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« Risposta #15 inserito:: Dicembre 28, 2009, 05:03:41 pm » |
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Nelle carceri di Caracas: risse, violenze e detenute musiciste
Sangue e note dietro le sbarre
di Ettore Mo
CARACAS - Inesorabile, la sentenza è di 8 anni, sia che ti abbiano trovato addosso 300 grammi di droga o un ingombrante fardello di 37 chili, come è avvenuto più di una volta, capace di inebriare letteralmente in un colpo legioni di persone. Secondo l’elenco mozzafiato che ho sottomano, nelle carceri della capitale e delle quattro regioni del Paese — centrale, centro occidentale, orientale, andina—sono 43 i detenuti italiani nel primo semestre di quest’anno gravati da quella condanna, che però non viene mai scontata per intero. Tralasciando quelle più remote e inaccessibili, ho trascorso qualche giorno nelle prigioni di Caracas e dintorni, dove la presenza dei nostri connazionali è cospicua: gente di età e condizioni sociali diverse, spinta quaggiù dalla chimera di un «affare » rapido e facile che ha accomunato per anni lombardi, liguri, toscani, siciliani, calabresi, veneti, campani, friulani, sardi, pugliesi, emiliani, abruzzesi. Dal bollettino di guerra — l’elenco — risulta che il drappello più nutrito è quello siculo- lombardo.
Nel carcere El Rodeo, considerato il più tumultuoso e pericoloso di tutti, un milanese sui quarant’anni, alto e secco, riassume in poche parole la sua avventura: «Sono qui da due anni e mezzo, per traffico di droga. Perché l’ho fatto? Per ingordigia di denaro, come tutti». Nello stesso lugubre, catacombale corridoio dove stanno rintanati mezza dozzina di italiani, un tipo coi capelli rossi e modi gentili è fresco di cattura: viene da Padova, l’hanno arrestato 10 mesi fa alla frontiera con due chili di «roba» nello zaino. «Otto anni la sentenza —dice rassegnato—e due li dovrò passare certamente in questo cesso. Poi però sarò rilasciato in libertà condizionata e mi troverò un lavoro». Bastano poche ore al Rodeo 1 per sprofondare nell’abisso di una realtà dove odio, rancore e disperazione non hanno limiti e spesso scaturiscono in risse sanguinose e mortali tra le diverse «bande» dei carcerati, oltre che tra le guardie e i detenuti. Secondo i dati aggiornati dell’ultima ora, gli scontri armati all’interno delle prigioni venezuelane ad alto rischio hanno fatto 249 morti e 381 feriti nel primo semestre del 2008: ed è proprio Rodeo 1 a conservare il primato con 41 cadaveri e 35 sopravvissuti, attualmente confinati nelle corsie degli ospedali.
Ma non è un mistero per nessuno che la gran parte della responsabilità per questo continuo spargimento di sangue debba essere attribuita al fenomeno inarrestabile della corruzione, che irretisce e coinvolge un po’ tutti: dai direttori stessi dei penitenziari al personale di vigilanza e su su fino a certe strutture e vertici di potere nazionali. Nei mesi scorsi sono stati confiscati in 10 prigioni venezuelane una grande quantità di armi (rivoltelle, pistole, mitragliatrici, pugnali, granate) e munizioni; così come sono state sequestrate grosse riserve di droga — marijuana, cocaina e crack — a nutrimento di una popolazione carceraria totalmente tossicodipendente, che—mi dice un ragazzo sdraiato nel corridoio con gli occhi sbarrati —, «non ha più nulla da perdere».
Un tizio racconta di essere stato fermato dagli agenti con 7 chili di droga nella valigia. «Me ne hanno presi 6—aggiunge senza scomporsi, come se si trattasse di un fatto di ordinaria amministrazione — lasciandomene uno. Un buon affare per tutti: io non sono finito dentro e loro hanno rimesso sul mercato, con gran profitto, quel po’ po’ di merce». Nessuna illusione, quindi, che il flusso quotidiano di droga possa essere bloccato dai cancelli d’ingresso del Rodeo, permanentemente controllato da mezza dozzina di poliziotti, assonnati e insaccati nell’uniforme, anche se hanno una mano indolenzita sul calcio del fucile. E credo siano in pochi a credere che la decisione—suggerita tempo fa — di cambiare ogni sei mesi il direttore del carcere e l’esercito dei suoi dipendenti più fidati possa d’un sol colpo neutralizzare la fitta rete delle complicità e degli intrallazzi. Anche imeno scettici dubitano che eventuali nuovi progetti ed interventi possano provocare una metamorfosi. Molti i rassegnati, gli sconfitti. Più di uno ha definitivamente tirato il catenaccio sul portone della vita. Si spinellano per arrivare al traguardo. C’è chi fa testamento: «Sono qui dentro da 5 anni e mezzo per traffico di droga a livello internazionale. Nato a Caracas, ma di origini italiane. Ciao, amico. È venuto il momento». E un altro, pure di italiche origini: «Sono un essere umano, ma le condizioni igieniche sono disastrose. Sono vissuto nella merda». Chi è venuto da Bergamo, chi da Catania, chi da Genova, Tarquinia, Grosseto, Catania, Brescia, Forlimpopoli, Lamezia Terme, Buccinasco, Sesto San Giovanni, Mazzara del Vallo, Mondragone, Gioia Tauro, Carrara, Frosinone, L’Aquila. Uno che viene da Benevento dice: «L’ho fatto per necessità, la moglie, i figli…». Sta per mettersi a piangere.
Se lo vedi dall’alto, il carcere Rodeo sembra un vecchio moribondo condominio, un cubo di pietra grigio trapanato dai proiettili, con dei buchi neri al posto delle finestre, da cui pendono lenzuola e stracci luridi da funerale di terza classe. Sul tetto- terrazza, molto vasto, i detenuti stanno facendo la doccia completamente nudi, sghignazzando e irrorandosi a vicenda coi getti d’acqua: e a Luigi che li vuole riprendere con l’obiettivo in quella atmosfera di festa e si dispone a scattare la foto, lanciano improperi e minacce: «Guarda che dentro al Rodeo non si fanno le foto. Se ci provi ti spariamo, stronzo!». All’ingresso dell’edificio, lungo un corridoio piastrellato, c’è una serie di stanze piccole ma alte fino al soffitto, le pareti di cemento spoglie e nude, senza neanche l’ombra di un giaciglio o d’una coperta: adibite, com’è facile immaginare, agli amplessi rapidi, furiosi e disperati dei detenuti con le proprie mogli o compagne, secondo le scadenze fissate, con impietoso rigore, dal regolamento carcerario. Nella calura meridiana, il cortile che si estende tra due padiglioni è diventato un dormitorio dove qui e là sono state elevate capanne d’emergenza per proteggersi dall’accanimento del sole: per garantirsi la «privacy», un detenuto ha comprato una tenda di tre metri per due, dove fa la siesta su un materasso di gomma piuma come un maharajah. Alcuni — non si sa come — sono riusciti a prendere sonno anche nelle amache allacciate sotto tettoie di lamiera arroventata. Ma il momento più bello è la sera, quando il cielo si spegne e l’intero paesaggio si assopisce in una luce morbida, prima del silenzio notturno.
Ma in tutti i drammi degli espatriati e delle migrazioni estreme c’è sempre una storia a lieto fine, come quella di un signore quasi ottuagenario che in settembre si appresta a rientrare in Toscana. Me lo ha presentato un suo grande amico, l’instancabile missionario italiano di Cologno Monzese, padre Leonardo Grasso, 49 anni, da quindici in Venezuela e attualmente responsabile di Icaro (Associazione non governativa che attualmente gestisce un Centro di assistenza per il recupero e il reinserimento sociale di bambini, ragazzi e adulti in situazioni di grave necessità). Ingiustamente accusato di narcotraffico al confine del Venezuela — quando vennero trovati 12 chili di droga nella valigia del suo compagno di viaggio—l’anziano e innocente turista scontò in carcere due degli otto anni inflitti normalmente per quel tipo di reato ed è tuttora ospite in un ricovero per vecchi. Ma forse sorride ormai delle proprie vicissitudini, visto che il rimpatrio gli è stato praticamente assicurato e che il prossimo 23 dicembre potrà festeggiare, nella propria terra e fra i suoi cari, il settantanovesimo compleanno. Urrah. Potrebbero essere molte le ragioni che negli ultimi anni hanno scatenato l’attività musicale in Venezuela. L’anziano compositore Josè Antonio Abreu, oggi 67 anni, che ha fatto sorgere nel Paese, dal nulla, 154 orchestre giovanili e 140 complessi infantili. Niente male. È stato lui a scaraventare sul podio quell’inesorabile folletto di Gustavo Dudamel, che tuttora non sta mai fermo e volteggia da un podio all’altro del pianeta, inesauribile, tellurico. Assecondato dal governo di Hugo Chàvez e dall’Inter-American Development Bank, il progetto ha ricevuto in dono 3 milioni di dollari, che hanno consentito a 240 mila bambini e adolescenti di sfuggire dai barrios urbani e rurali della malavita.
Dal carcere maschile del Rodeo siamo approdati, in due ore di macchina, in mezzo all’infernale bolgia del traffico sudamericano, al carcere femminile Inof (acronimo che alla fine significa prigione per le donne) in località Los Torques, all’estrema periferia Ovest della capitale. Il miracolo, a questo punto, è che le detenute — alcune internate per reati piuttosto gravi — hanno deciso di scontare la pena a suon di musica, alternando sinfonie, madrigali e inni sacri a ritmi pop da discoteca e canzoni popolari. Per questo hanno formato una piccola orchestra d’archi—violini, viole, violoncelli, contrabbassi — e un coro finora limitato a poco più di 20 elementi. Si tratta di un impegno serio e non di un capriccio: e durante la giornata si appartano a gruppi in stanze diverse per esercitarsi sotto la guida d’un maestro e mettere a punto il programma del prossimo concerto. La più giovane del coro ha 22 anni; la più anziana ne ha 58 e sembra anche la più allegra e loquace. Ma è il momento della prova e le coriste vanno a sistemarsi silenziosamente sulla parete di fondo della sala, mentre le musiciste pizzicano e tormentano le corde dei loro strumenti per l’ultima verifica del suono. Sul leggio del direttore d’orchestra —un giovanotto fragile e riccioluto—lo spartito è aperto sulla IX di Beethoven: ed ecco che vibrano immediatamente nell’aria e contro la vetrata le note dell’«Inno alla gioia». Il maestro non è soddisfatto: anche il coro deve rifare il proprio intervento, non sufficientemente compatto e gioioso, meno problemi quando orchestra e cantanti offrono motivi popolari come «Moliendo café» (macinando il caffè) o «Alma Llanera», una canzone definita per verdetto unanime molto dolce e sentimentale.
Sembra che nessuna delle detenute, ora impegnate in questa avventura musicale, abbia mai toccato uno strumento o cantato in un coro parrocchiale prima di varcare la soglia della Inof a Los Teques. La giovane e bella signora di pelle scura che sta ora pizzicando le corde del contrabbasso non aveva mai visto in vita sua e tanto meno abbracciato quello strumento. «Sono qui da 18 mesi—dice Irma Gonzalez, che però tutti chiamano Abigaille— e da 14 faccio parte dell’orchestra. La musica è stata un’esperienza formidabile. Gradualmente sono cambiata. Guardo la vita con occhi nuovi». Condannata a 6 anni per furto, ha recentemente avuto la soddisfazione di esibirsi davanti ai suoi 4 figli, di 9, 10, 13 e 14 anni. Lo stesso per Joanny Aldana, 29 anni, arrestata per sequestro di persona e furto d’auto e condannata a 9 anni, ospite della Inof da un anno e undici mesi: «Grazie alla musica—dice—la mia permanenza in prigione non è stata un castigo, ma un modo per acquisire e scoprire valori nuovi. Da un anno suono ogni giorno, tutti i giorni, e ho accantonato per sempre il passato ». Le fa eco Laura Rojas, che, arrestata per truffa sta scontando la sua pena da un paio d’anni. Domani è il suo ventiseiesimo compleanno e presto sarà libera: «La musica — confida — ha avuto perme l’effetto di scacciare la malinconia, che mi ha aggredito per anni». E forse indicativo in questo cambiamento di sentimenti e umori nella comunità carceraria femminile il cartello appiccicato a una parete della stanza che dice, testualmente: «Accettarsi come siamo, indipendentemente dal sesso, dal colore della pelle, dalla cultura, dal lavoro e dalla provenienza».
Certamente è ancora vivo nel cuore di tutti il ricordo della serata del 29 aprile scorso quando la Orquesta Sinfonica Penintenciaria del Nucleo Inof (che aveva iniziato la propria attività nel giugno del 2007) eseguì, insieme al coro, il suo primo concerto al Teatro Teresa Careño di Caracas. Le donne prescelte per l’esibizione erano state portate al teatro in pullman con le manette ai polsi, che vennero loro tolte solo pochi minuti prima di entrare nel retro del palcoscenico. L’operazione si era svolta sotto l’occhio di 350 poliziotti che controllavano il gruppo da vicino prendendo posto dietro le quinte oltre che in sala e sulle balconate. Forse temevano che le detenute- artiste avessero cogitato un rocambolesco piano di fuga: sospetto che parve trovare conferma quando improvvisamente venne a mancare la luce e per pochi attimi pubblico e poliziotti rimasero al buio. Ma subito dopo lampadari e luci tornarono a splendere dando modo alle signore non più ammanettate della Inof di offrire al pubblico degli uomini liberi, ai poliziotti e ai loro stessi carcerieri una memorabile esibizione del proprio talento. Lo spettacolo, a cui parteciparono anche gruppi di prigionieri detenuti in tre diversi carceri maschili, «mise in evidenza davanti a tutto il Venezuela—tale il commento di un critico locale — il meraviglioso potere liberatore della musica».
Agosto 2008 da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Dicembre 28, 2009, 05:04:26 pm » |
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Per le strade di Caracas e Maracaibo
Viaggio tra omicidi, violenze, sequestri
Nel Venezuela del terrore
di Ettore Mo
CARACAS - Non avesse indossato pantaloni beige e maglietta bianca, come invece aveva fatto quel pomeriggio del primo agosto 2003, Javier Antonio Carmona sarebbe ancora vivo e avrebbe oggi trent’anni. Invece riposa ormai da cinque nel cimitero El Hatillo di questa capitale dove le fosse sono zolle d’erba tenera in un grande prato all’inglese, appena contrassegnate da una targhetta su cui sono incisi il nome del defunto più le date di nascita e di morte. Quasi sempre una vita molto breve.
Ma i poliziotti, che nel quartiere stavano dando la caccia ad un pericoloso bandito e disponevano solo di quel dato labile circa l’abbigliamento per individuarlo, si accanirono contro il povero Javier riducendolo in fin di vita a colpi di pistola. «Un errore imperdonabile — protesta la madre della giovane vittima, Lesbi Carmona, venuta a depositare sulla tomba un gran mazzo di fiori gialli —. In tv anche il direttore della polizia sostenne che era stato ucciso un delinquente, facendo il nome di mio figlio. Ne è seguita un’indagine ma dopo cinque anni non è stata ancora avviata la causa in tribunale. Durante le indagini preliminari un poliziotto è fuggito in Spagna. Sono comunque tutti a piede libero. Un anno e mezzo fa, quattro studenti dell’Università Santa Maria vennero uccisi. Grande scandalo ma nessuna condanna. Siamo nel Paese dell’impunità permanente».
Un’altra brutta storia di violenza la racconta Diomedis Paredo, una signora di 33 anni che ha perso il fratello di ventuno, Ronnie, ucciso dalla polizia per strada. Punizione, pare, per un banale diverbio scaturito attorno a una bancarella del mercato. «Te l’avevo detto che ti avrei fottuto» avrebbe gridato l’agente al ragazzo mentre stramazzava a terra. Storia aggravata da un particolare agghiacciante: per far credere che s’era trattato di un conflitto a fuoco e non di un crudele capriccio personale, il poliziotto tentò di ficcare una rivoltella in mano alla sua vittima, agonizzante sul selciato. «Ma non ce la fece — precisa ora la Paredo — perché mio fratello teneva il pugno chiuso».
Ora sono in molti a chiedersi che cosa sia successo in questo Paese dove violenza, impudenza, corruzione e violazione dei più elementari diritti umani vanno a braccetto come scolaretti disciplinati e spavaldi; e come sia avvenuto che una città come Caracas, in tempi remoti definita «la succursale del cielo» sia diventata «la succursale della morte»: certo, la più violenta capitale del continente. Secondo i dati forniti dagli esperti, in Venezuela la criminalità avrebbe raggiunto il suo massimo livello nel periodo 2006-2007, alimentata soprattutto dal narcotraffico e dall’incontenibile espansione del mercato delle armi. Per i sociologi, questa «escalation» della violenza va anche messa in rapporto col processo di urbanizzazione del Paese, inarrestabile dagli anni Cinquanta ad oggi. Afferma Roberto Briceño, direttore dell’Observatorio Venezolano de Violencia, che si avvale della collaborazione di quattro università: «Nel 1998, l’anno in cui Chávez vinse le sue prime elezioni presidenziali, vennero commessi 4.550 omicidi. L’anno scorso furono 13.200. In 10 anni si sono triplicate le cifre. Le morti violente avvengono nei barrios (gli agglomerati urbani) più poveri dall’80 al 90 per cento. Nel 1998 la percentuale era di 19 omicidi su 100 mila abitanti. Nel 2006 salì a 49. In Argentina sono 9, mentre in Brasile si aggirano sui 23 e in Messico sui 24 ogni centomila abitanti».
Dati allarmanti, che trovano conferma nella vita quotidiana. Basta fare un salto, la notte, fino al pronto soccorso o centro d’emergenza di Caracas per avvertire una fitta ragnatela di brividi nella schiena. Dalle 8 di sera alle 7 del mattino assisti a una processione di poveracci che arrivano sanguinanti alla soglia del padiglione, per lo più con ferite di «arma bianca», come coltelli, catene o vetri di bottiglie spezzate. Oltre che per il dolore, molti barcollano per sbronze ataviche emanando l’effluvio di aliti pestilenziali. Non ci sono sempre brande o lettini disponibili e bisogna attendere il proprio turno su una sedia. Come succede ad una coppia di coniugi, accovacciati l’una accanto all’altro. L’uomo perde sangue dalla testa e dal ventre, che la moglie gli ha squarciato con un collo di bottiglia durante una rissa. Ma adesso lei lo accarezza e lo bacia e gli terge il sangue dal viso, tutta affettuosa e pentita. Il chirurgo dice che fino a quattro anni fa c’erano circa 30 morti la settimana: «Ma adesso — aggiunge — solo durante il weekend abbiamo dai 40 ai 50 morti. I miei medici fanno turni di 36 ore con uno stipendio da fame e non stupisce che molti di loro vadano a lavorare all’estero, dove non si verificano questi massacri quotidiani e notturni, spesso provocati dall’alcol».
In un Paese che registra più di 13 mila omicidi all’anno, il problema della sicurezza (o, piuttosto, dell’insicurezza) è uno dei più gravi. Avrebbero dovuto essere prese delle misure, come un aumento dei giudici e un rafforzamento del sistema giuridico, che invece — lamenta l’opposizione — non sono state applicate: col risultato che è ulteriormente aumentata l’impunità. C’è gente, a Caracas, che nel giorno di paga non sale sui minibus per paura di essere subito «ripulita» del proprio misero salario.
Ma ci sono luoghi dove questo timore, accompagnato da una sensazione di impotenza, è ancora più intenso: uno di questi si chiama Petare ed è uno dei barrios più grandi ed anche dei più pericolosi, arroccato su una cresta di montagne boscose e rocciose con circa un milione di abitanti sui quattro che costituiscono l’intera popolazione della capitale. I turisti sono vivamente sconsigliati dal mettervi piede per non incorrere in qualche brutta avventura, dato l’alto tasso di criminalità (omicidi, rapine, furti, sequestri) che il torvo promontorio è in grado di vantare. Le condizioni della polizia, disposta a scortarci in macchina sul luogo, era che Luigi, Piero — la nostra guida — ed io stessimo perennemente incollati alle guardie del corpo ed indossassimo un giubbotto antiproiettile. Nessun incidente di percorso. Solo qualche apprensione quando gli agenti, incrociati dei piccoli gruppi di malandros (delinquenti nel gergo locale), si apprestavano a setacciarli dalla testa ai piedi dopo averli schierati di schiena con le mani appoggiate alla parete rocciosa.
Durante il giorno — riferiscono le cronache — tutto appare tranquillo e normale e le piccole case aggrappate alla montagna possono anche dare l’impressione di piccoli isolati presepi. Ogni tanto scoppiano brevi e sanguinosi conflitti armati tra bande rivali che si contendono il territorio e il narcotraffico e per qualche tempo nessuno osa farsi vivo sul luogo degli scontri. Ma quando scende la sera e le tenebre inghiottono i villaggi, ognuno se ne sta rinchiuso nella propria casa in pietra e legno, come ci fosse il coprifuoco. Alla gente di qui non piacciono neanche i poliziotti perché, malignano, «anche loro ti fermano per strada e ti chiedono soldi».
Essendo un barrio popolare e povero, dove anni fa sbarcarono i primi medici cubani mandati da Castro, Petare è un bastione periferico schierato a favore di Hugo Chávez e il suo sindaco è chávista. Ma quest’ultimo è ora contestato dal candidato del centro destra, Carlos Ocariz, che rimprovera al governo di non essersi battuto a sufficienza sul problema della sicurezza che, a suo avviso, è il punto debole della politica di Chávez: «Qui l’anno scorso — taglia secco — furono uccise 700 persone. E in un fine settimana ne possono morire anche una trentina». Anche i sequestri, in cui sono state coinvolte pure persone di origine italiana e compiuti con un’efferatezza e crudeltà estreme, la dicono lunga sulla spirale di violenza che ha investito il Venezuela e convertito le città dell’America Latina — scrive l’Observatorio Venezolano — «nello scenario di una guerra silenziosa e non dichiarata».
L’esperienza di Tiberio Andreollo, un facoltoso allevatore di bestiame di Barinas, 58 anni, sbarcato in questa landa dal Veneto quando di anni ne aveva appena sette, ha risvolti meno drammatici di altri due casi di sequestro consumati a Maracaibo. Racconta tuttavia i suoi dolorosi 46 giorni in mano ai rapitori (10 uomini) che lo prelevarono di mattina nella sua fattoria e lo portarono via in macchina incappucciato. Il riscatto iniziale si aggirava sul milione di dollari ma poi scesero a più miti pretese. Lo fecero camminare per settimane sempre bendato, gli davano da mangiare solo riso in bianco e perse sedici chili di peso. «Ma la cosa più brutta — ricorda adesso — era la pressione psicologica, la paura di non reggere e che mi facessero fuori».
I negoziati che hanno condotto alla sua liberazione sono stati fatti dalla sorella. Dice di aver conosciuto i tre rapitori che sono rimasti uccisi e gli altri tre che sono finiti dietro le sbarre, mentre i rimanenti quattro sarebbero ancora uccel di bosco. «Comunque — conclude — questa vicenda non ha turbato i miei rapporti con il Venezuela, Paese ch mi ha accolto molto bene e a cui sono affezionato e grato».
Agghiaccianti, invece, i due sequestri che mi sono sentito raccontare a Maracaibo nella casa di Giovanna Vassallo, cui hanno rapito il padre, Mario, 68 anni e lui pure allevatore, prelevato nella sua fattoria la mattina del 6 febbraio 2006 e trovato morto un paio di settimane dopo, benché una borsa piena di banconote (la cifra iniziale del riscatto era di un milione di Bolivar, circa 500 mila dollari) fosse in qualche modo pervenuta ai sequestratori. Giovanna, una bella signora dal sorriso smagliante, rivive l’angoscia di quelle giornate raccontando particolari dolci e strazianti: come il voto di non mangiare più Nutella per un anno se papà fosse tornato; o come amici di famiglia e vicini di casa avessero fatto una colletta per raggranellare la somma necessaria al riscatto, trasformando il frigo in una cassaforte dove custodire e occultare migliaia e migliaia di Bolivar.
Tutto inutile. Il signor Vassallo non sarebbe mai tornato. I suoi rapitori, trasformati ormai in carnefici, gli fecero scavare una fossa prima di eliminarlo con un proiettile alla nuca. I sospetti caddero su una famiglia di delinquenti, i Los Brito, malandros di sinistra reputazione nella zona. La loro madre, che dirigeva l’«azienda», fu torturata e uccisa dalla polizia. Due dei sequestratori fecero una brutta fine: uno sarebbe stato ucciso dalla polizia, l’altro dai membri della stessa pia confraternita che gli spararono mentre dormiva placidamente nell’amaca. Un terzo finì in carcere e poi in ospedale dove però venne dimesso e rilasciato a piede libero. «E il governo non fece un coño per punire i responsabili», è l’amara conclusione di Giovanna: ma coño è una parola troppo oscena e non può essere degnamente tradotta.
Anche in casa Di Brino — altra famiglia d’origine italiana — c’è stata una vittima: una ragazza i 22 anni, Rosina, che stava per laurearsi, rapita il 2 febbraio del 2006 e mai più tornata a casa. Ce ne parla il fratello Angelo, che è qui con noi nella casa di Giovanna e che ha avuto la penosa incombenza di «negoziare» coi sequestratori. Questi hanno sparato all’inizio una cifra folle, poi sono scesi in picchiata accontentandosi di 80 mila dollari: ma anche questa era una somma troppo alta per gente modesta come i Di Brino. Conclusione: i rapinatori reagiscono strangolando Rosina con le proprie mani. Buttato in acqua, il suo cadavere riemerge di lì a poco sulla spiaggia del lago di Maracaibo. Angelo è chiamato dalla polizia per il riconoscimento della sorella. Sconvolto, lui è più che mai convinto, anche per il modo in cui si sono svolte le trattative, che i sequestratori sono stati assecondati dai poliziotti: anzi, che «sono i poliziotti i primi, veri sequestratori».
Quando l’opposizione gli rimprovera di non aver preso a cuore il problema della sicurezza, lasciando troppo spazio all’immunità, il presidente Hugo Chávez insiste nel sottolineare prima di tutto la necessità di assicurare al Paese un solido equilibrio sociale e che la sua priorità rimane sempre la lotta a favore dei poveri: e a questo proposito non manca di ricordare che l’anno scorso il suo governo ha approvato una manovra economica da 54 miliardi di dollari che gli hanno permesso di promuovere e finanziare i programmi sociali più impellenti.
Ma i suoi detrattori, cui non garba lo spirito della politica chávista che vede mischiati insieme populismo, nazionalismo, militarismo (il Venezuela è governato dalle Forze Armate, ha scritto qualcuno), socialismo, più il vecchio sogno bolivariano dell’unione dei Paesi sudamericani, sono pronti a sostenere che lo slogan strappaconsensi «Chávez va bene per i poveri» non trova prove concrete nella realtà quotidiana e che il suo slancio a favore delle classi più basse «non ha fatto niente di più dei governi che l’hanno preceduto».
Ma fuori dai patri confini, questo è un anatema. Per la Cuba di Fidel e Raúl Castro, per la Bolivia di Evo Morales e anche per il Nicaragua di Daniel Ortega, Hugo Chávez è l’uomo che nel maggio del 2007 ha nazionalizzato gli impianti di estrazione del petrolio, sottraendoli alle compagnie straniere: e anche l’uomo che ha destinato miliardi di dollari, grazie al petrolio, ai Paesi in difficoltà dell’America Latina.
Ma nessuno è in grado di giurare che possa sfidare incolume i picchi di Petare.
Agosto 2008 da corriere.it
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Col piombo nel sangue
Nella città peruviana di La Oroya dove la fonderia sputa veleni mortali
di Ettore Mo
LA OROYA (Perù) — «Praticamente, noi viviamo come in una camera a gas», questa l’angosciosa metafora cui ricorre l’arcivescovo di Huancayo, Monsignor Pedro Barreto, per spiegare il dramma di La Oroya, dove il grande complesso minerario siderurgico Doe Run sprigiona ogni giorno nell’aria tonnellate di polvere di piombo, ossido di zolfo, zinco e arsenico. Al punto da essere collocata al sesto posto nella graduatoria dei dieci luoghi più inquinati del mondo. Instancabile promotore di iniziative socio- economiche, il cinquantenne prelato si è anche imposto su scala nazionale come uno dei più inflessibili paladini della difesa dell’Ambiente. Ne ho avuto conferma durante un breve incontro nel Vescovado di Huncayo, dove mi ero recato per conoscere il suo parere sull’infuocato dibattito del giorno: e cioè il conflitto tra quanti sostengono che la grande azienda dovrebbe continuare la propria attività, nonostante gli effetti negativi prodotti da quei veleni sugli abitanti della regione (irritazione oculare, infiammazione delle vie respiratorie, edema polmonare, disturbi al sistema circolatorio); e quanti, al contrario, ne reclamano la chiusura immediata, non essendoci al mondo niente di più importante della salute.
«Personalmente — dice il prelato, sobrio ed elegante nel clergyman grigio—, sono contro lo sfruttamento irrazionale delle risorse del pianeta. Si tratta inoltre di un problema etico oltre che scientifico e la Chiesa non può tollerare una situazione simile. Qui mi considerano un antiminero, uno che sta contro i minatori e se la fa coi padroni del vapore. Un paio d’anni fa mi minacciarono di morte». Ma Monsignor Barreto non si è neppure schierato con la multinazionale Doe Run, che è sostenuta dallo Stato, dal governo, dalle autorità regionali e provinciali: e non riesce a contenere uno scatto d’ira quando sul giornale locale la grande Azienda afferma di avere apportato notevoli «miglioramenti ambientali » a La Oroya. «Sono veramente indignato— sbotta —. Ma come si fa a dire una sciocchezza simile? Le cose stanno peggio di 4 anni fa. L’inquinamento è aumentato. Solo pochi giorni orsono, il 13 agosto, è stata registrata un’incredibile concentrazione nell’aria di ossido sulfureo di 27 mila microgrammi per metro cubo, mentre per la legge peruviana e secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità il livello massimo avrebbe dovuto essere di 364 microgrammi, uno stato d’emergenza durante il quale la popolazione avrebbe dovuto tappare porte e finestre e tenere i piccoli in casa.
Ma nessuna regola fu rispettata. Le strade erano piene di gente, i bambini giocavano sui marciapiedi come niente fosse». Situata sulla cordigliera andina a 3.750 metri, La Oroya, quando la vedi per la prima volta venendo da Lima e sbucando giù dal Passo Tiglio (che è a quota cinquemila) ti mette addosso tristezza. È in fondo a una vallata piuttosto angusta, in mezzo a dorsi di montagne brulle e il pennacchio di fumo bianco che sbuca dalla sommità della ciminiera (alta 170 metri) comincia subito a raccontarti storie di ricchezza e di miseria: fin da quando, nel 1922, la multinazionale americana Pasco Copper Corporation costruì la fonderia destinata a processare, in grande quantità, minerali impuri — oro, argento, piombo, rame, zinco—nascosti nelle viscere della terra. La valle si riempì di fumo nero mentre una pioggia velenosa devastava i campi e culture. Le cronache del tempo e un prezioso libro di Josh De Wind dal titolo (traduco direttamente dall’inglese) «I contadini divennero minatori» riferiscono di stragi di capi di bestiame e devastazioni agricole per migliaia di ettari. Ma anche quando, 50 anni dopo, la Pasco Corporation cedette la fonderia al governo peruviano, molto poco venne fatto per ridurre e contenere l’inquinamento.
Nel 1977, il presidente della multinazionale Doe Run che acquistò il mastodontico complesso, Bruce Neil, sosteneva con orgoglio che l’inquinamento dell’aria era stato ridotto del 25 per cento, mentre quello dell’acqua fino al 90 per cento. Riduzioni che erano state imposte in seguito ad un accordo tra l’azienda privata e il governo peruviano. Ma è un fatto—assicurano gli uomini di scienza, permanentemente allergici, per indole, alla favole — che la raffineria ha continuato a pompare gas tossici e ossidi letali. Oggi, passeggiando per La Oroya vecchia, il cui fascino è decisamente maggiore di quella nuova, l’odore, quel particolare odore, continua ad aggredirti alle narici e ad «appesantirti », col risultato che anche la camminata si fa più lenta e faticosa. Commossa davanti alla mia gracilità senile, un’anziana signora— il volto e il collo avvolti in un gomitolo di trecce grigie — consiglia il «maté», l’infuso di foglie di coca che a quell’altitudine fa miracoli. Quando piove la sensazione di malessere è maggiore: è anche peggio quando tira «el viento malo», il vento cattivo, e i bambini vanno a barricarsi in casa per sfuggire alla sue raffiche. Sono proprio loro—i bambini al di sotto dei 6 anni—le prime e maggiori vittime dell’inquinamento. Sui 20 mila abitanti di Oroya la vecchia, la popolazione infantile è di circa tremila e anche i neonati, dice il dottor Ugo Billa, neurologo presso l’ospedale locale, «hanno il piombo nel sangue, che la madre gli ha trasmesso». Una condizione, aggiunge, che, quando il livello del piombo sia molto alto, «può avere gravissime conseguenze sullo sviluppo psichico e fisico del bambino e anche provocare la morte». Il medico, un veterano pediatra, si occupa del problema fin da quando—anni Sessanta — non si era ancora capita la gravità del male, tanto che, ricorda, «ci si limitava a fare l’esame sui capelli invece che sul sangue». Ammette di essersi trovato in mezzo a «questa faccenda» senza una competenza specifica, senza dottorati o titoli accademici, e «tutto quello che so l’ho imparato sul campo, giorno dopo giorno».
Lamenta che il ministero della Sanità si sia accorto troppo tardi del «fenomeno» e non si sia mai preoccupato di accertare se l’inquinamento avesse aggredito con la stessa violenza altre località della zona e della valle minacciate dalla ciminiera. A chi si chiede quale conclusione potrà avere il conflitto in corso tra la necessità di tenere in vita la miniera-fonderia e la presenza di condizioni ambientali che garantiscano la salute della popolazione, lo scrittore Amador Pérez Mandujano dà una risposta amara: «Il futuro di La Oroya è incerto. La gente sta un poco sulle spine per il suo avvenire. La città di La Oroya, così come la si vede oggi, dipende dall’Impresa e il giorno in cui la Fonderia scomparirà, scomparirà la città. Questo è quanto. È vero che i fumi hanno fatto ammalare la gente, ma è anche vero che l’Impresa non ha fatto nulla per porvi rimedio. La soluzione, a questo punto, non è di chiuderla, ma piuttosto di rinnovarla e modernizzarla. I giovani se ne vanno perché non ci sono opportunità. Occorrono nuove strutture economiche che comportino lavoro. Da questo dipende il futuro di La Oroya». È questo, in definitiva, l’obbiettivo del Mosado — Movimento per la salute di La Oroya — nato nell’aprile 2002 e composto da una ventina di membri. Lo dirige una signora di mezza età, Rosa Amaro, che vado a trovare nel suo quartier generale, un polveroso sgabuzzino pieno di libri. Suo marito sta dormendo, annichilito, sull’unica poltrona disponibile: ma di lui sembra esserci molto poco nella tuta da lavoro che indossa. «Ha 36 microgrammi di piombo nel sangue — informa la donna —, 26 in più del livello stabilito dall’autorità sanitaria, che è di dieci. E poiché le disgrazie non vengono mai da sole, abbiamo un figlio che all’età di cinque anni aveva nel sangue 58,3 microgrammi di piombo».
Per la signora Rosa, l’Impresa continua a mentire quando sostiene che c’è stata, negli anni, una riduzione delle sostanze velenose che la ciminiera ha vomitato su La Oroya dal ’97 ad oggi. All’epoca, limitare la contaminazione con un impianto di acido solforico sarebbe costato 120 milioni di dollari: il prezzo pagato dalla Doe Rum per l’acquisto del complesso. Dovrebbe rallegrare la notizia dell’ultima ora, secondo cui quel magico impianto entrerà in funzione il mese prossimo. L’arcobaleno, dopo anni di tempeste. Ma la malattia più diffusa a La Oroya è lo scetticismo: ed è questo il piombo che ha nel sangue. «Il fatto curioso — dice Meliton Rivera, un minatore di 41 anni, licenziato per aver fatto ricorso, insieme ad altre 65 persone, alla Corte interamericana dei diritti umani — è che noi lo dobbiamo pagare, in un modo o nell’altro: e che allo stesso tempo ci condannano a vivere e a morire per la fabbrica». Per andarlo a trovare, nella sua casupola con il balcone alto sui tetti, ho dovuto fare 141 gradini, una gran bella fatica: inoltre, già spompato dopo i primi dieci, sono stato oggetto di ironico compatimento da parte di chi scendeva e bisbigliava, con un sorriso andino: dai nonno, prendi fiato. Meliton ha quattro figli, due dei quali ricoverati in un ospedale di Lima per un esame approfondito del sangue, su cui già gravano 37 microgrammi di piombo ciascuno. «Non sono in condizioni di ridermela—aggiunge —. Ho l’affitto da pagare, accetto qualsiasi lavoro che mi venga offerto, imbianchino, sguattero,manovale, uomo della vasura: appena ieri ho fatto le ore piccole in un forno del pane». La notte, quando le luci gialle e forti della raffineria si fondono con quelle più deboli e variopinte sparse intorno sulle montagne, Oroya l’antigua si anima moderatamente lungo i viali e le gradinate: gente che va, gente che viene, figure di vecchine ingobbite sotto grandi scialli e cappelli che scompaiono inghiottite dal buio. Finita la giornata, i minatori che sono riusciti a rimanere sul libro- paga, insieme agli amici e colleghi disoccupati, si ritrovano all’osteria: piccoli angusti locali invasi dal fumo e dalla musica assordante del Juke-box. Uno dei motivi più gettonati è Bolero cantinero, condensato dell’allegria, malinconia e nostalgia dell’uomo del Sud. Li senti ridere, parlare, discutere ad alta voce: finché qualcuno stramazza sul pavimento come un sacco di farina, il sangue avvelenato non dal piombo ma da ettolitri d’aguardiente. Tranne qualche irriducibile votato al suicidio, la popolazione ha optato per una soluzione morbida del conflitto.
Ha prevalso la filosofia accomodante di José Mogrovejo quando ha asserito che, in fondo, «con 70 milligrammi di piombo nel sangue si vive benissimo». E anche il neurologo dottor Billa, che ha i piedi per terra ed ha contatti quotidiani con la comunità, sostiene che bisogna assolutamente garantire la sopravvivenza dei tremila dipendenti della fonderia (1800 i minatori veri e propri, il resto impegnato, senza contratto, in mansioni di contorno) che lavora ininterrottamente giorno e notte, sette giorni la settimana. Argomento incandescente, questo, per Annibal Carhuapoma, che è stato segretario generale del Sindacato dei lavoratori metallurgici dal 2 gennaio 2007 al luglio del 2008, quando venne licenziato in tronco, per comportamento scorretto. La direzione della Doe Run lo aveva ritenuto responsabile di uno sciopero selvaggio avvenuto mentre lui era al vertice dell’apparato sindacale. «Con l’assenso del mio avvocato—dice ora—ho contestato la decisione dell’azienda perché a scioperare eravamo in tanti e solo io ero il punito. In realtà, ero il classico sassolino nella scarpa della Doe Run, che se lo è tolto per camminare più spedita». Quarantatré anni e 19 di miniera, non poteva tollerare, Annibal, che l’Azienda si considerasse e comportasse da «padrona assoluta », anche dello stesso sindacato. Scuro di pelle, un volto dai tratti decisi disegnato da una mano intollerante di sfumature e tenerezze, il minatore-sindacalista ha deciso di battersi con tutte le sue forze per tornare in «fucina», come lui definisce quei cunicoli di terra nera dove i giorni sembrano mesi e i mesi anni e secoli. «Ho la solidarietà di tutti i miei colleghi — afferma senza esitazione — perché sono stato sempre un lavoratore onesto. Io sono religioso e rispetto la legge. Inoltre, ciò che mi sostiene nella vita è l’amore per il prossimo».
Sulla Doe Run il suo giudizio è severo: «Non è mai stata un’Impresa trasparente — dice quasi sillabando l’aggettivo —. I profitti finivano tutti in tasca ai padroni, i quali non hanno mai pensato a una equilibrata ridistribuzione della ricchezza, come avviene in alcune delle più illuminate industrie moderne. Per quanto riguarda la crisi attuale, per me il problema non è l’inquinamento. La Doe Run è d’accordo col governo peruviano sulla questione dell’ambiente, anche se il flusso immane dei veleni non è affatto diminuito. Ma coi lavoratori non c’è mai stato un tentativo d’intesa. L’impresa ci nega il diritto di sciopero e a fatto di tutto per dividere il movimento sindacale, per asfissiarlo. Questa è la verità». I giornalisti—sento dire—non sono graditi a La Oroya, che intende restare estranea ai pettegolezzi economo-politici internazionali: ma se qualcuno ci mette piede, l’ordine e di ridurre al minimo la pioggia dei veleni durante la loro permanenza. Ordine perfettamente rispettato in occasione della visita, qualche tempo fa, di una troupe della Cnn: solo che, essendo ripartita con un giorno di ritardo rispetto al previsto (e all’insaputa degli 007 della Doe Run), i telecronisti americani hanno corso il rischio di essere travolti dal diluvio universale.
Agosto 2008 da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Dicembre 28, 2009, 05:06:04 pm » |
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Ospedali, miniere e santuari
Viaggio in Bolivia, Terra Madre
La lunga fame dei campesinos
di Ettore Mo
ANZALDO (Bolivia) — Nessuno spazio sarebbe adeguato per raccontare compiutamente questa storia. Che si svolge in Bolivia dove un medico italiano, Pietro Gamba (di Stezzano, Bergamo), vive e lavora da oltre 25 anni: per alleviare le sofferenze di 30 mila persone o cento piccole comunità sparse su una landa impervia di mille chilometri quadrati che si stende dalla provincia settentrionale di Cochabamba a quella meridionale di Potosí, dove le miniere d’argento, piombo, rame e zinco appestano l’aria. Scenario sublime: la cordigliera delle Ande a tre, quattro, cinquemila metri, appena sotto il paradiso. Il protagonista della storia, Marco, ha sette anni. Ha trascorso esattamente 67 giorni nel piccolo ospedale di Anzaldo (dipartimento di Cochabamba) dov’era arrivato «scarnificato dai morsi della fame», con le ossa in trasparenza sotto la pelle e braccia sottili come grissini. Pesava 13 chili. Aggredito dalla broncopolmonite e costretto a rimanere sempre sdraiato per la debolezza. Aveva piaghe su tutto il corpo. Il suo papà, Pedro, l’aveva affidato a un «curandero », lo stregone del villaggio, che sgozzata e scuoiata una pecora, aveva poi avvolto il bambino nella pelle dell’animale, ancora calda e inzuppata di sangue.
Per Marco, adagiato ora nel lettino dell’ospedale, quei camici bianchi che s’aggiravano attorno in silenzio non erano né medici né infermieri ma semplicemente dei «gringo» di pelle bianca che lo volevano morto: perciò strillava giorno e notte in «quechua», la sola lingua che conoscesse, chiamandoli ladri, bastardi, assassini. Piangeva anche, disperatamente: il lamento di un agnello prima di essere sgozzato, l’aveva definito un vecchio senza più denti né speranza. Ma nel momento in cui fu deciso di rimandare a casa Marco, quell’angoscia che da oltre due mesi gravava sull’ospedale come una nube di catrame s’era diradata e sciolta: restava tuttavia da chiedersi se quel rientro fosse motivato da un effettivo miglioramento delle sue condizioni fisiche e quindi con la possibilità di un graduale e vero recupero o al contrario, dall’ineluttabilità della fine. A questo punto, morire per morire, tanto valeva passare gli ultimi giorni fra le pareti domestiche, che erano in realtà delle grotte nere col fuoco sempre acceso e i buchi per lasciar scappare il fumo.
Da quando l’avevano internato all’ospedale per un intervento alla tibia della gamba sinistra, Marco s’era chiuso nel silenzio. Per un mese intero non riuscirono a schiudergli la bocca. Scardinato dalla sua terra, l’avevano catapultato in un mondo non suo, il mondo dei bianchi. Bianco il camice dei medici, bianche le lenzuola e le pareti della stanza. Quando lo interrogavano si rifiutava di rispondere nella loro lingua. E per un mese ha rifiutato anche il cibo — bianco — che gli offrivano. Dio solo sa come sia sopravvissuto. Ma la morte non lo spaventava: nella loro cultura la guardano in faccia, è normale come la zuppa di fagioli. Pedro, il suo papà, gli è stato sempre vicino: giorno dopo giorno, per 67 giorni. Gli spulciava i pidocchi dai capelli. E poi, quando non sembrava esserci più rimedio, lo rapò a zero. Però Marquito — ormai lo chiamavano tutti così —, era vanitosello, coprì la pelata con il «chullo», la berretta di lana dei campesinos vivace di colori e ricami.
Intanto, in quei giorni di attesa febbrile, Marquito aveva ricominciato a parlare. Tornava a casa. Pedro lo accudiva, gli diceva di stare tranquillo. Era mattino presto quando lo accomodarono sulla panca di legno del furgoncino, bello disteso. Ma l’indirizzo preciso della loro abitazione lo sapevano solo lui e il padre. Avremmo dovuto accompagnarli fino a un certo punto, in quella vallata non lontano da Potosí; a da lì scortati da amici, avrebbero raggiunto a piedi la loro arcana, inaccessibile dimora. La gente che quel «gringo loco» (lo «straniero pazzo», proprio così l’avevano battezzato laggiù) era andato a soccorrere oltre Oceano viveva in uno stato di perenne agonia, afflitta da ogni male: che per la maggior parte scaturivano dalla spaventosa denutrizione subita nell’età infantile. In realtà, straziava il cuore vedere come Marco ed altri bimbi guardavano con ingordigia e la saliva alla bocca il cibo scodellato sui piatti: e non sorprende quindi che il giovane medico bergamasco si sia molto commosso quando il padre di un ragazzino, curato per una ferita al braccio, gli mise in mano, come compenso, un paio di uova fresche.
Per qualche misteriosa ragione la Bolivia si addice a Pietro Gamba, e viceversa. Non si spiega altrimenti il fatto che la sua prima, veloce escursione in America latina, nel ’75, abbia avuto come meta La Paz, alla Casa del Niño, dove ha inizio il suo apostolato laico e dove impara a masticare con moderazione la foglia di Coca aderendo al rito sacrale del Pijchu che lo inserisce nel mondo arcaico dei boliviani. Ci sarà un’altra incursione, meno fugace, dal ’76 al ’78; ma quando, nell’85, torna in Bolivia, dopo aver conseguito a Padova la laurea in Medicina e chirurgia, sarà per rimanerci: e per essere alla fine proclamato, senza alcuna cerimonia liturgica, il medico dei campesinos. Il rapporto coi suoi pazienti non si esaurisce certo nei giorni di ricovero all’ospedale: perciò, non appena ha un giorno libero, salta in macchina e li va a trovare nei più remoti villaggi della regione dove — aggiunge con un sorriso — sono andati a seppellirsi prima di morire. Uno di questi è don Julio, cui un anno fa il dr. Pietro aveva amputato il braccio destro su cui, precedentemente, erano intervenuti i «curanderos» con nauseanti impacchi di sterco e urina. Al momento non sembra avere grossi problemi economici: se la cava discretamente, abbinando le attività di agricoltore e allevatore. Ha un toro, due asinelli, un gallo e 25 pecore: «Ogni anno — confessa — mia moglie ed io ne sacrifichiamo una per la festa del patrono».
Ad Acurachi, un villaggio affogato nella calura, doña Berta racconta di quel maledetto giorno quando cadde da un albero—un volo di quasi cinque metri—e si procurò una doppia frattura al femore. Le sta accanto il marito, Esteban, un tipo esile e nervoso e col naso schiacciato di un pugile: conseguenza, pare, di un formidabile pugno che gli venne sparato in faccia anni fa, durante il Tinku, la selvaggia gara popolare con la gente che fa a botte sulle piazze e nelle strade per rendere omaggio, con qualche litro di sangue, alla Pacha Mama, la Madre Terra. Giornate, talvolta, di sbronze apocalittiche, alimentate da ettolitri di Chicha, bevanda ad alto tasso alcolico che si ottiene con la fermentazione del mais. Rito liturgico del tutto maschile. Versata in piccole ciotole di legno, gli uomini se la passano di mano in mano e di bocca in bocca sorseggiandola avidamente fino a stordirsi e fino a quando l’euforia si spegne nel cuore della notte.
Nell’incontro con la signora Liborio e suo marito Calisto, ambedue 34 anni, emerge il dramma di una gravidanza difficile e di una minaccia d’aborto che il medico bergamasco è riuscito a scongiurare. Ora sembrano una coppia felice. Hanno tre figli e la donna, che è in attesa di un quarto, guarda con serenità al prossimo lieto evento, confortata dal fatto che il marito, fino ad ora sempre restio, ha promesso d’essere presente in sala parto. «Potrà sembrare cosa da poco—riflette Pietro —, ma per me non lo è. Come non lo è la nostra posizione, il nostro impegno di fronte alla cosiddetta malattia di Chagas, che riguarda l’insetto popolarmente noto come la pulce baciatrice, che qui in Bolivia chiamano Vinchuca ». Dopo aver punto l’uomo, spiegano gli esperti, questo orribile, microscopico insetto defeca sopra il sito della puntura, col risultato che nel giro di 10 anni danneggia irrimediabilmente il cuore e l’intestino della sua vittima. Calisto non sembra del tutto appagato della propria esistenza in quest’angolo remoto della Bolivia. Nel suo podere ha 6 galline che esprimono la propria gratitudine con 6 uova al giorno: ma le poverette vivono sotto la minaccia di un gatto randagio che ogni tanto piomba loro addosso per mangiarsele con felina voracità. Ci sono anche gli agnelli, uno dei quali, squartato di fresco, giace appeso nello stanzino adibito a macelleria. «Ne mangiamo cinque all’anno—dice il padrone della fattoria —: di più, non ce lo possiamo permettere».
Oltre agli agnelli e alle galline, la popolazione dei quadrupedi e ruminanti è costituita da 2 asini, 4 vacche e 18 pecore. Sull’aia c’è anche un forno a legna per fare il pane: funziona però soltanto cinque volte all’anno in occasione delle festività. Questo, il magro bilancio dell’azienda agricola C&C: per questo Calisto ha deciso di emigrare, destinazione Argentina. «Mi piace tutto del mio Paese—dice —: il paesaggio, la gente, le donne, gli animali, meno quel bastardo di felino che saccheggia il mio pollaio. Ma bisogna andarsene. Qui si muore di fame». Ora che ci stiamo avvicinando alla meta, il parsimonioso Marco-Marquito non dà un attimo di tregua alla sua laringe che emette a getto continuo parole, suoni, gorgheggi di quella gioia infantile così a lungo repressa nell’ospedale di Anzaldo.
«Quanto tempo manca?», chiede all’autista. «Non lo so, bambino mio. Forse ancora due, tre ore. La tua casa dev’essere laggiù, dietro quelle montagne...». Non c’è verso. Passiamo attraverso un paese in festa. Donne e uomini indossano il vestito buono della domenica, anche i rintocchi delle campane sono allegri, ci sono gonfaloni e stendardi per le strade e la banda suona inni e canzoni che non ci sono famigliari. Commosso da quella atmosfera gioiosa Pedro accarezza con mano leggera i capelli di Marco e gli bisbiglia qualcosa all’orecchio: «Sono sicuro — dice — che la mamma ti sta preparando quel dolce di mele che ti piace tanto».
Per il dottor Pietro, questa storia che sta per finire e finisce bene lo riporta col pensiero nella sua casa di Cochabamba, in famiglia, scambia due parole con la moglie, Margarita, che ha spostato nel ’91 e gli ha regalato quattro figlie, Silvia la prima, che ha 17 anni, ultima Norma, che ne ha cinque ed è deliziosa. Quando siamo stati invitati a cena a casa sua Alba e Norma si sono esibite in un balletto romantico che aveva il profumo d’altri tempi. Non stupisce che Pietro Gamba goda di grande stima in tutta la Bolivia e che Anzaldo lo consideri un suo «figlio prediletto», cui la città è grata non solo per la sua attività nel campo della medicina ma per il lavoro sociale che ha svolto e tuttora sta svolgendo a beneficio della comunità, occupandosi dei servizi pubblici come l’acqua e l’elettricità. Dopo due giorni di marcia l’auto si ferma davanti a uno scenario incantevole, il verde intenso delle montagne e delle vallate, il silenzio appena turbato da suoni e rumori lievi. Marco, che è sceso dalla macchina e avanza lentamente reggendosi sulle stampelle, sente l’odore di casa. L’ultimo tratto, che è piuttosto lungo, bisogna farlo a piedi, affrontando salite e discese che rallentano il passo di modesti scalatori quali noi siamo.
Lungo il cammino s’incontrano gruppi di uomini e donne, muniti di zaini e bastoni, che stanno rientrando dal Santuario della Vergine di Surumi, dove sono andati in pellegrinaggio camminando per tre giorni e tre notti su sentieri impervi. Affaticati, esausti, non hanno quasi più voce e a chi chiede notizie sulla loro grande avventura rispondono a monosillabi. Anche il rientro di Marco sembra atteso in questi giorni e non sono pochi quelli che avrebbero voluto incontrarlo per avere un resoconto dal vero sulla sua straordinaria escursione in Bolivia. Lo accompagnano ancora per un tratto cercando di cavargli di bocca le ultime e più vive emozioni a conclusione. Ma è sfinito e ciò che prova dentro di sé lo vuole conservare come un segreto da non spartire con nessuno.
Ciao, Marco. Anche per me è venuto il momento dell’addio. Ti vedo scendere lungo il pendio insieme a tuo padre, che con te ha condiviso ogni giorno ogni minuto della tua solitaria avventura. Poi don Pedro ti avvolge nel mantello a strisce e con un colpo deciso del braccio ti ricarica e sistema sulla schiena come un fagotto. E a un certo punto tutti e due scomparite, succhiati sul fondo di una conca di puro smeraldo.
Settembre 2008 da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Dicembre 28, 2009, 05:06:59 pm » |
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In Messico, fra gli immigrati clandestini che sognano il Paradiso Nordamericano
Aspettando la Bestia, il treno dei desperados
di Ettore Mo
ARRIAGA (Chiapas, Messico) — L'immigrazione clandestina non costituisce più un reato: così ha stabilito il governo federale del Messico con una legge entrata in vigore l'estate scorsa. Allo stesso tempo le cronache informano che ogni anno 150 mila stranieri vengono inflessibilmente deportati nei Paesi d'origine. Qui, nello Stato del Chiapas inondato da legioni di centro-americani del Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua, il clima è torrido. Tutta questa gente s'è data convegno nella città messicana di Tapachula e, soprattutto, di Arriaga per intraprendere la prima fase del lungo viaggio verso la frontiera settentrionale che si dovrebbe concludere, successivamente, nei paradisi urbani del Nord America: luoghi che si pronunciano con ansia e venerazione, come San Diego, Los Angeles, Las Vegas, Miami, New York. Un sogno che, presumibilmente, solo pochi riusciranno a realizzare. A me, purtroppo, è consentito solo di raccontare le ansietà, la pazienza, gli isterismi, gli scazzi e anche una non vaga sensazione di angoscia nelle ore che precedono la partenza del treno-merci che da Arriaga porta a Ixtepec tonnellate di cemento. Perché il protagonista della vicenda è proprio il convoglio che ormai tutti chiamano La Bestia: definizione che non si merita, data la sua totale e incontestabile innocenza. È infatti l'inconsapevole strumento di una tragedia umana che si consuma ogni giorno sui tetti infuocati dei suoi vagoni: presi quotidianamente d'assalto da migliaia di disperati che strappano un «passaggio» verso il Nord, convinti che solo lì si possa trovare un lavoro e conseguire una minima possibilità di sopravvivenza.
Non può quindi sorprendere la tenacia di un ragazzo che sta per ore sotto il sole a una temperatura che tocca i 40/45 gradi in attesa dello sbuffo nero della locomotiva e così giustifica la sua pazienza quando gli chiedi dov'è diretto: «Come tutti gli altri — risponde —, io sto andando dove ci sono i dollari». Insieme al fotografo Luigi Baldelli, ho vissuto per ore l'illusione e l'inquietudine di questi giovani (e meno giovani) emigranti nel momento di avventurarsi verso l'ignoto. La notte dormono accucciati sulle cataste di legno nero o sull'erba nana delle rotaie abbandonate. Nella vicina Casa del Migrante c'è sempre un pasto caldo, ma nessuno ne approfitta, anche se lo stomaco vuoto rumoreggia, per il timore che La Bestia si metta improvvisamente in marcia lasciandolo solo in quello straccio di terra che diventerà il suo Limbo permanente. «Nel mio cervello ormai — dice un ragazzo fuggito da El Salvador — non c'è spazio che per il treno». E automaticamente si porta la mano alla tempia e l'accarezza con le dita come sentisse le vibrazioni dello stantuffo e fosse già in corsa verso la terra promessa. Due guatemaltechi — 34 il primo, 20 il secondo — vorrebbero tornare in California, a Sacramento, da cui vennero deportati solo un anno fa. Ma sono rimasti senza un soldo. «Gli ultimi dollari — confidano — li abbiamo dati ai polleros e ai coyotes che ci hanno aiutato a varcare il confine meridionale del Messico».
Ancora più drammatica la vicenda di George che, dopo due anni di carcere, venne deportato dall'Alaska, accusato di violenze domestiche contro la moglie: «Tutta colpa mia — ammette —: vorrei tornare per chiederle perdono, a lei e ai nostri figli. Sono di El Salvador, dove ho combattuto nella guerra civile. Ho raggiunto il Messico attraverso il Guatemala, quasi sempre a piedi. Sono su questo binario da quattro giorni. Ho fame, è vero, ma è meglio morir di fame che perdere questo treno». Come per tanti altri, George ha lasciato il suo Paese per ragioni politiche e sfuggire a un regime che definisce «intollerante, barbaro, oppressivo».
L'attuale dramma dell'emigrazione — sostiene Mercedes Osuna, nostra solerte accompagnatrice nei territori del Chiapas — dev'essere attribuito in gran parte alle condizioni socio-politiche dell'America Centrale: ognuna delle sue quattro Regioni è afflitta «dalla povertà e dalla disoccupazione». Opinione pienamente condivisa da Padre Battista Scalabrini (di cui parleremo diffusamente nella prossima corrispondenza), che accusa quei regimi di «costringere la propria gente ad emigrare e se ne lava le mani». Se si parla di frontiere, il presidente dell'Associazione Avvocati del Chiapas, José Manuel Blanco Urbina, ritiene che quella tra Guatemala e Messico sia «molto più pericolosa» di quella fra Messico e Stati Uniti. «Intanto lassù — precisa — c'è molto più controllo che lungo i 970 chilometri del nostro confine meridionale fluviale col Guatemala, filtrabilissimo, coi traghetti che fanno indisturbati la spola tra una sponda e l'altra».
Un taccuino, il mio, che s'è riempito in questi giorni di tragedie, grandi e piccole. C'è la storia di Mario Justino Alonzo Miguel, 22 anni, ricoverato all'Albergo Buen Pastor di Tapachula. La gamba destra gli è stata tranciata dal treno in corsa sotto il ginocchio, quando, come tanti altri suoi compagni, era piombato sfinito sulle rotaie. Si era imbarcato sulla Bestia il 29 agosto di quest'anno e sognava di raggiungere la sua famiglia a Los Angeles. Un sogno brutalmente spezzato e infranto nel sangue. Ora sta seduto sulla sedia accanto al suo lettino d'ospedale e racconta senza enfasi e con una certa riluttanza di quel «piccolo» incidente che gli impedirà per sempre di trascorrere un'esistenza normale. Anzi, al contrario, è carico di un sentimento di sfida e di rivincita: che conferma, saltellando sulla gamba «buona», come se niente fosse. «Amico mio — dice stringendomi il braccio con la mano —, ci puoi contare. Io a Los Angeles ci tornerò! La considero la mia città e non c'è alcun altro luogo al mondo dove voglia e possa vivere. Ci andrò anche se mi tagliassero l'altra gamba».
Ma c'è pure chi soccombe alla seduzione del sogno americano. A Ciudad Hidalgo, sulla sponda del fiume Suchiate, confine liquido tra Guatemala e Messico, tocca ai ragazzi dei traghetti informarti sul flusso dei turisti o sul traffico, altrettanto importante, delle merci: e nessuno potrebbe escludere che in mezzo a tanta povera gente in cerca di lavoro potrebbero transitare consistenti partite di droga a reciproco beneficio di « drug dealers » di ambedue le contrade e dei barcaioli che, in questo caso, sparano tariffe siderali. Mario Morales, 18 anni, ha cominciato a lavorare sui «gommoni» del Suchiate quando era un bambino di otto e non sembra avere alcun motivo per lamentarsi della propria esistenza. Però il ricordo dell'America è una spina costante nel suo cuore. Ma finora ha sempre respinto l'invito degli zii, che lo vorrebbero di nuovo a Dallas, nel Texas, dove ha vissuto tre anni della propria infanzia. Ai suoi coetanei, increduli e allibiti, che farebbero la strada a piedi pur di sbarcare nel pianeta Usa, spiega con semplicità le sue ragioni: «Qui — dice — mi trovo a mio agio, sto fra la mia gente, ne parlo la lingua e, soprattutto, non saprei rinunciare alla tortilla, che è il mio piatto preferito e ha il sapore della mia terra». Cammino su e giù per gli acciottolati di San Cristóbal de Las Casas, che è l'essenza del Messico, con le sue case arroccate su uno sperone di montagna a oltre duemila metri. Sono giorni di festa per la Virgen morena di Guadalupe, con fiumane di gente in marcia sulla scalinata del Santuario che sembra inaccessibile, stagliato così com'è con le sue cupole bianche contro un cielo che più azzurro e limpido non potrebbe essere. Siamo travolti da una liturgia festosa biblica e pagana che accomuna il suono delle chitarre, delle trombe e dei mortaretti agli inni religiosi e alle canzoni eroiche e agrodolci della rivoluzione di Pancho e Zapata, dove si canta di un soldato che nella guerra ha perso il suo amore, Adelita. Quando, tantissimi anni fa a Madrid, ricordai quei pochi versi e quelle poche note a Dolores Ibárruri, alla «pasionaria» e indomita «sardinera » delle Asturie che s'era ribellata al regime di Franco alla fine degli anni Trenta («No pasarán ») vennero le lacrime agli occhi.
Ben lontana dallo scenario cruento della guerra di Spagna, Arriaga sta tuttavia vivendo ore di tensione. Dopo che l'uragano Stan distrusse completamente, nel 2005, la linea ferroviaria che da Tapachula conduce fino a qui lungo la costa del Pacifico, questa località è diventata uno dei «passi» più transitati dagli emigranti del Centro America. Che qui devono per forza confluire, se vogliono abbarbicarsi al solo treno, La Bestia, che li potrebbe in qualche modo avvicinare a Città del Messico. Da dove, comunque, la terra promessa è ancora lontana anni luce: distanza che presuppone una riserva di spirito e pazienza pari a quella che animava, nel Medio Evo, i pellegrini in marcia verso i Santuari di Canterbury e Santiago de Compostela. Assicurarsi un posto sul treno ad Arriaga resta quindi il primo impegno di qualsiasi aspirante- emigrante. Sembra non esserci conflitto diretto tra i vari gruppi e le varie nazionalità in attesa dell'arrembaggio. Si ha tuttavia l'impressione, dalle voci che corrono, che quelli dell'Honduras rappresentino la compagine più compatta e determinata, contro cui è opportuno coalizzarsi. Li definiscono «catracho», gente dalla testa dura, pugnaci, pronti a menar le mani. Definizione che trova conferma in uno dei primi che s'è arrampicato sul treno e dice subito con un ghigno di sfida a chi lo guarda dal basso in alto: «Io ho dodici fratelli e alcuni di loro sono già stati negli States, dove quei bastardi dagli occhi azzurri degli Yankees li hanno arrestati e deportati. Adesso è venuto il mio turno e non mi tiro indietro». Per l'avvocato Urbina, l'emigrazione rimane il problema più grave del Messico e riconferma che il flusso di clandestini del Centro America negli Stati Uniti si aggira sui 150 mila l'anno. Sulla parete, nella Casa del Migrante di padre Rigoni, è appeso un cartello dove sono indicati i percorsi e le distanze che gli eventuali emigranti dovrebbero coprire per arrivare a destinazione. Cifre da brivido. Per giungere nella Grande Mela, New York (forse la più ambita), occorre coprire 4.375 chilometri; 2.930 per Houston; 3.678 per Chicago, e via pedalando. Non sono in grado di stabilire quanta strada dovrà fare George, se mai tenesse fede al suo proposito di tornare in Alaska per rappacificarsi con l'adorata consorte. Un risvolto allarmante, e insieme commovente, riguarda il mini-esercito di ragazzini e adolescenti che, lasciati a casa coi nonni, vorrebbero ora raggiungere i genitori stabilitisi definitivamente in America. A noi anziani torna subito in mente il racconto strappalacrime di De Amicis nel Cuore, Dagli Appennini alle Ande: ma anche in questi casi di ricongiungimenti familiari ci sono procedimenti e meccanismi legali estremamente complicati che ritardano e rinviano le soluzioni, provocando interminabili angosce.
Se Arriaga è la porta d'ingresso — per quanto distante — alla Holy Land degli Stati Uniti, Tapachula (270 mila abitanti) è la prima tappa d'obbligo per chi voglia tentare quella straordinaria avventura. La ricostruzione della linea ferroviaria devastata dal ciclone Stan e ora ad una ditta cinese (gli operai sono già al lavoro con un salario di circa 40 dollari al giorno) contribuirà a rianimare la città che è stata sempre un grosso centro commerciale. Come ovunque, il narcotraffico (frenetico ma invisibile) convive con lo squallore, visibile, dei mendicanti e dei marciapiedi ingombri di larve umane. E il continuo flusso migratorio dal Centro America aggrava problemi già gravi. «Tapachula — dice il delegato dell'Ufficio Emigrazione, Jeorge Umberto Yzar — è un luogo di intenso conflitto. Tre autobus al giorno, ciascuno con più di 30 persone a bordo, deportano i clandestini, ragazzi, ragazze e adulti, nel loro Paese d'origine ». Un altro problema che turba gravemente la vita urbana è quello dello sfruttamento sessuale dei bambini, in continuo aumento, a un punto tale da definire la città «la capitale della prostituzione infantile del Messico». La corruzione dilaga a tutti i livelli, dai ministri ai bidelli di scuola, mentre la polizia locale è ritenuta «la più corrotta del mondo». Poco aggiunge, per definire le dimensioni del degrado incontenibile del luogo, una visita al Basurero Municipal, l'immondezzaio pubblico: una discarica immensa dove 150 camion al giorno travasano rifiuti, contesi da cani e da stormi famelici di falchi, corvi, avvoltoi. Una signora ci lavora dall'alba al tramonto raccogliendo bottiglie di plastica e pezzi di latta per un salario giornaliero di pochi dollari. Mercedes, la nostra guida, ci fa notare che la donna profuma di gelsomino: ma non è per vanità, aggiunte «è per scacciare il cattivo odore della spazzatura che le è penetrato nella pelle». Il solo dato positivo in questo dramma immane dell'emigrazione è che le rimesse degli emigranti negli Stati Uniti alle loro famiglie costituiscono un forte impulso economico per i Paesi boccheggianti del Centro America. Nel 2006 ad esempio — ha rivelato un esperto del mondo finanziario internazionale — il totale delle somme mandate in Honduras dai suoi lavoratori all'estero equivaleva a un quinto del prodotto lordo nazionale. Pecunia non olet — sentenzia imperturbabile il saggio di turno - , il denaro non puzza: anche se arriva dalle auree riserve degli Yankees del Nord America.
Settembre 2008 da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 28, 2009, 05:07:42 pm » |
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Sulle orme dei clandestini in Chiapas tra droga e contrabbando di vite umane Nell’inferno dei migranti
di Ettore Mo
TAPACHULA (Chiapas, Messico) - Se la politica del governo messicano sul problema emigrazione-immigrazione dovesse continuare a correre sui binari del rigore e dell’inflessibilità, legioni di centro-americani del Guatemala, Honduras, El Salvador e Nicaragua, entrati illegalmente in Messico per raggiungere e varcare la frontiera con gli Stati Uniti, dovrebbero rassegnarsi alla deportazione forzata, com’è avvenuto negli ultimi anni per migliaia di stranieri sprovvisti di visto e senza documenti. «Il Messico - continuano a ripetere fino alla noia i funzionari dell’Ufficio emigrazione - è un Paese di transito. Vi si può accedere senza difficoltà alcuna dal Guatemala. Ma chi intende fermarsi e lavorare lo può fare solo dietro richiesta o invito da parte di una famiglia o azienda messicane: quando non si tratti di lavoratori agricoli stagionali, cui viene solitamente concesso il permesso di soggiorno per la durata di tre mesi. Queste le regole da rispettare, se non si vuol correre il rischio di essere rispediti senza troppe cerimonie al Paese d’origine».
Contrada incantevole, il Messico. Ma le ragioni che spingono dentro i suoi confini fiumane di gente sono molte e non di rado oscure e complesse: una miscela esplosiva alimentata, da una parte dalla disperazione di migliaia di poveracci in cerca di lavoro e di un minimo di benessere (i tre quarti del cocktail) e dall’altra dallo sciroppo dell’illusione (un quarto soltanto) per chi sogna di avvicinarsi all’Eden dell’America del Nord. Secondo l’amara definizione di padre Flor Maria Rigoni, che vive qui da oltre vent’anni e ha fondato quattro Casas del Migrante, il Messico non è solo un Paese di transito ma di «espulsione, rifiuto e deportazione » ed è ormai diventato «un campo minato» e «un cimitero senza croci». Il sacerdote appartiene all’ordine fondato da Giovan Battista Scalabrini che dal 1800 si occupa degli emigranti sparsi in ogni parte del mondo. Inconsueta figura di frate missionario la sua, a 64 anni è agile e quasi sbarazzino, i sandali ai piedi, bianca la tonaca di lino, la barba grigia fluttuante sul petto e su un grosso crocifisso di legno appeso al collo, vivacissimi gli occhi dietro le lenti. Instancabile viaggiatore, si esprime disinvoltamente in sei lingue, arabo incluso. Non si ha neanche il tempo di finire una domanda che si è già travolti dalla sua risposta.
Vita densa di avvenimenti, sempre in salita e tutta di corsa: e raccontata con la stessa rapidità, senza enfasi e ridondanze. Dalla nascita, nell’ottobre del ’44, in un paesetto della Val d’Ossola invaso dai partigiani, all’infanzia in quel di Bergamo, alla giovinezza in seminario fino al giorno dell’ordinazione, che lo vide prete a 25 anni. Ma la tonaca non gli impedisce di imbarcarsi come marinaio-elettricista (mestiere appreso nel porto di Genova) su una motonave della flotta Lauro che lo avrebbe portato fino al largo del Madagascar: e lì c’è il racconto di una rissa scoppiata a bordo, di rimorsi, pentimenti e messaggi che il mare gli ha lanciato ogni giorno durante la circumnavigazione del Sudafrica: un’esperienza, ammette, che lo ha segnato per sempre. «Da un punto di vista profano - scriverà -, segnato dalla mano del destino; da un punto di vista teologico, da quella della Provvidenza».
Quando mette piede in Messico, il 6 gennaio dell’85, alla funzione del missionario aggiunge quella del medico, professione che era in grado di esercitare dopo il regolare e sudato conseguimento della laurea e che inoltre gli consentiva di entrare nei campi profughi delle Nazioni Unite, dove «il prete non contava niente». E a giustificazione dei suoi continui spostamenti nell’orbe terrarum, aggiunge: «Un missionario, quando si ferma, è come l’acqua stagnante, marcisce». Da tempo, la sua base fissa è Tapachula, frenetica «capitale» dello Stato del Chiapas e città di transito con una popolazione esorbitante e in continuo aumento, grazie alla presenza di vastissime comunità del Centro America, che vi hanno messo le radici. Il timore che i messicani siano stati messi in minoranza non può essere accantonato a cuor leggero, anche se il delegato dell’Ufficio emigrazione, Jeorge Umberto Yzar, ci scherza sopra: «Spesso, quando salgo sull’autobus - dice con un sorriso - mi sembra d’essere in un altro Paese, che so... il Nicaragua, l’Honduras, El Salvador. Ognuno di loro parla spagnolo con accento diverso. Ma a questo punto mi viene in soccorso il fiuto: e fiutandoli uno per uno, riesco a capire se vengono da Managua o da San Pedro Sula o non piuttosto da Santa Ana o da Puerto Barrios. Ciò che hanno in comune è l’azzurro del Mar dei Caraibi».
«Il Chiapas è l’inferno dell’emigrazione», sostiene Carmen Fernandez, una dei tanti «volontari» delle organizzazioni non governative scese in campo per fronteggiare un problema che, aggiunge, «è di una gravità e dimensioni allarmanti, mentre le riserve d’acqua a nostra disposizione sono appena sufficienti a contenerne l’espansione ma non a spegnere le fiamme». Alla soluzione del problema non contribuisce certo il fatto che per le autorità come per gran parte della popolazione messicana gli emigranti non sono altro che dei «delinquenti». Definizione estremamente grave, anche se non si può negare che spesso i narcotrafficanti si servono di loro per far transitare oltre frontiera la propria merce: col duplice vantaggio di compensare questi innocui, improvvisati «corrieri» con una manciatina di pesos e di non doversi preoccupare qualora fossero arrestati, dal momento che nessuno correrebbe in loro difesa col rischio di svelare l’identità dei veri capi del vapore, cioè dei leader del business della droga.
Valanghe di denunce accumulate negli appositi uffici di Tapachula, Arriaga, Ciudad Hidalgo e Veracruz la dicono lunga sulle condizioni disumane in cui vive (o meglio, sopravvive) gran parte degli emigranti entrati illegalmente o senza documenti nello stato del Chiapas: storie di poveracci sfruttati, sottoposti ad ogni tipo di abuso, ingaggiati dalla malavita locale per lavori sporchi e poi subito derubati, gente che si schianta dalla fatica come sanno molto bene i lavoratori agricoli guatemaltechi ammassati nelle grandi piantagioni del Sud, cui arride la fama di contadini più sottopagati del mondo. Nel tentativo di respingere quelle accuse, proprietari terrieri e facoltosi rancheros passano al contrattacco definendo sbrigativamente i propri dipendenti - o schiavi - «una massa di fannulloni e scansafatiche». «Ma è assurdo! - è la reazione indignata di padre Rigoni, che per quei «fannulloni » ha sempre pronto un piatto di minestra nella Casa del Migrante a Tapachula -. Sono dei gran lavoratori, io li conosco, è gente coi calli sulle mani. Scansafatiche? Non vanno mica in vacanza queste migliaia di persone che camminano per settimane e mesi o viaggiano per giorni sui tetti di lamiera dei treni-merci: vanno in cerca di lavoro».
Il timore di fermarsi a «marcire» sprigiona le riserve d’energia del frate bergamasco, che sembra non avere alcuna intenzione, per il momento, di rassegnarsi alla vita mistico-contemplativa. Tuttavia, la sua attività a favore degli emigranti suscita il sospetto e le apprensioni dei governi di Messico e Stati Uniti che in sostanza lo accusano di favorire l’immigrazione illegale dei centro-americani. Altri sacerdoti che gestiscono i loro centri di soccorso (ospitalità per tre giorni, vitto e alloggio) sulla «strada dell’emigrazione» vengono incriminati per lo stesso reato. È toccato a padre Herman Vasquez, che incontro ad Arriaga nel suo rifugio di sapore evangelico che si chiama «Hogar de la Misericordia» e ricorda la parabola dei discepoli di Emmaus. «Inizialmente - ricorda - le autorità messicane erano ostili alle Casas del Migrante perché ci accusavano di agire nell’illegalità. Gli immigrati in Messico non hanno alcun diritto. Io, come altri confratelli, davanti alla legge ero un pollero o un coyote: nomi con cui vengono definiti tutti coloro che aiutano i fuggiaschi a varcare clandestinamente la frontiera. Ho passato i miei guai, amico».
A padre Alejandro Salalinde Guerra, 63 anni, elegante, vestito di lino bianco, è andata anche peggio. «Nel mio ostello - racconta - passano circa duecento pellegrini al giorno, per una sosta minima di tre giorni. Molti arrivano affranti, sfiniti. Lungo la strada sono stati malmenati e derubati dagli agenti di polizia e dai banditi locali. Io stesso sono finito in prigione per avergli dato ospitalità. Li hanno pestati a sangue e quando gli ho chiesto il perché di tanta barbarie, la risposta è stata: sta’ zitto, stronzo di un cura, se non vuoi finire con un proiettile in testa». Dopo una pausa, nella quale il silenzio è più greve dell’angosciosa testimonianza appena resa, padre Alejandro conclude: «Il Messico non è più quello d’un tempo. La sua religiosità, forte, drammatica e anche eroica nei giorni della Rivoluzione nonostante la persecuzione dei preti, si è illanguidita e spenta: tutto ciò che è rimasto della fede di allora è la sbiadita immagine folcloristica della Madonna di Guadalupe».
Anche Olga Sanchez, una signora cinquantenne che dai primi anni Novanta sta spendendo tutto le sue energie e i pochi soldi di cui dispone nella «catastrofe emigranti» (così la definisce), ha dovuto fare i conti, all’inizio, con le ostilità delle istituzioni. «In sostanza - precisa - mi accusavano di favorire i responsabili dell’emigrazione clandestina. Il mio reato? La mia piccola casa s’era trasformata in una specie di reparto d’emergenza o pronto soccorso per quei poveretti che avevano perso una gamba tentando di salire sulla Bestia, il treno- merci che ogni giorno portava vagonate di disoccupati verso la frontiera settentrionale. Il premio di 20 mila dollari che ho ricevuto per la mia attività l’ho investito nella costruzione della Casa del Migrante. Dal governo ho avuto solo critiche, mai un aiuto. Per chi voglia farsi un’idea delle condizioni sociali della nostra regione basta fare un salto alla discarica comunale: vedrà un sacco di bambini che frugano nelle immondizie».
È sullo sfondo nero di questa miseria che fiorisce il contrabbando degli uomini, esercitato con guadagni astronomici da coyotes e polleros: un traffico che, secondo le valutazioni degli esperti in materia, frutta qualcosa come 10 miliardi di dollari l’anno e si colloca quindi al secondo posto, dopo il narcotraffico, nella lista dei profitti illeciti del Messico. Per accompagnare una sola persona dal Centro America agli Stati Uniti - 1.500 miglia - un coyote chiede in media cinquemila dollari: in un anno, se il vigore fisico necessario per queste estenuanti camminate non lo abbandoni, il suo guadagno potrebbe assurgere a centomila dollari. Esentasse. Un’avventura, quella del contrabbando umano, attorno a cui sono nate storie e leggende. Padre Rigoni, che ha seguito il cammino dei coyotes fin nella «rotta della morte » (cento chilometri di deserto), si libera delle fiabe romantiche e osserva, amaramente: «Ci sono coyotes in guanti bianchi, c’è l’industria ormai, il coyotismo s’è trasformato in industria. Noi creiamo delle rotte, creiamo i punti d’appoggio, creiamo la logistica e paghiamo già anticipatamente il costo della corruzione».
Tra i costi da affrontare e pagare quotidianamente c’è pure quello di Mara Salvatrucha, una banda armata di pandillas (giovani, adolescenti, ragazzini di 10, 12 anni) che si potrebbe definire pittorescamente solo per il fatto che i suoi membri sono coperti di tatuaggi dalla testa ai piedi come gli antichi Maya. In lotta contro le istituzioni e contro tutti, il loro mestiere, che compiono col massimo zelo, è ammazzare. Chi ammazza un uomo ha diritto a un tatuaggio speciale sul volto e da soldato semplice diventa immediatamente ufficiale. L’organizzazione, bollata come «criminale» da tutti i governi del Centro America, è nata negli anni Ottanta in California dove il suo primo nucleo composto da immigrati di El Salvador costituì una banda di guerriglieri cui via via si aggregarono altri fuorusciti provenienti da Guatemala, Honduras e Nicaragua. Tremila di questi Maras, equipaggiati al meglio, sarebbero schierati sulla Franja Fronteriza, il confine meridionale, pronti ad entrare in azione: e, manco a dirlo, sono già tutti ufficiali. Ma il loro primo obiettivo è il reclutamento massiccio tra ragazzi della zona: che una volta entrati nell’organizzazione difficilmente potranno uscirne.
E infatti per togliersi la «divisa» e buttarla alle ortiche dovranno raschiar via dalla pelle, uno per uno, tutti gli indelebili tatuaggi. Meglio una fucilata. Nessuno sembra più dubitare, a questo punto, che all’efficienza operativa dei Maras e ai loro successi - se mai ci sono stati - abbiano contribuito i finanziamenti segreti della Cia: il cui scopo è di mantenere nel territorio un clima di terrore per intimorire e allontanare gli emigrati, costringendoli a rinunciare per sempre al progetto di uno sbarco clandestino in Nord America. E alla fine tutti concordano che la politica migratoria messicana non ha alternative alla detenzione e deportazione degli stranieri che non hanno le carte in regola. Per il frate degli emigranti, Flor Maria Rigoni, questo è un dramma personale: e credo voglia viverlo fino in fondo insieme alla sua gente, prima che la barca affondi. Non sembra abbia alcuna intenzione di cercarsi un altro posto. Qui rimane. Anche a costo di marcire.
gennaio 2009 da corriere.it
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 28, 2009, 05:11:34 pm » |
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La nuova Cuba esce allo scoperto
«Hasta la victoria» e gay in parata
di Ettore Mo
L'AVANA - Cuba ha festeggiato e continua a festeggiare il cinquantenario della Rivoluzione - 17 maggio 1959 - come un compleanno di famiglia senza ridondanze di parate e celebrazioni patriottiche. La retorica è confinata nei vecchi slogan tracciati sui muri e ormai sbiaditi come Patria o Muerte e Hasta la Victoria siempre che ricordano la lotta contro il regime di Fulgencio Batista, un passato ridotto in cenere. Un recente sondaggio ha collocato l’isola - la perla dei Caraibi - in cima alla graduatoria dei Paesi più felici del mondo. Non ha sorpreso nessuno che la manifestazione più vivace e chiassosa del calendario sia stata una sfilata degli omosessuali - uomini e donne - che a passo di danza negli sfrenati ritmi latino-americani hanno percorso le vie del centro per sfociare nei giardini del Pabellón di Cuba, cuore vibrante della capitale. «Era già avvenuto l’anno scorso - ha commentato un anziano signore con un sorrisetto di disgusto - e a quello là non è affatto piaciuto». Quello là è Fidel Castro, che vent’anni fa i gay li mandava ai lavori forzati. A sottolineare ulteriormente il cambiamento e l’evoluzione del clima sociopolitico del Paese anche il fatto che a madrina della manifestazione fosse stata eletta Mariela Castro Espín, figlia del presidente Raúl, che ha pronunciato un applauditissimo discorso sulla salvaguardia dei diritti umani.
La festa sarebbe continuata nei giorni successivi, sotto un cielo impietoso e incandescente. Niente di meglio che trovar rifugio nei musei dell’Avana o di Santa Clara per ripassare la Storia. O nella casa di vecchi campesinos che hanno combattuto accanto a Fidel o ad Ernesto Che Guevara sulla Sierra Maestra. Come Modesto, che abita ad Arrey Blance, un villaggio a un paio d’ore dall’Avana, poche case, la campagna arroventata senza un filo di vento. La nostra guida lo descrive come «un hombre grande de pelo blanco», un omone coi capelli bianchi. Ottantadue anni, come Fidel. In nostro onore s’è messo una camicia bianca, ariosa come una toga. Fragrante. Dice che «qui a Cuba si vive bene con l’agricoltura» e «non sono villaggi da fame come altri Paesi del Centro America». Modesto racconta che verso la fine della Rivoluzione cubana ebbe un incontro straordinario. S’era messo col Movimento di liberazione contro la dittatura di Batista, che portava armi rubate all’esercito regolare. «Era il 23 dicembre e raggiunsi sulla montagna un accampamento dei ribelli. Avevo con me fucili e proiettili. Ma, avvicinandomi, ebbi l’impressione di trovarmi davanti a un reparto di donne. Avevano i capelli così lunghi... Anche il loro comandante aveva i capelli lunghi. Sì, proprio lui, Che Guevara... mancavano pochi giorni alla battaglia decisiva di Santa Clara. Lo vidi stanco, molto teso. E comunque era un uomo di poche parole, badava ai fatti».
Ciò che sorprende nei racconti dei compagni d’avventura del Che è la mancanza dei toni eroici, si privilegiano i piccoli fatti, la banalità della vita quotidiana: «Ci nutrivamo di latte in polvere - rievoca Miguel, che per 22 mesi combatté al fianco del Comandante ed è rimasto uno dei suoi testimoni più attendibili e meticolosi -. Molto spesso non avevamo né riso, né fagioli, né carne perché non c’era denaro per comprare dai contadini, che già non riuscivano a mettere insieme il pranzo e la cena con quelle nidiate di bambini sempre affamati... E il Che era giusto, inflessibile. Se c’era un pezzo di pane doveva essere diviso fra tutti. Lui era l’ultimo. E se c’erano dei prigionieri, erano i primi ad avere quel poco cibo di cui disponevamo». È sempre una forte emozione, tornando a Cuba, ripercorrere brevemente i suoi itinerari, visitare le sue case o anche sostare lungo la via crucis della sua straordinaria avventura: la vedova, Aleida March, è un’anziana signora, molto malata, che non ha più tempo né voglia di riaffondare in lontani ricordi. Soprattutto in quella mattina dell’8 ottobre del '67, quando lo freddarono brutalmente in Bolivia. Ciò che si legge nel suo libro «Evocación» forse non aggiunge nulla, per gli storici, alla vicenda della Rivoluzione cubana: ma tratta della rievocazione di una lunga e spesso sofferta convivenza con uno dei suoi più grandi e tragici protagonisti.
E non è certo superfluo ricordare che tra gli autori preferiti del giovane Ernesto Guevara figuravano Pindaro, Sofocle, Euripide, Demostene, Platone, Aristotele, Plutarco, Racine, Dante, Ariosto, Shakespeare e Goethe. Nutrita da tanta letteratura, la giovane guerrigliera Aleida si lancia nella lotta clandestina nel dicembre del '56, quando già sapeva dell’esistenza del giovane Che, la cui leggenda s’era «già diffusa per tutto il Paese», un giovane eroe e anche «molto attraente». Una foto, nel libro, lo mostra col sigaro in bocca e il più spavaldo dei sorrisi. Stava per cominciare la «verdadera lucha revolucionaria» e anche Fidel ha il sigaro in bocca. Si sposano. Ernesto fa carriera, diventaministro, gira per il mondo. Da ovunque si trovi manda ad Aleda messaggi dolci e di fuoco, zucchero e miele: da Hiroshima, dal Marocco, la chiama Aleiducha, la riempie di abrazos e besos. Nascono quattro figli. Dall’Egitto, nel '65, le invia una lettera molto affettuosa e galante dove la chiama Señora e le bacia rispettosamente le mani firmandosi il «suo maritino». Ma all’interno le acque non sono tanto calme. Tra Fidel e Guevara nascono dissidi e contrasti soprattutto sulla questione economica: il Che s’era opposto alla riforma agraria del 1961 con cui Castro invitava i contadini a distruggere le piantagioni di canna da zucchero perché «ne erano state piantate troppe». Una seconda riforma agraria avrebbe posto un limite alla superficie massima delle proprietà terriere. Più che l’Avana è Santa Clara la città maggiormente legata all’esistenza di Ernesto Guevara.
Le tappe della sua vita sono scrupolosamente documentate nelle sale di un museo che porta il suo nome. Qui venne combattuta la battaglia finale e determinante della Rivoluzione. Qui sono tumulati i suoi resti e quelli dei 156 compagni che morirono insieme a lui in Bolivia nelle alture di La Higuera. Nelle bacheche del sotterraneo sono esposti i pochi soggetti, le poche cose che vennero trovate sui cadaveri: un portafogli, un pettine, una camicia stracciata, un berretto, una banconota venata da tracce di sangue essiccato. Ci sono anche le scarpe e i vestiti di una giovane rivoluzionaria che si chiamava Labadi Arc, violata prima di morire. C’è pure una foto di Fidel, quando venne ferito negli scontri tra polizia e studenti il 12 febbraio del 1948. Accanto, gli scarponi di Raúl Castro quando scarpinava col fratello sulla Sierra in cerca di gloria e una bambolina di plastica dentro la cui tenera innocenza venivano incapsulati i messaggi segreti destinati ai partigiani in lotta sulla montagna. Sul soffitto, come nella Cappella Sistina, sono affrescate le storie della guerra di Cuba. Tra i messaggi che Aleida March conserva gelosamente nella sua casa ce n’è uno particolarmente toccante con francobollo giapponese. Poche parole. «Sono a Hiroshima, quella della bomba - dice -. Nel catafalco che vedi ci sono i nomi di 78 mila persone morte e si presume un totale di 180 mila. Fa bene visitare questo luogo per lottare con energia a favore della pace. Un abbraccio. Che».
È domenica e mi sembra giusto, accomiatandomi da Cuba, fare una passeggiata al santuario di San Lázaro. È meta di pellegrinaggi da tutte le parti. La gente arriva in pullman, in macchina, in treno e in calesse (famiglie intere con la borsa per il picnic) trainate da vecchi ronzini con musi lunghi e dolci. Secondo la tradizione, dai limiti del recinto le persone più devote e affette da senile disperazione raggiungono la soglia della chiesa strisciando sulle ginocchia, un centimetro dopo l’altro. Un poco imbarazzato seguo uno di questi pellegrini, un uomo sui settanta, ben vestito, i jeans da ragazzo bene, i mocassini. Una fatica boia. Una bella signora di mezza età gli cammina accanto, sul selciato di pietra e lo protegge con un ombrello a fiori dal sole spietato. Lo sforzo è grande e l’uomo bofonchia esausto e ogni mezzo metro appoggia la testa canuta sugli stecchi delle braccia, incrociate sull’asfalto. Sta facendo quella penitenza (apprendo) perché la moglie è malata grave e lui è qui per chiedere la grazia a San Lazzaro: ma altri sforzi dovrà fare per avvicinarsi alla grata della cappella, assediata com’è da tanti poveracci che hanno nel cuore pene altrettanto grandi. Nella mano sinistra ha un mazzetto di fiori, nella destra una candelina che in qualche modo è riuscito ad accendere. E abbarbicandosi infine al cancelletto, riesce a depositare sul pavimento i segni della propria devozione. Poi lo vedo piangere e anche a me viene il magone.
24 maggio 2009 da corriere.it
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In fuga i figli della Revolución
«Cuba muore di fame»
di Ettore Mo
L’AVANA — Maggio 1980. Sulle spiagge di Key West — piccola isola nel Golfo del Messico vicino alla Florida — sbarcavano in continuazione migliaia di cubani «desesperados» fuggiti dall’Isola per sottrarsi al regime di Fidel Castro. Una traversata che durava dieci o quindici giorni su battelli e pescherecci di modesto calibro, non adatti ad affrontare la furia dell’Atlantico. Ma all’approdo i fuggiaschi urlavano di gioia con quel poco di voce che gli era rimasto ed esibivano cartelli su cui stava scritto a caratteri cubitali «Abbasso Fidel» e «Viva Carter». Correndo grossi rischi, avevano raggiunto il paradiso americano. Successivamente, molti di quei sedicimila profughi, delusi o semplicemente vinti dalla nostalgia, sarebbero tornati a Cuba.
Ora, dopo l’apertura nelle scorse settimane del presidente Obama che ha allentato le restrizioni per i viaggi nell’isola e la disponibilità al dialogo da parte di Raúl Castro, fratello di Fidel che in effetti gestisce il potere, sono in molti a chiedersi quali siano in realtà le condizioni di vita a Cuba e se nel cuore dei suoi abitanti persista ancora come ultima soluzione la fuga verso gli Stati Uniti. Una risposta me la dà senza esitazione uno studente di vent’anni, Daniel, che dice: «Se potessi, me ne andrei domani».
Sono stato a Cuba un paio di settimane e ho parlato con molte persone di diversa estrazione sociale: i loro commenti, in generale, non assomigliano per niente alla sbrigativa affermazione del giovanotto che ogni notte s’addormenta sognando di sbarcare, la mattina dopo, a Miami. Alla base di quest’esodo, che è massiccio e continuo, ci sono le condizioni economiche: «Vedi questa camiciola che indosso? — taglia corto un ragazzo che vende bibite al chiosco —. Mi costa 20 pesos. È quanto guadagno in un mese». La stessa amarezza emerge dalle parole delle signora Marta, insegnante di salsa — una danza caraibica — quando ammette che il suo salario mensile di 400 pesos «non basta neanche per comprare il latte ai bambini».
Negli anni passati le emigrazioni in massa furono determinate dal clima politico: i primi ad andarsene, nel gennaio del ’59, furono quelli che avevano sostenuto il regime dittatoriale e filo-americano di Fulgencio Batista; dopo la Revolución di Fidel ed Ernesto Che Guevara scelsero la via dell’esilio migliaia di anticomunisti. Adesso le carrette che solcano il Golfo sono piene di povera gente che non ha i mezzi per tirare avanti, la gran ciurma dei disoccupati e dei braccianti sbarcati nell’Isola anche da altri Paesi dell’America latina con l’obiettivo di raggiungere gli States.
L’euforia che ha colto l’Avana e altre città nei giorni del cinquantenario della Rivoluzione si è rapidamente estinta e Cuba deve fare i conti con la realtà di un Paese «immiserito» e «senza scampo», come è stato definita impietosamente da qualche giornale. Per quanto sia stata breve, la mia sosta nell’isola non mi consente di condividere un linguaggio così apocalittico e totalmente negativo. «Il turismo — dice Emilio, che fa la guida e accompagna gruppi di stranieri sul suo pulmino all’Avana e in altri capoluoghi — è la nostra maggior fonte di ricchezza. Più dell’esportazione: dello zucchero e del nickel. E ha creato anche una differenza tra le classi sociali. Prima qui avevano tutti lo stesso salario e ognuno godeva dello stesso prestigio sociale.
Adesso molti prodotti vengono importati dai turisti e vengono pagati con la loro moneta, in dollari. Quelli che ricevono il danaro dai turisti guadagnano molto di più del resto della popolazione che fa ricorso alla valuta locale. Il turismo è un’entrata forte per un Paese di bassa economia come il nostro. Fidel Castro lo permise sapendo che avrebbe cambiato notevolmente la realtà di Cuba».
Il centro storico della vecchia Avana è di una grande bellezza architettonica, ma gli alloggi all’interno dei palazzoni non sono molto accoglienti. Le ultime costruzioni risalgono agli anni Cinquanta, ci informa Erich che lavora in un ristorante molto frequentato dagli stranieri: «Agli inquilini — spiega — non è consentito di fare alterazioni agli appartamenti, che sono spesso angusti e scomodi. I divorzi sono in aumento anche per il fatto che le giovani coppie non trovano casa e sono costrette a vivere coi genitori... Solo dal gennaio scorso Raúl Castro diede ai cubani la possibilità di costruirsi la propria casa, assecondando le esigenze di ognuno. In genere gli appartamenti sono umidi e soffocanti e la gente è costretta ad uscire sul balcone per prendere una boccata d’aria e sfuggire al calore pomeridiano che impregna le pareti».
La sera, la gente si riversa in strada e passeggia sul lungomare del Malecón per farsi carezzare dalla brezza notturna: c’è chi suona, chi danza, chitarre, mandolini, fisarmoniche a bocca, i bambini giocano e strillano, qualcuno regge in mano il filo dell’aquilone, il furgoncino dei gelati va su e giù per la promenade seminando profumo di vaniglia e fragola. Ci sono anche una mezza dozzina di pescatori che non sembrano molto fortunati.
Emilio aveva 11 anni quando scoppiò la Rivoluzione, vide Fidel, Raúl, el Che e gli altri barbudos sulla Piazza grande, appena scesi vittoriosi dalla Sierra: «Ero tanto giovane — racconta — ma mi resi conto di quanto stava succedendo… Benché piccolo, stavo già lavorando nella bottega di un calzolaio per aiutare la mia famiglia. E poi smisi di lavorare per andare a scuola». A 13 anni imbraccia un fucile e va a combattere con l’Esercito Ribelle contro gli yankees alla Baia dei Porci. «I miei figli — conclude — non condividono il mio entusiasmo per la Rivoluzione: ma è comprensibile. La Cuba di oggi non dà ai giovani le stesse opportunità che avevano quelli della mia generazione ».
Un professore universitario lamenta che i giovani si sentono «trascurati» dal governo e dalle istituzioni culturali del Paese, pur avendo conseguito lauree e diplomi al massimo livello. È una società emancipata quella uscita dalla Rivoluzione del ’59: c’è tuttavia chi fa notare che lo spirito rivoluzionario degli anni Sessanta s’è affievolito e sottolinea come sia intollerabile, a Cuba, che ci sia gente che guadagna favolosamente col turismo, mentre altri devono fare tre mestieri diversi al giorno per sbarcare il lunario. Su una cosa i cubani (e le cubane) non transigono: vestir bene, con stoffe di qualità o abiti di buon taglio, seguendo la moda.
Col turismo è l’agricoltura l’altra grande fonte di ricchezza per il Paese: grazie all’esportazione del tabacco e dello zucchero. Ma il tabacco ha bisogno delle piogge che arrivano abbondanti d’estate, insieme ai cicloni, che hanno spesso effetti devastanti. I quattro che hanno investito Cuba l’anno scorso hanno raso al suolo mezzo milione di edifici. Ma per fortuna (e anche grazie all’intelligente lavoro di prevenzione) non ci sono state vittime.
Non stupisce perciò che a Cuba un contadino guadagni più di un medico. È lo stesso Raúl Castro a vigilare sull’agricoltura facendo regolarmente visite alle aziende grandi e piccole e stabilendo un rapporto diretto ed assiduo coi suoi campesinos. Fidel è un idealista, un capo carismatico che il primo maggio affascina colla sua ridondante oratoria milioni di persone. Raúl sta spesso dietro un aratro o nelle stalle col bestiame. Quando lo incontrai, qualche anno fa, mi trattenne più di un’ora per parlarmi della sua mucca, cha aveva mammelle enormi e spillava più latte di una dozzina di mucche messe insieme. Un fenomeno, assicurava con un furbo sorriso negli occhi.
A confronto con i Paesi del Centro e Sudamerica, dov’è di casa il narcotraffico e dove delitti e rapine sono all’ordine del giorno, Cuba sembra davvero un’isola solare, felice. Non c’è criminalità per le strade dell’Avana o di Santa Clara o di Santiago. I bambini possono camminare di notte, soli, senza timore di brutti incontri o cattive sorprese. I ragazzi e le ragazze frequentano la scuola gratis fino a diciotto anni: per poi accedere, se ne hanno voglia e talento, all’Università.
«Noi non crediamo al consumismo come nel resto del mondo — dice Elisa, una ragazza madre che vive col suo bambino in un piccolo appartamento dell’Avana —, ma ci diano almeno i mezzi per sopravvivere. Per me è una lotta quotidiana procurarmi il cibo per noi due. Dicono che a Cuba nessuno muore di fame: ma a volte ho l’impressione d’esserci andata molto vicino».
Mentre si continua a parlare della rimozione dell’embargo e della base americana di Guantánamo, un giornale scrive che «gli Stati Uniti sono un partner commerciale fondamentale per Cuba» e aggiunge: «Senza i beni provenienti dagli yankees e da altri occidentali, tra i quali gli italiani sono in prima fila, i cubani sarebbero alla fame. Sotto il velo di una propaganda in cui nessuno crede più, la vita quotidiana di Cuba è quella di un Paese che non produce quasi nulla. E quindi deve importare il necessario, compresa la frutta tropicale surgelata che viene dritta dalle serre canadesi. Le tessere alimentari offrono sempre meno. Per fortuna c’è il confratello Chávez, che baratta il suo petrolio con medici e istruttori cubani, garantendo così che l’isola non resti al buio. L’unica risorsa economica di Cuba è il turismo. Non più fiorente come qualche tempo fa, ma almeno offre quella valuta pregiata di cui il regime dei fratelli Castro ha disperatamente bisogno».
In tanti anni, il blocco ha solo impoverito i cubani, frenato gli investitori americani, servito la propaganda di regime e delegittimato l’opposizione democratica. I dissidenti che stanno ancora in carcere contro Castro sarebbero stati arrestati e condannati non per reati ideologici contro Castro, ma per aver ricevuto illegalmente delle somme di denaro da parte di commercianti americani.
Oggi nessuno pensa che Washington abbia intenzione di ripetere l’impresa della Baia dei Porci che finì in disastro il 17 aprile 1961: si era in piena Guerra Fredda e gli Stati Uniti avevano forse qualche ragione per considerare Cuba come l’«avanguardia» dell’Unione Sovietica nello Stretto di Florida.
Per risollevarsi dalla situazione comatosa in cui langue, Cuba punta ora tutte le sue speranze sul petrolio che pare di ottima qualità e giace lungo le sue sponde nel profondo del Mar dei Caraibi. Le tecnologie di Petrobras stanno scandagliando giacimenti definiti «promettenti ». Ma i tecnici sostengono che ci vorranno alcuni decenni «per sfruttarli e per inondare Cuba di petrodollari».
(Seconda puntata / La prima è stata pubblicata il 24 maggio)
14 giugno 2009 da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Dicembre 28, 2009, 05:12:16 pm » |
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Reportage
La biblioteca degli asinelli per bambini analfabeti
di Ettore Mo
NUEVA GRANADA (Colombia). La scuola, da queste parti, arriva a cavallo. A cavallo di due asinelli. Si chiamano Alfa e Beto, 12 anni l'uno, 14 l'altro. Li accompagna Luis Humberto Soriano, uno dei pochi maestri attivi nel dipartimento rurale della Magdalena, Nord-Ovest della Colombia, dove la solitudine ha molto più di cent'anni. In groppa invece di sacchi di farina, noci di cocco e banane, dozzine di libri, a cominciare dal sillabario, destinati, oltre ai bambini, alla popolazione semianalfabeta della regione.
Dal lunedì al venerdì, Soriano fa lezione in una scuola comunale di Grenada tra solide pareti, con tanto di banchi, cattedra e lavagna: ma ogni sabato mattina, scortato dai sui fedeli e miti quadrupedi, si mette in marcia verso i villaggi più remoti del contado, frazioncine di poche case di legno raggruppate attorno alla "finca", la fattoria del padrone, dove l'accoglie un coro di ragli, muggiti e belati. Ma gli alunni che lo aspettano sotto un albero nella mini-azienda agricola del La Fortuna sono davvero molto pochi. Troppo pochi per ripagare in qualche modo la generosità della "Biblioburro", la biblioteca degli asini se così la si può definire, che ha accumulato in poco tempo quasi 5 mila volumi.
"Ho cominciato con una settantina di libri - dice Soriano - e adesso la mia collezione privata è di circa 4.800". una vicenda del tutto normale, la sua: quella del ragazzo povero, ma fornito d'ingegno e d'entusiasmo, che si butta anima e corpo, neanche ventenne, nel perseguimento del proprio obiettivo, la promozione della cultura tra le classi più disagiate. L'ho visto commuoversi mentre un ragazzino seduto sotto un'albero, leggeva lentamente, quasi sillabando, Pinocchio: per lui quel burattino che marina la scuola per il gioco dei balocchi non faceva una birichinata, commetteva un delitto.
"La scuola - insiste Soriano - deve insegnare a leggere e scrivere e a far di conto ma soprattutto deve inculcare nei ragazzi i valori della vita. Non c'è futuro per gli analfabeti, che resteranno per sempre fregati. Anche questa annosa lacuna culturale o scolastica non è estranea alle odierne vicende del mio Paese, la guerra fratricida fra paramilitari e guerriglieri e fra le stesse fazioni della guerriglia, che fa morti a palate, ogni giorno".
Col suo misero salario di 350 pesos al mese, il maestro Soriano, 36 anni portati bene, ha poco da scialare. Per pareggiare il bilancio domestico (ma non ce la fa) e mantenere i 3 figli, gestisce, insieme alla moglie Diana, un modesto ristorante nel distretto di La Gloria, che si chiama La casa Politica. Gran parte della sua clientela - allevatori, contadini, camionisti - non sanno leggere il menù. "Vedi - dice scusandosi per la povertà del cibo -, questo è un Paese dove il maestro deve andare a raccattare l'alunno nella sua casa e portarselo in classe perché i genitori non ce lo mandano, anche se la legge stabilisce l'obbligo della frequenza".
Ritiene, tutto sommato, d'essere stato fortunato: "Da piccolo - continua - abitavo con la mia avuelita, la nonnina, e nella sua casa c'erano sempre libri, anche se poco da mangiare". La sua mamma, adesso, è lì fuori, raggomitolata su una sedia, minuta minuta e un po' sudata per il caldo. Dev'essere stata sempre una vita di fame, la sua. Ma è visibilmente orgogliosa del suo "ragazzo". "Ciò che dice Soriano sul fatto che occorre raccattare gli alunni è vero - conferma un suo collega, Arnulfo Bayona, 62 anni, insegnate a Bogotà -. In Colombia si spende di più per la guerra che per l'istruzione e l'educazione, al contrario che nella Cuba di Fidel Castro. Qui il 6,8% del PIL è destinato alle spese militari, al terrorismo, al narcotraffico. Per la scuola si spende meno del 1%. I bimbi colombiani figurano in testa alla graduatoria delle diserzioni dell'aula tra i Paesi del Sud America. L'analfabetismo oscilla tra il 10 e il 12%. Due milioni di famiglie devono pagare i libri per le elementari. Ci sono classi di 45/50 alunni, dalla 1^ alla 5^ elementare, con un solo maestro. Questo paese non ha mai investito nella scienza ed è pure basso l'interesse per la salute. Come canta la nostra Shakira, la Colombia è sorda, cieca, muta".
Immagine totalmente negativa avvallata in parte da Hernando Sanchez, sindacalista e presidente dell'Associazione degli Educatori, forte di 2500 persone tra insegnanti, professori, operatori didattici dalle elementari a livello universitario, che rievoca episodi di violenza negli ultimi 25 anni da attribuire sia all'estremismo di sinistra come di destra, alle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia) come allo ELN (Exercito de Liberacion Nacional), ai Paramilitares e al "Bloque Vencedores de Arauca". Come sempre delitti e massacri. Dieci maestri ammazzati in un sol colpo insieme all'alfabeto.
Sorprende forse che nella profonda letargia in cui è immersa la regione ci sia un polo culturale perennemente attivo come la Bibioburro: assestata in una casa a un solo piano con l'intonaco bianco dove nell'unica disadorna stanza trovi accostati sugli scaffali i libri e gli autori più diversi, in un vertiginoso mèlange. Nella serie "Protagonisti dell'umanità" stanno infatti a braccetto Stalin e Che Guevara, Wagner e Charlie Chaplin, Federico Garcia Lorca e Beethoven.
Riesce anche difficile immaginare quali dei tanti volumi accumulati nella rinfusa e senza un minimo tentativo di selezione potranno scivolare, senza far danno, tra le mani degli alunni-e della Escuela Rural Mixta di La Gloria che stà li accanto, con le inferriate alle finestre: La Peste di Camus, Lord Jim, La capanna dello Zio Tom, Così parlò Zaratustra di Nietzsche, Al capone, Il Padrino? Per chi fosse interessato c'è anche un manuale di veterinaria, che non stona in un Paese dove un giorno all'anno capita di vedere davanti alle porte di una chiesa della Magdalena - la iglesia pentecostal di Planadas - quattrocento asini computamente schierati in attesa di una cerimonia liturgica. E non si tratta, scrive la Rivista Gatopardo, "di un'immagine letteraria come quella dei quattrocento elefanti ambulanti su una bella spiaggia" evocati dal poeta Rubèn Dario, poiché "nella recondita geografia colombiana non si può concepire la vita senza l'asino: che non è solo il sistema di trasporto più usato ma che da cinque anni sta legato alla conoscenza dell'universo". Quindi aggiunge, con chiaro riferimento all'esperienza di Luis Soriano: "Chi avrebbe mai pensato che ad un animale dalla pessima reputazione per quanto si riferisce all'intelligenza sia stato affidato il difficile compito di educare centinaia di bambini nei comuni della Nueva Granada".
Ricordo con commozione la cerimonia di fine trimestre alla Biblioburro, durante la quale Maestro e autorità cittadine in pompa magna hanno consegnato attestati di merito e benemerenza a una dozzina di alunni /e della V^ elementare avvolti nella fluente vestaglia blu di precoci laureandi e col tocco in testa. Sembrava di essere a Oxford. Al tempo stesso non sfuggiva a nessuno che questa semplice festa di premiazione acquisiva un significato particolare tenendo conto dell'immane tragedia dentro cui si è svolto il loro itinerario scolastico. Un'infanzia e un'adolescenza esposte giorno e notte alla più cieca brutalità, commenta il maestro Bayona, come dimostra il fatto che "da gennaio all'ottobre di quest'anno ci sono stati 1539 morti ammazzati a Bogotà e 2500 a Medellin, in gran parte per mano dei paramilitari".
È fatale che con tutto questo scorrimento di sangue quando si vuole indicare un luogo, un paese, una strada, una piazza si faccia automaticamente riferimento a un attentato, un delitto, una sparatoria, il caffè dove è stato ucciso il poliziotto, il ponte su cui è saltata la camionetta, la "finca" dove i parà hanno gozzovigliato dopo la strage, la chiesa e l'altare dove, all'Agnus Dei, è morto il prete.
Tame, città capoluogo del dipartimento di Arauca, 60 mila abitanti, ha sofferto la sua parte negli sconvolgimenti del decennio e si sta ora curando le ferite. Per le guarigione spirituale si è affidata a Padre Alexander, un giovane sacerdote che vediamo dopo la messa, ancora con i paramenti addosso. Ma il piviale viole che lo copre dalle spalle ai piedi non basta a modificare il suo aspetto, che è quello tipico di un bel ragazzo hippy, i capelli lunghi, un cespuglio di barba nera, gli occhi chiari.
Sguscia via rapido quando, incuriosito dal suo look non propriamente ecclesiastico, gli chiedo se sia un seguace di Camillo Torres lungo i sentieri della Teologia della Liberazione. Si limita a dire che la sua sola guida è Gesù e che alla pace bisogna arrivare senza ricorso alla violenza. Ha i piedi per terra il curato hippy di Tame. "Io passo le mie giornate nei barrios miserabili e nelle favelas e sono d'accordo coi campesinos, quando affermano che il primo passo verso la pace è la riforma agraria, sempre invocata e mai concessa in America Latina".
Al momento, il problema più urgente sembra essere quello dell'infanzia, i figli di migliaia di desplazados, gente costretta dai conflitti armati tra guerriglieri, paramilitari, esercito e polizia ad abbandonare le proprie case e ad accamparsi altrove, spesso in condizioni di estremo disagio. E le prime vittime, in questa situazione, sono i bambini. "Certo anche gli adulti devono affrontare angosce e difficoltà d'ogni genere, economiche prima di tutto - ammette Don Alexander -: ma come accostarsi a questi piccoli che hanno visto ammazzare la mamma, il papà, la sorellina e sono usciti sconvolti dall'uragano di barbarie e violenza che non avrebbero mai potuto immaginare, un mondo di vari mostri e vere streghe. Hanno anche imparato un sacco di oscenità verbali che innocentemente ripetono, la malas calabra, le brutte parole. Che fare? Li mettiamo in castigo? Il nostro compito è tentare di recuperare la loro innocenza, un minimo di serenità e dolcezza".
Qui a Tame c'è un orfanatrofio che ospita i figli dei militanti guerriglieri della FARC e dello ELN e al tempo stesso gli orfani dei paramilitari e della polizia. Ai primi, i bimbi colombiani si rivolgono chiamandoli "faruchi" mentre ai secondi hanno appiccicato il nome di "Eleni". Tutto un bel divertimento. Le maestre d'asilo assicurano che per il momento non è ancora scoppiata la guerra fra i due gruppi.
Ma alla fine Alfa e Beto restano gli ineffabili protagonisti di questa storia: che avrebbe avuto ben altro trattamento se l'avesse potuta scrivere Juan Ramòn Jimènez, autore del celeberrimo Platero y yo, che nel 1956 gli valse il Premio Nobel per la letteratura. Nella circostanza qualcuno insinuò, con un pizzico d'invidia, che il Premio sarebbe dovuto andare direttamente al malinconico, bizzoso asinello andaluso, senza il quale il capolavoro del poeta non avrebbe mai visto la luce.
Che sia la buona occasione, per gli Accademici di Svezia, di riscattarsi dall'errore assegnando ai miei due asinelli colombiani il prestigioso riconoscimento? La decisione avrebbe fra l'altro il merito di estinguere una volta per tutte la patente di imbecillità appioppata agli asini in illo tempore dall'Homo Sapiens.
13 dicembre 2009 da corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Dicembre 28, 2009, 05:14:10 pm » |
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Il vice del narcotrafficante Escobar: «Ho fatto uccidere anche mia moglie»
Leoni, vendette e «onore» la legge del bandito Popeye
di Ettore Mo
CÓMBITA (Colombia) — Ha trascorso il diciottesimo Natale e festeggerà per la diciottesima volta l’anno nuovo nel carcere di massima sicurezza di Cómbita, regione di Boyacá, in Colombia. Sta scontando una condanna a 20 anni per una fitta serie di omicidi commessi personalmente o dall’organizzazione criminale in cui è cresciuto fino a diventarne il capo. Centinaia di delitti, ettolitri di sangue rovesciati sulle strade di Bogotá, Medellín, Cali, Antiochia. Ma il conteggio esatto non è ancora possibile.
La spietata legge del bandito Popeye La spietata legge del bandito Popeye La spietata legge del bandito Popeye La spietata legge del bandito Popeye La spietata legge del bandito Popeye La spietata legge del bandito Popeye La spietata legge del bandito Popeye La spietata legge del bandito Popeye Si chiama John Velásquez, ma è passato alla Storia col nome di «Popeye». Vive solo in una delle minuscole venti celle schierate attorno a un cortiletto appena oltre l’ingresso del carcere, le altre diciannove sono vuote: e qui abbiamo avuto il raro privilegio d’incontrarlo. L’intervista è fissata per le 11 e dura esattamente un’ora. Quando usciamo, a mezzogiorno, sulle nostre spalle grava il fardello di una storia di vita e di morte senza eguali. Ma nelle parole del commiato c’è la speranza: «Si Dios quiere, se Dio vuole — dice a bassa voce — fra tre anni torno in libertà».
Quarantasette anni, il fisico per nulla fiaccato dai disagi della clausura, Popeye ama parlare di sé, si sente ancora un protagonista. È stato per anni il braccio destro di Pablo Escobar, riconosciuto nel mondo come il più grande, l’invitto narcotrafficante della Colombia amato dalla plebe come una specie di Robin Hood e «abbattuto» in uno scontro a fuoco con la polizia il 2 dicembre del ’93. Aveva 54 anni. Ai suoi funerali una folla di 20 mila persone.
«Quando l’assassinarono — ricorda Popeye — io ero rinchiuso nel carcere modello di Bogotá. La mia reazione? È stato come t’avessero ammazzato la mamma cento volte. Pablo Escobar era un leader forte e buono. Era un leone. Uomo del popolo, non rinnegò mai le proprie origini campesine. Se uccideva o ordinava di uccidere, non lo faceva mai per futili motivi. Lo faceva per la causa: e la Causa era combattere lo Stato per conseguire la riforma della Costituzione e porre fine, una volta per tutte, all’estradizione dei colombiani verso gli Stati Uniti d’America. E questa, a sedici anni di distanza, è ancora oggi la nostra Causa».
La presenza di due italiani stuzzica l’interesse del detenuto di Cómbita che introduce di colpo l’argomento mafia, curioso forse di capire se il fenomeno abbia le stesse caratteristiche in due Paesi così diversi. Ma stabilisce subito che, per lui, la mafia colombiana è mucho más fuerte, molto più forte dell’italiana. E ce lo spiega: «Fecero tanto chiasso in Italia quando il bandito Giuliano ammazzò 3 carabinieri. Noialtri, in Colombia, ne ammazzammo 540. Ne ferimmo 800 e mille disertarono per paura le file della polizia. Eravamo un esercito di straccioni ma guidati da un leone, Escobar». Se mai venisse in Italia, aggiunge, «la mia meta sarebbe la Sicilia, perché mi sono identificato col bandito Giuliano, anche se io sono molto più forte ed efficiente di lui». È al colmo dell’esaltazione e nella foga dell’entusiasmo mi abbraccia frantumando la mia senilità e non oso confessargli che non ho fatto il militare e sono solo un piemontese.
Ripercorrendo la sua carriera «eroica», sostiene di non essere cinico quando afferma di essere stato «un assassino professionista», e di aver ucciso per «rispettare un contratto». Agiva nello spirito della nuova Costituzione, promulgata nel 1991. Risultato? «Noi, duemila banditi in lotta contro lo Stato siamo riusciti a travolgerlo e sconfiggerlo in sette anni: ciò che non ha potuto fare in 40 anni la guerriglia, benché le Forze Rivoluzionarie Farc avessero a disposizione quarantamila uomini, bene addestrati e armati di tutto punto».
Non è stata un’esistenza facile, la sua: vissuta, fin dall’adolescenza, in un clima di violenza estrema che grava tuttora sulla Colombia. «La mia prima vittima— racconta— fu l’autista di un autobus. Avevo 17 anni. Mi pagarono 2 mila dollari. Gli sparai in testa con un revolver 38. Due soli proiettili, gli altri 4 li tenni in canna per la fuga. Lo feci fuori come fanno i sicari di prima classe, conficcandogli due pallottole dal sopracciglio in su: solo i burini, gli incapaci, sparano dal sopracciglio in giù. Cosa provai? Niente. Avevo il fegato per farlo, l’istinto per ammazzare. L’ultimo colpo l’ho sparato nel ’92, al Castello di Medellín, per difendere Pablo Escobar».
In un mondo che pullula di assassini, quasi non riesce a comprendere, Popeye, l’accanimento di tanta gente che invoca contro di lui la massima pena, e la butta in politica: «Sembra che tutti mi vogliano morto o quanto meno condannato all’ergastolo— sbotta —. Ma io non vedo alcuna differenza tra una mia bomba e quelle sganciate dai Nordamericani sull’Iraq o sull’Afghanistan. Siamo tutti e due dei banditi. Perché allora non chiedere la pena di morte per George Bush o per il Nobel della Pace señor Barack Obama, che ha inviato a Kabul altri 30 mila soldati. Non sono essi 30 mila assassini? Invece, al ritorno a casa sono ricevuti alla Casa Bianca dalla banda presidenziale e gli danno pure la medaglia».
Quando gli chiedi se ci fu mai un momento di contrasto o di conflitto col grande capo, la risposta — negativa — è come avvolta in un sorriso agrodolce: «Devo tornare ai ricordi di gioventù — risponde Popeye — quand’ero molto forte e molto pazzo e avevo molto potere emolta adrenalina nel sangue. No, nessuno di noi ha mai tradito Escobar, benché ci fosse su di lui una taglia di 5 mila dollari da parte del governo nordamericano e di 10 milioni da parte dei suoi nemici. Però c’è di vero che l’abbiamo lasciato solo in un momento difficile, siamo stati dei gran vigliacchi e questo è imperdonabile».
Come prevedibile, l’emozione più grande scaturisce verso la fine del colloquio quando Popeye si rassegna ad affrontare, per l’ennesima volta, il capitolo dell’uccisione di Wendy Echavarría Gil, sua moglie, voluta, decisa e ordinata dal genio del male Pablo Escobar. Un dramma di dimensioni bibliche ma realmente accaduto solo qualche anno fa e di cui il solitario ospite della cella numero 17 è stato l’unico autore e testimone. Da come parla e pronuncia il nome di Wendy si capisce che Popeye ne è ancora innamorato. La descrive «esageratamente bella, alta 1,90, mora, i capelli sciolti sulla schiena fino alla cintura». Però alla fine confessa di averla fatta uccidere. La sua voce è metallica e non tradisce emozioni quando racconta succintamente il triste epilogo: «Wendy era stata l’amante di Pablo, che l’aveva poi lasciata e che lei alla fine odiava perché l’aveva costretta ad abortire. Ma quando io la vidi persi in un attimo la testa e il cuore. Ero inoltre orgoglioso di avere con me la donna che era stata tra le braccia del Capo, anche se mi accorsi che lei era attratta solo dal mio denaro. Poi le cose cambiarono. Il Patrón mi fece sapere che Wendy faceva il doppio gioco e che non solo mi tradiva ma filtrava informazioni ai narcotrafficanti suoi rivali e nemici. Emi ordinò di ammazzarla. Io però non ebbi il coraggio di farlo e affidai l’incarico ai miei sicari». Che la eliminarono a colpi di revolver, sparandole in testa.
Gli ho chiesto se prova rimorso per quel che ha fatto, se è pentito. «Certo che lo sono — ammette senza alcuna esitazione —. Sono un uomo che dice le cose con franchezza. Sono un vero antiocano, vengo da una terra forte, che ha dato alla luce i più grandi banditi della Colombia, come Pablo Escobar o Carlos Castaño Gil. Sono pentito e sto cercando un’altra vita, lontano dal crimine. Non ho più voglia di ammazzare nessuno...». E quali sono i progetti del redento señor John Jairo Velásquez? «Voglio farmi dei nuovi amici. Voglio camminare per strada. Voglio mangiarmi un gelato, addentare una mela. Voglio andare al cinema. Voglio andare in chiesa. Voglio andare in Sicilia. Voglio fare tutte le cose che ho fatto prima di finire dietro a queste sbarre. Però non mi pento di essermi messo in questa situazione perché volevo l’avventura e me la son gustata tutta. La mia nuova avventura, quando fra tre anni uscirò, sarà quella di agire con coraggio e disciplina per non farmi ammazzare».
Sarà un po’ dura, con tutta la gente che l’aspetta... «Non ho paura. Io sono molto forte e so come e dove nascondermi».
Nei suoi buoni propositi, c’è di chiedere perdono alla valanga di genitori, figli, parenti, amici di centinaia di famiglie gettate nel lutto negli anni «eroici», quando combatteva per la Causa. Comprese quelle che piangono i 107 morti del Boeing 727 dell’Avianca, esploso in volo il 27 novembre 1989. «Proprio ieri— afferma indignato Popeye, che respinge ogni coinvolgimento nell’attentato — era qui, seduto con me, il figlio di una delle vittime».
Durante la detenzione è sopravvissuto a sette attentati, tutti sventati contro «i peggiori assassini del mondo, sicari e narcotrafficanti». Ma nemica ancora peggiore è stata la solitudine. Nessuno ha mai fatto visita a La Catedral, soprannominata il «carcere a 5 stelle». Non la seconda moglie che dopo la separazione si è trasferita a New York dove vive tuttora; non il figlio che ha ora 14 anni e che vide l’ultima volta quando di anni ne aveva 7; e neanche l’ultima, occasionale morosa.
Secondo Popeye anche il mondo del narcotraffico è cambiato, anche «se tutti giocano a far Pablo Escobar» e «tutti si stanno ammazzando senza rendersi conto che questa è una Colombia nuova, non quella degli anni Ottanta, che le istituzioni si sono rafforzate e che la malavita si trova di fronte una macchina della polizia "più" poderosa che in passato». Sembra improbabile, nelle attuali condizioni, che «possa riemergere una struttura come quella di El Cartel de Medellín, nata grazie al carisma del suo Capo, «che aveva rapporti con tutti i Paesi dell’America Latina».
Lontani i tempi in cui i Baroni della droga colombiana gestivano a Villa Lorena, nella periferia di Cali, uno zoo in cui tigri e leoni avevano una spiccata predilezione per la carne umana: cibo cui provvedevano i Narcotrafficanti in lotta fra loro. Si favoleggia che una di queste belve, il leone Rumbero, fosse allevato con una dieta a base di cocaina, ecstasy e marijuana, e che Pablo Escobar pianse il decesso di uno dei suoi ippopotami, abbattuto per vendetta a fucilate.
C’è poi la storia, reperibile sui ritagli di vecchi giornali inglesi, di un insolito traffico di stupefacenti effettuato attraverso i rettili: quantità di eroina e cannabis inserita nei serpenti (vivi) e spedita senza controllo oltreoceano. AMiami sono stati confiscati grossi carichi degli stessi rettili che avevano sottopelle (si fa per dire) cocaina per il valore di 26 milioni di dollari.
28 dicembre 2009 da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Gennaio 04, 2010, 05:44:26 pm » |
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Nessuno smeraldo nella melma nera
La desolazione dei minatori di Muzo
In Colombia un’armata di disperati lotta per trovare pietre di valore, fra trafficanti e contrabbandieri
di ETTORE MO
MUZO (Colombia) — Una manciata di case bianche sulla montagna nella periferia occidentale del Paese, regione di Boyacá: così appare Muzo, 800 metri d’altitudine e neanche 7000 abitanti, uno scalcinato «pueblo» della cordigliera andina ma con un sottosuolo tanto ricco da assicurargli il titolo di capitale mondiale degli smeraldi. Che, insieme alla cocaina, costituiscono l’altra più grande e rimunerativa merce da esportazione della Colombia.
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La prima tappa nell’incessante flusso delle pietre, estratte in prevalenza dalle miniere di Muzo, Coscuéz, è all’Emerald Emporium, nel brulicante quartiere degli smeraldi di Bogotà, all’angolo tra la Settima e l’Avenida Jimenez, dove la merce passa di mano in mano sotto gli occhi dei grandi e piccoli trafficanti, contrabbandieri di lusso o di piccolo cabotaggio, più una marea di ladroni e ladruncoli. Ma lo stesso, il 60% degli smeraldi in commercio lascia la Colombia per finire nelle gioiellerie dell’Europa e degli Stati Uniti, ma anche e soprattutto — secondo le conclusioni di un sondaggio— in Giappone e nei Paesi Arabi, dove la richiesta è maggiore: mercato immane con un ricavo complessivo che si aggirerebbe (il condizionale è d’obbligo) sui 300 milioni di dollari. «Queste gemme— disse un giorno il mitico, ricchissimo "Zar degli smeraldi", Victor Carranza — fanno diventare verdi d’invidia perfino i diamanti». L’autore della battuta, che ha passato la settantina, è proprietario del 50% dei giacimenti nella regione e pur continuando a trastullarsi senilmente nei giochi di società ha avuto il merito di imporre una tregua alla «guerra verde» (per il controllo dei preziosi) che durava da anni e aveva già fatto oltre 6000 morti.
Per gli storici più pessimisti, lo smeraldo è stato sempre inzuppato nel sangue e pertanto il suo colore dovrebbe essere il rosso e non il verde. Quando, nella seconda metà del 1500, i conquistadores spagnoli sbarcarono nel Nuovo Mondo trovarono le prime pietre nell’esofago delle galline che gli indios avevano fatto loro inghiottire, ritenendolo il nascondiglio più sicuro: e fu la strage degli innocenti bipedi. Una storia cruenta non ancora conclusa, come stanno a confermare cronache recenti: col risultato che l’80% della popolazione locale (regione Boyacá) campa tuttora clandestinamente sull’attività smeraldifera per l’estrazione, il commercio e l’esportazione della magica pietra che Giulio Cesare teneva sul petto — così almeno si favoleggia — per attenuare la veemenza del male di cui soffriva, l’epilessia.
Ma è sufficiente un’escursione nella valle del rio Minero, un fiumiciattolo rabbioso, tra case accartocciate nei boschi senza vetri alla finestra e coi tetti di lamiera per rendersi conto che alla violenza delle bande armate degli anni Sessanta è subentrato ora il dramma della povertà estrema e della più nera miseria. Le bocche ripetono con straziante monotonia lo stesso lamento: non c’è lavoro, non c’è pane, si va a letto a pancia vuota, la scuola è chiusa. E se la campana suona amorto, dice il sagrestano, nessuno ormai si chiede più per chi abbia suonato. Questa l’atmosfera di Muzo, fondato dagli spagnoli — si legge nel sillabario — il 20 febbraio del 1559. Trovo alloggio in uno dei due motel, con vista sull’oratorio ridondante di cantidi Natale, godo della protezione di tre poliziotti armati di manganello e semai cercassi evasioni mi dicono che potrei scegliere fra sette bordelli. Qui approdano ogni giorno i cercatori di smeraldi, ognuno animato dalla stessa speranza o illusione: trovare la Pietra, ma quella grande grande e favolosamente limpida e luminosa, in grado di catapultarli di colpo sullo sconosciuto pianeta ricchezza.
Li chiamano «guaqueros», termine intraducibile che — precisano i linguisti — deriva da «guaca», parola cui ricorrevano gli indigeni per definire i tesori che seppellivano sotto terra durante la dominazione spagnola. Per sei giorni la settimana, ogni mattina alle sette, questa armata di disperati salta giù dal letto e affronta in massa, sempre correndo e spintonando, l’ardua salita di rocce e fango che porta alla sommità della valle dove s’aprono i tunnel d’ingresso alle miniere. Una valanga di gente che ricorda le furiose galoppate dei bufali nei film western. Ma è proprio a questo punto, quando spuntano i carrelli appena usciti dalle viscere della terra e colmi di melma nera dove potrebbe ancora nascondersi qualche pietra di valore sfuggita al primo setaccio fatto dal personale stesso delle proprietà, che la veemenza della lotta, dei corpo a corpo per riempire il proprio sacchetto di plastica, lascia sbalorditi. Sono grovigli umani, braccia che s’intrecciano, mani che s’allungano minacciose sopra le teste, occhi sgranati per lo sforzo e il dolore. Poi, finita la rissa, ognuno immerge il proprio sacco nell’acqua del ruscello e versa il contenuto sulla sponda, setacciandolo invano con le dita: ma, come sempre accade, nessun bagliore emergerà dalla pozzanghera.
Avere un lavoro, in queste latitudini, è già un privilegio: ma le condizioni dei minatori colombiani sono difficilmente accettabili. Intanto, nessuno riceve un salario fisso, mentre l’azienda si limita a provvedere «cibo e unmaterasso» e a equipaggiarli con stivali di gomma, casco e picozza d’acciaio per cercare nella roccia la «vena buona». Gli operai sono inoltre autorizzati a entrare nel tunnel degli smeraldi e a tenersi «ciò che trovano ma solo dopo che sono usciti i capi con il meglio della produzione». Non si capisce davvero quale senso di gratitudine possano suscitare simili concessioni, che nessun sindacato europeo sarebbe disposto ad accettare. C’è poi un ultimo particolare che sottolinea ulteriormente la magnanimità dei padroni. «Qualora si trovasse un oggetto che supera i 400 dollari — sta scritto — la restituzione dovrà essere immediata».
Difficile scoprire le ragione di fondo che spingono tanta povera gente a cercar scampo in solitudini estreme come Muzo e Borbur o Mata de Café, strano nome di un villaggio che sta in bilico su un dirupo e sembra in procinto di buttarsi giù sotto da un momento all’altro, nelle acque del Minero. «Arrivai qui la bellezza di 35 anni fa — racconta Angel Mondiata, più noto come El Caballo, che adesso di anni ne ha 74 —. Avevo sentito parlare di questa miniera e decisi di trasferirmi. Mia moglie non mi ha voluto seguire e mi ha lasciato, è rimasta a Bogotà coi nostri figli. Non ci siamo mai più rivisti. Qui c’era lavoro e guadagnavo abbastanza per sopravvivere. Ma adesso sono vecchio, stanco emalato e non so proprio dove altro andare». Occhi ancora vivaci sotto due folte sopracciglia nere come il carbone, la faccia vangata da rughe profonde. Zoppica vistosamente. Colpa di un incidente avvenuto dieci anni fa, quando, scendendo dalla montagna con un sacco in spalla, è precipitato. «Mi son rotto il femore della gamba sinistra — spiega —. Se non sono morto è per la misericordia di Dio. Qui ho visto morire tanti per la malaria, molti altri sono stati ammazzati e anch’io ho sofferto molto. Qui però mi sento totalmente libero. In città non voglio più tornare, mai più. Sarebbe come vivere in prigione».
Più esuberante l’esistenza di una protagonista femminile, la signora Caponera, che adesso naviga sui sessanta, donna energica, determinata che candidamente confessa: «Nella mia vita ho fatto di tutto, meno che la puttana e la ladra». È stata anche — ammette — nel giro del narcotraffico e del contrabbando e ha conosciuto il lusso, due macchine a disposizione, l’autista, la servitù in casa. Ha avuto un sacco di amanti e anche un marito sempre ubriaco emanesco cui un giorno ho rotto la testa a randellate. Ha fatto solo 6 mesi di scuola, completando successivamente il tirocinio scolastico sotto la guida di un prete che però riservava maggiore attenzione al suo corpo che alla sua mente. Piantato in asso il curato, Caponera si sarebbe buttata con entusiasmo nel mondo degli affari ed eccola approdare sulla terra delle miniere nella stagione d’oro della «guaqueria» divenendo una delle più intraprendenti «esmeralderas» accanto a Sandra Rodriguez e a Luz Marina detta anche «la gatta» per il verde smeraldo dei suoi occhi. Era scontato che durante i conflitti degli anni Ottanta, quando i narcotrafficanti cercarono di cacciare i minatori dai tunnel di Muzo, Casquéz e Chivar gravidi di smeraldi, e nelle vicende che seguirono, dovesse riemergere il problema del lavoro infantile, visto che fino al 2008 «208 bambini— sostiene la psicologa del Municipio di Muzo, Elvira Forero Hernandez — hanno prestato la loro opera come "guaqueros" accanto ai propri genitori. Ora sono in grado di affermare che negli ultimi 5 anni il numero dei nostri minatori in erba è stato ridotto del 90 per cento».
Già nel 2008 — puntualizza la signora — 4.215 bambini, bambine e adolescenti beneficiarono, insieme alle loro famiglie, del programma di azione intrapresa dalle autorità per prevenire e infine mettere definitivamente al bando l’impiego dei mini-operai, come avveniva nell’Inghilterra industriale dell’Ottocento, quando i bambini erano costretti a scendere a lavorare nelle carbonaie. Se l’aspetto socio-politico della Colombia, qui succintamente esposto, lascia perplessi, quello dell’ambiente naturale non desta preoccupazione. Come in tutti i Paesi attraversati dalla cordigliera delle Ande, l’aria che si respira è buona. Secondo gli scienziati, un’insolita concentrazione di biodiversità entro i confini colombiani ha fatto sì che su questo territorio ci siano più specie vegetali e animali che in tutta l’Europa e che il totale dei suoi volatili superi di una volta e mezzo quella dell’intera Africa, a sud del Sahara, e costituisce il doppio di quella del nord-america. Ma i primati assoluti di questo paradiso terrestre non si fermano qui: gli increduli devono rassegnarsi al fatto che un solo ettaro di bosco tropicale in queste latitudini contiene 200 specie di alberi, più di un intero bosco canadese.
I 45milioni di colombiani hanno molte ragioni di ringraziare il buon Dio per aver dispensato loro tanti privilegi come un mare infinito di orchidee o stormi di Vampiri dalle ali bianche unici al mondo: o per aver disseminato nelle acque dei loro mari e fiumi un patrimonio ittico incommensurabile emiriadi di farfalle, rettili e mammiferi. Una manna inesauribile per ecoturisti e pescatori muniti di canna e di pazienza. Da Muzo, più che il fulgore degli smeraldi mai visti, porto in ricordo le facce nere dei muratori che all’uscita del tunnel di bianco hanno solo i denti, se mai sorridono. E se ne stanno lì immobili per qualche minuto. Sconfitti, torturati dalla luce. Per essere subito risucchiati nel buio della miniera.
04 gennaio 2010 da corriere.it
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« Risposta #25 inserito:: Marzo 05, 2011, 04:29:53 pm » |
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L'anticipazione Ettore Mo e il bagaglio del giramondo La vita del grande inviato raccontata a Dixit Mondo MILANO - È stato sguattero a Parigi, cameriere a Stoccolma, barista nelle isole della Manica, insegnante (abusivo) di francese a Madrid, infermiere a Londra e steward di prima classe su una nave mercantile britannica. Il bagaglio del giramondo, le sue esperienze. Ettore Mo è stato tutto questo prima di diventare un giornalista, l'inviato di punta del Corriere della Sera e,soprattutto, il più famoso fra i corrispondenti di guerra italiani. A questo grande personaggio del giornalismo italiano è dedicata la seconda puntata della serie di Dixit Mondo, A Voi La Linea, in onda domenica 6 marzo alle 21 su Rai Storia. IL PERSONAGGIO - Piccolo di statura ma grande nella scrittura, Mo ha consumato la suola delle sue scarpe in quasi tutti i conflitti degli ultimi 40 anni: è salito sui barchini che solcavano lo Shatt El Arab ai tempi della guerra Iran-Iraq; ha marciato coi mujahidin di Massud, durante la guerra santa in Afghanistan contro l’Armata Rossa; ha sopportato il caldo in Somalia e il freddo in Cecenia, ha mangiato polvere sul Golan e bevuto Slivovitz in Bosnia, sempre con la sua Lettera 22 in valigia e in testa la curiosità di un bambino. Dixit racconterà alcune di queste venture. Come a Grozny, chiuso nel bunker del presidente Dudayev durante la I Guerra cecena, con Milena Gabanelli, ad interrogarsi sulla prosa da usare per poter raccontare al meglio avvenimenti così drammatici: «A volte servirebbe un po’ di castità verbale – dice Ettore Mo – perché ci sono situazioni che non si possono descrivere. E non ci sono aggettivi che possano aiutarci. Bisogna scegliere le parole con una purezza incredibile». Redazione online 04 marzo 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - www.corriere.it/cultura
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« Risposta #26 inserito:: Agosto 28, 2011, 05:08:39 pm » |
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Il reportage L'ultima poesia di Javier per il figlio ucciso dai narcos Il dolore e ha posato la penna: si è messo in marcia, non si è più fermato ETTORE MO CITTÀ DEL MESSICO - «Mio figlio era un niño ingenuo e con un'anima nobile». Lo chiama ancora così, niño , bambino, anche se quando lo ammazzarono, Juan Francisco aveva già compiuto 24 anni. E ricorda pure che era «chiquito», piccolo piccolo, quando sognava un ingaggio nella Cruz Azul (squadra campione di Serie A in Messico), ma non ce la fece perché le sue ginocchia erano assai più deboli e vacillanti del suo spirito. Così si esprime il poeta messicano Javier Sicilia, 56 anni, onorato due anni fa nel suo Paese con il massimo premio letterario. La notizia della morte di Juan Francisco gli giunse per telefono di prima mattina, mentre si trovava nelle Filippine per una conferenza. «Come sempre - lamenta ora - le brutte notizie arrivano all'alba». È un uomo di statura leggermente inferiore alla media, gracile, gli occhiali, pochi e già un po' grigi i capelli. Quel mattino, subito dopo la telefonata, giurò a se stesso di non scrivere più poesie. L'ultima, dedicata al figlio, comincia col verso «Il mondo non è degno di parole» e termina col saluto estremo a Juanelo (così lo chiamava con tenerezza paterna) attraverso «il tuo e il mio silenzio». Il massacro ebbe luogo lo scorso 27 marzo, quando otto energumeni dello scellerato gruppo di narcotrafficanti soavemente etichettato «Pacifico Sur» irruppero in un bar di Cuernavaca e, dopo averli imbavagliati e insaccati come merce da scarto coi nastri adesivi, portarono via una mezza dozzina di giovani, tra cui Juan Francisco, che furono poi trovati cadaveri la mattina seguente in un campo fuori città. Il dramma ha aperto molte ferite nel cuore di Javier Sicilia, che sanguina ancora: «In realtà - ammette ora - ne rimasi sconvolto e la mia creatività poetica ne fu come asfissiata. Poi gradualmente mi sono ripreso e ho pensato che sarebbe stato più utile svolgere un'attività che richiamasse l'attenzione della gente sui problemi concreti: come il livello d'impunità, spaventoso, la corruzione dilagante nell'amministrazione e nella polizia, l'incontenibilità del narcotraffico che in quattro anni ha fatto più di 40 mila morti, per lo più civili innocenti». Per dar corpo e maggior visibilità alla sua protesta, il poeta ha promosso e preso parte personalmente a due lunghe «marce per la pace»: ovunque in strada, a Città del Messico come a Cuernavaca, a Durango come a Ciudad Juárez, si è riversata una marea di persone, inscenando uno spettacolo festoso ed esuberante, anche se il richiamo restava strettamente politico. Alla fine anche la personalità di Javier Sicilia ha subito una metamorfosi, nella quale l'uomo politico ha avuto decisamente il sopravvento sul letterato. Ma non si tratta di una carriera. La sua è piuttosto una missione laica, civile. Dalle pagine del settimanale Proceso , a cui collabora, scaglia in continuazione frecce roventi contro i leader e padroni del vapore, non importa a quale schieramento appartengano. Non risparmia neanche il capo dello Stato, con cui mantiene tuttavia rapporti di amicizia: «Felipe Calderón - questa l'accusa - prese una decisione terribilmente negativa quando, nel 2006, dichiarò guerra ai capi del narcotraffico, perché loro, almeno, riuscivano ad assicurare qualche controllo, un certo equilibrio... Risultato? Spuntarono fuori una gran quantità di piccoli gruppi malavitosi, aumentarono i sequestri di persona così come gli immigrati clandestini sempre provvisti di documenti». Pur sapendo che gran parte della popolazione era contraria, Calderón scelse la guerra semplicemente perché, sottolinea cinicamente il poeta, «essa gli offriva la possibilità di legittimare la propria presidenza». D'altra parte, dopo 70 anni di governi apparentemente democratici, storici ad analisti sono concordi nel ritenere che l'obiettivo di una vera, autentica trasformazione democratica del Messico non sia mai stato raggiunto e che il Paese non sia mai riuscito a liberarsi dalle strutture «mafiose, ostili a ogni riforma». «Niente riuscirà mai a colmare il vuoto che Juanelo ha lasciato dentro di me - dice ancora Javier, mentre dalla finestra contempliamo un paesaggio senza vita, sfiancato dalla calura -. È stato come se fossi affondato di colpo in un pozzo nero, nel buio più denso. Una sola cosa mi ha dato qualche sollievo: il fatto che la sua morte abbia scosso la popolazione, l'abbia svegliata. Per anni sulla violenza, sui desaparecidos, sui morti ammazzati era calato un silenzio totale, quasi fossero avvenimenti normali, e quei pochi che osavano denunciarli venivano subito zittiti. Il mio chiquito ha scosso invece tutti quanti, come avessero recuperato le proprie riserve di umanità. Durante le marce ho visto piangere molta gente». Ho superato le resistenze di Javier Sicilia, piuttosto restio a «concedersi» ai giornalisti, parlandogli di Montale, che per anni firmò incomparabili elzeviri sulla terza pagina del Corriere , e il colloquio col poeta messicano diventa allora quasi una piacevole chiacchierata fra vecchi amici. Figlio di un poeta molto pio, che per mezzo secolo ha scritto versi ispirati da profondi sentimenti religiosi, Javier non ha avuto difficoltà a inserirsi, ancora giovane, nel mondo delle lettere e ad affermarsi con una fitta produzione di testi che nel 2009 gli valsero l'Aguascalientes, il più ambito e prestigioso premio di poesia del Messico. «Non appartengo ad alcun partito», dichiara, anche se si sente vicino al Movimento zapatista e si autodefinisce «anarchico nel senso buono della parola». Non sono mancati scontri con le autorità ecclesiastiche, ma nessuno potrà mai negare che le sue opere, come i libri sacri, contengono pagine di grande, purissima poesia: da sfogliare, magari, col sottofondo del gregoriano. Sembra evidente che l'obiettivo comune dei due contendenti - presidente e scrittore - sia quello di ricostruire le istituzioni sociali e giuridiche del Paese prima che la guerra del narcotraffico conduca a risultati disastrosi e irreparabili. Ma il velato ottimismo, che traluce appena alla fine dei loro incontri a tu per tu, non offre sufficienti garanzie. In una recente dichiarazione, Felipe Calderón si è particolarmente soffermato sul problema della droga e della gioventù: «I nostri ragazzi stanno morendo - ha detto - siano essi narcos o innocenti. Ciò che possiamo esibire al momento è un esercito di gente giovane senza lavoro né prospettive». Dalle radiografie comparate di due delle città-martiri del Messico che si contendono il primato del sangue versato negli ultimi tre anni ha avuto la meglio Ciudad Juárez, con 2.204 assassinii nel 2009 e 2.661 nel 2010, più 451 morti ammazzati quest'anno. Tijuana, altra città di confine e di bordelli, la segue con 882 vittime nel 2008, 655 nel 2009, 812 nel 2010. Per quelle del 2011, la lista dei defunti è ovviamente incompleta, anche se le nostre fonti sul posto assicurano che promette bene. Nel frattempo, Ciudad Juárez si è aggiudicata il titolo, meritatissimo, di «epicentro del dolore». La richiesta, da parte di Javier Sicilia al presidente, di costringere alle dimissioni, per incapacità professionale, il direttore del dipartimento della Sicurezza è caduta nel vuoto come tanti altri appelli, ritenuti ugualmente urgenti. Sotto pressione anche gli Stati Uniti, accusati di «ipocrisia», perché mettendo a disposizione della guerra del narcotraffico armi e tecnologia finiranno con facilitare e rendere più rapido il transito della droga oltre confine: prova ne sia che il consumo della merce proibita continua ad aumentare negli States in misura allarmante. Chiedere al poeta in quale dei suoi libri sia riuscito a dare di sé l'immagine più vera e completa o dove abbia meglio condensato i suoi tormenti, le sue angosce e, perché no?, anche le allegrie, se mai ci fossero state, di uomo e scrittore, è fiato (quasi) sprecato. Ma ugualmente lui risponde, con un sorriso che viene da molto lontano: «Sarebbe come domandare a un padre di famiglia quale sia il suo figlio preferito. I libri sono i miei figli, perciò non trovo una risposta. Ma non è Desert Triptych , del 2009, premiato con l'Aguascalientes. Forse mi sono più compiutamente raccontato nel romanzo Reflections of the Dark (Riflessi nel buio), del '97». Non sorprende che, respirando fin da piccolo molta aria di sacrestia, Javier abbia preso seriamente in considerazione la possibilità di indossare la tonaca per il resto della propria vita. Ma alla fine la letteratura ha prevalso e il Messico ha avuto un sacerdote in meno e un poeta in più. Il ricordo del figlio non lo abbandona mai, anzi lo aiuta a ripescare nella scatola delle memorie particolari apparentemente insignificanti: «Contrariamente a me, non leggeva molto, anche perché soffriva di dislessia. Perciò, invece di leggere, ascoltava molto, bevendo per ora dalla bocca degli altri, amici o conoscenti, specialmente se discutevano di letteratura, poesia o musica». Lo fa rivivere, Juanelo, in modo così vivido che ci sembra di averlo accanto, seduto in poltrona, con tutta la sua giovinezza addosso: «Quando lo vidi per l'ultima volta, prima di partire per le Filippine - racconta - gli dissi: "Ti voglio molto bene e sono orgoglioso di te e degli studi che hai fatto"». Dei ragazzi che morirono vicino a lui quel 27 marzo, bastonati e soffocati, ne ricorda in particolare tre, perché «erano i compagni d'infanzia e di scuola, stavano sempre insieme, giocavano, studiavano e anche litigavano...». La vocazione pacifista di Sicilia è stata alimentata, per sua stessa ammissione, dall'esempio di Gandhi e della sua rivoluzione non violenta: «E infatti - riconosce il poeta - in questa nostra lotta per la pace sono molti gli elementi gandhiani che ci fanno da guida». Non tutti sembrano tuttavia d'accordo con questa filosofia che esclude la lotta armata in un Paese dal passato tanto bellicoso come il Messico. E non sorprende che Javier cominci a nutrire qualche timore sulla propria incolumità: «Sì - ammette congedandomi con un sorriso enigmatico - come tanti altri miei concittadini ho una gran paura di essere ammazzato. Ma finora, grazie a Dio, non ho ricevuto alcuna minaccia». ETTORE MO 28 agosto 2011 09:28© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/cronache/11_agosto_28/poesia-javier-figli-uccisi-narcos_e5d57a7a-d146-11e0-b62d-1ebafd8b4f13.shtml
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« Risposta #27 inserito:: Settembre 09, 2011, 06:03:38 pm » |
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11 SETTEMBRE 2001/2011 Il Leone (Gentile) del Panshir prima vittima del Terrore Massud, l'eroe afghano della resistenza antisovietica ucciso il 9 settembre Di ETTORE MO La vita del cronista, specie nella categoria dei corrispondenti di guerra, comporta molti rischi ma al tempo stesso offre loro l'opportunità di assistere ai maggiori avvenimenti internazionali e conoscerne i protagonisti. Io, ad esempio, ho avuto la fortuna di imbattermi trent'anni fa nel grande comandante afghano Ahmad Shah Massud e, da allora, di frequentarlo assiduamente fino al giorno della sua tragica fine, il 9 settembre del 2001. Quanto segue è un racconto fitto di ricordi (un misto di misteri gaudiosi e dolorosi) oltre che un omaggio al «leone del Panshir» nel decimo anniversario della sua scomparsa: una belva tutto sommato mansueta, il nostro eroe, che si aggirava nella valle natia, teatro di tutte le sue imprese, e poteva affermare poco prima di morire di «non aver mai giustiziato un prigioniero né aver mai dato ordine di farlo». Massud rimaneva perennemente inchiodato sui monti e nelle trincee del suo Panshir. Ed era proprio lassù che dovevi andare, se volevi incontrarlo. Tre settimane di cammino (in gran parte a piedi o con l'ausilio di mezzi di fortuna, un carretto, un furgone o magari un camion che procedeva rantolando sull'ultimo, ripidissimo tratto) per coprire circa 130 chilometri di strada. Arrivammo a Bazarak - il suo villaggio natale - che era già notte. Massud stava seduto al tavolo con un gruppetto di amici: parlavano a bassa voce mangiando noccioline e uva passa. Mossud, Leone (gentile) del Panshir prima vittima del Terrore Mossud, Leone (gentile) del Panshir prima vittima del Terrore Mossud, Leone (gentile) del Panshir prima vittima del Terrore Mossud, Leone (gentile) del Panshir prima vittima del Terrore Mossud, Leone (gentile) del Panshir prima vittima del Terrore Mossud, Leone (gentile) del Panshir prima vittima del Terrore Mossud, Leone (gentile) del Panshir prima vittima del Terrore Mossud, Leone (gentile) del Panshir prima vittima del Terrore «E tu chi sei?», mi chiese in farsi (persiano) sgranando gli occhi. Parlava bene il francese, che aveva imparato a Kabul fin da ragazzo e quindi al liceo della capitale. S'era poi iscritto alla facoltà d'architettura, ma non riuscì a conseguire la laurea, travolto com'era dagli «impeti rivoluzionari» che, scriverà un suo biografo, «gli avevano mandato in fiamme il cuore e il cervello». Era in sostanza un carbonaro, una testa calda. La crociata di Massud era cominciata nel '75 con un tentativo di sollevamento nel Panshir, subito fallito. La stessa cosa e lo stesso fallimento ebbero luogo quattro anni dopo, quando il potere sembrava saldamente nelle mani del presidente Nur Muhammad Taraki e del primo ministro Afizullah Amin. Al tempo del nostro primo incontro, nell'81, l'ex studente universitario fuori corso aveva appena 26 anni ma era già leggenda: che le epiche battaglie dei mujahidin contro gli sciuravi - i russi - avrebbero via via ingigantito. Ricordo un giovane piuttosto schivo e taciturno, un volto pallido affilato, gli occhi grandi e scuri quasi sempre offuscati da un velo di malinconia. Niente di altero o d'autoritario nella sua persona, sapeva imporsi grazie alla sua forza interiore, impartiva ordini quasi senza parlare, gli bastavano gli occhi e un gesto sbrigativo nella mano per dire ai suoi ragazzi cosa fare, dove andare. Esibiva un pizzetto nero striato di fili d'argento che gli conferiva un'aria da cadetto moschettiere ottocentesco, ulteriormente accentuata dal Pacul, il mantello che sempre l'avvolgeva, qualunque fosse la stagione. Un coro quasi unanime di lodi si levò in quei giorni sulla «abilità strategica» di Massud oltre che sull'«efficienza della sua rete d'informazione», senza le quali - diagnosticò un ufficiale - «il grande baluardo della Resistenza del Panshir avrebbe potuto essere spazzato via una volta per tutte». E si arriva quindi a febbraio dell'89 quando ha inizio il graduale rientro in patria dell'Armata Rossa e sul ponte dell'Amu Darya s'intravedeva la sagoma di un generale sovietico che, mano alla visiera, saluta l'Afghanistan per l'ultima volta. Ma la pace non si addice a questo Paese, che pure in anni non troppo lontani sembrava un'oasi relativamente felice e spensierata, quando in Chicken Street - la strada più famosa della capitale - hippies e figli dei fiori bivaccavano lievemente inebetiti dall'alcol e dalla marijuana. Lo stesso presidente Karzai descrive in un libro autobiografico Kabul come «una città pulita, ordinata e discretamente cosmopolita...». Nella mia ultima visita, tre anni or sono, trovai una Kabul «blindata», con matasse di filo spinato per le strade e posti di blocco ad ogni crocicchio: mentre sui muri delle case e nelle piazze giganteggiavano ovunque i ritratti di Ahmad Shah Massud, che è rimasto «il solo vero eroe nazionale, rimpianto da tutti». Nella meticolosa biografia tracciata dallo scrittore Michael Barry, il «leone del Panshir» viene definito, per la gentilezza dei modi e per un «profondo sentimento di pietà e clemenza» da cui non erano esclusi neanche i suoi nemici, Amer-Sahib, comandante-signore. In proposito, ricordo che aveva una cura estrema della propria persona, che si alzava prestissimo al mattino ma scendeva a colazione solo dopo un paio d'ore, profumato di lavanda. L'esodo degli sciuravi non pose fine alla belligeranza, come molti speravano. Per tre anni, il Paese è nelle mani del regime filosovietico di Najibullah, ma nel '92, dopo la spettacolare occupazione di Kabul da parte del comandante tagiko e dei suoi guerriglieri, si ricomincia a sparare. Dal '96, Massud rimase assediato nella sua vallata dall'orda dei «guerrieri di Dio», dimenticato da tutti. Lo vidi per l'ultima volta a Strasburgo, dov'era approdato il 7 aprile del 2001 per chiedere aiuto all'Europa. Si è presentato col suo vestito afghano, di lino bianco, il berretto di felpa buttato indietro sulla dura lana dei capelli. Aveva solo 47 anni ed era angosciato. «I governi europei - confidò con amarezza - non capiscono che io non combatto solo per il mio Panshir, ma per bloccare l'espansione dell'integralismo islamico scatenato a Teheran da Khomeini... Ve ne accorgerete». L'attentato mortale ebbe luogo il 9 settembre del 2001 nelle baracche di Khoja Bahauddin, quartier generale dell'Alleanza del Nord, dove Massud s'era rifugiato per sfuggire ai suoi assassini che, eliminandolo, toglievano di mezzo un grande protagonista della Resistenza e anche il solo che godesse di rinomanza e prestigio internazionali. Fu così che i due kamikaze magrebini, presentandosi come giornalisti, lo accopparono con una videocamera imbottita di esplosivo. Qualche tempo dopo, in un colloquio col braccio destro di Massud, Khalili, che rimase gravemente ferito nell'attentato ma sopravvisse, appresi che i due strateghi avevano fatto le ore piccole discutendo di Victor Hugo e di Dante Alighieri. «Sai - mi confidò - il Capo non aveva fatto l'accademia militare, ma sapeva tutto di armi e strategia. Però era anche un uomo molto pio e un intellettuale. Nei ritagli di tempo leggeva poesie ai suoi soldati. Sostiene inoltre che quei farabutti di talebani, col loro fanatismo, avevano respinto l'Afghanistan indietro di cinque secoli». Il «leone del Panshir» venne sepolto a Sareeka, sulla collina dei martiri, un'arida montagnola a nord di Bazarak, alla presenza di una folla enorme. Un mare di gramaglie. La vedova con i sette figli, sei ragazze e un maschietto, quest'ultimo di 13 anni, il più piccolo della brigata. Diversamente da Osama bin Laden e da Gulbuddin Hekmatyar che continuano a sognare la restaurazione di una teocrazia islamica che giustifica, anzi incoraggia i kamikaze a immolarsi per la «causa di Allah», Ahmad Shah Massud non ha mai assecondato questo genere di esaltazioni mistiche. Pur facendo parte di un partito fondamentalista - lo Jamiat-i-Islami, che fa capo a Rabbani - è rimasto per indole nel solco della moderazione, dove la ragione ha il predominio. Non si faceva scrupolo nell'ammettere che nel suo eventuale governo si sarebbe fatto spazio alle donne e avversava apertamente i talebani che le volevano mummificare nel chador e nel burqa. Visitando il santuario di Sareeka, un anno dopo la sua morte, ho avuto l'impressione che benché s'inginocchiasse cinque volte al giorno come vuole la tradizione islamica, il suo sguardo si rivolgesse più alle cose terrene che a quelle celesti. Una «deviazione» che i due kamikaze magrebini non potevano tollerare e che gli costò la vita. Ettore Mo 09 settembre 2011 13:09© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/cultura/11_settembre_09/il-leone-gentile-del-panshir-prima-vittima-del-terrore-ettore-mo_667b8b06-dac0-11e0-9c9b-7f60b377ee16.shtml
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« Risposta #28 inserito:: Dicembre 16, 2011, 11:54:59 pm » |
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La rivolta contro i sovietici, i talebani, l'intervento della Nato Hanno tolto il futuro al Paese della luce Da Massud a Karzai: i miei trent'anni in Afghanistan KABUL - Non avrei mai immaginato, quella mattina di giugno del '79, alla mia prima escursione in terra afghana, che la remota contrada ai piedi dello Hindukush dove m'ero avventurato sarebbe precipitata in una guerra tuttora in corso, come il massacro dei giorni scorsi a Kabul (59 morti) ha confermato. Negli ultimi dieci anni - secondo dati recenti - ci sarebbero state 17 mila vittime tra i civili e 2.750 fra i militari coinvolti nel conflitto. Non è stato quindi di poco conforto l'annuncio diramato da Washington che entro il 2012 il grosso delle truppe lascerà il Paese e che due anni dopo la presenza politica e militare straniera si estinguerà del tutto. Quanto segue è il diario in pillole di questa trentennale passeggiata in Afghanistan, a braccetto con alcuni dei protagonisti della vicenda, terminata il novembre scorso a Herat, al campo base del Contingente italiano. Giugno '79. Mattina di sole. Una zattera sbarca sulla sponda occidentale del fiume Kunar e vi deposita due bare di legno. Dentro ci sono i corpi di due ragazzi: due delle prime vittime degli scontri a fuoco fra le truppe del governo afghano filosovietico e i mujaheddin, i guerriglieri sunniti, che vogliono reinstaurare nel Paese un regime teocratico integralista, come è avvenuto nell'Iran di Khomeini. Sono le giovani milizie della jihad la «Guerra Santa». Urlano una sola parola: badal, vendetta. Contro il governo del presidente Taraki, discepolo di Mosca e di Breznev. All'orizzonte s'affaccia pure, nel '79, l'astro (bieco) di Gulbuddin Hekmatyar, leader dello Hezb-i-Islami, il gruppo più violento della Resistenza, che sta tuttora combattendo lungo il confine afghano-pachistano contro i «governativi». Lo incontro nel suo «covo» di Peshawar, città pachistana dove trovano rifugio i capi dei mujaheddin clandestini. Sul piano della scrivania ha il Corano e la pistola, tutti e due a portata di mano. È un bell'uomo, statura media, la barba nero catrame avvinghiata al mento. È convinto che soltanto lui può ricacciare l'Armata Rossa oltre l'Amu Darya: gli americani gli credono e perciò sarà lui ad avere le prime forniture di Stinger, i letali missili terra-aria. Ambizioso e ingordo di potere com'è, odia visceralmente Ahmad Shah Massud, che è già diventato leggenda come «leone del Panshir», nome della splendida valle a nord di Kabul in cui è nato e dove ha trascorso l'adolescenza prima di scendere nella capitale per studiare Legge. Sulla scrivania di Gulbuddin c'è anche il ritratto di Khomeini, che ritiene il suo maestro ma a cui rimprovera certe «debolezze». «Sono perfettamente d'accordo con l'ayatollah - afferma - quando sostiene che nel governo non si debba far posto alle donne, ma dissento da lui quando lascia capire che sarebbe disposto a tollerare la presenza di un Partito comunista nel Paese. Su questo punto, io non transigo e parlo chiaro. Finché ci sarò io, nessun uomo che si dichiari comunista potrà vivere impunemente entro i confini dello Stato». Rendendosi conto che non sono stato risucchiato nel turbine della sua autoesaltazione, rincara la dose «La jihad sono io - dice trafiggendomi con le pupille -. Sono io la spada di Allah. Noi dello Hezb-i-Islami possiamo vantare i primi martiri come i primi infedeli abbattuti sul campo di battaglia». C'è pure chi ricorda, per spiegare la sua dedizione alla Guerra Santa, oltre a una forma di intransigenza etico-religiosa acquisita a scuola, che all'Università Hekmatyar intimava alle studentesse più disinvolte e disinibite di raschiar via il rossetto dalle loro labbra demoniache con la carta vetrata. Questa sua indole tenebrosa, unita a un carattere dispotico e violento, ha allargato la cerchia di quanti lo vorrebbero fuori dalla scena. Anche Hamid Karzai, eletto presidente nel 2004, è stato vittima di un attentato e rischiò di perdere la vita come suo padre, Abdul Mohamed, assassinato nei 1999. Era il settembre del 2002, ma i killer fallirono di poco il bersaglio lasciandolo incolume. Molti attribuiscono a questo felice evento il suo imperturbabile sorriso. Altra grande vittima dei kamikaze islamici, che ha destato non poco dolore e rimpianto, il leader dello Jamiat-i-Islami, Burhanuddin Rabbani, mite professore universitario con la barba dipinta di rosso mattone, eletto presidente dell'Afghanistan nella primavera del '92, da tutti considerato il «Chief Peace Envoy» (il più importante dei diplomatici impegnati nelle trattative di pace a livello internazionale). E tuttavia una persona modesta. Così, infatti, lo ricordo: sempre con quella sua aria ieratica e prelatizia, parco di gesti e di parole. «Se vuole, parliamo in latino», disse un giorno porgendomi la mano. Rabbani venne assassinato lo scorso settembre, quando uno sconosciuto che aveva sollecitato il colloquio si presentò nella sua casa con l'ordigno di morte nascosto nel turbante. Neanche due parole di benvenuto all'ospite ed ecco, scoppia la bomba: sul pavimento i corpi straziati del kamikaze e della sua vittima. L'abitazione invasa da una valanga di condoglianze da parte di migliaia di amici: ma un'agenzia stampa subito informa che l'omicidio «ha allontanato le speranze di pace» che sarebbero scaturite dal programmato incontro fra le autorità e la leadership dei Talebani. Ora però faccio una sosta; e trascorro un quarto d'ora col fantasma di Abdul Haq, più noto ai mujaheddin e alla plebe come «il re dei dinamitardi». Sì, perché questo era il suo mestiere, un mestiere che aveva imparato fin da ragazzo, maneggiando gli esplosivi come un giocoliere da circo. A Kabul, gli sciuravi , i «consiglieri» russi, non andavano mai a dormire tranquilli: «Cosa farà questa notte?», si chiedevano angosciati prima di mettersi a dormire. In realtà, la capitale stava precipitando nel caos. Non funzionava più niente. Bloccate la linea telefonica e quella dei trasporti urbani, inceneriti in un falò i depositi di carburante, svaligiati supermarket e magazzini alimentari: e infine, la notte del 27 agosto '86, il fatto più grave: divorato dalle fiamme, in un rogo immane, l'arsenale di Kargha, ad ovest di Kabul, che conteneva nidiate di missili terra-aria Sam 2. Mi trovavo a Jabal Saraj, una squallida borgata all'imbocco della Valle del Panshir quando mi è giunta notizia della morte di Abdul Haq, uno dei grandi eroi della Resistenza afghana su cui piovono da tempo accuse che ritengo ingiuste. Ancora incerte le circostanze del decesso, avvenuto in patria, nell'ultima fase del suo viaggio di ritorno da Roma, dove s'era incontrato con Zahir Shah, il re degli afghani, che aveva trascorso buona parte del suo lungo esilio nel nostro Paese (Capri la sua residenza preferita) e che è morto ultranovantenne nel talamo regale, a Kabul. Abbandonata la prospettiva di una carriera da perito agrario a Jalalabad - la sua città -, il giovane Abdul aveva deciso di imbarcarsi nell'avventura bellica dei mujaheddin e, bruciando le tappe, s'era specializzato nella guerriglia urbana, ottenendo il grado di comandante. Ma non s'era esposto gratuitamente al rischio di un fallimento perché agguerrito da un'esperienza fatta a quattordici-quindici anni, quando aveva sotto il proprio controllo - assicurano i biografi - 5 mila baby-guerriglieri. Agli increduli mostra le cicatrici sparse su tutto il corpo: 14 in tutto. «Il mio obiettivo - mi spiegò una volta nella sua villetta a due piani di Peshawar, color ciclamino - è sempre quello di colpire i russi là dove fa loro più male. Questa guerra che ci hanno imposto costa loro sempre più cara in rubli e vite umane. Gli abbiamo distrutto strutture industriali e militari per miliardi di dollari». I russi, rintanati nel quartiere residenziale di Mikrorayon, avevano più di qualche motivo per temere che una volta o l'altra le pareti della casa gli crollassero addosso; e per questo a un certo punto tentarono di comprare il «re dei dinamitardi» per ottenere una tregua. «Rifiutai l'offerta - ha raccontato Abdul -. Erano disposti a sganciare 27 milioni di afghani, ma quei soldi non valevano nulla, li stampavano a tonnellate, carta straccia». Il fatto che abbia perso un piede - il destro - saltando su una mina non sembra aver posto limiti alla sua mobilità, alla sua curiosità e alla sua voglia di essere sempre qui e là, in mezzo alla sua gente, per vedere e per ascoltare. Quando, dopo l'intervento in ospedale tornò in caserma, rincuorò i ragazzi che lo guardavano un po' smarriti e disse loro con un bel sorriso «per camminare ne basta uno». Ma infine è Bazarak la meta della mia peregrinazione. Ahmad Shah Massud, ammazzato da un kamikaze il 9 settembre 2001 - due giorni prima dell'assalto alle Torri Gemelle, che sconvolse il mondo - giace per l'eternità nella tomba scavata sulla collina Sarecha, subito ribattezzata Salari Shahedan Hill, la collina del Martire. Su un cartello scritto a mano in lingua farsi e, se ben ricordo, esposto al funerale, si leggeva: «Qui è sepolto un uomo che era un angelo. Seguilo lentamente. Il suo nome è Massud». Quattro passi più in là, nel villaggio di Jangalek c'è la casa dove abitava e dove ora stanno riuniti tutti insieme la vedova e i suoi sette figli, orfani di padre. Riaccostandomi ora, con la memoria, a quella minuta, quasi inesistente frazione, ricordo il nostro primo incontro, nell'aprile '81, quando Massud aveva 26 anni. E già fin d'allora, il leone del Panshir si distingueva dagli altri comandanti in poche cose: non scendeva mai «a valle», non si faceva mai vedere a Peshawar dove erano acquartierati i sette partiti della jihad, non si impicciava di politica. Il suo ruolo era quello del militare e lui la guerra la faceva sul serio. Trecentosessantacinque giorni l'anno. Come lui c'era solo un altro comandante: Yunis Khales, un vecchio fatto col filo di ferro, che al Kalashnikov preferiva l'Enfield 33, un mostro di precisione. In un eccesso di delirio mistico, gli Ulema (i sacerdoti islamici) hanno elevato agli onori dell'altare il principe del terrorismo, Osama Bin Laden, congiuntamente al Mullah Omar e ai membri di Al Qaeda che si è attribuita la responsabilità della strage dell'11 settembre a New York. Ucciso il 2 maggio scorso in una casa di Abbottaqbad, una piccola città a 70 chilometri dalla capitale del Pakistan, Islamabad, il suo corpo è stato portato al largo del mare di Oman sulla portaerei americana Vision, e dopo una breve cerimonia funebre con rito islamico fatto scivolare in acqua. Ma se tornano i talebani, si ricomincia da capo. Per fortuna non ci sarò più a raccontarne le gesta. Ettore Mo 16 dicembre 2011© RIPRODUZIONE RISERVATA da - http://www.corriere.it/esteri/speciali/2010/i-reportage-di-ettore-mo/notizie/mo-151211-hanno-tolto%20il%20futuro-al-paese_fb95ddf0-27b8-11e1-a7fa-64ae577a90ab.shtmlCronologia Le date del conflitto che ha straziato Kabul • Il 24 dicembre 1979 l’Armata Rossa invade l’Afghanistan, esplode la rivolta dei mujaheddin. L’Urss si ritira 10 anni dopo • Nel 1996 i talebani instaurano a Kabul un regime islamico integralista ] Il 9 settembre 2001 il leader della Resistenza antitalebana Massud muore in un attentato kamikaze ] Dopo l’attacco alle Twin Towers, l’11 settembre 2001, gli americani invadono il Paese e abbattono il regime talebano • Washington annuncia per il 2012 il ritiro delle truppe e la cessazione della presenza straniera nel giro di due anni
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