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« Risposta #60 inserito:: Settembre 05, 2009, 05:05:52 pm » |
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L'aggressione e la ferita
Non capita spesso che il direttore del giornale dei vescovi italiani si dimetta per un attacco del quotidiano di proprietà del fratello del premier. Eppure è quanto è avvenuto ieri, al termine di una settimana che si può definire eufemisticamente concitata e torbida. E sarà difficile, nonostante gli sforzi imbarazzati e francamente un po’ penosi di alcuni esponenti del centrodestra, cancellare l’impressione di un’intimidazione contro i vertici di Avvenire per le critiche alla vita privata di Silvio Berlusconi.
Il tentativo di dirottare la responsabilità sull’offensiva martellante degli avversari contro le vicende personali del presidente del Consiglio è comprensibile. Ma finisce per rendere ancora più evidente la gravità e la miopìa dell’aggressione a Dino Boffo e al suo giornale, di certo non catalogabili come esponenti di una stampa militarizzata; né tanto meno prevenuti verso Berlusconi e il suo governo. Al di là dei rilievi che si possono muovere al modo in cui il direttore di Avvenire si è difeso da accuse mescolate al fango delle lettere anonime, prevale la sensazione di un’operazione politicamente poco lucida, oltre che inquietante. Fra le righe amare della lettera di dimissioni si intravede un filo di sarcasmo verso un’aggressione «vittoriosa » che potrebbe rivelarsi un boomerang per palazzo Chigi.
Certo non oggi, né domani, perché ha ragione Berlusconi a dire che i rapporti con la Santa Sede rimangono eccellenti; e quelli con la Cei non potranno non rimanere di collaborazione. Ma una ferita si è prodotta. E per una parte di quel mondo, a torto o a ragione, si tratta di uno strappo violento e inaspettato. Fermarsi a questo significherebbe tuttavia offrire una fotografia incompleta di un brutto capitolo: per la politica, per il giornalismo. E per la Chiesa cattolica. Non si può trascurare l’immagine di confusione e di ambiguità offerta, soprattutto nella fase iniziale, dalle gerarchie ecclesiastiche. I distinguo, le ipocrisie, il senso di sbandamento e il cinismo, trasmessi da chi oltre Tevere ha dato l’impressione di utilizzare la vicenda per regolare vecchi e nuovi conti, sono apparsi a dir poco sconcertanti.
Lo scontro sembra aver svelato, più che provocato, lo sgretolamento di una sorta di Prima Repubblica cattolica. Solo nelle ultime ore si è ricomposta un’unità che ha attenuato il sospetto di una lotta di potere fra Segreteria di Stato e Cei, e non solo. Anche lì, dunque, la vicenda lascia indovinare una ferita aperta. D’altronde, al ringraziamento ai vescovi ed alla Santa Sede, Boffo affianca una bordata a «qualche vanesio irresponsabile che ha parlato a vanvera»: un atto d’accusa a chi, in Vaticano, ha attaccato Avvenire e difeso il governo nei momenti più drammatici dello scontro. Boffo esce di scena pagando un prezzo ben superiore a qualunque responsabilità; e con la consapevolezza di un giornalista più che corretto ma convinto di non potere restare al timone come un’«anatra zoppa ». In realtà, a uscire lesionati sono in molti, anche se forse non se ne rendono conto.
Massimo Franco
04 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #61 inserito:: Settembre 10, 2009, 05:41:26 pm » |
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LA NOTA
La pax berlusconiana non riesce a piegare il presidente della Camera
C’ è uno iato vistoso fra le profezie di declino di Silvio Berlusconi, e il fatto che sia diventato da due giorni il presidente del Consiglio più longevo del dopoguerra. È come se in tutto questo tempo gli avversari non fossero ancora riusciti non solo a contrastarlo, ma ad analizzare correttamente i suoi punti di forza e di debolezza. Come risultato, si oscilla fra giudizi che vedono la sua stella in caduta libera; e altre che sottolineano un primato più prepotente che mai. In fondo, le parole di Massimo D’Alema che accusano il premier di avere fatto «il deserto nel centrodestra», ridimensionando gli altri leader, sono un complimento involontario: sebbene il premier mostri qualche incertezza e fragilità mostrandosi ipersensibile, se non insofferente nei confronti dei giornali. D’altronde, i giudizi aspri di D’Alema probabilmente contengono anche una punta di esagerazione. Definire Umberto Bossi «un pretoriano» di Berlusconi suona fuorviante: la Lega è un alleato non solo «d’acciaio» ma esigente di palazzo Chigi; e poco addomesticabile. Rispetto a Gianfranco Fini, invece, ieri è stata confermata l’impressione di un rapporto incrinato. Il premier ha provato a liquidare i contrasti col presidente della Camera come un «fraintendimento». Ha espresso rispetto per le «posizioni diverse» di Fini. È stato lui, ieri, a telefonargli e ad annunciare che lo incontrerà presto: un segno della determinazione a riassorbire i contrasti. Ma il gelo rimane; e filtra nonostante le versioni ufficiali rassicuranti.
A sgualcire un po’ l’immagine berlusconiana di un Popolo delle libertà unito intorno al premier e insieme gioiosamente «anarchico» è stato proprio Fini. Mentre il presidente del Consiglio era ancora sul palco della festa dei giovani del Pdl, da Montecitorio è arrivata una nota che ironizzava sull’ «ottimismo proverbiale di Berlusconi ». Per Fini, «definire "fraintendimento" le tante valutazioni di carattere politico su cui nel Pdl è necessario discutere, è non soltanto riduttivo ma soprattutto rischia di non contribuire a risolvere i problemi».
Si tratta di una precisazione in tempo reale, pignola e irritata dopo che il capo del governo aveva liquidato la polemica alla sua maniera: sostenendo cioè che Fini aveva «interpretato in maniera diversa dalla realtà» alcune sue frasi sull’immigrazione. Non solo: all’accusa di trasformare il centrodestra in una caserma il premier ha replicato: «Il nostro movimento è il contrario di una caserma». Poi ha attaccato l’immigrazione clandestina e il modello di una «società multietnica » con una durezza da fare invidia alla Lega; ed è apparso un altro modo per prendere le distanze dall’ex leader di An. L’unica concessione a Fini, non irrilevante, è arrivata sul biotestamento: Berlusconi ha confermato che ci sarà libertà di coscienza nel voto parlamentare. Ma alla maggioranza non va giù il modo in cui l’opposizione tende ad incoronare il presidente della Camera, contrapponendolo a Berlusconi. Le parole brutali contro «comunisti e cattocomunisti» rilanciate ieri dal premier sembrano un altolà alle aperture al centrosinistra provenienti da Fini in nome del suo ruolo istituzionale. L’attacco del Cavaliere ai giornali stride, tuttavia, con la sua ostentazione di sicurezza e con la voglia di presentarsi come leader tranquillo. L’esasperazione berlusconiana contro gli attacchi avversari porta il premier a individuare nella stampa una nemica; ad imputarle il ruolo di sabotatrice dell’economia italiana, spargendo allarmismo in tempi di crisi: un’arma in mano ai «missionari della crisi, e dunque del male».
E dopo questo crescendo, Berlusconi arriva ad invitare i giovani a non leggere i giornali: «Se posso darvi un consiglio», ha detto, «non sprecate il vostro tempo...». Eppure, criticandola così radicalmente attribuisce alla stampa un peso che forse neppure ha.
Massimo Franco 10 settembre 2009 da corriere.it
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« Risposta #62 inserito:: Settembre 12, 2009, 11:21:20 am » |
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L'analisi
Il muro dell'incomprensione
Più che da contrasti politici, Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini appaiono divisi da un muro di incomprensione: lessicale, culturale, istituzionale. E personale. Per questo è un ostacolo che non si rimuove con semplici compromessi di potere. Lo sfogo che ieri il presidente della Camera ha fatto davanti alla platea della scuola di formazione del Pdl, a Gubbio, è stato impietoso, viscerale, esasperato: quasi volesse azzerare la tesi minimalista del «malinteso», accreditata il giorno prima dal premier. Eppure, probabilmente ad irritare gli alleati non sono state le critiche sull’immigrazione, i rapporti con la Lega, il biotestamento. A bruciare è stato il tono generale.
La denuncia dell’«indegno stillicidio » al quale Fini si sente sottoposto dall’interno del Pdl, evoca un’incomunicabilità con Palazzo Chigi che sfiora la patologia. E la reazione dei berlusconiani la riflette. Non si avverte soltanto irritazione: si indovina uno stupore risentito nei confronti del presidente della Camera. Riaffiora, irrisolto, il contrasto su quello che dovrebbe essere il Popolo della libertà. Per il Cavaliere, una forza libera e insieme caotica, modellata sulla sua leadership ; per Fini, «un partito e non un organigramma ». Ma proprio per questo, il suo appello ad un «cambio di marcia» del Pdl suona irricevibile.
E non perché Berlusconi non sia pronto a tacitare l’ex leader di An con qualche concessione. Il problema è che fra i due si è cementato un impasto di malintesi e diffidenza. La sensazione è che Fini si senta sempre più subalterno e quasi estraneo ad un progetto e ad una logica non suoi; e investito di un ruolo istituzionale che lui interpreta agli antipodi rispetto agli alleati. Per questo i suoi scarti ostentati e rivendicati quasi come un dovere vengono registrati con sconcerto; e avvertiti come bordate che alla lunga potrebbero destabilizzare la maggioranza, per quanto solida come quella di centrodestra.
Il Pdl è plasmato per assecondare Berlusconi, non per criticarlo. Può accettare verità complementari a quelle del capo del governo. Ma le tesi sostenute da Fini rappresentano una sorta di controverità. Di fatto, finiscono per delegittimare l’ottimismo che Berlusconi dispensa con un’abbondanza perfino esagerata. Smontano le accuse di disfattismo che il premier rivolge a chi martella sulla crisi economica. Insomma, rifiutano non solo l’analisi ma la filosofia con le quali il Cavaliere ha combattuto gli avversari in questi mesi. E finiscono per essere percepite, a torto o a ragione, come un distillato di antiberlusconismo. Agli occhi degli alleati, si tratta di una provocazione incomprensibile, prima che inaccettabile.
Ad aggravare il sospetto di un’ostilità profonda rischia di contribuire l’omaggio di Fini al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, presentato come «una delle poche garanzie che ci sono in questo momento»: precisazione letta nel Pdl come ennesima stoccata a Berlusconi. Ma soprattutto, promette di lasciare qualche livido l’accenno di Fini alle stragi di mafia e all’esigenza di «non dare neanche il lontano sospetto di non volere accertare la verità»: sebbene il passaggio sia stato preceduto e bilanciato dalla solidarietà al Cavaliere per l’«accanimento giudiziario» di alcune Procure.
Ma il Pdl non è lo stesso di sei mesi fa. Si sono cristallizzati nuovi rapporti di forza interni, e la disponibilità a sopportare gli attacchi è calata. Oltre tutto, la controverità di Fini arriva proprio mentre Berlusconi non esita a definirsi il miglior capo del governo «degli ultimi 150 anni»; e viene bersagliato dai giornalisti stranieri sulla sua vita privata al vertice Italia-Spagna. Probabilmente, il premier si aspettava applausi e solidarietà da tutto il Pdl. Il presidente della Camera, però, non poteva concederglieli senza contraddire una traiettoria dagli approdi ormai imprevedibili.
Massimo Franco 11 settembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #63 inserito:: Ottobre 07, 2009, 04:13:19 pm » |
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LA NOTA
Una sentenza destinata a far nascere comunque un partito di scontenti
Un’attesa nervosa per la decisione della Corte costituzionale
La sentenza della Corte costituzionale arriverà stasera o domani. E già l’attesa nervosa, quasi la sospensione della vita politica del Paese trasmette la sensazione di una vicenda patologica. Ma soprattutto, che il «lodo Alfano» sia dichiarato legittimo, o sia in qualche modo rimesso in discussione, difficilmente la tensione si allenterà. Il rapporto fra politica e giustizia sembra destinato a continuare sotto il segno del conflitto. E le elezioni regionali del prossimo anno promettono di intensificare le polemiche ed i veleni. La maggioranza di governo oscilla fra la presa d’atto rispettosa di quanto deciderà la Consulta, e l’insofferenza per qualunque sorpresa sgradita.
L’insistenza sul primato del «popolo sovrano», comunque vada a finire, serve ad esorcizzare una crisi di governo; e a riaffermare l’investitura di Silvio Berlusconi attraverso le urne. Se il presidente del Consiglio dovesse affrontare i processi sospesi dalla legge che protegge le prime quattro cariche dello Stato, la situazione diventerebbe pesante. Ma anche in caso contrario, il «lodo Alfano» è destinato a diventare il pretesto di un conflitto senza fine. La virulenza con la quale Antonio Di Pietro continua a lanciare avvertimenti alla Corte in vista della sentenza, è almeno speculare alle voci più estreme del centrodestra.
La sua minaccia di indire un referendum per abolire il provvedimento prefigura mesi nei quali Berlusconi sarà additato come un imputato privilegiato. L’accusa di godere di un’immunità tanto speciale quanto inaccettabile è condivisa da tutti, nell’universo dipietrista e in buona parte del centrosinistra: anche se alcuni costituzionalisti mettono in evidenza che si tratta non di immunità ma di una sospensione dei processi. Su questo sfondo, l’atteggiamento di Pdl e opposizione verso la Consulta tende a coincidere negativamente: nel senso che accettano solo in teoria la decisione che sarà presa nelle prossime ore.
Per quanto emessa in base a considerazioni di legittimità costituzionale, la sentenza sarà letta come il riflesso di un orientamento politico; e dunque scontenterà comunque qualcuno. Con le elezioni regionali nel marzo del 2010, c’è da scommettere che i delusi brandiranno il «lodo Alfano», e non solo, come arma elettorale. Gli avvocati di Berlusconi spiegano gli attacchi di cui sono oggetto come tentativi di condizionare la Corte. E le critiche al limite del vilipendio che Di Pietro ha rivolto a Giorgio Napolitano potrebbero, si dice, far partire un’inchiesta della Procura di Roma. Ma l’ex magistrato e leader dell’Idv rivendica le parole dure contro il Quirinale.
Anzi, sembra convinto che un’inchiesta del genere possa rafforzare il suo ruolo di oppositore-principe di un sistema ritenuto subalterno al capo del governo, arginando la concorrenza interna di De Magistris. I giudizi sferzanti contro il presidente della Repubblica, reo di aver firmato lo «scudo fiscale»; gli altolà alla Consulta sul «lodo Alfano»; la minaccia di referendum: sono tappe di una strategia che mette in conto un crescendo polemico funzionale alla crescita elettorale di un’area minoritaria, convinta che l’offensiva contro il premier e le presunte debolezze di Napolitano e del Pd moltiplicheranno i suoi consensi.
Massimo Franco
07 ottobre 2009 da corriere.it
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« Risposta #64 inserito:: Ottobre 08, 2009, 11:36:30 am » |
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LA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE
I danni di un conflitto
Per quanto tormentata e contestata, la decisione della Corte costituzionale ha avuto il merito della chiarezza. Forse troppa, perché Silvio Berlusconi potesse incassare un verdetto di illegittimità del «Lodo Alfano» senza reagire. I suoi giudizi liquidatori e irrispettosi sulla Consulta «di sinistra » e sul presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, tacciato di essere di parte, non hanno nulla di emotivo né di estemporaneo. Il capo del governo ha deciso di contrapporre la propria legittimazione elettorale a quelle istituzioni che, nella sua ottica, lo delegittimano senza avere dietro «il popolo». Si tratta di una sfida al rialzo, figlia di un azzardo calcolato.
Il paradosso è che fa diventare il Quirinale il parafulmine del premier e del suo più acerrimo avversario, Antonio Di Pietro. Ed ha come contraccolpo un conflitto istituzionale aggravato dalla frustrazione di un Berlusconi che sostiene di sentirsi preso in giro: come se avesse confidato fino all’ultimo in una sentenza favorevole. Sui prossimi mesi si proietta il pericolo di fratture a ripetizione fra le massime cariche del Paese. È come se insieme al «Lodo Alfano» che sospendeva i processi per le prime quattro, fosse stata spazzata via anche la tregua, se non la concordia, che aveva retto in questi mesi fra palazzo Chigi e Quirinale. Invece di far dimenticare le parole in libertà dette da maggioranza e opposizione negli ultimi giorni, la decisione della Consulta le moltiplica.
Non è l’epilogo di una stagione, però. L’offensiva segna l’inizio dell’ennesimo scontro dopo una sentenza non attesa, ma certamente temuta: un conflitto che Berlusconi ritiene di poter affrontare da posizioni magari disperate ma di forza. Costringe il centrodestra a guardare in faccia la realtà di una maggioranza scossa da una decisione che colpisce il suo presidente del Consiglio. Se pure non sarà facile governare e affrontare i processi sospesi dal «Lodo Alfano», già in passato Berlusconi lo ha fatto. Nonostante la sua ira fredda, il sentiero che deve percorrere appare obbligato anche adesso. Perfino più di prima: se non altro per l’investitura che il centrodestra ha ricevuto nel 2008; e che le Europee della primavera scorsa hanno puntellato.
Il paradosso di un leader consacrato dal voto popolare e a rischio di logoramento per una sentenza che gli riapre le porte dei tribunali è destinato a pesare sul futuro politico dell’Italia.
L’eco internazionale, spesso malevola, che circonda la saga berlusconiana, promette di crescere fino a diventare assordante. Ma se vengono lette correttamente, le sconfitte si possono gestire. Il presidente del Consiglio rimane l’unico punto di equilibrio non solo della maggioranza, ma del sistema. Non c’è traccia di un’opposizione in grado di candidarsi alla guida del Paese. E nel governo c’è piena consapevolezza che i rapporti di forza saranno verificati alle Regionali del 2010; e d’accordo con Berlusconi, non contro di lui.
Per questo non esiste altra strada che andare avanti; e concentrarsi ancora di più sull’attività di governo, pur con il Cavaliere nella doppia veste di presidente del Consiglio e di imputato. Non significa esorcizzare la battuta d’arresto di ieri, né sottovalutarne l’impatto politico e psicologico. Si tratta semmai di capire che il suo peso è stato esagerato dal sovraccarico di significati più o meno strumentali che parte della maggioranza e dei suoi avversari hanno voluto assegnare alla sentenza. In più, la decisione è arrivata dopo l’approvazione dello «scudo fiscale», per il quale è stato criticato lo stesso Quirinale. Insomma, l’impressione è che le chiavi della stabilità continuino a essere nelle mani di Berlusconi e dei suoi alleati: della Lega, soprattutto.
I segnali arrivati da Umberto Bossi, quando ancora non era stata comunicata la sentenza della Corte costituzionale sul «lodo Alfano», sono stati ambigui: una miscela di aggressività demagogica e di cautela politica.
Minacciare, come ha fatto il ministro, «l’ira del popolo» in caso di bocciatura, è apparso un gesto ai limiti dell’irresponsabilità. In parallelo, però, Bossi e con lui il presidente della Camera, Gianfranco Fini, hanno escluso il voto anticipato, riconoscendo il dovere di governare; e confermando che saranno le Regionali a dire quanto non solo Berlusconi ma l’intera coalizione siano ancora forti. D’altronde, a volere la scorciatoia elettorale in un momento come questo possono essere soltanto i teorici del «tanto peggio tanto meglio». L’incognita è se, pur senza volerlo, il centrodestra finirà per assecondare la deriva.
Massimo Franco
08 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #65 inserito:: Ottobre 24, 2009, 06:22:52 pm » |
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LA NOTA
Riemerge l’asse del Nord ma non riesce a spezzare l’assedio all’Economia
Bossi avverte che difenderà Tremonti ma il Pdl cerca di ridimensionarlo
Lo scudo di Umberto Bossi continua a proteggerlo senza crepe visibili. Ma il solo fatto che il capo della Lega debba spendere tutto il proprio peso politico a difesa di Giulio Tremonti sottolinea un’anomalìa. Accredita, anzi esagera l’immagine di un ministro dell’Economia assediato da una parte della maggioranza: quella dello stesso Pdl. Materializza un tentativo almeno di ridimensionarlo, se non di costringerlo alle dimissioni. E finisce per fare emergere più ancora di prima un «asse del Nord» con il Carroccio, che dà fiato a quanti nel centrodestra additano uno sbilanciamento «leghista » di Tremonti, ed invocano una politica più equilibrata: anche se rimane da capire fino a che punto Silvio Berlusconi voglia dare corda ai malumori diffusi contro la politica finanziaria del ministro, e correggerne l’impostazione.
La fioritura di documenti economici all’interno del Pdl sembra fatta apposta per innervosire Tremonti e dare l’impressione dell’accerchiamento. E pazienza se alcune proposte sono considerate condivisibili ma altre assumono contorni sconcertanti come quella attribuita al ministro Renato Brunetta, corredata da schemi calcistici. Come risultato si offre comunque un’immagine della maggioranza che le versioni benevole raffigurano dedita ad un braccio di ferro tra politiche economiche contrastanti; e le più maliziose, prigioniera di una confusione senza sbocchi. Perfino il ritardo col quale ieri il presidente del Consiglio è rientrato da San Pietroburgo dopo i colloqui col premier russo Putin è stato letto in chiave tutta interna.
Proprio da Tremonti che in Consiglio dei ministri avrebbe attribuito ironicamente il mancato arrivo non al maltempo ma «ad una nebbia fitta, molto fitta». Una nebbia velenosa, a sentire Bossi. «C’è un tentativo di fare fuori Tremonti, ma io lo proteggo », ha detto ieri mattina, senza giri di parole. Un modo per denunciare la manovra e drammatizzarla; e costringere il centrodestra a misurare fino in fondo i contraccolpi di una destabilizzazione del ministro dell’Economia. La sensazione, tuttavia, è che non esista nessun piano per scalzare Tremonti. Il tentativo è semmai di piegare quelle che il collega di governo, Claudio Scajola, definisce «spigolosità».
Riaffiora la vecchia accusa di impedire scelte collegiali; di tenere i cordoni della borsa troppo stretti; e di non «fare squadra » con altri esponenti governativi. Un malumore che adesso diventa pressione non tanto su Tremonti, ma su Berlusconi. La richiesta implicita è a riprendere in mano i fili strategici della politica economica in vista della campagna elettorale; che conceda almeno parte di quegli stanziamenti resi impossibili dai vincoli di bilancio imposti dal Tesoro. Da questo punto di vista, è vero che Tremonti ha avuto ed ha un ruolo difficilmente intercambiabile. La sua tutela arcigna dei conti pubblici, per quanto irritante agli occhi di alcuni colleghi di governo, finora non ha avuto alternative: anche se ha accontentato perfino alcuni settori leghisti, timorosi di vedere un federalismo sacrificato sull’altare della crisi.
La sicurezza con la quale ieri Tremonti ha spiegato ai «governatori » regionali che la riduzione dell’Irap sarà decisa rispettando il federalismo fiscale è indicativa. Significa declassare ad annuncio la proposta avanzata il giorno prima da Berlusconi. D’altronde, lo stesso sottosegretario a palazzo Chigi, Gianni Letta, ha confermato una riforma non immediata ma graduale e compatibile con l’equilibrio del bilancio. Sono segni di «grande confusione sulle scelte economiche», ne deduce Pier Ferdinando Casini, leader dell’Udc. Anche se nello scontro apertosi nel centrodestra l’opposizione è cauta. «Ho stima del ministro dell’Economia », dice di Tremonti Massimo D'Alema, del Pd. «Ma ritengo che abbia affrontato la crisi come una parentesi, badando più al controllo della finanza pubblica che alle riforme; e dicendo troppo presto che era finita». Il centrosinistra non capisce bene come andrà a finire. E nel limbo fra le primarie e lo scandalo che sta travolgendo il suo governatore nel Lazio, Piero Marrazzo, osserva: da spettatore interessato ma soprattutto preoccupato.
Massimo Franco
24 ottobre 2009 da corriere.it
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« Risposta #66 inserito:: Novembre 18, 2009, 10:10:47 am » |
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L'analisi
La tentazione della scorciatoia
La minaccia di elezioni anticipate comincia ad assumere contorni più corposi. Ed anche discutibili. Il modo in cui il presidente del Senato, Renato Schifani, ieri ha posto agli alleati l’aut aut fra compattezza della maggioranza ed interruzione della legislatura non può essere sottovalutato.
Il prestigio del suo ruolo impone di analizzare le parole seriamente, nonostante si inseriscano in uno sfondo di nervosismo e di confusione della maggioranza; e sembrino rivolte più all’interno del centrodestra che al Paese.
La prima osservazione è che l’iniziativa è stata presa mentre Giorgio Napolitano si trova in visita ufficiale in Turchia. Si sa che il potere di sciogliere le Camere spetta al presidente della Repubblica. Il fatto che la seconda carica istituzionale ipotizzi uno scenario così traumatico in sua assenza, fa pensare che lo scarto rifletta gli umori di palazzo Chigi; e finisca per alimentare il gelo fra premier e capo dello Stato. Schifani dà voce ai brontolii della «pancia» di un universo berlusconiano spaventato dalla piega che stanno prendendo le cose.
Di fronte alle spinte centrifughe nel centrodestra e alle ombre giudiziarie che si proiettano sul capo del governo, evidentemente cresce la tentazione della scorciatoia. Si tratta di un piano arrischiato. Ed è singolare che a evocarlo sia il presidente del Senato: tanto più che Gianfranco Fini aveva appena spiegato perché votare sarebbe un mezzo suicidio. La stessa Lega non vuole le elezioni anche se tecnicamente il federalismo fiscale sopravvivrebbe alla caduta del governo. Per una maggioranza alla quale neppure due anni fa gli italiani hanno assegnato il diritto ed il dovere di governare, rispedire il Paese alle urne certificherebbe un fallimento. È vero che l’opposizione sta appena cominciando a riorganizzarsi, ma politicamente il voto anticipato equivarrebbe ad una manifestazione di impotenza.
Lo scontro fra una parte della maggioranza e della magistratura, alleata con pezzi di opposizione, è radicalizzato da pregiudizi reciproci che hanno un sapore rancido. Ma non può essere risolto dagli elettori: anche perché lo hanno già fatto nel 2008 consegnando palazzo Chigi a Berlusconi. Adesso tocca al governo ed al Parlamento dare seguito agli impegni presi; e possibilmente anche ad un centrosinistra che fatica ad emanciparsi dalle pressioni più estremiste. Non c’è solo la riforma della giustizia in una fase di crisi che impone risposte, non paralisi.
È possibile che la fine della legislatura sia stata additata per indurre gli scettici del centrodestra, Fini in testa, ad abbandonare ogni esitazione e remora; e ad approvare quanto prima la legge sul «processo breve» che dovrebbe permettere a Berlusconi di affrontare in modo più tranquillo i suoi impegni di premier. Ma è legittimo dubitare che le parole di Schifani aiuteranno a rasserenare il clima. Per paradosso, rischiano di avvelenarlo ulteriormente.
Il risultato è di mostrare un Pdl caricaturale, in preda ad una specie di «sindrome dell’Unione»: un istinto autodistruttivo che nel caso della coalizione prodiana almeno era giustificato dall’assenza di una vera maggioranza e di un progetto comune.
Massimo Franco
18 novembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #67 inserito:: Novembre 20, 2009, 11:47:28 am » |
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LA NOTA
Una tregua improvvisa che conferma la Lega perno della stabilità
Dopo il caso Schifani uno scenario di tensioni tra Pdl e Quirinale
La tregua si è imposta con una tale rapidità che viene osservata con una comprensibile dose di cautela. Un presidente del Senato che prima evoca elezioni anticipate e poi, di fronte alla correzione di rotta di Silvio Berlusconi, assicura che «la maggioranza è coesa e si va avanti senza il voto», fa riflettere. Deve avere convinto a metà un po’ tutti, nonostante il coro di pacificazione che arriva da gran parte del Pdl e da palazzo Chigi. Lo stesso Giorgio Napolitano, dopo aver liquidato con flemma l’uscita di tre giorni fa di Renato Schifani, lascia capire che al ritorno dalla Turchia «probabilmente» lo incontrerà.
Segno che c’è ancora qualche aspetto da chiarire. Ma a mantenere la situazione confusa è soprattutto l’impressione che i rapporti nel centrodestra restino tesi. «Ovvio che se si rompe il patto elettorale si va al voto», conferma il coordinatore del Pdl, Sandro Bondi. Dietro l’ufficialità, premier e Lega continuano a diffidare di Gianfranco Fini. L’ultimo episodio è di ieri. Fini ha detto in un convegno che «democrazia non significa solo fare le elezioni... Anche Hitler è andato al potere con un plebiscito ». Allusione innocua ma potenzialmente esplosiva. «Se lo riferite all’Italia vi porto in tribunale», ha scherzato. Ma la precisazione dà il segno di un rapporto in bilico con Berlusconi. Se a questo si aggiungono le «grosse difficoltà» che Napolitano intravede in Parlamento insieme a «qualche spiraglio » sulle riforme, ritorna un’ombra spessa fra governo e Quirinale. «Attendiamo con la massima attenzione i rilievi» del capo dello Stato, annuncia a nome del Pdl, Fabrizio Cicchitto: parole che suonano come atto di omaggio e insieme di sfida.
Si ricorda che la maggioranza si sarebbe sobbarcata il peso della crisi economica e dell’eredità di «esperienze passate». Insomma, gli appunti del capo dello Stato sono accolti con una punta di irritazione. Per ora la scorciatoia elettorale non è stata imboccata. Ma sulle ragioni della frenata rimane un alone di mistero. Influisce senz’altro il silenzio pesante del Colle, stupito dal modo irrituale col quale se n’è parlato: la mossa di Schifani dava per scontati passaggi parlamentari che non lo sono affatto. E forse è stata sottovalutata l’«ala finiana».
Ma la stessa Lega sembra perplessa, confermandosi in questa fase il perno della stabilità. Il leader Umberto Bossi e Roberto Castelli ritengono che interrompere la legislatura possa essere solo «l’ultima spiaggia»: un estremo atto di lealtà al premier. E poi, esiste un «partito del 2013» trasversale e contrario al «tutti a casa » anticipato. Dettaglio ulteriore: il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, avverte che in caso di crisi Napolitano dovrebbe cercare un’altra maggioranza parlamentare. Per il Pdl, significa analizzare ogni scenario da una inedita posizione di incertezza.
Massimo Franco
20 novembre 2009 da corriere.it
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« Risposta #68 inserito:: Novembre 25, 2009, 03:42:44 pm » |
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LA NOTA
Il paradosso del governo Avanti sull’economia bloccato sui processi
Aumenta la confusione sul «processo breve».
Si conferma l’asse Lega-premier
Le convulsioni sui rapporti fra governo e magistratura, e la cauta soddisfazione sull’andamento dell’economia, fotografano il paradosso di una coalizione che sembra in bilico eppure non può cadere. La legge sul «processo breve» rimane assediata dall’incertezza e dai veleni. E ieri il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha invitato a non confonderla con la riforma della giustizia. Ma intanto il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, rivendica come un risultato straordinario che siano state fatte «cose normali in un periodo non propriamente normale ». La cena di ieri da Silvio Berlusconi, con Tremonti e con Umberto Bossi, conferma un’alleanza imperniata sul rapporto fra Pdl e Lega.
Si tratta di una mezzadrìa politica che tende a dare comunque una soluzione al problema della durata dei processi nei quali è coinvolto il presidente del Consiglio: la considera il miglior antidoto contro l’instabilità e contro la tentazione di interrompere la legislatura. Non a caso ieri il Carroccio ha sostenuto che non è la politica a voler mettere sotto tutela i magistrati ma semmai il contrario: almeno da parte di «alcuni pm». In realtà, non c’è ancora un testo capace di mettere d’accordo l’intera maggioranza e di ottenere almeno la neutralità dell’opposizione. Esiste un’intesa da riempire.
In parte pesa il voto di primavera per le regionali, che rende Pd e Udc ancora più duri verso Berlusconi, avvicinandoli all’estremismo dipietrista. Ma la confusione nel centrodestra contribuisce a rendere i prossimi giorni estremamente nervosi. Per come è stata formulata finora, la legge sul «processo breve » semina perplessità trasversali. Il pericolo che vengano prescritti molti processi è reale, al di là della guerra di percentuali fra Anm e governo.
Il timore di palazzo Chigi è che le proposte di mediazione arrivate sia da Pier Ferdinando Casini, sia dallo stesso presidente della Camera, Fini, rischino di intrappolare il premier; di costringerlo ad una trattativa logorante. «Mi metto a ridere quando leggo che penserei ad un complotto», si è difeso ieri Fini a Milano. Presentando il suo libro nella sede del Corriere , ha rifiutato i panni di «eretico» del Pdl, rivendicando il diritto a chiedere equilibrio fra rafforzamento di governo e Parlamento. Poi ha aggiunto che non sarebbe andato ad Arcore. «Ceno con le mie figlie», ha glissato sull’incontro Berlusconi- Bossi-Tremonti, confermando un asse che lo esclude.
Il fatto che il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, abbia subito accolto l’idea finiana di discutere la durata dei processi ripartendo da una vecchia proposta di Luciano Violante, non cancellerà la diffidenza degli alleati. Anzi, sembra destinato a farla lievitare. L’insistenza della Lega sulla necessità di governare e di completare le riforme lascia capire che non ci sono alternative rispetto a quella di andare avanti; e di trovare una qualche via d’uscita per le vicende processuali del presidente del Consiglio. Ma più passano i giorni, più cresce la consapevolezza delle difficoltà. Problemi oggettivi, legati alla complessità della materia e all’impopolarità che una legge incostituzionale potrebbe rappresentare per il governo. Ma anche ostacoli strumentali, seminati da chi indovina una situazione confusa; e in fondo vuole che rimanga tale.
Massimo Franco
25 novembre 2009 da corriere.it
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« Risposta #69 inserito:: Novembre 27, 2009, 11:10:21 am » |
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LA NOTA
Campagna d'inverno che rompe l'assedio e cerca di isolare Fini
La parola più usata è stata «processo»: in senso letterale e metaforico. Ma Silvio Berlusconi ieri l’ha evocata per uscire dal bunker nel quale il centrodestra è stato spinto dal braccio di ferro con la magistratura e l’opposizione. In parte, il Pdl c’è riuscito, riproponendo come legge costituzionale il «lodo Alfano» bocciato dalla Consulta; e insistendo sull’accorciamento dei tempi processuali. Le tensioni, però, non diminuiscono, anzi. Il presidente del Consiglio accusa alcuni giudici di «deriva eversiva». Vede una sorta di «guerra civile fra poteri dello Stato », anche se l’espressione è stata smentita da palazzo Chigi.
La tesi berlusconiana è che si punti a far cadere il governo. Ma il premier conferma anche l’irritazione verso alcuni alleati. «Il partito decide a maggioranza», ha detto. «Chi non si adegua è fuori». Il riferimento sembra in primo luogo al presidente della Camera. I distinguo di Gianfranco Fini sulla giustizia, sull’immigrazione, sui rapporti Governo-Parlamento appaiono indigesti. Per palazzo Chigi, a giustificarli non basta il ruolo istituzionale. La sensazione è che il premier voglia esasperare i contraccolpi politici che le inchieste siciliane e le rivelazioni di alcuni pentiti stanno provocando. L’obiettivo appare doppio: ricompattare una coalizione slabbrata, e dare un segnale a quella parte dell’opposizione non ostile in modo pregiudiziale alla riforma della giustizia. Accettare il percorso costituzionale per la legge che esclude dai processi le prime cariche dello Stato serve a rompere l’assedio.
Ma non è scontato che la manovra riesca. La reazione del Pd, e dell’Idv che parla di scenari golpisti, conferma un clima avvelenato; e l’atteggiamento di Fini resta un’incognita. Ma dopo un lungo silenzio Berlusconi ha deciso la sua «campagna d’inverno», con toni allarmati e ultimativi: tipici di chi chiede di serrare i ranghi. È un ultimatum per ottenere dalla coalizione un «sì» senza condizioni al «processo breve» che dovrebbe sottrarlo alle inchieste nelle quali è imputato. C’è da chiedersi, tuttavia, che cosa accadrà se continueranno i distinguo di una parte del Pdl. La minaccia neppure troppo velata di espulsione dei dissidenti è facile in linea teorica, meno in concreto. Forse, potrebbe avere una sua logica se prendesse corpo il voto anticipato, che impone la disciplina di partito. L’aut aut di ieri assumerebbe il sapore di un appello preelettorale. Ma non si è ancora a questo punto; né è detto che ci si arrivi.
Massimo Franco
27 novembre 2009 da corriere.it
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« Risposta #70 inserito:: Dicembre 09, 2009, 04:35:53 pm » |
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LO scontro tra Lega e Tettamanzi
Cattolici senza casa
Le tensioni fra partiti e mondo cattolico segnalano una novità che travalica i singoli episodi. Non si tratta della diaspora politica. Quella è cominciata da anni, ormai: da prima ancora che finisse la Dc. La cesura è rappresentata dall’irrilevanza crescente dei politici che si presentano come «cristiani» nelle file della maggioranza e dell’opposizione; ma anche dalla difficoltà dei vescovi italiani e del Vaticano a pesare sulle scelte del governo e sugli equilibri di potere. È il risultato della parabola iniziatasi con la Seconda Repubblica; passata attraverso tentativi tormentati di equidistanza fra gli schieramenti; e conclusasi con una situazione nella quale il ceto politico cattolico in quanto tale, dovunque stia, tende ad essere sempre meno rappresentativo e a non sentirsi rappresentato: quasi sfrattato e senza casa. Si tratta di un’evoluzione che ha vissuto momenti traumatici e non sempre limpidi; ma che per paradosso può costituire un elemento di chiarezza.
Nel centrodestra, questa caduta di influenza è avvalorata da due fatti recenti. Il primo è stato l’aggressione a Dino Boffo, direttore di «Avvenire», che alla fine si è confermata solo un’operazione per intimidire la Chiesa. Il secondo è la polemica ruvida della Lega contro l’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, accusato di «clericalismo di sinistra». Al di là delle differenze, i due episodi rivelano un centrodestra che si sente abbastanza forte da sostenere un braccio di ferro con il Vaticano ed i vescovi italiani. Pensa di poterlo fare in base ad un’analisi fredda dei rapporti di forza. Sa infatti che la Chiesa è divisa, e soprattutto che non orienta più come prima l’elettorato. Silvio Berlusconi e Umberto Bossi hanno identità e consensi in proprio: dal 1994 hanno vinto da soli. Un asse con le gerarchie cattoliche, se esiste, funziona soltanto fino a che non confligge con l’agenda non solo vaticana, ma governativa. E infatti, nel momento dello scontro Pdl e Lega non hanno esitato a far prevalere le loro priorità.
Nel centrosinistra, si chiude il cerchio di un allontanamento progressivo. La mini-scissione di Francesco Rutelli e l’uscita di singoli «cattolici a disagio » dilatano la sensazione di un Pd inospitale. In realtà, l’elezione del segretario Pierluigi Bersani non è la causa dell’irrilevanza degli ex popolari: sembra piuttosto la presa d’atto della loro scarsa incidenza. Si stanno dunque esaurendo un filone ed una presenza. E l’Udc, sulla quale il mondo cattolico nutre qualche dubbio, appare in grado magari di arginare, ma certo non di invertire il processo.
Questo, però, dovrebbe permettere alla Chiesa di riprendere possesso di spazi che le sono propri, senza essere frenata da malintesi collateralismi. Gli indizi di un ruolo ritrovato si intravedono in materia di immigrazione, politica della famiglia, rapporti fra etica e informazione, coesione nazionale. Anticipano una fase più appartata sul piano politico e meno ipotecata dal timore di turbare equilibri di governo sui quali Santa Sede e Cei possono influire meno del passato: sebbene forse se ne rendano conto solo ora.
Massimo Franco
09 dicembre 2009 © RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #71 inserito:: Dicembre 10, 2009, 10:28:47 am » |
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LA NOTA
Un centrodestra nervoso accentua le incognite nel rapporto con i pm
Scontro duro tra Alfano e l’Anm. Crescono i dubbi sul «processo breve»
Il fronte fra governo e magistratura rimane aperto, e percorso dal nervosismo. La legge sul «processo breve» rimane sullo sfondo come motivo di scontro e di polemiche. Eppure, nonostante il centrodestra continui a sostenerlo, crescono i dubbi sulla sua fattibilità: troppo complicato da scrivere; troppo dirompente per le ricadute che potrebbe avere sul sistema giudiziario; e bollato proprio ieri come incostituzionale da un parere del Csm. Il Pd chiede al governo di ritirarlo, confermando che rimane un’arma polemica. Per questo, si ha la sensazione che al provvedimento si affianchi l’opzione del «legittimo impedimento » .
È la norma con la quale Silvio Berlusconi potrà sottrarsi alle udienze nei processi che lo riguardano, a meno che la convocazione non confligga con i suoi impegni istituzionali. Ma l’ipotesi che possa ricevere il «sì» del Parlamento entro dicembre è improbabile. Ieri il presidente della commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, ha parlato di gennaio. Il fatto che esistano diverse proposte «dimostra che il problema va affrontato», secondo la parlamentare del Pdl. L’Udc di Casini sembra disponibile a discuterne. Dal Pd arrivano segnali ostili ma non pregiudiziali.
Ad avvelenare lo sfondo rimangono però le inchieste di mafia e lo scontro fra Angelino Alfano e l’Associazione nazionale magistrati. Al ministro della Giustizia che chiedeva ai pm di lavorare di più e andare meno in tv, l’Anm replica definendo «legittima» la «presenza pubblica dei magistrati»; e sostenendo che sono le aule giudiziarie e le sentenze a parlare per loro. Dal 20 al 27 gennaio hanno deciso di mobilitarsi: apriranno i tribunali per mostrare in quali condizioni difficili lavorano.
«L’Anm si comporta da partito politico», accusa il Pdl. E rilancia i sospetti sul modo in cui alcune procure siciliane usano i pentiti di mafia. Si tratta di un braccio di ferro destinato a durare; ed a riservare altri picchi di tensione. Ieri il procuratore generale antimafia, Piero Grasso, ha replicato indirettamente ad Alfano e a Berlusconi, avvertendo che la legge sui pentiti non può essere toccata. In più, rimane acuta la polemica sulle sedi disagiate. Ma ad alimentare la confusione sono i contrasti nel Pdl.
Le diffidenze fra palazzo Chigi e presidenza della Camera non sono superate. La decisione del centrodestra di rinviare a gennaio la legge sulla cittadinanza agli immigrati è stata letta come uno sgarbo a Fini. E la notizia di una «bonifica» anti-intercettazioni nell’appartamento del presidente della Camera non rasserena il clima. Ogni passaggio sottolinea l’affanno della coalizione; e fa crescere il sospetto di una resa dei conti solo rinviata. Il voto di oggi sul sottosegretario Cosentino, per il quale i magistrati di Napoli chiedono l’arresto, può diventare un termometro indicativo.
Massimo Franco
10 dicembre 2009 da corriere.it
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« Risposta #72 inserito:: Dicembre 10, 2009, 10:31:51 am » |
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Lo scontro tra lega e Tettamanzi
Cattolici senza casa
Le tensioni fra partiti e mondo cattolico segnalano una novità che travalica i singoli episodi. Non si tratta della diaspora politica. Quella è cominciata da anni, ormai: da prima ancora che finisse la Dc. La cesura è rappresentata dall’irrilevanza crescente dei politici che si presentano come «cristiani» nelle file della maggioranza e dell’opposizione; ma anche dalla difficoltà dei vescovi italiani e del Vaticano a pesare sulle scelte del governo e sugli equilibri di potere. È il risultato della parabola iniziatasi con la Seconda Repubblica; passata attraverso tentativi tormentati di equidistanza fra gli schieramenti; e conclusasi con una situazione nella quale il ceto politico cattolico in quanto tale, dovunque stia, tende ad essere sempre meno rappresentativo e a non sentirsi rappresentato: quasi sfrattato e senza casa. Si tratta di un’evoluzione che ha vissuto momenti traumatici e non sempre limpidi; ma che per paradosso può costituire un elemento di chiarezza.
Nel centrodestra, questa caduta di influenza è avvalorata da due fatti recenti. Il primo è stato l’aggressione a Dino Boffo, direttore di «Avvenire», che alla fine si è confermata solo un’operazione per intimidire la Chiesa. Il secondo è la polemica ruvida della Lega contro l’arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, accusato di «clericalismo di sinistra». Al di là delle differenze, i due episodi rivelano un centrodestra che si sente abbastanza forte da sostenere un braccio di ferro con il Vaticano ed i vescovi italiani. Pensa di poterlo fare in base ad un’analisi fredda dei rapporti di forza. Sa infatti che la Chiesa è divisa, e soprattutto che non orienta più come prima l’elettorato. Silvio Berlusconi e Umberto Bossi hanno identità e consensi in proprio: dal 1994 hanno vinto da soli. Un asse con le gerarchie cattoliche, se esiste, funziona soltanto fino a che non confligge con l’agenda non solo vaticana, ma governativa. E infatti, nel momento dello scontro Pdl e Lega non hanno esitato a far prevalere le loro priorità.
Nel centrosinistra, si chiude il cerchio di un allontanamento progressivo. La mini-scissione di Francesco Rutelli e l’uscita di singoli «cattolici a disagio » dilatano la sensazione di un Pd inospitale. In realtà, l’elezione del segretario Pierluigi Bersani non è la causa dell’irrilevanza degli ex popolari: sembra piuttosto la presa d’atto della loro scarsa incidenza. Si stanno dunque esaurendo un filone ed una presenza. E l’Udc, sulla quale il mondo cattolico nutre qualche dubbio, appare in grado magari di arginare, ma certo non di invertire il processo.
Questo, però, dovrebbe permettere alla Chiesa di riprendere possesso di spazi che le sono propri, senza essere frenata da malintesi collateralismi. Gli indizi di un ruolo ritrovato si intravedono in materia di immigrazione, politica della famiglia, rapporti fra etica e informazione, coesione nazionale. Anticipano una fase più appartata sul piano politico e meno ipotecata dal timore di turbare equilibri di governo sui quali Santa Sede e Cei possono influire meno del passato: sebbene forse se ne rendano conto solo ora.
Massimo Franco
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« Risposta #73 inserito:: Dicembre 11, 2009, 04:29:15 pm » |
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L'EDITORIALE
Veleni e rischi
La chiave per capire lo sfogo di Silvio Berlusconi davanti alla platea del Ppe, ieri a Bonn, è certamente l’esasperazione. Troppi veleni e troppe tensioni, anche nel centrodestra; e troppa incertezza. Altrimenti, non si capirebbe come un presidente del Consiglio dotato di una maggioranza schiacciante possa dire che «la sovranità è passata dal Parlamento al partito dei giudici». Lo stupore della platea fa pensare che il discorso sia stato iscritto più nella categoria delle stranezze italiane che in quella degli attacchi alla democrazia, come sostiene l’opposizione: anche se la scelta di parlare ad un congresso internazionale accentua l’imbarazzo. È come se da giovedì le anomalie del Belpaese fossero state offerte al giudizio dell’Europa. Le nazioni alleate sono state informate del rapporto tormentato fra magistratura e potere politico; fra i processi e l’investitura popolare di un capo di governo.
Il sospetto, però, è che il problema sia assai poco sentito fuori dai nostri confini; e che l’esportazione di un conflitto istituzionale in una fase di crisi economica e finanziaria generalizzata sia accolta come un tema staccato dalla realtà. I contraccolpi interni, però, ci sono: soprattutto per il nuovo attacco alla Consulta. Berlusconi, l’uomo che ha forgiato e dominato la Seconda Repubblica, sembra diventato il suo involontario picconatore. Eppure, è convinto di non essere lui a sferrare i colpi che rischiano di lesionare il Paese: si considera la vittima di una serie di sabotatori annidati in un potere senza legittimazione popolare; e senza diritto di replica. Ma in una lotta che appare sempre più di sopravvivenza, i rischi si moltiplicano. Per questo il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e quello della Camera, Gianfranco Fini, non potevano tacere; e infatti la cosa più rumorosa è il silenzio della seconda carica dello Stato, Renato Schifani. La «preoccupazione» ed il «rammarico» espressi da Napolitano fotografano una situazione in bilico.
Il fatto che Berlusconi abbia scelto di non replicargli dimostra che la sua offensiva non risponde ad una strategia a tavolino; che non c’è la volontà di rompere con il Quirinale, sebbene le critiche del Pdl al presidente della Repubblica segnalino un’ostilità strisciante. La prospettiva di un governo costretto a procedere per altri tre anni in un clima di conflittualità così accentuata fa venire i brividi. Promette un logoramento ed una paralisi decisionale dei quali pagherebbe il prezzo il Paese, oltre che Berlusconi. Il premier ribadisce la volontà di rivoluzionare le istituzioni. Ma se davvero ne è convinto, non si spiega il senso di impotenza che filtra dalle sue parole sui giudici. Mai come in questi giorni si ha l’impressione di un Berlusconi combattuto fra voglia di uscire dall’accerchiamento tornando davanti al corpo elettorale, e consapevolezza che il Paese gli chiede di governare. Per quanto giustificata da un contorno di veleni, l’esasperazione non è il consigliere migliore. E gli annunci non seguiti da scelte conseguenti possono rafforzare gli avversari.
Massimo Franco
11 dicembre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #74 inserito:: Dicembre 12, 2009, 03:40:33 pm » |
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LA NOTA
Sul ruolo del Quirinale si riapre il duello fra premier e presidente
Pd e Fini difendono Napolitano. Dura replica di Berlusconi
Lo scontro è sull’«arbitro». E sembra destinato a rimettere l’uno di fronte all’altro Giorgio Napolitano e Silvio Berlusconi. L’altro ieri il capo del governo aveva criticato oltre alla Corte costituzionale e la magistratura anche il presidente della Repubblica. Ma di fronte alla risposta netta di Napolitano non aveva controreplicato, evitando l’inasprimento di un contrasto già latente. Ieri, invece, Berlusconi ha consegnato il suo messaggio di ghiaccio sulle preoccupazioni che il Quirinale aveva espresso per lo scontro istituzionale. «In realtà ci si dovrebbe preoccupare per l’uso politico della giustizia», ha detto. «C’è una situazione di violenza solo nei miei confronti».
Il senso è chiaro: palazzo Chigi non farà nessuna marcia indietro rispetto alle dichiarazioni rilasciate al congresso del Ppe a Bonn, nonostante fossero dettate dall’esasperazione. Non solo. Nell’invito a Napolitano a difenderlo dai magistrati si indovina l’irritazione per l’isolamento anche istituzionale che il presidente del Consiglio ritiene di avere avvertito intorno a sé. Il riferimento è alla recente udienza del pentito di mafia Gaspare Spatuzza, che ha chiamato in causa Berlusconi ed il senatore Marcello Dell’Utri: un’accusa smentita dal mafioso Filippo Graviano al processo di Palermo. Per Berlusconi «siamo alle comiche». Ma lo dice con un sorriso amarissimo.
La scia di veleni lasciata da quelle deposizioni sta investendo i vertici dello Stato. Gianfranco Fini sostiene che proprio le parole di Graviano dovrebbero indurre alla fiducia nei giudici. Ed invita implicitamente il premier a riconoscersi nel presidente della Repubblica, «arbitro imparziale anche quando sbaglia». È quanto ripetono gli esponenti dell’opposizione, per i quali Napolitano rappresenta un punto di resistenza agli attacchi berlusconiani alla Costituzione. Lo schema che si va delineando, però, rischia di ottenere effetti indesiderati, alimentando l’offensiva berlusconiana su un presidente «di sinistra».
Non a caso il ministro degli Esteri, Franco Frattini, replica a Fini che «primo arbitro è il popolo»: riproponendo la dicotomia fra la legittimazione costituzionale del capo dello Stato, e quella «di fatto» di un premier mandato al governo dagli elettori. E annuncia una lettera all’Ue per «spiegare che cosa sia la magistratura in Italia». Il pericolo insito in questa diatriba è che senza volerlo, il centrosinistra tiri troppo a sé il Quirinale: un’operazione accentuata dalla solidarietà a Napolitano da Fini, in rotta di collisione sempre più evidente col Cavaliere. Pier Ferdinando Casini, dell’Udc, cerca una mediazione. «Contro Berlusconi», ammette, «c'è sicuramente accanimento di una certa magistratura. Ma la sua reazione deve essere composta».
L’aspetto positivo è che, nonostante tutto, il presidente della Repubblica non si stanca di sottolineare l’esigenza di ritrovare un filo di serenità. Eppure, se la campagna per riformare la Costituzione «vecchia di decenni» continua con i toni che segnano questi giorni, fra capo del Governo e dello Stato le tensioni promettono di continuare; e forse di inasprirsi. Ed anche Napolitano, indietro non torna. A che cosa porti tutto questo continua a non essere chiaro. Ma il fantasma del voto anticipato incombe, sebbene ieri Berlusconi abbia assicurato di non avere pensato «neanche una sola volta» ad elezioni: parole sottoscritte dalla Lega, a conferma che il partito di Umberto Bossi faticherebbe ad assecondare una scelta così traumatica. Il vicesegretario del Pd, Enrico Letta, avverte che naufragherebbe il federalismo. Ma non sembra sufficiente a fermare la deriva.
Massimo Franco
12 dicembre 2009 da corriere.it
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