto complice di meccanismi perversi. Non sarà la barista di Cremona, e le improbabili emule, a invertire la rotta. Appare d’altra parte intempestivo, perdurando la crisi, affliggere il Governo chiedendo soluzioni di per sè impervie. Sarebbe bene comunque pensarci su, prepararsi a discorrerne nei tempi meno difficili che vagheggiamo. 

da - http://lastampa.it/2012/11/25/cultura/opinioni/editoriali/la-barista-e-i-poliziotti-IFg8jAiT6qIY2X77doXRyL/pagina.html
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« Risposta #128 inserito:: Dicembre 02, 2012, 05:36:26 pm »

Editoriali
02/12/2012 - PANE AL PANE

Pregiudizio, non razzismo

Lorenzo Mondo


Licenziato dalla Rai per razzismo. E’ toccato al giornalista Giampiero Amandola, in forza alla sede di Torino, Tgr Piemonte. E’ stato punito per un servizio che registrava le reazioni dei tifosi bianconeri al termine della partita Juventus-Napoli giocata nell’ottobre scorso. «I napoletani sono come i cinesi» osservava un tifoso. «E voi li riconoscete dalla puzza?» replicava il giornalista, in un’eco di risate. La battuta ha scatenato un putiferio e mamma Rai, inusitatamente severa, ha pensato bene di intervenire, prima con la sospensione e poi con il licenziamento in tronco del giornalista. Una cannonata contro una mosca. A un insulto particolarmente sgradevole si è risposto con un atto che, per la sua sproporzione, finisce per diventare ingiusto. Intanto perchè sembra dettato dall’ossequio a un «politicamente corretto» che vede spesso il razzismo anche dove non c’è. Razzismo è parola che si accompagna a un sentimento di sacralità. Stenterebbero a riconoscerlo nel caso in oggetto, tanto per dire, qualche superstite di Auschwitz o i cristiani perseguitati di Pakistan e compagnia islamica. Mentre qui si tratta semmai della sopravvivenza di rozzi pregiudizi o, più semplicemente, di una ammiccante sintonia con il linguaggio più becero degli stadi. 

Si obbietterà che la Rai svolge un servizio pubblico, di grande responsabilità per l’enorme platea di cittadini a cui si rivolge, e deve sanzionare certi comportamenti diseducativi. Facciamole grazia di ciò che lascia sfilare impunemente sugli schermi televisivi, ma esistono provvedimenti disciplinari che, per quanto incisivi, escludano il licenziamento. È stupefacente che, in un Paese dove è così facile farla franca, si ipotizzi una esclusione dal lavoro per una frase infelice. Di questi tempi, poi. Trattando in generale di servizio pubblico, non abbiamo notizia che siano stati licenziati dipendenti che rubavano a man salva o disertavano il posto di lavoro. 

Torniamo ad Amandola, il quale sostiene di essere stato frainteso, che intendeva ironizzare sull’aggressività verbale delle tifoserie calcistiche. Francamente, dalle sue parole non si riesce a evincerlo. Insorgerebbe allora nella vicenda anche un problema di scarsa confidenza con il linguaggio? Una perentoria e abusiva supposizione di razzismo, una ironia che non riesce a distinguersi dal plauso. Adesso ci saranno ricorsi legali, interventi concilianti del sindacato giornalisti e Amandola, rinsavito dalla batosta, sarà augurabilmente reintegrato. Resta la brutta pagina scritta in solido dalla sua scioccaggine e dalla improvvida, estemporanea durezza della Rai. 

da - http://lastampa.it/2012/12/02/cultura/opinioni/editoriali/pregiudizio-non-razzismo-yv1wnBBK84VcMlgVBPxW9H/pagina.html
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