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Autore Discussione: FEDERICO RAMPINI.  (Letto 112089 volte)
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« Risposta #105 inserito:: Gennaio 29, 2014, 04:55:14 pm »

28
gen
2014

Il buon esempio di Obama sui redditi bassi

Federico RAMPINI

Obama dà l’esempio, aumenta il salario minimo per i lavoratori impiegati da tutte le imprese che lavorano per l’Amministrazione federale. E’ un piccolo passo in quella strategia di lotta alle diseguaglianze che Obama annuncia stasera (stanotte in Italia) nel discorso sullo Stato dell’Unione. Per alzare il salario minimo in tutti i settori occorre una legge del Congresso, e su quel fronte come al solito il presidente si scontra con i veti della destra. Ma l’aumento del salario nell’indotto della pubblica amministrazione è un messaggio che serve a orientare la campagna elettorale d’autunno: Obama “in salsa de Blasio”, rilancia una strategia progressista perché l’uscita dalla crisi porti benefici a tutta la middle class e ai lavoratori. Fra gli altri annunci di stasera ci sarà un rilancio della scuola pubblica con investimenti per scuole materne, asili nido.
Tuttavia c’è una sottile differenza tra Obama e il neosindaco di New York. Il presidente, spinto dai suoi consiglieri e dai moderati del partito democratico, non vuole mettere troppo l’accento sul tema delle diseguaglianze. Sia perchè questo argomento viene considerato “accademico” (occorre citare troppi dati e statistiche per dimostrarlo, il telespettatore medio stasera rischia di cambiare canale…) sia perché resta ben radicata in una maggioranza degli americani l’idea che dare la caccia agli straricchi è “lotta di classe”, “socialismo”, ricette fallite in passato. Meglio allora affrontare la questione sul lato positivo, cioè con gesti concreti che aiutano i lavoratori a basso reddito. Meglio sospingere verso l’alto la fascia più debole della società americana, che parlare di distanze tra ricchi e poveri. Sia il salario minimo, sia il potenziamento di servizi sociali come la scuola materna per tutti, sono aiuti concreti per le famiglie a basso reddito, non battaglie ideologiche in nome dell’egualitarismo.
Tutto questo corrisponde anche a un “posizionamento” strategico che Obama cercherà di indicare ai democratici in vista delle elezioni di mid-term. Nel novembre di quest’anno, come di consueto quando si arriva a metà del mandato presidenziale, si rinnova la Camera e un terzo del Senato. Al momento queste legislative appaiono in salita per i democratici.

Da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/?ref=HRER1-1
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« Risposta #106 inserito:: Febbraio 07, 2014, 11:28:09 pm »

7
feb
2014

L’insulto all’Europa della vice di John Kerry

C’è qualcosa di incomprensibile, surreale, nella gaffe della vice di John Kerry, Victoria Nuland, “mandata in onda” da Putin su YouTube mentre insultava l’Unione europea.
Due gli aspetti sconcertanti, o esilaranti:
1) questi diplomatici americani, incluse le Ladies, sembrano non aver saputo nulla di WikiLeaks ne` di Edward Snowden, continuano a parlarsi a telefono come se non esistessero le intercettazioni, le fughe di notizie ecc. Sembrano personaggi di un’altra epoca, convinti che il telefono tra il Dipartimento di Stato e l’ambasciata Usa a Kiev sia un mezzo sicuro e riservato.
2) In quanto a Putin, dimostra di non avere bisogno della NSA ne` del pentito Snowden, per poter intercettare chi vuole lui.
Poi, nel merito, la sottosegretaria Nuland ha mille volte ragione sull’inefficacia dell’Unione europea nella crisi ucraina, ma l’autogol di quella telefonata resa pubblica, la mette dalla parte del torto.

Scritto in Europa, Politica estera Usa

Da - http://rampini.blogautore.repubblica.it/2014/02/07/linsulto-alleuropa-della-vice-di-john-kerry/?ref=HREA-1
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« Risposta #107 inserito:: Marzo 01, 2014, 07:42:45 pm »

1
mar
2014

Sulla Crimea Obama ha poche opzioni

Federico RAMPINI

Tutta la stampa Usa sottolinea la nuova impasse della politica estera americana. Questi i punti principali:
1) Fino a ieri Obama aveva coltivato l’illusione di poter cooperare con Putin per una soluzione pacifica, oggi ovviamente non ci crede piu`.
2) E’ tuttavia innegabile che l’Ucraina o almeno la Crimea facciano parte di una “sfera d’influenza” russa, ancorche` non dichiarata (e ancor meno condivisa dalla maggioranza della popolazione ucraina). La base navale di Sebastopol sta li` a ricordarlo.
3) E’ anche vero che il filo-russo Yanukovych fu eletto democraticamente, poi e` stato deposto da moti di piazza. Una situazione non prorio limpida neanche sul fronte delle forze filo-occidentali.
4) Infine e soprattutto, gli strumenti di pressione dell’America sono limitati. Guai se Obama lanciasse minacce a vuoto, non seguite dai fatti: sarebbe un bis della Siria. Interventi militari non sono immaginabili, ma anche sanzioni politico-economiche avrebbero scarsissimo effetto su Putin.
5) Alla fine Washington ritiene che gli europei abbiano un po’ piu` influenza (ma non moltissima), per il maggior peso di rapporti economici sia con l’Ucraina sia con la Russia.

Scritto in diritti umani, Europa, Politica estera Usa, strategia e armamenti |

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« Risposta #108 inserito:: Luglio 03, 2014, 07:21:28 pm »


2
lug
2014

Neoconservatori Usa alla riscossa sull’Iraq

Una vittoria per i neoconservatori arriva da Bagdad? Come sostituto dello screditato premier al-Maliki (che Obama considera incapace di ricucire con i sunniti) ora spunta il nome di Ahmad Chalabi, l’uomo forte che piaceva a George W. Bush e ai suoi. Corrotto, screditato già nel 2003, ma legato a doppio filo alla destra americana.

E intanto i neocon dilagano nei talkshow come ai tempi del loro massimo potere. Sull’onda del disastro iracheno sono tornati in primo piano tutti gli artefici della politica estera di George W. Bush e intonano un coro: l’America era più forte, più credibile e rispettata nel mondo, quando c’eravamo noi. Sei uomini e una donna sono la punta di diamante di quest’offensiva. L’ex vicepresidente Dick Cheney e la figlia Liz. L’ex ambasciatore all’Onu John Bolton, a cui si attribuiscono ambizioni presidenziali. L’ex sottosegretario nonché` presidente della Banca mondiale, Paul Wolfowitz. E poi i tre teorici più autorevoli del pensiero neocon: Robert Kagan, William Kristol, Richard Perle, riuniti sotto le bandiere di un think tank storico, il Project for the New American Century.

I due Cheney padre e figlia usano il giornale più “organico”, il Wall Street Journal di Rupert Murdoch, per scrivere a due mani una requisitoria durissima contro Barack Obama: “Raramente un presidente americano ha avuto torto così tanto e così spesso, a spese di così tante persone”. Wolfowitz accusa Obama di “non prendere sul serio la marcia dei fondamentalisti sunniti su Bagdad”. Kristol rivendica che “l’invasione del 2003 fu la cosa giusta da fare”. L’ex segretario alla Difesa Ronald Rumsfeld si è già distinto per un libro autobiografico e un documentario dove non c’è un briciolo di autocritica, bensì l’orgogliosa rivendicazione delle avventure militari in cui i neocon trascinarono l’America e tanti alleati occidentali. Nella raffica di attacchi contro la politica estera di Obama, i neocon non fanno mancare niente: questo presidente e` accusato di aver “perso” sia la Crimea che l’Iraq, ben presto anche l’Afghanistan e l’Egitto; di non avere capito nulla delle cosiddette “primavere arabe”; di avere incoraggiato con la sua pavidità gli espansionismi russo e cinese. Dalla Siria all’Ucraina fino al Mar della Cina, è un lungo elenco di arretramenti strategici, a cui i neocon imputano un’accelerazione del declino Usa.

L’Iraq resta il tema più dibattuto. I più arditi tra i neocon insinuano che la ritirata delle truppe americane sia stata un errore marchiano, fingendo di dimenticare che fu Bush a deciderne la data: 2011. I più sottili accusano Obama di non aver saputo negoziare con il premier iracheno al-Maliki quelle garanzie politico-giuridiche (immunità per i soldati Usa) che avrebbero consentito di lasciare a Bagdad un dispositivo militare leggero, ma sufficiente e condizionare il governo e impedire la disintegrazione tra fazioni sciita, sunnita, curda. Ricordano le sue parole del 2011, alla partenza delle ultime truppe Usa da Bagdad: “Lasciamo dietro di noi – disse Obama – un Iraq sovrano, stabile e autosufficiente”. Più in generale i neocon istruiscono un processo all’intera “dottrina Obama” come fu esposta dal presidente nel discorso all’accademia militare di West Point un mese fa. Salutando i cadetti con la constatazione che “siete la prima generazione di laureati di West Point che non verrà mandata a combattere in Iraq e Afghanistan”, il presidente illustrò le sue ricette per un mondo multipolare, instabile e complicato, dove gli interventi militari hanno spesso aggravato le crisi anziché risolverle, e quindi devono essere uno strumento di ultima istanza, da usare solo quando via sia la certezza di una minaccia alla sicurezza degli Stati Uniti. Parole insopportabili per i fautori di una politica estera imperiale.
E tuttavia Obama non è l’unico bersaglio dei neocon. Forse neppure il principale. Per capire il ritorno di visibilità della squadra di Bush, bisogna guardare alla battaglia politica per il controllo del partito repubblicano. Le cui correnti rivali sono in fibrillazione perchè sentono “profumo di vittoria”. Già oggi il cosiddetto Grand Old Party (Gop) controlla gran parte del potere politico e amministrativo: governa 29 Stati Usa contro i 21 dei democratici; ha la maggioranza dei seggi alla Camera; ha la maggioranza dei giudici costituzionali. Stando ai sondaggi attuali potrebbe fare l’en plein fra quattro mesi, strappando sul filo di rasoio anche il Senato, alle elezioni legislative di mid-term. A quel punto la Casa Bianca sarebbe davvero un fortino assediato. Ma quale “anima” del partito repubblicano avrà il controllo di tutto questo potere? Il revival dei neocon è un tentativo di reagire alla loro emarginazione. Solo il 18% degli americani pensa che i costi umani ed economici dell’invasione dell’Iraq nel 2003 siano stati giustificati. E solo il 19% appoggerebbe l’invio di nuove truppe. Più in sintonia con l’anima del popolo della destra, è un leader isolazionista come Rand Paul che ai neocon riserva parole sferzanti: “Dov’erano le armi di distruzione di massa che loro attribuirono a Saddam? E si dimenticano di averci raccontato che quella guerra l’avevamo vinta già nel 2005?” La vittima collaterale delle polemiche dei neocon rischia di essere Jeb Bush, il fratello di George. Jeb sarebbe un candidato forte per sfidare Hillary Clinton nel 2016, è un moderato, ma qualsiasi polemica che rivanghi i ricordi infausti della presidenza di suo fratello non può che nuocergli.

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« Risposta #109 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:25:53 am »

Elezioni Usa di midterm: bambini protagonisti

Rampini

In quanto a Obama, al momento la sua presidenza si avvia a un crepuscolo mesto. I sondaggi misurano da molti mesi un tracollo di popolarità. Lo stesso presidente appare quasi demotivato, disilluso, consapevole di non essere riuscito a sfondare nella sua missione più ardua: riformare il sistema politico stesso. Il blocco delle istituzioni peggiora, così come si aggrava la commistione tra denaro e politica: sono state le elezioni midterm più costose della storia. Ma il presidente resterà pur sempre il dominus della politica estera nella superpotenza mondiale. Guerra e diplomazia restano essenzialmente delle prerogative della Casa Bianca, in quel campo l’influenza del Congresso è più modesta. Le grandi crisi del momento, dalla Siria all’Ucraina, continueranno ad assorbire molte energie e molta attenzione di Obama.

Infine il presidente potrebbe accentuare una scelta già fatta negli ultimi mesi: usare di più i poteri esecutivi anche sul terreno dell’ambiente. Di fronte a una destra negazionista, che rifiuta perfino l’evidenza scientifica sul cambiamento climatico, non c’è intesa possibile sulla carbon tax o altri limiti alle emissioni di CO2. Perciò Obama ha già sperimentato un’opzione alternativa: intervenire aggirando il Congresso, con l’uso estensivo dei poteri regolamentari della Environmental Protection Agency. Se riuscisse a lasciare un’eredità positiva sull’ambiente, insieme con i matrimoni gay e la riforma sanitaria, Obama potrà sperare che il giudizio della storia verso di lui sia meno severo di quello dei suoi contemporanei. E magari alla fine qualcuno ricorderà che sotto di lui l’America è uscita dalla più grave crisi dopo la Grande Depressione degli anni Trenta.

© Riproduzione riservata 05 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/midterm2014/2014/11/05/news/elezioni_usa_la_sconfitta_di_obama_il_congresso_nelle_mani_dei_repubblicani-99785273/?ref=HREA-1
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« Risposta #110 inserito:: Dicembre 01, 2014, 04:23:24 pm »

Caso Google, ora gli Usa temono l'Europa
Il "Wall Street Journal" dà voce ai timori della Silicon Valley: l'Antitrust Ue vuol colpire le aziende digitali americane. Coinvolti anche Amazon, Facebook e Apple
Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
29 novembre 2014

NEW YORK - Sarà la vecchia Europa a mettere seriamente in difficoltà i Padroni della Rete? Le offensive più temibili contro i nuovi monopolisti dell'economia digitale arrivano dal Vecchio continente. Anche perché l'Europa non ha campioni nazionali da difendere in questo settore, e quindi i suoi governi e le sue istituzioni federali sono più sensibili agli interessi del consumatore.

Il Wall Street Journal dà voce alle preoccupazioni della Silicon Valley, con un titolo in prima pagina: "L'Europa prende di mira le aziende digitali americane". I terreni di questa offensiva sono molteplici, si va dalle accuse di elusione fiscale alle iniziative per la tutela della privacy ("diritto all'oblìo") per finire con le procedure antitrust. Su quest'ultimo terreno l'Europa ha dei precedenti illustri. Fu la Commissione Ue ad assestare un colpo al semi-monopolio di Microsoft quando il responsabile della concorrenza era Mario Monti. Anche a quell'epoca, gli americani videro in quell'offensiva una sorta di complotto anti-Usa: sta di fatto che l'Antitrust di Washington era stato fin troppo timido nei confronti del colosso di Bill Gates.

Oggi una procedura analoga dell'Antitrust europea potrebbe colpire il potere semi-monopolistico di Google e forse smantellarlo: se passasse il principio della "neutralità delle piattaforme", caro soprattutto alla Francia, Google sarebbe costretta a facilitare l'uso di motori di ricerca diversi dal suo. In generale quello che il Wall Street Journal mette in risalto è una convergenza di iniziative tra i due maggiori Stati membri dell'Unione, Germania e Francia, insieme con le azioni promosse dall'Europarlamento: quest'ultimo ha preso in esame una risoluzione che "scioglierebbe" i motori di ricerca dagli altri servizi offerti dai padroni della Rete (o come vengono chiamati a Parigi "les Gafas", plurale dell'acronimo che sta per Google Apple Facebook Amazon).

La questione dell'elusione fiscale è emblematica delle differenze tra Usa e Ue. In realtà fu il Congresso di Washington ad aprire per primo una indagine sul comportamento fiscale di questi colossi. Memorabile fu l'audizione di Tim Cook, chief executive di Apple, nel corso della quale i parlamentari divulgarono dati scandalosi: l'azienda fondata da Steve Jobs sfrutta ogni possibile cavillo delle legislazioni fiscali per spostare i suoi profitti da un paese all'altro. Alla fine la massima parte dei profitti viene fatta "figurare", in modo del tutto artificioso, a capo delle filiali irlandesi, con fisco più generoso. La pressione fiscale effettiva che Apple subisce sui propri profitti è dello 0,2% secondo le conclusioni di quell'indagine parlamentare.

Le sedute del Congresso Usa ebbero grande pubblicità e risonanza. Poi però non se ne fece nulla. Perché? I Padroni della Rete qui a casa loro sono quasi inattaccabili. La destra, che ha la maggioranza al Congresso, è per principio contraria ad ogni aumento di pressione fiscale sulle imprese. I democratici a loro volta sono i beneficiari delle generose donazioni elettorali della Silicon Valley, da sempre "liberal" e progressista su temi come l'ambiente e i matrimoni gay. Ecco perché alla fine è più probabile che la lotta all'elusione fiscale dei monopolisti digitali faccia qualche passo avanti nella Ue, dove il loro potere di condizionamento è meno forte. Se ne sono resi conto i vertici di Google: il presidente Eric Schmidt e il chief executive Larry Page di recente hanno moltiplicato i loro viaggi "diplomatici" a Bruxelles, Berlino e Parigi, per intensificare un attività di lobbying fin qui non abbastanza efficace.

© Riproduzione riservata 29 novembre 201

Da - http://www.repubblica.it/economia/2014/11/29/news/caso_google_ora_gli_usa_temono_l_europa-101679456/?ref=HRER2-1
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« Risposta #111 inserito:: Giugno 25, 2015, 10:36:45 am »

Usa, cyber-attacco cinese: sono 18 milioni le identità rubate
Si era parlato di 4,2 milioni di dati trafugati ma il danno del blitz compiuto dagli hacker è di gran lunga più grave, secondo quanto riferito dalla Cnn.
L'amministrazione Obama non ha dubbi: dietro c'è la mano di Pechino

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
23 giugno 2015

NEW YORK -  Se queste sono le prove generali della cyber-guerra, siamo a una specie di Pearl Harbor. Coi cinesi al posto dei giapponesi. E' una debacle americana, le cui dimensioni si sono improvvisamente ingigantite. Più del quadruplo rispetto alle rivelazioni della scorsa settimana. Non 4,2 milioni bensì 18 milioni di identità sono state rubate dagli hacker, che l'Amministrazione Obama riconduce alla Cina. Si tratta di dati personali, riservati, su altrettanti dipendenti dell'Amministrazione federale, nonché ex dipendenti, oppure candidati all'assunzione che hanno mandato i propri curriculum agli uffici del personale. E non è neanche sicuro che il bilancio sia definitivo.

Secondo l'ultima rivelazione della Cnn che riferisce quanto detto dal direttore dell'Fbi James Comey al Senato, l'entità del furto alla fine potrebbe risultare ancora più vasta. L'Fbi a sua volta ha ripreso le informazioni dell'Office of Personnel Management, l'ufficio del personale e risorse umane a cui fanno capo i dipendenti della burocrazia federale. I punti di accesso che gli hacker cinesi hanno usato sarebbero molteplici, incluse alcune società di reclutamento del personale a cui l'Amministrazione federale subappalta l'esame dei candidati all'assunzione.

Questa cyber-intrusione è considerata la peggiore della storia. Una ragione per cui il numero delle vittime continua a dilatarsi, è che gli hacker hanno violato un database governativo usato per i controlli di sicurezza sui dipendenti (fedina penale pulita, casellario giudiziale ecc.). In quel database per garantire che i dipendenti federali non abbiano precedenti penali, non siano bancarottieri, ricattabili per debiti, ecc., vengono custodite anche informazioni sui loro familiari. Quindi ogni singola identità violata dagli hacker può corrispondere a un intero nucleo familiare. L'Amministrazione Obama ora è nella bufera: il Congresso l'accusa di non avere rispettato gli standard di sicurezza informatica che lei stessa si era dati.
 
© Riproduzione riservata
23 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/esteri/2015/06/23/news/usa_cyber-attacco_cinese_sono_18_milioni_le_identita_rubate-117476892/?ref=HREC1-1
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« Risposta #112 inserito:: Giugno 27, 2015, 10:16:29 am »

Grecia, i nuovi equilibri del Fondo e la corsa alla rielezione hanno irrigidito la Lagarde

C'è il numero uno dell'Fmi dietro le ultimi condizioni poste ad Atene. Ieri si è detta disponibile a un nuovo mandato al vertice. Ed è diventata il falco della trattativa

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
25 giugno 2015

NEW YORK. Dietro le ultime condizioni poste dai creditori della troika alla Grecia, c'è la mano di Christine Lagarde: "l'altra donna più potente del mondo", che con Angela Merkel ha avuto un peso determinante nella crisi greca. Tagli più sostanziosi alle pensioni, con l'allungamento dell'età pensionabile a 67 anni entro il 2022 (sia pure salvaguardando i pensionati più poveri). Un ridimensionamento drastico di quella stangata fiscale sulle imprese a cui il governo Tspiras voleva affidare il risanamento dei conti pubblici. Tutto questo era contenuto nelle richieste avanzate dai tecnici del Fmi. Le aveva ribadite il capo economista Olivier Blanchard, francese come Lagarde, nel suo blog una settimana fa: "Occorre una riduzione della spesa pensionistica per l'1% del Pil". Ieri la direttrice generale ha annunciato che sarà disponibile per un nuovo mandato al vertice del Fmi, se glielo chiederanno i membri dell'organizzazione. A questo punto i giochi per l'elezione al vertice del Fmi diventeranno anche un giudizio degli Stati membri su come è stata gestita la crisi greca. Gli equilibri geopolitici in seno al Fondo aiutano a capire l'irrigidimento evidente che c'è stato verso Atene. Le "due Washington" si sono mosse quasi sempre in sintonia: da una parte la capitale federale degli Stati Uniti, dall'altra la sede del Fondo stesso che si trova a pochi isolati dalla Casa Bianca e dal Tesoro Usa. La sintonia si spiega anche col fatto che l'America rimane l'azionista di maggioranza relativa dell'organismo.

Sulla Grecia si era partiti con una diversa ripartizione dei compiti tra americani ed europei. All'inizio di una crisi che gli americani giudicano folle nella sua durata (cinque anni per un paese che pesa meno del 2% del Pil dell'eurozona), Barack Obama e i suoi ministri del Tesoro erano le "colombe". Toccava a loro il compito di criticare l'euro-austerity, e non esitavano a farlo a gamba tesa. Ci furono dei summit europei in cui il precedente segretario al Tesoro Tim Geithner si "auto-invitò" per portarvi le pressioni di Obama, preoccupato che la Grecia potesse scivolare tra le braccia di Putin. In quanto all'altra Washington, i tecnici del Fmi davano sostanzialmente ragione a Obama. Uno studio del Fondo che fece scalpore dimostrava in modo irrefutabile gli effetti dannosi dell'austerity.

Col passare del tempo le due Washington sono diventate meno comprensive verso Atene. Hanno giocato anche dei fattori personali: all'ultimo meeting del Fondo sia gli uomini di Obama che Lagarde hanno avuto un pessima impressione del ministro dell'economia greco Varoufakis, più impegnato a cercare applausi nei convegni che a studiare i dossier. Ma soprattutto è cresciuta la fronda dei paesi emergenti in seno al Fmi, esasperati per il troppo tempo e le troppe risorse dedicate alla Grecia, in confronto a quanto fatto quando a trovarsi in difficoltà furono paesi veramente poveri.

Il malumore degli emergenti ha incrociato un'altra vicenda che ha messo in allarme Obama: la creazione da parte della Cina della Asian Infrastructure Investment Bank (Aiib), in palese concorrenza con la Banca Mondiale. Un nuovo organismo nel quale Pechino è riuscita ad attirare non solo molti paesi asiatici ma anche nazioni europee alleate dell'America, dall'Inghilterra alla Germania all'Italia. Con questo gesto la Cina ha lanciato una sfida all'ordine di Bretton Woods e alle sue istituzioni. Ha interpretato il malumore di tutti gli emergenti, esasperati per l'evidente "occidento-centrismo" del Fmi. Un problema annoso, con le quote di "azionariato" del Fmi che non riflettono più i veri equilibri e rapporti di forze tra le nazioni.

Questo ha accelerato l'irrigidimento verso Atene, sia da parte di Obama che di Lagarde. Ciascuno ha prospettive diverse, e Obama resta preoccupato che Tsipras vada verso la Russia. Lagarde è più esposta di lui, di fronte all'ira degli emergenti, tanto più se inizia per lei una campagna per la rielezione. Come ha dimostrato quella sfida cinese, le due Washington non possono più permettersi di dare alla Grecia un'attenzione così smisurata a scapito di tanti altri paesi che contano.

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25 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/economia/2015/06/25/news/lagarde-117632947/?ref=HREC1-5
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« Risposta #113 inserito:: Settembre 15, 2015, 04:31:17 pm »


La seduzione del caos globale
La "distruzione creatrice" di Silicon Valley è alimentata da tattiche di guerriglia. Nel mondo di Internet la parola "virale" è utilizzata sempre in senso positivo. Dalle teorie matematiche alla geopolitica: l'analisi del disordine nel saggio di Federico Rampini

Di FEDERICO RAMPINI
15 settembre 2015

Vista dagli Stati Uniti l'Italia fa notizia quando vi approdano ondate di disperati, costretti ad attraversare il Mediterraneo. La Germania è un colosso economico dai piedi d'argilla, non riesce a dare all'Europa un progetto nuovo, forte e convincente. Un altro paese era il simbolo del miglior modello europeo: il politologo americano Francis Fukuyama ha coniato l'espressione "diventare Danimarca", per illustrare la transizione a una liberaldemocrazia esemplare; ebbene, anche la Danimarca non è più sicura di voler essere Danimarca, a giudicare dall'ascesa di partiti xenofobi, dal diffondersi di nuove paure in un paradiso scandinavo che si sente sotto assedio.

La Nato si riarma per far fronte a Putin, ma le opinioni pubbliche europee distolgono gli sguardi dal rullare dei tamburi di guerra. Gli europei hanno altro a cui pensare: i figli senza lavoro o sottopagati; i tagli alle pensioni; i servizi pubblici in declino. Non sta molto meglio la mia America. Per essere la nazione più dinamica sotto molti aspetti - economia, demografia, energia, scienza, tecnologia - soffre di un'insicurezza sorprendente: dopo sei anni di crescita dell'occupazione, una maggioranza di americani continua pensare che "il paese è sulla strada sbagliata". Anche qui molti giovani, pur avendo sbocchi professionali migliori che in Europa, non possono aspirare al tenore di vita dei propri genitori. La prossima rivoluzione tecnologica - il balzo in avanti nella robotica e nell'intelligenza artificiale - minaccia di rendere inutili o subalterne molte professioni intellettuali. La più grave crisi economica dopo la Depressione degli anni Trenta lascia delle ferite aperte. Questa crisi è stata "sprecata", non ha portato a cambiamenti risolutivi; si parla apertamente di una stagnazione secolare. Pesa anche la perdita di una missione. L'America, anche quella parte che rimane convinta della propria "eccezionalità", non crede più che sia possibile una Pax Americana nel mondo.

Siamo le prime generazioni testimoni di un evento inaudito, la chiusura di una fase storica durata mezzo millennio, quel dominio dell'uomo bianco sul pianeta che si aprì con l'epoca delle grandi scoperte, a cui seguirono le conquiste coloniali. Il pendolo della storia torna inesorabilmente dove lo avevamo lasciato cinque secoli fa, almeno dal punto di vista delle gerarchie e dei rapporti di forze: quando era Cindia il baricentro del mondo, l'area più ricca e avanzata, oltre che la più popolosa. Ma il pendolo è lento. Siamo nella transizione, in uno di quei periodi instabili e pericolosi: dove l'ordine antico sta franando, di un ordine nuovo non c'è neppure una traccia. Il declino relativo dell'America, non è compensato dal sorgere di un avvenire radioso sotto altri egemoni. Chi di noi brama di vivere sotto una Pax Cinese o Russa? Modelli alternativi non ce n'è in circolazione; prevalgono coalizioni occasionali fra risentimenti anti-occidentali. Cinesi o russi, arabi o africani, possono elencare facilmente i lunghi torti storici che hanno subito dall'Occidente. Non hanno elaborato la visione di un altro mondo da costruire.

L'Età del Caos esplora le linee di frattura che attraversano il mondo in cui viviamo, ne traccia le frontiere più aggiornate, le forze che lo stanno plasmando. Dalla geopolitica all'economia, dall'ambiente alla crisi delle democrazie, dalla rivoluzione tecnologica al futuro di Cina e India. Conoscere il Caos, è la condizione essenziale per padroneggiarlo... o almeno galleggiare, sopravvivere, adattarsi?

C'è una seduzione del Caos. La sua attrazione fatale, malefica e demoniaca, l'avvertiamo in un sottile slittamento del linguaggio. Prendete la parola virus.

Virale è diventato un segno di successo. Se un video su YouTube attira un pubblico immenso definiamo virale la sua diffusione. Se una start-up lancia una app per cellulari che conquista gli utenti, tipo Uber o Instagram o Whatsapp, è promossa a fenomeno virale. C'è chi estende il vocabolario medico-biologico alla geopolitica e alla religione. L'avanzata dello Stato Islamico per la sua rapidità viene descritta come un "contagio". Autorevoli esperti fanno parallelismi con le epidemie. Ancora i virus.

Il Caos come principio dinamico. Da una parte ci sono delle classi dirigenti, l'establishment, i governanti, la cui formazione è radicata nel passato, incapaci di capire il futuro. Questi tendono a pensare in modo "lineare"; come se fosse possibile ripristinare qualche tipo di status quo, di stabilità. Dall'altra parte ci sono le nuove élite, i veri protagonisti del futuro: guerriglieri o imprenditori delle start-up, vedono nell'instabilità la nuova norma, pensano al Caos come a un'opportunità. La "distruzione creatrice" della Silicon Valley californiana è alimentata da tattiche di guerriglia: gli innovatori sono minuscoli, quando partono all'assalto dei poteri costituiti. In quel mondo dell'imprenditorialità più dinamica, a San Francisco, il vocabolo in voga è "disruptive". Per essere un protagonista devi essere dirompente, devastante, distruttivo.

Il Caos può diventare per noi un'opportunità? Che cosa possiamo imparare dalla mappatura del Disordine dominante? Crisi e opportunità sono una parola sola, in mandarino. Il filosofo greco Socrate, nel ritratto che ci tramanda Aristofane con la commedia Le Nuvole, considerava il Caos come una divinità.

Più vicina a noi, è la matematica post-newtoniana ad avere fatto della Teoria del Caos uno dei suoi sviluppi più importanti. La direzione imboccata dagli scienziati è assai diversa dall'accezione negativa e catastrofista del disordine, dell'anarchia e dell'assenza di regole "lineari". Chiedo aiuto al matematico Leonard Smith, docente alla London School of Economics. "Uno dei miti del caos che va denunciato -  dice -  è che esso renda inutile il tentativo di fare previsioni. Il caos riflette dei fenomeni nella matematica e nelle scienze: dei sistemi dove delle piccole differenze nel modo in cui sono le cose oggi, possono avere conseguenze enormi su come le cose saranno in futuro". Lo studio del caos si è allargato all'astronomia, alla meteorologia, alla biologia, e ovviamente all'economia. La differenza rispetto alla matematica e alla fisica di Newton? "In base alle leggi di Newton, il futuro del sistema solare è completamente determinato dal suo stato attuale... Un mondo è deterministico se la sua situazione attuale definisce compiutamente ciò che sarà il suo futuro".

Non c'è da stupirsi, se i più giovani, i più trasgressivi, i più creativi tra di noi sentono nel Caos una promessa di illimitate possibilità. Un mondo non-determinato, un mondo dove minuscoli cambiamenti oggi possono produrre grandi conseguenze domani: perché mai dovremmo vederne solo il negativo?

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15 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2015/09/15/news/l_a_seduzione_del_caos_globale-122893594/?ref=HRER2-1
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« Risposta #114 inserito:: Febbraio 04, 2016, 05:01:20 pm »

Primarie Usa, sorpresa in Iowa: Cruz batte Trump, Hillary vince di misura su Sanders
Il voto nel piccolo Stato del Midwest.
Sondaggi smentiti.
A destra il favorito Trump scivola quasi terzo, nel voto democratico un pareggio virtuale

 
Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
02 febbraio 2016

DONALD Trump si affloscia, superato da Ted Cruz. Hillary Clinton è già in difficoltà di fronte a Bernie Sanders. Le primarie dell'Iowa offrono le prime sorprese nella corsa per la nomination all'elezione presidenziale. In tutti e due i partiti, i sondaggi della vigilia vengono smentiti. Lo shock più clamoroso è a destra, dove Donald Trump veniva dato come un vincitore con ampio margine e invece rischia quasi di finire al terzo posto. Hillary Clinton che era partita all'inizio della campagna con un vantaggio che sembrava incolmabile, soffre l'umiliazione di una vittoria di misura con il 49,9% contro l'unico politico d'America che osa definirsi un "socialista", che si attesta al 49,6%. In tutti e due gli schieramenti, vincono candidati anti-establishment, in rotta di collisione con i rispettivi partiti.

Il discorso della vittoria di Ted Cruz ha offerto un riassunto di questo candidato, per molti aspetti più estremista di Donald Trump. Con continue citazioni della Bibbia, Cruz ha annunciato che la sua presidenza sarà "la vittoria dei valori giudeo-cristiani, dopo anni in cui Obama ha rovinato l'America". Ha polemizzato apertamente con i vertici del partito repubblicano. "Questa - ha detto il senatore del Texas - è una vittoria della base. L'establishment del partito aveva puntato su altri". Ha ringraziato i 12.000 volontari che hanno animato la sua campagna nell'Iowa, "e i 150 pastori". Sono due elementi chiave per spiegare la sua vittoria col 28% dei voti: Cruz ha saputo dispiegare una formidabile organizzazione sul terreno, capillare e moderna. Ha potuto contare anche sull'appoggio di buona parte degli evangelici, fondamentalisti protestanti che sono una componente decisiva dell'elettorato repubblicano soprattutto nelle aree rurali. Trump ha concesso la vittoria con fair-play: "Quando annunciai la mia candidatura il 16 giugno 2015 - ha detto il magnate immobiliare newyorchese - mi dissero che nell'Iowa non dovevo neppure presentarmi perché non sarei arrivato neanche tra i primi dieci. Sono onorato di essere arrivato secondo, congratulazioni a Ted Cruz, e ci rivediamo la settimana prossima nel New Hampshire".

Buon incassatore, tuttavia Trump col suo 24% ha pagato una campagna tutta puntata sui media nazionali, senza un vero esercito di volontari di base. Bisogna vedere quali conseguenze avrà sulla dinamica delle prossime primarie, il fatto che Trump abbia perso l'aureola dell'invincibilità che negli ultimi mesi era diventata parte del suo personaggio. L'ottimo risultato di Marco Rubio, che ha quasi eguagliato Trump al 23%, è la speranza dell'establishment. Affondato Jeb Bush, rimane Rubio come candidato relativamente moderato su cui puntare. E infatti Rubio ha fatto un discorso trionfale, da quasi-vincitore, dopo una serata che lo consacra nel trio di testa. Con ogni probabilità cominceranno a riversarsi su di lui i fondi dei ricchi finanziatori che finora sostenevano Bush.

Tra i democratici il discorso della quasi-vittoria lo ha potuto fare Sanders. "All'inizio della mia campagna - ha detto il senatore del Vermont - ero staccato di 40 punti. Ho fatto una campagna senza mezzi, senza grandi finanziatori". E' uno dei suoi cavalli di battaglia, una delle ragioni per cui affascina una parte della base democratica e tanti giovani: la sua denuncia della corruzione implicita nel sistema democratico americano, per l'affluire quasi illimitato di donazioni private ai candidati. Hillary Clinton da mesi si sta spostando più a sinistra per tenere conto dell'offensiva Sanders. Anche lei adesso propone più tasse sugli straricchi e più limiti alla speculazione di Wall Street. È riuscita a scongiurare in extremis un bis del 2008, quando proprio l'Iowa le inflisse una batosta e lanciò in orbita Barack Obama. Ma per la Clinton, che nell'Iowa disponeva di una macchina organizzativa molto più strutturata e vasta, il risultato di pareggio è già un segnale d'allarme.

© Riproduzione riservata
02 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/primarie2016/2016/02/02/news/iowa_e_gia_terremoto_cruz_batte_trump_hillary_prima_ma_in_difficolta_con_sanders-132529787/?ref=nl-Ultimo-minuto-ore-13_02-02-2016
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« Risposta #115 inserito:: Febbraio 11, 2016, 05:07:24 pm »

Primarie Usa, in New Hampshire vincono Sanders e Trump
Schiacciante il vantaggio del 74enne senatore del Vermont su Hillary Clinton.
Tra i repubblicani la novità è il secondo posto del governatore dell'Ohio Kasich.
In entrambi i campi la battaglia per la nomination si prospetta comunque complessa

Dal nostro inviato FEDERICO RAMPINI
10 febbraio 2016

MANCHESTER (New Hampshire) - Vincono i due outsider, Bernie Sanders a sinistra e Donald Trump a destra. Si rilanciano nella primaria del New Hampshire, e questo promette una battaglia lunga e complicata per la nomination, visto che né l'uno né l'altro godono dei favori dell'establishment dei rispettivi partiti.



Più netta e schiacciante è l'affermazione tra i democratici del senatore del Vermont: il 74enne Sanders riesce a infliggere a Hillary Clinton un distacco enorme, dell'ordine di venti punti. Lei incassa la sua prima disfatta, la riconosce con fair-play e dichiara: "Sono abituata a cadere, per questo capisco la sorte di tanti americani, come loro mi rialzerò". Per Sanders invece "è cominciata una rivoluzione politica, con la partecipazione di cittadini che non avevano mai fatto politica prima, il messaggio è che il governo del Paese appartiene a tutti i cittadini, non a un pugno di miliardari".

Gli risponde in diretta Trump, a pochi minuti di distanza: "Congratulazioni a Bernie. Ma lui vuole svendere la nostra America. E invece noi rifaremo l'America grande, batteremo la Cina, daremo una lezione al Messico, tutti dovranno rispettarci. Avremo frontiere forti, protette dal Muro. Rinegozierò tutti i trattati commerciali in nostro favore, basta con le concessioni ai cinesi e a tutti gli altri. Sarò il più grande presidente che Dio ha mai dato all'America". Ne approfitta per ingraziarsi la lobby delle armi e tutti quelli che respingono ogni restrizione, con un richiamo alla strage del 13 novembre a Parigi: "I francesi hanno le leggi più severe contro le armi, poi lasciano entrare quegli animali, e quelli fanno 130 morti".

A destra emerge una novità per il fronte moderato, è l'affermazione di John Kasich, governatore dell'Ohio. Piazzandosi al secondo posto, Kasich può aspirare a coagulare su di sé i voti dei repubblicani tradizionalisti, quelli che sono inorriditi dalle sparate di Trump. Marco Rubio invece viene umiliato, finisce al quinto posto, probabilmente una sanzione per la sua disastrosa performance nell'ultimo dibattito televisivo.

Ma è l'affermazione di Sanders il dato più eclatante in termini numerici, per il distacco abissale che infligge all'ex segretario di Stato. La Clinton aveva preparato il terreno per incassare bene questa batosta, visto che da qualche mese ormai i sondaggi davano Sanders favorito in questo piccolo Stato del New England vicino al suo Vermont. Ora per Hillary diventano davvero cruciali gli appuntamenti del Nevada e del South Carolina: là c'è un elettorato etnicamente più variegato, con una maggiore incidenza di ispanici e afroamericani, due gruppi con i quali la Clinton ha coltivato legami da molto tempo. E tuttavia non potrà più dare nulla per scontato. Il fascino di Sanders tra i giovani sembra ormai estendersi anche alle nuove generazioni di immigrati. La Clinton è inseguita dallo spettro del 2008, un'altra campagna che lei cominciò come favorita, "ineluttabile", con l'appoggio massiccio della macchina del suo partito, per poi vedersi sgretolare il suo bacino di consensi. Sanders ha fatto ieri sera un discorso "presidenziale", un vero programma di governo. Comincia a credere che sia possibile. Tanto che sul suo sito ora è ben visibile una precisazione: il senatore Sanders "non è un socialista, è un socialdemocratico". Non bisogna esagerare, insomma.

© Riproduzione riservata
10 febbraio 2016

Da - http://www.repubblica.it/esteri/elezioni-usa/primarie2016/2016/02/10/news/primarie_usa_new_hampshire-133084078/?ref=HREA-1
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« Risposta #116 inserito:: Febbraio 21, 2016, 11:19:22 pm »

Ma quell’accordo può segnare il destino del falso “parmeggiano” che piace agli Usa
La partnership allenterebbe le barriere protezionistiche. Gli ostacoli: le multinazionali e la debolezza di Obama.
Per l’Italia un mercato da 30 miliardi. Gentiloni ne parlerà con Kerry martedì.
I repubblicani, pur a favore del libero mercato, sono tentati dal boicottaggio

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
05 dicembre 2014

NEW YORK. Da consumatore italiano che fa la spesa nei supermercati americani, forse mi verrà risparmiata un giorno l'offesa del "Parmesan" o del "Parmeggiano" (sic)? La smetterà un allevatore dell'Iowa di rifilare agli ipermercati Whole Foods un prosciutto crudo che si pretende uguale al nostro? L'America riserva tante sorprese: tra queste c'è il protezionismo. Perciò la Transatlantic Trade and Investment Partnership (Ttip), il nuovo trattato Usa-Ue per liberalizzare gli scambi, potrebbe anche rappresentare un progresso per noi. Potrebbe -  ammesso che vada in porto, e per il verso giusto -  smantellare delle barriere occulte che gli americani usano contro il made in Italy. Non se ne accorge certo il turista italiano che passeggia sulla Quinta Avenue addobbata per il Natale: lì non mancano Armani e Prada, Dolce&Gabbana o Bottega Veneta. Il protezionismo ci colpisce altrove, con dazi, tariffe doganali, ostacoli regolamentari: dall'agroalimentare ai gioielli, dal tessile ai macchinari. "Gli americani -  mi conferma il viceministro Carlo Calenda -  non hanno mai riconosciuto i marchi locali, come la denominazione del prosciutto di Parma; per loro esistono solo marchi aziendali". Fino alla "circonvenzione d'incapace" che è l'uso del cosiddetto Italian Sounding, cioè nomi che suonano italiani, assomigliano agli originali, e traggono in inganno la massa dei consumatori meno avveduti. Ma ci sono cascato anch'io, confesso: nella fretta mi è capitato di scambiare l'infame "Parmeggiano" per il prodotto vero.

Sta succedendo qualcosa di nuovo nel maxi-negoziato Usa-Ue. Fino a pochi mesi fa erano gli Stati Uniti a premere dall'alto, e l'opinione pubblica europea a resistere dal basso. Ai summit del G7 e G20, Barack Obama ha presentato il Ttip come "una spinta alla crescita e all'occupazione, su ambedue le sponde dell'Atlantico ". In Europa si denunciavano i pericoli, soprattutto per la salute dei consumatori: il Ttip veniva visto come il cavallo di Troia delle multinazionali Usa per invadere il Vecchio continente con Ogm, manzo agli ormoni, pollo alla clorina. Altra paura: un assalto dall'America ultra-liberista contro i servizi pubblici. O contro "l'eccezione culturale" cara ai francesi. Si denunciava la segretezza delle trattative, un tema fatto proprio anche dal Nobel americano Joseph Stiglitz.


A qualcosa l'allarme è servito. L'Unione europea ha reso pubblico il "mandato negoziale", accogliendo le richieste di trasparenza. Il principio di precauzione europeo resterà in piedi contro gli Ogm. Eccezione culturale e servizi pubblici resteranno fuori dal Ttip. Resta una clausola molto controversa, l'Investor to State Dispute Settlement (Isds), che consentirebbe alle imprese private di far causa agli Stati davanti a una corte arbitrale per annullare provvedimenti considerati discriminatori. Sul New York Times un esperto latinoamericano, Manuel Perez-Rocha, spiega il pericolo di questa clausola: impugnata dalle multinazionali, può interferire con la sovranità degli Stati, soprattutto i Paesi emergenti. C'è un rovescio della medaglia, spiega Calenda: "Le imprese italiane che si sentono discriminate dal protezionismo di Stato in Cina, per esempio, da questa clausola già esistente nei trattati hanno l'unica speranza di tutela".

L'Italia è diventata una sostenitrice del Ttip, perché potrebbe aprirci nuovi sbocchi su un mercato Usa che vale già oggi 30 miliardi di euro all'anno per il made in Italy. Il ministro degli Esteri Gentiloni ne parlerà col suo omologo John Kerry a Washington martedì prossimo. Nel frattempo è qui in America che il vento gira contro il Ttip. La disfatta dei democratici alle elezioni di novembre ha peggiorato lo stallo. I repubblicani, che ora controllano l'intero Congresso, sono liberoscambisti e potrebbero votare sì al Ttip: ma sono anti-Obama in modo così viscerale che difficilmente approveranno un'iniziativa del presidente. La minoranza democratica è sensibile alle resistenze dei sindacati, che nell'altro trattato verso il
Pacifico vedono nuovi rischi per i lavoratori. E Washington si accorge che questi trattati sono a doppio taglio: il Canada sta facendo una battaglia legale contro Buy American, la clausola protezionista che ha bloccato l'accesso agli stranieri nel business delle commesse pubbliche e grandi opere.

© Riproduzione riservata
05 dicembre 2014

DA - http://www.repubblica.it/economia/2014/12/05/news/ma_quellaccordo_pu_segnare_il_destino_del_falso_parmeggiano_che_piace_agli_usa-102158372/?ref=search
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« Risposta #117 inserito:: Aprile 14, 2016, 10:55:41 am »

Zuckerberg lancia il suo manifesto politico: "Speranza, non muri"
Il fondatore di Facebook traccia il piano decennale dell'azienda, attacca Trump sui migranti e indica "la condivisione" come via da seguire

Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
14 aprile 2016

NEW YORK - Condanna nazionalismi e xenofobia, invoca la comprensione per l'altro e la solidarietà. Attacca esplicitamente Donald Trump. Non è papa Francesco, è Mark Zuckerberg che da San Francisco lancia il suo manifesto politico. Il 31enne fondatore e chief executive di Facebook ha illustrato un piano decennale per lo sviluppo strategico del social media, che è anche un condensato della filosofia e dei valori della sua azienda. Un social network da 1,6 miliardi di utenti, che a Zuckerberg "va stretto": la sua ambizione è collegare a Internet tutti i 7 miliardi di abitanti del pianeta.

Di qui discende anche una visione politico-morale: "Siamo una comunità globale unica, nell'accogliere i rifugiati che tentano di salvarsi da una guerra, o gli immigrati in cerca di opportunità; nell'unirci per combattere un'epidemia o il cambiamento climatico". Ha polemizzato contro "l'attuale tendenza di molte nazioni a ripiegarsi su se stesse". Ha accusato "le voci della paura che invitano a costruire muri e a prendere le distanze dalle persone descritte come diverse da noi".

Zuckerberg parlava a San Francisco nell'ambito della conferenza annuale F8 in cui riunisce tutti i developer che scrivono nuovi programmi di software per le app di Facebook. Ad ascoltarlo c'era una folla di 2.600 collaboratori interni o esterni, venuti dal mondo intero. Al centro del suo messaggio Zuckerberg ha messo uno slogan: "Dare a ciascuno il potere di condividere con tutti gli altri". Verbo-chiave, to share, indica la "condivisione" di messaggi, foto, esperienze e commenti che ciascuno fa con gli amici sulle proprie pagine di Facebook. Ma è anche allusione a un altro tipo di condivisione, la diffusione delle opportunità, la distribuzione delle ricchezze. Zuckerberg si appropria così di una tradizione antica, almeno per i tempi storici della giovane Silicon Valley e di tutta la West Coast americana: un luogo dove gli imprenditori hanno spesso cavalcato visioni progressiste, utopie sociali, il sogno di rifare il mondo. Da Bill Gates a Steve Jobs, da Larry Page a Elon Musk, molti pionieri dell'innovazione tecnologica hanno anche proposto un credo ideologico libertario, ambientalista, inclusivo, multietnico.

Il modello economico della Silicon Valley alla prova dei fatti resta un moltiplicatore delle diseguaglianze, ma questo non impedisce ai suoi leader di sfornare nuove utopie. Zuckerberg si candida in questo caso a rubare il ruolo a Google, che agli albori fu celebre per il motto "Don't be evil", non essere cattivo o non fare del male. "Ci vuole coraggio oggi - ha detto Zuckerberg - per scegliere la speranza al posto della paura. Se lo fate, qualcuno vi definirà ingenui ma ogni passo avanti nel progresso è stato consentito da questa speranza e da questo ottimismo". Un passaggio in perfetto stile "obamiano", anche se le relazioni fra il fondatore di Facebook e il presidente hanno conosciuto alti e bassi. Nell'attuale campagna elettorale Zuckerberg è attivo tramite un'organizzazione bipartisan, Fwd.Us (dall'abbreviazione di forward cioè "in avanti") che ha sostenuto singole campagne tematiche: per esempio la battaglia per una riforma delle leggi sull'immigrazione, allineata con le posizioni dei democratici; invece ha caldeggiato l'oleodotto XL Keystone, combattuto dagli ambientalisti e bocciato da Obama.

Alla conferenza F8 non è mancata la parte dedicata al business: Zuckerberg ha lanciato un nuovo canale di comunicazione, dei "Chat bots", messaggerie che creano un collegamento diretto tra gli utenti di Facebook e le aziende che vi fanno pubblicità.

© Riproduzione riservata
14 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/tecnologia/social-network/2016/04/14/news/mark_zuckerberg_manifesto_politico-137581464/?ref=HREC1-19
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« Risposta #118 inserito:: Aprile 16, 2016, 05:34:45 pm »

Usa, Microsoft fa causa al governo: "Gli utenti devono conoscere quando si vìola la loro privacy"
Il dossier della multinazionale denuncia la frequenza crescente con cui polizia e autorità giudiziaria esigono di mettere le mani sui "nostri" dati: email e altro.
Con in più, la richiesta-imposizione all'azienda di tenere all'oscuro il cliente


Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
14 aprile 2016
   
NEW YORK - Dopo la guerra (mai conclusa) tra Apple e Fbi, si apre quella tra Microsoft e il Dipartimento di Giustizia americano. Si allarga il fronte che oppone i colossi dell'economia digitale all'Amministrazione Obama, con al centro un tema unico: quale equilibrio trovare tra il diritto alla privacy da una parte, gli imperativi della sicurezza nazionale e della lotta al terrorismo (o al crimine) dall'altra. Microsoft è scesa in campo oggi facendo causa al Dipartimento di Giustizia. Il voluminoso dossier presentato dalla multinazionale che fu fondata da Bill Gates, denuncia la frequenza crescente con cui polizia e autorità giudiziaria esigono di mettere le mani sui "nostri" dati: email e altro. Con in più, la richiesta-imposizione alla Microsoft di tenere all'oscuro il cliente, quando i suoi dati personali sono stati violati per passarli agli inquirenti.

Il fascicolo presentato dai legali di Microsoft è ricco di numeri. Solo nell'ultimo anno e mezzo, la multinazionale che ha sede vicino a Seattle avrebbe ricevuto ben 5.624 richieste di accesso ai dati dei suoi clienti, presentate dalle autorità federali (generalmente l'Fbi che agisce come polizia giudiziaria alle dipendenze del dicastero di Giustizia). Su queste quasi la metà (2.576) erano accompagnate da un ulteriore ingiunzione del giudice: non far sapere al cliente che c'è stata la "perquisizione digitale". In molti casi (1.752) questo diktat di segretezza è a tempo indeterminato. Il cliente non deve sapere né ora né mai che la Microsoft ha collaborato con gli inquirenti dando accesso alle sue email o altre informazioni.

L'argomentazione dei legali di Microsoft, che prende di mira proprio quest'ultimo aspetto, fa leva sulla differenza rispetto alle normali indagini di polizia nel mondo "fisico": se gli inquirenti fanno irruzione a casa tua con un mandato di perquisizione, almeno ti accorgi che la porta è stata aperta e i cassetti della tua camera sono sottosopra. Nella causa contro il governo avviata oggi da Microsoft l'accusa di incostituzionalità prende di mira proprio questo, il divieto di informare il cliente quando i suoi dati sono stati consegnati a polizia e magistratura.

Secondo la Microsoft questo ordine viene impartito troppo spesso, con leggerezza, a prescindere se sia davvero essenziale ai fini delle inchieste o della sicurezza nazionale. I legali dell'azienda chiamano in causa il Primo e il Quarto emendamento della Costituzione, dove si stabiliscono principi come il diritto all'informazione e il dovere di avvisare i cittadini che subiscono perquisizioni. Per il Dipartimento di Giustizia la contro-argomentazione farà leva sul pericolo che i soggetti inquisiti (per esempio presunti terroristi) cambino le loro modalità di comunicazione per mettersi al riparo.

La scesa in campo di Microsoft conferma che si sta compattando il fronte delle grandi aziende hi-tech. Il caso precedente più celebre fu la richiesta dell'Fbi rivolta ad Apple, perché violasse lo smartphone usato dai terroristi autori della strage di San Bernardino (California) a dicembre. Quella battaglia si è esaurita da quando il Dipartimento di Giustizia ha trovato altri modi
per penetrare lo smartphone, con l'aiuto di hacker. All'inizio Bill Gates prese le distanze dalla posizione di Apple, che opponeva un netto rifiuto alle richieste dell'Fbi, ora la sua Microsoft ha scelto di serrare i ranghi con gli altri big dell'industria tecnologica.
 

© Riproduzione riservata
14 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/tecnologia/sicurezza/2016/04/14/news/usa_microsoft_fa_causa_al_governo_gli_utenti_devono_conoscere_se_si_viola_la_loro_privacy_-137644659/?ref=HRER3-1
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« Risposta #119 inserito:: Aprile 16, 2016, 05:49:59 pm »

Zuckerberg lancia il suo manifesto politico: "Speranza, non muri"
Il fondatore di Facebook traccia il piano decennale dell'azienda, attacca Trump sui migranti e indica "la condivisione" come via da seguire


Dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI
14 aprile 2016

NEW YORK - Condanna nazionalismi e xenofobia, invoca la comprensione per l'altro e la solidarietà. Attacca esplicitamente Donald Trump. Non è papa Francesco, è Mark Zuckerberg che da San Francisco lancia il suo manifesto politico. Il 31enne fondatore e chief executive di Facebook ha illustrato un piano decennale per lo sviluppo strategico del social media, che è anche un condensato della filosofia e dei valori della sua azienda. Un social network da 1,6 miliardi di utenti, che a Zuckerberg "va stretto": la sua ambizione è collegare a Internet tutti i 7 miliardi di abitanti del pianeta.

Di qui discende anche una visione politico-morale: "Siamo una comunità globale unica, nell'accogliere i rifugiati che tentano di salvarsi da una guerra, o gli immigrati in cerca di opportunità; nell'unirci per combattere un'epidemia o il cambiamento climatico". Ha polemizzato contro "l'attuale tendenza di molte nazioni a ripiegarsi su se stesse". Ha accusato "le voci della paura che invitano a costruire muri e a prendere le distanze dalle persone descritte come diverse da noi".

Zuckerberg parlava a San Francisco nell'ambito della conferenza annuale F8 in cui riunisce tutti i developer che scrivono nuovi programmi di software per le app di Facebook. Ad ascoltarlo c'era una folla di 2.600 collaboratori interni o esterni, venuti dal mondo intero. Al centro del suo messaggio Zuckerberg ha messo uno slogan: "Dare a ciascuno il potere di condividere con tutti gli altri". Verbo-chiave, to share, indica la "condivisione" di messaggi, foto, esperienze e commenti che ciascuno fa con gli amici sulle proprie pagine di Facebook. Ma è anche allusione a un altro tipo di condivisione, la diffusione delle opportunità, la distribuzione delle ricchezze. Zuckerberg si appropria così di una tradizione antica, almeno per i tempi storici della giovane Silicon Valley e di tutta la West Coast americana: un luogo dove gli imprenditori hanno spesso cavalcato visioni progressiste, utopie sociali, il sogno di rifare il mondo. Da Bill Gates a Steve Jobs, da Larry Page a Elon Musk, molti pionieri dell'innovazione tecnologica hanno anche proposto un credo ideologico libertario, ambientalista, inclusivo, multietnico.

Il modello economico della Silicon Valley alla prova dei fatti resta un moltiplicatore delle diseguaglianze, ma questo non impedisce ai suoi leader di sfornare nuove utopie. Zuckerberg si candida in questo caso a rubare il ruolo a Google, che agli albori fu celebre per il motto "Don't be evil", non essere cattivo o non fare del male. "Ci vuole coraggio oggi - ha detto Zuckerberg - per scegliere la speranza al posto della paura. Se lo fate, qualcuno vi definirà ingenui ma ogni passo avanti nel progresso è stato consentito da questa speranza e da questo ottimismo". Un passaggio in perfetto stile "obamiano", anche se le relazioni fra il fondatore di Facebook e il presidente hanno conosciuto alti e bassi. Nell'attuale campagna elettorale Zuckerberg è attivo tramite un'organizzazione bipartisan, Fwd.Us (dall'abbreviazione di forward cioè "in avanti") che ha sostenuto singole campagne tematiche: per esempio la battaglia per una riforma delle leggi sull'immigrazione, allineata con le posizioni dei democratici; invece ha caldeggiato l'oleodotto XL Keystone, combattuto dagli ambientalisti e bocciato da Obama.

Alla conferenza F8 non è mancata la parte dedicata al business: Zuckerberg ha lanciato un nuovo canale di comunicazione, dei "Chat bots", messaggerie che creano un collegamento diretto tra gli utenti di Facebook e le aziende che vi fanno pubblicità.

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14 aprile 2016

Da - http://www.repubblica.it/tecnologia/social-network/2016/04/14/news/mark_zuckerberg_manifesto_politico-137581464/?ref=HREC1-19
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