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Autore Discussione: LORENZO MONDO  (Letto 69511 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Novembre 14, 2010, 09:03:16 am »

14/11/2010 - PANE AL PANE

Per il bene del Paese
   
LORENZO MONDO

L’impudicizia delle parole. Non c’è raggruppamento politico o tribale, leader o gregario che, nella crisi imperversante, non affermi di agire per il bene del Paese.

Il presidente del Consiglio è deciso ad affrontare la tempesta opponendo alla incombente sfiducia del Parlamento la fiducia degli elettori. Per il bene del Paese. Nel quale include anche l’assoluzione per gli atteggiamenti inconsulti con i quali si è adoperato a demolire la propria figura ed a rallentare fino alla paralisi la politica del governo. Fini ha mosso a Berlusconi una guerra senza quartiere, contestando un programma che due anni fa, sulla spinta del voto popolare, aveva sostanzialmente condiviso. Proclama di agire per il bene del Paese, ma non sfugge ai cittadini che la sua competizione con il premier ha un forte taglio personalistico, nasce dall’impazienza per una successione alla leadership del centrodestra che si è protratta oltre misura nel tempo.

Anche la sinistra vanta di battersi per il bene del Paese. Peccato che le sue proposte più nitide si risolvano in un antiberlusconismo pregiudiziale, che non concede all’avversario nessuna attenuante per la crisi internazionale e nessun benché minimo riconoscimento per qualche innegabile risultato. Inutile attendere tra tante fumose astrazioni un riconoscibile progetto. È un’armata Brancaleone che, nella prospettiva delle elezioni, dovrà vedersela con le sue incompatibili componenti, tra chi guarda al centro e chi ascolta le sirene di una sinistra più radicale. Per il bene del paese si batte anche Casini, vagheggiando un terzo polo che, non si sa come, dovrebbe conciliare la matrice cattolica dell’Udc con il laicismo dei «futuristi» di Fini.

La sola ad avere le idee chiare, al di là delle ricorrenti sgangheratezze, è la Lega di Bossi, che insegue la stella fissa del federalismo, per il bene del paese identificato in prima istanza con le rivendicazioni del Nord. L’impressione del paese, che tutti vorrebbero soccorrere, è di una guerra per bande, che non esclude mercimonio e tradimento, e si placa soltanto nella difesa comune degli scandalosi privilegi del personale politico. Non stupisce allora che il Paese si rinserri e frantumi nella difesa dei propri spazi vitali, dando libero corso a interessi familiari e corporativi (compresi quelli ignobili degli evasori fiscali).
In attesa che passi la nottata, che il paese reale possa confrontarsi finalmente con una classe politica autorevole e degna.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8083&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #61 inserito:: Novembre 21, 2010, 11:47:29 am »

21/11/2010 - PANE AL PANE

Canta che ti passa

LORENZO MONDO

Ci mancava anche questa per Napoli, che non sa come sbarazzarsi delle tonnellate d’immondizia, che patisce l’ombra lunga provocata dal disfacimento dell’antica Pompei. Si direbbe una ciliegina sulla torta, se l’espressione non apparisse in tutti i sensi inappropriata per l’infelice capitale del Sud. Parlo del severo richiamo della Commissione europea per il concerto di Elton John tenuto nel 2009 per la festa di Piedigrotta. Nessuno nega il successo della manifestazione, che ha richiamato in piazza 80.000 persone. Non di questo si discute, ma del fatto che il concerto sia stato pagato 720.000 euro, una cifra attinta dai fondi europei per lo sviluppo regionale. Un utilizzo contestato da Bruxelles, che esige il rimborso della somma, deducendola dalle future erogazioni a beneficio della Campania. Perché quell’evento isolato e costoso non era tale da favorire lo sviluppo strutturale del turismo nel territorio campano.

Riccardo Marone, all’epoca assessore nella giunta Bassolino (sempre lui), si arrampica sugli specchi per esaltare la «promozione turistica» esercitata in tutto il mondo dalla Piedigrotta firmata Elton John. Come se il cantante inglese fosse espressione diretta della cultura napoletana e non una occasionale, opportunistica sovrapposizione. E’ Napoli, con le sue tradizioni e canzoni popolari, che può sedurre semmai gli stranieri, non Elton John che ha un profilo internazionale e appartiene a tutti. Più che di una promozione turistica sembrerebbe trattarsi allora di una promozione politica, di una iniziativa intesa a ottenere un facile consenso, ricorrendo all’abusata pratica dei «circenses».

Lasciamo stare le considerazioni di ordine culturale sulla genuinità della manifestazione. Accantoniamo le obiezioni di ordine funzionale che arrivano da Bruxelles, la particolare destinazione dei fondi. Resta la disinvoltura, e l’improntitudine, con cui tanto denaro è stato buttato per un concerto: esibito in un contesto non eludibile e raccapricciante come quello di Napoli, che deturpa sul piano internazionale la fisionomia della città e per il quale si invocano ben altre preoccupazioni e interventi. Nell’immaginario collettivo, Elton John si trova a gorgheggiare sulla monnezza e sui crolli di Pompei. Lascia l’amaro in bocca la sensazione che, nel passare degli anni e nella pur faticata crescita civile, si tenda ancora ad affidarsi al pigro e fatalistico «canta che ti passa».

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8116&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #62 inserito:: Novembre 28, 2010, 06:28:38 pm »

28/11/2010 - PANE AL PANE

Lasciamo stare i monumenti


LORENZO MONDO

Sui monumenti, no. Prescindiamo da un discorso articolato sulle ragioni, le contraddizioni e i limiti della protesta studentesca.

Basti dire che si tratta di una manifestazione consistente ma ingigantita dalla inevitabile semplificazione mediatica e discorsiva, secondo cui a scendere in piazza sono «gli» studenti: trascurando la grande maggioranza dei ragazzi che tacciono o che, dove gli è consentito, assistono tranquillamente alle lezioni impartite da docenti refrattari alla protesta.

Basti dire che slogans e striscioni sembrano esulare dal merito della riforma Gelmini che, a giudizio di molti esperti non assimilabili alla destra di governo, contiene dopo decenni di paralisi importanti elementi di novità, combattendo la corruzione e valorizzando il criterio del merito nella nostra disastrata università. Qui interessa piuttosto l’uso dei monumenti fatto dai dimostranti. A Roma si sono arrampicati sul Colosseo, sono saliti sulla torre di Pisa e a Venezia sulle cupole di San Marco, hanno occupato a Padova la basilica del Santo e a Torino la Mola Antonelliana, insieme ad altri meno appariscenti e famosi simboli di città italiane.

Si tratta appunto di simboli che, nella loro compattezza, appartengono a tutti i cittadini e solo arbitrariamente possono essere confiscati a beneficio di una componente sociale o politica. Soltanto i residuati del Sessantotto possono gioire di questa visibilità ottenuta a buon mercato, di atteggiamenti che, quando non sono inquinati dai mestatori di professione, risentono per qualche parte di una giocosa, irresponsabile goliardia.

Innanzitutto andrebbe rispettato il libero accesso ai monumenti di turisti e visitatori, che rappresentano una risorsa preziosa per
l’immagine e lo sviluppo di una città. Ma conta anche di più la tutela e la sicurezza dei nostri beni culturali che rischiano di essere compromessi da incontrollate, tumultuose invasioni (quando tutto sarà finito, ci toccherà contare i danni?). Ecco, si vorrebbe che proprio coloro che si reputano l’élite della classe studentesca, che deprecano i tagli dei governanti, non alla sola Università, ma all’intero comparto culturale, mostrassero una maggior sollecitudine per espressioni così significative del nostro patrimonio artistico e architettonico. Non gli passa nemmeno per la testa, che anche questo gioverebbe a ottenere una maggiore attenzione e credibilità per le inquietudini di cui si fanno legittimi portatori

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8144&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #63 inserito:: Dicembre 05, 2010, 09:03:42 am »

5/12/2010 - PANE AL PANE

Se il boss chiede perdono

LORENZO MONDO

Dall’aula del carcere di Palermo, al processo che lo vede imputato insieme ad altri cinque complici per l’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo, Gaspare Spatuzza chiede perdono ai suoi genitori. Parla di quell’«angelo», la cui morte peserà su di lui come un macigno per l’eternità, sostiene di fremere al pensiero di incontrarlo nell’aldilà. Con una inattesa proprietà di linguaggio (c’entrano gli avvocati?), si scusa anche con «tutta la società civile che abbiamo violentato e oltraggiato». Il capo della Procura nazionale antimafia Piero Grasso e il procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia affermano di credere al suo ravvedimento morale e religioso, anche se non si può escludere che la loro comprensione sia dettata dall’uso che stanno facendo del discusso pentito nelle indagini sulle stragi mafiose del 1992.

I genitori del bambino, che finì strangolato e sciolto nell’acido dopo oltre due anni di prigionia, respingono con durezza la richiesta di perdono: Spatuzza e i suoi complici devono stare per sempre in carcere. Francamente, non ci si poteva attendere da loro una risposta diversa. La ricostruzione del sequestro rilasciata dal boss in teleconferenza ne ripropone tutta l’efferatezza, spargendo sale sulle ferite. È vero che in un processo si esige l’aderenza alla realtà fattuale, ma forse Spatuzza si è lasciato prendere la mano, dilapidando con un rinnovato orrore l’effetto della commozione: «Legammo il bambino come un animale e lo chiudemmo nel cassone di un furgoncino, piangeva per la paura». Il discorso va tuttavia allargato e investe l’abuso che si fa del concetto e della parola perdono nei più turpi e atroci fatti di «nera». Basti, in prima battuta, ricordare il comportamento di certi cronisti che si avventano con il microfono sui parenti delle vittime per sentire, a sangue ancora caldo, come la pensino.

A ben vedere, non sfugge alla stessa impudicizia l’appello di Spatuzza. Escludiamo pure che intenda barattare i suoi nuovi sentimenti con uno sconto di pena, che sia indubitabilmente sincero. Ma invece di richiedere il perdono, che risulta del resto inesigibile da parte del più diretto interessato, dovrebbe limitarsi a raccontare la verità e a macerare il suo pentimento nell’intimo della coscienza, accettando come necessaria forma di espiazione la condanna che gli verrà inflitta per il suo delitto. Perché il perdono eventualmente concesso non estinguerebbe la sua colpa. Il di più, in gente di tal fatta, non sfugge al sospetto di una pretestuosa sceneggiata.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8169&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #64 inserito:: Dicembre 12, 2010, 04:23:07 pm »

12/12/2010 - PANE AL PANE

Il "peccato" di Indro


LORENZO MONDO

Viene per la prima volta ristampato, dai lontani Anni Trenta, XX Battaglione eritreo di Indro Montanelli (ed. Rizzoli, a cura di Angelo Del Boca). È il libro, che oscilla tra il taccuino di guerra e l’idea di romanzo, di un giovane partito come volontario per l’Africa e scritto nelle ore di veglia. I capitoli che aveva inviato al padre furono messi insieme e pubblicati in Italia a sua insaputa, ottenendo un successo di stima.

Montanelli, come confessa nella prima pagina del libro, va in Africa «anche per ragioni letterarie», che ritiene tuttavia inseparabili dalla maturazione di una coscienza d’uomo. E questa deve foggiarsi nel sentirsi degni dei padri che hanno fatto il Risorgimento e combattuto sul Carso.

Montanelli crede nel mito dell’Impero e nella lungimiranza di Mussolini, nel valore spavaldo della propria testimonianza: «Questa guerra è per noi come una bella lunga vacanza dataci dal Gran Babbo in premio di tredici anni di banco di scuola».

Apprezza lo spirito bellicoso degli ascari posti sotto il suo comando ma, questo il tratto meno accettabile, non manifesta alcuna considerazione o generosità per il nemico. La guerra resta sullo sfondo (d’altronde egli lascerà presto la prima linea per una sopraggiunta infermità) mentre lo scrittore rivela le sue doti soprattutto nella descrizione del superbo, primevo paesaggio del Tigrai.

Ma perché non ha mai voluto ripubblicare quel libro? Non perché se ne vergognasse. Assai per tempo ha saputo liberarsi dall’infatuazione giovanile per il regime, passando dalla fronda all’antifascismo. Non ha mai celato, come altri della sua generazione e appartenenti a campi politici contrapposti, i suoi trascorsi. Immune da ogni sorta di giustificazionistico revisionismo, ha condotto soltanto una lunga polemica con Angelo Del Boca che aveva documentato il massiccio impiego dell’iprite e dei gas asfissianti contro gli abissini. Fu costretto a malincuore ad arrendersi di fronte all’evidenza. Fino all’ultimo cercò di allontanare almeno quell’onta dalla sua giovanile avventura, già compromessa dalla buona fede tradita. Ecco, ha voluto forse riservare gelosamente per sé il dissidio, indotto dal suo libro battesimale, tra innocenza e rimorso. È un documento di prim’ordine sullo smarrimento ideologico e morale di una generazione, riscattato in lunghi anni di militanza giornalistica all’insegna della più inquieta e rigorosa indipendenza. Un libro che aiuta a capire, il prima e il dopo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8193&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #65 inserito:: Dicembre 19, 2010, 10:55:48 am »

19/12/2010 - PANE AL PANE

Un regalo al Cavaliere

LORENZO MONDO

Questa settimana Berlusconi ha messo a segno due buoni colpi. Il primo, il più appariscente e magari provvisorio, riguarda la fiducia ottenuta alla Camera, sia pure con soli tre voti. Il secondo risultato lo ha ottenuto, senza suo merito, grazie alla cieca violenza dei dimostranti che hanno devastato a Roma Piazza del Popolo, con le colonne di fumo che si sono levate intorno al tempio dove si trovano i capolavori di Caravaggio. Non c’è dubbio che, in una prospettiva elettorale, quello spettacolo, ed altri che potrebbero verificarsi, resteranno impressi nella memoria dei moderati e benpensanti. Più ancora del tentato assalto al Parlamento, che non rappresenta Berlusconi ma gli italiani e che, ad onta delle sue manchevolezze, è il solo avallo di un sistema democratico.

L’accesa dimostrazione degli studenti, che concentrano sulla riforma Gelmini il senso di un più diffuso disagio, è di per sé legittima. Deve essere pertanto distinta dal teppismo dei rivoltosi che si abbeverano a ideologie anarcoidi e disfattiste. Ma è facile confondersi, anche perché si è registrata tra gli studenti un’area di connivenza, di mancato rifiuto nei confronti della feccia. Peggio hanno fatto certi esponenti dell’opposizione che, ripetendo funesti errori del passato e agitando lo spettro del complotto, hanno parlato di infiltrati nella sommossa che apparterrebbero alle forze dell’ordine. Una ipotesi smentita dalla realtà, che si appoggiava tra l’altro a documenti artefatti e menzogneri. Decisamente, la Sinistra continua a farsi del male. Si aggiunga la circostanza che i pochi dimostranti fermati hanno ottenuto dai giudici la libertà, in attesa di processi di là da venire.

I giudici avranno le loro ragioni, anche se ci hanno avvezzati spesso a pronunce imperscrutabili. Ma quell’insospettabile galantuomo che è Antonio Macaluso non nasconde le sue forti perplessità: «Possibile che i veri “cattivi” siano fuggiti e che le forze dell’ordine abbiano sbagliato praticamente tutti i fermi?». Non sarà che i facinorosi si sentiranno autorizzati a fare festa e a progettare nuove imprese? I fatti di Roma devono essere affrontati nel rispetto delle regole democratiche ma con inflessibile rigore. Il discorso vale di per sé e per ogni occasione, ma si proietta sulle elezioni a venire, che si vincono e si perdono anche sul tema della sicurezza. Per questo, davanti a certi misfatti, il Cavaliere può essere indotto al sorriso.

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« Risposta #66 inserito:: Gennaio 02, 2011, 06:50:56 pm »

2/1/2011 - PANE AL PANE

Macchia indelebile per quel Presidente

LORENZO MONDO

Sembra dunque che Cesare Battisti, il pluriassassino riparato in Brasile, non sarà estradato in Italia. Otterrà l’asilo politico con ipocrite motivazioni, come la difesa della sua incolumità, messa non si sa come a rischio, e la sottrazione alla condanna dell’ergastolo (non contemplato nell’ordinamento giudiziario brasiliano ma abolito di fatto anche in Italia). E’ comprensibile il risentimento manifestato dai familiari delle vittime e in particolare da Alberto Torregiani che, ferito nell’agguato brigatista e costretto alla carrozzella, è diventato l’icona di una giustizia negata. Battisti, che non ha mai manifestato pentimento, avrà di che rallegrarsi. Ma è emerso qualcosa in questa storia che oltrepassa il destino di un delinquente. Lui, possiamo perfino condannarlo alla dimenticanza: che Dio lo danni. negli incubi notturni e nella mala ventura, che i figli si rivoltino contro il suo sangue cattivo, e così sia. Più avvilente il fatto che certi governi, proteggendolo, abbiano travisato e infamato la nostra storia, quella dolorosa, e affrontata coraggiosamente dalla società civile, degli «anni di piombo».
E’ stata prima la Francia, tra Mitterrand e Sarkozy, a concedere l’asilo e poi la fuga al «proletario armato per il comunismo»: manifestando la tipica spocchia di chi invoca, anche a sproposito, i sacri principi dell’Ottantanove, e si mostra incline a transigere sugli errori dell’intellighenzia (capirete, Cesare Battisti è uno scrittore di «gialli»!).

Poi è toccato al Brasile di Lula. Certo, l’America Latina sconta un retroterra di spietate guerre civili, di lotte a oltranza contro regimi autoritari, che potrebbero indurre taluno a considerazioni svianti sulle vicende di altri paesi. Ma da noi non esisteva, se non nelle farneticazioni dei brigatisti, una bieca dittatura, non c’erano «squadroni della morte» e non si scaraventavano gli oppositori dagli aerei in volo sull’oceano. C’erano istituzioni democratiche e un consenso generale, da destra a sinistra, alla lotta contro la follia eversiva.

In altre parole, non si può scambiare l’Italia di allora con il Sudamerica. Se non soccorre una elementare cultura, basta informarsi, per salvaguardare la buona fede da inconfessate solidarietà ideologiche e da compromessi legati alla politica locale. E’ triste, e rafforza le pessimistiche riflessioni sulla Storia, che il presidente Lula, apprezzabile per vari motivi, voglia congedarsi dal suo mandato con la macchia indelebile di avere graziato, senza averne diritto, un assassino impenitente

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« Risposta #67 inserito:: Gennaio 09, 2011, 11:20:43 am »

9/1/2011 - PANE AL PANE

Salman Taseer, un uomo giusto

LORENZO MONDO

La strage di copti ad Alessandria d’Egitto ha messo in ombra, per le sue dimensioni e per essere vicina a noi, l’assassinio di Salman Taseer, avvenuto a Islamabad per mano di un fanatico musulmano che era anche una sua guardia del corpo. Taseer era il governatore del Punjab, la regione più ricca ed evoluta del Pakistan, apparteneva al partito progressista di Benazir Bhutto, assassinata tre anni fa, ed era musulmano come il suo carnefice.

Aveva il destino segnato da quando aveva preso le difese di Asia Bibi, una donna povera, di religione cristiana, condannata a morte con l’accusa di avere insultato Maometto. Non soltanto aveva chiesto la grazia per lei al presidente del Pakistan, ma aveva sostenuto che la legge contro la bestemmia, di per sé iniqua e fonte di pretestuose rivalse, doveva essere abolita. L’aveva definita, in urdu, una «kala kanoon», una legge nera. La morte di questo uomo giusto e coraggioso ha suscitato commozione, ma anche manifestazioni di giubilo, nel suo Paese.

Il numero infimo dei cristiani del Pakistan (il due per cento di 170 milioni) dà la misura del fanatismo che vorrebbe estirparli, della sua enormità. Il fatto si presta a letture diverse. Invita da un lato ad accostarsi al mondo islamico con maggiore equità e lungimiranza, a considerare che non rappresenta una entità compatta in cui siano assenti energie positive, aperte al rinnovamento e al dialogo. Dall’altro suscita sgomento perché vengono soffocate e soppresse in tanti Paesi musulmani le voci più libere, mentre si esita quanto meno ad ammettere fino in fondo la responsabilità di certi crimini.

Sia pure in un diverso contesto geografico e culturale, stupisce ad esempio l’atteggiamento del capo spirituale della moschea di Al Azhar che, all’indomani dell’eccidio di Alessandria, si adonta con il Papa perché ha chiesto, con quella che è ritenuta una indebita ingerenza, maggior protezione per i cristiani d’Egitto: invitandolo per di più a un gesto di distensione nei confronti dei musulmani. Il che, nella circostanza, diventa un paradossale rovesciamento delle parti. Come se, vittime dell’attentato sanguinoso, fossero i musulmani, magari sulle rive del Tevere. Conserviamo rispetto per l’imam Al Tayyeb, che in più occasioni si è espresso a favore della libertà religiosa, della pari dignità di ogni fede. Ma ci lasci dire che, al momento, tutto lo spazio della nostra commossa ammirazione è riservato a Salman Taseer, alla sua nitida e fattiva intransigenza nella difesa di un diritto impersonato da una donna, ultima della terra, che si chiama Asia Bibi.

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« Risposta #68 inserito:: Gennaio 16, 2011, 11:08:50 am »

16/1/2011 - PANE AL PANE
 
Per quel bimbo morto di freddo
 
 
LORENZO MONDO
 
Ha provocato sconcerto, commozione, indignazione il fatto che un neonato sia morto, presumibilmente di freddo, nella centralissima Piazza Maggiore di Bologna. Il piccolo Devid non era stato abbandonato in un cassonetto ma si trovava all’addiaccio in compagnia dei genitori, di un gemellino e della sorellina più grande, un anno e mezzo. Inutile la corsa nella vicina farmacia e l’arrivo dell’ambulanza. La città si interroga, facendo rimbalzare dall’una all’altra istituzione responsabilità e sensi di colpa. Com’è potuto accadere? Padre e madre, che vivono di occasionali e malcerti lavori, di mense per poveri, hanno scelto come abitazione la strada. Lei ha avuto cinque bambini da tre uomini diversi, due le erano stati tolti e dati in affido dai servizi sociali. Per questo, a suo dire, temendo che le fossero sottratti anche quelli rimasti, rifiutava le offerte di ricovero che pure non erano mancate.

È un caso tristissimo intorno al quale si è creata molta confusione. Non è possibile incasellarlo, come è stato fatto, nelle nuove forme di povertà dovute alla crisi economica. Appare anche stonato il soverchio intenerimento per una madre che a nessun costo vuole separarsi dai propri figli. Qui sociologia e psicologia da strapazzo si danno la mano. Mettiamo come punto fermo che ci troviamo in presenza di genitori sciagurati. Non possiamo dimenticare i trascorsi della madre, la sua disinvoltura nel figliare, e la cieca ostinazione a «proteggere» le sue creature esponendole alla privazione e alla morte. A nessuno, tanto più se affetto da turbe comportamentali, va negata comprensione, ma non a scapito della verità, della salvaguardia di piccoli innocenti. È partendo da queste basi, dalla comprovata incapacità dei genitori, che si può affrontare l’altro corno del problema. Ci si chiede perché i servizi sociali del Comune e i vari enti assistenziali non abbiano provveduto per tempo a sottrarre i figli alla coppia. Bastava adeguarsi ai due casi precedenti, e non era certo difficile seguire la traccia della scombinata famiglia per le vie di Bologna. C’è stata distrazione, smagliatura nella rete protettiva, forse inconsapevole stanchezza davanti a una situazione scivolosa. Così abnorme che avrebbe dovuto rendere più avvertiti e solleciti. Resta il fatto che il piccolo Devid è rimasto vittima, in diversa misura, del contesto sociale e della madre che lo ha messo al mondo. Non poteva esserci maggiore abbandono nella morte di un neonato che tutti, adesso, affermano di piangere.
 
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« Risposta #69 inserito:: Gennaio 23, 2011, 05:22:44 pm »

23/1/2011 - PANE AL PANE

Teniamoci stretto questo tricolore


LORENZO MONDO

I 150 anni dall’unità d’Italia offrono l’invito a ripensare e riaggiustare anche in senso federalista, secondo le esigenze dei tempi e le accertate manchevolezze, il patto fondativo che ci ha fatti nazione. Ma devono anche liberarci dalla faziosità e dall’incultura che mettono in forse l’unità del paese e inducono al disprezzo del vessillo tricolore. Al centro del discorso, si sa, c’è il Risorgimento, la fondatezza e la dignità delle sue ragioni.

Ed è soprattutto alle estremità della penisola, tra il Nord e il Sud, che si confrontano i più esagitati contestatori del moto unitario. Con una rimozione pudibonda di elementari dati di fatto. Dalla Padania in odore di secessionismo si trascura che a impinguare i Mille di Garibaldi furono soprattutto i patrioti lombardi, seguiti da liguri e veneti. Quelli che riscoprono all’opposto la progressiva mitezza del regime borbonico dimenticano che le menti più aperte e avanzate del Meridione si pronunciarono allora per l’unità. Magari obtorto collo, avendo dovuto accettare l’opzione monarchica e il pennacchio del re piemontese.

Dovremmo assistere a un comico, antistorico, mea culpa?
Soltanto la rozza semplificazione di un «Risorgimento senza eroi» potrebbe inoltre svilire gli entusiasmi e i sacrifici di chi si spese nobilmente nelle cospirazioni e nelle battaglie risorgimentali, fino a ispirare i più consapevoli martiri della Resistenza.

Le reciproche efferatezze nella guerra contro il brigantaggio, le inadempienze dello Stato unitario, i ritardi nell’estensione dei diritti civili alle masse popolari, la criminalità organizzata che si mostra irriducibile fino ai nostri giorni, non vanificano gli acquisti di una modernità che non può prescindere da uno Stato unitario. È rimasta piuttosto, in modo più acuto di quanto sia avvenuto altrove, la stentata coscienza di una solidarietà nazionale. Ma chi si trova provvisto di sufficiente senno dovrebbe essere quanto meno orgoglioso di condividere con tutti gli italiani le espressioni di un’alta civiltà, a partire da una lingua straordinaria che purtroppo sentiamo continuamente bistrattare.

Non c’è rivendicazione, ragionevole o stolida, che possa lacerare impunemente questo ammirevole tessuto culturale. Personalmente, mi sento molto legato alla mia terra piemontese, coltivo nordici sensi, ma non saprei rinunciare all’abbraccio ideale con un Verga o un Pirandello, dimenticare l’amicizia con uno Sciascia o un Bufalino. All’ombra, massì, del vivido tricolore

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« Risposta #70 inserito:: Gennaio 30, 2011, 11:22:20 am »

30/1/2011 - PANE AL PANE

Céline contro Céline

LORENZO MONDO

Maretta, negli ambienti culturali francesi, per la riproposizione del caso Céline a cinquant’anni dalla morte. Lo scrittore «maledetto» compariva nel calendario delle celebrazioni previste in Francia per il 2011, insieme ai titolari di altri eventi, come Luigi XIV e Pompidou, Marie Curie e Franz Liszt.

L’elenco era così variegato da risultare assolutamente neutro e da rendere inoffensiva l’inclusione di Céline. Ma le proteste del cacciatore di nazisti Serge Klarsfeld, in rappresentanza dell’«Associazione dei figli di deportati ebrei», ha indotto il ministro della Cultura Frédéric Mitterrand a cassare il suo nome, avviando al macero il volume già stampato per le commemorazioni. Quasi una damnatio memoriae inflitta all’autore del delirante pamphlet antisemita Bagatelle per un massacro, imputato tra l’altro di collaborazionismo con il governo Pétain. Si dà tuttavia il caso che egli sia considerato uno dei più importanti scrittori, non solo francesi, del secolo scorso.

Ferve dunque la polemica tra chi difende le ragioni di una memoria inespiabile e quelle, che sembrerebbero minime e oziose, della letteratura, da riservare a critici e filologi. In realtà, non è soltanto questione di bello scrivere. Nei suoi romanzi, a partire dal Viaggio al termine della notte, Céline ha denunciato con vertiginoso furore l’insensatezza della guerra, le brutture del colonialismo, l’appagato egoismo dei benpensanti (suscitando non a caso l’entusiasmo di un Bernanos). E nella trilogia dell’esilio a Sigmaringen, nel castello degli Hohenzollern dove si era rifugiato, ha rappresentato come nessun altro, con inarrivabile ironia, la miseria morale dei reduci di Vichy, presi nella tenaglia delle avanzanti truppe alleate, in un’aria di apocalittica resa dei conti. Dimentichiamo pure il fatto che non si sia macchiato di sangue e che abbia cercato un silenzioso riscatto prodigandosi dopo la guerra, come medico dei poveri, nel sobborgo di Meudon.

Atteniamoci soltanto ai suoi libri, ai due diversi Céline che in essi si manifestano e nei quali prevale di gran lunga il suo volto migliore. Non sarà l’esclusione dalla carta di futili annali, dettata da postumi rancori, ad attenuare la forza della sua scrittura e delle sue verità. Si è persa semplicemente l’occasione, penetrando nel torbido impasto del cuore umano, di contrapporre Céline a Céline, di concedergli uno scampolo di quella pietà che egli seppe esercitare sotto il velame della negazione e dell’ira.

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« Risposta #71 inserito:: Febbraio 06, 2011, 10:08:43 am »

6/2/2011 - PANE AL PANE

Non assolviamo le cattive ragazze

LORENZO MONDO

Confesso che stento sempre più a raccapezzarmi, nello scontro politico offerto dal nostro Paese, e più generalmente nei sommovimenti della società, tra le buone intenzioni (quando non siano millantate) e le iniziative o il linguaggio con cui vengono realizzate. Prendiamo l’annunciata mobilitazione delle donne nelle piazze d’Italia per proclamare la loro dignità, per denunciare la loro riduzione a una corporeità tanto più offensiva in quanto volgarmente strumentalizzata. L’epicentro della protesta, manco a dirlo, è la villa di Arcore con i suoi festini. Non ho nessuna indulgenza per le depravazioni che si sarebbero consumate nella reggia del Cavaliere. Troppo alto è il concetto che nutro per l’essenza femminile, alimentato dalle vivificanti consuetudini con donne che appartengono alla mia famiglia e alle mie amicizie. Ma nel caso in questione mi sembra che il bersaglio debba essere quanto meno rettificato. Voglio dire che non si possono considerare come vittime quelle che, in mancanza di inoppugnabili accertamenti, mi limiterò a definire «cattive ragazze».

Fatta eccezione per le eventuali minorenni su cui deciderà la magistratura, sono proprio certe donne - che non appartengono a strati infimi della società e sono magari dotate di buoni studi - a vendersi per cupidigia e smania di successo, facendo strame esse per prime della loro dignità. Stupisco che, per fare guerra a Berlusconi, si mettano in campo, anche da parte del solito drappello di intellettuali, argomentazioni insensate. Qualcuno è arrivato a esaltare le inquiline di Arcore, invelenite contro il pur munifico ospite per le attese insoddisfatte, come Erinni vendicatrici di tutti gli italiani.

Ha trovato le parole giuste la pur tosta e schierata scrittrice Michela Murgia, quando nega sulle pagine di Repubblica che le vicende di questi giorni offendano le donne: «Nessuna donna normale si riconosce nel grottesco fondale di cartapesta contro il quale si muove il caravanserraglio di veline che circonda Berlusconi». E dunque, lo si combatta senza ricorrere un’altra volta ad armi spuntate e inevitabilmente delusive. Perché assistiamo in realtà a un degrado antropologico che non risparmia nessuna componente della nostra società, compresa «l’altra parte del cielo» (o dell’inferno?). Sembra più onesto e urgente mobilitarsi massicciamente per le donne stuprate e lapidate, senza concorso di festini e relativo gossip, in altre, più tenebrose, parti del mondo.

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« Risposta #72 inserito:: Febbraio 20, 2011, 10:28:36 am »

20/2/2011 - PANE AL PANE

I due faraoni precipitati dal trono

LORENZO MONDO

Cos’è successo davvero al Museo Egizio del Cairo? O peggio ancora, ai musei e siti archeologici disseminati nelle periferie del Paese e meno esposti al controllo delle autorità? Il responsabile delle antichità egizie Zahi Hawass si sforza di essere rassicurante, di minimizzare i danni. Ma deve ammettere che i ladri sacrileghi hanno sottratto, tra altri reperti, due famose statuette dorate appartenenti all’arredo funebre di Tutankhamon, nel sancta santorum del museo. E’ comprensibile l’abbattimento di Hawash per quello che considera oltre a tutto un suo geloso possesso. D’ora in poi suoneranno anche più retoriche e velleitarie le sue richieste di restituire all’Egitto tanti pezzi conservati in musei di mezzo mondo.

Non si può fare a meno di condividere il suo sconforto e ritengo che non sia indice di frivolezza preoccuparsi della sorte di millenarie reliquie nel bel mezzo di una rivoluzione che sta sconvolgendo gli assetti politici del Maghreb, con ricadute inimmaginabili per tutto il bacino del Mediterraneo. Non ci turba soltanto l’insensatezza di un attentato alla cultura e alle risorse economiche dell’Egitto, insieme all’incapacità, da parte dei servizi di sicurezza, di evitarlo. Ad un secondo pensiero, siamo indotti a considerare gli errori e le perdite, le ombre che accompagnano i grandi sommovimenti, compresi quelli benefici, della Storia.

L’insulto a Tutankhamon può estendersi immaginosamente alla sorte di Mubarak, un altro faraone, precipitato rovinosamente dal suo trono. Il giovinetto figlio degli dei, imprigionato nella sua teca dorata, e il vecchio raiss , recluso con la sua infermità in un palazzo sulle rive del Nilo diventato, come il Museo Egizio, sacro al turismo. Anche lui sfregiato nel corso di una rivoluzione che vorrebbe essere rigeneratrice. Ma dovremmo essere prudenti nell’abbandonarci a un solidale entusiasmo. Sergio Romano, un osservatore di smagata intelligenza, si stupisce del fatto che quasi tutti i governi democratici abbiano accolto con soddisfazione gli eventi del Cairo. Non possiamo infatti nasconderci che il passaggio dei poteri al Consiglio supremo delle forze armate è un colpo di Stato militare. Sarà una soluzione virtuosa, la migliore possibile, e le tragedie del Medio Oriente ci hanno vaccinati d’altronde contro la pretesa di instaurare una piena democrazia in territori difficilmente permeabili. Ma nell’Egitto dei faraoni saccheggiati e destituiti il futuro resta quanto mai incerto.

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« Risposta #73 inserito:: Marzo 14, 2011, 04:49:53 pm »

14/3/2011

Giappone esempio di etica pubblica

LORENZO MONDO

L’immane tragedia che si è abbattuta sul Giappone rischia di cancellare come insignificante, almeno dal nostro punto di vista, una notizia pervenuta pochi giorni prima da Tokyo. Il ministro degli Esteri Seiji Maheara si è dimesso percuotendosi il petto, dichiarando di avere mancato la promessa fatta agli elettori di impegnarsi in una «politica pulita». Per la caduta di un uomo politico tra i più promettenti si è portati a immaginare una condotta particolarmente scandalosa, come intrecci affaristici, frequentazioni malavitose, imbarazzanti festini erotici. Macché. Maheara era accusato di avere ottenuto un finanziamento elettorale da uno straniero, cosa vietata dalla legge. Lo straniero era in realtà una sudcoreana, titolare di un ristorante, che, per quanto nata in Giappone, non può essere naturalizzata. Deploriamo le disposizioni severamente restrittive di Tokyo contro gli immigrati da Seul, ma ci preme al momento quantificare il contributo versato al ministro degli Esteri: scopriamo allora che non equivale a una tangente miliardaria ma, udite udite, a 450 euro!

C’è da restare sbalorditi. Dalle nostre parti un’analoga presa di coscienza dovrebbe indurre decine di parlamentari e pubblici amministratori a sfilare in tv flagellandosi per i voti comprati, le malversazioni di varia natura, le concessioni familistiche e clientelari come quelle testimoniate dalle «affittopoli» di Roma e di Milano.

È chiaro dunque che, parlando di Giappone, ci riferiamo a un altro mondo, a manifestazioni di un’etica pubblica da cui siamo abissalmente lontani e che siamo magari propensi a giudicare aberranti e patologiche. Dovremmo in verità attenerci al nocciolo della questione, rappresentato dall’osservanza delle regole che in Giappone viene richiesta in ogni circostanza e che viene pretesa specialmente dai rappresentanti dei cittadini: un rispetto normativo che si traduce nel rispetto sostanziale del consorzio civile.

È questo il patto al quale, trascurando l’entità dell’obolo, è venuto meno il ministro, accettando di pagarne le conseguenze. Le regole sono il cemento di una società che da esse attinge la sua forza. Anche per affrontare, come accade in queste ore in Giappone, con solidale coraggio non disgiunto da ammirevole freddezza, osservando i comportamenti prescritti, le sciagure che affliggono una terra così aspra e ingrata. La storia del ministro penitente diventa alla fine una parabola in cui tutto si tiene, comprese le nostre scoraggianti inadempienze.

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« Risposta #74 inserito:: Marzo 20, 2011, 03:25:16 pm »

20/3/2011 - PANE AL PANE

L'errore della Lega

LORENZO MONDO

Anche molti simpatizzanti della Lega avranno di che essere delusi dalla tiepidezza e dall’avversione che il partito ha manifestato in circostanze diverse nei confronti delle celebrazioni per l’unità d’Italia. E’ vero che l’adesione popolare ha superato ogni immaginazione, ma il movimento padano era accreditato di una particolare e invidiabile sensibilità nel cogliere gli umori profondi della gente. Che, fatta salva la stima per il presidente Napolitano, ha dato l’impressione in questi giorni di riconoscersi in un sentimento comune di appartenenza, alieno se non contrapposto alle pratiche del personale politico, alle sue sterili risse e frantumazioni. Questa volta non è andata così, il partito di Bossi ha ceduto agli istinti più primitivi di certi militanti, e sarà forse costretto a recuperare per non pagarne le conseguenze.

E’ stato un errore tattico, favorito tuttavia da una pochezza culturale. Non si trattava di mortificare il federalismo, che rappresenta giustamente, per il tempismo e la tenacia con cui è stato perseguito, il fiore all’occhiello del movimento. Il federalismo più severo ed esigente, avverso alle manovre edulcoranti, non può disconoscere l’importanza che ha assunto, in termini di civile progresso, l’unità nazionale. Di qui occorre partire, anche per correggere gli errori e le inadempienze del passato (d’altronde Napolitano, nel suo messaggio alle Camere, ha dichiarato che si stavano celebrando «le pagine migliori» della storia italiana).

Non basta l’imparaticcio sui testi di Cattaneo e di altri malcontenti per contestare un inoppugnabile dato di fatto da contrapporre a leghisti e neoborbonici: che, sia pure obtorto collo, non ci fu testa pensante a negare allora l’inevitabilità della «conquista sabauda» e di un governo centralizzato per l’istituzione di accettabili, considerati i tempi, ordinamenti liberali. Sarebbe esagerato opporre a Borghezio e compagnia i nomi atavici di Dante, Petrarca, Leopardi che disegnarono un’Italia unita per lungo tempo dalla sola lingua e cultura. Per stare in una più prossima area «padana», ci accontentiamo di Manzoni e di Verdi. E facciamo riferimento ai Mille di Garibaldi che furono soprattutto impinguati da lombardi, veneti, liguri. Da parte della Lega sembra essere calata su di loro una damnatio memoriae. Mentre per rispetto almeno di questi antenati, così decisivi nel compimento dell’unità nazionale, avrebbe dovuto rendere un onore non schifiltoso al tricolore che alimentò il loro coraggioso entusiasmo.

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