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Autore Discussione: FEDERICO RAMPINI.  (Letto 107271 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Giugno 25, 2010, 11:24:45 am »

LA CRISI

Arriva il G20 ma è un dialogo tra sordi

Torna la paura della bancarotta greca

Gelo tra Usa ed Europa. Giù le Borse anche per i debiti di Madrid e Lisbona.

Mentre gli americani criticano la Merkel per la politica restrittiva

dal nostro corrispondente
FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - "Ora che hai cominciato a usare Twitter possiamo finalmente sbarazzarci del telefono rosso d'emergenza tra la Casa Bianca e il Cremlino". Barack Obama apre così la conferenza stampa congiunta con il suo omologo russo Dmitry Medvedev. Reduce, quest'ultimo, da una visita nella Silicon Valley californiana a caccia di investimenti nelle tecnologie avanzate. E' singolare che il presidente americano riservi alla Russia il solo incontro bilaterale che precede la partenza per il G20 per Toronto. Altra anomalìa: l'unico vero regalo a Obama, in una settimana per lui catastrofica (tra Bp e generali indisciplinati), glielo ha offerto il leader cinese Hu Jintao avviando un rafforzamento della sua moneta. E i vecchi amici europei dove sono finiti?

"Qualsiasi parvenza di unità del G20 è già un ricordo". Il bilancio impietoso, alla vigilia del summit mondiale, lo traccia uno sherpa che di vertici ne ha preparati molti, l'americano Dan Price. "Nessun altro G20 - aggiunge Price - è stato preceduto da così tante lettere in cui i leader si accusano reciprocamente e puntano il dito contro gli errori altrui". Prima ancora di cominciare, il G20 è già finito? Questa formula che ha sostituito il G8 non è più efficiente del predecessore. Le geometrie del potere planetario cambiano troppo velocemente, nessun "guscio" di global governance è riuscito finora ad esprimerle. Sulla crescita economica, le regole della finanza, l'ambiente, l'energia, la lotta alla proliferazione nucleare e al terrorismo, c'è una geometria variabile di "cerchi". Le potenze che contano, quelle che sono presenti in tutti i cerchi, non sono le stesse del passato. Venti membri sono troppi, soprattutto se gli europei non parlano con una voce sola.

C'è anche una ragione positiva per cui il summit di questo weekend è stato svuotato in anticipo di aspettative. E' la decisione della Cina di avviare un graduale rafforzamento della moneta, il renminbi o yuan. Pechino ha accolto una richiesta americana e ha tolto dall'agenda di Toronto una potenziale controversia. La Repubblica Popolare, guidata da un governo che continua a definirsi comunista, sta dimostrandosi un partner giudizioso per Obama. Per quanto graduale, l'apprezzamento del renminbi va nella direzione desiderata: aumenta il potere d'acquisto cinese e in prospettiva la domanda di prodotti e servizi occidentali. Il gesto di Hu Jintao fa sentire gli americani ancora più distanti dall'Europa. Con il vecchio partner atlantico le incomprensioni sono superiori a quelle che dividono Washington da Pechino? Sembra incredibile ma sul terreno economico è vero. Alla vigilia del G20 la "guastafeste" per eccellenza è Angela Merkel. Alla Germania, Obama rivolge una richiesta analoga a quella che ha fatto ai cinesi. E' una richiesta coerente con le analisi del Fondo monetario internazionale. I macro-squilibri dell'economia mondiale possono riassumersi così: ci sono paesi che hanno vissuto al di sopra dei loro mezzi, creando debiti insostenibili e bolle finanziarie. L'America è il primo fra questi. Ora gli americani hanno iniziato a sanare lo squilibrio: la propensione al risparmio delle famiglie è in netto aumento. Ma perché questo non si traduca in un effetto depressivo, altri paesi devono fare la loro parte.

Le nazioni che hanno vissuto "al di sotto" dei loro mezzi, esportando e risparmiando troppo, devono aumentare i consumi. Si tratta per l'appunto di Cina e Germania. E' impossibile aggiustare gli squilibri di una parte del mondo se l'altra metà non fa altrettanto in senso inverso. E' assurdo che tutti i paesi simultaneamente vogliano uscire dalla crisi aumentando il loro attivo commerciale, a meno di riuscire a esportare su Marte. Ma la Merkel, facendosi interprete di un sentimento diffuso nell'opinione pubblica tedesca, vede l'economia sotto una prospettiva "etica", con i debiti identificati al "vizio" e il risparmio come la virtù assoluta. Lo ha ribadito in un'intervista al Wall Street Journal dove respinge al mittente le richieste di Obama, quasi fossero un'eresìa. "Non è interesse di nessuno - ha detto la Merkel - ridurre la competitività tedesca". Secca la replica della Casa Bianca: "E' nell'interesse della crescita europea e mondiale, che i paesi in attivo aumentino la loro domanda interna". Berlino e Parigi vogliono la Tobin Tax sulle transazioni finanziarie, Washington no. Altro che la Bretton Woods 2 per rifondare le regole dei mercati, di cui si favoleggiava ai G20 precedenti. Oggi si assiste a un dialogo tra sordi tra le due sponde dell'Atlantico. L'incomprensione s'inserisce in un contesto ancora preoccupante. A poche ore dal summit, l'economia globale manda nuovi segnali di pericolo. I mercati tornano a temere una bancarotta della Grecia (dove la Borsa ha chiuso a meno 4,1%), e il costo dei credit default swaps (contratti assicurativi contro l'insolvenza) schizza al rialzo.

Preoccupa anche la nuova impennata dei debiti in Spagna e Portogallo. Le Borse europee, ieri fortemente in ribasso, penalizzano i titoli bancari perché gli istituti di credito sarebbero i primi ad affondare se qualche Stato diventasse insolvente. In America le vendite di case negli Usa sono crollate del 33% non appena è scaduto il generoso incentivo fiscale: è una conferma di quanto la ripresa sia ancora dipendente dal sostegno pubblico. Sintomatico è il commento dell'ufficio studi Deutsche Bank: "Così come il mercato immobiliare americano è appeso al sostegno statale, il sistema bancario europeo dipende dagli aiuti della Bce. E' ancora capitalismo questo?" La domanda accresce il senso d'inadeguatezza del G20. Insieme con la frustrazione di Washington verso l'Europa, si rafforza il peso di modelli alternativi. Il capitalismo di Stato cinese, con una forte capacità di dirigismo pianificatore, ha retto meglio alla crisi. Pechino diventa il perno di nuove alleanze che bypassano le geometrie dei vari G8 e G20. La Cina ha superato gli Usa come principale partner del Brasile. Quest'ultimo, a sua volta, si afferma come una vera potenza con una politica estera autonoma: sul dossier nucleare iraniano le iniziative del Brasile hanno spiazzato Washington. Su ambiente, energia, terrorismo, interlocutori come Russia, India, Arabia saudita, pesano più di Italia e Francia. Nei cerchi che illustrano le nuove gerarchie post-G20, l'America vede sempre meno Europa.

(25 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/06/25/news/arriva_il_g20_ma_un_dialogo_tra_sordi_torna_la_paura_della_bancarotta_greca-5140917/?ref=HREC1-4
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« Risposta #46 inserito:: Luglio 01, 2010, 12:02:44 pm »

Le porte aperte degli Usa

100 milioni di nuovi americani

Gli immigrati sono all'origine del boom demografico e creativo degli Stati Uniti.

Ma per molti, specie nel Sud, sono ancora una "minaccia".

Finora Obama è stato a guardare. Ma oggi annuncia la svolta

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Nel preparare il discorso alla nazione che farà oggi, affrontando il tema esplosivo dell'immigrazione, Barack Obama si è studiato più volte queste cifre. Le proiezioni dello U. S. Census Bureau possono dare le vertigini. Secondo i demografi del censimento federale entro quarant'anni la popolazione degli Stati Uniti sarà aumentata fino a situarsi tra 422 e 458 milioni, dai 300 di oggi. Le stime più prudenti, dell'Onu, indicano 404 milioni nel 2050. Anche nell'ipotesi minima, cento milioni di persone in più. Un aumento di un terzo rispetto all'America di oggi.

In proporzione, bisogna immaginare l'Italia cresciuta di 18 milioni in poco più di una generazione. E quasi tutto dovuto all'ingresso di stranieri, più il tasso di natalità elevato delle minoranze etniche già residenti. Si capisce che anche in America il "partito della paura" sia diventato un problema serio per il presidente, con i referendum anti-immigrati dall'Arizona al Nebraska. Ma dalla settimana scorsa quello schieramento non è più il solo in campo. "Agli immigranti del mondo intero che hanno spirito d'iniziativa, noi dobbiamo dire: venite in America, vi accoglieremo a braccia aperte". Sono le parole di Michael Bloomberg, il sindaco di New York che il 24 giugno ha lanciato la sua iniziativa pro-immigrati: Partnership for a New American Economy.

È una vasta alleanza in cui spiccano due componenti. Da una parte ci sono i sindaci delle metropoli multietniche,
da Los Angeles a Philadelphia, da San Antonio a Phoenix, uniti a prescindere dal colore politico (lo stesso Bloomberg è un ex repubblicano, oggi indipendente di centro). L'altra colonna portante sono imprenditori alla guida dell'industria americana, da Boeing a Disney a Hewlett-Packard. "Chiudere le porte agli immigrati sarebbe il suicidio di questa nazione", avverte Bloomberg. Propone una corsìa preferenziale per dare subito la Green Card (permesso di soggiorno a tempo illimitato) a chiunque crei lavoro per dieci persone. "Più immigrati uguale più benessere", è lo slogan del sindaco. Il suo alleato più prezioso è Rupert Murdoch. In quanto padrone della tv Fox News, il magnate di origine australiana (e lui stesso naturalizzato americano) crea una contraddizione in seno alla destra. Fox News è la tv più schierata contro Obama. Ma sull'immigrazione gli ordini di scuderia sono precisi: non si cavalcano campagne xenofobe.

Per Obama la scesa in campo del duo Bloomberg-Murdoch, con l'alleanza trasversale sindaci-industria, ha aperto un nuovo spazio di manovra. Col discorso di oggi il presidente può avventurarsi sul terreno che è stato definito "il terzo binario della politica americana": l'allusione è al binario del metrò dove passa la corrente ad alta tensione.

Luis Gutierrez, deputato democratico dell'Illinois, è uno dei 22 parlamentari latinos, membri dell'associazione Congressional Hispanic Caucus. Obama li ha riuniti martedì, in preparazione della sua uscita pubblica. È una base elettorale preziosa. Nel 2008 alle elezioni presidenziali i due terzi degli ispanici votarono per lui. "Il presidente - dice Gutierrez - spiegherà all'America perché è importante una grande riforma. La priorità è trovare una via equa, trasparente e garantista, per legalizzare 11 milioni di clandestini". In preparazione del discorso di oggi, un segnale lo ha mandato John Morton, l'uomo di Obama che dirige l'Immigration & Custom Enforcement. "Stop alle espulsioni di mogli e bambini che non hanno i documenti in regola - dice Morton - le deportazioni devono concentrarsi sugli elementi sospetti di terrorismo, o sui membri di gang criminali". Al tempo stesso il presidente ha fatto un gesto verso gli Stati di frontiera più preoccupati per l'escalation di violenza che accade a Sud di Tijuana o del Rio Grande, dove infuria la guerra dei narcos messicani. "Mille poliziotti in più alle Border Patrol, e 1200 soldati della Guardia Nazionale lungo il confine", annuncia Janet Napolitano che dirige la Homeland Security, il superministero degli Interni.

Obama non può abbandonare questo tema alle iniziative dei singoli governatori, ai referendum locali. "È impensabile - dice il suo portavoce Robert Gibbs - che ogni Stato Usa faccia una riforma diversa sull'immigrazione". Con il rischio che prevalgano le frange più fanatiche, e provvedimenti spesso puramente simbolici, inapplicabili. Come la legge varata a furor di popolo nella cittadina di Fremont, nel Nebraska: vieta di affittare ai clandestini e scarica sui padroni di case l'onere di controllare i documenti. Un'operazione che spesso neppure la polizia è in grado di fare, per il dilagare di sofisticati falsari della Social Security (il codice fiscale).

Anche la legge anti-clandestini passata per referendum in Arizona rischia di trasformarsi in un boomerang. Si vedrà se i nuovi controlli della polizia locale saranno efficaci. Per ora l'effetto immediato è la campagna di boicottaggio degli Stati vicini contro il turismo in Arizona. E all'interno dei partiti? Di certo il Tea Party e le frange estreme della destra populista hanno dimostrato di poter intimidire i repubblicani moderati in bilico per la rielezione a novembre. L'ex candidato presidenziale John McCain ancora pochi anni fa sull'immigrazione aveva una posizione così aperta da firmare un disegno di legge insieme a un progressista come Ted Kennedy. Adesso, col suo seggio senatoriale a rischio in Arizona, McCain si arrocca in difesa: "Primo, sigillare questa frontiera".

Altrove in America il pericolo-criminalità non pesa molto nel dibattito sull'immigrazione. I dati sulla delinquenza sono in calo, per la prima volta in una recessione. Conta di più il fatto che la crisi lascia in eredità 15 milioni di disoccupati: per loro, gli stranieri sono concorrenti su un mercato del lavoro ancora depresso. Ma nel lungo periodo per la destra è rischioso pescar voti cavalcando queste paure. Il Tea Party è già percepito come un "club bianco". Se i repubblicani s'identificano per il colore della pelle sono condannati a diventare minoranza.

Perfino dopo la più grave crisi economica dalla Grande Depressione, in America sull'immigrazione c'è una vena di ottimismo inesauribile. L'interpreta il celebre demografo-economista-urbanista Joel Kotkin, che ha appena pubblicato il saggio The Next Hundred Million (I prossimi cento milioni). Per lui la formidabile crescita demografica resta la causa principale di vitalità dell'America. Non è solo questione di numeri ma di freschezza, rinnovamento, dinamismo. "Sulle cento maggiori imprese americane - dice Kotkin - quindici sono state fondate e guidate da stranieri". Google, Facebook, Yahoo, non esisterebbero se gli Stati Uniti avessero chiuso le frontiere. "Entro la metà del secolo - prosegue Kotkin - questo paese avrà 350 milioni di persone sotto i 65 anni. L'Europa al confronto sarà un continente-ospizio, con un terzo della popolazione ultrasessantacinquenne". La demografia non ha smesso di avere un ruolo nel confronto geo-strategico tra superpotenze. "Non a caso Putin lamenta il rischio di una decadenza della Russia: nel 2050 avrà perso il 30% dei suoi abitanti e sarà ridotta a un terzo degli Stati Uniti". L'altra grande rivale, la Cina, è soggetta a un rapido invecchiamento che metterà a dura prova la tenuta sociale, per la mancanza di Welfare State.

Contro questo vate dell'abbondanza umana, però, oltre alla destra xenofoba si levano voci da sinistra. Kotkin ha nemici tra gli ambientalisti radicali, che predicano la crescita zero anche nelle nascite. Peter Kareivan, scienziato del Nature Conservancy, dice che "non fare figli è l'atto più eroico per combattere le emissioni di CO2". La femminista-verde Colleen Heenan condanna le famiglie numerose come "irresponsabili per il loro contributo alla distruzione delle risorse naturali". Obama deve tener conto che anche a sinistra non tutti identificano l'immigrazione con una manna dal cielo.

Per Kotkin queste critiche sono assurde, oltre che profondamente estranee alla natura dell'America. "Lo spazio qui non manca affatto. Abbiamo più immigrati di Germania, Francia, Inghilterra, Canada e Giappone messi insieme, eppure la densità della popolazione Usa è un sesto di quella tedesca. E anche per salvare il pianeta occorrono idee nuove, quindi giovani. In quanto alla qualità della vita sarà assai peggiore in quei paesi dove mancano nuove generazioni per sostenere la popolazione anziana. E poi le frontiere aperte sono un ingrediente indispensabile della società aperta. L'America non sarà più egemonica come in passato, ma grazie alla mescolanza multietnica conserverà una marcia in più, dalla tecnologia alla creatività culturale. L'atteggiamento verso gli immigrati ci identifica come una terra di diritti, libertà personali, tutele costituzionali, valori universali".

(01 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/07/01/news/le_porte_aperte_degli_usa_100_milioni_di_nuovi_americani-5294675/?ref=HRER2-1
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« Risposta #47 inserito:: Luglio 16, 2010, 07:38:59 am »


15
lug
2010


Obama ce la fa, passa la riforma bancaria

Federico Rampini

PaulvolckerPassa definitivamente al Congresso la grande riforma delle regole della finanza. Obama vince la sua scommessa: aveva promesso agli elettori che avrebbe firmato questa legge prima delle vacanze estive.

Per il lettore italiano può sembrare un notizia già vecchia, perché della riforma si è parlato molto nei vari passaggi dell’iter legislativo. Però bisogna ricordare che in fatto di rapidità gli Stati Uniti hanno battuto tutti. Nessun paese europeo ha ancora varato una riforma così onnicomprensiva. Anche se le patologìe che vuole curare la riforma americane si sono manifestate con la stessa pericolosità in Europa.

I capisaldi di questa riforma sono: 1) il governo avrà nuovi poteri per avvistare “pericoli sistemici” in capo a colossi bancari, e smembrarli d’autorità; 2) nasce una nuova agenzia federale per la tutela del piccolo consumatore e utente di servizi finanziari; 3) vengono introdotte restrizioni severe alle attività speculative delle banche come gli investimenti in hedge fund e titoli derivati.

Nessuno pensa che sia una riforma perfetta. Per strada si sono persi alcuni “pezzi”, sotto l’incessante pressione delle lobby di Wall Street. L’ex presidente della Federal Reserve e oggi consigliere di Obama, Paul Volcker (nella foto), avrebbe voluto un divieto totale delle attività speculative da parte delle banche. Ma è comunque il più grande cambiamento delle regole dai tempi della Depressione degli anni Trenta.

Molto ora dipenderà dai regolamenti attuativi, che saranno varati da varie authority del settore: la Federal Reserve, e la nuova agenzia per la tutela del consumatore. Quindi saranno cruciali anche le nomine che Obama farà in quegli organismi.

Scritto giovedì, 15 luglio 2010 alle 18:31 nella categoria consumatori, finanza.


http://rampini.blogautore.repubblica.it/2010/07/15/obama-ce-lha-fatta-la-riforma-bancaria-e-legge/?ref=HREC1-1
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« Risposta #48 inserito:: Agosto 24, 2010, 11:08:42 am »

IL RACCONTO

Case invendute e prezzi a picco addio al mattone come bene rifugio

Gli Usa pagano la bolla, l'abitazione non si rivaluta più.

Una frattura epocale: l'immobile non può più tramandare la ricchezza tra le generazioni. Bruciati 6mila miliardi


dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

NEW YORK - Bei tempi quando il mattone era una certezza: un valore sicuro, una protezione del risparmio, un patrimonio da tramandare per il benessere dei figli. Per una generazione di americani quello stereotipo va in frantumi. Come buon investimento la casa va cancellata, dimenticata per i prossimi 20 anni. Tanti ce ne vorranno, annunciano gli esperti consultati dal New York Times, solo per recuperare il valore distrutto durante l'ultimo crac del mercato immobiliare. "La proprietà di un'abitazione - è la conclusione del sondaggio - non avrà più un'utilità paragonabile a quella che ebbe negli ultimi 50 anni, quando essa fu non soltanto un alloggio ma anche una riserva di ricchezza familiare".

Tra gli esperti che emettono la dura sentenza c'è Dean Baker, direttore del Center for Economic and Policy Research. E' lui a calcolare che due decenni saranno necessari soltanto per ricostituire il valore immobiliare perso dal 2005 a oggi: sono 6.000 miliardi di dollari di ricchezza privata andati in fumo, per la caduta delle quotazioni al metro quadro già avvenuta. Senza contare che forse non abbiamo ancora visto il peggio. Oggi escono i dati sulle vendite di case nel mese di luglio e la previsione è di un ulteriore calo del 20% rispetto a un anno fa. La quantità di abitazioni che sono disponibili sul mercato e attualmente in vendita è il doppio di quello che sarebbe stata in periodi normali (pre-crisi).

Una simile massa di case invendute è un potente fattore che spinge verso ulteriori ribassi dei prezzi. E sì che il valore medio delle case ha già perso il 30% dall'inizio della recessione. Un tracollo di queste proporzioni fa prevedere una frattura secolare, rispetto al trend del dopoguerra. Tutto quello che credevamo di sapere sul mattone, forse appartiene a un'epoca storica irripetibile: quando le case si compravano non solo per abitarci ma per proteggere il patrimonio familiare contro l'inflazione, assicurare un'eredità dignitosa ai figli. O addirittura, nel caso degli anni di boom in America, il "mattone come un Bancomat": il credito facile e la deducibilità fiscale al 100% degli interessi consentivano di rifinanziarsi continuamente offrendo alle banche la casa come garanzia. Così le famiglie si pagavano anche l'università dei figli, la nuova automobile, le vacanze all'estero.

Ora perfino gli economisti che lavorano per conto di grandi gruppi immobiliari rinunciano a spargere ottimismo. Uno di questi è Stan Humphries, chief economist del sito Internet Zillow che si specializza nelle compravendite immobiliari: "Non esiste una legge economica per cui il mattone debba rivalutarsi. Durante gli anni del boom circolarono varie teorie sul fatto che il mercato immobiliare è speciale: vuoi per la scarsità di superficie edificabile, vuoi per la crescita demografica legata all'immigrazione. Nessuna di queste spiegazioni regge". Al massimo, avverte Humphries, nel lungo termine la casa può preservare il suo valore evitando che venga distrutto dall'inflazione. Ammesso che torni ad esserci un'inflazione significativa. Ma arricchirsi no, non è garantito da nessuna spiegazione razionale.

Eppure la speranza, o la voglia d'illudersi, è dura a morire. Il massimo esperto del mercato immobiliare è senza dubbio Robert Shiller, docente a Yale. Shiller fu insieme a Nouriel Roubini il più lucido profeta della grande crisi del 2008: con anni di anticipo aveva previsto in modo accurato l'esplosione dei mutui subprime. Ha anche messo a punto l'indicatore più affidabile dell'andamento dei prezzi delle case. Oggi le sue ricerche rivelano che una quota della popolazione americana continua a vivere un sogno impossibile. Da San Francisco a Boston, i neo-proprietari intervistati puntano su un incremento del 10% annuo nei prossimi dieci anni. "Credono che la rivalutazione degli immobili sia una legge della natura", osserva Shiller. Era l'illusione generalizzata nel 2005, nell'ultima fiammata di rialzo dei prezzi. Continua a esserlo oggi, anche se il mercato non ha ancora toccato il fondo.

Non è stato sempre così. Nella prima metà del Novecento, ricordano gli storici dell'economia, la casa non era considerata certo come un bene speculativo. Era un bene d'uso, serviva per risolvere il problema dell'alloggio, proprio come un'automobile serve a trasportarci ma non puntiamo ad arricchirci rivendendola dopo qualche anno. Tutto è cambiato nel dopoguerra, per la congiunzione di alcuni fattori storici irripetibili: il baby-boom delle nascite tra il 1945 e il 1965, una crescita economica formidabile, l'alta inflazione provocata dalle crisi energetiche e dalle rivendicazioni salariali degli anni Settanta, una politica fiscale particolarmente generosa verso gli acquirenti di case (negli Usa non c'è limite alla deducibilità degli interessi passivi dall'imposta sul reddito). "L'esperienza delle generazioni che comprarono case tra gli anni 70 e gli anni 90 - dichiara al New York Times l'economista Barry Ritholtz - non è la normalità, è stata un'aberrazione. Non si ripeterà più".

(24 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/08/24/news/case_usa-6467353/?ref=HREC1-2
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« Risposta #49 inserito:: Settembre 16, 2010, 10:18:19 am »

IL CASO

Usa, il trionfo del Tea Party

Cancellati i vip repubblicani

Il movimento della Palin sbanca le primarie per le elezioni di mid-term a novembre: da New York al Delaware vincono i candidati dell'ultradestra.

E il Gop rischia di perdere i moderati

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Trionfa il Tea Party, festeggiano i democratici. È il paradosso dell'ultima tornata di primarie americane, con cui i partiti hanno selezionato i candidati che si sfideranno a novembre nelle elezioni di mid-term: quando verrà rinnovata l'intera Camera, un terzo del Senato, e saranno eletti anche i governatori di Stati importanti. Due i risultati più sorprendenti, entrambi nel campo repubblicano.
Nella primaria per scegliere il candidato governatore dello Stato di New York ha perso il favoritissimo Rick Lazio, sconfitto dal neofita Carl Paladino: decisivo è stato l'appoggio del Tea Party, il movimento anti-tasse e anti-Stato, che si è riconosciuto negli slogan oltranzisti di Paladino.

Ma selezionando un personaggio così estremo e controverso, il partito repubblicano quasi certamente si è giocato le chances di conquistare New York a novembre. In quella che resta una gara tutta dominata da italo-americani, ha ben più probabilità di farcela il democratico Andrew Cuomo. Stesso copione nel Delaware. Lì si trattava di scegliere il candidato senatore, per il seggio che un tempo fu di Joe Biden, l'attuale vicepresidente. Altro colpo di scena in campo repubblicano: ha perso il notabile che aveva dietro di sé tutto l'establishment del partito, Michael Castle, spodestato da Christine O'Donnell che dalla sua aveva Sarah Palin, ex candidata alla vicepresidenza e una leader tra le più influenti nel Tea Party. Risultato: gli stessi repubblicani sono quasi certi di essersi "giocati" le chances di conquistare il seggio senatoriale del Delaware a novembre. E proprio su quel seggio potrebbe sfumare la loro speranza di fare un "en plein", portando via sia la Camera che il Senato ai democratici. Parola di Karl Rove, lo stratega elettorale che firmò le vittorie di George Bush: "Secondo me adesso quella gara è persa". Di colpo la destra comincia a interrogarsi sull'effetto-netto del Tea Party. Fortissimo nelle primarie di partito, dove va a votare una ristretta base di militanti, il Tea Party rischia di spostare talmente a destra l'asse dei repubblicani da spaventare quote di elettori moderati, gli indipendenti di centro che sono indispensabili per vincere.

Il tallone d'Achille del Tea Party non è solo nelle posizioni estreme, ma anche nel tipo di "fauna" che attira. Paladino, il magnate di Buffalo che ha sconfitto Lazio, ha scatenato polemiche per delle email razziste e con foto pornografiche trasmesse ad amici e colleghi. Ha paragonato il presidente della Camera dello Stato di New York - Sheldon Silver, ebreo - a un "Anticristo". Ha detto che se vince a novembre andrà "con la mazza da baseball" a sfasciare il governo locale. Ha proposto di mandare i poveri nelle carceri a prendere "lezioni di igiene". È un linguaggio che piace al Tea Party perché interpreta l'esasperazione di fasce di ceto medio impaurito dalla crisi economica, disgustato dagli sprechi di spesa pubblica, convinto che Barack Obama stia "socializzando l'America" e prepari stangate fiscali. "Dicono che sono un uomo arrabbiato, ed è la pura verità: siamo tutti arrabbiati", dichiara Paladino. Ma tradizionalmente a New York, uno Stato che pende a sinistra, il partito repubblicano è riuscito a vincere solo quando ha candidato dei moderati. A livello cittadino è stato il caso dei sindaci Rudolph Giuliani e Michael Bloomberg, quest'ultimo essendo poi uscito dal partito per diventare un indipendente. Secondo Bryant Cooper, esponente repubblicano di Manhattan, "scegliendo Paladino abbiamo di fatto regalato il posto di governatore a Cuomo".

Stessa musica nel Delaware. Christine O'Donnell è piaciuta al Tea Party ma sembra una candidata debole per conquistare l'elettorato moderato. Dall'interno del suo stesso partito le sono piovute addosso accuse pesanti: la O'Donnell ha truccato il proprio curriculum vitae attribuendosi titoli di studi inesistenti; è incapace di gestire le proprie finanze personali e ha sfiorato la bancarotta. Nulla di così grave da dissuadere la base del Tea Party, innamorata del suo linguaggio "popolare" e delle sue invettive anti-establishment. Ora la destra si chiede se con candidati di questo profilo potrà ancora strappare il traguardo massimo, di una sessantina di seggi alla Camera più sei o sette al Senato. O se invece rischia di doversi accontentare di una vittoria più limitata. Le sorprese sono sempre possibili, perché l'umore dell'elettorato non pende certo a sinistra. La prova: tutti i democratici che votarono contro la riforma sanitaria di Obama, hanno vinto le rispettive primarie.

(16 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/09/16/news/usa_il_trionfo_del_tea_party_cancellati_i_vip_repubblicani-7123686/?ref=HREC1-6
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« Risposta #50 inserito:: Settembre 20, 2010, 09:41:59 am »

L'INCHIESTA

L'Asia lancia la guerra delle monete parte la sfida economica all'Occidente

Vendite di yuan e yen per spingere l'export, aut aut sulla tecnologia.

Ignorate le accuse di concorrenza sleale la nciate dal ministro Usa Geithner alla Cina

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Le accuse del segretario al Tesoro americano alla Cina sono pesanti. "Mantiene la sua moneta sostanzialmente sottovalutata e dà un vantaggio sleale alle sue esportazioni; tollera il furto di tecnologie straniere; crea barriere ingiustificate contro i prodotti americani". In altri tempi una requisitoria così dura avrebbe messo in allarme la Cina e il mondo intero. Stavolta invece, da Pechino alle parole di Tim Geithner non si è degnato di rispondere neppure un sottosegretario. Il governo cinese ha affidato la replica a una funzionaria, la portavoce del ministero degli Esteri Jiang Yu: "Un eventuale rafforzamento della nostra moneta, il renminbi, comunque non risolverebbe i problemi dell'America, né il suo deficit né la sua disoccupazione". A Washington Christopher Dodd, uno dei più influenti senatori democratici, commenta sconsolato: "Ormai la Cina fa quello che vuole". E non solo la Cina.

Mercoledì scorso sui mercati mondiali è andata in scena un'inedita manovra a tenaglia contro le monete dell'Occidente. Sia la Cina che il Giappone sono intervenuti pesantemente a vendere renminbi (o yuan) e yen, per svalutare e quindi aiutare le proprie esportazioni. L'impatto degli interventi delle due banche centrali cinese e giapponese si è sentito su euro e dollaro, spinti al rialzo. E' ormai l'Asia intera che si muove per conto suo. Se non contro di noi, certo senza di noi. "Asia Alone", l'Asia da sola, è il provocatorio saggio che mette in allarme l'America.
Lo ha scritto Simon Tay, presidente del Singapore Institute of International Affairs. Tay è un esperto che per la sua formazione è piuttosto "filo-americano". Ma dall'osservatorio privilegiato di Singapore avverte i segnali di una dinamica nuova. "Si accelerano le tendenze - dice Tay - che portano l'Asia intera ad andare per la sua strada, a prescindere dagli Stati Uniti".

Quello che è accaduto la settimana scorsa, quando Pechino e Tokyo hanno spinto in modo simultaneo al ribasso le loro valute, sfidando apertamente l'ira di Washington, sarebbe stato impensabile fino a pochi anni fa. Per un singolare coincidenza, ricorre il 25esimo anniversario del celebre accordo del Plaza: una pietra miliare nella storia delle monete, un evento simbolico dell'egemonia americana al suo apice. Nel settembre del 1985 all'hotel Plaza di New York l'Amministrazione Reagan dominava a tal punto il club dei Grandi - allora era il G5 - che riuscì a costringere il Giappone ad una poderosa rivalutazione dello yen. I risultati del diktat a Tokyo furono benefici per gli Stati Uniti. Grazie al dollaro debole gli americani rilanciarono la propria crescita e riuscirono a ridurre il loro deficit pubblico. Il Giappone a quei tempi era l'unica potenza economica asiatica e non aveva altra scelta se non quella di piegarsi e collaborare. Oggi il peso dell'Asia è ben diverso. "La Cina è insensibile alle pressioni esterne - dice Jeffrey Frieden dell'università di Harvard - se un giorno deciderà di rivalutare la sua moneta lo farà solo perché le conviene, non certo per una concessione all'Occidente, neppure in nome della cooperazione".
Per capire quanto l'Asia possa ormai fare da sola, sganciandosi dai destini dell'Occidente, il Wall Street Journal rispolvera un testo sacro dell'economia monetarista. E' lo studio di Milton Friedman "A Monetary History of the United States", indispensabile per capire la Grande Depressione, e non solo quella.

Dal 1921 al 1929, quando lo strumento di pagamento mondiale era l'oro, l'America nella sua ascesa economica aumentò del 50% le sue riserve aurifere. Oggi il ruolo dell'oro è svolto dal dollaro, e il Wall Street Journal conclude: "La Cina è come l'America degli anni Venti, dunque fa parte della sua ascesa l'accumulazione di crescenti riserve di dollari. E tutta l'Asia segue il modello cinese". In effetti non è solo a Pechino che si costituiscono colossali riserve monetarie ma anche a Tokyo, Seul, Taipei. Nel 1997 le fluttuazioni selvagge dei cambi furono lo strumento di contagio dell'ultima crisi asiatica verso il resto del mondo. Oggi l'Asia ha imparato la lezione e l'applica a rovescio: accumulando attivi commerciali e riserve valutarie vuole isolarsi dal contagio delle debolezze occidentali.

Alla guerra delle valute se ne affianca un'altra, parallela. E' la guerra delle tecnologie. Nella sua triplice accusa alla Cina, il segretario al Tesoro Geithner è quasi reticente quando dice che la Repubblica Popolare "tollera il furto di tecnologie straniere". Ormai si è aperta un'altra fase: il governo cinese quel furto lo organizza, attraverso un esproprio di Stato. E' significativo quel che sta accadendo nell'industria dell'automobile. Le autorità di Pechino stanno per varare una nuova normativa che imporrà alle case automobilistiche straniere di divulgare le loro tecnologie "verdi" - motori elettrici e ibridi - se vogliono mantenere l'accesso al mercato cinese. La nuova legislazione fa parte di un piano decennale preparato dal ministero dell'Industria cinese per "conquistare la leadership mondiale" nella nuova generazione di auto a zero emissioni. Il governo potrà costringere qualsiasi produttore estero ad avere un socio locale col 51% del capitale, in modo da rendere l'industria nazionale partecipe di tutte le innovazioni tecnologiche elaborate all'estero. Dal punto di vista ambientale la notizia è positiva, conferma l'impegno della Cina per lo sviluppo della Green Economy: Pechino ha già investito 1,5 miliardi di dollari in questo settore negli ultimi cinque anni. Ma il ricatto alle case automobilistiche straniere indica anche che la Repubblica Popolare vuole emanciparsi da qualsiasi forma di dipendenza dall'Occidente. Ha gli strumenti di pressione adatti: entro il 2020 il mercato cinese delle auto raggiungerà i 40 milioni di immatricolazioni all'anno, cioè il doppio dei livelli che raggiunse l'America pre-crisi (oggi le vendite negli Usa sono scese a 12 milioni annui). Chi non si piega al diktat di cedere le sue innovazioni tecnologiche ai soci cinesi, sarà tagliato fuori dal più vasto mercato mondiale.

Questo tipo di guerra tecnologica non si limita al settore dell'auto. Lamentele analoghe sul comportamento di Pechino si sono sentite in altri settori, da parte di multinazionali americane come General Electric ma anche tedesche come Siemens e Basf. La classe dirigente cinese non si accontenta più del ruolo di "fabbrica del pianeta", progetta la trasformazione della Repubblica Popolare in un'economia hi-tech. E per strappare all'America la leadership nell'innovazione tutti i colpi sono permessi.

Vista dall'Estremo Oriente la prospettiva di "Asia Alone" è ben diversa. Il Quotidiano del Popolo, organo ufficiale del partito comunista cinese, in un editoriale annuncia "un età dell'oro per lo sviluppo asiatico". Per un occidentale questa può sembrare propaganda. Nel resto dell'Asia è semplicemente un dato di fatto. Nel secondo trimestre di quest'anno la crescita della Cina (+10,3% del Pil), ha trascinato dietro di sé India (8,8), Indonesia (6,2), Malesia (8,9), Singapore (18,8), Corea del Sud (7,2), Taiwan (12,5). Perfino la Thailandia malgrado le turbolenze politico-militari è cresciuta del 9,1. E il Giappone, unica area "depressa" che sembra avere problemi analoghi all'Occidente, con una crescita del 2,4% va molto meglio dell'Eurozona: l'unica ragione è la sua vicinanza e integrazione con l'economia cinese.

Lo scenario di un'Asia che "fa da sé", si estende in campi diversi da quello economico-monetario. Quando il premio Nobel dell'Economia Amartya Sen ha lanciato il progetto di una università pan-asiatica nella sua India (a Nalanda, nello Stato del Bihar) non immaginava il successo di quell'iniziativa: dalla Cina al Giappone, passando per Singapore, ben 16 governi asiatici hanno deciso di finanziare quel progetto. Che non a caso avrà sede nello stesso luogo dove diecimila studenti da tutto l'Oriente andavano a formarsi cinque secoli prima che nascesse l'università di Oxford in Inghilterra.

Per gli americani è difficile rassegnarsi a un futuro asio-centrico. Eppure quel futuro è ormai visibile anche nel loro "cortile di casa". La settimana scorsa la compagnia petrolifera brasiliana Petrobras ha dovuto aumentare fino a 78 miliardi di dollari la sua offerta di azioni sul mercato. E' il più grande collocamento in Borsa del mondo. La ragione di tanto successo: l'interesse dei fondi sovrani asiatici per le risorse energetiche del Brasile. Quest'anno la Cina è già diventata il più grosso investitore estero nell'economia brasiliana. Quel subcontinente latinoamericano che un tempo era saldamente nella sfera d'influenza degli Stati Uniti, ha già capito da che parte tira il vento. La crisi del 2008-2009, poiché ha arrestato l'Occidente mentre l'Asia ne usciva immune, ha dato un colpo d'acceleratore ai processi che erano già in atto. E' quello che Simon Tay da Singapore definisce "the Post-Crisis Divide", una faglia che si è allargata rapidamente dopo la crisi.

(20 settembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #51 inserito:: Ottobre 01, 2010, 09:52:54 am »

IL CASO

Ecco il nuovo mappamondo le alleanze ridisegnano la geografia

L'idea di uno studioso che riscrive i confini attraverso gli interessi comuni e i legami "tribali".

Niente più Eurozona e Medioriente. E l'Italia fa parte delle "Repubbliche dell'Olivo"

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Addio illusioni di appartenere all'Eurozona, o a qualcosa di ancora più vasto come l'Occidente. Più modestamente l'Italia deve rassegnarsi a far parte delle Repubbliche dell'Olivo, per affinità storico-culturali con Grecia e Bulgaria, Macedonia e Portogallo. Mentre la Germania guida una nuova Lega anseatica che si spinge fino al Baltico. Per l'America sette anni di guerra in Iraq non sono bastati a impedire che questo paese finisca risucchiato nell'Iranistan, com'era suo destino, insieme a Libano Siria e striscia di Gaza. I Nuovi Ottomani dilagano da Istanbul fino a riprendersi l'Uzbekistan e il Turkmenistan. È questa la mappa del mondo reale, non quello immaginario costruito attraverso guerre e trattati, diplomazie e accordi tra governi. Lo colora a tinte forti un'autorità della materia. Joel Kotkin è il più celebre geografo-economista-demografo degli Stati Uniti. Ha pubblicato opere di riferimento sul ruolo delle metropoli nell'era post-moderna, e sull'impatto dell'immigrazione nel futuro dell'America. Oggi è Distinguished Presidential Fellow alla Chapman University in California.

Originale, visionario, oggi Kotkin lancia molto più di una provocazione. La sua nuova mappa del mondo assomiglia alla rivoluzione del cinema 3-D. I rapporti tra le nazioni acquistano una rilievo tridimensionale, si ricongiungono con il Dna dei loro popoli. Per disegnarla Kotkin ha messo al lavoro il Legatum Institute di Londra. Con risultati sconcertanti e controversi. È ora di liberarci delle visioni convenzionali, quelle secondo cui i confini sono decisi solo dalla politica. "Nel mondo intero  -  sostiene Kotkin in un saggio su Newsweek  -  una rinascita di legami tribali sta creando nuove reti di alleanze globali, più complesse. Se una volta la diplomazia aveva l'ultima parola nel tracciare le frontiere, oggi sono la storia, la razza, la religione e la cultura a dividere l'umanità in nuovi gruppi in movimento". C'entra qualcosa il declino delle ideologie, che avevano funzionato da collante transnazionale.

 Ambientalisti, progressisti, liberisti: questi sono valori che possono animare le élite, ma per i popoli il concetto di "tribù" è decisamente più potente. Lo sosteneva il grande storico arabo Ibn Khaldun: "Nel deserto sopravvivono solo le tribù, tenute insieme da un forte senso di appartenenza". Storia antica, e sorprendentemente moderna. Torna di attualità adesso che il pianeta cerca un'identità dopo il secolo delle grandi ideologie, dei totalitarismi. Non appena finita la guerra fredda hanno iniziato a disgregarsi i blocchi tradizionali: non solo quello sovietico ma anche quello occidentale, e perfino l'idea di Terzo mondo che era nata per definire il movimento dei "non allineati".

Gli economisti della Goldman Sachs oltre dieci anni fa coniarono con successo l'abbreviazione Bric, per designare le quattro potenze emergenti Brasile Russia India Cina. Ma è ovvio che quei quattro giganti hanno pochi valori in comune. Metterli nello stesso paniere è un'operazione astratta, da speculatori di Borsa, non descrive le dinamiche geopolitiche in azione. I veri confini del nuovo mondo sono altri. Tra le tendenze trainanti c'è la rinascita delle città-Stato: non solo Singapore che è davvero un'entità politica autonoma, ma anche Londra e Parigi sono "metropoli globali", i cui interessi si separano da quelli delle loro provincie. Il Nordamerica è molto più di un'espressione geografica: tra Stati Uniti e Canada non c'è soluzione di continuità nei sistemi economici, nella cultura. E poi ecco un altro fattore in comune tra Usa e Canada: è l'immensa riserva di terre arabili e di acqua, quattro volte più risorse idriche di Europa e Asia, un punto di forza nelle "guerre alimentari" del futuro. La Cina da parte sua ha già di fatto ricostituito la Terra di Mezzo come ai tempi dell'Impero celeste: Taiwan è sempre meno un'isola ribelle, viene attirata nell'orbita economica della madrepatria. La Terra di Mezzo cinese rappresenta "il più vasto insieme mondiale popolato da un ceppo etnico omogeneo, gli Han".

Questo dà alla Cina e ai suoi satelliti "una straordinaria coesione" ma ne fa anche un mercato di difficile penetrazione per gli stranieri. La Grande India sta risucchiando nel suo dinamismo economico il Bangladesh e così chiude un pezzo della lacerazione post-coloniale del 1947. La Cintura del Caucciù tiene insieme nazioni del sudest asiatico che hanno ricche dotazioni di risorse naturali: dalla penisola indocinese a Indonesia, Malesia e Filippine. The Wild East, l'Oriente selvaggio che include Afganistan, Pakistan e le vicine repubbliche ex-sovietiche, "resta una posta in palio nello scontro di potere tra Cina, India, Nordamerica". La Grande Arabia spazia dal Golfo Persico fino a includere Egitto e Giordania: un'area resa compatta dal collante religioso ma per la stessa ragione "destinata a un rapporto problematico con il resto del mondo". L'Arco del Maghreb corre dall'Algeria alla Libia lungo le coste atlantico-mediterranee.

L'impero sudafricano unisce paesi che hanno simili storie coloniali, dotazioni di infrastrutture migliori rispetto al resto dell'area subsahariana, e la prevalenza della religione cristiana.
Anche in America latina è possibile trovare delle faglie negli orientamenti culturali che dividono due grandi famiglie. Da una parte ci sono i Liberalisti, campioni di una versione locale dell'economia di mercato e del pluralismo: dal Messico al Cile.

Dall'altra le Repubbliche di Bolivar, dove i populismi in versione marxista o peronista hanno messo radici profonde: Cuba e Bolivia, Argentina e Venezuela. In mezzo a queste grandi famiglie spiccano anche gli isolati. Sono quelle nazioni che per un forte senso d'identità non possono "sciogliersi" in un'appartenenza più vasta: a titoli diversi questo è il destino del Brasile in Sudamerica, della Francia in Europa, del Giappone in Asia. Ci sono gruppi in bilico: per esempio le due Lucky Countries, nazioni fortunate, Australia e Nuova Zelanda, che hanno un Dna etnico-culturale anglosassone ma sentono l'attrazione economica dell'Asia con cui le loro economie sono complementari. L'Unione europea, vivisezionata da Kotkin e dagli esperti del Legatum Institute, ne esce letteralmente a pezzi. La Lega anseatica germanico-nordica ritrova "quel comune destino creato dal commercio" che lo storico Fernand Braudel le attribuì datandolo al XIII secolo; oggi rinasce in una proiezione globale, perché sono quelli i paesi che si sono meglio inseriti nei mercati asiatici. Le Aree di Confine sono Belgio e Repubblica Ceca, Irlanda e Paesi baltici, Polonia e Romania, più il Regno Unito senza Londra: sono paesi intrinsecamente instabili, in bilico tra zone d'influenza rivali, esposti talvolta alla disunione. In quanto alle nostre Repubbliche dell'Olivo, hanno nobili radici in comune nell'antichità greco-romana. "Ma sono nettamente distanziate dall'Europa settentrionale in ogni categoria: i tassi di povertà sono due volte più alti, la popolazione attiva dal 10% al 20% inferiore, i debiti pubblici più elevati, e i tassi di natalità più bassi del pianeta". Per quanto l'Italia possa progettare barriere per fermare i flussi migratori dalle nazioni "affini", vista da un geografo americano la sua collocazione è chiara. Non c'è verso che l'Italia possa integrarsi con una Lega anseatica proiettata a distanze stratosferiche: non solo nell'Indice di Prosperità, ma anche su altri terreni perfino più importanti per il futuro. "Istruzione e innovazione tecnologica" nell'Europa tedesco-scandinava hanno raggiunto "punte avanzate impressionanti". È un altro pianeta, i cui ambasciatori occasionalmente s'incontrano a Bruxelles. Che forse non sarà più a lungo la capitale del Belgio.

(01 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #52 inserito:: Ottobre 29, 2010, 11:37:46 am »

ELEZIONI DI MID-TERM

Obama s'immola al re della satira per riconquistare il voto dei giovani

Il presidente è il primo a partecipare al popolare Daily Show di Jon Stewart.

Che lo incalza con domande e battute fulminanti.

E sabato ha dato appuntamento ai suoi fan per la manifestazione "restauriamo la salute mentale dell'America"


dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - "Yes we can, but...". È uno degli slogan più celebri nella storia della politica americana quello che trascinò Obama alla vittoria nel 2008. Ecco che con l'aggiunta di quel "ma..." si tinge improvvisamente di scetticismo e autocritica. È Obama in persona che fa il controcanto a se stesso, sul palcoscenico del più celebre talkshow di satira politica. Ha di fronte Jon Stewart, della scuderia di Comedy Central, al Daily Show. Obama scende nell'arena per un esercizio ad alto rischio: fare dell'autoironia per riconquistare il voto dei giovani (l'audience dominante del Daily Show), senza regalare punti ai repubblicani a cinque giorni dalle legislative.

"Per farmi eleggere nel 2008 - dice il presidente, per la prima volta sul set di Comedy Central da quando è stato eletto - vi ho promesso un cambiamento in cui potete credere. Non ho promesso il cambiamento in 18 mesi". Dà lezione di realismo, ricorda che "questa Amministrazione ha ereditato la crisi più grave dopo la Grande Depressione". Il pubblico gli è amico, lo dimostra l'applauso interminabile che accoglie il suo ingresso. Ma Stewart non gli fa sconti, lo incalza interpretando una diffusa delusione: "La vostra agenda di riforme è stata timida". Quando Obama ribatte "abbiamo fatto più di quello che credete" il conduttore lo infilza implacabile: "Davvero? Allora lei sta per organizzare una festa a sorpresa, offrendo posti di lavoro in abbondanza?".

Obama ha rischiato e forse non ha raccolto molto, accettando l'invito del temibile Stewart. Non aveva altra scelta. L'ultimo sondaggio di New York Times e Cbs, a ridosso delle elezioni di mid-term, preannuncia per il suo partito una sconfitta di proporzioni notevoli. Donne, cattolici, elettori indipendenti, ceti medio-bassi: intere fasce di elettorato che diedero un appoggio decisivo a Obama nel 2008 oggi voltano le spalle ai democratici. È un duro colpo alle speranze del partito di contenere le perdite martedì. Lo spostamento di consensi è pesante: per esempio è la prima volta che le donne sono a maggioranza intenzionate a votare repubblicano, da quando viene fatta questa rilevazione (1982). Su tutto domina la situazione economica. L'alta disoccupazione è ormai imputata in parte alla stessa politica economica di Obama. La destra è premiata perché viene considerata più capace di ridurre il deficit. Andando al Daily Show il presidente fa un ultimo tentativo di rimobilitare i giovani, altra constituency che per lui fu decisiva nel 2008. Il rischio non è tanto che i "suoi" ventenni passino ai repubblicani, ma che restino a casa. Le elezioni legislative hanno tradizionalmente una partecipazione più bassa delle presidenziali. Stavolta l'assenteismo dalle urne rischia di colpire in modo prevalente la sinistra.

Per le nuove generazioni l'incontro Stewart-Obama è un happening eccitante: il conduttore che scortica vivi i politici, finalmente a tu per tu col presidente che ha fatto sognare chi si affacciava per la prima volta all'età del voto. "È la nascita di Stewart come leader politico?", si chiede il Washington Post. Il sospetto è legittimo. Per domani il conduttore ha convocato a Washington la manifestazione dallo slogan "Restauriamo la Salute Mentale dell'America" (con la contro-manifestazione del suo alter ego e finto rivale Stephen Colbert che invece vuole "Promuovere la Paura"). È solo satira politica portata al livello più sublime? È uno sberleffo geniale contro questa campagna elettorale dominata da faziosità, estremismi, demagogia urlata e viscerale come quella del Tea Party? Forse sì, ma perfino lo smaliziato blog Politico. com non esclude che Stewart possa diventare "il Glenn Beck della sinistra": un'allusione all'anchorman di Fox che arringò le folle del Tea Party a Washington ad agosto. È significativo che sia Stewart, con la sua popolarità tra i giovani, a cercare di "abbassare i toni, riportare il confronto su un terreno civile, con argomenti ragionevoli". Mentre nella destra movimentista domina un ceto medio dai capelli grigi, mai sazio di slogan incendiari e bellicosi. I giovani che finiscono l'università sanno che li aspetta un mercato del lavoro con punte del 15% di disoccupati per la loro generazione: forse questo li rende più realisti. Ma non è detto che li spinga a votare martedì.

(29 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #53 inserito:: Ottobre 30, 2010, 12:35:59 am »


29
ott
2010

Federico RAMPINI

C’è l’inflazione dietro i “tassi negativi” sui BoT americani

La minaccia di una ripresa dell’inflazione non è solo un problema italiano. All’inizio della settimana l’allarme inflazione si è riaffacciato di colpo negli Stati Uniti. E’ l225px-Ben_Bernanke_official_portrait‘anomalìa segnalata dal comportamento degli investitori sul mercato dei buoni del Tesoro Usa: per la prima volta a un’asta di Treasury Bonds il rendimento è sceso sotto lo zero. Cioè in effetti gli investitori “pagano” un interesse allo Stato per potergli prestare dei soldi. A prima vista è un segnale di deflazione, in realtà questi sono i Bot indicizzati sui prezzi e quindi il rendimento sottozero segnala un’altra novità: se ora siamo in clima deflazionistico, per il futuro gli investitori prevedono un ritorno d’inflazione e sono disposti a strapagare questi Bot che li proteggono dagli aumenti dei prezzi.

I Buoni in questione sono di una categoria particolare: indicizzati sul costo della vita (Treasury Inflation-Protected Securities o Tips). All’inizio di questa settimana in occasione di un’asta pubblica il loro rendimento è sceso a meno 0,55%. L’anomalìa significa che mentre oggi c’è una semi-deflazione, per il futuro invece i mercati vedono il rischio di un ritorno d’inflazione, a causa della creazione di liquidità. L’attesa generosità della Fed nello stampar moneta è la causa di tutto.

Ma quanto generosa sarà la Fed? E se Ben Bernanke non fosse Babbo Natale? Il dubbio è nato  da un’anticipazione del Wall Street Journal sulla riunione della Federal Reserve prevista martedì e mercoledì della prossima settimana. In quell’occasione la banca centrale americana, subito dopo le elezioni legislative di mid-term, dovrebbe varare una nuova ondata di acquisti di titoli del Tesoro: il cosiddetto “quantitative easing”, creazione di liquidità per rilanciare la crescita.

Fin qui tutto previsto. Ma secondo il quotidiano economico il presidente della Fed Bernanke opterebbe per una strategia molto graduale. “Solo poche centinaia di miliardi di dollari di acquisti all’inizio”, per saggiare il terreno. Una terapia minimalista, almeno se la si raffronta con i quasi 2.000 miliardi di dollari che la stessa Fed rovesciò sui mercati a partire dal dicembre 2008, nella prima applicazione del “quantitative easing”.

Che stavolta la Fed voglia essere più gradualista non è strano: le condizioni dell’economia americana erano decisamente peggiori nel dicembre 2008, in piena recessione. Oggi invece non mancano le perplessità sui rischi di un’eccessiva creazione di liquidità, che può generare inflazione e “bolle speculative”.

Scritto venerdì, 29 ottobre 2010 alle 14:04 nella categoria America economia, consumatori, finanza. Puoi seguire i commenti a questo post attraverso il feed RSS 2.0. Puoi lasciare un commento, o fare un trackback dal tuo sito.

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« Risposta #54 inserito:: Novembre 01, 2010, 11:59:29 am »

ELEZIONI DI MIDTERM

Come va l'America? Malissimo Per questo Obama perderà

Dall'ultima edizione del grande sondaggio sullo stato degli Usa redatto dal Brookings Institution emerge un clima di forte pessimismo sul futuro della nazione, e dati concreti di forte crisi economica e sociale.

"Questo paese che sembrava convinto di riuscire in ogni sfida oggi sembra convinto che non ce la farà"

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Lasciate stare i sondaggi dell'ultima ora, le proiezioni seggio per seggio, Camera e Senato, sulle perdite previste dei democratici. Per capire il terremoto politico preannunciato per domani in America è fuori dalla politica che bisogna andare. La più completa rassegna dello stato reale della nazione è contenuta in un indice. "How We Are Doing Index": è il misuratore del "come stiamo andando". Lo ha messo a punto la Brookings Institution, autorevole think tank vicino al governo, ed è giunto alla sesta edizione. Ieri è uscito l'ultimo verdetto.

Un ritratto angosciante: se l'America ha cessato di essere la terra dell'ottimismo ha le sue buone ragioni, radicate nello stato reale delle cose. Sono 14 statistiche ben selezionate, che misurano il polso della situazione economica e sociale. Debolissima la crescita del Pil, appena il 2%, un'anomalia storica rispetto agli altri periodi post-recessione. Ancora più significativo è lo stato del mercato del lavoro: il vero tasso di disoccupazione raggiunge il 16,8%, se si sommano i disoccupati ufficiali e quelli che hanno smesso di cercar lavoro per la disperazione, o sono rassegnati a part-time e lavoretti precari mentre vorrebbero un'attività vera. Ben 23 Stati Usa, quasi la metà del totale, continuano ad avere un aumento della disoccupazione. Le case, principale deposito del risparmio familiare, hanno perduto il 33% del loro valore.

Lo stato d'animo dei consumatori, misurato da Reuters e University of Michigan, è ridisceso al livello dell'autunno 2009, cioè quando ci si sentiva ancora in piena crisi. Idem per il barometro di ottimismo-pessimismo dei piccoli imprenditori, di nuovo in discesa rispetto a quest'estate.

I dati conclusivi riguardano la percezione generale degli americani, e la loro visione del futuro. È qui che si misura un cambiamento eccezionale: la nazione che per generazioni stupì il mondo intero per la sua capacità di "pensare positivo", di nutrire un'illimitata fiducia nelle proprie capacità, è irriconoscibile. Solo il 20% dei cittadini è soddisfatto di quel che l'America è oggi. E appena il 39% "sente che le cose si stanno evolvendo nella direzione giusta".

I tre ricercatori che hanno diretto l'indagine della Brookings Institution, Karen Dynan, Ted Gayer e Darrell West, sintetizzano così i sentimenti degli elettori che domani vanno alle urne: "Domina l'incertezza sull'economia, la fiducia dei consumatori frana, le prospettive di una ripresa sono grigie. Non c'è chiarezza sul futuro delle tasse. Non c'è un piano per ridurre deficit e debito pubblico nel lungo termine. Nessuno sa se e come affronteremo problemi strutturali come la dipendenza energetica, l'ambiente, l'immigrazione". Inevitabile che una simile sindrome si traduca nella voglia di castigare chi governa. Il livello di consensi verso Barack Obama è sceso dal 54% di un anno fa al 45% oggi. Non gli viene riconosciuto neppure il merito di avere arrestato la recessione, al contrario. "Meno di un terzo degli elettori - spiegano i ricercatori della Brookings - pensa che sia servita a qualcosa la sua manovra di spesa pubblica anti-crisi. Il 68% è convinto che quei soldi sono stati buttati via".

Il Washington Post, un giornale tutt'altro che ostile all'Amministrazione Obama, riassume così l'atmosfera dominante in questa vigilia di legislative: "Anzitutto siamo in guerra, e sconfiggere i nostri nemici richiederà un impegno di lungo termine in Afghanistan, Pakistan, Iraq, al quale il presidente non ha preparato abbastanza gli americani. Poi ci stiamo avvitando pericolosamente nel debito pubblico, che deprimerà il nostro tenore di vita e indebolirà la leadership degli Stati Uniti nel mondo. Infine ci sono problemi come la povertà cronica tra i neri sotto-istruiti, un'alta disoccupazione che forse non è solo ciclica, la decadenza delle nostre infrastrutture, gli insufficienti investimenti nella scuola, il cambiamento climatico". Un elenco drammatico, più che sufficiente per giustificare lo stato depressivo - in senso clinico - dell'umore nazionale.
Il magazine Time sceglie di dedicare la copertina all'ottimismo della ragione. Il titolo è "Come ricostruire il Sogno Americano". Ma la speranza si esaurisce nel titolo. Già l'immagine che gli fa da sfondo lancia il messaggio contrario: è la foto di una casa circondata da erbacce e una cinta di paletti in disfacimento, il simbolo dei milioni di abitazioni abbandonate, per la crisi dei mutui e i pignoramenti giudiziari dei debitori insolventi. L'apertura del reportage su Time è affidata all'editorialista più prestigioso, Fareed Zakaria, una grande firma del giornalismo americano ma di origine indiana. Ed ecco cosa scrive Zakaria: "Quando viaggio dall'America all'India in questi giorni mi sembra che il mondo si sia capovolto. Sono gli indiani a brillare di speranza e fiducia nel loro futuro. Il 63% degli americani invece è convinto che non riuscirà a mantenere il proprio tenore di vita attuale. Ma quel che è ancora più inquietante, è che gli americani sono diventati terribilmente fatalisti sulle loro prospettive future. Questa nazione che sembrava convinta di poter sempre riuscire in ogni sfida, ora è convinta che non ce la farà". Fatalismo? Non era un termine che associavamo al Dna degli Stati Uniti d'America.

È il rovesciamento brutale del più celebre slogan lanciato da Obama nella sua trionfale campagna del 2008: "Yes We Can". Quella descritta dalla Brookings Institution, dal Washington Post e da Time è l'America del "No, We Can't", una nazione stravolta in un solo biennio. Di fronte a un cambiamento di atmosfera così profondo e radicale, il processo a Obama è inevitabile e infatti è già iniziato. Le accuse sono diametralmente opposte, inconciliabili. Da sinistra gli rimproverano i troppi compromessi, che avrebbero tradito gli ideali di cambiamento: riforma sanitaria, nuove regole per Wall Street, Afghanistan, altrettante delusioni. La destra lo descrive come un ideologo radicale dell'intervento pubblico, che ha dissipato risorse, ingigantito la burocrazia federale, ipotecando il futuro del paese sotto una montagna di debiti. Sentiremo ripetere questi argomenti nei prossimi giorni, fino alla nausea. Ma il processo agli ultimi due anni non è necessariamente il modo migliore per capire i prossimi due.

Mercoledì mattina, appena chiariti i risultati delle elezioni di mid-term, sarà di fatto il primo giorno della campagna elettorale per le presidenziali del 2012. Una battaglia dove ancora una volta tutto si giocherà sull'economia. Il premio Pulitzer David Broder la riassume così: "Se Obama non riesce a rilanciare la crescita prima del 2012, non sarà rieletto. La stessa recessione che ebbe un ruolo determinante per portarlo alla Casa Bianca nel 2008, ha lasciato un'eredità che può costargli la riconferma tra due anni. Il guaio è che nessun governo ha il potere di controllare il ciclo economico. L'economia non si lascia comandare dalla politica. Su questo terreno, anche se Obama sembra molto superiore ai suoi potenziali avversari di ambedue i partiti, non ha dei vantaggi: può analizzare correttamente le forze d'inerzia dell'economia, non può dominarle". Ma gli stessi repubblicani devono guardarsi dal sopravvalutare la vittoria di domani. L'indagine della Brookings è chiara: gli americani "sfiduciano" l'intero Congresso (destra e sinistra) ancor più del presidente: solo il 19% dà un giudizio positivo dei parlamentari nel loro insieme. E dopodomani? "Gridlock" ovvero "paralisi di governo" è lo scenario prevalente per il prossimo biennio: una partita di veti incrociati tra democratici e repubblicani sempre più polarizzati verso le ali estreme. Non una ricetta ideale per il paese che ha perso la fede nel suo futuro.

(01 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #55 inserito:: Novembre 03, 2010, 10:02:41 pm »

L'ANALISI

Comincia l'Obama 2 con l'incognita società civile

Il presidente evita l'umiliazione in Senato ma la catastrofe della Camera lo inchioda a pesanti responsabilità.

Nell'analisi del voto giocano due forze contrastanti: giovani e donne hanno tradito il sogno obamiano, accusato di eccessiva cautela.

Ma anche i repubblicani devono fare i conti con una radicalizzazione a destra

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Barack Obama incassa una dura sconfitta, evita una débacle irrimediabile. Il partito democratico perde nettamente la maggioranza alla Camera ma la conserva al Senato. Il presidente può tirare un sospiro di sollievo perché ha subìto un rovescio che rientra nel tradizionale ciclo politico americano. Andò peggio a Ronald Reagan, Bill Clinton, George W. Bush: tutti alle elezioni di mid-term persero la maggioranza in ambedue i rami del Congresso.

Ma i precedenti storici non bastano ad evitare lo choc. Perché alla Camera le dimensioni dell'avanzata repubblicana sono travolgenti: è il più grosso ribaltamento dei rapporti di forze dal 1948. In due anni Obama sembra avere dilapidato gran parte del patrimonio di consensi, l'aureola di carisma, l'alone di speranza che avevano circondato la sua vittoria nel 2008. Significativo è il fatto che gli abbiano voltato le spalle molte donne, che erano state una colonna portante nella sua elezione alla Casa Bianca. Da oggi comincia una fase che si può definire Obama 2. Parte di fatto un'altra campagna elettorale: a destra come a sinistra, si aprono le grandi manovre per la corsa alla Casa Bianca nel 2012. Per Obama, che darà una conferenza stampa a Washington alle ore 13 (le 18 in Italia), non è facile "interpretare" il risultato elettorale e la lezione da trarne. Nell'emorragìa di voti che ha penalizzato il partito democratico confluiscono infatti due spinte contraddittorie. Da una parte lo hanno disertato quelle fasce di "nuovo voto"  -  giovani, minoranze etniche, ambientalisti, pacifisti  -  che rimproverano a Obama di non essere stato abbastanza audace nelle riforme.

D'altra parte si sono spostati a destra molti elettori centristi, moderati e indipendenti, sensibili alla propaganda del Tea Party: convinti cioè che Obama abbia fatto fin troppo, con manovre di spesa pubblica anti-crisi che hanno scavato una voragine nel deficit pubblico. Nel rimpasto della sua squadra di governo Obama dovrà fare una scelta: andare verso un secondo biennio più moderato, alla ricerca di compromessi con la maggioranza repubblicana alla Camera; o al contrario impostare la seconda metà del suo mandato su un "muro contro muro", abbandonando l'illusione di un dialogo bipartisan.

Sul fronte opposto, i repubblicani devono evitare di essere inebriati da questa vittoria. Certo il Tea Party emerge come la grande novità del momento. Questo movimento ha studiato a perfezione proprio il "modello Obama", ha usato la mobilitazione della società civile per scardinare l'establishment di partito. E' una "insurgency", un'insurrezione della società civile che vuole riappropriarsi della propria sovranità. Ma queste mobilitazioni possono essere fiammate brevi, se vengono catturate e dirottate da un ceto politico tradizionale. Di qui al 2012 sarà l'economia a decidere tutto. Se Obama non trova la terapia giusta per accompagnare l'America verso una ripresa che crei posti di lavoro, la sua figura di leader resterà associata a una fase di declino e di impoverimento della nazione. In quanto alla destra populista, sogna lo Stato minimo e tagli alla spesa pubblica drastici almeno quanto quelli proposti da David Cameron in Inghilterra. Una visione dottrinaria che rischia di aggravare la crisi precipitando l'America in una nuova depressione.

(03 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #56 inserito:: Novembre 23, 2010, 09:56:32 am »

USA

L'ultima tentazione liberal "Barack non si ricandidi"

Il Washington Post: governi, niente campagna elettorale.

Il presidente non sarebbe più un bersaglio da abbattere per i repubblicani dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Fino a qualche tempo fa era un obiettivo galvanizzante per la destra. Mitch McConnell, capogruppo repubblicano al Senato, lo aveva detto all'indomani della vittoria elettorale, in modo brutale: "Il nostro obiettivo più importante è che il Presidente Obama faccia un mandato solo". I sondaggi alimentano questa speranza. Secondo il Quinnipiac Poll, "il 49% degli americani pensa che il presidente non meriti un secondo mandato, solo il 43% vuole vederlo rieletto nel 2012".

Di questo tema si è impadronito improvvisamente uno storico giornale liberal, rovesciandolo in maniera inaspettata. Sul Washington Post, gli editorialisti Douglas Schoen e Patrick Caddell hanno lanciato una "bomba" nel dibattito interno al partito democratico. La loro proposta: Barack Obama dichiari al più presto che non si ripresenterà nel 2012, e il grande sacrificio lo renderà più forte. Il quotidiano avverte: "Se il presidente si avvia verso la campagna elettorale, abbiamo la certezza che il governo sarà paralizzato per due anni".

E' quel che minacciano i repubblicani: gridlock, blocco totale. Sono convinti che a loro conviene essere "il partito del no", usare la loro fresca maggioranza alla Camera per bocciare ogni iniziativa del presidente. "L'America - prosegue il Washington Post -non può permettersi la paralisi. Se invece annuncia che sarà presidente per un solo mandato, Obama può realizzare la promessa della sua campagna del 2008: può
disintossicarci da una politica polarizzata, può mettere fine al risentimento, alle lacerazioni che hanno indebolito la nostra identità nazionale e il senso di uno scopo comune". Il precedente evocato è Lyndon Johnson, un altro presidente democratico impantanato in una escalation militare. Dopo che la sua popolarità era crollata per la guerra del Vietnam, Johnson ritirò la candidatura per un secondo mandato nel '68. Anche per Obama una considerazione è legata alla guerra: non essere candidato nel 2012 gli consentirebbe di affrontare senza calcoli elettorali la decisione sul da farsi in Afghanistan.

Ma per il Washington Post prevale un altro vantaggio. Liberato dall'immagine del futuro candidato, Obama non sarebbe più il bersaglio da abbattere per i repubblicani. Le sue offerte di accordi bi-partisan con la destra riceverebbero un'accoglienza meno ostile. La sua Amministrazione - magari integrata con esponenti repubblicani dopo un rimpasto - potrebbe finalmente affrontare le grandi emergenze: tagliare il deficit pubblico, rilanciare la crescita e l'occupazione. L'idea del mandato unico è rafforzata dalle conclusioni della commissione bipartisan che su incarico dello stesso Obama ha appena consegnato le sue conclusioni sul risanamento dei conti pubblici. Le ricette sono drastiche: vanno dai tagli alle prestazioni sanitarie per gli anziani (Medicare) alla riduzione delle pensioni. Non basta: per riportare il deficit sono controllo bisogna introdurre una tassa federale sui consumi (equivalente dell'Iva europea) e abolire sgravi fiscali popolarissimi come la deducibilità degli interessi passivi sui mutui. Tutte riforme impossibili nell'attuale clima politico di totale contrapposizione.

Se invece Obama annuncia il nobile gesto del ritiro nell'interesse del paese, da qui al 2012 il suo diventa l'equivalente di un "governo tecnico", che può invocare scelte di unità nazionale dettate dall'emergenza. A dare credibilità a questo scenario, durante il vertice della Nato a Lisbona il tema del "mandato unico" era ben più dibattuto dello scudo anti-missili tra la stampa al seguito del presidente e lo staff della Casa Bianca. E appena tornata da Lisbona, Hillary Clinton si è precipitata a smentire alla Cbs che si sarebbe candidata nel 2012: il suo nome infatti è il primo della lista, se Obama dovesse rinunciare. Ora però sono i repubblicani a tacere. Loro hanno un sospetto: che il grande gesto della rinuncia sia solo una mossa tattica, per attirarli nella trappola della cooperazione. E poi beffarli con un altro colpo di scena fra due anni. 

(23 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/esteri/2010/11/23/news/l_ultima_tentazione_liberal_barack_non_si_ricandidi-9398636/?ref=HREC1-9
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« Risposta #57 inserito:: Novembre 29, 2010, 12:03:09 pm »


L'ANALISI

"Viziosi, maniaci, deboli, pericolosi" ecco i leader visti da Washington

Da Berlusconi a Gheddafi, i ritratti "non censurati" di alleati e nemici.

A molti statisti le informative segrete delle ambasciate non fanno sconti.

Nelle radiografie segrete i limiti, i difetti, la caratura e le strategie dei capi.

Emerge la visione di un mondo difficilmente governabile e denso di minacce

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Silvio Berlusconi "politicamente debole, inefficace come leader europeo moderno", più vicino a Vladimir Putin e Gheddafi che ad alleati come la Merkel o Netanyahu. Non è pettegolezzo, non è voyeurismo: le 250.000 comunicazioni confidenziali rivelate da Wikileaks sono un documento storico di eccezionale importanza.
Per la prima volta, suo malgrado, chi governa l'America vede rivelati i suoi giudizi integrali sui leader stranieri. Ecco come la superpotenza mondiale classifica, analizza, gerarchizza i suoi interlocutori: è uno straordinario squarcio di verità su "intelligence gathering" e "decision-making", i due momenti-chiave  -  raccolta delle informazioni e processo decisionale  -  che guidano la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato. Capi di governo di nazioni sorelle, alleati di lunga data, fiancheggiano i nemici pubblici numero uno come Ahmadinejad. E' una cornice impressionante, una sfilata di leader che nei dispacci riservati vengono vivisezionati dalla rete diplomatica, perché Washington deve sapere esattamente con chi ha a che fare. Vizi personali, difetti politici, caratura, strategie, scheletri negli armadi: ecco le radiografie top secret degli statisti, a portata di tutti.
Così Elizabeth Dibble, incaricata d'affari all'ambasciata americana a Roma, si sente in dovere di informare il Dipartimento di Stato che il presidente del Consiglio italiano per le "frequenti lunghe nottate e l'inclinazione ai party" è affaticato
anche fisicamente, oltre a risultare "incapace". L'informativa sulle "feste selvagge" non fa che rafforzare la preoccupazione strategica. Insospettisce gli americani la relazione troppo stretta tra il premier italiano e quello russo, Vladimir Putin, che viene descritta a base di "regali opulenti", "lucrosi contratti energetici", con un "intermediario-ombra". Il risultato è che Berlusconi, nel giudizio dell'ambasciata, "appare sempre più come il portavoce di Putin" in Europa. Un ruolo allarmante, per gli Stati Uniti, che non possono tollerare il doppio gioco da un partner storico della Nato. La profonda sfiducia verso Berlusconi è tanto più grave se affiancata a quel che l'ambasciata di Mosca scrive su Putin: un "alpha-dog", cioè capo-branco, che domina su una Russia che "virtualmente è uno Stato della mafia" . Al suo confronto il presidente Dmitri Medvedev, cioè colui che Barack Obama ha scelto come suo interlocutore (dal disarmo nucleare alle sanzioni sull'Iran), pur essendo ufficialmente di rango superiore a Putin, in realtà "è come Robin verso Batman", cioè il cadetto, la figura più debole.

Su Gheddafi, altro personaggio cruciale nel Pantheon delle frequentazioni berlusconiane, le informazioni frugano nell'intimo. "Ipocondriaco, fa filmare i suoi controlli medici. Usa il Botox contro le rughe. Ha paura dei lunghi voli, e dei piani alti. Non può viaggiare senza avere al suo fianco l'infermiera ucraina Galyna Kolotnytska, una bionda voluttuosa". Al punto che un volo speciale solo per la donna ucraina fu organizzato in fretta e furia per ovviare a un ritardo nella concessione del visto, in occasione dell'assemblea dell'Onu.
Ogni debolezza personale è passata ai raggi X, è materiale prezioso per guidare l'approccio dell'Amministrazione Usa verso i leader stranieri. I giudizi su Berlusconi sono eccezionalmente duri ma non per una "congiura", visto che anche ad altri statisti le informative segrete delle ambasciate non fanno sconti. Nicolas Sarkozy ha diritto a un ritrattino poco lusinghiero: "l'imperatore nudo" lo descrivono nelle missive indirizzate a Washington, per via del "carattere permaloso, lo stile personale autoritario", l'abitudine di sconfessare pubblicamente il suo primo ministro e altri membri del governo. In Europa si salva Angela Merkel, definita "teflon" come il materiale per le pentole dove il cibo non si attacca. Era una celebre definizione di Ronald Reagan, perché le sconfitte gli scivolavano sulla pelle. Una cancelliera "tenace quando è in difficoltà", però anche "avversa al rischio, raramente creativa". Più severa è la pagella sul ministro degli Esteri Westerwelle: "anti-americano e poco competente". Ne esce comunque l'immagine di un'Europa rimpicciolita nell'attenzione e soprattutto nella stima dei leader americani. Le date dei rapporti diplomatici indicano che la marginalizzazione degli europei era già avanzata sotto l'Amministrazione Bush, prima ancora che arrivasse Obama con la sua visione rivolta all'Asia Pacifico.

Le rivelazioni su ciò che la diplomazia Usa pensa degli avversari sono importanti perché dipingono un mondo ancora più pericoloso, ingovernabile e denso di minacce, di quanto Washington non ammetta nella sfera pubblica. Il presidente Ahmadinejad è paragonato a Hitler oppure definito "un nuovo Pinochet", della cui elezione "il popolo iraniano si pentirà amaramente". Il dittatore nordcoreano Kim Jong-il, che in questi giorni ha messo l'America di fronte a una grave crisi internazionale, è "un vecchio rimbecillito dopo l'ictus". I leader della Cina sono "i veri mandanti del cyber-attacco contro Google". E' dal 2002, secondo i dispacci riservati dell'ambasciata Usa a Pechino, che provengono direttamente dal Politburo del partito comunista cinese le direttive per "una campagna coordinata di sabotaggio informatico a danno del governo americano e dei suoi alleati europei".

Nei teatri più caldi del Medio oriente e dell'Asia centrale, gli interlocutori privilegiati di Washington si rivelano inaffidabili o peggio. Sul premier israeliano Benjamin Netanyahu il giudizio è in apparenza positivo ("elegante e seducente"), seguito però dall'osservazione che "non mantiene mai le promesse". Ed è l'uomo su cui Obama deve appoggiare il suo dialogo di pace. Disastroso il ritratto di Ahmid Karzai, il presidente dell'Afghanistan a cui Obama dovrebbe trasferire progressivamente le responsabilità della guerra contro i talebani. "Un paranoico, circondato dalla corruzione, con un fratellastro a capo del narcotraffico". Ieri Hillary Clinton ha passato la giornata al telefono con molti di questi capi di Stato stranieri, per ricucire le ferite aperte da Wikileaks. Ma ci vuol altro che il lavoro della diplomazia tradizionale, per rimediare a un cataclisma che ha sconvolto il ruolo stesso della diplomazia. Né basteranno in futuro nuove regole, nuovi circuiti di comunicazione, nuove barriere anti-incursioni. In questo choc bisognerà anche spiegare all'opinione pubblica americana lo scarto immenso, tra il galateo dei vertici e quel che Washington pensa davvero di amici, alleati, avversari.

(29 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #58 inserito:: Novembre 30, 2010, 05:19:20 pm »

WIKILEAKS

Ma il Dipartimento dà torto al Cavaliere la Dibble guida la diplomazia nella Ue

Uomini vicini al premier fornivano informazioni all'ambasciata. A differenza delle altre cancellerie, la Farnesina sembra destabilizzata dai file di Assange.

I duri giudizi sul presidente del Consiglio non sono pareri personali

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Silvio Berlusconi da Tripoli l'ha definita "una funzionaria di terzo grado". In realtà Elizabeth Dibble a Roma era di fatto l'ambasciatore in carica.
L'autrice e firmataria dei pesanti rapporti al Dipartimento di Stato, in cui il premier italiano viene definito "politicamente debole, inefficace come leader europeo moderno", incapacitato dai "selvaggi party notturni", nonché "portavoce di Putin", oggi è tornata a Washington. Dopo oltre due anni trascorsi alla guida della sede italiana  -  dalla nascita dell'attuale governo Berlusconi fino a ottobre  -  lei è stata promossa. Il suo incarico odierno: Deputy Assistant Secretary di Hillary Clinton. Da un mese la Dibble dirige al Dipartimento di Stato la sezione European and Eurasian Affairs. Ora fanno riferimento alla Dibble tutte le ambasciate Usa nell'Unione europea. Perciò il Dipartimento di Stato, sia pure in una giornata che vede la Clinton sulla difensiva per il ciclone-WikiLeaks, deve confermare che le valutazioni di Berlusconi sono state espresse "dalle fonti diplomatiche di massimo livello".

C'è di più. Quei giudizi gravi, dai sospetti sulla vera natura dell'amicizia con Putin alla salute fisica del presidente del Consiglio, non sono pensieri personali della Dibble. Proprio come ha precisato l'ambasciatore David Thorne, quelle sono "analisi" (da non confondersi con le "politiche" elaborate a Washington). Ecco come definiscono il metodo seguito nella
compilazione delle "analisi" al Dipartimento di Stato: "Informazioni e valutazioni sono state raccolte consultando anche membri del governo italiano, esponenti della coalizione di maggioranza, nonché gli ambienti imprenditoriali". La Dibble è un personaggio molto noto a chiunque abbia frequentato l'ambasciata di Via Veneto. Nella sua permanenza dal 2008 al 2010 la sua carica ufficiale era Chief of Mission and Chargé d'Affaires. Cioè la più alta diplomatica di carriera a Roma, visto che gli ambasciatori americani sono di nomina politica e vengono scelti fuori dai ranghi del Dipartimento di Stato. Dunque lei era l'ambasciatore-vicario. Come spiega il suo profilo sul sito ufficiale del Dipartimento di Stato, la Dibble aveva "la direzione operativa di una sede con 800 dipendenti".

Nel lungo interregno (6 mesi) fra la partenza dell'ambasciatore repubblicano Ronald Spogli il 6 febbraio 2009, e l'arrivo del democratico Thorne il 17 agosto dello stesso anno, la Dibble fu anche formalmente la numero uno dell'ambasciata, l'interlocutrice primaria della Casa Bianca e della Clinton sugli affari italiani. Lei proveniva da un altro compito importante al Dipartimento di Stato: era stata ai vertici del Bureau of Economic, Energy and Business Affairs dal 2006 al 2008. Questo spiega la sua particolare sensibilità verso la politica energetica italiana, e la sua attenzione per quella "amicizia personale con risvolti d'affari" tra Berlusconi e Putin. Ma l'intelligence che Elizabeth Dibble raccoglieva e trasmetteva puntualmente a Washington, era il frutto di una sistematica consultazione di interlocutori italiani del più alto livello: ministri in carica, leader delle forze politiche di maggioranza e opposizione, l'establishment industriale e finanziario. E' da quei contatti quotidiani che la Dibble "distillava" le sue informative sul premier.

L'esistenza di queste "gole profonde" nell'entourage di Berlusconi, è sufficiente a spiegare le reazioni del premier da Tripoli? Al Dipartimento di Stato sia pure nel bel mezzo di un "perfect storm", una tempesta storica, non sfugge l'anomalia del caso italiano nel "giorno dopo". Altri governi di nazioni alleate di fronte alla prima ondata di rivelazioni da WikiLeaks hanno avuto un comportamento uniforme: analizzare il contenuto dei dispacci; capire se celano dei problemi di sostanza nei rapporti con gli Stati Uniti; quindi sdrammatizzare per tentare di tornare al più presto alla normalità. La vera preoccupazione delle altre capitali alleate è quella di mostrare un fronte comune contro WikiLeaks. Così il portavoce dell'Eliseo, François Baroin, non ha reagito alla descrizione di Nicolas Sarkozy ("permaloso e autoritario") bensì ha sottolineato che Francia e Stati Uniti sono d'accordo per contrastare queste fughe di notizie. "Diamo il massimo sostegno all'Amministrazione americana - ha detto Baroin - nei suoi sforzi per evitare ciò che danneggia il lavoro dei suoi funzionari". Il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, in risposta ai contenuti di WikiLeaks sul governo Merkel (la "signora Teflon, tenace ma poco creativa") ha detto che "le relazioni tra gli Stati Uniti continueranno ad essere strette e amichevoli". Perfino Putin ("il capo-branco", alla guida di uno "Stato di tipo mafioso" secondo i comunicati della diplomazia Usa), attraverso il suo portavoce ha fatto sapere che "aspetterà di verificare il testo originale, e la traduzione di certe parole o espressioni". Sono reazioni che il Dipartimento di Stato considera prevedibili. Dopotutto è l'Amministrazione degli Stati Uniti la "vittima" di WikiLeaks, è il Dipartimento di Stato ad aver subìto questa intrusione e questa fuga di 250.000 comunicati a carattere confidenziale.

Osservato da Washington spicca perciò il tono singolare di certe reazioni italiane, con il ministro degli Esteri Franco Frattini che dopo aver parlato a caldo di un "11 settembre della diplomazia" (quando ancora non era uscita neppure la prima ondata di rivelazioni) ieri è tornato sull'argomento accusando WikiLeaks di voler "distruggere il mondo". Gli americani si chiedono perché l'Italia sia l'unico paese a sentirsi destabilizzato, almeno dentro l'arco degli alleati e amici. La spiegazione di questa anomalìa la cercano proprio nelle "analisi" della Dibble, e nelle sue fonti.

(30 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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« Risposta #59 inserito:: Dicembre 01, 2010, 05:38:25 pm »

WIKILEAKS

Tutti i segreti di Julian Assange l'uomo che fa tremare il potere

Viaggia sotto falso nome, usa telefoni criptati, paga solo in contanti.

Ecco come vive il "James Bond della contronformazione".

Con lui giornalisti e hacker, che lavorando davanti a computer in bunker atomici grazie a finanziamenti da donazioni volontarie

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI


NEW YORK - Ottantamila lettori di Time vogliono che sia Julian Assange l'"uomo dell'anno" da mettere in copertina. "Va braccato come Osama Bin Laden", intima invece la leader della destra americana Sarah Palin. "Condanniamo a morte tutte le gole profonde", invoca sulla Fox News l'anchorman Bill O'Reilly mentre il deputato repubblicano Peter King propone "il reato di terrorismo" per le fughe di notizie. Ma chi c'è davvero dietro WikiLeaks? A chi giova politicamente il cataclisma diplomatico orchestrato dal suo capo Assange? Come funziona il suo universo parallelo, che usa un'impenetrabile segretezza interna per imporre il massimo della trasparenza ai governi di tutto il mondo? A meno di protettori potenti, solo un genio può sottrarsi alla caccia all'uomo planetaria, e resuscitare il suo sito dopo formidabili attacchi informatici. Questo australiano di 39 anni si è già conquistato un posto nel Pantheon dei grandi dell'èra Internet.
 
Come Bill Gates (Microsoft), Larry Page (Google) o Mark Zuckerberg (Facebook) anche Assange è un innovatore rivoluzionario, usando le nuove tecnologie ha scardinato consuetudini diplomatiche antiche di secoli. Un "gigante dell'informatica" lo definiscono anche quegli ex collaboratori che hanno deciso di abbandonarlo per divergenze politiche o etiche. E' un giustiziere o un criminale, angelo o Mefistofele? Daniel Ellsberg, la gola profonda che nel 1971 rivelò al New York Times le bugie di Stato sul Vietnam (i Pentagon
Papers), considera Assange l'eroe del nostro tempo: "Ho aspettato 40 anni  -  dice  -  per vedere qualcuno che abbattesse i segreti di Stato in modo da cambiare il corso della storia". Le defezioni polemiche di tanti suoi collaboratori possono dipingere un altro personaggio: ambiguo, irresponsabile, o manipolato.

Dalla clandestinità, rispondendo per email alle interviste, Assange sfida i suoi avversari: "Quel che abbiamo fatto finora è una millesima parte della nostra missione". A Hillary Clinton che lo accusa di mettere in pericolo vite umane: "Da 50 anni questo è l'alibi usato da ogni governo americano, per impedire che l'opinione pubblica sappia ciò che fanno. Ma il coraggio è contagioso: più dimostriamo che la verità è vincente, più avremo nuove rivelazioni".

Conduce "una vita da James Bond della contro-informazione", come la definisce lui stesso. Viaggia sotto falso nome, evita gli alberghi, si tinge i capelli, cambia continuamente telefonino (criptato) e impone ai suoi collaboratori di fare lo stesso. Paga solo in contanti (le carte di credito lasciano tracce) e anche quelli deve farseli prestare per non usare il Bancomat. Eppure l'inizio di questa storia è ben diverso, il che infittisce il mistero di WikiLeaks. Catalogata al suo battesimo nel 2006 come un "organo d'informazione internazionale non-profit", si autodefinisce così: "Un sistema a prova di censura, per generare fughe massicce di documenti riservati senza tradirne l'origine". Tra le regole statutarie: "Accetta solo materiali segreti", e i documenti devono avere "rilevanza politica, diplomatica, storica, etica". Un anno dopo il suo lancio, sul sito WikiLeaks c'erano già 1,2 milioni di documenti. Assange non figura subito come il capo. Alle origini l'organizzazione si descriveva come un collettivo, animato da noti dissidenti cinesi come Xiao Qiang, Wang Youcai e Wang Dan; giornalisti in lotta contro le dittature; matematici ed esperti informatici che cooperavano da Stati Uniti, Europa, Australia, Taiwan, Sudafrica. La componente cinese nel nucleo fondatore è importante: quei dissidenti si sono allenati a "bucare" un muro impenetrabile, la Grande Muraglia di Fuoco, la censura informatica della Repubblica Popolare. La loro presenza è anche all'origine di velenosi sospetti  -  probabilmente infondati  -  sull'infiltrazione dei servizi segreti di Pechino in WikiLeaks.

Nei primi anni la battaglia è rivolta soprattutto contro i regimi autoritari, i genocidi, la repressione del dissenso. Nel 2008 WikiLeaks si guadagna un riconoscimento da Amnesty per le rivelazioni sulle esecuzioni sommarie della polizia in Kenya. The Economist assegna al sito il premio New Media Award. Tutto cambia di colpo nell'aprile di quest'anno, quando su WikiLeaks appare il video di una strage di civili iracheni da parte dei soldati americani. Poi a luglio esce la prima infornata di 76.900 documenti segreti sulla guerra in Afghanistan. Seguita da 400.000 comunicazioni confidenziali sul conflitto in Iraq. Per arrivare al grande botto che domenica scorsa ha sparpagliato alla luce del sole 250.000 dispacci diretti al Dipartimento di Stato dalle ambasciate Usa. L'America di Barack Obama diventa il bersaglio numero uno. In coincidenza con questa svolta, aumenta a dismisura la visibilità di WikiLeaks.

Emerge come leader l'australiano Assange, con un passato di pirata informatico. La novità sconvolge alcuni sostenitori del "primo" WikiLeaks. L'agenzia stampa Associated Press, il Los Angeles Times, la federazione degli editori di giornali Usa, che avevano finanziato il sito, ci ripensano. Amnesty International e Reporters senza frontiere criticano Assange con lo stesso argomento della Clinton, "per avere messo in pericolo vite umane" (divulgando nomi di informatori afgani della Cia, ora esposti alla vendetta dei Taliban). Alla ritirata dei grandi sostenitori Assange reagisce appoggiandosi su una miriade di simpatizzanti, i micro-pagamenti affluiscono dal mondo intero usando il sistema Paypal. Più inquietanti sono le defezioni tra gli amici e i collaboratori più stretti. Un vero e proprio "scisma", accelerato dopo le accuse di molestie sessuali da parte di due donne svedesi contro Assange (lui nega, sostiene che i rapporti furono consensuali). Almeno una dozzina di volontari del nucleo originario di WikiLeaks sono partiti. Alcuni parlano. Come il 25enne islandese Herbert Snorrason che di Assange dice: "Ormai è fuori di testa". Birgitta Jonsdottir, una parlamentare islandese che era stata anche lei tra gli attivisti fondatori, accusa Assange di aver deciso tutto da solo sui segreti militari americani in Afghanistan. Altri, dietro l'anonimato, lo accusano di essere diventato "megalomane, dittatoriale".

Non lo abbandonano però i fedelissimi: 40 volontari, 800 aiutanti esterni. Un miracolo economico, per un'organizzazione che sopravvive con un budget di soli 200.000 euro all'anno. Senza una sede fisica. Spostandosi virtualmente in quelle "piazze giuridiche off-shore" dalle leggi più tolleranti per la libertà di espressione. Un prodigio tecnologico, soprattutto: "Com'è possibile  -  hanno chiesto le autorità inglesi in questo weekend di attese isteriche  -  che il Pentagono con tutta la sua potenza nella guerra elettronica non riesca a oscurare per sempre WikiLeaks?". La risposta è tutta nel genio di Assange. In fuga perpetua dall'Australia alla Svezia, da Berlino a Londra, forse in procinto di chiedere asilo alla Svizzera, anche per i "server" di Internet lui usa lo stesso metodo, cambia costantemente i propri snodi di comunicazione. E ha un'arma segreta, quella che lui definisce la sua "polizza vita": molti documenti riservati in suo possesso sono già stati "scaricati" via Twitter in forma criptata sui computer di decine o forse centinaia di simpatizzanti. "Se succede qualcosa a me  -  minaccia Assange  -  o al sito principale, scatta automaticamente la divulgazione della password che consentirà di diffondere tutto questo materiale". Bluff o verità? Tutto ciò che riguarda Assange si presta a doppie letture, è circondato da un alone di mistero.

Lo stesso uso politico che ne viene fatto: la destra americana lo denuncia come un terrorista, ma al tempo stesso strumentalizza le fughe di notizie contro l'Amministrazione Obama. I mass media hanno imparato quanto Assange possa essere implacabile: il New York Times è stato messo "in quarantena" per non avere accettato a scatola chiusa i diktat di WikiLeaks, il Wall Street Journal e la Cnn sono stati messi al bando dalle rivelazioni. Braccato da polizie e magistrature, bersagliato dagli hacker, la primula rossa che ha abbattuto ogni regola dei segreti di Stato si fa beffe dell'annuncio che la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato rivedranno tutti i sistemi di comunicazione: "Il nuovo volto della censura moderna è impedire le fughe di notizie riservate. Ma per quanto inventino nuove protezioni, sarà sempre possibile escogitare i sistemi per aggirale".
 

(01 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
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