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Autore Discussione: MASSIMO FRANCO  (Letto 192758 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Settembre 05, 2009, 05:05:52 pm »

L'aggressione e la ferita


Non capita spesso che il direttore del giornale dei vescovi italiani si dimetta per un attacco del quotidiano di proprietà del fratello del premier. Eppure è quanto è avvenuto ieri, al termine di una settimana che si può definire eufemisticamente concitata e torbida. E sarà difficile, nonostante gli sforzi imbarazzati e francamente un po’ penosi di alcuni esponenti del centrodestra, cancellare l’impressione di un’intimidazione contro i vertici di Avvenire per le critiche alla vita privata di Silvio Berlusconi.

Il tentativo di dirottare la responsabilità sull’offensiva martellante degli avversari contro le vicende personali del presidente del Consiglio è comprensibile. Ma finisce per rendere ancora più evidente la gravità e la miopìa dell’aggressione a Dino Boffo e al suo giornale, di certo non catalogabili come esponenti di una stampa militarizzata; né tanto meno prevenuti verso Berlusconi e il suo governo. Al di là dei rilievi che si possono muovere al modo in cui il direttore di Avvenire si è difeso da accuse mescolate al fango delle lettere anonime, prevale la sensazione di un’operazione politicamente poco lucida, oltre che inquietante. Fra le righe amare della lettera di dimissioni si intravede un filo di sarcasmo verso un’aggressione «vittoriosa » che potrebbe rivelarsi un boomerang per palazzo Chigi.

Certo non oggi, né domani, perché ha ragione Berlusconi a dire che i rapporti con la Santa Sede rimangono eccellenti; e quelli con la Cei non potranno non rimanere di collaborazione. Ma una ferita si è prodotta. E per una parte di quel mondo, a torto o a ragione, si tratta di uno strappo violento e inaspettato. Fermarsi a questo significherebbe tuttavia offrire una fotografia incompleta di un brutto capitolo: per la politica, per il giornalismo. E per la Chiesa cattolica. Non si può trascurare l’immagine di confusione e di ambiguità offerta, soprattutto nella fase iniziale, dalle gerarchie ecclesiastiche. I distinguo, le ipocrisie, il senso di sbandamento e il cinismo, trasmessi da chi oltre Tevere ha dato l’impressione di utilizzare la vicenda per regolare vecchi e nuovi conti, sono apparsi a dir poco sconcertanti.

Lo scontro sembra aver svelato, più che provocato, lo sgretolamento di una sorta di Prima Repubblica cattolica. Solo nelle ultime ore si è ricomposta un’unità che ha attenuato il sospetto di una lotta di potere fra Segreteria di Stato e Cei, e non solo. Anche lì, dunque, la vicenda lascia indovinare una ferita aperta. D’altronde, al ringraziamento ai vescovi ed alla Santa Sede, Boffo affianca una bordata a «qualche vanesio irresponsabile che ha parlato a vanvera»: un atto d’accusa a chi, in Vaticano, ha attaccato Avvenire e difeso il governo nei momenti più drammatici dello scontro. Boffo esce di scena pagando un prezzo ben superiore a qualunque responsabilità; e con la consapevolezza di un giornalista più che corretto ma convinto di non potere restare al timone come un’«anatra zoppa ». In realtà, a uscire lesionati sono in molti, anche se forse non se ne rendono conto.

Massimo Franco

04 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #61 inserito:: Settembre 10, 2009, 05:41:26 pm »

LA NOTA

La pax berlusconiana non riesce a piegare il presidente della Camera


C’ è uno iato vistoso fra le profezie di declino di Silvio Berlusconi, e il fatto che sia diventato da due giorni il presidente del Consiglio più longevo del dopoguerra.
È come se in tutto questo tempo gli avversari non fossero ancora riusciti non solo a contrastarlo, ma ad analizzare correttamente i suoi punti di forza e di debolezza.
Come risultato, si oscilla fra giudizi che vedono la sua stella in caduta libera; e altre che sottolineano un primato più prepotente che mai. In fondo, le parole di Massimo D’Alema che accusano il premier di avere fatto «il deserto nel centrodestra», ridimensionando gli altri leader, sono un complimento involontario: sebbene il premier mostri qualche incertezza e fragilità mostrandosi ipersensibile, se non insofferente nei confronti dei giornali. D’altronde, i giudizi aspri di D’Alema probabilmente contengono anche una punta di esagerazione. Definire Umberto Bossi «un pretoriano» di Berlusconi suona fuorviante: la Lega è un alleato non solo «d’acciaio» ma esigente di palazzo Chigi; e poco addomesticabile. Rispetto a Gianfranco Fini, invece, ieri è stata confermata l’impressione di un rapporto incrinato. Il premier ha provato a liquidare i contrasti col presidente della Camera come un «fraintendimento». Ha espresso rispetto per le «posizioni diverse» di Fini. È stato lui, ieri, a telefonargli e ad annunciare che lo incontrerà presto: un segno della determinazione a riassorbire i contrasti. Ma il gelo rimane; e filtra nonostante le versioni ufficiali rassicuranti.

A sgualcire un po’ l’immagine berlusconiana di un Popolo delle libertà unito intorno al premier e insieme gioiosamente «anarchico» è stato proprio Fini. Mentre il presidente del Consiglio era ancora sul palco della festa dei giovani del Pdl, da Montecitorio è arrivata una nota che ironizzava sull’ «ottimismo proverbiale di Berlusconi ». Per Fini, «definire "fraintendimento" le tante valutazioni di carattere politico su cui nel Pdl è necessario discutere, è non soltanto riduttivo ma soprattutto rischia di non contribuire a risolvere i problemi».

Si tratta di una precisazione in tempo reale, pignola e irritata dopo che il capo del governo aveva liquidato la polemica alla sua maniera: sostenendo cioè che Fini aveva «interpretato in maniera diversa dalla realtà» alcune sue frasi sull’immigrazione. Non solo: all’accusa di trasformare il centrodestra in una caserma il premier ha replicato: «Il nostro movimento è il contrario di una caserma». Poi ha attaccato l’immigrazione clandestina e il modello di una «società multietnica » con una durezza da fare invidia alla Lega; ed è apparso un altro modo per prendere le distanze dall’ex leader di An. L’unica concessione a Fini, non irrilevante, è arrivata sul biotestamento: Berlusconi ha confermato che ci sarà libertà di coscienza nel voto parlamentare. Ma alla maggioranza non va giù il modo in cui l’opposizione tende ad incoronare il presidente della Camera, contrapponendolo a Berlusconi. Le parole brutali contro «comunisti e cattocomunisti» rilanciate ieri dal premier sembrano un altolà alle aperture al centrosinistra provenienti da Fini in nome del suo ruolo istituzionale. L’attacco del Cavaliere ai giornali stride, tuttavia, con la sua ostentazione di sicurezza e con la voglia di presentarsi come leader tranquillo. L’esasperazione berlusconiana contro gli attacchi avversari porta il premier a individuare nella stampa una nemica; ad imputarle il ruolo di sabotatrice dell’economia italiana, spargendo allarmismo in tempi di crisi: un’arma in mano ai «missionari della crisi, e dunque del male».

E dopo questo crescendo, Berlusconi arriva ad invitare i giovani a non leggere i giornali: «Se posso darvi un consiglio», ha detto, «non sprecate il vostro tempo...». Eppure, criticandola così radicalmente attribuisce alla stampa un peso che forse neppure ha.

Massimo Franco
10 settembre 2009
da corriere.it
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« Risposta #62 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:21:20 am »

L'analisi

Il muro dell'incomprensione


Più che da contrasti politici, Sil­vio Berlusconi e Gianfranco Fi­ni appaiono divisi da un muro di incomprensione: lessicale, culturale, istituzionale. E personale. Per questo è un ostacolo che non si ri­muove con semplici compromessi di potere. Lo sfogo che ieri il presidente della Camera ha fatto davanti alla pla­tea della scuola di formazione del Pdl, a Gubbio, è stato impietoso, viscerale, esasperato: quasi volesse azzerare la tesi minimalista del «malinteso», ac­creditata il giorno prima dal premier. Eppure, probabilmente ad irritare gli alleati non sono state le critiche sul­l’immigrazione, i rapporti con la Lega, il biotestamento. A bruciare è stato il tono generale.

La denuncia dell’«indegno stillici­dio » al quale Fini si sente sottoposto dall’interno del Pdl, evoca un’incomu­nicabilità con Palazzo Chigi che sfiora la patologia. E la reazione dei berlu­sconiani la riflette. Non si avverte sol­tanto irritazione: si indovina uno stu­pore risentito nei confronti del presi­dente della Camera. Riaffiora, irrisol­to, il contrasto su quello che dovreb­be essere il Popolo della libertà. Per il Cavaliere, una forza libera e insieme caotica, modellata sulla sua leader­ship ; per Fini, «un partito e non un or­ganigramma ». Ma proprio per que­sto, il suo appello ad un «cambio di marcia» del Pdl suona irricevibile.

E non perché Berlusconi non sia pronto a tacitare l’ex leader di An con qualche concessione. Il problema è che fra i due si è cementato un impa­sto di malintesi e diffidenza. La sensa­zione è che Fini si senta sempre più subalterno e quasi estraneo ad un pro­getto e ad una logica non suoi; e inve­stito di un ruolo istituzionale che lui interpreta agli antipodi rispetto agli al­leati. Per questo i suoi scarti ostentati e rivendicati quasi come un dovere vengono registrati con sconcerto; e av­vertiti come bordate che alla lunga po­trebbero destabilizzare la maggioran­za, per quanto solida come quella di centrodestra.

Il Pdl è plasmato per assecondare Berlusconi, non per criticarlo. Può ac­cettare verità complementari a quelle del capo del governo. Ma le tesi soste­nute da Fini rappresentano una sorta di controverità. Di fatto, finiscono per delegittimare l’ottimismo che Berlu­sconi dispensa con un’abbondanza perfino esagerata. Smontano le accu­se di disfattismo che il premier rivol­ge a chi martella sulla crisi economi­ca. Insomma, rifiutano non solo l’ana­lisi ma la filosofia con le quali il Cava­liere ha combattuto gli avversari in questi mesi. E finiscono per essere percepite, a torto o a ragione, come un distillato di antiberlusconismo. Agli occhi degli alleati, si tratta di una provocazione incomprensibile, prima che inaccettabile.

Ad aggravare il sospetto di un’ostilità profonda rischia di contribuire l’omaggio di Fini al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, presentato come «una delle poche garan­zie che ci sono in questo momento»: precisazione letta nel Pdl come ennesima stoccata a Berlusconi. Ma soprattutto, promet­te di lasciare qualche livido l’accenno di Fini alle stragi di ma­fia e all’esigenza di «non dare neanche il lontano sospetto di non volere accertare la verità»: sebbene il passaggio sia stato preceduto e bilanciato dalla solidarietà al Cavaliere per l’«acca­nimento giudiziario» di alcune Procure.

Ma il Pdl non è lo stesso di sei mesi fa. Si sono cristallizzati nuovi rapporti di forza interni, e la disponibilità a sopportare gli attacchi è calata. Oltre tutto, la controverità di Fini arriva proprio mentre Berlusconi non esita a definirsi il miglior capo del governo «degli ultimi 150 anni»; e viene bersagliato dai giornalisti stranieri sulla sua vita privata al vertice Italia-Spa­gna. Probabilmente, il premier si aspettava applausi e solida­rietà da tutto il Pdl. Il presidente della Camera, però, non pote­va concederglieli senza contraddire una traiettoria dagli appro­di ormai imprevedibili.

Massimo Franco
11 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #63 inserito:: Ottobre 07, 2009, 04:13:19 pm »

LA NOTA

Una sentenza destinata a far nascere comunque un partito di scontenti

Un’attesa nervosa per la decisione della Corte costituzionale


La sentenza della Corte costituzionale arriverà stasera o domani. E già l’attesa nervosa, quasi la sospensione della vita politica del Paese trasmette la sensazione di una vicenda patologica. Ma soprattutto, che il «lodo Alfano» sia dichiarato legittimo, o sia in qualche modo rimesso in discussione, difficilmente la tensione si allenterà. Il rapporto fra politica e giustizia sembra destinato a continuare sotto il segno del conflitto. E le elezioni regionali del prossimo anno promettono di intensificare le polemiche ed i veleni. La maggioranza di governo oscilla fra la presa d’atto rispettosa di quanto deciderà la Consulta, e l’insofferenza per qualunque sorpresa sgradita.

L’insistenza sul primato del «popolo sovrano», comunque vada a finire, serve ad esorcizzare una crisi di governo; e a riaffermare l’investitura di Silvio Berlusconi attraverso le urne. Se il presidente del Consiglio dovesse affrontare i processi sospesi dalla legge che protegge le prime quattro cariche dello Stato, la situazione diventerebbe pesante. Ma anche in caso contrario, il «lodo Alfano» è destinato a diventare il pretesto di un conflitto senza fine. La virulenza con la quale Antonio Di Pietro continua a lanciare avvertimenti alla Corte in vista della sentenza, è almeno speculare alle voci più estreme del centrodestra.

La sua minaccia di indire un referendum per abolire il provvedimento prefigura mesi nei quali Berlusconi sarà additato come un imputato privilegiato. L’accusa di godere di un’immunità tanto speciale quanto inaccettabile è condivisa da tutti, nell’universo dipietrista e in buona parte del centrosinistra: anche se alcuni costituzionalisti mettono in evidenza che si tratta non di immunità ma di una sospensione dei processi. Su questo sfondo, l’atteggiamento di Pdl e opposizione verso la Consulta tende a coincidere negativamente: nel senso che accettano solo in teoria la decisione che sarà presa nelle prossime ore.

Per quanto emessa in base a considerazioni di legittimità costituzionale, la sentenza sarà letta come il riflesso di un orientamento politico; e dunque scontenterà comunque qualcuno. Con le elezioni regionali nel marzo del 2010, c’è da scommettere che i delusi brandiranno il «lodo Alfano», e non solo, come arma elettorale. Gli avvocati di Berlusconi spiegano gli attacchi di cui sono oggetto come tentativi di condizionare la Corte. E le critiche al limite del vilipendio che Di Pietro ha rivolto a Giorgio Napolitano potrebbero, si dice, far partire un’inchiesta della Procura di Roma. Ma l’ex magistrato e leader dell’Idv rivendica le parole dure contro il Quirinale.

Anzi, sembra convinto che un’inchiesta del genere possa rafforzare il suo ruolo di oppositore-principe di un sistema ritenuto subalterno al capo del governo, arginando la concorrenza interna di De Magistris. I giudizi sferzanti contro il presidente della Repubblica, reo di aver firmato lo «scudo fiscale»; gli altolà alla Consulta sul «lodo Alfano»; la minaccia di referendum: sono tappe di una strategia che mette in conto un crescendo polemico funzionale alla crescita elettorale di un’area minoritaria, convinta che l’offensiva contro il premier e le presunte debolezze di Napolitano e del Pd moltiplicheranno i suoi consensi.

Massimo Franco

07 ottobre 2009
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« Risposta #64 inserito:: Ottobre 08, 2009, 11:36:30 am »

LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE

I danni di un conflitto


Per quanto tormen­tata e contestata, la decisione della Corte costituzio­nale ha avuto il merito della chiarezza. Forse troppa, perché Silvio Ber­lusconi potesse incassare un verdetto di illegittimi­tà del «Lodo Alfano» sen­za reagire. I suoi giudizi li­quidatori e irrispettosi sulla Consulta «di sini­stra » e sul presidente del­la Repubblica, Giorgio Na­politano, tacciato di esse­re di parte, non hanno nulla di emotivo né di estemporaneo. Il capo del governo ha deciso di contrapporre la propria legittimazione elettorale a quelle istituzioni che, nella sua ottica, lo delegit­timano senza avere die­tro «il popolo». Si tratta di una sfida al rialzo, fi­glia di un azzardo calcola­to.

Il paradosso è che fa di­ventare il Quirinale il pa­rafulmine del premier e del suo più acerrimo av­versario, Antonio Di Pie­tro. Ed ha come contrac­colpo un conflitto istitu­zionale aggravato dalla frustrazione di un Berlu­sconi che sostiene di sen­tirsi preso in giro: come se avesse confidato fino all’ultimo in una senten­za favorevole. Sui prossi­mi mesi si proietta il peri­colo di fratture a ripetizio­ne fra le massime cariche del Paese. È come se insie­me al «Lodo Alfano» che sospendeva i processi per le prime quattro, fos­se stata spazzata via an­che la tregua, se non la concordia, che aveva ret­to in questi mesi fra palaz­zo Chigi e Quirinale. Inve­ce di far dimenticare le parole in libertà dette da maggioranza e opposizio­ne negli ultimi giorni, la decisione della Consulta le moltiplica.

Non è l’epilogo di una stagione, però. L’offensi­va segna l’inizio dell’en­nesimo scontro dopo una sentenza non attesa, ma certamente temuta: un conflitto che Berlusco­ni ritiene di poter affron­tare da posizioni magari disperate ma di forza. Co­stringe il centrodestra a guardare in faccia la real­tà di una maggioranza scossa da una decisione che colpisce il suo presi­dente del Consiglio. Se pure non sarà facile go­vernare e affrontare i pro­cessi sospesi dal «Lodo Alfano», già in passato Berlusconi lo ha fatto. No­nostante la sua ira fred­da, il sentiero che deve percorrere appare obbli­gato anche adesso. Perfi­no più di prima: se non al­tro per l’investitura che il centrodestra ha ricevuto nel 2008; e che le Euro­pee della primavera scor­sa hanno puntellato.

Il paradosso di un lea­der consacrato dal voto popolare e a rischio di lo­goramento per una sen­tenza che gli riapre le por­te dei tribunali è destina­to a pesare sul futuro poli­tico dell’Italia.

L’eco internazionale, spesso malevo­la, che circonda la saga berlusconiana, promette di crescere fino a diventare as­sordante. Ma se vengono lette corretta­mente, le sconfitte si possono gestire. Il presidente del Consiglio rimane l’unico punto di equilibrio non solo della mag­gioranza, ma del sistema. Non c’è trac­cia di un’opposizione in grado di candi­darsi alla guida del Paese. E nel governo c’è piena consapevolezza che i rapporti di forza saranno verificati alle Regionali del 2010; e d’accordo con Berlusconi, non contro di lui.

Per questo non esiste altra strada che andare avanti; e concentrarsi ancora di più sull’attività di governo, pur con il Ca­valiere nella doppia veste di presidente del Consiglio e di imputato. Non signifi­ca esorcizzare la battuta d’arresto di ieri, né sottovalutarne l’impatto politico e psicologico. Si tratta semmai di capire che il suo peso è stato esagerato dal so­vraccarico di significati più o meno stru­mentali che parte della maggioranza e dei suoi avversari hanno voluto assegna­re alla sentenza. In più, la decisione è ar­rivata dopo l’approvazione dello «scudo fiscale», per il quale è stato criticato lo stesso Quirinale. Insomma, l’impressio­ne è che le chiavi della stabilità continui­no a essere nelle mani di Berlusconi e dei suoi alleati: della Lega, soprattutto.

I segnali arrivati da Umberto Bossi, quando ancora non era stata comunica­ta la sentenza della Corte costituzionale sul «lodo Alfano», sono stati ambigui: una miscela di aggressività demagogica e di cautela politica.

Minacciare, come ha fatto il ministro, «l’ira del popolo» in caso di bocciatura, è apparso un gesto ai limiti dell’irre­sponsabilità. In parallelo, però, Bossi e con lui il presidente della Camera, Gian­franco Fini, hanno escluso il voto antici­pato, riconoscendo il dovere di governa­re; e confermando che saranno le Regio­nali a dire quanto non solo Berlusconi ma l’intera coalizione siano ancora forti. D’altronde, a volere la scorciatoia eletto­rale in un momento come questo posso­no essere soltanto i teorici del «tanto peggio tanto meglio». L’incognita è se, pur senza volerlo, il centrodestra finirà per assecondare la deriva.

Massimo Franco

08 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #65 inserito:: Ottobre 24, 2009, 06:22:52 pm »

LA NOTA

Riemerge l’asse del Nord ma non riesce a spezzare l’assedio all’Economia

Bossi avverte che difenderà Tremonti ma il Pdl cerca di ridimensionarlo


Lo scudo di Umberto Bossi continua a proteggerlo senza crepe visibili. Ma il solo fatto che il capo del­la Lega debba spendere tutto il proprio peso politi­co a difesa di Giulio Tremonti sottolinea un’anomalìa. Accredi­ta, anzi esagera l’immagine di un ministro dell’Economia asse­diato da una parte della maggioranza: quella dello stesso Pdl. Materializza un tentativo almeno di ridimensionarlo, se non di costringerlo alle dimissioni. E finisce per fare emergere più an­cora di prima un «asse del Nord» con il Carroccio, che dà fiato a quanti nel centrodestra additano uno sbilanciamento «leghi­sta » di Tremonti, ed invocano una politica più equilibrata: an­che se rimane da capire fino a che punto Silvio Berlusconi vo­glia dare corda ai malumori diffusi contro la politica finanziaria del ministro, e correggerne l’impostazione.

La fioritura di documenti economici all’interno del Pdl sem­bra fatta apposta per innervosire Tremonti e dare l’impressione dell’accerchiamento. E pazienza se alcune proposte sono consi­derate condivisibili ma altre assumono contorni sconcertanti come quella attribuita al ministro Renato Brunetta, corredata da schemi calcistici. Come risultato si offre comunque un’im­magine della maggioranza che le versioni benevole raffigurano dedita ad un braccio di ferro tra politiche economiche contra­stanti; e le più maliziose, prigioniera di una confusione senza sbocchi. Perfino il ritardo col quale ieri il presidente del Consi­glio è rientrato da San Pietroburgo dopo i colloqui col premier russo Putin è stato letto in chiave tutta interna.

Proprio da Tremonti che in Consiglio dei ministri avrebbe at­tribuito ironicamente il mancato arrivo non al maltempo ma «ad una nebbia fitta, molto fitta». Una nebbia velenosa, a sentire Bossi. «C’è un tentativo di fare fuori Tremonti, ma io lo proteg­go », ha detto ieri mattina, senza giri di parole. Un modo per de­nunciare la manovra e dramma­tizzarla; e costringere il centrode­stra a misurare fino in fondo i contraccolpi di una destabilizza­zione del ministro dell’Economia. La sensazione, tuttavia, è che non esista nessun piano per scalzare Tremonti. Il tentativo è semmai di piegare quelle che il collega di governo, Claudio Scajola, definisce «spigolosità».

Riaffiora la vecchia accusa di impedire scelte collegiali; di te­nere i cordoni della borsa troppo stretti; e di non «fare squa­dra » con altri esponenti governativi. Un malumore che adesso diventa pressione non tanto su Tremonti, ma su Berlusconi. La richiesta implicita è a riprendere in mano i fili strategici della politica economica in vista della campagna elettorale; che con­ceda almeno parte di quegli stanziamenti resi impossibili dai vincoli di bilancio imposti dal Tesoro. Da questo punto di vista, è vero che Tremonti ha avuto ed ha un ruolo difficilmente inter­cambiabile. La sua tutela arcigna dei conti pubblici, per quanto irritante agli occhi di alcuni colleghi di governo, finora non ha avuto alternative: anche se ha accontentato perfino alcuni setto­ri leghisti, timorosi di vedere un federalismo sacrificato sull’al­tare della crisi.

La sicurezza con la quale ieri Tremonti ha spiegato ai «gover­natori » regionali che la riduzione dell’Irap sarà decisa rispettan­do il federalismo fiscale è indicativa. Significa declassare ad an­nuncio la proposta avanzata il giorno prima da Berlusconi. D’al­tronde, lo stesso sottosegretario a palazzo Chigi, Gianni Letta, ha confermato una riforma non immediata ma graduale e com­patibile con l’equilibrio del bilancio. Sono segni di «grande con­fusione sulle scelte economiche», ne deduce Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc. Anche se nello scontro apertosi nel cen­trodestra l’opposizione è cauta. «Ho stima del ministro dell’Eco­nomia », dice di Tremonti Massimo D'Alema, del Pd. «Ma riten­go che abbia affrontato la crisi come una parentesi, badando più al controllo della finanza pubblica che alle riforme; e dicen­do troppo presto che era finita». Il centrosinistra non capisce bene come andrà a finire. E nel limbo fra le primarie e lo scanda­lo che sta travolgendo il suo governatore nel Lazio, Piero Mar­razzo, osserva: da spettatore interessato ma soprattutto preoc­cupato.

Massimo Franco

24 ottobre 2009
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« Risposta #66 inserito:: Novembre 18, 2009, 10:10:47 am »

L'analisi

La tentazione della scorciatoia


La minaccia di elezioni anticipate co­mincia ad assumere contorni più corposi. Ed anche discutibili. Il modo in cui il presidente del Senato, Renato Schifani, ieri ha posto agli alleati l’aut aut fra compattezza della maggioranza ed interruzione della legislatura non può essere sottovalutato.

Il prestigio del suo ruolo impone di analizzare le parole seriamente, nonostante si inseriscano in uno sfondo di nervosismo e di confusione della maggioranza; e sembrino rivolte più all’interno del centrodestra che al Paese.

La prima osservazione è che l’iniziativa è stata presa mentre Giorgio Napolitano si trova in visita ufficiale in Turchia. Si sa che il potere di sciogliere le Camere spetta al presidente della Repubblica. Il fatto che la seconda carica istituzionale ipotizzi uno scenario così traumatico in sua assenza, fa pensare che lo scarto rifletta gli umori di palazzo Chigi; e finisca per alimentare il gelo fra premier e capo dello Stato. Schifani dà voce ai brontolii della «pancia» di un universo berlusconiano spaventato dalla piega che stanno prendendo le cose.

Di fronte alle spinte centrifughe nel centrodestra e alle ombre giudiziarie che si proiettano sul capo del governo, evidentemente cresce la tentazione della scorciatoia. Si tratta di un piano arrischiato. Ed è singolare che a evocarlo sia il presidente del Senato: tanto più che Gianfranco Fini aveva appena spiegato perché votare sarebbe un mezzo suicidio. La stessa Lega non vuole le elezioni anche se tecnicamente il federalismo fiscale sopravvivrebbe alla caduta del governo. Per una maggioranza alla quale neppure due anni fa gli italiani hanno assegnato il diritto ed il dovere di governare, rispedire il Paese alle urne certificherebbe un fallimento. È vero che l’opposizione sta appena cominciando a riorganizzarsi, ma politicamente il voto anticipato equivarrebbe ad una manifestazione di impotenza.

Lo scontro fra una parte della maggioranza e della magistratura, alleata con pezzi di opposizione, è radicalizzato da pregiudizi reciproci che hanno un sapore rancido. Ma non può essere risolto dagli elettori: anche perché lo hanno già fatto nel 2008 consegnando palazzo Chigi a Berlusconi. Adesso tocca al governo ed al Parlamento dare seguito agli impegni presi; e possibilmente anche ad un centrosinistra che fatica ad emanciparsi dalle pressioni più estremiste. Non c’è solo la riforma della giustizia in una fase di crisi che impone risposte, non paralisi.

È possibile che la fine della legislatura sia stata additata per indurre gli scettici del centrodestra, Fini in testa, ad abbandonare ogni esitazione e remora; e ad approvare quanto prima la legge sul «processo breve» che dovrebbe permettere a Berlusconi di affrontare in modo più tranquillo i suoi impegni di premier. Ma è legittimo dubitare che le parole di Schifani aiuteranno a rasserenare il clima. Per paradosso, rischiano di avvelenarlo ulteriormente.

Il risultato è di mostrare un Pdl caricaturale, in preda ad una specie di «sindrome dell’Unione»: un istinto autodistruttivo che nel caso della coalizione prodiana almeno era giustificato dall’assenza di una vera maggioranza e di un progetto comune.


Massimo Franco

18 novembre 2009
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« Risposta #67 inserito:: Novembre 20, 2009, 11:47:28 am »

LA NOTA

Una tregua improvvisa che conferma la Lega perno della stabilità

Dopo il caso Schifani uno scenario di tensioni tra Pdl e Quirinale


La tregua si è imposta con una tale rapidità che viene osservata con una comprensibile dose di cautela. Un presidente del Senato che prima evoca elezioni anticipate e poi, di fronte alla correzione di rotta di Silvio Berlu­sconi, assicura che «la maggioranza è coesa e si va avanti senza il voto», fa riflettere. Deve avere convinto a metà un po’ tutti, nono­stante il coro di pacificazione che arriva da gran parte del Pdl e da palazzo Chigi. Lo stesso Giorgio Napolitano, dopo aver liquidato con flemma l’uscita di tre giorni fa di Renato Schifani, lascia capi­re che al ritorno dalla Turchia «probabilmente» lo incontrerà.

Segno che c’è ancora qualche aspetto da chiarire. Ma a mante­nere la situazione confusa è soprattutto l’impressione che i rap­porti nel centrodestra restino tesi. «Ovvio che se si rompe il patto elettorale si va al voto», conferma il coordinatore del Pdl, Sandro Bondi. Dietro l’ufficialità, premier e Lega continuano a diffidare di Gianfranco Fini. L’ultimo episodio è di ieri. Fini ha detto in un convegno che «democrazia non signi­fica solo fare le elezioni... Anche Hit­ler è andato al potere con un plebisci­to ». Allusione innocua ma potenzial­mente esplosiva. «Se lo riferite all’Ita­lia vi porto in tribunale», ha scherza­to. Ma la precisazione dà il segno di un rapporto in bilico con Berlusconi. Se a questo si aggiungono le «grosse difficoltà» che Napolitano intravede in Parlamento insieme a «qualche spi­raglio » sulle riforme, ritorna un’om­bra spessa fra governo e Quirinale. «Attendiamo con la massima atten­zione i rilievi» del capo dello Stato, annuncia a nome del Pdl, Fa­brizio Cicchitto: parole che suonano come atto di omaggio e insie­me di sfida.

Si ricorda che la maggioranza si sarebbe sobbarcata il peso del­la crisi economica e dell’eredità di «esperienze passate». Insom­ma, gli appunti del capo dello Stato sono accolti con una punta di irritazione. Per ora la scorciatoia elettorale non è stata imboccata. Ma sulle ragioni della frenata rimane un alone di mistero. Influi­sce senz’altro il silenzio pesante del Colle, stupito dal modo irri­tuale col quale se n’è parlato: la mossa di Schifani dava per sconta­ti passaggi parlamentari che non lo sono affatto. E forse è stata sottovalutata l’«ala finiana».

Ma la stessa Lega sembra perplessa, confermandosi in questa fase il perno della stabilità. Il leader Umberto Bossi e Roberto Ca­stelli ritengono che interrompere la legislatura possa essere solo «l’ultima spiaggia»: un estremo atto di lealtà al premier. E poi, esiste un «partito del 2013» trasversale e contrario al «tutti a ca­sa » anticipato. Dettaglio ulteriore: il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, avverte che in caso di crisi Napolitano dovrebbe cercare un’altra maggioranza parlamentare. Per il Pdl, significa analizzare ogni scenario da una inedita posizione di incertezza.

Massimo Franco

20 novembre 2009
da corriere.it
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« Risposta #68 inserito:: Novembre 25, 2009, 03:42:44 pm »

LA NOTA

Il paradosso del governo Avanti sull’economia bloccato sui processi

Aumenta la confusione sul «processo breve».

Si conferma l’asse Lega-premier


Le convulsioni sui rapporti fra governo e magi­stratura, e la cauta soddisfazione sull’andamen­to dell’economia, fotografano il paradosso di una coalizione che sembra in bilico eppure non può cadere. La legge sul «processo breve» rimane assediata dall’incertez­za e dai veleni. E ieri il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha invitato a non confonderla con la riforma della giu­stizia. Ma intanto il ministro dell’Economia, Giulio Tremon­ti, rivendica come un risultato straordinario che siano state fatte «cose normali in un periodo non propriamente norma­le ». La cena di ieri da Silvio Berlusconi, con Tremonti e con Umberto Bossi, conferma un’alleanza imperniata sul rappor­to fra Pdl e Lega.

Si tratta di una mezzadrìa politica che tende a dare comun­que una soluzione al problema della durata dei processi nei quali è coinvolto il presidente del Consiglio: la considera il miglior antidoto contro l’instabilità e contro la tentazione di interrompere la legislatura. Non a caso ieri il Carroccio ha sostenuto che non è la politica a voler mettere sotto tutela i magistrati ma semmai il contrario: almeno da parte di «alcu­ni pm». In realtà, non c’è ancora un testo capace di mettere d’accordo l’intera maggioranza e di ottenere almeno la neu­tralità dell’opposizione. Esiste un’intesa da riempire.

In parte pesa il voto di prima­vera per le regionali, che rende Pd e Udc ancora più duri verso Berlusconi, avvicinandoli al­l’estremismo dipietrista. Ma la confusione nel centrodestra contribuisce a rendere i prossi­mi giorni estremamente nervo­si. Per come è stata formulata fi­nora, la legge sul «processo bre­ve » semina perplessità trasver­sali. Il pericolo che vengano pre­scritti molti processi è reale, al di là della guerra di percentuali fra Anm e governo.

Il timore di palazzo Chigi è che le proposte di mediazione arrivate sia da Pier Ferdinando Casini, sia dallo stesso presi­dente della Camera, Fini, rischino di intrappolare il premier; di costringerlo ad una trattativa logorante. «Mi metto a ride­re quando leggo che penserei ad un complotto», si è difeso ieri Fini a Milano. Presentando il suo libro nella sede del Cor­riere , ha rifiutato i panni di «eretico» del Pdl, rivendicando il diritto a chiedere equilibrio fra rafforzamento di governo e Parlamento. Poi ha aggiunto che non sarebbe andato ad Ar­core. «Ceno con le mie figlie», ha glissato sull’incontro Berlu­sconi- Bossi-Tremonti, confermando un asse che lo esclude.

Il fatto che il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, abbia su­bito accolto l’idea finiana di discutere la durata dei processi ripartendo da una vecchia proposta di Luciano Violante, non cancellerà la diffidenza degli alleati. Anzi, sembra destinato a farla lievitare. L’insistenza della Lega sulla necessità di go­vernare e di completare le riforme lascia capire che non ci sono alternative rispetto a quella di andare avanti; e di trova­re una qualche via d’uscita per le vicende processuali del pre­sidente del Consiglio. Ma più passano i giorni, più cresce la consapevolezza delle difficoltà. Problemi oggettivi, legati al­la complessità della materia e all’impopolarità che una legge incostituzionale potrebbe rappresentare per il governo. Ma anche ostacoli strumentali, seminati da chi indovina una si­tuazione confusa; e in fondo vuole che rimanga tale.

Massimo Franco

25 novembre 2009
da corriere.it
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« Risposta #69 inserito:: Novembre 27, 2009, 11:10:21 am »

LA NOTA

Campagna d'inverno che rompe l'assedio e cerca di isolare Fini


La parola più usata è stata «processo»: in senso lette­rale e metaforico. Ma Silvio Berlusconi ieri l’ha evo­cata per uscire dal bunker nel quale il centrodestra è stato spinto dal braccio di ferro con la magistratura e l’opposizio­ne. In parte, il Pdl c’è riuscito, riproponendo come legge costituzio­nale il «lodo Alfano» bocciato dalla Consulta; e insistendo sull’ac­corciamento dei tempi processuali. Le tensioni, però, non diminui­scono, anzi. Il presidente del Consiglio accusa alcuni giudici di «de­riva eversiva». Vede una sorta di «guerra civile fra poteri dello Sta­to », anche se l’espressione è stata smentita da palazzo Chigi.

La tesi berlusconiana è che si punti a far cadere il governo. Ma il premier conferma anche l’irritazione verso alcuni alleati. «Il parti­to decide a maggioranza», ha detto. «Chi non si adegua è fuori». Il riferimento sembra in primo luogo al presidente della Camera. I distinguo di Gianfranco Fini sulla giustizia, sull’immigrazione, sui rapporti Governo-Parlamento ap­paiono indigesti. Per palazzo Chi­gi, a giustificarli non basta il ruolo istituzionale. La sensazione è che il premier voglia esasperare i contrac­colpi politici che le inchieste sicilia­ne e le rivelazioni di alcuni pentiti stanno provocando. L’obiettivo ap­pare doppio: ricompattare una coa­lizione slabbrata, e dare un segnale a quella parte dell’opposizione non ostile in modo pregiudiziale alla ri­forma della giustizia. Accettare il percorso costituzionale per la leg­ge che esclude dai processi le prime cariche dello Stato serve a rom­pere l’assedio.

Ma non è scontato che la manovra riesca. La reazione del Pd, e dell’Idv che parla di scenari golpisti, conferma un clima avvelena­to; e l’atteggiamento di Fini resta un’incognita. Ma dopo un lungo silenzio Berlusconi ha deciso la sua «campagna d’inverno», con toni allarmati e ultimativi: tipici di chi chiede di serrare i ranghi. È un ultimatum per ottenere dalla coalizione un «sì» senza condizio­ni al «processo breve» che dovrebbe sottrarlo alle inchieste nelle quali è imputato. C’è da chiedersi, tuttavia, che cosa accadrà se continueranno i distinguo di una parte del Pdl. La minaccia neppu­re troppo velata di espulsione dei dissidenti è facile in linea teori­ca, meno in concreto. Forse, potrebbe avere una sua logica se pren­desse corpo il voto anticipato, che impone la disciplina di partito. L’aut aut di ieri assumerebbe il sapore di un appello preelettorale. Ma non si è ancora a questo punto; né è detto che ci si arrivi.

Massimo Franco

27 novembre 2009
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« Risposta #70 inserito:: Dicembre 09, 2009, 04:35:53 pm »

LO scontro tra Lega e Tettamanzi

Cattolici senza casa


Le tensioni fra parti­ti e mondo cattoli­co segnalano una novità che travali­ca i singoli episodi. Non si tratta della diaspora politi­ca. Quella è cominciata da anni, ormai: da prima anco­ra che finisse la Dc. La cesu­ra è rappresentata dall’irri­levanza crescente dei politi­ci che si presentano come «cristiani» nelle file della maggioranza e dell’opposi­zione; ma anche dalla diffi­coltà dei vescovi italiani e del Vaticano a pesare sulle scelte del governo e sugli equilibri di potere. È il risul­tato della parabola iniziata­si con la Seconda Repubbli­ca; passata attraverso tenta­tivi tormentati di equidi­stanza fra gli schieramenti; e conclusasi con una situa­zione nella quale il ceto po­litico cattolico in quanto ta­le, dovunque stia, tende ad essere sempre meno rap­presentativo e a non sentir­si rappresentato: quasi sfrattato e senza casa. Si tratta di un’evoluzione che ha vissuto momenti trau­matici e non sempre limpi­di; ma che per paradosso può costituire un elemento di chiarezza.

Nel centrodestra, questa caduta di influenza è avva­lorata da due fatti recenti. Il primo è stato l’aggressio­ne a Dino Boffo, direttore di «Avvenire», che alla fine si è confermata solo un’operazione per intimidi­re la Chiesa. Il secondo è la polemica ruvida della Lega contro l’arcivescovo di Mi­lano, Dionigi Tettamanzi, accusato di «clericalismo di sinistra». Al di là delle differenze, i due episodi ri­velano un centrodestra che si sente abbastanza forte da sostenere un braccio di ferro con il Vaticano ed i ve­scovi italiani. Pensa di poterlo fare in base ad un’analisi fredda dei rapporti di forza. Sa in­fatti che la Chiesa è divisa, e soprattutto che non orien­ta più come prima l’eletto­rato. Silvio Berlusconi e Umberto Bossi hanno iden­tità e consensi in proprio: dal 1994 hanno vinto da so­li. Un asse con le gerarchie cattoliche, se esiste, funzio­na soltanto fino a che non confligge con l’agenda non solo vaticana, ma governa­tiva. E infatti, nel momen­to dello scontro Pdl e Lega non hanno esitato a far pre­valere le loro priorità.

Nel centrosinistra, si chiude il cerchio di un al­lontanamento progressi­vo. La mini-scissione di Francesco Rutelli e l’uscita di singoli «cattolici a disa­gio » dilatano la sensazione di un Pd inospitale. In real­tà, l’elezione del segretario Pierluigi Bersani non è la causa dell’irrilevanza degli ex popolari: sembra piutto­sto la presa d’atto della lo­ro scarsa incidenza. Si stan­no dunque esaurendo un filone ed una presenza. E l’Udc, sulla quale il mondo cattolico nutre qualche dubbio, appare in grado magari di arginare, ma cer­to non di invertire il pro­cesso.

Questo, però, dovrebbe permettere alla Chiesa di ri­prendere possesso di spazi che le sono propri, senza essere frenata da malintesi collateralismi. Gli indizi di un ruolo ritrovato si intra­vedono in materia di immi­grazione, politica della fa­miglia, rapporti fra etica e informazione, coesione na­zionale. Anticipano una fa­se più appartata sul piano politico e meno ipotecata dal timore di turbare equili­bri di governo sui quali Santa Sede e Cei possono influire meno del passato: sebbene forse se ne renda­no conto solo ora.

Massimo Franco

09 dicembre 2009
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« Risposta #71 inserito:: Dicembre 10, 2009, 10:28:47 am »

LA NOTA

Un centrodestra nervoso accentua le incognite nel rapporto con i pm

Scontro duro tra Alfano e l’Anm. Crescono i dubbi sul «processo breve»


Il fronte fra governo e magistratura rimane aperto, e per­corso dal nervosismo. La legge sul «processo breve» ri­mane sullo sfondo come motivo di scontro e di polemi­che. Eppure, nonostante il centrodestra continui a sostenerlo, crescono i dubbi sulla sua fattibilità: troppo complicato da scrive­re; troppo dirompente per le ricadute che potrebbe avere sul si­stema giudiziario; e bollato proprio ieri come incostituzionale da un parere del Csm. Il Pd chiede al governo di ritirarlo, conferman­do che rimane un’arma polemica. Per questo, si ha la sensazione che al provvedimento si affianchi l’opzione del «legittimo impe­dimento » .

È la norma con la quale Silvio Berlusconi potrà sottrarsi alle udienze nei processi che lo riguardano, a meno che la convocazio­ne non confligga con i suoi impegni istituzionali. Ma l’ipotesi che possa ricevere il «sì» del Parlamento entro dicembre è improbabi­le. Ieri il presidente della commis­sione Giustizia, Giulia Bongiorno, ha parlato di gennaio. Il fatto che esistano diverse proposte «dimo­stra che il problema va affrontato», secondo la parlamentare del Pdl. L’Udc di Casini sembra disponibile a discuterne. Dal Pd arrivano segna­li ostili ma non pregiudiziali.

Ad avvelenare lo sfondo rimango­no però le inchieste di mafia e lo scontro fra Angelino Alfano e l’Asso­ciazione nazionale magistrati. Al mi­nistro della Giustizia che chiedeva ai pm di lavorare di più e andare meno in tv, l’Anm replica defi­nendo «legittima» la «presenza pubblica dei magistrati»; e soste­nendo che sono le aule giudiziarie e le sentenze a parlare per loro. Dal 20 al 27 gennaio hanno deciso di mobilitarsi: apriranno i tribu­nali per mostrare in quali condizioni difficili lavorano.

«L’Anm si comporta da partito politico», accusa il Pdl. E rilan­cia i sospetti sul modo in cui alcune procure siciliane usano i pentiti di mafia. Si tratta di un braccio di ferro destinato a dura­re; ed a riservare altri picchi di tensione. Ieri il procuratore gene­rale antimafia, Piero Grasso, ha replicato indirettamente ad Alfa­no e a Berlusconi, avvertendo che la legge sui pentiti non può essere toccata. In più, rimane acuta la polemica sulle sedi disa­giate. Ma ad alimentare la confusione sono i contrasti nel Pdl.

Le diffidenze fra palazzo Chigi e presidenza della Camera non sono superate. La decisione del centrodestra di rinviare a gennaio la legge sulla cittadinanza agli immigrati è stata letta come uno sgarbo a Fini. E la notizia di una «bonifica» anti-intercettazioni nell’appartamento del presidente della Camera non rasserena il clima. Ogni passaggio sottolinea l’affanno della coalizione; e fa crescere il sospetto di una resa dei conti solo rinviata. Il voto di oggi sul sottosegretario Cosentino, per il quale i magistrati di Na­poli chiedono l’arresto, può diventare un termometro indicativo.

Massimo Franco

10 dicembre 2009
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« Risposta #72 inserito:: Dicembre 10, 2009, 10:31:51 am »

Lo scontro tra lega e Tettamanzi

Cattolici senza casa


Le tensioni fra parti­ti e mondo cattoli­co segnalano una novità che travali­ca i singoli episodi. Non si tratta della diaspora politi­ca. Quella è cominciata da anni, ormai: da prima anco­ra che finisse la Dc. La cesu­ra è rappresentata dall’irri­levanza crescente dei politi­ci che si presentano come «cristiani» nelle file della maggioranza e dell’opposi­zione; ma anche dalla diffi­coltà dei vescovi italiani e del Vaticano a pesare sulle scelte del governo e sugli equilibri di potere. È il risul­tato della parabola iniziata­si con la Seconda Repubbli­ca; passata attraverso tenta­tivi tormentati di equidi­stanza fra gli schieramenti; e conclusasi con una situa­zione nella quale il ceto po­litico cattolico in quanto ta­le, dovunque stia, tende ad essere sempre meno rap­presentativo e a non sentir­si rappresentato: quasi sfrattato e senza casa. Si tratta di un’evoluzione che ha vissuto momenti trau­matici e non sempre limpi­di; ma che per paradosso può costituire un elemento di chiarezza.

Nel centrodestra, questa caduta di influenza è avva­lorata da due fatti recenti. Il primo è stato l’aggressio­ne a Dino Boffo, direttore di «Avvenire», che alla fine si è confermata solo un’operazione per intimidi­re la Chiesa. Il secondo è la polemica ruvida della Lega contro l’arcivescovo di Mi­lano, Dionigi Tettamanzi, accusato di «clericalismo di sinistra». Al di là delle differenze, i due episodi ri­velano un centrodestra che si sente abbastanza forte da sostenere un braccio di ferro con il Vaticano ed i ve­scovi italiani. Pensa di poterlo fare in base ad un’analisi fredda dei rapporti di forza. Sa in­fatti che la Chiesa è divisa, e soprattutto che non orien­ta più come prima l’eletto­rato. Silvio Berlusconi e Umberto Bossi hanno iden­tità e consensi in proprio: dal 1994 hanno vinto da so­li. Un asse con le gerarchie cattoliche, se esiste, funzio­na soltanto fino a che non confligge con l’agenda non solo vaticana, ma governa­tiva. E infatti, nel momen­to dello scontro Pdl e Lega non hanno esitato a far pre­valere le loro priorità.

Nel centrosinistra, si chiude il cerchio di un al­lontanamento progressi­vo. La mini-scissione di Francesco Rutelli e l’uscita di singoli «cattolici a disa­gio » dilatano la sensazione di un Pd inospitale. In real­tà, l’elezione del segretario Pierluigi Bersani non è la causa dell’irrilevanza degli ex popolari: sembra piutto­sto la presa d’atto della lo­ro scarsa incidenza. Si stan­no dunque esaurendo un filone ed una presenza. E l’Udc, sulla quale il mondo cattolico nutre qualche dubbio, appare in grado magari di arginare, ma cer­to non di invertire il pro­cesso.

Questo, però, dovrebbe permettere alla Chiesa di ri­prendere possesso di spazi che le sono propri, senza essere frenata da malintesi collateralismi. Gli indizi di un ruolo ritrovato si intra­vedono in materia di immi­grazione, politica della fa­miglia, rapporti fra etica e informazione, coesione na­zionale. Anticipano una fa­se più appartata sul piano politico e meno ipotecata dal timore di turbare equili­bri di governo sui quali Santa Sede e Cei possono influire meno del passato: sebbene forse se ne renda­no conto solo ora.

Massimo Franco

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« Risposta #73 inserito:: Dicembre 11, 2009, 04:29:15 pm »

L'EDITORIALE

Veleni e rischi


La chiave per capi­re lo sfogo di Sil­vio Berlusconi da­vanti alla platea del Ppe, ieri a Bonn, è certa­mente l’esasperazione.
Troppi veleni e troppe ten­sioni, anche nel centrode­stra; e troppa incertezza. Al­trimenti, non si capirebbe come un presidente del Consiglio dotato di una maggioranza schiacciante possa dire che «la sovrani­tà è passata dal Parlamen­to al partito dei giudici». Lo stupore della platea fa pensare che il discorso sia stato iscritto più nella cate­goria delle stranezze italia­ne che in quella degli attac­chi alla democrazia, come sostiene l’opposizione: an­che se la scelta di parlare ad un congresso interna­zionale accentua l’imbaraz­zo. È come se da giovedì le ano­malie del Belpaese fossero state offerte al giudizio del­l’Europa. Le nazioni alleate sono state informate del rapporto tormentato fra magistratura e potere poli­tico; fra i processi e l’inve­stitura popolare di un capo di governo.

Il sospetto, pe­rò, è che il problema sia as­sai poco sentito fuori dai nostri confini; e che l’esportazione di un conflit­to istituzionale in una fase di crisi economica e finan­ziaria generalizzata sia ac­colta come un tema stacca­to dalla realtà. I contraccol­pi interni, però, ci sono: so­prattutto per il nuovo attac­co alla Consulta. Berlusconi, l’uomo che ha forgiato e dominato la Seconda Repubblica, sem­bra diventato il suo invo­lontario picconatore. Eppu­re, è convinto di non esse­re lui a sferrare i colpi che rischiano di lesionare il Pa­ese: si considera la vittima di una serie di sabotatori annidati in un potere sen­za legittimazione popola­re; e senza diritto di repli­ca. Ma in una lotta che ap­pare sempre più di soprav­vivenza, i rischi si moltipli­cano. Per questo il presi­dente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e quel­lo della Camera, Gianfran­co Fini, non potevano tace­re; e infatti la cosa più ru­morosa è il silenzio della seconda carica dello Stato, Renato Schifani. La «preoccupazione» ed il «rammarico» espressi da Napolitano fotografano una situazione in bilico.

Il fatto che Berlusconi abbia scelto di non replicargli di­mostra che la sua offensi­va non risponde ad una strategia a tavolino; che non c’è la volontà di rom­pere con il Quirinale, seb­bene le critiche del Pdl al presidente della Repubbli­ca segnalino un’ostilità strisciante. La prospettiva di un governo costretto a procedere per altri tre anni in un clima di conflittuali­tà così accentuata fa venire i brividi. Promette un logo­ramento ed una paralisi de­cisionale dei quali paghe­rebbe il prezzo il Paese, ol­tre che Berlusconi. Il premier ribadisce la volontà di rivoluzionare le istituzioni. Ma se davvero ne è convinto, non si spie­ga il senso di impotenza che filtra dalle sue parole sui giudici. Mai come in questi giorni si ha l’impres­sione di un Berlusconi combattuto fra voglia di uscire dall’accerchiamento tornando davanti al corpo elettorale, e consapevolez­za che il Paese gli chiede di governare. Per quanto giu­stificata da un contorno di veleni, l’esasperazione non è il consigliere migliore. E gli annunci non seguiti da scelte conseguenti posso­no rafforzare gli avversari.

Massimo Franco

11 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
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« Risposta #74 inserito:: Dicembre 12, 2009, 03:40:33 pm »

LA NOTA

Sul ruolo del Quirinale si riapre il duello fra premier e presidente

Pd e Fini difendono Napolitano. Dura replica di Berlusconi


Lo scontro è sull’«arbitro». E sembra destinato a rimettere l’uno di fronte all’altro Giorgio Na­politano e Silvio Berlusconi. L’altro ieri il capo del governo aveva criticato oltre alla Corte costituzionale e la magistratura anche il presidente della Repubblica. Ma di fronte alla risposta netta di Napolitano non aveva controre­plicato, evitando l’inasprimento di un contrasto già laten­te. Ieri, invece, Berlusconi ha consegnato il suo messaggio di ghiaccio sulle preoccupazioni che il Quirinale aveva espresso per lo scontro istituzionale. «In realtà ci si dovreb­be preoccupare per l’uso politico della giustizia», ha detto. «C’è una situazione di violenza solo nei miei confronti».

Il senso è chiaro: palazzo Chigi non farà nessuna marcia indietro rispetto alle dichiarazioni rilasciate al congresso del Ppe a Bonn, nonostante fossero dettate dall’esaspera­zione. Non solo. Nell’invito a Napolitano a difenderlo dai magistrati si indovina l’irritazione per l’isolamento anche istituzionale che il presidente del Consiglio ritiene di avere avvertito intorno a sé. Il riferimento è alla recente udienza del pentito di mafia Gaspare Spatuzza, che ha chiamato in causa Berlusconi ed il senatore Marcello Dell’Utri: un’accu­sa smentita dal mafioso Filippo Graviano al processo di Palermo. Per Berlusconi «siamo alle comiche». Ma lo dice con un sorriso amarissimo.

La scia di veleni lasciata da quelle deposizioni sta inve­stendo i vertici dello Stato. Gianfranco Fini sostiene che proprio le parole di Graviano dovrebbero indurre alla fidu­cia nei giudici. Ed invita impli­citamente il premier a ricono­scersi nel presidente della Re­pubblica, «arbitro imparziale anche quando sbaglia». È quanto ripetono gli esponenti dell’opposizione, per i quali Napolitano rappresenta un punto di resistenza agli attac­chi berlusconiani alla Costitu­zione. Lo schema che si va deli­neando, però, rischia di ottene­re effetti indesiderati, alimen­tando l’offensiva berlusconia­na su un presidente «di sinistra».

Non a caso il ministro degli Esteri, Franco Frattini, repli­ca a Fini che «primo arbitro è il popolo»: riproponendo la dicotomia fra la legittimazione costituzionale del capo del­lo Stato, e quella «di fatto» di un premier mandato al gover­no dagli elettori. E annuncia una lettera all’Ue per «spiega­re che cosa sia la magistratura in Italia». Il pericolo insito in questa diatriba è che senza volerlo, il centrosinistra tiri troppo a sé il Quirinale: un’operazione accentuata dalla so­lidarietà a Napolitano da Fini, in rotta di collisione sempre più evidente col Cavaliere. Pier Ferdinando Casini, del­­l’Udc, cerca una mediazione. «Contro Berlusconi», ammet­te, «c'è sicuramente accanimento di una certa magistratu­ra. Ma la sua reazione deve essere composta».

L’aspetto positivo è che, nonostante tutto, il presidente della Repubblica non si stanca di sottolineare l’esigenza di ritrovare un filo di serenità. Eppure, se la campagna per riformare la Costituzione «vecchia di decenni» continua con i toni che segnano questi giorni, fra capo del Governo e dello Stato le tensioni promettono di continuare; e forse di inasprirsi. Ed anche Napolitano, indietro non torna. A che cosa porti tutto questo continua a non essere chiaro. Ma il fantasma del voto anticipato incombe, sebbene ieri Berlusconi abbia assicurato di non avere pensato «nean­che una sola volta» ad elezioni: parole sottoscritte dalla Le­ga, a conferma che il partito di Umberto Bossi faticherebbe ad assecondare una scelta così traumatica. Il vicesegreta­rio del Pd, Enrico Letta, avverte che naufragherebbe il fede­ralismo. Ma non sembra sufficiente a fermare la deriva.

Massimo Franco

12 dicembre 2009
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