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Autore Discussione: LORENZO MONDO  (Letto 69458 volte)
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« inserito:: Ottobre 15, 2008, 03:44:40 pm »

15/10/2008
 
La giustizia e i conti della serva
 
 
LORENZO MONDO
 
Quella che chiamiamo per inveterata abitudine la giustizia italiana non finisce di mostrare le sue fattezze volatili, evaporanti. Rinfoderata (meno male) la spada e accantonata la bilancia, che è un onesto, indispensabile arnese, è in cerca di un simbolo aggiornato. Cosa sarà mai? Una porta spalancata e circonfusa di raggi?

O il libero volo di un uccello, non necessariamente rapace? Torniamo a parlare di giustizia, superando un’indicibile noia, perché oggi è stata concessa la semilibertà a un uomo di 35 anni che si chiama Pietro Maso e non è un personaggio da poco. Diciassette anni fa, nel Veronese, ha massacrato padre e madre per impadronirsi dei loro risparmi. Poi, per crearsi un alibi, è andato a distrarsi in discoteca. La condanna a trent’anni era sembrata una pena non particolarmente crudele per tanto orrore. Ma un giudice di sorveglianza ha stabilito che 16 anni potevano bastare, non si sa in base a quali motivazioni, quelle almeno che, fuor dalle scartoffie, appaiono comprensibili alla gente comune. Viene il fondato sospetto che certe scarcerazioni siano il frutto di automatismi computistici, i quali, absit iniuria, pareggiano le operazioni del magistrato agli elementari «conti della serva». Tanto per il previsto sconto di pena, tanto per la buona condotta, tanto per l’indulto e, di sottrazione in sottrazione, il detenuto torna libero anzitempo, contento lui e chi ha firmato l’ordinanza.

Certo, Pietro Maso non ha altri genitori da ammazzare, e magari si è anche pentito del suo delitto. Ma sfugge per lo più alla considerazione di giuristi e pedagogisti che il benedetto «recupero» di un delinquente passa anche nella sua accettazione della pena, della privazione, sia pure mite, non afflittiva, della libertà. Toccando terra e senza addentrarci nel labirinto dell’animo umano, osserviamo come sempre più venga meno in questo Paese la certezza della pena, a causa di provvedimenti che diventano stimolo al malfare e offesa per le vittime, silenti e dimenticate. Con grave detrimento della coesione sociale, se un’opinione pubblica (in molti casi attanagliata dalla paura) è indotta a chiedere sanzioni esorbitanti e vendicative o a chiudersi in un sentimento di scettica, sconfortata inappartenenza nei confronti delle istituzioni. Non c’è da stupirsene davanti allo spettacolo di una giustizia, quella vera e intemerata, costretta a scantonare, con il volto velato per la vergogna.

 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Febbraio 16, 2009, 11:30:38 am da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 09, 2008, 11:46:15 am »

9/11/2008
 
Vincere e perdere con onore
 
 
LORENZO MONDO

 
Quando ha capito di essere stato travolto dal voto popolare, John McCain non ha esitato a telefonare al vincitore, Barack Obama, per complimentarsi con lui, promettendogli la più ampia collaborazione. Autorevoli commentatori hanno dato evidenza a questo comportamento, tipico di una democrazia matura, contrapponendolo a quelli in uso nella politica italiana: al clima di rissa e dileggio che perdura, ben oltre i contrasti di sostanza, tra le parti contendenti. Mi sembra tuttavia che un’altra lezione si possa trarre dalle elezioni americane. Quando Barack Obama, dando pubblica notizia del messaggio di McCain, gli ha reso l’onore delle armi, l’immensa piazza dei suoi sostenitori ha tributato un lungo applauso all’avversario sconfitto. Da sempre, anche nei conflitti più aspri e sanguinosi, il rispetto per il «nemico» vinto è un segno di nobiltà, lo stesso che riscatta alla fine il feroce Achille davanti al cadavere di Ettore.

Con un salto acrobatico, registriamo un episodio dissimile, ma non contrastante nella sua essenza, verificatosi durante una gara che apparteneva a un tempo decisamente minore. Si è svolta nella vecchia Europa, a Madrid, dove si confrontavano due squadre di calcio, italiana e spagnola. Dove la Juventus ha espugnato il temibile stadio dei padroni di casa con due splendide reti di Alessandro Del Piero. I tifosi hanno salutato con entusiasmo la prova di un campione tanto bravo quanto modesto. Ma io, tifoso di complemento, sono rimasto impressionato ancora di più per l’omaggio che gli hanno riservato, con applausi scroscianti, gli spettatori spagnoli: tutti in piedi, alla fine della partita, mentre Del Piero ringraziava a sua volta con un leggero inchino. Una scena che riscattava tante immagini di passione sportiva deteriore, capace di precipitare in una subumana stolidità e protervia. Nella vita si vince per virtù propria o con l’aiuto, spesso capriccioso, della sorte. All’uomo è soltanto richiesto, in ultima istanza, di stare alle regole del gioco. Dopo di che si dovrebbe dare per acquisito, in qualsiasi arengo, il rispettivo apprezzamento, e riservare nel tripudio della vittoria un generoso inchino al perdente. Nella tristizia dei tempi, è bello cogliere questi affioramenti di un civile, inobliabile costume.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Dicembre 14, 2008, 12:15:49 pm »

14/12/2008
 
Metti subito Amanda nel cast
 
LORENZO MONDO
 

Ad Amanda Knox, coimputata nel feroce omicidio di Perugia, sembrerebbero convenire, quali che siano le sue precise responsabilità, i tratti di una viziosa, stravolta furia. Ma dopo i tredici mesi passati in carcere la ragazza offre di sé un aspetto del tutto rassicurante: contano, chissà, l’influenza della reclusione o il suggerimento dei difensori, senza escludere una sua augurabile maturazione interiore. I capelli ravviati, appena un velo di rossetto, maglietta e jeans, ha l’aria di una bella educanda. E alla fisica «conversione» contribuisce anche un filmino girato in prigione, al quale partecipa insieme con altre detenute. Da indiziata protagonista di un reality show ispirato al genere horror, a interprete di una edulcorata finzione in cui si trova a coltivare, manco a dirlo, il sogno della fuga.

A pochi giorni dalla proiezione la Regione Umbria, che ha finanziato l’impresa (con una spesa tra i 10.000 e i 15.000 euro) è stata però indotta a rinviarla per ragioni di opportunità, vista l’imminente apertura del processo. D’altronde, afferma l’assessore competente, non si voleva creare un caso, contribuire alla malsana pubblicità che ha investito Perugia: «Per noi le detenute sono tutte uguali». E invece no. L’affermazione suona per lo meno incauta, dal momento che Amanda, quella vera, è diventata un’eroina per tanti deficienti che affollano il circuito mediatico, pronti a inchinarsi davanti a una notorietà, a un «successo» comunque raggiunto. Escludiamo l’intento furbesco, ma non appare neanche persuasiva l’autodifesa del regista, il quale protesta che l’idea del suo film è nata ben prima che avesse luogo la truce vicenda.

Ma questo significa cambiare le carte in tavola, perché in discussione è soltanto il successivo, e tempestivo, inserimento di Amanda nel cast. Che senso ha inoltre coinvolgere negli asseriti propositi rieducativi del film una persona che non è stata ancora condannata e che potrebbe, per avventura, risultare innocente? Girala come vuoi, ma i chiarimenti ufficiali non convincono e certo non aiutano ad attenuare il risentimento dei familiari di Meredith, la vittima, alla quale non è stata assegnata nessuna parte nel film. E vien da pensare che forse la regione umbra potrebbe spendere i suoi soldi con maggiore avvedutezza.

da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 15, 2009, 02:56:49 pm »

15/2/2009 - PANE AL PANE
 
La crisi non canta a Sanremo
 
LORENZO MONDO
 

Bonolis si becca un milione di euro per condurre il Festival di Sanremo, Benigni si accontenta di 350.000 per una comparsata, alla faccia del suo Dante nemico dell’«usura». Non vale gridare allo scandalo davanti a un simile dispendio di denaro pubblico. Da casa Rai si obbietta, con il callido realismo di chi è avvezzo nel suo piccolo a largheggiare per sé, che l’anno scorso, alla manifestazione onorata dalla presenza di Pippo Baudo, non si è speso molto di meno. E che, in ogni caso, pagano gli sponsor. Come se questi avessero la vocazione della beneficenza e non trovassero il modo di rivalersi sui consumatori, già penalizzati dall’esborso del canone. D’accordo, dobbiamo riconoscere mestamente che è sempre andata così, ma l’andazzo diventa intollerabile mentre il paese è investito dalla piena della crisi. Mentre la crescita zero, i cassintegrati, i precari, le famiglie che stentano ad affrontare la quarta settimana disegnano un quadro fosco, non schiarito dai lustrini dello spettacolo. Poiché è inutile affidarci all’etica personale, sono le istituzioni pubbliche che dovrebbero dare un esempio, imporre un comportamento virtuoso, ispirato al senso del limite, al rispetto per le angustie che affliggono tanta parte della società.

Si assiste d’altra parte a un singolare paradosso. Sono proprio i cittadini meno abbienti che, incollati al televisore, si lasciano sedurre oltre misura, non solo dalle pur apprezzabili gare canore, ma più generalmente dalle scempiaggini che hanno largo corso nei programmi della Rai. Sono essi a legittimare, con il loro consenso, gli sproporzionati compensi del divo di turno. Si spellano le mani negli applausi, mentre dovrebbero ribellarsi a suon di fischi contro quella che si risolve in una acida beffa nei loro confronti. Fino a insorgere, magari, contro la taglia del canone televisivo di cui profittano Bonolis e compagnia di giro. Si sa quanto aiuti, di questi tempi, qualche serata di svago, magari abbastanza intelligente da non vergognarsene. Ma il prezzo da pagare non deve essere troppo caro e avvilente. E non vale consolarsi pronunciando, a denti stretti, il «Canta che ti passa».
 
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 22, 2009, 10:20:03 am »

22/3/2009 - PANE AL PANE
 
Più dei cani sono colpevoli i padroni
 
LORENZO MONDO
 
Amo i cani, nutro nei loro confronti un pregiudizio favorevole che mi induce a preferirli a certi esemplari della nostra specie. Ma sono turbato dai fatti accaduti in Sicilia, dove un bambino ha perso la vita e una giovane donna è stata sfigurata da un branco di randagi. Mi ha colpito una esagerata sollecitudine per la sorte degli animali, quasi superiore a quella provata per le loro vittime. Certo, la responsabilità ultima appartiene agli uomini, incapaci di arginare e controllare il fenomeno dei cani inselvatichiti.
Peccano, specialmente e in modo vistoso nelle regioni meridionali, le istituzioni che giocano allo scaricabarile. Ma la colpa viene da lontano, è dovuta a un più generalizzato malcostume. È cresciuto a dismisura il numero delle persone che vogliono dotarsi di un cane senza preoccuparsi delle sue esigenze, dell’impegno che richiede, dello spazio insufficiente per un trattamento dignitoso, specie se è un esemplare di grossa taglia. Così, nel migliore dei casi, vengono lasciati liberi di scorrazzare, di insozzare marciapiedi e giardini, di importunare variamente il prossimo. Altrimenti, dopo un breve, capriccioso innamoramento, vengono abbandonati senza pietà. Quelli che scampano alle ruote delle automobili sono indotti a predare, e a figliare nelle loro tane. E non è vero, come sostengono certi etologi, che esistesse un rapporto idilliaco tra uomini e animali nelle campagne di una volta: basti pensare ai cani che si strozzavano alla catena e ai cuccioli annegati o lapidati. Il problema sta oggi nel loro numero esorbitante, che oltre tutto rappresenta un costo eccessivo per la società, già inadempiente verso i vecchi, i malati, gli emarginati. Il rimedio all’emergenza dei branchi, se si vuole evitare una indiscriminata mattanza, sta quanto meno nella sterilizzazione. Ma occorre in primo luogo sanzionare duramente chi addossa alla comunità il peso di un cane vezzeggiato oltre misura o brutalmente abbandonato. Si renderà così giustizia agli «amici dell’uomo», compresi i devianti, senza mettere a repentaglio la vita e la tranquillità dei cittadini.
 
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Marzo 29, 2009, 11:14:37 am »

29/3/2009
 
L'inceneritore e l'acqua santa del vescovo
 

LORENZO MONDO
 
Benedizione negata all’inceneritore che ha preso il via ad Acerra. Il vescovo Giovanni Rinaldi ha ribadito così la sua avversione all’impianto che, oltre a smaltire una significativa quantità di rifiuti, rappresenta un evento di portata simbolica: un’inversione di marcia rispetto all’inerzia davanti a una emergenza ambientale che ha sfigurato l’immagine di Napoli e della Campania. Il vescovo reputa che l’inceneritore sia dannoso per la salute del suo gregge. Peccato che a pensarla come lui siano poche centinaia di dimostranti che fanno oggetto della protesta anche le discariche e i siti di stoccaggio. Vien da chiedersi quali altri rimedi propongano, oltre ai costosi convogli di immondizia avviati in Germania.

Berlusconi esulta, con buone ragioni, dopo avere posto termine ai mille ritardi che hanno ostacolato la realizzazione dell’opera. Ha ricevuto tra l’altro i complimenti del Presidente della Repubblica e gli applausi, concessi magari controvoglia, di Bassolino e della Iervolino. L’assessore regionale al Turismo, Claudio Velardi, si spinge più in là, celebrando la sconfitta di una «dannosa cultura del no». Non si capisce, davanti a questo schieramento, confortato dalla maggioranza dei cittadini, l’impuntatura del vescovo di Acerra. Fatta salva la libertà del dissenso e il diritto di impartire a piacere una benedizione, non si tratta di questione che riguardi la retta dottrina. Qui valgono soltanto le competenze di natura tecnico-scientifica, la fiducia che bisogna accordare, sia pure con l’onere della prova un esperto come il sottosegretario alla Protezione civile Guido Bertolaso, il quale sostiene che le emissioni di fumo ad Acerra saranno inferiori a quelle di una normale centrale elettrica.

Può un vescovo contestare aprioristicamente queste affermazioni? Non sembra un atteggiamento illuminato assumere posizioni populistiche, sposare le indiscriminate proteste che giungono da comunità non esenti, come dimostrato in molti casi, da infiltrazioni camorristiche. E che, in ogni caso, ubbidiscono a una strenua difesa del proprio «particulare». La buona fede non giustifica l’imprudenza, che non appartiene, se non erro, alle virtù teologali.

da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 12, 2009, 10:53:53 am »

12/4/2009
 
Dalla calamità nasce il seme della speranza
 
 
LORENZO MONDO
 
Il terremoto ha distrutto in Abruzzo paesi e città, ha provocato sofferenze inenarrabili, inventato storie così strazianti che, solo a sentirle, fanno venire il groppo in gola. Ma ha fatto anche qualcosa di diverso. Lo scuotimento furioso della terra ha travolto e rovesciato, insieme ai muri, l’immagine dell’Italia che ci viene consegnata abitualmente dalle cronache e, troppo spesso, dalle nostre stesse frequentazioni: un paese in cui proliferano corruzione, egoismo, stolida vanità. È venuta fuori, come per prodigio, una popolazione inavvertita e sommersa.

Abbiamo scoperto, quasi nata dalle macerie, una gente tenace nelle opere e negli affetti, che ha pudore di manifestare il proprio dolore, che nella perdita estrema - di famigliari, cose, ricordi - chiede aiuto con sobrietà e dignità. Colpisce il suo attaccamento a una terra che sa essere dolcissima e ingrata, a una capitale come L’Aquila, che si vuole recuperare fin dove possibile com’era e dov’era, presenza inobliabile tra le cento città della penisola. Ma per una sorta di virtuoso contagio e di mutuo riconoscimento, si è vista anche in Abruzzo una rappresentanza dell’Italia migliore. Penso in particolare ai soccorritori che si sono prodigati allo stremo, a rischio della vita, per strappare una persona o un corpo al disastro.

Vengono in mente le parole di Ignazio Silone, testimone di un altro terremoto, quello del 1915, in terra d’Abruzzo: «Esistono uomini oscuri, ignorati da tutti e in nulla eccezionali, non pederasti, non adulteri, non astratti o assurdi, non alla ricerca del senso della vita essendo nati con un certo senso della vita...Potrebbe darsi che il mondo si regga ancora in piedi grazie a essi. È però difficile riconoscerli». Li riconosciamo, sembrano diventare visibili soltanto in occasione di grandi calamità, spazzando via le incrostazioni malefiche, il ciarpame abusivo che umilia la nostra condizione umana. Sarebbe stolto ed empio parlare di un «buon» terremoto. È terribile essere costretti a cercare nel cuore della disperazione il seme della speranza in un mondo più vivibile e civile. Quella offerta dal sisma è tuttavia una lezione da non perdere. Lo dobbiamo agli abruzzesi e a noi stessi.

da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Aprile 26, 2009, 09:16:05 am »

26/4/2009
 
Mare nostrum dei derelitti
 
 
LORENZO MONDO
 
Per una nemesi beffarda della Storia, il Mediterraneo sta diventando il Mare Nostrum, in una accezione della quale non è possibile inorgoglirsi. Nel senso cioè che scarica sulle coste italiane i derelitti che si affollano sulla Quarta Sponda. Ho fatto in tempo a intonare da bambino un canto che inneggiava a Malta e a Tunisi «baluardi di romanità».

Bene, sono proprio Malta e Tunisi a darci in questi giorni grossi dispiaceri sul tema dell’immigrazione clandestina. La Valletta ha vinto il braccio di ferro con Roma, rifiutando di accogliere i 145 disperati della «Pinar» che solcava le sue acque territoriali. Ragioni primarie di umanità imponevano alle autorità italiane di assisterli, ma non è stata una bella prova di spirito europeistico da parte di Malta che dovrà essere richiamata con forza all’osservanza delle norme comunitarie.

Da Tunisi si è fatto anche peggio. Quel governo si è impegnato con un trattato a riaccogliere i suoi cittadini sbarcati in Italia senza permesso di soggiorno. Ma continua a frapporre ostacoli, allegando da ultimo una motivazione ridicola e offensiva. Sostiene infatti che molti rimpatriati sono tossicodipendenti e affetti da Aids. Motivo in più, si direbbe, per riprenderseli indietro con tante scuse. Mentre viene attribuita la responsabilità delle infezioni ai nostri centri di identificazione ed espulsione. La verità è che, per ogni accomodamento, vogliono soldi (l’ineffabile Gheddafi ha fatto scuola).

Apprendiamo intanto che mille clandestini hanno lasciato i centri di accoglienza perché sono scaduti i due mesi di detenzione: grazie alla bocciatura, da parte della sinistra e non soltanto, del decreto che ne prolungava i termini a sei mesi. Siamo alle solite, si procede in ordine sparso e in piena confusione, opponendo buonisti e rigoristi, davanti a un tema che, esperite tutte le risorse diplomatiche, meriterebbe di essere affrontato con la giusta severità, con sforzi meditati e coordinati.

Cinismo e lassismo diventano invece pretesti per una miserabile lotta politica che non è frutto di contrapposte idealità ma di una miopia incapace di cogliere i segni dei tempi, di affrontare problemi di natura epocale. Così veri che Malta e Tunisi, a loro modo, mostrano di esserne consapevoli, lasciandoci il compito di sbrogliare la matassa.

da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 03, 2009, 11:59:06 am »

3/5/2009
 
3/5/2009
 
La parabola dei due ponti
 

LORENZO MONDO
 
Adesso basta - si inveisce da più parti -, quel ponte deve essere finalmente abbattuto.
La minaccia incombe sul Ponte della Cittadella che con le sue nove arcate scavalca il Tanaro davanti alla fortezza settecentesca di Alessandria. Con la sua limitata capacità di deflusso, costituirebbe una diga o, più prosaicamente, un tappo che in questi giorni, e già nell’alluvione del 1994, ha provocato disastrosi allagamenti in città. Non risulta che, costruito a fine ’800, si sia macchiato precedentemente di colpe così gravi.

Sono i mutamenti climatici che lo rendono obsoleto rispetto alle nuove esigenze di sicurezza?
O non si tratta piuttosto delle conseguenze di una eccessiva urbanizzazione lungo fiumi e torrenti che compromette la permeabilità dei terreni lungo il loro percorso? Se è davvero così pericoloso, e mancassero altri rimedi, non sarà il vincolo delle Belle Arti e il rammarico degli estimatori a scongiurare la demolizione di questo manufatto che, senza essere il Ponte Vecchio o Rialto, ha una sua nobiltà. Ma si eviti almeno di farne il capro espiatorio di estese responsabilità che vanno ricercate più a monte.

Per una beffarda coincidenza, a un ponte che ostinatamente resiste e deve essere preso, per così dire, a cannonate, un altro se ne contrappone che si fa male da solo.
Sul ponte che collega Piacenza alla sponda lombarda è sprofondata una campata, coinvolgendo per fortuna «solo» quattro automobilisti. Costruito un secolo fa, rifatto dopo i bombardamenti dell’ultima guerra, il ponte era stato sottoposto di recente a lavori di restauro. Non sembra che l’incidente sia dovuto all’ondata di piena.
Si contesta infatti che il crollo ha interessato una parte sovrastante la golena, e non qualche pilone situato nel letto del fiume.

Se così fosse, assisteremmo a un’altra più diretta e circoscritta forma di incuria, a una correità tutta umana rispetto alle calamità naturali. Staremmo freschi se il nuovo ponte che ad Alessandria dovrebbe sostituire il vecchio desse analoghi risultati. I due casi non sono in senso stretto confrontabili, ma potrebbero diventare oggetto di una graziosa parabola: sulla scarsa solidità, ma anche sull’imprevidenza del nuovo che avanza; sul buon uso dei ponti, sulla volontà e sulla capacità di preservarne la funzione di civile raccordo.

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LORENZO MONDO
 
Adesso basta - si inveisce da più parti -, quel ponte deve essere finalmente abbattuto.
La minaccia incombe sul Ponte della Cittadella che con le sue nove arcate scavalca il Tanaro davanti alla fortezza settecentesca di Alessandria. Con la sua limitata capacità di deflusso, costituirebbe una diga o, più prosaicamente, un tappo che in questi giorni, e già nell’alluvione del 1994, ha provocato disastrosi allagamenti in città. Non risulta che, costruito a fine ’800, si sia macchiato precedentemente di colpe così gravi.

Sono i mutamenti climatici che lo rendono obsoleto rispetto alle nuove esigenze di sicurezza?
O non si tratta piuttosto delle conseguenze di una eccessiva urbanizzazione lungo fiumi e torrenti che compromette la permeabilità dei terreni lungo il loro percorso? Se è davvero così pericoloso, e mancassero altri rimedi, non sarà il vincolo delle Belle Arti e il rammarico degli estimatori a scongiurare la demolizione di questo manufatto che, senza essere il Ponte Vecchio o Rialto, ha una sua nobiltà. Ma si eviti almeno di farne il capro espiatorio di estese responsabilità che vanno ricercate più a monte.

Per una beffarda coincidenza, a un ponte che ostinatamente resiste e deve essere preso, per così dire, a cannonate, un altro se ne contrappone che si fa male da solo.
Sul ponte che collega Piacenza alla sponda lombarda è sprofondata una campata, coinvolgendo per fortuna «solo» quattro automobilisti. Costruito un secolo fa, rifatto dopo i bombardamenti dell’ultima guerra, il ponte era stato sottoposto di recente a lavori di restauro. Non sembra che l’incidente sia dovuto all’ondata di piena.
Si contesta infatti che il crollo ha interessato una parte sovrastante la golena, e non qualche pilone situato nel letto del fiume.

Se così fosse, assisteremmo a un’altra più diretta e circoscritta forma di incuria, a una correità tutta umana rispetto alle calamità naturali. Staremmo freschi se il nuovo ponte che ad Alessandria dovrebbe sostituire il vecchio desse analoghi risultati. I due casi non sono in senso stretto confrontabili, ma potrebbero diventare oggetto di una graziosa parabola: sulla scarsa solidità, ma anche sull’imprevidenza del nuovo che avanza; sul buon uso dei ponti, sulla volontà e sulla capacità di preservarne la funzione di civile raccordo.

da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 10, 2009, 11:30:57 am »

10/5/2009
 
Clandestini e domande senza risposta
 
 
 
LORENZO MONDO
 
Domande, domande, domande... E’ vero o no che governi di segno diverso si sono impegnati in defatiganti e costosissime trattative per ottenere da Gheddafi il contrasto all’immmigrazione clandestina che si riversa sulle sponde italiane? Il nodo del problema non era forse il respingimento ai porti di partenza dei barconi di profughi? L’interruzione di un abbietto commercio di schiavi? Non va riconosciuto al ministro Maroni almeno il merito di avere ottenuto un risultato pressoché unanimamente perseguito?

E’ un reprobo Piero Fassino quando nega, da sinistra, che il provvedimento rappresenti di per sé uno scandalo? Pur invocando tutta la possibile sollecitudine per la sorte dei «rimpatriati»? E non esagera l’alto commissariato dell’Onu nella sua condanna per il mancato asilo, quando non si è mosso ciglio per le persone respinte a decine di migliaia dal governo Zapatero con l’impiego di unità navali? Al di là delle posizioni di principio, non peccano di imprudenza e faciloneria certe voci indignate che, senza suggerire pratiche soluzioni, si levano dagli ambienti cattolici?

Inoltre quale lettura occorre dare della Convenzione di Ginevra e della stessa Costituzione italiana? In quale entità vanno accolti gli stranieri ai quali non è consentito «l’effettivo esercizio delle libertà democratiche»? Non sarà che le carte dei diritti erano pensate per gruppi minoritari di perseguitati? Oppure, in un mondo sconvolto dalle guerre, dove prevalgono le dittature e i regimi autoritari, il diritto di asilo dovrebbe estendersi paradossalmente a innumerevoli popoli migranti? Svuoteremo, se sarà il caso, l’intero Darfur?

Il problema, con il suo carico di sofferenze inenarrabili, non dovrebbe essere affrontato alle radici, ben oltre le episodiche e pur drammatiche insorgenze che turbano la nostra coscienza? Perché non battersi, facendo la nostra parte, per un più robusto e generoso sostegno internazionale alle nazioni sfigurate da miseria e violenza? Non dovremmo sottrarci, per quanto riguarda casa nostra, alle ipocrisie e alle strumentali risse politiche che alimentano, insieme al legittimo bisogno di sicurezza, i peggiori istinti del corpo sociale? Domande, ancora domande a cui vorremmo trovare, nel piccolo e nel grande, qualche risposta per rasserenare l’orizzonte che ci attende.
 
da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Maggio 17, 2009, 11:19:04 am »

17/5/2009
 
Sfida vinta a Nazareth
 

LORENZO MONDO
 
Ho la netta sensazione che il Papa abbia vinto la sfida rappresentata dal suo viaggio, per più versi cruciale, in Israele e in Palestina. Se ne è avuta la conferma con il gesto quasi liberatorio compiuto a Nazareth, dove tutto, per i cristiani, ha avuto inizio. Quando, invocando la pace e la riconciliazione davanti a 40 mila fedeli, ha preso per mano un rabbino e un imam, associandoli alla sua preghiera. È l’immagine più incisiva che resterà a documentare il suo pellegrinaggio. Per un momento quest’uomo, riservato e quasi sopraffatto dalla timidezza, è sembrato scoprire l’estro comunicativo di Wojtyla, il grande predecessore.

È stata una solenne smentita al malanimo pregiudiziale di certi commenti, come quello dell’Economist, che si attendeva da lui un’ennesima gaffe. Ma lungo tutto il percorso, ha avuto ragione del fazioso esame filologico cui sono state sottoposte le sue parole. Gli imputavano di non avere pronunciato l’aggettivo nazista, di avere indicato genericamente in milioni, e non in sei milioni, gli ebrei finiti nei campi di sterminio, di non avere chiesto un’altra volta scusa per non si sa bene quali omissioni. Gli estremisti della parte avversa avrebbero voluto invece che denunciasse a chiare lettere il colonialismo e le stragi perpetrate da Israele.

In realtà, Benedetto XVI non ha eluso, con placida fermezza, nessuno dei temi forti che riguardano la Terrasanta. Ha difeso il diritto dei palestinesi ad avere una patria, ha chiesto l’abbattimento del vessatorio e anacronistico muro eretto da Israele e la fine del blocco di Gaza. Ma al Museo dell’Olocausto ha manifestato il suo turbamento davanti al memoriale delle vittime, ha ribadito con parole inequivocabili la condanna dell’antisemitismo e il «vincolo inseparabile» che unisce cristiani ed ebrei.

E ha esortato tutti a respingere la tentazione dell’odio e della violenza, la manipolazione della fede religiosa per fini politici. Non occorre essere credenti per consentire a queste esortazioni che ogni uomo in buona fede trova ragionevoli. Da chi si propone come messaggero di pace nella martoriata terra di Gesù e si trova, per fortuna, sprovvisto di armate (come argomentava Stalin) e di poteri decisionali non si può francamente aspettarsi di più.

da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Maggio 31, 2009, 09:23:29 am »

31/5/2009 - PANE AL PANE
 
Chi tollera i writers
 
LORENZO MONDO
 
L’ultimo innesco pirotecnico sul tema vetusto delle città sporche è opera di Berlusconi. Non curandosi di dare una gomitata nello stomaco all’alleato Alemanno, si è lamentato del degrado di Roma che, assieme ad altri capoluoghi come Palermo o Napoli, per «le scritte sui muri e la lordura nelle strade» sembra più una città africana che europea. La sortita estemporanea, seguita da puntuali rettifiche e scarichi di responsabilità, e subito finita nel frullatore della politica, richiama tuttavia l’attenzione su un problema che angustia i sindaci di ogni dove. Fermiamoci sulle scritte che deturpano pareti, arredi e monumenti, addirittura raccapriccianti nei centri storici e artistici. Le firme criptiche di bande giovanili si accompagnano a cupe simbologie e a slogan di indiscriminata, ribellistica protesta.

Offrono, nell’insieme, il quadro di un sottobosco sociale dove alligna una desolante incultura e una sterile, annaspante faziosità. A dare un’idea dell’estensione del fenomeno è il caso registrato a Grezzana, un sobborgo di Verona. Dove i muri lardellati fino all’inverosimile hanno indotto i carabinieri a una indagine che si è risolta nella denuncia di una quarantina di giovani per danneggiamenti.

Rimediare allo scempio provocato dai writers comporta ingenti spese per la comunità, ma le recriminazioni e le diffide non hanno sortito esiti diversi dalle famose «grida» manzoniane. Occorre certo provvedere a una maggiore vigilanza e a un inasprimento delle sanzioni. Ma tutto appare vanificato in prima battuta dagli alibi che vengono forniti ai vandali per ragioni diverse. C’è chi si ostina a difendere i risultati estetici di certe composizioni che, di qualità vera o presunta, potrebbero spalmarsi su spazi concordati, senza imporsi alla vista riluttante dei cittadini. Ma c’è anche chi, mosso da pulsioni populistiche (è il caso di Umberto Bossi) sostiene che a un movimento politico deve essere concesso di esprimersi anche sui muri. La varietà dei contesti e delle argomentazioni non assolve comunque le patenti sciocchezze che concorrono a perpetuare un clima tollerante e benevolo nei confronti di una incivile trasgressività. Dovremo proprio tenerceli stretti, questi imbrattatori, insieme alle discariche abusive e alle merde di cani disseminate sui marciapiedi?

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« Risposta #12 inserito:: Giugno 07, 2009, 11:57:59 am »

7/6/2009
 
Un santo normale
 
 
 
 
 
LORENZO MONDO
 
Massì, dobbiamo essere grati a Giacomo Galeazzi che ha riproposto, su questi fogli, lo straordinario rapporto che ha unito Giovanni Paolo II all’amica di giovinezza Wanda Poltawska. L’occasione è rappresentata dal carteggio inedito con papa Wojtyla che la signora ha pubblicato in Polonia, mentre è in corso l’inchiesta che dovrebbe condurre alla sua beatificazione. Ha suscitato qualche malumore in Vaticano il fatto che non abbia consegnato al collegio teologico competente «tutte» le lettere in suo possesso.

Il cardinale di Cracovia Stanislao Dziwisz ha giudicato inopportuna la pubblicazione, attribuendola alla vanità dell’ottantottenne signora, che non sarebbe la sola a poter vantare una «lunga familiarità» con Karol Wojtyla. Anche se cinquant’anni di corrispondenza e l’assidua frequentazione, fino al capezzale del papa morente, sembrerebbero fuori del comune. La pensa infatti diversamente padre Adam Boniecki che esalta il coraggio di Wanda nel far emergere un legame così forte, nello spezzare la tradizione di «papi distanti, senza contatti con le donne».
Sensibilità divaricate espresse da uomini che furono particolarmente vicini al pontefice polacco.

Non so se l’episodio, e l’acquisizione tecnicamente ineccepibile delle nuove carte, rallenterà il processo di beatificazione, cosa di per sé irrilevante. È significativo d’altra parte che nessuno si sia attentato a trarre dall’episodio illazioni scomposte e pruriginose. La limpida affettività di Wojtyla, maturata nel riverbero di tempi terribili (Wanda è sopravvissuta tra l’altro all’esperienza devastante del lager), attraverso una mirabile comunione intellettuale e spirituale, non ne è stata scalfita. Le ulteriori testimonianze ripropongono semmai il fascino di un papa che ha tratto dalla sua formazione laica (di teatrante, operaio, dissidente politico, sportivo) i tratti di una persona «normale», che non si è mai concessa separatezze «clericali».

Stando al suo rapporto con Wanda, forse il solo Francesco d’Assisi ha realizzato, nella diversità del contesto e delle proporzioni, una analoga affinità con Chiara.
Vien da dire che per tutti questi motivi, per il suo calore umano, prende forza l’entusiasmo popolare che, all’indomani della sua morte, lo proclamava «subito Santo».
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Luglio 12, 2009, 04:43:49 pm »

12/7/2009
 
Toccati nel vivo
 
 
LORENZO MONDO
 
Frequento, tra le altre, molte persone che professano generiche o marcate opinioni di sinistra, espresse con convinzione e ragionevolezza, talora con il sussiego di chi sprezza le ragioni del volgo profano. E avverto da un po’ di tempo delle curiose incrinature nel loro modo di pensare. Qualcuno, più impegnato politicamente, confida con l’aria del congiurato di provare disagio per l’opposizione indiscriminata ai provvedimenti del governo, specialmente quelli che riguardano l’immigrazione e la sicurezza: tanto più quando, com’era prevedibile, viene garantita una sanatoria di fatto per le colf e le badanti clandestine. Altri lasciano intendere di praticare l’arte della dissimulazione per non mettere a repentaglio antiche amicizie. Li riconosci quando, negli accesi discorsi che si tengono per lo più a tavola, inclinano al silenzio o al diversivo, a un sorriso di spenta connivenza.

Questi oppositori imbarazzati o renitenti escono allo scoperto, unendosi a una generalizzata protesta, quando si sentono toccati nel vivo: come nel tranquillo e agiato quartiere torinese dove si annuncia che verranno accolti in una caserma dismessa duecento profughi, sloggiati da un quartiere popolare per la protesta dei residenti. Nel caso c’entra magari l’egoismo, alimentato tuttavia dal fatto che questi rifugiati, privi di lavoro, ammassati anziché frazionati, dovranno essere sottoposti a una sorveglianza speciale. A Rovigo, invece, l’amministrazione di centro sinistra pensa di incentivare con un assegno il rimpatrio di immigrati che, «vivendo in una situazione di forte disagio potrebbero diventare delinquenti».

Tranciante e senza infingimenti una lavoratrice domestica che ho conosciuto. Arriva dalla Sicilia e, stupendosi del mio stupore, racconta di avere votato insieme alla sua ramificata famiglia per la Lega di Bossi. Esistono dunque, a livelli diversi, preoccupazioni senza etichette che non accettano ipocrisie e virtuosi richiami ad una accoglienza che risulta possibile ed efficace, davvero generosa, soltanto se regolamentata. E’ una questione che esigerebbe di essere affrontata senza sterili ideologismi, senza arroccamenti degni di tematiche più controverse e stringenti per la grande maggioranza dei cittadini.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Luglio 19, 2009, 12:14:18 pm »

19/7/2009
 
Non tutti sono bamboccioni
 
 
LORENZO MONDO
 
Il Rapporto Giovani 2008, elaborato dalla Sapienza di Roma per conto del ministro Giorgia Meloni, riguardante il variegato fenomeno della disoccupazione, appare per più versi istruttivo. Ci informa che nella fascia di età tra i 15 e i 19 anni ci sono 270 mila ragazzi che non studiano e non lavorano. In quella compresa tra i 25 e i 35 anni il numero sale a un milione e 900 mila. C’entra evidentemente la stringente crisi economica, insieme allo scoraggiamento davanti a un percorso scolastico che non offre confortanti possibilità di impiego. Le statistiche, si sa, non esprimono certezze, non tengono conto, per esempio, di un sottaciuto lavoro occasionale o praticato in nero. Ma c’è un dato che assume uno speciale rilievo, e riguarda gli «inattivi convinti», i giovani cioè che affermano, con tranquillità e perfino iattanza, di non avere nessuna intenzione di cercare un lavoro. Ben settecentomila appartengono alla sola fascia più adulta considerata dal Rapporto.

Si apre così la strada alle speculazioni di sociologi e psicologi che, se non vogliono perdersi in capziosi funambolismi, devono attenersi alle risorse di cui dispongono i coraggiosi rinunciatari per tirare avanti. Bella forza, quando si pensi ai sussidi di disoccupazione elargiti con larghezza in certe regioni, e soprattutto alle disponibilità offerte dai familiari: tanto più teneri e comprensivi quanto più afflitti dai complessi di colpa per avere indirizzato i figli verso una vita facile, insensibile all’etica della responsabilità e del sacrificio. Esistono d’altra parte numeri in controtendenza rispetto a questa apatica deriva. Sono le migliaia di giovani che, reagendo al perdurante sottosviluppo del Meridione, tornano a intraprendere una dolorosa emigrazione verso il Nord. E diventa emblematica l’esortazione che l’osannato presidente Obama ha rivolto ai giovani neri d’America, poveri, emarginati e disoccupati, di non rassegnarsi al proprio destino, di non attribuire i loro insuccessi a esclusive motivazioni di ordine sociale.

Il nostro contesto non si presenta, per fortuna, così aspro, ma quella sferzata dovrebbe valere idealmente proprio per i giovani più coccolati e garantiti oltre misura, per i loro genitori inadempienti, prima e dopo, rispetto al loro compito di educatori.

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