LA-U dell'OLIVO
Giugno 26, 2024, 03:01:44 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 4 5 [6] 7 8 ... 13
  Stampa  
Autore Discussione: FEDERICO RAMPINI.  (Letto 107813 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #75 inserito:: Maggio 23, 2011, 04:51:50 pm »

FINANZA E WEB

La pazza corsa dei titoli Internet la seconda bolla pronta a scoppiare

La super valutazione per le nuove star delle rete spaventa Wall Street.

A guidare la speculazione Linkedin. Acquisizioni e alleanze per reclutare nuovi talenti e far salire il valore delle società

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - I sintomi dell'impazzimento ci sono. Nello stesso articolo del New York Times, l'inaudito rialzo in Borsa del sito Linkedin (+110% in un giorno) viene trattato come un fenomeno chiaramente sospetto e patologico: "L'azienda è fragile".

"Il suo modello di business deve ancora fare le prove. Dovrebbe crescere in modo incredibile per giustificare un simile prezzo". Linkedin è una versione su scala ridotta di Facebook, usato soprattutto per contatti professionali. Sono davvero tanti 11 miliardi di dollari di valore in Borsa, per una società che ha appena 240 milioni di fatturato. Ma poche righe sopra, nello stesso articolo del New York Times le banche vengono criticate per avere fissato un prezzo di collocamento troppo basso, negando così ai fondatori di Linkedin un guadagno ancora più colossale giovedì scorso nel giorno del primo collocamento.

E' la schizofrenia tipica delle bolle speculative: s'intuisce che i prezzi sono insensati, ma quel che dà oltremodo fastidio è se qualcuno ne approfitta più di altri. Da mesi ormai si parla di una nuova bolla speculativa, creata attorno a tutte le neonate società che sfruttano nuove potenzialità di Internet: Facebook, Twitter, Skype, e tanti altri nomi meno noti. Anche nel 1999 la stampa abbondava di titoli che mettevano in guardia: "bolla", "euforìa di massa", "febbre speculativa", "esuberanza irrazionale" erano termini usati generosamente.
Eppure il Nasdaq continuò la sua ascesa verso la stratosfera, il crollo arrivò solo nel marzo 2000: e fu una prova generale dell'altra grande bolla, quella dei mutui subprime nel 2007.

Anche adesso gli investitori preferiscono ignorare gli avvertimenti. Al culmine delle bolle vale sempre la "teoria dello stupido più stupido": approfittiamo della bengodi, ci dev'essere qualcun altro ancora meno avveduto di me, a cui alla fine lascerò in mano il cerino acceso.

L'elenco delle valutazioni da capogiro è lungo ma deve partire per forza da Facebook. Il sito sociale più celebre del mondo, che ha superato il mezzo miliardo di frequentatori, viene valutato a 50 miliardi (la data del suo collocamento in Borsa non è stato deciso). Nessuno nega che Facebook sia uno dei fenomeni che hanno segnato la nostra èra della socializzazione digitale. Ma questo giustifica che valga più della Boeing, il colosso che produce jet su cui viaggia da generazioni il mondo intero? Twitter vale più della Ford. Groupon, che offre voucher online per sconti su acquisti, ha rifiutato i 6 miliardi che offriva Google per acquistarla: preferisce quotarsi in Borsa dove è convinta di valere almeno 15 miliardi, anche se il suo fatturato è di soli 760 milioni.

Tra i sintomi dell'euforìa si moltiplicano i fenomeni di "acq-hire", gioco di parole che si può tradurre in "compr-assumi": società come Facebook acquistano sul mercato concorrenti molto più piccoli, al solo scopo di reclutare i talenti che ci lavorano dentro. E' una bella conferma che il fattore umano è fondamentale nella Silicon Valley, ma questo contribuisce a far lievitare i prezzi di tutto.

Gli ottimisti sottolineano che è sbagliato far paragoni con l'altra bolla della Silicon Valley, quella scoppiata nel marzo 2000. I cambiamenti principali da allora sono tre. Il primo è il prodigioso balzo in avanti delle tecnologie. Oggi un semplice telefonino incorpora più potenza del personal computer di dieci anni fa. E le sue capacità sono esaltate dall'accesso alla "nuvola": così vengono chiamati i servizi digitali disseminati su vari server, ai quali ogni utente ha facilmente accesso. Un esempio di "nuvola tecnologica" è la discoteca-libreria digitale iTunes della Apple. Le applicazioni proliferano all'infinito e così le opportunità di guadagno per chi sa sfruttare queste piattaforme, tenuto conto che si vendono ormai 450 milioni di smartphone all'anno.

Un'altra novità è l'ingresso in campo di nuovi investitori: al tradizionale venture capital (22 miliardi di investimenti l'anno scorso) e agli "angeli" che accudiscono gli incubatori di nuove imprese (20 miliardi l'anno) si affiancano hedge fund, private equity, e anche le grandi banche di Wall Street come Goldman sachs e JP Morgan. Infine a differenza dal 2000 il gioco stavolta è diventato planetario. Alcuni dei più spettacolari collocamenti di Borsa hanno avuto per protagoniste delle aziende Internet cinesi, come il sito sociale Renren. La Cina sfiora ormai il mezzo miliardo di utenti Internet e salirà a 700 milioni entro cinque anni. Il commercio online cinese è destinato a quadruplicare, dai 70 miliardi di dollari attuali a 300 miliardi.

Ma è proprio dalla Borsa di Shanghai che è arrivato un segnale allarmante: dopo un collocamento strepitoso, il sito Renren ha già perso 20% del suo valore in Borsa. A Wall Street, Goldman Sachs ha già venduto la sua quota in Linkedin e incassato la plusvalenza. Si rischia forse di assistere a un fenomeno simile al boom delle materie prime: la punta massima è già dietro le spalle, un grande investitore come George Soros è "uscito" dall'oro con lauti profitti e ora sta alla larga dal metallo giallo. Proprio mentre tanti piccoli risparmiatori saltano sul carro, forse all'ultima curva?

(22 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/economia/2011/05/22/news/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #76 inserito:: Maggio 25, 2011, 05:10:12 pm »

24
mag
2011

Federico RAMPINI

Obama ringrazia, Marchionne ora cammini da solo

“Storico, una pietra miliare”, Obama definisce così l’addio dell’azionista pubblico alla Chrysler. Per lui è un successo importante, sul piano economico sociale e politico. Bisogna ricordarsi le valanghe di accuse rovesciategli addosso dalla destra, per il salvataggio pubblico di Chrysler (e della ben più grossa General Motors che venne ribattezzata Government Motors).

Quell’intervento coi soldi dei contribuente, più l’inedita partnership col sindacato metalmeccanico entrato lui stesso in consiglio d’amministrazione tramite l’investimento maggioritario del suo fondo sanitario-previdenziale: tutto ciò era stato sbandierato dalla destra americana come una prova evidente della “statalizzazione” dell’economia, del “socialismo” di Obama.

Il bilancio è ben diverso. Lo Stato si ritira, come preannunciato, perché Obama non ha mai avuto voglia di vestire i panni dell’imprenditore pubblico. Il contribuente ci guadagna, anziché perderci. La continua emorragìa di occupazione a Detroit si è arrestata, sia pure con pesantissimi sacrifici operai (salario dimezzato ai nuovi assunti, rinuncia per qualche anno al diritto di sciopero), e si scorgono i primi segni di una parziale re-industrializzazione degli Stati Uniti. Se Obama ha fatto politica industriale “dirigista”, è stato per spingere le case di Detroit a produrre più auto verdi e meno “eco-mostri” come i Suv.

Il resto torna ad essere una vicenda tutta Chrysler-Fiat, cioè Marchionne. Senza stampelle pubbliche, dovrà dimostrare che la sua scommessa non è solo abile ingegneria finanziaria ma vero progetto industriale. Possibilmente non giocato solo sull’asse Detroit-Torino ma allargato ai veri mercati del futuro, cioè Cindia.

da - rampini.blogautore.repubblica.it/2011/05/24/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #77 inserito:: Giugno 20, 2011, 05:07:06 pm »

Addio lavori estivi, un altro sogno americano se ne va

19
giu
2011

L’avviso di Moody’s sul debito italiano e la credibilità dei “rating”


Dobbiamo credere alle agenzie di rating? I loro giudizi sulla solvibilità di uno Stato sovrano – i “voti” al debito pubblico greco o italiano – hanno valore di un diktat sui mercati. E’ giusto che sia così? Il grave annuncio di Moody’s sul possibile declassamento del debito italiano riporta in primo piano il potere dei “signori del rating”, già al centro di furiose controversie in passato. Larry Summers da ministro del Tesoro degli Stati Uniti era considerato uno degli uomini più potenti del mondo eppure soleva dire: “Se esiste la reincarnazione, quando rinasco vorrei essere il mercato obbligazionario”. Più potente del ministro del Tesoro americano, è quel mercato da cui dipende il finanziamento dei suoi T-Bonds, i titoli del debito pubblico. Il mercato a sua volta chi ascolta? Le agenzie di rating. Tre in particolare, tutte americane: Standard & Poor’s e Moody’s, che controllano ciascuna circa il 40% del business, Fitch con un altro 15%. Il loro potere è enorme: un downgrading o declassamento del voto di solvibilità di uno Stato, cambia la percezione di rischio degli investitori che di conseguenza chiederanno rendimenti più elevati sui titoli per compensare la minore sicurezza. Più alti tassi comportano un peggioramento dei conti pubblici, quindi tagli ai servizi sociali o aumento delle imposte. L’intera agenda politica di un governo, e il consenso dell’opinione pubblica, subiscono effetti profondi dai rating. Non è stato sempre così. Anche se le agenzie di rating esistono da 150 anni (la prima fu S&P, nacque nel 1860 per valutare le finanze delle compagnie ferroviarie americane), il loro ruolo si è imposto lentamente. Dal crac del 1929 in poi le tante crisi, le successive riforme a tutela del risparmio, hanno assegnato un ruolo maggiore alle “pagelle” di solvibilità sulle aziende private. I voti ai governi hanno una storia più recente, è dagli anni Settanta che il finanziamento del debito pubblico ha cominciato ad avvenire in modo consistente sui mercati internazionali. Il mondo del credito è cambiato vorticosamente, è diminuita l’intermediazione delle banche (che in passato facevano in proprio l’analisi dei rischi sui debitori) mentre è aumentato il ruolo dei bond, le obbligazioni, comprate e vendute da vaste categorie di investitori. Questi investitori non sono solo gli squali di Wall Street, gli gnomi di Zurigo, gli sceicchi arabi, o i predoni degli hedge fund: ci sono anche fondi pensione e compagnie assicurative, da cui dipende il tenore di vita di intere generazioni di pensionati. Perciò le autorità di vigilanza hanno introdotto in molti paesi il divieto agli investitori istituzionali di comprare titoli che non abbiano un “buon voto”, a garanzia che non faranno crac. Le agenzie di rating offrono davvero questo genere di garanzia? Le critiche contro il loro operato sono severe, in particolare dopo la grande crisi del 2007–2009. Però il tenore di queste critiche è di segno opposto, rispetto al malumore che emana dai governi “bocciati” o minacciati di declassamento. Non troppo severe, anzi troppo indulgenti: questo è stato il rimprovero rivolto alle agenzie di rating. Per anni avevano etichettato con “tripla A” (massimo voto) i titoli tossici che contenevano i famigerati mutui subprime. Ancora prima di quel disastro c’erano stati antecedenti ignobili: Enron, Parmalat, anche lì le agenzie erano state colpevoli di non avere avvistato i segnali delle bancarotta. Quegli errori sempre dello stesso segno, sempre per eccessiva indulgenza, erano causati dal conflitto d’interessi alla base del loro mestiere: gli esperti dei rating vengono pagati quasi sempre da chi emette i titoli. Hanno quindi un forte motivo per “chiudere un occhio” sulle magagne dei loro clienti. Lo disse in modo colorito, in una celebre email del 2006, un dirigente di S&P: “Siamo vittime della sindrome di Stoccolma”, cioè simpatizzanti con chi le tiene in ostaggio, i clienti che emettono titoli. Dopo la crisi del 2007–2009 una commissione d’inchiesta del Congresso Usa ha tratto questa lezione: “Le tre agenzie di rating sono state un ingranaggio essenziale nella macchina della distruzione finanziaria”. Da allora le proposte per cambiare le regole non sono mancate. L’Unione europea ha sottoposto le agenzie a vigilanza. La Sec, l’authority di controllo sulla Borsa americana, studia la possibilità di dare “un rating alle agenzie di rating”, chiamandole a rispondere dei loro errori. Il più grande fondo pensione del mondo, quello degli statali della California, ha in corso una causa giudiziaria per rimborso danni contro le agenzie. Altri si sono mossi per ridurre il monopolio americano delle tre sorelle, viste come le guardiane di un’agenda neoliberista. Il caso più importante è la Cina, con la sua agenzia di rating Dagong che ha “declassato” per prima il debito sovrano degli Stati Uniti (oltre che di Inghilterra e Francia). Tuttavia i mercati non prendono molto sul serio la promessa del presidente cinese Hu Jintao secondo cui Dagong userà “solo criteri oggettivi”. Lo scarso peso di Dagong dimostra che non è facile costruire un’alternativa. Il Parlamento europeo ha discusso l’ipotesi di creare agenzie pubbliche, da opporre alle tre private americane. Quanti investitori si fiderebbero di agenzie manovrate dai governi? Sarebbero più credibili, o al contrario i loro giudizi sarebbero “politici”, viziati da conflitti d’interessi ancora più vistosi? Il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schaeuble, due anni fa disse che “i mercati non dovrebbero prendere troppo sul serio i rating”. Ora lo stesso Schaeuble si guarda bene dal ripetere quella frase. I severi giudizi delle agenzie di rating sono i benvenuti oggi, quando la Germania deve fare pressione sul governo di Atene perché tenga fede alle sue promesse di rigore nella spesa pubblica, privatizzazioni, tagli alle prebende assistenziali. E se domani la crisi greca si allargherà alla Spagna, poi all’Italia? Il contribuente tedesco sarà ben più allarmato, sempre più restìo a finanziare aiuti ai paesi in difficoltà. Le agenzie di rating saranno issate su un piedistallo, esortate a fare il loro mestiere senza remore e senza indulgenze verso i governi dei paesi a rischio.

da - rampini.blogautore.repubblica.it/2011/06/19/lavviso-di-moodys-sul-debito-italiano-e-la-credibilita-dei-rating/?ref=HROBA-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #78 inserito:: Luglio 23, 2011, 05:44:18 pm »


ECONOMIA

Debito Usa, stop a colloqui i repubblicani bloccano tutto

L'annuncio di John Boeher, leader del Great Old Party: "Il presidente non vuole fare ciò che è necessario".

La replica: "Non si possono solo fare tagli, servono nuove entrate". Al centro del dissenso le agevolazioni fiscali per i più ricchi.

Si avvicina il rischio default del debito statunitense. E gli Stati si preparano.

Oggi incontro alle 11 (le 17 ora italiana) tra Obama e i leader democratici e repubblicani

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI



NEW YORK – Un weekend di paura, con lo spettro di una riapertura dei mercati lunedì mattina che potrebbe avvenire nell’angoscia di un imminente “default” degli Stati Uniti d’America, o quantomeno di un declassamento del loro rating sovrano, con effetti a cascata sul costo del denaro e su tutta l’economia mondiale.

E’ il risultato del drammatico colpo di scena che ha mandato in fumo l’ultima ipotesi di accordo bipartisan tra il presidente e la maggioranza repubblicana alla Camera.

“Il presidente della Camera mi ha chiamato mezz’ora fa per annunciarmi che abbandona il tavolo del negoziato”. Erano le 18 di ieri a Washington, mezzanotte in Europa, quando Barack Obama ha esordito all’improvviso in una conferenza stampa dal contenuto drammatico. Dalla sua prima frase, è chiaro che la speranza di un accordo imminente sul debito Usa era tornata in alto mare. “Il downgrading, il declassamento degli Stati Uniti diventa più probabile”, ha dovuto annunciare il presidente.

Il suo tono era grave: “Il tempo è scaduto”. L’ipotesi di compromesso bipartisan è stata affondata perché John Boehner, che alla Camera guida la maggioranza repubblicana, è stato preso in ostaggio dalla destra più intransigente: quella settantina di eletti che hanno giurato fedeltà al Tea Party e al dogma anti-tasse.

Obama ha rivelato per la prima volta la portata delle sue
concessioni: “Mille miliardi di tagli alle spese, più altri 600 di tagli ai diritti acquisiti di pensioni e sanità, contro solo 1.200 miliardi di aumenti di entrate ottenuti non alzando le aliquote ma eliminando privilegi e deduzioni per i più ricchi”. Obama ha sottolineato che quelle concessioni erano state accolte da dure critiche all’interno del suo partito: per i democratici il presidente stava offrendo troppo, sacrifici pesanti per la sua base elettorale. “Cosa vogliono i repubblicani? Ancora più tagli alla scuola e alla salute, pur di non toccare i jet privati o le detrazioni per i benestanti come me”.

Il tono di Obama era teso, con una convocazione-ultimatum: “Domattina alle 11 (oggi alle 17 in Europa, ndr) voglio qui tutti i leader repubblicani e democratici del Congresso”. E’ il preannuncio di un weekend al cardiopalmo, con un rilancio in extremis di negoziati per arrivare lunedì alla riapertura dei mercati con un’ipotesi-ponte, che consenta di votare un rialzo del tetto del debito ed evitare l’Armageddon, l’apocalisse finanziaria di una bancarotta di Stato.

Mancano nove giorni al baratro, e l’America è costretta a prepararsi all’impensabile. Il banchiere centrale Ben Bernanke ieri aveva già incontrato il segretario al Tesoro Tim Geithner per i “preparativi” del caso: che fare se tra dieci giorni, il 2 agosto, Washington si trovasse in “default” tecnico, cessazione dei pagamenti federali per esaurimento del limite massimo di debito pubblico autorizzato dal Congresso.

Alcuni Stati Usa già vivono una pre-crisi: dopo che Moody’s ha annunciato la possibilità di declassamenti generalizzati nei suoi rating, la California e il Maryland sono costretti a rinviare emissioni di titoli pubblici locali. Barack Obama non vuol crederci: “Il default non è un’opzione”. “Non voglio punire i ricchi – dice il presidente – ma i sacrifici devono essere condivisi da tutti”. Obama ricorda che “nessuno è immune da colpe, l’ultimo bilancio in pareggio l’America lo conobbe sotto un presidente democratico, Bill Clinton”.

Come dire: dov’eravate voialtri repubblicani intransigenti quando George Bush sfasciava la finanza pubblica con gli sgravi ai ricchi e il salasso di due guerre? “Combattere il deficit senza nuove entrate sarebbe ingiusto verso le classi lavoratrici e il ceto medio”, dice il presidente. Com’era prevedibile, il Senato ha bocciato (51 no contro 46 sì) la legge passata alla Camera che avrebbe imposto il pareggio di bilancio nella Costituzione, e un tetto di spesa pubblica al 18% del Pil. Una legge-simbolo, votata dalla destra come un manifesto ideologico. La stessa destra ora vuole costringere il presidente a uno strappo istituzionale: che si prenda lui la responsabilità di alzare unilateralmente il tetto del debito pubblico per evitare il default.

La destra non vuole compromettersi dando l’avallo a una manovra bipartisan. Ma Obama non vuole rimanere col cerino in mano: “Ho consultato i legali della Casa Bianca, quell’ipotesi è impraticabile”. Perciò oggi vuole mettere tutti con le spalle al muro: convocando i quattro leader repubblicani e democratici di Camera e Senato gli chiederà: “Cos’avete da proporre al popolo americano, per evitare la bancarotta?” La scadenza vera arriva prima ancora del 2 agosto. Lunedì è l’ultimo giorno utile, perché il Tesoro e la banca centrale possano prendere tutti gli accorgimenti necessari ad evitare l’arresto della macchina dei pagamenti: stipendi pubblici, pensioni. E lunedì è anche il giorno del verdetto dei mercati, che potrebbe essere pesante.

(23 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/economia/2011/07/23/news/debito_usa_stop_a_colloqui-19492510/?ref=HREC1-3
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #79 inserito:: Luglio 26, 2011, 11:20:16 am »

STATI UNITI

Debito, Obama parla alla nazione "Convincete i vostri deputati ad agire"

Il presidente americano rivolge un appello solenne per risolvere lo stallo delle trattative con i repubblicani: "Rischiamo una profonda crisi economica". E il sito della Camera va in tilt.

Ma il presidente della Camera Boehner dice no: "Niente tasse"

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK  - NEW YORK  -  "Rischiamo una profonda crisi economica se non si sblocca lo stallo sul debito, chiamate i vostri rappresentanti al Congresso per convincerli ad agire". Barack Obama sceglie il discorso alla nazione, un appello solenne riservato alle emergenze, per uscire dalla paralisi  drammatica che può "provocare il primo default degli Stati Uniti nella storia". Invoca un compromesso bipartisan, ma non tira fuori dal cappello una soluzione nuova. E due minuti dopo la fine del suo discorso, su tutte le reti tv gli risponde a muso duro il presidente della Camera, John Boehner, che guida la maggioranza repubblicana: è un no secco, la destra rifiuta di cooperare, insiste su una manovra fatta solo di tagli alla spesa sociale.

Ma il richiamo di Obama ai cittadini non è stato inutile: un'ora dopo il suo discorso, la rete tv Msnbc ha segnalato che il sito Internet della Camera era andato in tilt, per le troppe email dei cittadini ai parlamentari. Il discorso di Obama ha il tono pedagogico che il presidente predilige.

Parte dalla storia di questa immenso debito pubblico, 14.300 miliardi di dollari. Chi lo ha costruito? Non lui ma il suo predecessore di destra. "Nel 2000 il bilancio pubblico era in attivo, poi sono venute due guerre pagate con la carta di credito, e mi sono trovato con un deficit corrente di mille miliardi solo nell'anno in cui sono entrato alla Casa Bianca".

Alzare il tetto del debito, spiega Obama, è un atto dovuto per consentire che il Tesoro continui a rifinanziarsi, "non è un lasciapassare per continuare a spendere di più". Non alzare quel tetto del debito, significa che il 2 agosto l'America non sarà più in grado di onorare i suoi obblighi: con i pensionati, i dipendenti pubblici, i creditori nazionali e stranieri. "Aumenterebbero i tassi d'interesse, il costo dei mutui e dei prestiti agli studenti, del credito alle piccole imprese, e alla fine si perderebbero posti di lavoro". Obama adotta un linguaggio misurato, ricorda che "nessun partito è al di sopra delle critiche, nessuna parte è immune da responsabilità". Illustra il suo approccio, che coincide col piano di risanamento presentato al Senato dove i democratici hanno la maggioranza: "Ridurre il deficit operando tagli dolorosi anche alla sanità e alle pensioni, portando le spese sociali al livello più basso dagli anni Cinquanta, ma al tempo stesso chiedendo a tutti di contribuire, con l'eliminazione di privilegi fiscali per i più ricchi e le grandi imprese, perché non è
tollerabile che i chief executive degli hedge fund paghino meno tasse delle loro segretarie".

E' l'approccio "bilanciato, equilibrato, equo" che Obama sostiene di aver condiviso inizialmente con Boehner, fino a quando il presidente della Camera è stato bloccato dai veti di una "fazione". E' l'unico momento polemico nel discorso presidenziale: dà atto a Boehner di essere in buona fede, scarica le colpe sui fanatici del Tea Party, quei parlamentari della destra estrema che hanno giurato di non aumentare le tasse di un centesimo neanche sui miliardari. "Nel mio piano  -  ricorda Obama  -  il 98% degli americani non subirebbero aumenti d'imposte". Cita un illustre predecessore che disse: "Non preferireste ridurre il deficit chiamando a contribuzione quelli che
non pagano abbastanza?" Quel predecessore era Ronald Reagan, il padre storico del movimento neoconservatore. Lo stesso Reagan che "alzò il tetto del debito pubblico 18 volte". Obama conclude ricordando i costi immensi a cui andrebbe incontro l'America "se subirà il primo
downgrading della sua storia". Ribadisce che è inaccettabile il piano Boehner, che alzerebbe il tetto del debito solo per pochi mesi: "I mercati non ci crederebbero, è un gioco pericoloso, che nessuno ha mai osato prima di oggi". Si appella ai cittadini che lo ascoltano: "Se siete a favore del mio approccio equo ed equilibrato, chiamate i vostri rappresentanti al Parlamento, fate sentire la vostra voce. Il mondo ci guarda, facciamo vedere che l'America è ancora capace di unirsi come
una nazione sola".

Ma appena prende la parola Boehner ogni speranza si dissolve. In sette minuti d'intervento il presidente della Camera passa in rassegna tutti i luoghi comuni della retorica anti-tasse e anti-Stato. Ricorda di essere "un piccolo imprenditore dell'Ohio", cioè uno che capisce la logica dei numeri, a differenza dei politicanti di Washington. Sottolinea che "più lo Stato diventa grosso, più diventano piccoli gli americani". E' ora che il governo "smetta di vivere al di sopra dei suoi mezzi, spendendo più di quanto incassa". Rilancia il suo piano fatto di soli tagli alle spese (1.000 miliardi), con in più l'emendamento costituzionale che imponga il pareggio di bilancio. E' un piano che Obama ha già bocciato annunciando che vi porrà il suo veto se mai arrivasse sulla scrivania presidenziale. Le due parti sono distanti come prima. Obama non anticipa quel che potrebbe escogitare, da qui al fatidico 2 agosto, se la situazione rimarrà quella fotografata dai due discorsi contrapposti.

(26 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/economia/2011/07/26/news/obama_default-19617943/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #80 inserito:: Luglio 27, 2011, 11:00:48 am »

IL PERSONAGGIO

Soros chiude il suo fondo

"Restituisco i soldi, ho sbagliato"

Il finanziere che 20 anni fa affossò lira e sterlina liquida gli investitori e trasforma il suo Quantum Fund in una società di gestione degli affari di famiglia con un patrimonio di 24,5 miliardi di dollari

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

NEW YORK - "Sono ricco solo perché capisco quando sbaglio". A volte George Soros riesce perfino a essere modesto. Di fronte agli elogi per il suo libro Il nuovo paradigma della finanza uscito nel maggio 2008 con una profezia sulla "super-bolla" che stava per scoppiare, si schernì: "Avevo gridato al lupo al lupo tante volte, tre libri nell'arco di vent'anni, solo alla fine il lupo è arrivato". La parola fine, a 81 anni Soros la vuole scrivere davvero. Ha annunciato che chiude il suo hedge fund. Restituirà il capitale a tutti gli investitori esterni, si limiterà ad amministrare il patrimonio familiare (una delle massime fortune del pianeta: 14,5 miliardi di dollari).

Si ritira dal mestiere che lo ha reso ricco il "trader" più celebre, più ammirato e più odiato del pianeta. Ed anche uno dei filantropi più generosi, capace di donare finora oltre 7 miliardi di dollari. Inviso a tanti critici di sinistra per il suo ruolo di grande burattinaio della speculazione. Stimato, e dagli stessi ambienti!, per l'appoggio prezioso ai dissidenti e ai movimenti democratici di tutte le latitudini. Soros è riuscito ad attirarsi contemporaneamente gli strali del premio Nobel Paul Krugman, maitre-à-penser dei progressisti americani; e quelli di George Bush. Il primo ha coniato addirittura un neologismo, "Soroi" (plurale), per condannare "quegli investitori che non solo muovono capitali per anticipare una crisi valutaria, ma di fatto operano attivamente per scatenare quella crisi, per profitto e per divertimento".

In quanto a Bush, Soros inondò di finanziamenti il suo avversario John Kerry nel tentativo di cacciare il presidente repubblicano dalla Casa Bianca. Il credo democratico e progressista, Soros ce l'ha incollato addosso fin dalla più tenera infanzia: quando da adolescente nella natìa Budapest assiste angosciato alle persecuzioni contro gli ebrei. Emigrato in Inghilterra, studia alla London School of Economics e ha tra i suoi docenti il teorico della "società aperta" Karl Popper. Fin da giovane ha passione per la teoria matematica pura, e un'abilità fenomenale nelle applicazioni sui mercati finanziari. La sua fama diventa mondiale nel 1992, quando è "l'uomo capace di spezzare la Banca d'Inghilterra". E' il primo a capire in quell'anno che Gran Bretagna e Italia non possono reggere dentro il Sistema monetario europeo per il dissesto delle finanze pubbliche e il deficit di competitività. Le sue puntate speculative accelerano i tempi del tracollo di lira e sterlina. Ripete l'exploit nel 1997 quando è il primo ad avvistare - a provocare, diranno i suoi critici - la grande crisi finanziaria del sudest asiatico.

Altre volte prende le sue cantonate: nel 2000 è anche lui fra le vittime del crollo del Nasdaq quando scoppia la prima "bolla di Internet". L'unica battaglia dove non ha mai voluto ammettere sconfitte, è quella in difesa dei diritti umani. Dopo Helmut Kohl forse nessun altro europeo al di qua della cortina di ferro ha svolto un ruolo così importante durante e dopo la caduta del Muro di Berlino. I fondi di Soros sono stati generosi verso tutti i movimenti democratici nell'Europa dell'Est, è sua la più grande donazione privata mai ricevuta nella storia da una università europea (Budapest). C'è ancora lo zampino della sua fondazione politica, l'Open Society Institute, dietro le "rivoluzioni arancioni" in Georgia e in altre repubbliche ex-sovietiche. Il governo di Pechino lo teme, vede "congiure" di Soros dietro ogni protesta dei dissidenti come la Carta 08.

Con filiali in 60 nazioni, e 600 milioni di donazioni all'anno, l'Open Society Institute è presente anche nel mondo arabo dove aiuta la nascita di nuovi partiti democratici. Negli Stati Uniti si è distinto nuovamente come sponsor principale (un milione di dollari) della Proposition 19, il referendum per la liberalizzazione della marijuana in California. Ovviamente è stato uno dei primi a puntare, con dovizia di mezzi, su un certo Barack Obama. Ironia della sorte, è proprio a causa delle riforme finanziarie di Obama che Soros si vede costretto a chiudere il suo hedge fund: troppa trasparenza con le nuove regole, che lo costringerebbero a registrarsi presso la Sec, l'organo di vigilanza. Gli scettici non mancano, però, di fronte a questo pensionamento. Il Wall Street Journal avverte: "Soros ha annunciato il suo ritiro altre volte. A 81 anni, è pronto a tornare sulla scena con un poderoso ruggito. Immaginarselo che cura solo il patrimonio domestico? E' come se Mike Tyson si desse all'uncinetto".

(27 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/economia/2011/07/27/news/soros_fondo-19666626/?ref=HREC1-2
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #81 inserito:: Agosto 07, 2011, 11:10:24 pm »

L'ANALISI

Uno schiaffo clamoroso per Obama

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - L'America è umiliata e offesa. Il mondo s'interroga sulle conseguenze. La Cina chiede garanzie con toni minacciosi. Il G7 dovrà occuparsene.

Il downgrading del debito pubblico Usa è uno shock globale. Il clamoroso annuncio dato da Standard&Poor's nella tarda serata di venerdì (la notte di sabato in Europa) è uno schiaffo senza precedenti per la più grande economia mondiale. Rischia di trasformarsi in un "declassamento di Barack Obama". La destra repubblicana ha immediatamente interpretato la perdita della "tripla A" sui titoli di Stato come un verdetto sul presidente e sul bilancio del suo governo. "Va licenziato subito il segretario al Tesoro Tim Geithner": all'unisono questa richiesta è stata lanciata dai maggiori candidati repubblicani alla nomination per le presidenziali del 2012, Mitt Romney e Michele Bachmann. E proprio dal Tesoro è uscita la prima reazione ufficiale, stizzita. Geithner ha accusato S&P di macroscopiche inesattezze nei suoi conti: "Un giudizio fondato su errori di calcolo dell'ordine di 2.000 miliardi di dollari si commenta da solo".

L'attacco a S&P rivanga il passato: le agenzie di rating avviluppate nei conflitti d'interesse non furono capaci di prevedere i disastri dei mutui subprime e i crac bancari del 2008. Tuttavia una lettura attenta del documento di S&P che motiva il downgrading rivela singolari analogie con quanto disse Obama quattro giorni prima, al termine del defatigante negoziato coi repubblicani per alzare il tetto legale del debito pubblico e scongiurare in extremis il default. "La nostra economia reale merita la tripla A ma il nostro sistema politico non è all'altezza di quel voto": parola del presidente, che martedì esprimeva così la sua frustrazione per essere stato tenuto in ostaggio dalla destra. Frasi analoghe sulla "inefficienza della risposta istituzionale al deficit pubblico", compaiono nel rapporto S&P. Dunque Obama e l'agenzia di rating sono d'accordo che qualcosa si è rotto nel dialogo bipartisan.
In passato, dalle situazioni di stallo fra un presidente e un Congresso di opposte tendenze, l'America usciva con compromessi e convergenze di segno moderato. Nello psicodramma sul debito invece si è verificata una situazione inedita: un pezzo del partito repubblicano, legato al movimento anti-Stato del Tea Party, avrebbe preferito senz'altro il default a qualsiasi concessione. L'accordo di Washington che lunedì ha evitato il peggio ha due difetti dal punto di vista del rigore. I tagli di spesa "immediati" sono in realtà scadenzati per il 2013, dopo l'elezione presidenziale. Le riforme strutturali per fermare l'ascesa del debito sono poi affidate a una commissione bipartisan (sei democratici e sei repubblicani): nel caso fallisca, scatterebbero dei tagli automatici alle spese militari e alla sanità. Le incognite sono troppe, a giudizio dell'agenzia di rating.

Chi trasforma il downgrading in una bocciatura della politica economica di Obama finge di dimenticare che il debito pubblico è il risultato finale di decisioni di spesa accumulate per molti anni, sotto Amministrazioni precedenti e con maggioranze parlamentari diverse. Il gesto inaudito di S&P è in realtà la registrazione "notarile" di un disastro finanziario che è in larga parte attribuibile a George Bush: due guerre, i dissennati sgravi fiscali ai ricchi che hanno abbassato il prelievo ai minimi storici, e infine la più grave recessione degli ultimi 70 anni che ha ulteriormente depauperato le risorse pubbliche.

Ora si addensano nuovi interrogativi sul futuro. La presa di posizione cinese segnala un'altra tappa nel declino di lungo periodo dell'egemonia americana: in prospettiva il ruolo "imperiale" del dollaro verrà ulteriormente ridimensionato sulla scena mondiale. Ma nell'immediato le preoccupazioni riguardano le ricadute sull'economia reale. La decisione di S&P era attesa dai mercati, ciononostante si ripercuoterà a cascata su altri downgrading di enti pubblici, con un possibile aumento dei tassi sui mutui e sul credito al consumo. Questo accade mentre l'America s'interroga sulla possibile ricaduta in una recessione dalla quale in realtà non è mai uscita (se invece del Pil si guardano i dati su salari, consumi, occupazione). E' il duro avvertimento di Kenneth Rogoff, ex chief economist del Fondo monetario, che ricorda come "le recessioni nate da crac finanziari sono molto più lunghe, in media ci vogliono sette anni per smaltirne le conseguenze". Oltre a curare l'orgoglio ferito di una nazione leader che si scopre "retrocessa" dietro la Francia e l'Inghilterra (almeno nella tripla A di S&P) Obama deve soprattutto rispondere al profondo disagio di una middle class impoverita.

"Appena il Congresso torna dalle vacanze voglio sottoporgli nuove misure per occupazione, cominciando dalla creazione di una banca per gli investimenti in infrastrutture": così Obama è ripartito ieri all'offensiva sull'emergenza-lavoro. Il downgrading lo costringerà però a tornare anche sulle riforme strutturali che riportino sotto controllo la spesa del welfare state: un terreno ostico perché lo scontro non è sui numeri, è sulla ripartizione sociale dei sacrifici.
 

(07 agosto 2011) © Riproduzione riservatA
DA - http://www.repubblica.it/economia/2011/08/07/news/uno_schiaffo_clamoroso_per_obama-20128616/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #82 inserito:: Agosto 18, 2011, 10:59:25 pm »

Contro Standard & Poor’s la vendetta di Obama

18
ago
2011

Federico RAMPINI

Rischio recessione come nel ‘37: causata da errori politici

Dalla manovra Berlusconi-Tremonti a quella di Nicolas Sarkozy, fino ai tagli di Barack Obama: stiamo per “rifare un 1937”? L’allarme viene lanciato da due premi Nobel dell’Economia, Paul Krugman e Joseph Stiglitz, più un ex ministro economico di Bill Clinton, Robert Reich, e l’ex consigliera di Obama Christina Romer: i governi occidentali sposando all’unisono la linea del rigore di bilancio accelerano la ricaduta nella recessione. Infliggere tagli di spesa e aumenti di tasse a un’economia già debole, è la ricetta sicura per una catastrofe. Fu proprio questo l’errore più grave di Franklin Delano Roosevelt, la lezione del 1937: in quell’anno il presidente del New Deal credette di avere debellato definitivamente la Grande Depressione e cambiò segno alle sue politiche economiche, tagliando le spese e alzando il prelievo fiscale. Il 1937 segnò la ricaduta in una recessione grave. Una lezione dimenticata, salvo che da pochi esperti: tutti sanno cos’è stato il 1929, l’anno del crac di Wall Street che segnò l’inizio di una crisi decennale, mentre il 1937 non è un anno-simbolo noto alla cultura di massa.
Faremmo meglio a cominciare a studiarlo? Il New York Times dà voce a un esperto di quell’epoca, lo storico della Grande Depressione Robert McElvaine. “Analogie e parallelismi con quanto accade oggi sono forti – dice McElvaine – perché allora come oggi i governi dovevano decidere se e quando invertire le politiche di spesa e di moneta facile usate per combattere la crisi iniziale”. Perfino la Federal Reserve, la banca centrale americana, ha deciso di pubblicare uno studio intitolato “La recessione del 1937, una parabola istruttiva”. Elaborato dall’economista François Velde di Chicago, il rapporto della Fed si apre constatando che “la recessione del 1937 è una lezione da meditare, interruppe brutalmente la ripresa dopo la Grande Depressione del 1929-33”. Lo stesso presidente della Fed, il banchiere centrale Ben Bernanke, si è fatto le armi all’università studiando la Grande Depressione.

Gli avvenimenti della scorsa settimana, in rapida successione, hanno visto susseguirsi la paralisi politica a Washington per lo scontro Obama-Congresso sul debito, il downgrading degli Stati Uniti, i timori sulla solvibilità di diversi Stati membri dell’eurozona, tracolli di Borsa seguiti da recuperi mozzafiato (ma con un saldo netto negativo). Le analogie con il 1937 sono numerose. Allora l’indice Dow Jones della Borsa di New York cadde del 49% in un anno rispetto ai suoi massimi. La produzione industriale ebbe un crollo del 37%. La disoccupazione salì dal 14% al 19%. La debolezza della domanda di consumo portò a una discesa generalizzata dei prezzi: il fenomeno della deflazione.

A lanciare l’allarme sul rischio di “rifare il 1937” non sono solo autorevoli economisti di sinistra (Krugman, Reich, Stiglitz) ma anche delle voci molto ascoltate a Wall Street: come David Bianco che è il capo delle strategie d’investimento di Bank of America-Merrill Lynch, la più grossa banca Usa. Secondo Bianco le probabilità che l’economia americana ricada in una recessione sono salite all’80%. “La fiducia è scossa, sta cadendo molto velocemente”, dice Bianco. La somiglianza principale con il 1937 riguarda proprio il segno della politica economica dei governi. Fino a quell’anno, Roosevelt aveva adottato delle politiche fortemente espansive, il cui simbolo più noto sono le grandi opere pubbliche lanciate all’insegna del New Deal. La strategia rooseveltiana ricalcava la teoria dell’economista britannico John Maynard Keynes: quando la crescita è paralizzata per mancanza di domanda (consumi, investimenti), allora lo Stato deve svolgere un ruolo di supplenza, deve intervenire con le sue spese a riempire il vuoto di domanda privata, senza preoccuparsi dei deficit. Roosevelt aveva anche inaugurato un “cantiere sociale”, la costruzione del primo sistema previdenziale garantito dallo Stato a tutti gli americani (Social Security), un pilastro del Welfare fino ad oggi. Per effetto delle sue manovre energiche di spesa pubblica, il debito federale degli Stati Uniti era aumentato dal 16% del Pil nel 1929 al 40% del Pil nel 1936 (ancora basso rispetto ai livelli attuali, ma la progressione rispetto al punto di partenza era stata formidabile). La ricetta keynesiana applicata da Roosevelt aveva funzionato: tra il 1933 e il 1936 la crescita americana era ripartita alla grande, con tassi di aumento del Pil del 9% annuo, che oggi diremmo “cinesi”. Ma nel 1937 gran parte della classe politica americana – repubblicani e democratici – incitava il presidente a togliere il piede dal pedale dell’acceleratore. Avendo ritrovato la crescita, era ora che l’Amministrazione si occupasse di rimettere in ordine i conti pubblici. Roosevelt cedette a quelle pressioni, proprio come Obama ha dovuto scendere a patti con la destra che oggi ha la maggioranza alla Camera. Improvvisamente la Casa Bianca cambiò le sue priorità. Nel 1937 decise di tagliare di colpo le spese pubbliche, interrompendo molti programmi del New Deal. Aumentò le tasse, istituendo anche un’addizionale per la Social Security. Il gettito fiscale aumentò in misura spettacolare, del 66% in un anno. Una stangata senza precedenti, anche se con elementi di equità sociale molto pronunciati: l’aliquota sui redditi oltre un milione di dollari salì dal 59% al 75% (mentre nell’America di oggi, grazie a George Bush, è al 35%). L’effetto sull’economia reale fu immediato e nefasto: l’America ripiombò di colpo nelle sofferenze della Grande Depressione. Ne sarebbe uscita solo due anni dopo, e forse per il contributo decisivo dato dal boom delle spese militari nella seconda guerra mondiale.

Non tutti danno la stessa interpretazione di quella fatidica annata, il 1937. Anche in questo caso c’è una lettura di sinistra e una di destra. I repubblicani, rispolverando le opere del loro profeta Milton Friedman, sostengono che la vera colpevole della ricaduta fu la Fed: la banca centrale avviò una stretta monetaria per paura dell’inflazione, le banche razionarono il credito. Se anche fosse vero, la Fed di oggi è al riparo da questa accusa. La banca centrale americana, come la sua consorella Bce, mantengono dei tassi d’interesse molto bassi. La Fed ha promesso ai mercati che terrà addirittura il “tasso zero” fino al 2013; la Bce ha avviato la settimana scorsa acquisti di titoli pubblici italiani e spagnoli, che oltre a combattere la paura del default hanno come effetto la creazione di liquidità. Dunque, almeno i banchieri centrali non stanno operando contro la ripresa, non è colpa loro se “rifacciamo il 1937”.

Gli studiosi più autorevoli della Grande Depressione sono comunque convinti che il 1937 ebbe un’altra causa. “E’ chiaro – dice McElvaine – che la causa della ricaduta in recessione furono i tagli di spesa decisi anzitempo da Roosevelt”. Un’altra esperta di quel periodo storico è Christina Romer, che oggi è tornata a insegnare all’università di Berkeley dopo essere stata alla guida del Council of Economic Advisors, il gruppo di economisti consiglieri di Obama. “Dopo una crisi economica – dice la Romer – è forte la voglia di dichiarare vittoria e tornare alla normalità. Ma bisogna resistere a quella tentazione”. In realtà la Romer ha lasciato la Casa Bianca perché la sua linea è stata sconfitta dai “rigoristi”. Quasi nessuno oggi nel ceto politico americano vuole ascoltare i moniti sulla lezione del 1937. Da quando nell’opinione pubblica ha iniziato a soffiare il vento di destra del Tea Party, le parole d’ordine sono “dimagrire lo Stato”. La sinistra democratica accusa Obama di essere un leader debole, troppo incline al compromesso con l’avversario. Ma chi invoca l’esempio di Roosevelt – riesumato da molti progressisti come “l’anti-Obama” – dimentica che il padre del New Deal era un pragmatico, pronto a cambiare le sue politiche. Anche troppo, come dimostra l’errore fatale del 1937. La destra repubblicana ha dalla sua un argomento forte: il “New Deal di Obama”, oltre 700 miliardi di spesa pubblica varati nel gennaio 2009 per sostenere la crescita, non ha impedito un tasso di disoccupazione del 9%. La spesa pubblica ha perso l’efficacia che aveva ai tempi di Roosevelt, quando si partì da livelli di debito molto più bassi? A sinistra i Krugman, Stiglitz e Reich, così come la Romer, sostengono l’esatto contrario: lo stimolo alla crescita varato nel 2009 fu insufficiente, e oggi ce ne vorrebbe un altro. Su Obama, così come su tutti i governanti europei che stanno facendo scelte analoghe, pesa anche il vincolo dei mercati. Dal downgrading di Standard & Poor’s fino ai sussulti di paura su Italia e Francia, l’opinione dominante era che i mercati chiedessero austerità e tagli ai deficit. Poi improvvisamente sulle Borse si è allungata minacciosa l’ombra del “double dip”, il doppio tuffo nella recessione. Il dilemma attuale se siano più urgenti le stangate fiscali, o la lotta alla disoccupazione, non dovrebbe comunque essere lasciato al giudizio dei mercati finanziari.

da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2011/08/18/rischio-recessione-come-nel-37-causata-da-errori-politici/?ref=HREA-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #83 inserito:: Agosto 19, 2011, 11:40:32 am »

L'ANALISI

Obama e la Ue non frenano l'emorragia

Inizia il lungo inverno dell'economia

I pessimi dati sulla crescita di Brasile e Germania e i bassi rendimenti dei titoli di Stato, tutti indicatori di una possibile recessione, spingono aziende e consumatori a proteggersi.

L'economia è di nuovo a rischio, nonostante le assicurazioni del presidente Usa e di Van Rumpuy

di FEDERICO RAMPINI


"L'AMERICA non ricadrà nella recessione", promette Barack Obama. "Non ci sarà recessione in Europa", gli fa eco un certo Herman Van Rompuy che porta il titolo ambizioso di presidente dell'Unione. Due smentite fanno una conferma? Sulle Borse in caduta pesano i bollettini catastrofici che arrivano dall'economia reale.

Il Brasile segnala per la prima volta da anni una decrescita (meno 0,2% il Pil del trimestre), la Germania si sta arenando: è la fine di due "miracoli" gemelli, un gigante emergente e la più solida delle vecchie economie industrializzate.

Due macchine da guerra dell'esportazione, che non possono crescere se i loro mercati di sbocco sono fermi. Primo fra tutti quello americano, dove in un sol giorno arrivano dati pessimi sulla disoccupazione Usa che risale, le vendite di case sempre più giù, la produzione industriale in sofferenza su tutta la East Coast.

Che la recessione sia alle porte lo dice un altro indicatore attendibile: i rendimenti dei titoli pubblici precipitano, per effetto di una corsa verso investimenti tornati improvvisamente "sicuri" (in mancanza di meglio). Ecco il Bund tedesco decennale al 2,17%. Il Treasury bond americano a dieci anni scende addirittura sotto il 2%. Più basso di così c'è solo il titolo del Tesoro giapponese, all'1%, e non a caso si tratta di un paese dove la crescita è sparita ormai dagli anni Novanta.

Quei tassi lanciano un messaggio all'unisono: per accettare dei rendimenti così bassi gli investitori non vedono né inflazione né crescita all'orizzonte. Prestare i propri soldi allo Stato - almeno a questi tre: Germania Stati Uniti Giappone - è metterli in cassaforte preparandosi a un lungo inverno. Questa corsa ai buoni del Tesoro decennali americani è una nuova smentita della Standard & Poor's, del suo "downgrading" che metteva in cima ai problemi del momento la salute del debito pubblico degli Stati Uniti.

Per una beffarda coincidenza, il vero schiaffo che S&P riceve dai mercati giunge nello stesso giorno in cui il Dipartimento di Giustizia di Washington apre un'indagine su quest'agenzia di rating. L'inchiesta è sacrosanta, riguarda le gravi responsabilità di tutte le agenzie di rating che per incompetenza, collusione e conflitti d'interessi regalarono la "tripla A" ai titoli tossici che contenevano crediti inesigibili sui mutui subprime. Una vicenda criminale ma vecchia ormai di quattro anni; ricordarsi solo ora dei danni enormi creati da quei rating truccati ha il sapore di una rappresaglia dell'Amministrazione Obama dopo l'onta del declassamento.

Acqua passata, anche se il problema del debito costringe Obama a mandare a Pechino il suo vicepresidente Joe Biden, in una delicata missione presso il "creditore sovrano" degli Stati Uniti. Biden incontra Xi Jinping, anche lui vicepresidente, ma soprattutto erede al trono di Hu Jintao, destinato al comando supremo della Repubblica Popolare. Questa visita a Pechino in un momento di massimo allarme sui mercati globali "fotografa" un'impasse senza risolverla. Biden registra dal suo interlocutore Xi la preoccupazione più grave che assilla il governo cinese: lo spettacolo di totale assenza di leadership in Occidente. Perfino nel 2008, all'apice della grande crisi sistemica, sul versante politico la reazione fu migliore di quella attuale. Nel 2008 e 2009, tra il piano Paulson salva-banche e i vari summit G8 e G20 promossi da Gordon Brown e poi Obama, si ebbe il tentativo di costruire una regìa, un abbozzo di global governance per trainare l'Occidente fuori dalla tempesta perfetta.

Oggi, neanche quello. Perfino una mossa a lungo auspicata e sollecitata come la rivalutazione del renminbi, diventa un'arma a doppio taglio. Per anni l'Occidente chiese alla Cina di fare la sua parte per sanare i macro-squilibri globali, rivalutando la moneta per importare di più. Il gesto di allargare la banda di fluttuazione del renminbi, annunciato a Pechino, oggi ha un sapore ambiguo. Può accelerare il deprezzamento congiunto di dollaro ed euro, la corsa verso beni rifugio come l'oro, in ultima istanza il disordine monetario può aggiungersi al pericolo di recessione e aggravarlo.

Ad accentuare il nervosismo arriva la decisione della Federal Reserve di avviare un esame della vulnerabilità delle banche americane ai default possibili nell'eurozona. Nessuno ha più fiducia in nessuno. Una situazione simile si verificò nell'autunno 2008 con il crac della banca Lehman, quando il sospetto dilagò fra tutti gli attori del sistema finanziario, che il proprio partner fosse "il prossimo della lista". Un sospetto mortale, la cui conseguenza fu il congelamento del credito all'economia.

Il tracollo dei mercati ieri è una sentenza spietata sul vertice di martedì fra Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Non si è fatto un millimetro di progresso su temi ambiziosi come la creazione di eurobond, quei "titoli pubblici dell'eurozona" che forse sarebbero un argine al contagio della sfiducia, darebbero finalmente al mercato unico europeo una solidità finanziaria e il rispetto degli investitori. Ancora più grave è il fatto che da quel vertice non è uscito un frammento d'idea per rilanciare la crescita, nessuna strategia anti-recessione, l'unico "scudo" davvero essenziale in questa fase.

Ci sta provando da parte sua Obama: il presidente americano ieri è partito per una finta vacanza sull'isola Martha's Vineyard, che passerà consultando i suoi consiglieri economici per preparare "l'annuncio del Labor Day". Subito dopo la festa del lavoro (5 settembre) Obama lancerà un piano per la crescita e per l'occupazione. E' un rovesciamento di priorità rispetto alle ultime due settimane che lo hanno visto completamente appiattito sul tema del debito (anche grazie a S&P).

Il presidente americano ha in mente una "strategia dei due tempi": prima bisogna rimettere in moto l'economia, rilanciare le assunzioni, ridare fiducia e potere d'acquisto; contestualmente bisogna mettere a punto dei tagli al deficit pubblico più severi di quelli annunciati finora, ma la cui entrata in vigore deve essere rinviata, a quando sarà sventato il rischio di ricaduta nella recessione. E' l'unico percorso per evitare di "rifare il 1937": l'anno terribile in cui Franklin Roosevelt interruppe prematuramente le politiche di spesa pubblica del New Deal, e l'America ricadde nella Grande Depressione.

L'intuizione di Obama si snoda su un sentiero strettissimo, per ragioni non finanziarie bensì politiche: i dibattiti tra i candidati repubblicani alle presidenziali hanno visto il trionfo della demagogia anti-Stato. Tutti i leader repubblicani hanno annunciato che rifiuterebbero ogni compromesso che contenga nuove tasse, perfino quelle tasse sui miliardari auspicate a gran voce dal più ricco (e meno tassato) di tutti, Warren Buffett. In questo vuoto di leadership è inefficace la supplenza delle banche centrali. Fed e Bce continuano a pompare liquidità nei mercati, con il tasso zero Usa o con gli acquisti di titoli pubblici.

Ma nella paura che paralizza l'economia, quella liquidità non rifluisce dove servirebbe. Le imprese accumulano montagne di cash, o investono solo in maxifusioni alla Google - Motorola, o esportano capitali nei pochi paesi emergenti ancora sicuri. I consumatori che possono farlo tesaurizzano, riducono i debiti, accantonano risparmi, per prepararsi al peggio.

(19 agosto 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/economia/2011/08/19/news/inverno_economia-20602830/?ref=HREA-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #84 inserito:: Ottobre 16, 2011, 10:17:40 am »

Gli “indignados” americani di Occupy Wall Street

di Federico Rampini,
da Affari & Finanza di Repubblica, 10 ottobre 2011

Se c’è un posto da dove cominciare la prossima rivoluzione, è Wall Street. I potentati della finanza hanno cacciato l’America e il mondo intero nella più grave crisi dagli anni Venti. Poi le stesse lobby bancarie hanno tenacemente ostacolato i progetti di grandi riforme, con discreto successo. Non c’è da stupirsi se proprio Wall Street è l’epicentro del minimovimento degli "indignados" americani, che alla terza settimana di lotta ha cominciato a estendersi verso la West Coast (Los Angeles, San Francisco), il Midwest (Chicago), il Nord (Boston, Canada) e perfino l’America profonda del Kansas. È presto per parlare di un ritorno del conflitto sociale – o della "lotta di classe" che la destra accusa Barack Obama di fomentare – negli Stati Uniti, dove il vuoto di movimenti sociali dura da più di trent’anni. Le piazze si sono riempite talvolta anche negli anni recenti, è vero. Ma quando a mobilitarsi era la sinistra – vedi le manifestazioni pacifiste contro la guerra in Iraq durante la presidenza Bush – lo faceva su temi tipicamente "postindustriali", valoriali, tipici di una società che si autorappresenta senza classi.

L’ultima grande manifestazione coi sindacati fu nel 1999 a Seattle, contro il Wto, e l’incrocio con la violenza dei noglobal ne segnò di fatto la sconfitta. Solo giovedì scorso i sindacati hanno deciso di unire nuovamente le proprie forze a quelle di una protesta spontanea e prevalentemente giovanile, unendosi a "Occupy Wall Street". Fino a quel momento era stata la destra a occupare le piazze, con il Tea Party, a dimostrazione che l’egemonia conservatrice su una robusta fetta dell’opinione pubblica americana resiste dai tempi di Ronald Reagan.

Il movimento "Occupy Wall Street" ha ricevuto un’attenzione elevata dai media perché ha scelto di localizzarsi nell’epicentro del nuovo Impero del Male. Anche gli americani che votano a destra sono generalmente consapevoli che questa crisi è stata innescata dalle malefatte dei banchieri, con i mutui subprime e la finanza tossica. Quello che a destra non è affatto chiaro, invece, è che dopo il 2009 una malefica convergenza tra il populismo antiStato del Tea Party e le lobby di Wall Street ha impedito di mettere i banchieri in condizione di non nuocere. E’ fondamentale ricordare cos’è accaduto attorno alla legge Dodd-Frank, nota anche come Wall Street Reform and Consumer Protection Act. Quella legge, firmata da Barack Obama il 21 luglio 2010, porta il nome dei due principali firmatari, il senatore Chris Dodd e il deputato Barney Frank, ambedue democratici.

Fu l’esito finale di una lunga battaglia legislativa, iniziata per impulso di Obama quando ancora i democratici avevano la maggioranza in ambedue i rami del Congresso, e quando ancora fra i loro ranghi era vivo l’impeto riformatore provocato dal disastro di Wall Street. Ma già nell’iter legislativo l’azione sistematica delle lobby aveva indebolito quella che doveva essere la grande riforma dei mercati. Due sono gli esempi più importanti. Primo: le agenzie di rating sono riuscite a tutelarsi da ogni tentativo di regolamentarle in maniera stringente; un risultato non da poco, alla luce dell’enorme conflitto d’interessi esploso in occasione della crisi dei mutui subprime (molti titoli strutturati avevano ricevuto rating "tripla A", naturalmente dietro pagamento di commissione da parte degli emittenti).

Secondo esempio: è stata rintuzzata dalle lobby di Wall Street l’ipotesi di introdurre la Volcker Rule, dal nome di Paul Volcker. Questo ex governatore della Federal Reserve, che era stato uno dei consiglieri più ascoltati di Obama in campo economico (ma ahimé solo durante la campagna elettorale e poco dopo) aveva suggerito inizialmente non solo un divieto onnicomprensivo alle banche di speculare su mezzi propri, ma perfino un ritorno alla legge GlassSteagall del 1933 che aveva creato una robusta separazione di mestieri fra banche di deposito e banche d’investimento.

La prima parte della Regola Volcker è entrata nella legge Dodd-Frank in misura annacquata; di reintrodurre la separazione stile GlassSteagall non si è più parlato. Ma l’indebolimento della Dodd-Frank rispetto all’ispirazione iniziale è ancora poca cosa, in confronto a quel che le lobby di Wall Street sono riuscite a fare in seguito. Una volta varata quella legge, le lobby si sono ingegnate per svuotarne l’applicazione. Qui la battaglia più importante è stata quella contro la nuova agenzia per la protezione del depositante e dei consumatori di servizi finanziari. Quell’agenzia doveva essere uno dei capisaldi della riforma. Prima le banche hanno ottenuto che non fosse un’authority indipendente bensì sotto la tutela della Federal Reserve (dove gli stessi banchieri sono ben rappresentati soprattutto a livello locale). Poi è partita la formidabile guerra di Wall Street contro Elizabeth Warren, la coraggiosa docente di Harvard che era stata la vera e propria "madrina" dell’agenzia e che Obama voleva nominare alla sua testa. L’hanno spuntata le lobby, la Warren non è riuscita ad ottenere il via libera al Senato. Decisiva, in tutti questi casi, è stata la convergenza fra Wall Street e la destra repubblicana.

Nel frattempo il capitalismo americano non ha fatto nulla per emendarsi dei propri eccessi. Lo scandalo più eclatante rimane quello della superpaghe ai top manager. L’ultimo caso è quello di Léo Apotheker, il disastroso chief executive di HewlettPackard defenestrato dal consiglio d’amministrazione il mese scorso. Tutti sembravano d’accordo: il top manager aveva condotto il colosso informatico della Silicon Valley sull’orlo del baratro, andava cacciato al più presto. Risultato: il board della società lo ha "ringraziato" con un "premio di licenziamento" di 13 milioni di dollari. Se si aggiungono a quello che lui aveva guadagnato di stipendio"normale" (10 milioni), Apotheker ha stabilito un nuovo record. Perché il suo periodo alla guida di Hp è durato appena 11 mesi.

In questi tempi di crisi economica acuta, con 25 milioni di disoccupati, c’è un’America dove qualcuno viene licenziato per scarso rendimento e si ritrova con 23 milioni di dollari in tasca. Lo scandalo dei superstipendi per i top manager ormai ha prodotto quasi una sorta di assuefazione: una vicenda come quella di Apotheker vale un titolo in evidenza sui giornali per un paio di giorni al massimo. Poi si passa al successore, anzi la successora: Meg Whitman, ex chief executive di EBay, che è stata chiamata a sostituire Apotheker al vertice di Hp. Naturalmente con un contratto di assunzione blindatissimo, che anche a lei garantisce somme favolose a prescindere dal rendimento. Hp non è un’eccezione, è la regola.

Sapevamo di Wall Street, dove i banchieri colpevoli del tracollo sistemico del 2008 sono ancora ai loro posti oppure si godono una pensione dorata con dei bonus stratosferici. Ma anche la Silicon Valley, tanto decantata per la sua cultura dell’innovazione e del rischio imprenditoriale, in realtà rischia poco quando si tratta dei chief executive. Quello di Amgen (biotecnologie) se n’è andato con 21 milioni di stipendio annuo dopo che il valore dell’azienda in Borsa era caduto del 7% e lui aveva licenziato 2.700 dipendenti. E nessuno che tenti di stracciare i contratti blindati dei capi. Nell’America dove gli operai di Gm e Chrysler si son visti dimezzare lo stipendio e decurtare le pensioni, l’unica categoria che ha dei "diritti acquisiti" rigidissimi è l’oligarchia manageriale. Com’è possibile? Finalmente uno studio rivela il perché. Anzi, tre studi, perché del tema scottante si sono occupate tre équipe di ricercatori universitari, guidate rispettivamente da Michael Faulkender (University of Maryland), Jun Yang (Indiana University) e John Bizjak (Texas Christian University).

Usando la documentazione raccolta dalla Sec gli studiosi hanno raggiunto la stessa conclusione. Dietro l’aberrazione delle supergratifiche c’è il fenomeno del "peer benchmarking". Per "benchmarking" si intende un metodo che fissa degli obiettivi standard che un’azienda deve raggiungere o superare (è molto usato nel marketing). "Peer" sta per "pari grado". Dunque, i ricercatori hanno scoperto che il 90% dei consigli d’amministrazione delle grandi aziende Usa al momento di assumere un amministratore delegato fissano la sua paga guardando alle paghe dei suoi simili. E con una regola precisa: invocando il pretesto che bisogna "attirare i migliori", le paghe dei neoassunti devono essere "superiori al compenso mediano" (la mediana, in statistica, è il valore più frequente in un gruppo).

Quindi la spirale perversa che spinge sempre più su le paghe dei top manager ha una causa semplice: il tuo chief executive va pagato più di quello della porta accanto. E’ così che dagli anni Settanta i compensi dei top manager sono più che quadruplicati (in potere d’acquisto reale) mentre nello stesso periodo lo stipendio medio dei dipendenti è arretrato del 10% in termini reali. L’hanno battezzata anche la "sindrome del Lago Wobegon", nome del luogo immaginario inventato dall’animatore radiofonico Garrison Keillor, "dove tutti i bambini sono superiori alla media". Peccato che non possa dirsi altrettanto per la maggioranza degli americani.

(11 ottobre 2011)
da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/gli-indignados-americani-di-occupy-wall-street/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #85 inserito:: Ottobre 23, 2011, 05:43:45 pm »

23
ott
2011

RAMPINI

In Medio Oriente vince la dottrina Obama (per ora)

“Dopo quasi nove anni la guerra in Iraq è finita”. A 24 ore dalla morte di Gheddafi, Barack Obama annuncia il “ritiro totale entro la fine dell’anno” dall’altra guerra, quella di George Bush. Mentre tutti s’interrogano su “chi sarà il prossimo” – e già iniziano le pressioni perché sia la Siria, o l’Iran, il nuovo bersaglio nell’effetto domino – è già tempo di bilanci per la “dottrina Obama sul Medio Oriente”. Controversa, criticatissima, perfino sbeffeggiata, soprattutto dalla destra americana. Proprio sulla Libia i suoi avversari avevano fatto una caricatura di questa strategia della “guerra minima”, dipingendo un presidente “che guida dalle retrovie” lasciando a Francia e Inghilterra un ruolo di punta nelle operazioni militari. E’ vero che sembrava esserci un tono rinunciatario, in quella presa d’atto che l’America non può più essere il gendarme del mondo, che gli interventi militari vanno commisurati a un’economia in declino, che le sue responsabilità all’estero devono esercitarsi in modo condiviso. Ora però il bilancio della dottrina Obama appare di tutto rispetto, e il ritiro dall’Iraq ne arricchisce l’ultimo dividendo. Non gliene darà atto la destra – siamo ormai in campagna elettorale, il fair-play è escluso – ma sui mass media indipendenti il verdetto è unanime e positivo. Anche se è già cominciato l’esercizio successivo: prevedere quale sarà il prossimo test, il teatro di crisi del mondo arabo che presenterà le sfide più urgenti. La dottrina Obama di cui oggi si trae un bilancio non è solo quella della “guerra minima” applicata alla Libia, anche se questa si presta a confronti esemplari: quanto tempo ci volle a Bush per far fuori Saddam Hussein, con quale dispendio di risorse umane ed economiche, in confronto alla liquidazione del raìs di Tripoli? L’annuncio del ritiro dall’Iraq serve a sottolineare questa sproporzione: eliminare il carnefice di innocenti passeggeri americani sul volo Pan Am sopra Lockerbie è costato circa l’uno per mille rispetto al budget del conflitto iracheno. Ma la dottrina Obama è molto di più. Viene inaugurata dal discorso all’università del Cairo (4 giugno 2009) che segna l’apertura di un dialogo a tutto campo, anche sui valori, e una svolta rispetto ai toni da crociata di Bush. Non a caso per la destra il discorso del 2009 è un simbolo di “cedimento, arrendevolezza”. A posteriori, invece, proprio in quelle parole alcuni hanno visto i germi degli eventi di Tunisi e del Cairo: perché le opinioni pubbliche del Nordafrica hanno intuito che l’America non avrebbe puntellato per sempre le dittature alleate. Quello è il tassello successivo della dottrina Obama: la rapidità con cui la Casa Bianca abbandona al loro destino i despoti contestati dai popoli. Una scelta ben diversa rispetto all’ostinazione con cui un altro presidente democratico pur sensibile ai diritti umani, Jimmy Carter, aveva puntellato il regime dello Scià di Persia (poi pagando un prezzo altissimo per quell’errore). Ma anche questo aspetto della dottrina Obama è tutt’altro che pacifico: da Netanyahu ai falchi repubblicani, molti continuano a rimproverargli di avere mollato Mubarak consegnando l’Egitto a un destino incerto e forse anti-israeliano. Perciò ora il presidente viene strattonato in più direzioni. La sinistra considera che il prossimo obiettivo deve essere Damasco perché in Siria vede una tragedia umanitaria simile a quella libica. Per la destra repubblicana e il governo Netanyahu invece il nemico più serio da affrontare è l’Iran. Obama però sa che non verrà giudicato solo sugli eventi futuri in Siria, Iran, Yemen, ma anche sugli sviluppi in quei paesi dove ha raccolto successi molto provvisori. Per Tunisia ed Egitto il presidente aveva proposto un piano Marhsall, al G8 di Deauville: per incanalare la transizione democratica, offrendo concrete prospettive di sviluppo economico. Quel cantiere è rimasto fermo, i rischi di instabilità e l’avvento di forze islamiche ostili all’Occidente sono ancora degli esiti possibili in ognuno di quei paesi.

da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2011/10/23/in-medio-oriente-vince-la-dottrina-obama-per-ora/?ref=HROBA-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #86 inserito:: Novembre 01, 2011, 11:19:06 am »

Gli ostacoli a un “piano B” per salvare l’Italia con aiuti Fmi

31
ott
2011

Federico RAMPINI

Urge la Tobin Tax per frenare la finanza impazzita


La Germania rilancia la Tobin Tax, cioè una tassa sulle transazioni finanziarie, che porta il nome dello scomparso premio Nobel dell’economia che preconizzava la necessità di mettere un “granello di sabbia” nell’ingranaggio dei mercati finanziari. I tedeschi hanno ragione, ma rischiano di essere bloccati come altre volte dal veto anglo-americano, cioè dei due paesi che hanno le più importanti piazze finanziarie del mondo. Dove la finanza impazza più che mai, come dimostra questa notizia recente sulla “posa del cavo”.
E’ il primo cavo sottomarino a fibre ottiche ad essere installato sul fondo dell’oceano Atlantico da dieci anni a questa parte. Ma a differenza di quelli che venivano inaugurati sul finire degli anni 90 e all’inizio del millennio, il nuovo cavo transatlantico non servirà a trasportare la voce, le telefonate, e neppure il collegamenti. Questo nuovo super-cavo sottomarino tra New York e Londra, costruito a cura della società Hibernian Atlantic, è riservato esclusivamente alle transazioni finanziarie. Servirà a far guadagnare “ben” cinque milli-secondi ai trader delle due principali piazze finanziarie del globo. Cinque milli-secondo sono un’eternità, nel mondo delle transazioni computerizzate. Ma siamo sicuri che sia un’investimento utile ai mercati? L’inaugurazione da parte della Hibernian Atlantic avviene proprio mentre sono nel mirino dei governi le transazioni super-veloci e automatizzate, programmate attraverso appositi software informatici, e note come “high-frequency” o “high-speed” trading. Stati Uniti, Unione europea, Canada: sulle due sponde dell’Atlantico gli organi di vigilanza e le autorità di controllo sospettano che ci sia qualcosa di marcio nel mondo delle transazioni ad alta frequenza, che per comodità abbrevieremo d’ora in avanti come Hft. O quantomeno, vogliono più trasparenza e regole chiare, per impedire che la diffusione dell’Hft accentui a dismisura la volatilità dei mercati, con la possibilità di incidenti seri. La vittima inconsapevole dell’alta frequenza, infatti, siamo tutti noi: ovvero i risparmiatori che affidano in gestione i propri soldi a banche, fondi comuni, assicurazioni, le cui strategie d’investimento vengono travolta dai predatori dell’Hft. Sanzioni, multe e indagini si stanno moltiplicando, prima ancora dell’arrivo di nuove regole. Dagli Usa all’Europa diversi trader sono stati già puniti per manipolazione illegale dei prezzi. Il trucco più frequente, il più facile e meno rischioso: approfittando proprio dei milli-secondi di vantaggio che hanno sugli investitori normali (anche grossi investitori istituzionali come i fondi comuni, le banche), gli operatori dell’Hft piazzano i propri ordini in anticipo sull’arrivo di grosse transazioni, e così lucrano il vantaggio di chi conosce in anticipo la direzione in cui si muoveranno la domanda e l’offerta, l’aumento o la discesa dei prezzi. Ma ci sono altre dinamiche, più complicate e più sottili, che gli stessi operatori non controllano fino in fondo, e il pericolo lo si è visto ad esempio nella famigerata seduta del 6 maggio 2010, passata alla storia per l’improvviso tracollo di 700 punti dell’indice Dow Jones, senza una ragione precisa se non “l’impazzimento” dei programmi ad alta frequenza. Da allora non si è ripetuto un evento di quella drammaticità, e tuttavia negli ultimi tre mesi di quest’anno la volatilità del mercato è aumentata in misura inquietante, con alternanze di rialzi e ribassi da 200 o 300 punti del Dow Jones che sembrano essere diventate “la nuova normalità”. Gli operatori di Wall Street e della City di Londra naturalmente respingono le accuse, ribattono che la stragrande maggioranza delle transazioni sono perfettamente legittime, difendono l’Hft come un fattore di efficienza dei mercati, che li rende più liquidi e quindi abbassa il costo del singolo investimento. Questa è la classica autodifesa che attinge all’armamentario ideologico del neoliberismo: è un leitmotiv ricorrente dall’epoca di Milton Friedman e della scuola di Chicago che posero le fondamenta teoriche per il grande matrimonio fra le Borse e le tecnologie informatiche fin dagli anni70. Di questo Verbo neoliberista fa parte anche la convinzione che gli operatori del mercato sono i primi ad avere interesse alla regolarità delle transazioni, e quindi sono motivati ad autodisciplinarsi. (Qualcuno potrebbe ricordare che Alan Greenspan diceva la stessa cosa a proposito dei banchieri fino al 2007). A sostegno della loro autodifesa, i grandi hedge fund sono pronti a esibire qualche studio accademico che dimostrerebbe i presunti benefici dell’alta frequenza degli scambi automatizzati. Ma una recente analisi compiuta sull’indice delle 500 maggiori società quotate (Standard & Poor’s 500 Index) ha dimostrato una formidabile crescita della volatilità, con oscillazioni sempre più alte all’insu e all’ingiù da quando esiste l’Hft elettronico. Tutto questo in coincidenza con un potenziamento tecnologico che ha ridotto nell’angolo l’elemento “umano” che opera sui mercati. La leva dell’Hft è decisiva per capire l’aumento nel volume delle transazioni: ancora nei primi mesi del 2007 , prima della recessione e quindi con un’economia reale ben più florida di quella attuale, il volume degli scambi quotidiani sulle Borse Usa coinvolgeva 6 miliardi di azioni. Oggi siamo a quota 8 miliardi. L’aumento dell’incidenza dell’Hft è tale che oggi due azioni su tre vengono scambiate attraverso quei programmi ad alta velocità, in America. E sempre più spesso ciò avviene anche in altre Borse del mondo, a cominciare da quella di Londra. I casi di flagranza di reato sono ancora pochi, perché gli strumenti per indagare sono rudimentali. E’ un classico esempio in cui la caccia guardie e ladri si svolge in modo asimmetrico: è sempre il ladro ad avere una lunghezza di vantaggio in termini di know how tecnologico. Ma è interessante ricordare alcune punizioni. A Londra le autorità di vigilanza hanno multato per 8 milioni di sterline una società di trading canadese, la Swift Trade, per l’uso di una tecnica chiamata “layering”. Si tratta dell’emissione di massicci ordini di acquisto o vendita, che poi vengono cancellati una frazione di secondo prima che vengano effettivamente eseguiti. La tecnica è molto in voga, si direbbe, perché poco dopo il caso londinese anche a New York la Financial Industry Regulatory Authority ha incastrato un reprobo. IN quel caso si trattava della Trillium Brokerage Services, multata per 2,3 milioni di dollari. Stessa tecnica di “layering” anche per lei. La pratica della cancellazione repentina di migliaia di ordini poco prima che vengano eseguiti, è molto diffusa. E’ chiaro a cosa serve: prima i trader dell’Hft “sparano” sul mercato questi ordini voluminosi, sapendo che avranno l’effetto di spostare i prezzi, poi li cancellano e piazzano altre transazioni per lucrare sui movimenti di prezzi che loro stessi hanno provocato. Tutto questo è molto più raffinato e sottile dell’aggiotaggio vecchio stile, ed è possibile solo grazie alla tecnologia. Ma anche grazie alle evidenti lacune nella normativa. Per questo le norme stanno cercando di recuperare il ritardo. Negli Stati Uniti la Securities and Exchange Commission (Sec) ha varato requisiti di trasparenza più severi su tutti i trader di larghe dimensioni, chiedendo in particolare informazioni dettagliatissime sulle transazioni elettroniche ad alta velocità. In Europa la Commissione di Bruxelles ha presentato la proposta di direttiva “Mifid II” che va nella stessa direzione. Il commissario europeo al mercato unico, Michel Barnier, ha preso di mira in particolare i “dark pool” o “bacini oscuri”, vere e proprie Borse parallele dove si stanno spostando molte transazioni Hft per sfuggire alla curiosità degli organi di vigilanza. Come le nuove regole della Sec, anche la direttiva Mifid II della Commissione europea si applicherebbe alle transazioni su ogni tipo di attività finanziaria: azioni, titoli pubblici, obbligazioni private, futures e derivati. Sarebbe un limite serio, per la prima volta da anni, al dilagare dei nuovi strumenti tecnologici. Ma di tutte le proposte di riforma in circolazione, la più efficace resta la Tobin Tax, cioè l’imposizione di un prelievo fiscale su ogni transazione finanziaria. La Tobin Tax avrebbe un’aliquota molto bassa, sicché l’impatto sul risparmiatore sarebbe insignificante. Ma essendo una tassa che scatta ad ogni operazione, il suo costo sarebbe invece tutt’altro che trascurabile per i colossi dell’Hft. Di fatto la Tobin Tax colpirebbe in modo spoporzionato proprio loro, i grandi squali delle transazioni alla velocità della luce, quelli che non hanno bisogno di fare insider trading perché ci bruciano sul traguardo pur sapendo già quel che facciamo noi. Guarda caso, il dibattito sulla Tobin Tax appare e scompare, ma finisce sempre su un binario morto. E’ forse l’unico caso di una tassa che piacerebbe “al 99%”, ma l’1% che ne blocca l’approvazione ha dimostrato di avere un potere di veto finora insormontabile.

da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2011/10/31/urge-la-tobin-tax-per-frenare-la-finanza-impazzita/?ref=HROBA-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #87 inserito:: Novembre 13, 2011, 10:51:25 am »

IL RITRATTO

Il "bocconiano" europeista che punta sulla crescita

"Così l'Italia eviterà il baratro".

Il programma anti-default di Monti: via i privilegi, riforme severe, più tasse sulle rendite.

Ecco chi è il nuovo senatore e vita e forse prossimo premier

di FEDERICO RAMPINI

MARIO MONTI era a Berlino ieri, quando lo ha raggiunto la chiamata di Giorgio Napolitano. Lo ha ringraziato, si è detto onorato.
Poi ha fatto una di quelle cose che gli riescono alla perfezione: si è chiuso in un riserbo rigoroso.

Nella giornata di tutte le paure, mentre i mercati mondiali da Francoforte a Wall Street si avvitavano disperatamente al ribasso, risucchiati dalle incertezze sull'Italia, Monti si è comportato come se quella telefonata fosse "solo" per nominarlo senatore a vita.
Al presidente lo lega un'antica familiarità europea (Napolitano fu europarlamentare dal 1999 al 2004, durante tutto il secondo mandato di Monti a Bruxelles) e i due hanno un'altra cosa in comune: forse sono i più "anglosassoni" tra i leader italiani, nel senso dell'aplomb, dello stile, della compostezza.

Ora, se a Monti toccherà l'incarico di formare un nuovo governo, sarà finita davvero quella "commedia all'italiana" che lui stesso deprecava il 14 luglio scorso, così come la "tendenza ad andare alle calende greche". Dalla prima tempesta estiva sui mercati, il linguaggio di Monti ha avuto una vera e propria escalation: perché la rete di contatti di altissimo livello che ha coltivato in Europa lo hanno convinto prima di tanti altri che il pericolo era "urgente e grave". Fino all'appello lanciato il 23 settembre a Genova: "Bisogna attuare riforme impopolari mettendo insieme pro tempore le parti più sensibili di ciascuna parte politica". Un'autocandidatura?
"Non partecipo al dibattito sui governi tecnici  -  si è schermito ancora pochi giorni fa  -  però credo che una certa conoscenza dei problemi non guasti".

Ecco, sulla "conoscenza dei problemi" è difficile trovare in Italia un altro curriculum all'altezza del suo. Laureato alla Bocconi nel 1965, specializzato all'università di Yale studiando col Nobel dell'Economia James Tobin (sì, proprio quello della Tobin Tax sulle transazioni finanziarie), Monti si fa rispettare come giovane economista fin dal suo ritorno in Italia per la sua competenza su moneta, banche, finanza. Già nella prima parte della sua carriera colpisce il contrasto fra il carattere sobrio, la pacatezza dei modi, e il coraggio di prendere in contropelo i vizi nazionali: si guadagna la fama di "governatore ombra" della Banca d'Italia perché  -  a un'epoca in cui Via Nazionale è un'istituzione sacra e intoccabile (negli anni Settanta e Ottanta)  -  osa contestarne alcune politiche.

Esempio: l'eccessiva acquiescenza alle nomine politiche ai vertici delle banche (allora di Stato); e una politica monetaria accomodante verso la spesa facile, all'origine del boom del debito. La stessa grinta, la stessa capacità di non guardare in faccia nessuno, Monti la sfodera a Bruxelles. Dove arriva e rimane grazie a un profilo tecnico al 100%, prima nominato dal governo Berlusconi (18 gennaio 1995) poi confermato dal governo D'Alema nella Commissione europea presieduta da Romano Prodi (dal 1999 al 2004).

Come commissario, prima al mercato interno e poi alla concorrenza, Monti osa sfidare quello che all'epoca è "il potere forte" per eccellenza, nella New Economy: la Microsoft di Bill Gates, affrontata in una dura battaglia antitrust. Già allora Monti si fa carico anche del ruolo di "vigilante speciale" sull'Italia. Nella fase degli esami di Maastricht, quando non è affatto scontato che Helmut Kohl e la Bundesbank ci accettino nella nuova Unione monetaria, gli interventi di Monti frustano Roma perché raggiunga il traguardo.
E al tempo stesso, giocando di sponda con Carlo Azeglio Ciampi, lui offre ai leader europei il volto di un Italia diversa. Credibile. Capace di mantenere gli impegni presi.

La passione europea diventa per lui una sublimazione del patriottismo nazionale: "L'Europe puissance cara ai padri fondatori" è un'espressione che usa spesso. Anche per ricordare che nei trattati del 1957 voluti da Monnet, Schumann, Adenauer, c'era quella "economia sociale di mercato" che resta il suo faro, un modello più valido del neoliberismo nato negli Usa. E' la componente "di sinistra" di Monti  -  uomo di centro che più di centro non si può  -  a fargli pronunciare parole che oggi piacerebbero agli "indignati": "La pressione fiscale si è spostata sproporzionatamente sul reddito da lavoro e d'impresa, alleggerendosi invece sulle rendite finanziarie".

Monti non esita a denunciare un "mercatismo" che sembra volere imporre ieri alla Grecia e alla Spagna, oggi all'Italia e domani alla Francia, aggiustamenti fatti solo di tagli e austerità. "Il problema è la crescita", ha ricordato di recente. Ma per poter parlare di crescita bisogna prima spegnere l'incendio da panico, ricostruire una fiducia distrutta da Berlusconi.

Monti non ha simpatia per un direttorio franco-tedesco. Proprio perché ha mantenuto sempre incarichi di alto livello  -  la Commissione Attali a Parigi, il think tank Bruegel a Bruxelles, la Trilaterale, il Libro Bianco sul mercato unico per la Commissione Barroso  -  non soffre complessi d'inferiorità verso le eurocrazie. Sa però che ci siamo cacciati da soli alla periferia: con lo stallo delle riforme, e infine con la nuova tentazione dell'anti-europeismo da campagna elettorale.

E' scattato con decisione, non appena ha sentito un Berlusconi pronto a dare la colpa all'euro per la deriva dell'Italia. "L'euro non è in crisi. Ha bassa inflazione ed è stabile, perfino forte, verso il dollaro. Gli attacchi speculativi ci sono, ma non contro l'euro.
Se l'Italia ne fosse fuori, emettere titoli italiani in lire sarebbe un'impresa ancora più ardua". Il consenso facile, non è il suo genere.
Se ci sarà da "rendere un po' infelice ogni italiano limando i privilegi" lui non si tirerà indietro. La missione, se arriverà, è risalire da un baratro: "L'Italia non è mai stata così decisiva sull'avvenire dell'Europa, e così estranea alle decisioni sull'avvenire dell'Europa".

(10 novembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2011/11/10/news/ritratto_monti-24758405/
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #88 inserito:: Novembre 13, 2011, 11:35:12 am »

Zizek: Crisi del capitalismo, rischi autoritari e utopie possibili

Intervista a Slavoj Zizek di Federico Rampini,
da "D", 12 novembre 2011

"Mi vergogno a chiederlo, ma adesso avrei proprio bisogno di zucchero, zucchero puro". Sfido io! È da un'ora che Slavoj Zizek sta seduto davanti a me, nel mio ufficio su Broadway, e praticamente non ha ripreso il fiato. "I francesi mi chiamano scherzosamente Fidel Castro, perché se sono un po' giù di forma parlo tre ore senza interruzione, altrimenti vado avanti per cinque ore".
È un fiume in piena, un ciclone, una forza della natura. Ha il senso della battuta, mi provoca osservando che "i giornalisti più bravi sono quelli capaci di farmi dire l'esatto contrario di quel che penso, ma senza cambiare una sola sillaba delle mie parole".

Sfodera un sarcasmo pungente, soprattutto quando osserva con distacco la propria vicenda personale e politica: "Quando c'era il comunismo in Jugoslavia mi mettevano al bando dicendo che non ero comunista. Oggi gli stessi comandano in Slovenia, dopo aver cambiato casacca, e a questo punto mi accusano di essere comunista". Passa in rassegna tutti i libri sulla Cina che vede sugli scaffali della mia biblioteca, e d'improvviso vuole sapere se, tra le star del cinema femminile, trovo più sexy Gong Li o Zhang Ziyi. Eccolo qui davanti a me, larger than life (più grande della vita) come direbbero gli americani, l'enfant terrible della filosofia contemporanea Slavoj Zizek. 62 anni, nato a Lubiana, umanista, sociologo, studioso di psicanalisi, ex candidato alle presidenziali in Slovenia, le sue opere sono tradotte nel mondo intero. Lo hanno battezzato un "filostar", con un pizzico di cattiveria, per metterlo nella categoria dei filosofi che sono anche delle star dei media.

Filostar è l'ultima versione di quelli che - quand'ero ragazzo - furono i nouveaux philosophes francesi, capaci di unire le dissertazioni colte sulla psicoanalisi lacaniana, l'impegno politico militante, il protagonismo nei talk show televisivi. Però Zizek, proprio contro uno degli ex nouveaux philosophes, Bernard-Henri Lévy, è stato protagonista qui a New York di memorabili scontri nei dibattiti pubblici. Perché lui può essere un polemista formidabile, capace di prendere di petto le mode culturali, sbeffeggiare i suoi colleghi, sconcertare i suoi numerosissimi seguaci. È vulcanico - "Ho appena finito un saggio di mille pagine su Hegel", mi dice dopo avere ingerito qualche bustina di zucchero - alterna la sua vita tra Lubiana (la parte più privata: per stare coi figli, "nessuna vita sociale"), Londra e New York dove ha due incarichi di docente - ma i suoi itinerari sono ben più complicati.

Quando lo incontro è appena tornato da Stanford, in California, per un ciclo di conferenze. Qui a Manhattan, oltre a insegnare alla New York University (NYU), è praticamente di casa a Zuccotti Park, dove campeggiano da un mese e mezzo i manifestanti di Occupy Wall Street. Essendo uno dei più autorevoli esponenti del revival mondiale del marxismo, Zizek è considerato un padre teorico del movimento degli "indignati". Eppure, come su ogni altro tema, anche su questo le sue opinioni non sono mai scontate. Anzi, quando lo interpello su questo movimento le sue prime parole sono di pessimismo: "Sì, in questo momento mi definirei moderatamente pessimista. Non vedo alcuna rivoluzione all'orizzonte. Chissà che al contrario non stia per spuntare qualche forma nuova di regime autoritario".

Qui in America tornano a fiorire gli studi marxisti, si pronuncia l'espressione "lotta di classe" che era diventato tabù da decenni. Dopo una lunga egemonia della destra culminata col movimento anti-stato del Tea Party, finalmente la piazza torna a essere occupata da un movimento di sinistra. Per lei non è il momento di celebrare?
"Partiamo dall'origine di questo movimento, cioè dagli indignados spagnoli. Loro proclamano una totale sfiducia nei politici, ma al tempo stesso usano un linguaggio rivendicativo molto tradizionale. Questo mix di sfiducia e protesta può essere pericoloso. Può spuntare la voglia di un nuovo leader, un capo supremo. Viviamo un'epoca pericolosa, io non appartengo alla sinistra ingenua".

Colpisce il consenso raccolto dal movimento Occupy Wall Street: i due terzi dell'opinione pubblica americana si riconoscono nelle ragioni generali della protesta, contro le diseguaglianze, contro le oligarchie della finanza.
"L'opinione pubblica capisce che non siamo di fronte soltanto a un problema di corruzione di individui o di alcune categorie, ma che l'intero sistema economico non funziona. E non è solo una crisi del modello neoliberista, esso stesso in larga parte un mito: da Ronald Reagan a George W. Bush il neoliberismo puro non è mai esistito, ciascuno di questi presidenti ha fatto ampio ricorso allo stato quando era necessario".

Di fronte a questa crisi sistemica, c'è una riscoperta dei "classici": si torna a parlare di eguaglianza sociale, di giustizia, perfino di socialismo, in una nazione come l'America dove la sinistra era in ritirata da decenni.
"È qui che dico che io non appartengo a una vecchia sinistra. Non m'illudo che si possa affrontare questa crisi con un ritorno a ricette del passato. Il XX secolo è davvero finito per sempre, il comunismo appartiene a quel secolo. La fase che attraversiamo mi ricorda un celebre detto di Antonio Gramsci, che si può parafrasare così: il vecchio ordine sta morendo, ma un nuovo ordine non è ancora nato, questo è il momento in cui possono apparire dei mostri. Ecco, io non ho un'idea chiara di quel che sarà il nuovo ordine. Qualcosa di nuovo nascerà, ma non possiamo sapere quali caratteristiche avrà. La mia diagnosi è pessimista: il capitalismo è in una crisi vera. Ma ho osservato con preoccupazione ciò che può accadere come reazione alle crisi, per esempio l'orribile ascesa di una destra xenofoba in tutta l'Europa dell'est. In questi tempi di confusione c'è bisogno di qualche ancora di stabilità morale. Vedo che l'Europa tecnocratica sta franando, ed è accerchiata da ambo i lati: l'ascesa della destra, e i nuovi movimenti di sinistra. Ma se la sinistra non propone un nuovo progetto, vedremo nuove forme di capitalismo autoritario. Non penso al ritorno dei fascismi, semmai a delle forme di edonismo liberale, autoritarismo soft alla Berlusconi, ammantate di una sorta di buddismo occidentale".

Lei prende le distanze da ogni nostalgia del XX secolo, e tuttavia le è capitato di definirsi ancora comunista. In che senso?
"Poiché sono stato disoccupato per sei anni nel mio paese, a causa delle mie idee, quando ancora c'era un regime comunista in Jugoslavia, non mi faccio alcuna illusione. Credo che il comunismo oggi vale in quanto "la definizione del problema". Il grande problema che la società ha di fronte è il destino dei beni comuni, come l'ambiente. In questo senso mi riconosco nell'interesse che Toni Negri ha per tutta la tematica dei commons, anche se divergo da molte sue affermazioni. Alla sinistra ho tante critiche da fare. In Grecia, per esempio, non perdono alla sinistra di giocare la carta dell'anti-europeismo, e di ignorare le proprie responsabilità nell'avere usato per tanti anni il clientelismo assistenziale. Ma non amo particolarmente neppure la happening hippy left, la sinistra hippy che ama gli happening, di cui c'è qualche componente qui nel movimento Occupy Wall Street: la sinistra deve anche porsi il problema dell'efficienza, deve trasformare questa crisi nell'occasione per costruire un nuovo ordine positivo".

Questa è la critica che viene anche dai riformisti più tradizionali. Bill Clinton ha detto del movimento Occupy Wall Street che deve definire al più presto un programma, una lista di obiettivi concreti.
"Se la critica è formulata in questi termini, non sono d'accordo. Siamo nella fase iniziale di un movimento, è legittimo che i suoi sbocchi restino aperti. Se lo si incalza troppo, si finisce in una di queste due direzioni: o nell'utopia pura, oppure in una pragmatica richiesta di ottenere più soldi per il welfare state. Né l'una né l'altra strada ci tirerebbero fuori da questa crisi. Io penso che il momento più interessante sarà il day after, il giorno dopo la stagione degli "indignati", quando l'entusiasmo sarà svanito. È allora che vedremo cosa resta, come traghettare verso un nuovo ordine che renda la nostra vita migliore. Per adesso non vedo affiorare idee nuove, certo non dalla Spagna e nemmeno dalla Grecia. La vecchia sinistra non ha risposte, il pragmatismo alla Clinton neppure. Alla fine c'è una sinistra che funziona meglio delle altre ed è quella cinese. Terribile segnale, perché in Cina c'è il divorzio tra democrazia e capitalismo, la prima forma veramente efficiente di capitalismo autoritario. Io mi chiedo spesso se sappiamo cosa sia la Cina: è una nuova forma di capitalismo? Una volta ci ho scherzato sopra, parlando con Francis Fukuyama, che scrisse della "fine della storia" dopo la caduta del Muro di Berlino. "Ha ragione", ho detto a Fukuyama, "il capitalismo ha vinto, però la sua versione più forte è governata da comunisti". Lo sa cosa mi hanno raccontato della Cina? Non so se sia vero, ma sarebbe bello se fosse vero: che tra i vari tabù della censura di Stato, le autorità di Pechino cercano di proibire su internet le "realtà alternative", le società virtuali, e al cinema i censori non amano che la fantascienza raffiguri i viaggi nel tempo. Sarebbe bello in questo senso: vorrebbe dire che almeno i leader cinesi hanno ancora paura che la gente possa sognare".

Quando oggi parla del nuovo ordine che può emergere da questa crisi, ma ancora non c'è e si stenta a immaginarne i contorni, si capisce che noi facciamo una gran fatica a sognare.
"Eccole una battuta che ho fatto altre volte: noi siamo capaci di immaginare molto facilmente la fine del mondo, un asteroide che colpisce la terra e la distrugge, l'abbiamo vista tante volte al cinema. E invece non riusciamo a concepire un cambiamento sociale anche piccolo. Tutto ci sembra possibile, ma non che si possano dedicare più risorse al welfare. Strano, no? Poi uno va nei paesi scandinavi e scopre un contratto sociale molto diverso dal nostro. Per esempio, là il divario medio tra lo stipendio del chief executive e quello di un dipendente dentro la stessa azienda è di sei a uno, non 600 a uno come negli Stati Uniti. Eppure funziona, la gente lo accetta, non è certo egualitarismo comunista se il capo azienda può guadagnare sei volte più dell'operaio. E le economie dei paesi scandinavi sono competitive. Allora questo ci costringe a interrogarci: che cosa rende socialmente accettabile un certo livello di diseguaglianze? Quello che viene considerato "normale", o addirittura viene presentato come una "legge di mercato" in un paese, è il frutto delle aspettative sociali, dei rapporti di forze, delle battaglie".

Quindi la Scandinavia è un'utopia possibile, dove si verifica quotidianamente la praticabilità di una società più equa e solidale. Ma nei suoi discorsi affiora anche un altro esito possibile di questa crisi, una soluzione di tipo autoritario. Siamo ad un remake degli anni Venti e Trenta, quando la Grande Depressione fu affrontata in alcuni paesi con risposte di sinistra (il New Deal di Roosevelt e il Fronte Popolare in Francia, più alcune socialdemocrazie nordiche) ma in Germania portò al potere Hitler?
"L'autoritarismo del futuro io lo immagino più simile al vostro Berlusconi, una sorta di Groucho Marx al potere, una commedia ridicola e tuttavia autoritaria. Se cerco una rappresentazione di fantasia, mi viene in mente Brazil, il film di fantapolitica che Terry Gilliam diresse nel 1985. Immagino un autoritarismo berlusconiano nel senso che vedo la possibilità di un assetto politico-sociale molto permissivo verso i piaceri privati, pronto a chiudere un occhio su ogni sorta di orge, pur di favorire la spoliticizzazione".

E di Barack Obama, che cosa pensa?
"È il primo presidente socialdemocratico degli Stati Uniti. Per questo le reazioni contro di lui sono state così paranoiche. Ma non credo ci sia spazio per un riformismo graduale. Oggi forse la vera utopia - nel senso letterale di un'utopia che non ha luogo, irrealistica - è pensare che le cose possano andare avanti con degli aggiustamenti, senza un cambiamento profondo e radicale".

(12 novembre 2011)
da - http://temi.repubblica.it/micromega-online/zizek-crisi-del-capitalismo-rischi-autoritari-e-utopie-possibili/

Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #89 inserito:: Novembre 16, 2011, 11:56:42 am »

Franco Bianco,   04 novembre 2011, 13:40

Rampini, lettera alla sinistra

Dibattito     

"Pre-recensione" al libro di Federico Rampini uscito due giorni fa, "Alla mia sinistra"; ma sostanzialmente, in queste note, viene sollevato un problema tutto politico: le responsabilità della sinistra (di tutti noi) nell'aver capito tardi e male dove andava a parare la "globalizzazione", ed il problema che essa ha (che tutti noi abbiamo) in ordine alle modalità - se esistono - di uscita dalla crisi


Appartengo alla stessa generazione di cui fa parte Federico Rampini. Lui, per la verità, è nato alcuni anni dopo di me, ma in quegli anni fra la seconda metà dei '40 e la metà dei '50 non ci furono discontinuità decisive, il mondo non cambiò molto, e nemmeno l'Italia. Perciò le cose di cui Rampini parla nel suo ultimo libro, ''Alla mia sinistra'', (appena uscito per i tipi di Mondadori: 228 pagg., 18 euro), mi riguardano da vicino, raccontano una storia che la mia (la nostra) generazione ha vissuto con larga partecipazione dei suoi componenti.
Di quel libro Rampini ha detto: «Ho voluto sfogliare il mio album di famiglia, la storia che ho vissuto con un pezzo della sinistra italiana, per capire le ragioni delle nostre sconfitte» (giova ricordare, per inquadrare la storia personale, che Rampini, che aveva studiato in luoghi di eccellenza, cominciò a scrivere per ''Città Futura'', che era il settimanale della FGCI, e poi per ''Rinascita'', che era l'organo ''ideologico'' del PCI).

Quello che Rampini dichiara di aver voluto fare, con questo suo ultimo testo, è un compito che competerebbe a molti di noi, non possiamo tirarci indietro da una sorta di ''outing collettivo''. Ce lo impone l'onestà verso noi stessi ed il fatto che, come ha scritto Rampini, abbiamo (più o meno) «figli che affrontano, come tutti i loro coetanei, il mercato del lavoro più difficile dai tempi della Grande Depressione», e quindi le vicende che viviamo ancora ci coinvolgono, direttamente ed indirettamente, nel senso che riguardano sia le generazioni ''in uscita'' che quelle che si trovano oggi ad affrontare le condizioni del mondo per costruire il loro futuro; inoltre, non possiamo negare, né a noi stessi né a loro, che di quelle condizioni portiamo, in maggiore o minore misura a seconda delle storie personali, una qualche responsabilità: siamo, come ha scritto Rampini, «una generazione della sinistra occidentale che ha creduto di poter migliorare la società usando il mercato e la globalizzazione».

Qualcuno dirà che non è vero, rifiuterà di sentirsi coinvolto, dirà di essere sempre stato contrario a quello che avveniva (la ''mondializzazione'', o ''globalizzazione'', come la si vuol chiamare): francamente non è vero, la contrarietà è venuta dopo, quando ne abbiamo visto (e finalmente capito, con non poco ritardo - su questo anche studiosi di valore, ad esempio Marco Revelli, sono d'accordo) gli approdi, ma c'è stato tutto un lungo tempo nel quale tutti noi, o larga parte, anche a sinistra ed anche nella sinistra che al tempo si definiva ''radicale'', pensavamo che fosse quello lo sviluppo naturale, che in esso consistessero la modernità ed il progresso; ci sembrava che ad esso corrispondesse lo ''sviluppo delle forze produttive'', un concetto che faceva parte della formazione culturale (o ''ideologica'', se si preferisce) di molti di noi: uno sviluppo che eravamo sicuri - lo avevamo letto, lo avevamo introiettato, ce ne eravamo convinti - ci avrebbe condotti verso albe gloriose di ''liberazione'' e di uguaglianza.

La storia faceva il suo corso, pensavamo, e la cosa ci tranquillizzava perché eravamo convinti che l'approdo fosse già scritto, che il senso del cambiamento non potesse che andare verso l'avanzamento, e così la vita dei nostri figli sarebbe stata certamente migliore della nostra. Non è stato così, e dobbiamo cercare di capire perché anche per individuare le possibili vie d'uscita dalle difficoltà che ci affliggono: è questo, credo, che Rampini prova a fare nel suo libro. Ci riguarda.

Credo che varrà la pena di leggerlo, e tornarci poi su per ragionare sulle risposte che esso fornisce.

da - http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=18956
Registrato
Pagine: 1 ... 4 5 [6] 7 8 ... 13
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!