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« Risposta #30 inserito:: Marzo 10, 2009, 11:55:25 am » |
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LA NOTA
Per l’Udc ambizioni e incognite
La crisi del Pd apre un varco elettorale ma c’è lo scoglio del centrodestra
Ha sempre detto che la sua unica strategia poteva essere quella dell’attesa: aspettare che il bipolarismo si squagliasse, e restituisse qualche speranza all’Udc. Pier Ferdinando Casini è riuscito a sopravvivere alle politiche del 2008, e poi ai voti locali degli ultimi mesi. Ma la crisi del Pd sta offrendo ai centristi ambizioni ed illusioni inimmaginabili fino a qualche settimana fa. Non è soltanto la mano tesa di Enrico Letta, secondo il quale l’Udc rappresenta un alleato migliore di Antonio Di Pietro. La crisi economica è vista come un imprevisto che può accorciare i tempi lunghissimi ai quali Casini sembrava rassegnato.
I suoi attacchi al governo ed al centrosinistra sono un investimento in vista del voto europeo. Per questo le proposte di Dario Franceschini sull’assegno di disoccupazione vengono bollate come «slogan»; e si contesta l’idea attribuita al Pd di «sedersi sulla riva del fiume aspettando che il cadavere del governo passi». La sensazione è che Casini veda il disagio della scheggia moderata che votava a sinistra; e speri di calamitare i voti «liberati » dalla sconfitta del veltronismo e dall’involuzione che ne è seguita.
Il suo problema sarà comunque come spenderli. La polemica col centrodestra sul partito unico tende a fotografare in modo provocatorio un dato di fatto; ma segnala anche un limite della strategia dell’Udc. Sostenere che il Pdl è un progetto legato solo alla leadership berlusconiana, significa dire una cosa abbastanza vera. L’irritazione di An ed il suo invito perentorio all’Udc perché «scelga» confermano vecchi nervi scoperti. E Casini ha gioco facile a replicare che il centrismo in realtà è una scelta «scomoda».
Ma la polemica conferma anche un’altra verità: fino a che l’area moderata è presidiata dal Cavaliere, l’Udc è destinata a giocare su un perimetro stretto. Lo scongelamento del Pd può portare ai neocentristi consensi ma non una strategia. Sulla collocazione internazionale, sui temi etici e sull’economia, il partito di Casini è in sintonia più col centrodestra che col resto dell’opposizione: anche se ora punzecchia il governo sul testamento biologico perché lo definisce non urgente dopo avere proposto un decreto nei giorni roventi del caso Eluana.
Senza uno smottamento del perno del sistema bipolare, e cioè del berlusconismo, il rimescolamento sarà parziale. A meno che la crisi economica non faccia saltare gli equilibri emersi nel 2008. Sono indicative le ironie dell’Udc sul «gruzzoletto» evocato dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, per affrontare le difficoltà. Viene paragonato al «tesoretto » di cui parlava Tommaso Padoa Schioppa ai tempi dell’Unione prodiana. Ma c’è un’incognita, per Casini: il referendum elettorale di giugno. Se vincesse la spinta bipolare, l’Udc dovrebbe rassegnarsi a tornare ad una lunga attesa.
Massimo Franco
06 marzo 2009 da corriere.it
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« Risposta #31 inserito:: Marzo 23, 2009, 11:18:32 am » |
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Il commento al discorso di Fini
La nuova partita aperta dal leader
Non c'è soltanto assenza di nostalgia per la fine di An: le parole di Gianfranco Fini ieri trasudavano l'impazienza di voltare pagina, di lasciarsi alle spalle una vita e di cominciarne un'altra. Il capo della destra si è proposto non come concorrente di Silvio Berlusconi alla guida del Pdl, ma come leader di un futuro «partito della Nazione»: più trasversale del Cavaliere; laico; tollerante con gli immigrati; e attento al ruolo del Parlamento per bilanciare il presidenzialismo.
La sensazione è che nell'ottica del presidente della Camera il passato sia archiviato da tempo; ed il presente vada filtrato con un binocolo che guarda l'Italia di qui a dieci anni. È un'ottica che relativizza l'esistente: il Pdl, l'era berlusconiana, le vecchie identità. Il passo d'addio è una miscela di orgoglio e solitudine. Se pure Fini non ha detto esplicitamente ai suoi: «Da oggi, ognuno per sé», il suo lascito ad An è proprio in questi termini. Il ponte simbolico scelto per l'ultimo congresso non traghetta nel continente del Cavaliere un partito, ma una folla di singoli che dovranno guadagnarsi il proprio spazio vitale. Si tratta di una condizione politica scomoda, per una forza abituata a percepirsi in termini di diversità; e tuttavia è l'unica che Fini ritenga possibile e, forse, in grado di favorire le sue ambizioni.
In fondo, da quando guida l'assemblea di Montecitorio, lui stesso è diventato un solitario per antonomasia: in primo luogo nella propria maggioranza. Dandosi un profilo istituzionale autonomo, per il quale è stato accusato di ingratitudine, negli ultimi dodici mesi ha costruito una legittimazione ed una rete di alleanze esterne al centrodestra; più orientate verso il Quirinale che verso Palazzo Chigi; e più attente alle prerogative del Parlamento che alle esigenze del governo. Adesso che entra nel Pdl le rivendica e quasi le accentua. Si presenta non come un alleato che deve gratitudine a Berlusconi, ma come un aspirante leader pronto ad accettarne la guida; temporaneamente, però, e ad alcune condizioni. Il suo rifiuto orgoglioso del termine «sdoganamento» è un no alla lettura di An come un movimento postfascista che il Cavaliere ha tolto dal ghetto della storia. E le critiche al culto della personalità e al pensiero unico sono avvertimenti indirizzati, di nuovo, all'azionista di maggioranza del Pdl. Insomma, Fini ha l'aria di chi entra nel nuovo partito protetto dall'armatura del ruolo parlamentare; ed è deciso a non farsi accecare e bruciare dalla stella del berlusconismo.
Ma è difficile capire se la scelta prelude alla sua emancipazione ed ascesa politica; o se il presidente della Camera fa solo di necessità virtù: nel senso che ha assecondato la fusione fra An e FI perché non aveva alternativa. La sensazione è che la destra non sia più «sua» da tempo; e lui non sia più la destra: o almeno, non la controlla e non la rispecchia come prima. Si è visto in occasione del contrasto fra Palazzo Chigi e Quirinale sulla bioetica, poche settimane fa. Con il presidente della Camera che dava ragione al capo dello Stato, Giorgio Napolitano; e Berlusconi che invece lo criticava e faceva appello al proprio governo, ottenendo un'unanimità garantita anche dai ministri di An. Il suo distacco dal partito d'origine, insomma, è stato se non preceduto, accompagnato da quello di An da lui. Dire di no all'idea di guidare la «corrente di destra» del Pdl significa prendere atto della realtà, più che determinarla. Da oggi la figura di Berlusconi, esorcizzata nei due giorni del congresso, si materializzerà con il suo sorridente, inesorabile abbraccio. E renderà evidente che An aveva attraversato e bruciato il ponte alle proprie spalle ben prima di ieri. Non avere paura, come invita a fare Fini, significa trarne tutte le conseguenze senza guardare indietro.
Massimo Franco
23 marzo 2009 da corriere.it
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« Risposta #32 inserito:: Marzo 28, 2009, 12:12:32 pm » |
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Il Governo su Tutto
di Massimo Franco
L'ostentazione di forza era prevedibile, quasi obbligata. Silvio Berlusconi doveva consegnare un rosario di trionfi quindicennali per celebrare la nascita di un partito grande, e con ambizioni quasi smisurate. D'altronde, il presidente del Consiglio sapeva di avere sbaragliato gli avversari. Ormai non li vede più nemmeno nella sinistra, definita brutalmente «senza volto»: priva di leadership e perfino di valori democratici. Ma la celebrazione non è fine a se stessa. Il premier allinea davanti al Paese il «Popolo della libertà », il suo governo e poi il deserto, per avvertire che oggi l'unico nemico è la crisi economica. Si offre dunque come pivot del sistema; come trincea dietro la quale vuole che si allinei l'Italia intera. Non allude tanto all'elettorato: quello pensa di averlo già in maggioranza dalla propria parte, e di poterne conquistare altre porzioni. Il 43,2% che i «sondaggi veri» attribuiscono al Pdl, viene citato come punto di partenza, non di arrivo. E la corona di leader di ex partiti veri e fittizi dai quali ieri si è fatto circondare alla fine del discorso alla Fiera di Roma, dovrebbe certificare l'autosufficienza del centrode-stra: con una sola concessione di autonomia, alla Lega. La sfida adesso si sposta nel cuore del sistema. Nella visione di Berlusconi, il consenso ancora da conquistare è quello delle istituzioni.
Il baricentro della resistenza contro il declino ormai si trova a Palazzo Chigi: anche perché, e almeno su questo è difficile dare torto al premier, non esistono alternative al governo attuale. La conseguenza è che tutti, a cominciare dalle Camere, dovrebbero prenderne atto; e capire che i tempi rapidi delle decisioni non possono essere frustrati, rallentati da regole inadeguate all'urgenza della «politica del fare» sublimata dal berlusconismo: tesi che forse spiega l'impassibilità del presidente della Camera, Gianfranco Fini, destinatario peraltro di molti elogi. L'idea è quella di ottenere una torsione dell'unità nazionale in direzione del governo: uno sforzo istituzionale collettivo, chiesto e anzi quasi preteso in nome dell'emergenza globale. In questo schema, destra e sinistra sono categorie datate, nebulose, svuotate dalla gravità dei problemi. Il «riformismo liberale» che impregnerebbe il Pdl garantisce risposte a qualunque schieramento che escluda una sinistra considerata irrimediabilmente ex comunista; e il sistema ha il dovere di adattarsi. Per Berlusconi è il momento di una nuova Costituzione materiale, sinonimo soprattutto di popolo; e dunque docile agli impulsi dell'Esecutivo. Il vero patriottismo sarebbe questo, nella traiettoria mentale berlusconiana. Come fonte di legittimazione vengono evocati i successi elettorali inanellati nell'ultimo anno, e la debolezza patologica degli avversari. Il cerchio si chiude accreditando il Pdl come «partito degli italiani», al quale diventa difficile opporsi senza diventare teoricamente sabotatori della lotta alla crisi. Sembra un nuovo partito- Stato, erede elettorale della Dc; ma così tagliato su misura del leader da rappresentarne la metamorfosi moderata. Di più: la sua antitesi culturale, prima ancora che politica.
28 marzo 2009 da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Aprile 02, 2009, 03:46:04 pm » |
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LA NOTA
La paura che la Ue accentui senza volerlo la sindrome della crisi
La parola da esorcizzare è «paura». Esercizio difficile, se mentre il governo prova disperatamente a iniettare fiducia, le previsioni parlano di un calo del prodotto interno lordo del 4,3 per cento nel 2009; e senza tracce di miglioramento per il successivo. L’irritazione con la quale ieri Silvio Berlusconi ha accolto il rapporto dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) si spiega con la voglia frustrata di ridimensionare ed abbreviare la crisi economica.
Il presidente del Consiglio sa bene che ci sono davanti due anni e forse più di recessione. Ma nella sua ottica, la china può diventare pericolosa o percorribile a seconda dell’atteggiamento psicologico col quale i Paesi la affrontano. Per questo, invita i commissari europei a «stare zitti » e a non creare allarmismi. E sembra farsi portavoce di un malumore diffuso quando protesta contro le loro dichiarazioni «da cui partono attacchi ai governi che lavorano».
Sullo sfondo si indovina l’allarme per l’atmosfera creatasi ieri al vertice sul lavoro del G8; e il disappunto nei confronti di organismi accusati di non avere previsto il disastro finanziario in arrivo; e adesso di fare «previsioni sbagliate e negative». In entrambi i casi, l’atteggiamento del governo italiano è quello di non rassegnarsi ad una deriva che potrebbe portare con sé gravi tensioni sociali.
L’obbligo di non sfondare i limiti del deficit e del debito pesa come un monito. Eppure, in una situazione che promette disoccupazione, finisce per diventare meno assoluto: da interpretare politicamente. «L’ho detto anche al ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Non sono spaventato» se si dovrà spendere per «non lasciare nessuno da solo», spiega il premier dicendo di volere tradurre in economia la dottrina sociale della Chiesa.
La sfida non facile è quella di impedire che il Paese cambi stili di vita; che interiorizzi la sindrome della crisi e finisca involontariamente per alimentarla. Il fondo di garanzia di circa 30 milioni di euro che i vescovi italiani hanno messo a disposizione delle famiglie in difficoltà serve a produrre prestiti bancari dieci volte superiori. E rappresenta di per sé la conferma di una fase cruciale, che richiede misure in qualche modo eccezionali.
Massimo Franco 01 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #34 inserito:: Aprile 22, 2009, 12:50:24 pm » |
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PD, IL NODO DELLE CANDIDATURE
Assenti illustri e vecchie glorie
di Massimo Franco
Non si può dire che sia una macchina da guerra perfetta; e neppure una «nazionale» elettorale candidata a vincere il campionato europeo. Le liste del Pd danno piuttosto l’idea di una squadra d’emergenza, fatta di ex notabili e giovani «promesse »: una formazione penalizzata non solo dal rifiuto di personalità più o meno note, ma dall’assenza totale e calcolata della nomenklatura. Dire che nel centrosinistra qualcuno gioca a perdere la partita del 7 giugno sarebbe ingiusto. Ritenere che però molti la considerino già persa, e dunque marchino le distanze dall’attuale vertice, per quanto maligno è un sospetto legittimo. È come se la segreteria di Dario Franceschini, salutata esattamente due mesi fa come un toccasana dopo la stagione di Walter Veltroni, fosse di colpo circondata dal deserto: degli alleati, prima che degli avversari. Sostenitori entusiasti sono diventati in poche settimane spettatori distaccati; e scettici sulle capacità del segretario di evitare una sconfitta bruciante quanto quella alle politiche dello scorso anno. Non c’è dubbio che alcune diserzioni segnalino una mancanza di generosità politica. Ma forse va captato un malessere più profondo, che riguarda la fiducia nella stessa esistenza del Partito democratico.
Le elezioni europee non saranno una resa dei conti fra Silvio Berlusconi e il centrosinistra. Quella c’è già stata nel 2008, e poi in Abruzzo e in Sardegna: stavolta bisognerà semmai misurare quanto è aumentata la distanza fra maggioranza ed opposizione. L’appuntamento, dunque, è del Pd con se stesso. E l’impressione è che possa perdere altri voti, e in più direzioni: a beneficio dell’astensione, dell’Idv di Antonio Di Pietro, magari dell’Udc e della Lega. Ma la vera incognita si presenterà dopo il 7 giugno. L’epilogo che la segreteria sta cercando di scongiurare è una sorta di esplosione silenziosa, consensuale, rassegnata, nella scia di un altro risultato negativo.
Uno scenario così pessimistico potrebbe essere smentito da qualche avvenimento per ora imprevedibile. Ma è alimentato senza volerlo da candidature che stridono con quelle «politicamente scorrette» eppure astute di alleati e avversari. Berlusconi e Di Pietro si presentano. Franceschini no; e nemmeno gli altri capi del Pd. Il rifiuto nasce da un’orgogliosa rivendicazione di diversità nei confronti del premier e degli altri leader, i quali anche se eletti non andranno a Strasburgo: le cariche sono incompatibili. È una prassi discutibile e non molto educativa, che il Pd ha evitato perché perpetua l’idea del Parlamento europeo come «seconda scelta » rispetto a quello nazionale.
Ma se alle assenze eccellenti dalle liste del Pd si somma la stranezza di candidature che a volte ricordano vecchie glorie, il risultato appare sconcertante. Accredita un partito nel quale la collegialità tende a sconfinare nell’anarchia interna; e la determinazione a non presentare nomi di primo piano può trasformarsi in un segno non di forza, ma di imbarazzo di fronte alla sfida berlusconiana. Eppure, stavolta sarà difficile scaricare la colpa solo sul successore di Veltroni. Le tensioni interne degli ultimi giorni non cancellano le responsabilità collettive: anche di chi ha deciso di aspettare sulla riva del fiume un fallimento che in realtà non risparmierebbe quasi nessuno.
22 aprile 2009 da corriere.it
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« Risposta #35 inserito:: Aprile 26, 2009, 05:17:02 pm » |
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IL DISCORSO APRE UNA FASE NUOVA
La scelta del Cavaliere
Il 25 aprile
Le polemiche non si potevano esorcizzare. Eppure sono risultate minoritarie; e non hanno scalfito il clima di «rinnovata unità nazionale» evocato da Giorgio Napolitano. L'esordio alla Festa della Liberazione del capo del governo, Silvio Berlusconi, esortato a partecipare dal segretario del Pd, ha colmato una lacuna che durava da 14 anni. Ma soprattutto, ha marcato un'adesione inedita e non solo formale a ciò che il 25 aprile esprime. Di fatto, il capo del governo ha aperto una fase nuova. Il riferimento alla Resistenza come «uno dei valori fondanti» dell'Italia non era scontato; né una rilettura della guerra civile fra il 1943 ed il 1945 nella quale il presidente del Consiglio ha espresso rispetto e pietà per tutte le vittime. Ma criticando «le colpe anche di chi era dalla parte giusta», ha negato l'equiparazione fra partigiani e Repubblica sociale di Salò imputatagli in passato: a volte a causa di qualche reticenza e ambiguità. Ieri, col discorso a Onna, nel cuore dell'Abruzzo terremotato, il premier ha voltato pagina e cercato di cambiare il proprio profilo di fronte al Paese.
Con parole misurate, Berlusconi ha reso stantìe le recriminazioni di alcune frange della sinistra e dell'Idv contro la sua adesione alle manifestazioni. Il suo accenno a quella della Liberazione come «festa della Libertà» ha fatto scattare il sospetto che voglia cambiarle nome. Gli avversari hanno intravisto un tentativo inaccettabile di revisionismo storico. Ma, per quanto guardingo, Franceschini ha ammesso che il premier ha detto «cose importanti»: sebbene gli chieda di far ritirare una proposta di legge del Pdl tesa ad equiparare le pensioni di partigiani e «repubblichini». Si tratta di una richiesta che riflette una lunga stagione di tensione, ma forse non prelude a nuovi scontri ideologici: quelli, ieri sono stati finalmente messi in ombra, sebbene non archiviati. Non sono bastate a resuscitarli neppure le contestazioni a Milano contro il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, e la «Brigata ebraica»; né le minacce dei «centri sociali» romani che hanno indotto il sindaco di destra capitolino, Gianni Alemanno, a non partecipare al corteo.
Inutilmente Antonio Di Pietro ha ripetuto: «Non è la festa di tutti, è ipocrita il "volemose bene"»; ed ha ironizzato su «Berlusconi novello partigiano», mentre i reduci della Brigata Majella annodavano il loro foulard intorno al collo del premier. La sensazione è che il capo dello Stato, e questa volta anche il presidente del Consiglio, abbiano interpretato una chiara, anche se ancora indefinita, voglia di unità e di valori condivisi. E centrodestra e centrosinistra hanno cercato di assecondare l'umore popolare, nonostante la loro zavorra di storie così diverse. E' una riconciliazione che qualcuno, a sinistra, considera temporanea e addirittura «melmosa», come Nichi Vendola, governatore della Puglia. La presenza di Berlusconi viene sminuita, mentre si riafferma una interpretazione della Resistenza un pò ossificata dall'ideologia. Eppure, nello stesso Pd si accetta una lettura meno mitica di quel periodo: una fase eroica nella lotta ai nazisti e ai fascisti, intorbidata da episodi gravi di violenza. Alla fine, la schiera di quanti sottolineano con favore la svolta, bilancia e sopravanza quella degli scettici. Insomma, anche se ancora fragile la nuova unità nazionale ieri ha fatto un passo avanti. Ma i suoi avversari, sconfitti e minoritari, aspettano solo un'occasione di rivincita: il pretesto per un ritorno al passato, che soprattutto Berlusconi ha la responsabilità di non rendere possibile.
Massimo Franco 26 aprile 2009
da corriere.it
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« Risposta #36 inserito:: Maggio 03, 2009, 11:41:34 am » |
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LA NOTA
C’è una filiera interna che vuole confermare l’attuale segretario
C’è una filiera ancora parzialmente sommersa che punta alla conferma di Dario Franceschini: nonostante l’attuale leader del Pd abbia detto e ripetuto di non volersi ricandidare. È uno schieramento interno deciso a trasformare questo segretario di transizione in un segretario-ponte; ed in grado di diventare maggioranza interna a seconda del risultato delle europee di giugno e delle amministrative. Qualcuno vede in alcune polemiche recenti sul congresso, ufficialmente fissato ad ottobre, proprio il nervosismo di quanti cominciano a temere il rafforzamento di Franceschini; e magari un rinvio. All’opposto, a prolungare la transizione sono quelli che vedono la sua segreteria come ultima spiaggia del partito. In privato, oltre a Walter Veltroni sostengono questa ipotesi l’altro ex segretario, Piero Fassino, e molti dirigenti della ex Margherita.
Ma ogni scenario è subordinato al risultato del 7 giugno: appuntamento al quale nel centrosinistra si guarda con un’apprensione giustificata. L’ipotesi che il Pd confermi il 33 e rotti per cento dello scorso anno alle politiche è considerata poco credibile. Il problema è, se si dovesse davvero registrare un calo, arginarlo il più possibile; e cioè incassare percentuali in grado di non rimettere in discussione il progetto nato con la segreteria Veltroni: una soglia «dignitosa» che molti indicano intorno al 27 per cento. Si tratta di un calcolo comunque arbitrario, perché va calibrato sui risultati degli avversari e sull’esito delle amministrative in programma nello stesso giorno delle europee. Anche in questo caso, il Pd parte svantaggiato: nel senso che cinque anni fa ottenne risultati positivi in gran parte delle province, rispetto ad un centrodestra allora in seria difficoltà. Dunque, l’incognita riguarderà non solo la dimensione ma la qualità di un’eventuale sconfitta.
Vincere a Bologna, Firenze e magari Bari, e nelle provincie di Milano, Bergamo, Pavia, Cremona, Torino, attenuerebbe la sensazione della disfatta. Evocherebbe una strategia della resistenza capace di evitare il collasso del Pd. In quel caso, cambiare leadership diventerebbe rischioso, lasciano capire i sostenitori di Franceschini; ed affrettare la scelta degli alleati, dividendosi magari tra fautori dell’asse con l’Idv, o con l’Udc di Casini, o con l’estrema sinistra, si rivelerebbe un azzardo inutile. Sulla consistenza degli eredi di Fausto Bertinotti e di Oliviero Diliberto, infatti, i giudizi sono contrastanti. C’è chi pensa che quel bacino elettorale sia ancora consistente, per quanto sbandato; e chi invece lo considera residuale, alla fine di un ciclo non dissimile da quello di altre sinistre comuniste europee. Quanto ai rapporti con Antonio Di Pietro, l’irritazione monta; ma in maniera confusa. E gli scambi di accuse fra esponenti del Pd come Enrico Letta e Goffredo Bettini sulla «guerra fra bande» contro i segretari di turno, suggeriscono un’atmosfera interna intossicata almeno dai sospetti. Franceschini è riuscito ad allentare la tensione almeno su un fronte: le polemiche sul profilo delle candidature alle europee. Il tema è stato ridimensionato e oscurato dalla lite in pubblico fra Silvio Berlusconi e la moglie, Veronica Lario, in materia di «veline». Ma il 7 giugno rimane. Ed un contenimento delle perdite potrebbe non bastare a puntellare l’attuale segretario, ed il Pd come è stato finora.
Massimo Franco 01 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #37 inserito:: Maggio 05, 2009, 11:17:32 am » |
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LA NOTA
Un caso destinato a rinfocolare l’antiberlusconismo
Pd e Idv puntano il dito contro il pubblico e privato del premier
Definirla una questione privata, ormai, è impossibile. Il problema è per quanto tempo rimarrà un caso politico; e se in prospettiva possa assumere altri risvolti. Sebbene deprimente, la lite coniugale fra il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, e la seconda moglie, Veronica Lario, rappresenta la nuova frontiera dello scontro fra governo e opposizione. E vede, forse per la prima volta, un premier preoccupato dai contraccolpi della vicenda. Il sottosegretario a Palazzo Chigi, Gianni Letta, cita Niccolò Machiavelli per sostenere che in politica bisognerebbe evitare «disprezzo e odio». Ma i veleni lievitano.
Il dopoterremoto in Abruzzo, sul quale Berlusconi ha scommesso parte della propria credibilità, viene oscurato dalle cronache del suo matrimonio pubblicamente in pezzi. Le parole imbarazzanti della moglie sulla frequentazione di ragazze minorenni sono diventate materia di interrogazioni parlamentari. Nel Pd si parla di «perversioni morali» che sarebbero riflesse dalla cultura berlusconiana.
Cade nel vuoto l’appello di esponenti come Umberto Ranieri, a non colpire «nella sfera privata »: anche perché il Cavaliere insiste sul «complotto mediatico » orchestrato dalla sinistra. E dopo l’autodifesa iniziale sembra oscillare fra strategia del silenzio e controffensiva dura. Gli avversari hanno capito che la storia potrebbe durare a lungo; e che offre una forte tentazione di rivincita sugli ultimi successi berlusconiani. La sensazione è che il centrosinistra si renda conto di avere trovato un punto debole del premier.
E adesso addita e mescola pubblico e privato di Berlusconi, usando la sponda offerta dalla moglie. Si tratta di un filone scivoloso: anche se lui continua a ripetere che la sua popolarità non è intaccata dalle disavventure familiari. Ma rimane l’incognita, adombrata da Idv e Pd, dei contraccolpi extrapolitici delle allusioni della consorte alle frequentazioni con minorenni: un argomento imbarazzante, che può oscurare l’attività di governo.
Alla tesi del «complotto della sinistra», accreditata dal premier, il segretario del Pd, Dario Franceschini, replica definendola assurda. Come minimo, appare riduttiva. Ma anche sentir dire ai legali della signora Berlusconi che la pratica di divorzio «non è materia che va gestita sui giornali» fa un po’ sorridere: soprattutto dopo che ogni mossa è sembrata mirata a dare la massima eco ad una lite di famiglia, scaricandola inopinatamente sul Paese.
Massimo Franco 05 maggio 2009
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« Risposta #38 inserito:: Maggio 06, 2009, 05:56:25 pm » |
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Sottili equilibri
di Massimo Franco
Si avverte una miscela di disagio e realpolitik nelle reazioni delle gerarchie cattoliche alla saga familiare dei coniugi Berlusconi. Disagio non tanto per l’annuncio del divorzio, ma per il modo spettacolare, per usare un eufemismo, con il quale è stato comunicato. Quanto alla realpolitik si scorge dietro l’assoluto silenzio vaticano e nelle parole sobrie con le quali il presidente dei vescovi italiani, Angelo Bagnasco, ha commentato e avallato a posteriori la presa di posizione del quotidiano Avvenire, vicino alla Cei: un articolo forse più dovuto che voluto, perché intervenire su questioni di vita privata declassate di fatto a pettegolezzo crea un imbarazzo evidente.
Tanto più perché i protagonisti della vicenda sono un presidente del Consiglio considerato l’interlocutore principale del Vaticano, e sua moglie. E qualunque parola di troppo rischia di alimentare una spirale di pettegolezzi in bilico fra politica, etica, moralismo e soldi. L’apparente distacco dalla lite fra Silvio Berlusconi e Veronica Lario nasconde la speranza impossibile di vedere il caso archiviato al più presto; e la realtà di un disappunto e di una richiesta di tenere atteggiamenti più responsabili, rivolta tacitamente ad entrambi. A questo si aggiunge il timore di un uso politico della vicenda in un momento delicato della vita del Paese. Berlusconi sembra consapevole di dovere affrontare una situazione scivolosa. La rivendicazione di rapporti ottimi con la Santa Sede, ripetuta ieri sera in tv, riflette un dato di fatto ma forse va completata. Assume un significato diverso se viene letta insieme alla sua certezza di non perdere «la simpatia» del mondo cattolico a causa delle tensioni con la moglie: parole che in realtà tradiscono l’oscuro timore di essere danneggiato politicamente ed elettoralmente da quello che si ostina a considerare in modo un po’ troppo sbrigativo un gigantesco malinteso. Ma si tratta di un pericolo che in realtà non riguarda solo quell’universo. L’opinione pubblica sembra sconcertata e divisa senza distinzioni.
Non significa automaticamente che si prepari ad abbandonare il centrodestra. Anzi, le polemiche che alcuni esponenti dell’opposizione stanno facendo contro gerarchie accusate di essere «governative», potrebbero rivelarsi a doppio taglio. Invece di far risaltare una sorta di incompatibilità morale prima ancora che politica fra valori cattolici e berlusconismo, rischiano di accentuare la distanza fra centrosinistra e Vaticano. Sarebbe un risultato paradossale, nel momento forse più difficile del premier da quando ha vinto le elezioni nel 2008. Eppure, quanto è accaduto e può succedere nelle prossime settimane suona come un monito per Berlusconi.
Dovrebbe fargli capire che non bastano i limiti politici degli avversari a scongiurare le critiche, i malintesi e alla fine un logoramento, alimentati in buona misura anche da certi suoi comportamenti. Di colpo, potrebbe ritrovarsi appesantito da una zavorra di voci che finora hanno contribuito in modo discutibile ad alimentare i suoi successi.
06 maggio 2009 da corriere.it
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« Risposta #39 inserito:: Maggio 13, 2009, 10:44:43 am » |
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LA NOTA
Dietro il caso Italia si delinea una sfida che tocca l’Europa
Il governo di Roma manda un segnale oltre il Mediterraneo ma anche a Bruxelles
L’idea è quella del «tam tam alla rovescia»: fare in modo che al di là del Mediterraneo l’Italia non appaia più accessibile ai trafficanti di emigranti come nel passato; e che i disperati dei barconi intercettati in acque internazionali e rispediti in Nord Africa portino questo messaggio. Ma l’avvertimento è destinato a salire anche verso nord, alla Commissione Ue ed al Parlamento di Strasburgo. Esalta la solitudine dell’Italia non tanto per le accuse di razzismo, ma per il disinteresse degli altri Paesi di fronte ad un problema che in realtà è europeo; e non sembra prevedere risposte immediate, facili e indolori.
Anzi, la soluzione apparente risulta drastica fino alla brutalità. L’autocompiacimento della Lega può rendere le misure odiose e svilirle. E tuttavia il problema esiste, perché la frontiera mediterranea dell’Ue è stata abbandonata. E la sua dimensione continentale è ammessa dallo stesso Consiglio d’Europa: un’organizzazione esterna alle istituzioni dell’Unione, che pure attacca il governo di Silvio Berlusconi. Su questo sfondo, la decisione di respingere gli immigrati è un s.o.s. a Bruxelles.
Non è detto che venga ascoltato. I governi esitano ad assecondare scelte che sollevano le proteste dell’Onu e del Vaticano. Per il commissario Ue alla Giustizia, Jacques Barrot, respingere i clandestini è «normale» se viene fatto in acque internazionali. Ma l’imbarazzo è palpabile, perché il caso fa emergere la contraddizione fra esigenze di sicurezza di alcuni Paesi come Italia e Malta, e diritto d’asilo.
In assenza di una decisione a livello europeo, l’emergenza umanitaria e strategica viene gestita dalle nazioni coinvolte; e sovrastata da preoccupazioni elettorali. Misura l’escalation polemica fra Umberto Bossi e Gianfranco Fini, ieri cofirmatari di una legge sull’immigrazione ed oggi su posizioni divergenti. Rilancia la sfida fra Pdl e Lega, con il premier che rivendica i provvedimenti di «tutta la coalizione». Ma ravviva anche le tensioni nel Pd, diviso fra chi accusa di razzismo il Pdl e chi invita ad evitare la propaganda demagogica.
Colpisce la durezza con la quale Rutelli ma anche Fassino si dissociano dagli attacchi del vertice del Pd. Né deve sorprendere la determinazione della maggioranza berlusconiana, nonostante gli attacchi di Vaticano e Cei. La sensazione è che almeno su questo il centrodestra ritenga di rappresentare gli umori del Paese più dei vescovi. E forse le stesse gerarchie cattoliche cominciano ad esserne consapevoli e preoccupate: ma non possono rinunciare a ribadire i propri princìpi.
Massimo Franco 12 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #40 inserito:: Maggio 14, 2009, 04:51:49 pm » |
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LA NOTA
La ricetta «legge e ordine» ricompatta la maggioranza
Congelate le tensioni interne, restano aperti il fronte con l’Onu e il mondo cattolico
Si rafforza l’impressione che il centrodestra stia organizzando la replica dell’operazione «legge e ordine» del 2008. Annunciare che le nuove norme sulla sicurezza saranno approvate in via definitiva a fine maggio, significa che entreranno in vigore a ridosso del voto europeo del 6 e 7 giugno. E definire, come ha fatto Umberto Bossi in polemica con Gianfranco Fini, un po’ di propaganda come sale di qualunque campagna elettorale, spiega meglio la strategia del governo. Il «sì» di ieri alla Camera è il primo passo di un’operazione che il centrodestra si prepara a completare con tempismo; e con una competizione interna che però nessuno degli alleati vuole esasperare: anche se i conciliaboli e gli incontri fra Silvio Berlusconi, Bossi, Fini, e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, hanno spalmato una patina di compattezza dopo giorni di tensione.
Riconsegnano l’immagine di una coalizione tutto sommato unita; comunque decisa a coprire gli spazi, lasciando all’opposizione un ruolo tendenzialmente minore. Si trattava di chiudere due potenziali crepe: il contrasto fra Bossi e Fini sull'immigrazione clandestina; e le voci di dissapori fra il premier e Tremonti sui soldi per il dopo-terremoto in Abruzzo. Almeno a breve termine, la manovra sembra riuscita. Il presidente della Camera aveva invitato ad evitare «eccessi propagandistici ». Ma il colloquio di ieri con il capo leghista avrebbe soddisfatto entrambi: nel senso che le divergenze sono state accantonate sull’altare della sicurezza.
Quanto ai fondi per i terremotati, è stato lo stesso Berlusconi a dichiarare che l’intesa con Tremonti sarebbe totale; e dunque anche il secondo fronte è stato rapidamente sigillato. Bisogna capire quanto durerà la tregua, infragilita dalla concorrenza per il voto europeo. La linea dura, tuttavia, non si tocca: anche perché a sentire il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, sta facendo proseliti a sinistra. A rafforzarla è l’insicurezza diffusa e la paura nei confronti della criminalità: un umore che parte del Paese tende a scaricare sbrigativamente sugli immigrati.
Nel 2008, anno di elezioni politiche, l’allarme fu segnalato ed esasperato per dare la spallata finale al governo dell’Unione: un centrosinistra già minato dalla litigiosità interna e dall’emergenza dei rifiuti in Campania. Adesso, più che a delegittimare un’opposizione debole dovrebbe diventare una fonte di ulteriore legittimazione per Berlusconi e gli alleati: un moltiplicatore di consensi da spendere per accelerare alcune riforme e vincere le regionali del prossimo anno. Che Maroni neghi la manovra elettorale, ritenendo la tesi «insultante e offensiva», è legittimo; come è verosimile che, fosse stato per la Lega, i «respingimenti sarebbero cominciati un anno fa».
Ma la coincidenza con la vigilia delle elezioni per il Parlamento di Strasburgo è vistosa. D’altronde è lo stesso Bossi a spiegare che «la propaganda, se non la fai sotto elezioni quando la fai?». Rimangono due incognite: l’atteggiamento di Onu e Ue; e l’ostilità del mondo cattolico al nuovo reato di immigrazione clandestina, criticato ieri dai vescovi italiani, dalla Comunità di Sant’Egidio e dalle Acli. Ma probabilmente non cambierà nulla. Secondo Berlusconi, il governo sta agendo nel rispetto degli accordi internazionali; e l’Europa si muove con imbarazzo. E comunque, per ora il centrodestra confida in un sostegno dell’opinione pubblica, che è convinto di tradurre in voti: anche grazie ai barconi dei disperati rispediti in Libia.
Massimo Franco 14 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #41 inserito:: Maggio 15, 2009, 11:07:03 am » |
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Vittoria amara
L’Italia ha deciso di svolgere il ruolo di battistrada della guerra all’immigrazione clandestina. È un compito scomodo, perché viene affidato a leggi che riflettono una visione del fenomeno agli antipodi rispetto al passato; rompe una cultura dell’inclusione mai messa in discussione fino a che i flussi hanno assunto una fisionomia tale da destare allarme; ed è accompagnato dal silenzio assordante e colpevole dell’Europa.
Ma l’approvazione del provvedimento che trasforma in reato l’ingresso irregolare nel nostro Paese costituisce un’incognita anche perché non si capisce se risolverà i problemi. Di certo si tratta di uno spartiacque, sul piano dei valori prima che su quello della politica sottolineato dalle riserve delle organizzazioni cattoliche. Rimane da chiedersi se il giro di vite sia stato deciso dal centrodestra assecondando gli umori profondi del Paese; o magari esasperandoli. Il fatto che sia il premier, Silvio Berlusconi, sia il capo della Lega, Umberto Bossi sventolino il consenso schiacciante della «gente », non va sottovalutato. Conferma un malessere figlio dell’inerzia, che ha silenziosamente trasformato la tolleranza in un istinto di rifiuto alimentato dal timore della criminalità. Dunque, è probabile che la linea dura non sia soltanto formalmente legittima, ma sostenuta dal grosso del Paese.
Forse per questo nel governo emerge la tentazione di ritenere ogni critica oziosa e strumentale, e sotto sotto vagamente elitaria: e di certo qualcuna lo è. Sarebbe miope, tuttavia, non riconoscere una realtà che ad intermittenza assume i contorni odiosi del razzismo; ed escludere che le ragioni della maggioranza siano state incoraggiate dalle prossime scadenze elettorali. A seminare perplessità è l’ombra di trionfalismo che accompagna il «sì» alle misure sulla sicurezza. Si può anche tacere il contraccolpo sul piano dei diritti umani, che pure pesa. Ma sa di rimozione negare l’esistenza di una «retorica pubblica» impregnata di «accenti di intolleranza o xenofobia », evocata ieri dal capo dello Stato.
Come sempre, Giorgio Napolitano ha affidato il suo monito a parole calibrate e misurate. Eppure ha provocato reazioni troppo sbrigative: come se avesse sfiorato nervi intoccabili nel momento di un successo parlamentare che in realtà è una vittoria un po’ amara per tutti. Sembra il prodotto italiano ed europeo di un difetto di lungimiranza e di prevenzione. Su questo sfondo il Paese appare l’avanguardia di un’esasperazione che presto sarà continentale. Ed anticipa soluzioni dettate da una deriva culturale giustificata dall’emergenza; ma priva di coordinamento con la Ue. Nessuno è in grado di presidiare la «nuova frontiera» mediterranea da solo.
A ben vedere, per quanto discutibile nel metodo, il tentativo del governo di difenderla è una richiesta, quasi un grido d’aiuto.
Massimo Franco 15 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #42 inserito:: Maggio 17, 2009, 12:17:33 am » |
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LA NOTA
L’offensiva leghista accentua lo scontro con il resto d’Europa
Bossi replica al Colle sulla xenofobia e avverte il premier sul referendum
Nel terzo anniversario dell’elezione di Giorgio Napolitano al Quirinale, Umberto Bossi spedisce al capo dello Stato un biglietto d’auguri molto lumbard: l’«invito» a non temere che le misure sulla sicurezza aprano la strada ad una deriva razzista. Anzi, a sentire il capo della Lega lo scongiurerebbero. Ma partono avvertimenti anche per palazzo Chigi, magistratura, sindacati: a conferma che il «partito del Nord» vuole arrivare al voto europeo di giugno con un profilo ben marcato e distinto dal Pdl. È un’offensiva che fa apparire le norme sull’immigrazione clandestina già archiviate: agli occhi di Bossi si tratta solo di una tappa in vista di altri traguardi, più ambiziosi e laceranti; e gonfi di implicazioni non solo sulla politica italiana ma nei rapporti col resto dell’Europa.
Non significa che la tregua nel centrodestra si sia spezzata. Semplicemente, la coalizione dovrà coabitare con una concorrenza che prevede un protagonismo leghista a tutto tondo; e non esclude neppure una tensione sempre meno strisciante con l’«amico» Berlusconi sul referendum elettorale del 20 giugno. Le parole dette ieri da Bossi in campagna elettorale contengono una velata minaccia al presidente del Consiglio dopo la sua scelta di votare sì. «Il referendum è stato fatto contro la Lega», sostiene. «E io non farei mai una cosa contro Berlusconi. Spero che ci pensi su».
Il messaggio va letto insieme a quello alla sinistra, affinché cambi una posizione che favorirebbe il primato del Pdl. Fa emergere il profilo di un Carroccio che si sente forte, eppure rimane inquieto. Il timore di una vittoria schiacciante berlusconiana il 6 e 7 giugno potrebbe alimentare il progetto del premier di chiudere i giochi anche nel centrodestra: operazione che un successo referendario finirebbe per rendere possibile. Pochi prevedono il quorum della metà più uno dei votanti: la soglia per renderlo valido.
Bisogna vedere, tuttavia, quali contraccolpi provocherà il voto per Strasburgo. Bossi rilancia le parole d’ordine nordiste: dal «salario territoriale» adeguato al costo della vita, per dare più soldi alle regioni settentrionali; ai giudici «eletti dal popolo» locale. Sa che soltanto con il pieno dei consensi la Lega può fare avanzare i piani federalisti. Ma l’avvitamento su posizioni sempre più estreme rende il fronte internazionale pericolosamente aperto ed esposto. Ieri il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, ha incontrato il delegato dell’Alto commissariato per i rifugiati dell’Onu, Laurens Jolles. Ed è riemersa con durezza l’accusa all’Italia di violare le norme sui migranti.
La responsabilità è stata respinta con altrettanta decisione. Il ministro leghista ha ribadito che l’Italia non smetterà di rispedire in Libia i barconi. E in parallelo il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha invocato la collaborazione dell’Ue. La tensione con le istituzioni continentali, insomma, rimane. La stessa Commissione europea ieri ha ammonito ad «evitare ogni deriva verso un'Europa-fortezza»; a non alimentare l’immagine degli immigrati come un pericolo. Critiche che sembrano fatte su misura per l’Italia del centrodestra; e per essere respinte, ammiccando ad un elettorato spaventato e plaudente.
Massimo Franco 16 maggio 2009
da corriere.it
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« Risposta #43 inserito:: Maggio 22, 2009, 06:22:55 pm » |
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Berlusconi e opposizione
Il crinale scivoloso del muro contro muro
Il premier parla non alle istituzioni ma al Paese e sembra volere un affondo che radicalizza i consensi
Il caso Mills sta proiettando le sue ombre velenose su tutte le cariche dello Stato. La condanna per corruzione dell’avvocato inglese a Milano ha riaperto un conflitto violento fra il capo del governo e la magistratura. Ma il fronte si sta allargando. Ieri, davanti alla Confindustria, l’attacco di Silvio Berlusconi ai giudici «estremisti» è stato rimpinguato da nuove critiche contro un Parlamento «pletorico, dannoso e inutile». Ha fatto riaffiorare la frustrazione per i limiti imposti dalla Costituzione al potere del presidente del Consiglio: un tema che già in passato ha messo in tensione i rapporti istituzionali.
E sullo sfondo, come un dettaglio incongruo, rimangono le vicende private del premier. Si tratta di una miscela tossica, che Berlusconi cerca di scansare ed esorcizzare. Eppure, finisce per usarla e subirla, comunicando un’immagine aggressiva e insieme nervosa. Probabilmente è un atteggiamento che non avrà grandi conseguenze sul piano elettorale. Semina tuttavia briciole indigeste nei rapporti coi vertici del Parlamento. Può rafforzare in una magistratura già sulla difensiva i settori più ostili al berlusconismo. E consente agli avversari di additare come uno scandalo il «lodo Alfano» che esclude dai processi i vertici istituzionali. Il risultato è che le polemiche investono palazzo Chigi; ma la loro eco si irradia su chiunque non appaia abbastanza nemico del premier.
È significativo che ieri il Quirinale abbia deciso di diramare una precisazione contro le domande-accuse rivolte in modo provocatorio dal comico Beppe Grillo al capo dello Stato, Giorgio Napolitano; e proprio sul lodo Alfano. Il solo fatto che il presidente della Repubblica abbia firmato quella legge proposta dal ministro della Giustizia, Angelino Alfano, per i «blog» girotondini è uno scandalo. E si può essere sicuri che non cambieranno idea di fronte alla spiegazione ineccepibile ribadita dal Quirinale: e cioè che Napolitano ha firmato il «lodo» perché la legge rispondeva alle condizioni chieste dalla Corte Costituzionale nel 2004, unico suo «punto di riferimento».
Per paradosso, quella Costituzione che Berlusconi è accusato di deformare e stravolgere, appare un ingombro anche ai suoi avversari nel momento in cui il capo dello Stato la addita come bussola neutrale, oggettiva. Davanti ad un premier raffigurato nei panni del dittatore, l’opposizione si compatta e tende a saldarsi con le sue frange più radicali. E mal sopporta i tentativi di non esacerbare lo scontro: anche quando vengono da un garante come il presidente della Repubblica. Eppure, Napolitano non polemizza con palazzo Chigi ma non condivide affatto l’attacco al Parlamento. Lo conferma la difesa che ne fa Gianfranco Fini, da tempo in sintonia istituzionale col Quirinale e in disaccordo con Berlusconi.
Ma è un crinale sottile e scivoloso da percorrere, di fronte ad un’offensiva così virulenta. Il presidente del Consiglio parla non alle istituzioni ma al Paese; e sembra volere un affondo che radicalizza le scelte ed i consensi. Il centrosinistra accetta la sfida, quasi sollevato nel vedere che Berlusconi si presta alla descrizione inquietante dell’opposizione. Per condannare l’attacco al Parlamento rispunta anche l’ex premier Romano Prodi. Si tratta di un muro contro muro che apparentemente fa comodo ad entrambi, in vista delle elezioni. Alla fine, tuttavia, si potrebbe scoprire che questo schema era truccato; e che almeno uno dei due contendenti ha inseguito un’immagine ingannevole del Paese.
Massimo Franco
22 maggio 2009 DA CORRIERE.IT
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« Risposta #44 inserito:: Giugno 07, 2009, 11:53:06 am » |
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Un bilancio poco esaltante
Èstata una campagna elettorale europea solo formalmente; in realtà, anche troppo italiana. Ruvida fino a risultare greve. Autolesionistica e logorante nella sua tendenza all’esagerazione polemica. Segnata dalla volontà berlusconiana di fare un pieno di voti anche personali, tale da blindarlo nella maggioranza, prima ancora che a Strasburgo; e dal tentativo del centrosinistra di approfittare delle sue vicende familiari per delegittimarlo moralmente, logorarlo, e frenarne le ambizioni trionfali. L’esito di questo duello dai contorni un po’ patologici sarà deciso fra oggi pomeriggio e domani sera, quando si saprà chi ha vinto e chi ha perso anche nelle amministrazioni di alcune città.
Fin d’ora, però, il bilancio non appare esaltante. La distanza non solo dai temi dell’Europa ma da uno scontro civile comporterà un prezzo. Il riferimento non è tanto alla pioggia di querele annunciate da Berlusconi nelle ultime ore contro i giornali, italiani e stranieri, che hanno pubblicato le foto proibite scattate mesi fa in una delle sue ville sarde. Il logoramento prodotto dal fango di queste settimane è provato dall’annuncio fatto ieri dal premier: una campagna per indurre la stampa estera a raccontare un’Italia meno caricaturale di quella che, secondo Berlusconi, viene descritta.
Evidentemente, il premier avverte che la sua immagine può essersi scalfita a livello internazionale.
E vuole rimediare, sapendo che fra appena un mese l’Italia e lui personalmente saranno sovraesposti dal G8 all’Aquila. Su questo sfondo, la vittoria probabile del centrodestra sarebbe un balsamo, non un antidoto. E comunque, bisognerà vedere quali rapporti di forza emergeranno: non solo fra maggioranza ed opposizione, ma all’interno dei due schieramenti. L’idea del «derby padano » rivela una competizione feroce fra Pdl e Lega; e forse un gioco delle parti fra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi, tesi a convincere gli elettori che la partita si gioca solo nel centrodestra: un tentativo di presentare l’opposizione come una comprimaria.
Conta di mobilitare i sostenitori berlusconiani, solitamente un po’ abulici alle consultazioni europee. Il voto è anche amministrativo, e questo dovrebbe garantire una partecipazione maggiore almeno in alcune città. Ma Bossi ha già detto che in caso di ballottaggi chiederà di disertare le urne per boicottare il referendum del 21 giugno: produrrebbe un bipartitismo che la Lega giudica una minaccia alla propria sopravvivenza. Per quanto «referendario», Berlusconi asseconderà l’alleato. Tutte le sue mosse degli ultimi giorni sembrano di tipo preventivo e insieme distensivo. L’offerta pubblica della presidenza del Veneto al Carroccio conta più della correzione di rotta delle ore successive.
D’altronde, se ne parla da oltre un anno. Fotografa un rapporto di forza che ha mutato i numeri e la qualità dell’alleanza di centrodestra nella principale regione del Nordest. Soprattutto, ha l’aria di un obolo alla stabilità del governo: il tentativo di mettere al sicuro la legislatura da eventuali scosse centrifughe. Berlusconi sa che il pericolo può venire soprattutto dalle file della maggioranza. La crisi del Pdl in Sicilia è un segnale allarmante, per palazzo Chigi. Sicuramente il capo del governo riuscirà a rimettere insieme i cocci dopo le europee. L’implosione della giunta regionale, però, è in sé un indizio negativo. Rivela le tensioni in una coalizione priva di avversari esterni.
L’opposizione è consapevole di essere al massimo «un argine al padrone assoluto», come ripete Dario Franceschini. Sia il segretario del Pd che l’Idv di Antonio Di Pietro possono sperare più su uno sfaldamento del centrodestra che sulla propria forza. Vivono in trincea, non all’attacco. Franceschini deve dimostrare che il Pd può sopravvivere alle proprie contraddizioni e alla spregiudicatezza di Di Pietro; e definire un’identità per ora ambigua anche nella collocazione dentro la galassia del socialismo europeo. L’incognita è l’astensionismo, con il pericolo di vedere evaporare le giunte di sinistra, ultimo retaggio dell’Unione prodiana; e modello superstite di un sistema di alleanze che il Pd dovrà riplasmare.
Sia per il governo che per i suoi avversari, insomma, comincia una fase difficile. L’Europa e gli intrecci internazionali, sottovalutati se non ignorati, presenteranno il conto molto presto: e con gli interessi.
Massimo Franco 06 giugno 2009
da corriere.it
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