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Autore Discussione: BRUTTE e tristi STORIE...  (Letto 165884 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Marzo 13, 2008, 05:34:55 pm »

CRONACA

LA STORIA. "Ho fatto una scelta, e non devo renderne conto a nessuno

Andando in quello studio però non sapevo di commettere un reato"

Il dramma della star di un reality "Avevo paura che si sapesse in giro"

di MASSIMO CALANDRI e MARCO PREVE

 
GENOVA - Ha passato i trent'anni da un po'. È sempre molto bella. Dicono non abbia grandi doti artistiche, ma possiede una determinazione straordinaria. Il suo sogno è quello di continuare nella carriera televisiva, nonostante tutto. Nonostante gli alti e bassi degli ultimi tempi. E nonostante quella gravidanza che non si aspettava, che non voleva, che ha scoperto all'inizio dell'anno. "In questo momento potrebbe compromettere la mia vita professionale", aveva confessato al ginecologo. È andata proprio così, giusto un mese fa. Ha bussato allo studio privato di Ermanno Rossi per una prima visita. Pochi giorni dopo, l'intervento. "Nessun dolore, nessun rimorso. Almeno, non ora. Non ho figli, ma ci penserò tra qualche anno".

Divorziata, già protagonista di un noto reality show e di alcuni calendari, ospite di numerosi salotti tv, indossatrice e modella. La prossima settimana sarà interrogata da Sabrina Monteverde, il pubblico ministero che gestisce la delicata inchiesta genovese sugli aborti clandestini. Si è affidata ad uno dei migliori penalisti del capoluogo ligure. "Non immaginavo di essere indagata, l'ho saputo dai carabinieri che mi hanno convocato", si confida con chi la può aiutare. "Mi sono sempre fidata di quel medico, lo conoscevo bene. Una persona corretta". Ha bussato al suo ambulatorio privato. E questo è un reato. "Sono andata nel suo studio unicamente perché non volevo che trapelasse la notizia. Ho fatto una scelta, e non devo renderne conto a nessuno. Ma sono un personaggio pubblico, avevo il terrore che si sapesse in giro. Semplicemente, non credevo di commettere un reato".

Il medico avrebbe dovuto avvertirla: poteva tranquillamente sottoporsi all'intervento in una struttura pubblica come il San Martino. "Sono sicuro che l'ha fatto per aiutarmi, ero stata io a chiedere la massima discrezione. Il fatto che si sia tolto la vita mi ha profondamente colpito. Non era colpevole, non aveva cattive intenzioni: ne sono sicura".

Ufficialmente è indagata ai sensi dell'articolo 19 della legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza al di fuori delle strutture e delle procedure previste dalla legge. Se dice la verità, e cioè che l'aborto clandestino è avvenuto nei novanta giorni dal concepimento, pagherà una multa di 51 euro. "L'ho già detto al mio avvocato. Sono disponibile a parlare subito con il magistrato. A spiegare, chiarire. Pagherò la multa. Tutto quello che voglio è chiudere la vicenda al più presto. E che il mio nome non venga mai pubblicato dai giornali. Non per questa storia, voglio dire".

Tra le altre persone indagate per essersi rivolte al medico suicida c'è anche una impiegata di 28 anni, di Chiavari. Ha già ricevuto l'invito a presentarsi in procura la prossima settimana. E racconta: "Ermanno Rossi era da tempo il mio ginecologo, mi ha sempre seguito". Anche lei non ha figli. "Avevo un fidanzato. Una storia che andava avanti da molto, ma che recentemente è andata in crisi. Ci siamo lasciati, siamo ritornati insieme. Alla fine, la rottura definitiva. Insomma, ci siamo lasciati". E lei ha scoperto di aspettare un bambino da lui. "Ero rimasta incinta. Sono stati giorni duri, tormentati. Non è stato facile, ma alla fine ho deciso che quel figlio non lo volevo. E mi sono rivolta al ginecologo".

Il dottor Rossi le ha detto che l'interruzione di gravidanza si pratica regolarmente in tanti ospedali pubblici? "Mi ha detto che potevo andarlo a trovare nel suo studio. E così ho fatto". È andata all'ambulatorio privato di Rapallo? "Sì". E ha pagato cinquecento euro. "Di questo preferisco non parlare". Cosa è accaduto, nello studio? "Il medico è stato molto gentile. E premuroso. Ha usato un aspiratore. È durato tutto pochi minuti. Non è stato doloroso". Lo sapeva di commettere un reato? "No, assolutamente. L'aborto è legale, in Italia. Davvero, pensavo che tra uno studio privato e un ospedale pubblico non ci fosse una grande differenza. L'unica cosa era forse il costo, ma soprattutto la discrezione. In quel modo non lo avrebbe saputo nessuno". Invece, lunedì l'hanno chiamata i carabinieri. "Sì, credo sia accaduto mentre stavano perquisendo il suo studio di Rapallo. Quello dove è successo tutto. Ma io non lo sapevo di fare qualcosa di illegale, giuro".


(13 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #61 inserito:: Marzo 13, 2008, 05:52:54 pm »

POLITICA

La battuta del Cavaliere ad una studentessa durante un programma tv

Reazioni indignate da Pd e SA. Franceschini: "Si scusi", Bertinotti: "Allarmante"

Berlusconi: "Contro la precarietà? Sposare mio figlio o un milionario"

 
ROMA - La ricetta di Silvio Berlusconi contro la precarietà? Sposarsi un ricco. La battuta, cui il leader del Pdl non ha saputo resistere, era diretta ad una studentessa che ieri nel corso del programma "Punto di Vista" del Tg2 gli chiedeva come fosse possibile per le coppie giovani mettere su famiglia senza la sicurezza di un posto, e un reddito, fisso.

"Io, da padre - ha risposto Berlusconi sorridendo - le consiglio di cercare di sposare il figlio di Berlusconi o qualcun altro del genere; e credo che, con il suo sorriso, se lo può certamente permettere". Poi, ha elencato le proposte contenute nel programma del Pdl per aiutare i giovani, dalle agevolazioni sui mutui al piano-casa.

All'obiezione del conduttore della trasmissione, Maurizio Martinelli, che "di figli di Berlusconi in giro ce ne sono pochi" il Cavaliere, sempre sorridente, ha insistito: "Se dovessi dire qual è il consiglio più valido, penso sia quello che le ho dato all'inizio...".

La battuta ha scatenato un coro di reazioni indignate da parte del Pd e della Sinistra Arcobaleno. "Come italiano mi vergogno delle parole di Berlusconi" commenta Dario Franceschini. "Di fronte a centinaia di migliaia di giovani italiani che vivono la precarietà del loro rapporto di lavoro come un'ipoteca sul loro futuro, rispondere ad una ragazza precaria che il modo di uscire dalla sua situazione è sposare il proprio figlio, o il figlio di un milionario, suona come un'offesa insopportabile" continua il vicesegretario del Partito Democratico, aggiungendo: "Penso che in qualsiasi paese un leader politico, a prescindere da quale parte politica esso appartenga, sarebbe costretto a scusarsi per quella battuta offensiva".

Per Fausto Bertinotti, l'uscita di Berlusconi, anche se si tratta di uno scherzo, è allarmante e "indicativa di una cultura che propone ai giovani una realizzazione fuori dalla loro vita ordinaria". Per il candidato premier di Sinistra Arcobaleno viste le proposte della destra non resta che augurare ai precari "che vincano la lotteria", ma la ricetta della sinistra è quella di "cancellare l'idea della lotteria" a favore di miglioramenti concreti.

(13 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #62 inserito:: Marzo 18, 2008, 08:51:02 pm »

CRONACA

Marco Poggi, infermiere penitenziario, era in servizio in quei tre giorni

Il racconto al pm e un libro sulla vicenda: "Quegli uomini dovevano essere sospesi"

"Io, l'infame della caserma che ha denunciato quelle torture"

di GIUSEPPE D'AVANZO

 

MARCO Poggi, infermiere penitenziario, entrò in servizio a Bolzaneto alle 20 di venerdì 20 luglio 2001 e ci rimase fino alle 15, 15.30 di domenica 22 luglio. "Ho visto picchiare con violenza e ripetutamente i detenuti presenti con schiaffi, pugni, calci, testate contro il muro". "Picchiava la polizia di stato ma soprattutto il "gruppo operativo mobile" e il "nucleo traduzioni" della polizia penitenziaria. Ho visto trascinare un detenuto in bagno, da tre o quattro agenti della "penitenziaria". Gli dicevano: "Devi pisciare, vero?". Una volta arrivati nell'androne del bagno, ho sentito che lo sottoponevano a un vero e proprio linciaggio...".

Marco Poggi dice che sa che cos'è la violenza. "Ci sono cresciuto dentro. Ho "rubato" la terza elementare ai corsi serali delle 150 ore e sono andato infermiere in carcere per buscarmi il mio pezzo di pane. Per anni ho lavorato al carcere della Dozza a Bologna. Un posto mica da ridere. Tossici, ladri di galline, mafiosi, trans, stupratori. La violenza la respiravi come aria, ma quel che ho visto a Bolzaneto in quei giorni non l'avrei mai ritenuto possibile, prima. Alcuni detenuti non capivano come fare le flessioni di routine previste dalla perquisizione di primo ingresso in carcere. Meno capivano e più venivano picchiati a pugni e calci dagli agenti della polizia penitenziaria. Gli ufficiali, i sottufficiali guardavano, ridevano e non intervenivano. Ho visto il medico, vestito con tuta mimetica, anfibi, maglietta blu con stampato sopra il distintivo degli agenti della polizia penitenziaria, togliere un piercing dal naso di una ragazza che era in quel momento sottoposta a visita medica e intanto le diceva: "Sei una brigatista?"".

Marco Poggi è "l'infame di Bolzaneto". Così lo chiamavano alcuni agenti della "penitenziaria" e lui, in risposta, per provocazione, per orgoglio, per sfida, proprio in quel modo - Io, l'infame di Bolzaneto - ha voluto titolare il libro che raccoglie la sua testimonianza. Poggi è stato il primo - tra chi era dall'altra parte - a sentire il dovere di rompere il cerchio del silenzio. "Delle violenze nelle strade di Genova - dice - c'erano le immagini, le foto, i filmati. Tutto è avvenuto alla luce del sole. A Bolzaneto, no. Le violenze, le torture si sono consumate dietro le mura di una caserma, in uno spazio chiuso e protetto, in un ambiente che prometteva impunità. Solo chi l'ha visto, poteva raccontarlo. Solo chi c'era poteva confermare che il racconto di quei ragazzi vittime delle violenze era autentico. Io ero tra quelli. Che dovevo fare, allora? Dopo che sono tornato a casa da Genova, per giorni me ne sono stato zitto, anche con i miei. Io sono un pavido, dico sempre. Ma in quei giorni avevo come un dolore al petto, un sapore di amaro nella bocca quando ascoltavo il bla bla bla dei ministri, le menzogne, la noncuranza e infine le accuse contro quei ragazzi. Non ho studiato - l'ho detto - ma la mia famiglia mi ha insegnato il senso della giustizia. Non ho la fortuna di credere in Dio, ho la fortuna di credere in questa cosa - nella giustizia - e allora mi sono ripetuto che non potevo fare anch'io scena muta come stavano facendo tutti gli altri che erano con me, accanto a me e avevano visto che quel che io avevo visto. Ne ho parlato con i miei e loro mi hanno detto che dovevo fare ciò che credevo giusto perché mi sarebbero stati sempre accanto. E l'ho fatta, la cosa giusta. Interrogato dal magistrato, ho detto quel che avevo visto e non ci ho messo coraggio, come mi dicono ora esagerando. Non sono matto. Ci ho messo, credo, soltanto l'ossequio per lo stato, il rispetto per il mio lavoro e per gli agenti della polizia carceraria - e sono la stragrande maggioranza - che non menano le mani".

Marco Poggi ha pagato il prezzo della sua testimonianza. "Beh! - dice - un po' sì, devo dirlo. Dopo la testimonianza, in carcere mi hanno consigliato - vivamente, per dire così - di lasciare il lavoro. Dicevano che quel posto per me non era più sicuro. Qualcuno si è divertito con la mia auto, rovinandomela. Qualche altro mi ha spedito la mia foto con su scritto: "Te la faremo pagare". Il medico con la mimetica e gli anfibi mi ha denunciato per calunnia. Ma il giudice ha archiviato la mia posizione e con il lavoro mi sono arrangiato con contratti part-time in case di riposo per anziani. Oggi, anche se molti continuano a preoccuparsi della mia integrità più di quanto faccia solitamente la mia famiglia, sono tornato a lavorare in carcere, allo psichiatrico di Castelfranco Emilia. Mi faccio 160 chilometri al giorno, ma va bene così. Sono tutti gentili con me, l'infame di Bolzaneto".

Dice Marco Poggi che "se i reati non ci sono - se la tortura non è ancora un reato - non è che te li puoi inventare". Dice che lui "lo sapeva fin dall'inizio che poi le condanne sarebbero state miti e magari cancellate con la prescrizione". Dice Poggi che però "quel che conta non è la vendetta. La vendetta è sempre oscena. Il direttore del carcere di Bologna Chirolli - una gran brava persona che mi ha insegnato molte cose sul mio lavoro - ci ripeteva sempre che lo Stato ha il dovere di punire e mai il diritto di vendicarsi. Mi sembra che sia una frase da tenere sempre a mente. Voglio dire che importanza ha che quelli di Bolzaneto, i picchiatori, non andranno in carcere? Non è che uno voglia vederli per forza in gabbia. La loro detenzione potrebbe apparire oggi soltanto una vendetta, mi pare. Quel che conta è che siano puniti e che la loro punizione sia monito per altri che, come loro, hanno la tentazione di abusare dell'autorità che hanno in quel luogo nascosto e chiuso che è il carcere, la questura, la caserma. Per come la penso io, la debolezza di questa storia non è nel carcere che quelli non faranno, ma nella sanzione amministrativa che non hanno ancora avuto e che non avranno mai. Che ci vuole a sospenderli da servizio? Non dico per molto. Per una settimana. Per segnare con un buco nero la loro carriera professionale. È questa la mia amarezza: vedere i De Gennaro, i Canterini, i Toccafondi al loro posto, spesso più prestigioso del passato, come se a Genova non fosse accaduto nulla. Io credo che bisogna espellere dal corpo sano i virus della malattia e ricordarsi che qualsiasi corpo si può ammalare se non è assistito con attenzione. Quella piccola minoranza di poliziotti, carabinieri, agenti di polizia penitenziaria, medici che è si abbandonata alle torture di Bolzaneto è il virus che minaccia il corpo sano. Sono i loro comportamenti che hanno creato e possono creare, se impuniti, sfiducia nelle istituzioni, diffidenza per lo Stato. Possono trasformare gli uomini in divisa - tutti, i moltissimi buoni e i pochissimi cattivi - in nemici del cittadino. Non ci vuole molto a comprendere - lo capisco anch'io e non ho studiato - che soltanto se si fa giustizia si potrà restituire alle vittime di Genova, ai giovani che vanno in strada per manifestare le loro idee, fiducia nella democrazia e non rancore e frustrazione. I giudici fanno il loro lavoro, ma devono fare i conti con quel che c'è scritto nei codici, con quel che viene fuori dai processi. Non parlo soltanto dei processi, è chiaro. Parlo della responsabilità della politica. Che cosa ha fatto la politica per sanare le ferite di Genova? Gianfranco Fini, che era al governo in quei giorni, disse che, se fossero emerse delle responsabilità, sarebbero state severamente punite. Perché non ne parla più, ora che quelle responsabilità sono alla luce del sole? Perché Luciano Violante si oppose alla commissione parlamentare d'inchiesta? Dopo sette anni questa pagina nera rischia di chiudersi con una notizia di cronaca che dà conto di una sentenza di condanna, peraltro inefficace, senza che la politica abbia fatto alcuno sforzo per riconciliare lo Stato e le istituzioni con i suoi giovani. Ecco quel che penso, e temo".


(18 marzo 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #63 inserito:: Marzo 29, 2008, 06:31:02 pm »

Abu Jamal, il peccato originale del razzismo

Giancesare Flesca


La storia che avanza sfiora appena le ricorrenti tentazioni razziste della giustizia americana. Dopo decenni di lotte contro questo sistema, sostenute da movimenti non necessariamente progressisti in tutto il mondo, ieri l’altro la condanna a morte di Mumia Abu Jamal, pronunciata nel 1982, è stata annullata e probabilmente sarà convertita in carcere a vita. Questo vuol dire che lo stato della Pennsylvania lo considera ancora responsabile dell’uccisione di un agente della polizia di Philadelphia, nonostante decine di prove dimostrino il contrario. L’America potrà forse avere un presidente nero ma difficilmente si libererà di quel che lo stesso Obama ha definito «il peccato originale» del razzismo. Sia chiaro che Mumia Abu Jamal e i suoi compagni delle pantere nere avrebbero considerato Obama un «negruzzo»,cioè un nero che si è integrato nel potere bianco.

A quell’epoca, la metà degli anni 60, dopo l’uccisione di Malcom X a Manhattan, il movimento nero era diventato ancora più radicale. Non era questione di liberarsi dall’ingiustizia dei bianchi, ma di «scrollarsi i bianchi di dosso», come aveva detto George Jackson, uno dei leader dell’organizzazione, della quale faceva parte anche Angela Davis. Si proclamavano «marxisti-leninisti» e questo bastava a rendere la persecuzione contro di loro ancora più forte e più sporca.

Nella sentenza che condanna a morte Abu Jamal è considerata come una prova di colpevolezza l’aver condiviso una famosa frase di Mao, «il potere politico cresce sulla canna del fucile». Philadelphia, il cui nome significa città dell’amore, fu una delle protagoniste più spietate nel reprimere i movimenti neri (e gli omosessuali,se ricordate il film omonimo). Abu Jamal, che lì è nato nel 1954, a soli 15 anni aderisce alle Pantere nere, ormai declinanti. Ma questo Wesley Cook (è il vero nome di Abu Jamal) non poteva saperlo. Sapeva della moltitudine di neri mandati a morire in Vietnam, dei ghetti dove le istituzioni segrete dello Stato facevano correre a fiumi l’eroina per devitalizzarli, e ricordava tutti i 10 punti per cui lottavano le Pantere nere. L’ultimo, il più immediato, diceva: «Vogliamo terra, pane, abitazioni, istruzione, vestiti, giustizia e pace».

Tutto questo gli passava in mente mentre nel 1968 veniva arrestato per aver protestato contro un meeting del candidato segregazionista alle presidenziali, George Wallace. Nel 1969 Abu Jamal fu nominato responsabile del partito per l’informazione. Come tale, l’FBI lo inserì in una lista di cittadini da sorvegliare e internare in caso di «allerta nazionale». Ma la sua condanna a morte l’aveva firmata nel 1978, quando il gruppo nero dei MOVE fu aggredito e bombardato dagli elicotteri (cosa che si ripetè nell’81 e perfino nel 1986) lasciando in terra undici morti. A dirigere l’operazione c’è il capo della polizia Frank Rizzo. Abu, diventato radio-giornalista, ne denuncia la brutalità. Rizzo gli promette: «Faremo i conti con te e con questa setta di fanatici».

L’occasione per «fare i conti» si presenta dopo tre anni, nel 1981. Ormai ministro dell’Informazione di tutto il Black Party e giornalista apprezzato, Mumia, sposato e padre di due figli, deve arrotondare guidando il taxi. Il 9 dicembre di quell’anno, all’alba, aveva un appuntamento con il fratello più giovane. Il ragazzo era lì, dall’altra parte della strada. Ma non era solo. C’era un poliziotto che gli contestava una contravvenzione, e lo faceva in modo violento, picchiandolo. Abu Jamal attraversa la strada correndo e gridando all’agente di lasciar stare. Il poliziotto si volta e gli spara freddamente in pancia. Lui cade a terra in una pozza di sangue. Perde i sensi. Erano in un quartiere nero. Qualcuno vide che avevano sparato al popolare giornalista. E sparò a sua volta tre colpi che freddarono l’agente Daniel Faulkner. Ma quando Abu Jamal riaprì gli occhi si trovò nel reparto carcerario di un ospedale, incriminato per aver ucciso un poliziotto. Per di più un poliziotto bianco.

Il processo arriva presto, nell’estate dell’82. A presiederlo è Albert Sabo, ex sceriffo e grande amico del capo della polizia Rizzo. Viene chiamato «capestro» perché è autore di 32 condanne a morte: 2 comminate a bianchi, le altre trenta, ovviamente, a neri. È il record americano. Nel processo contro Abu Jamal tutti i giurati sono bianchi, tranne due, anche se a Philadelphia i neri sono il 40% della popolazione. All’inizio del processo il giornalista chiede di auto-difendersi, mentre l’avvocato d’ufficio gli fa solo da spalla. Dopo qualche seduta il giudice Sabo gli impedisce l’auto-difesa perché «troppo distruttiva». Allora Jamal chiede di avere per avvocato John Africa, fondatore della comunità MOVE. Il giudice Sabo nega, dicendo che la presenza di Africa sarebbe stata «ulteriormente distruttiva». Dove il «distruttiva» significa una difesa attiva, che mette sotto accusa la congiura «bianca», che non pietisce il favore della Corte.

Mumia Abu Jamal non sta al suo posto. E allora si fa di tutto per mandarlo a friggere sulla sedia elettrica. In quell’aula a dichiarare di aver visto l’imputato sparare al poliziotto furono una prostituta e un tassista. Un terzo testimone affermò di aver visto un uomo attraversare di corsa la strada ma di non poter dire se era Abu Jamal o no. La prostituta Veronica Jones, pilastro dell’accusa, in un primo momento aveva dichiarato di aver visto due neri fuggire dalla scena della sparatoria. Ma di fronte al giudice Sabo cambiò completamente la sua deposizione, dicendo che la prima versione non è attendibile perché lei era strafatta di marijuana. Il 2 luglio 1982 la giuria dichiara Abu Jamal colpevole e il giudice Sabo non si smentisce, infliggendogli la pena di morte. Le spese sostenute dal Tribunale per la difesa dell’imputato indigente, a Philadelphia 6500 dollari di media, nel caso di Abu Jamal sono di 150 dollari.

Le irregolarità procedurali e sostanziali furono tantissime. Al punto che, quando Jamal ottenne una revisione del processo e il giudice Sabo fu autorizzato a rientrare dalla pensione per dirigere anche quel dibattimento, furono migliaia i giuristi di tutto il mondo che ne chiesero invano l’esonero per quel che da noi si definisce «legittima suspicione». Tutto ciò non impedì a Sabo di fare il processo e di moltiplicare la vena accusatoria, alimentata da nuovi testimoni pescati dalla «Fratellanza della polizia di Philadelphia» di cui sia il giudice che Frank Rizzo sono magna pars.

Abu Jamal spende così nel braccio della morte i 26 anni successivi Il suo caso diventa una vicenda internazionale. Amnesty lo difende a gran voce. Mille avvocati dei tribunali britannici chiedono una radicale revisione. Dalla sua storia nasce un film, «In prigione la mia intera vita». Il sindaco di Parigi lo nomina cittadino onorario. Lui scrive il suo diario, «Live from the death row». Ma tutto è vano, anche se nel 1999 un vecchio sicario, Arnold Beverly, confessa a un avvocato di aver ucciso il poliziotto Faulkner. Tutto questo gli ha salvato la vita soltanto per regalargli nella migliore delle ipotesi un ergastolo. «In prigione la mia intera vita», appunto.

Pubblicato il: 29.03.08
Modificato il: 29.03.08 alle ore 10.10   
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« Risposta #64 inserito:: Aprile 01, 2008, 10:23:10 pm »

Mosley: frusta, nazista frusta

Toni Jop


Vatti a fidare, vecchio Mosley, neppure le prostitute sono più quelle di una volta. Non si può nemmeno passare un pomeriggio scacciapensieri, e soprattutto in commovente omaggio al padre, senza finire sulle retine di qualche miliardo di persone. È la webcam, bellezza, e non puoi farci niente. Della vicenda che ha coinvolto l’intimo di uno degli uomini più ricchi di Gran Bretagna, Max Mosley, sessantasette anni, presidente della Federazione Internazionale Auto, ci sono almeno un paio di elementi che meritano di essere celebrati.

Saprete ormai che il potente uomo d’affari è stato ripreso per ben cinque ore, a sua insaputa, mentre se la spassava assieme a cinque prostitute frustando e facendosi frustare, e sono del tutto affari suoi. La vibrante scena di sesso era poi calata in una situazione che dal punto di vista coreografico voleva evocare quel tenero clima di violenza e di coazione tanto caro ai nazisti nei campi di sterminio. Ciascuno si eccita come può e vediamo di non star lì a dire: questo è normale, quest’altro no poiché questo moralizzare infingardo porta dritto tra i denti di una cultura dittatoriale e oscurantista. Una messinscena non è mai «colpevole». In questo caso, addirittura, è candida quanto una confessione su un lettino psicoanalitico. Infatti, il poveruomo è figlio del fondatore del partito nazista inglese, e si chiamava Oswald. Amico di Hitler e di Mussolini, si sposò in casa di Göbbels: foste nati voi in quella famiglia, vi sareste già ammazzati di fronte alle foto del matrimonio dei vostri genitori. Oppure avreste fatto la fine di Max che da un lato insiste a dire di suo padre che era una «persona meravigliosa» ma, accidenti, «troppo morbida», e dall’altra, coerentemente, si fa frustare da ragazze svestite come vestivano gli ebrei nei lager mentre conta in tedesco le frustate che subisce.

D’accordo, il padre di Max era una vera schifezza d’uomo, noi lo sappiamo, ma non abbiamo ereditato quello che ha ereditato il boss della Fomula 1, oppure pensiamo che il ragazzo si sia fatto da solo? Gli avesse lasciato debiti, i suoi ricordi d’infanzia avrebbero un altro colore, invece lo ha condannato a questa memoria riconoscente che comprende tuttavia anche questa passioncella per il sesso che porta svastiche al posto delle esse, e ce n’è tante. Questa è la strada maestra, forse, che ci permette di entrare in quel boudoir senza fare i guardoni e nemmeno i moralisti.

Ma ce n’è un’altra che, se piacesse di più a quel disgraziato di Max, potremmo prendere in considerazione: il rampollo di questa famiglia nazista, disonore di Gran Bretagna, è un cinefilo, attratto come il nostro amico critico cinematografico, Steve Della Casa, dalla filmografia di serie «C». Non solo, si è formato intellettualmente nei cinemini di periferia di Londra, quando, negli anni Settanta, impazzavano le pellicole semi-hard - girate in Italia - ambientate molto spesso in carceri naziste dove capitava che le donne facessero la voce grossa, insomma menavano alla grande. Vedi Helga, la belva delle SS, oppure Lager femminile dove, pure, le donne le prendevano in ossequio a una realtà che non le ha mai risparmiate, oppure, ancora, l’irresistibile Lager Ssadist kastrat Kommandatur, in cui un demente nazista va alla caccia di un paio di balle, possibilmente ebree, da agganciare alla sua carcassa per rimediare al danno procuratogli da una ragazza ebrea che non aveva gradito di essere stuprata.

Niente da fare: quando un immaginario viene catturato ci resta. E così, ogni volta che Max deve scrollarsi un po’ di ormoni dalle spalle, eccolo ripiombare in quella nicchia onirica che lo costringe a spendere molti soldi. Il problema, in questo caso, è che il suo sogno erotico pretende, purtroppo, un piccolo set cinematografico, è impegnativo.

Cinque prostitute alla volta, non sono uno scherzo mentre si può sorvolare sulle fruste, che costan poco, e sugli attrezzi di tortura che uno se li inventa. Poi le divise: è vero che puoi riusarle e non c’è una questione di taglie, del resto non c’è mai stata. In altre parole, la situazione liberatrice ha bisogno di una sua grandguignolesca grandiosità, come fossimo davanti alla cinepresa di Pasolini.

Questo, è evidente, espone il committente a dei rischi, nel caso non voglia far sapere in giro che, benché figlio di un porco nazista, lui si fa frustare da delle ragazze in divisa da lager solo perché gli piace il cinema di serie «C». E siccome non è Kubrick, l’unico uomo al mondo che riusciva a non far filtrare neppure una parola del film al quale stava lavorando, ecco che con un cast così numeroso il segreto può saltare.

Non solo, come abbiamo visto, trova anche chi gli gira nascostamente un film nel film della sua sessualità, e glielo distribuisce anche, gratis. C’è della crudeltà in tutto questo, ma che colpa abbiamo noi?

Pubblicato il: 01.03.08
Modificato il: 01.04.08 alle ore 13.11   
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« Risposta #65 inserito:: Aprile 27, 2008, 07:04:44 pm »

Viaggio nella fabbrica della morte

Giampiero Rossi


Che ci sei venuto a fare qua dentro? Anche tu sei venuto a morire? Alla tua età?». Anche se il tono della voce si sforzava di suonare bonario, non fu proprio un benvenuto cordiale quello che il vecchio operaio grugnì in faccia al giovane appena arrivato. «Pondrano Nicola», così si era presentato quel ragazzone vercellese con lo sguardo che bruciava dritto davanti a sé. «Marengo», gli aveva risposto secco l’anziano che lo aveva accolto scrutandolo perplesso da testa a piedi. Il giovanotto non poteva capire, in quel momento, il significato vero di quelle battute aspre. Era troppo preso dal guardarsi attorno.

L’ antro in cui si trovava, lì nel reparto «molazze», aveva un aspetto spettrale, tetro, buio, pieno di materia prima accumulata, con il vecchio Marengo che masticava platealmente il suo panino seduto su un cumulo di sacchi di amianto. Pondrano ne rimase impressionato anche se quello per lui doveva essere un bel giorno. Era l’11 novembre del 1974 e lui aveva trovato un buon lavoro. Un’assunzione all’Eternit era considerata da sempre una fortuna, da quelle parti. Per questo lui aveva accettato di buon grado di trasferirsi da Vercelli, venticinque chilometri più in là, tra le risaie per affrontare una vita che ora ruotava attorno a tre turni, albe e notti comprese. Si lavorava dalle quattro del mattino a mezzogiorno, da mezzogiorno alle otto di sera e dalle otto alle quattro del mattino. Orari assurdi altrove, ma non a Casale, dove il 60 per cento almeno dei lavoratori proveniva dalle campagne e con quel sistema di turni poteva ancora trovare il tempo per badare ai propri campi. Entrare in quella fabbrica, però, significava avere un salario garantito. Altro che morire: quella era un’assicurazione sulla vita, gli avevano sempre detto, la garanzia di arrivare un giorno a godersi la vecchiaia con una bella pensione e, magari, persino una casetta tutta sua comprata poco alla volta. «Quando nel ’55 ho cominciato a lavorare, scelsi come medico il dottor Sampietro, che aveva lo studio non lontano dallo stabilimento – ricorda, per esempio, Anna Maria Giovanola, dipendente della fabbrica di cemento-amianto fino alla chiusura del 1986 – e quando gli dissi che ero entrata all’Eternit lui mi rispose che per un operaio era come per un impiegato riuscire a entrare in banca. Un posto sicuro dove si prendevano dei bei soldi, così mi disse il medico. Poi anche lui morì di mesotelioma». Insomma, prima che la pericolosità dell’amianto fosse nota, questo significava per tante famiglie quel benedetto stabilimento di via Oggero, ché da quando avevano deciso di piazzarlo proprio lì da loro, a Casale, aveva cambiato le sorti di intere generazioni di ex agricoltori. (...)


IL SOSPETTO
Qualcosa di strano accadeva ai lavoratori dell’Eternit: morivano. Certo, tutti prima o poi dobbiamo lasciare questa valle di lacrime, questo è il dannato ciclo della vita e non c’è mai stato verso di cambiarlo. Ma tra i dipendenti della multinazionale svizzera avveniva qualcosa di molto particolare: quasi tutti soffrivano di una forma di disturbo respiratorio che procurava loro tosse eterna e un numero abnorme finiva i suoi giorni precocemente, senza fare in tempo a godersi la sudata pensione, in seguito a una micidiale malattia polmonare. Quasi tutti quelli che avevano lavorato alle sfilacciatrici, tanto per dirne una, erano morti, anche molto giovani, pochissimi erano arrivati alla pensione. Eppure nessuno aveva mai detto loro che quella era un’attività pericolosa... Che diavolo stava accadendo, dunque, a Casale? C’era qualcosa, in quella fabbrica, in quella polvere, che non andava, non poteva essere del tutto casuale, perché gli operai morivano così giovani? E perché anche altre persone, che con la fabbrica non c’entravano niente, erano morte di quella stessa stramaledetta malattia che annientava i polmoni?

Ci vollero parecchi anni, però, prima che dagli operai dell’Eternit arrivassero esplicite rivendicazioni. In tutta Italia i tempi non erano ancora maturi per le lotte dei lavoratori. Così, per oltre mezzo secolo l’azienda aveva potuto disporre di quelle «risorse umane» a proprio piacimento. Ma quando il movimento sindacale era riuscito a far arrivare il suo messaggio in tutti i luoghi di lavoro d’Italia le cose cambiarono anche a Casale Monferrato. Uno dei primi a «rompere le balle ai padroni» era stato proprio Mario Pavesi, che una volta eletto al consiglio di fabbrica aveva iniziato a chiedere con insistenza mascherine, filtri, ventilatori e tutto quello che, almeno in apparenza, poteva proteggere un po’ gli operai da quella polvere invadente e onnipresente. A quei tempi nessuno pensava che l’amianto potesse uccidere, ma che facesse male era già chiaro, perché l’asbestosi, quella tosse secca e irrimediabile, ce l’avevano praticamente tutti lì dentro. L’Inail, tra l’altro, riconobbe il primo caso di asbestosi contratta da un dipendente dell’Eternit nel 1947. Ma il massimo che si riuscì a ottenere,da allora in poi, fu il riconoscimento di qualche punto di invalidità e soltanto dopo una certa soglia di malattia. Per i più fortunati (e meno rompiballe) anche il trasferimento in reparti meno polverosi. «Sapevamo che la polvere faceva male – raccontava Giampaolo Bernardi, operaio Eternit dal ’62 all’86, prima di morire di mesotelioma pleurico – perché c’era chi faceva domanda e gli veniva riconosciuta. Certo, chi ne aveva molta diceva che gli mancava il fiato, però che facesse morire no, non lo sapevamo. Nessuno ce lo ha detto. Né, quando siamo entrati in direzione, ci hanno mai detto che lavorare lì comportasse un rischio. Anzi, quando qualcuno si lamentava perché faceva fatica a respirare gli rispondevano di fumare di meno». E nei reparti in cui erano stati installati dei rudimentali filtri, il rischio amianto non veniva riconosciuto a nessuno. (...)


IL TUMORE DI CASALE
Gli anni passavano, gli operai si ammalavano e sempre di più, tra coloro che avevano lavorato all’Eternit, morivano di una forma di cancro che qualcuno iniziò a definire «il tumore di Casale». A quel punto era chiaro, anche in assenza di una seria indagine epidemiologica, che c’era un nesso molto preciso tra la polvere della fabbrica e tutte quelle malattie polmonari, quelle morti. Non passava settimana, infatti, senza che sui muri di fronte alla fabbrica comparisse un nuovo manifesto funebre per la morte di un ex operaio Eternit. Era impossibile non notarli, anche perché vigeva la tradizione di una colletta tra i lavoratori per pagare la corona di fiori.

Fu a partire dagli anni settanta che si capì chiaramente che lavorare lì dentro poteva costare anche la vita. E anche diversi tra i dirigenti che prima negavano infastiditi nel sentire parlare di nesso causale tra amianto e tumori iniziarono a preoccuparsi, soprattutto quando constatarono che la morte non faceva sempre distinzione tra tute blu e colletti bianchi. Il mesotelioma, infatti, si portò via un ex direttore dello stabilimento che aveva avuto la pessima idea di abitare tare addirittura in fabbrica, e successivamente molti altri tra i quadri e i dirigenti dell’Eternit di Casale. (...)

Pubblicato il: 27.04.08
Modificato il: 27.04.08 alle ore 14.53   
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« Risposta #66 inserito:: Giugno 22, 2008, 04:38:46 pm »

«Portai la Orlando in auto dai boss della Magliana»

Rivelazioni di una super-testimone, inchiesta riaperta

 
 
ROMA - C’è una traccia finalmente consistente per accertare che fine abbia fatto Emanuela Orlandi, la figlia del commesso della Casa Pontificia del Vaticano scomparsa 25 anni fa, il 22 giugno del 1983, quando aveva quindici anni. Una super-testimone, interrogata in gran segreto, ha rivelato ai magistrati un particolare da loro ritenuto decisivo per tentare di ricostruire la vicenda. Il mistero, ancora una volta, ruota attorno alla Banda della Magliana, la famigerata organizzazione (nata alla fine degli anni ’70 dalla fusione di vari gruppi criminali) in contatto con camorra, mafia, destra eversiva e loggia P2. A un sequestro deciso e ordinato per chissà quale (ancora) oscuro motivo dai boss che nulla avrebbe a che vedere, al contrario di quello che era stato ipotizzato fino a poco tempo fa, con i Lupi Grigi e con i colpi di pistola esplosi contro Giovanni Paolo II a piazza San Pietro, il 13 maggio dell’81, dal turco Alì Agca.

La svolta sugli accertamenti per la sparizione di Emanuela Orlandi è arrivata inaspettata. Il procuratore aggiunto Italo Ormanni (nominato in settimana da Palazzo Chigi responsabile del Dipartimento per gli affari di giustizia del ministero di via Arenula) e i pm Simona Maisto e Andrea De Gasperis hanno lavorato in silenzio, affidando alla polizia le prime verifiche e cercando riscontri al racconto della donna. Che non è una delle tante figure più o meno equivoche apparse in tutti questi anni nelle varie inchieste: è stata a lungo la donna di uno dei boss della banda della Magliana, conoscerebbe molti segreti dell’organizzazione e, soprattutto, avrebbe avuto un ruolo attivo nel rapimento.

È questo il passaggio più delicato dell’inchiesta. Tutto, allo stato, ruota attorno al racconto della super-testimone, che avrebbe fornito almeno un particolare che può essere riscontrato e che, in parte, è stato già ritenuto credibile dagli investigatori: ha detto di aver fatto salire Emanuela Orlandi su un’auto da lei guidata nel luogo in cui era stato fissato un appuntamento con un’altra macchina che l’aveva prelevata, quella sera del 22 giugno dell’83 (era domenica) quando aveva finito la lezione di musica. Forse proprio quella Bmw nera nella quale un vigile urbano (l’ultimo che la ricorda) ha sostenuto di averla vista entrare davanti al palazzo del Senato. E la super-testimone avrebbe anche aggiunto a Ormanni, alla Maisto e a De Gasperis di averla a sua volta lasciata in un altro posto e il motivo per cui si sarebbe prestata a fare questa operazione: glielo aveva chiesto il boss di cui era la compagna e aveva eseguito il compito, senza chiedere spiegazioni, né tantomeno opporsi. Sui motivi del sequestro, allo stato, i magistrati non hanno elementi precisi. Negli ambienti investigativi viene solo escluso che emerga qualcosa che lo leghi all’attentato al Papa di 27 anni fa, alla pista bulgara e ai Lupi Grigi di Agca.

Un appello al Papa per squarciare il «pesante silenzio» calato sulla vicenda è stato lanciato dalla mamma di Emanuela, Maria Orlandi (che è stata sentita dai magistrati insieme alla figlia Natalina e all’altro figlio): la famiglia continua a pensare di poter riabbracciare Emanuela, che adesso avrebbe 40 anni. «Penso che un po’ di coscienza la si debba avere. Sono passati venticinque anni nei quali c’è stata sottovalutazione e, soprattutto, troppo silenzio, quasi che si volesse dimenticare. Ma per me non accadrà mai», ha detto Maria Orlandi. La quale pensa che «se papa Ratzinger facesse un appello, anche se è passato tanto tempo, oltre che a fare piacere servirebbe a smuovere le coscienze». E l’ex giudice istruttore dell’attentato a Karol Wojtyla, Ferdinando Imposimato, conferma le novità: «So che la procura si sta muovendo. Sono fiducioso».

Flavio Haver
21 giugno 2008(ultima modifica: 22 giugno 2008)

da corriere.it

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« Risposta #67 inserito:: Giugno 29, 2008, 06:26:49 pm »

Tony, il falsario di nome Br

Vincenzo Vasile


Nella Roma degli anni di piombo si aggirava uno strano personaggio. Si chiamava Antonio Chichiarelli, Tony per gli amici. E furono i suoi amici a farlo finire sui giornali, e anche - e soprattutto - a farlo finire morto ammazzato. Gli piaceva dipingere, ma invece dell´arte intraprese in grande stile l´artigianato della contraffazione. Perché gli piacevano soprattutto i soldi, soldi facili, vita spericolata. Per cui a un certo punto si creò anche un piccolo mercato delle sue «opere», considerate - a volte - meglio degli originali. Di professione, infatti, Tony faceva il falsario: di quadri, di documenti, di tutto.

Finché non falsificò il comunicato numero sette delle Brigate rosse che annunciava, in anticipo la morte di Aldo Moro attirando la polizia e i giornali nelle acque limacciose del Lago della Duchessa. Perché?, per conto di chi?, con quali scopi? Nel 1984, proprio nell´anno in cui Vasco cantava la «vita spericolata», Chichiarelli compie la rapina del secolo, acciuffando un bottino di 35 miliardi di lire presso la Brink´s Securmack. Era amico stretto di quelli della banda della Magliana, Danilo Abbruciati e Ernesto Diotallevi , coltivava amicizie e idee di estrema destra, unite a una specie di conclamata passionaccia per le imprese dei brigatisti, e - ovviamente - circolava a braccetto con agenti dei servizi segreti. Che lo controllavano a vista, passo dopo passo, eppure lo lasciarono fare. In una stagione smemorata, in cui impera la moda editoriale e pubblicistica che nega qualsiasi retroscena ed esorcizza qualsiasi mistero, questa microstoria è utile, dunque, per recuperare, se non la memoria, qualche pizzico di buonsenso nella ricostruzione di pagine di cronaca che sono diventate storia. «La vicenda umana di Tony Chichiarelli si intreccia così con la Storia d´Italia, che viene riletta in chiave criminale», ha scritto un esperto del ramo, Giancarlo De Cataldo, magistrato e scrittore, nella prefazione a Il falsario di Stato, (Cooper editore, 10 euro), scritto da Nicola Biondo e Massimo Veneziani, due giovani giornalisti free lance, «topi di archivio», e degli archivi più segreti. Biondo e Veneziani il loro prezioso volumetto l´hanno scritto come un noir, scandito - anzi - come la sceneggiatura di una fiction, ma non c´è alcuna finzione, e sarebbe utile che si riflettesse su alcune parole pronunciate qualche tempo fa da uno che di misteri se ne intende, il senatore Giulio Andreotti: «L´autore del comunicato falso fu Chichiarelli, ma non è verosimile che sia stato effettivamente lui. Il 17 aprile del ´78 una persona ci avvertì che il giorno seguente sarebbe uscito un comunicato e ci disse di non spaventarci». La fonte era un contatto che il Vaticano utilizzava per la trattativa con le Br: 50 miliardi in cambio della vita di Moro.

Esattamente quello che scrisse il giornalista un po´ ricattatore e un po´ profeta, Mino Pecorelli sul suo OP dopo la scoperta del covo delle Br in via Gradoli: «Ci sono almeno due fazioni delle Br», di cui una trattava un clamoroso riscatto, e questa è proprio l´ala delinquenziale delle Brigate. E Chichiarelli è implicato ovviamente anche nell´assassinio del giornalista. Nel corso dell´inchiesta sulla morte di Pecorelli, la sua compagna e segretaria, Franca Mangiavacca, riconoscerà proprio il falsario come l´uomo che nell´ultima settimana di vita del giornalista li pedinava.

Gli piaceva lasciare tracce di sé. Per esempio dopo la rapina alla Brink´s, lasciò la sua firma, il numero sette, come quello del falso comunicato brigatista: prima di fuggire, fotografò i guardiani sotto un drappo rosso con la scritta Br, lasciò oltre che un sacchetto di polvere da sparo, una bomba «Energa» proveniente dal deposito della Banda della Magliana, e sette spezzoni di catena, sette chiavi e sette proiettili 7.62 Nato. Sette, come appunto il comunicato che aveva contraffatto. Come un messaggio cifrato perché chi sapeva e doveva capire, capisse. A casa sua oltre ai quadri falsi teneva armi vere. Un amico descrisse l´arsenale: kalashnikov, bazooka, bombe a mano e revolver. Chichiarelli gli aveva mostrato anche la testina rotante Ibm che gli era servita per redigere il comunicato brigatista, vantandosi di esserne l´autore, e di avere intenzione di far ritrovare in un taxi un borsello con la testina, un revolver e altri volantini. Cosa che fece, altro messaggio in bottiglia, che non gli salvò la vita, anzi forse accelerò la sentenza di morte. Perché questa storia, dovunque la giri, è la storia di un falsario di Stato. L´epitaffio lo scrisse a verbale un suo amico, Luciano Del Bello, anche lui confidente dei servizi: «Toni era pazzo, un pazzo fascista, se l´è andata a cercare». Gli trovarono a casa le foto originali di Aldo Moro, scattate nella «prigione» delle Br. E l´avvocato Pino De Gori, legato a Flaminio Piccoli, scrisse un altro necrologio, in chiave spy story: «È stato il Mossad ad autorizzare la rapina del secolo compiuta da Chichiarelli, ed era una ricompensa per il volantino falso del Lago della Duchessa, poi però l´hanno fatto fuori». Dietrologia? Resta il fatto che quelle foto provano quanto meno che un tipo così aveva avuto accesso al «carcere del popolo» dove era rinchiuso il presidente dc.

Nel Falsario di Stato si possono leggere anche alcune pagine inedite del diario di uno dei personaggi cruciali di quegli anni di piombo e di trame, il capitano del Sid Antonio La Bruna, che consegnò le sue memorie a uno degli autori, Nicola Biondo, poco prima di morire.


Pubblicato il: 29.06.08
Modificato il: 29.06.08 alle ore 10.20   
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« Risposta #68 inserito:: Giugno 29, 2008, 06:28:39 pm »

Non solo donne, gli affari di Saccà per la «Hollywood calabrese»

Enrico Fierro


Non solo «gnocca». Non solo attricette da sistemare in fiction barbosissime, altrimenti «fanno le pazze» e chissà cosa vanno a dire in giro. Non solo profumo di letto, insomma, ma affari, soldi, rapporti politici, mazzette che dalla Svizzera transitavano in Italia: c´è tutto questo nelle carte dell´inchiesta della procura di Napoli. Al centro sempre lui, Agostino Saccà, infaticabile gran signore della Rai, amico di Berlusconi, ma anche di molti esponenti del centrosinistra, attivo nella campagna di reclutamento di deputati e senatori pronti a saltare il fosso ai tempi del traballante governo di Romano Prodi. Insomma, l´inchiesta che vede al centro delle polemiche Silvio Berlusconi è uno spaccato dell´intramontabile, invincibile, eterno sistema della corruzione made in Italy. Al centro del gioco «una fitta rete di interessi, trasversale agli ambienti politici, dell´alta finanza e dell´imprenditoria coordinata da Agostino Saccà».

Uomo dalle inesauribili risorse, Saccà, scontento dei ruoli che riveste in Rai, decide di mollare e di mettersi in proprio: ha due progetti che lo lanceranno a livello internazionale. Uno si chiama «Pegasus» ed è la realizzazione di una grande company per la produzione internazionale di fiction e format tv, l´altro è una sorta di Hollywood in Calabria, la sua terra. Per entrambe le operazioni ha le amicizie giuste, i contatti, a tutti ha fatto favori, tutti gli debbono qualcosa e molti - a destra come a sinistra - gli fanno richieste. Quella rete di interessi - scrivono i pm napoletani - è stata predisposta «in maniera capillare con l´obiettivo di coinvolgere nel progetto "Città della fiction", amici e fiduciari dotati di notevole potere politico ed economico. Non casuale, appare, in tal senso, la circostanza secondo la quale Saccà assecondi in maniera più o meno evidente le richieste del "Presidente" (Berlusconi, ndr) attraverso l´inserimento di attrici in programmi tv». Per i suoi «sogni» Pegasus e Città della fiction, Saccà stabilisce contatti con Corrado Passera e Luca Cordero di Montezemolo, porta in Calabria imprenditori americani e tedeschi della fiction, insomma costruisce quello che i pm napoletani chiamano «un centro di potere d´interesse transnazionale, con plurimi scopi di natura trasversale rispetto al conseguimento di profitti aziendali e di vantaggi di carattere politico-finanziario, la cui rilevanza penale è tuttora in fase di valutazione». Per raggiungere lo scopo, soprattutto quello di creare una mega struttura per la fiction che veda insieme anche Rai e Mediaset (più volte nelle telefonate viene messa in evidenza la necessità di avere dentro «un uomo di Berlusconi»), Saccà si avvale della collaborazione di Pietro Pilello. Un passo indietro per lasciare al calabrese Pilello (socialista in gioventù proprio come Saccà) la possibilità di raccontarsi: «Sono massone, iscritto al grande Oriente d´Italia. Non dormo da venti giorni e sono oggetto di oscure minacce. Sono sconvolto». E´ lo sfogo che il dottore commercialista fa nel 1988 ad un grande inviato del Corsera, Adriano Baglivo. Pilello era finito nel tritacarne delle inchieste sulla massoneria del procuratore di Palmi Agostino Cordova, soffrì ma quando l´inchiesta venne trasferita a Roma la sua posizione venne archiviata. E uscì indenne anche da un´altra indagine su una storia di riciclaggio di titolo rubati, un affaire da 450 miliardi di vecchie lire. Tutto cancellato, ora Pilello vive a Milano, ha incarichi in società pubbliche come La Metropolitana milanese e la Finlombarda, è presidente del collegio dei sindaci di Rai International e poi di Rai Way. E´ a lui che Saccà si affida per studiare il piano degli investimenti delle sue società. In cambio, Pilello gli chiede un incontro con Berlusconi. Il 12 settembre del 2007, prende il telefono e fissa un appuntamento con il Cavaliere. Lo stesso giorno comunica al suo amico la notizia: «Il Presidente ti aspetta martedì alle 18,30 ad Arcore. Io ho detto alla segretaria Marinella che tu hai un cugino che ha una rete di ristoranti lì e quindi lo conosce bene, mi ha chiesto lui me lo puoi fare incontrare e ho detto come faccio l´australiano...Giocatela bene è importante». I ristoranti lì, in Australia, l´australiano: è il tentativo di convincere il senatore Antonio Randazzo, eletto per il centrosinistra nel collegio Oceania, a far cadere il governo Prodi. Saccà conosce bene «la pratica», tanto che quando gli agenti della Gdf gli perquisiscono la casa, trovano una lettere inviatagli da Pilello «avente oggetto senator Antonio Randazzo-Australia». Sei giorni dopo, il 18 settembre 2007, Saccà chiama Pilello e gli chiede come è andato l´incontro con Berlusconi. Il commercialista è estasiato. «E´ andato bene, lui è affabile, molto garbato, molto attento». Saccà: «Hai visto come è diverso da come appare all´esterno». Pilello: «Ha tardato cinque minuti e mi ha chiesto dieci volte scusa per il ritardo». Poi il commercialista parla di politica: «Questo paese va male, mi ha detto, abbiamo bisogno di fare qualcosa, io mi sto dando da fare, ma voglio raggiungere un numero molto alto di senatori che votano contro, per cui la ringrazio per tutto quello che può fare. Presidente, gli ho detto, io mi taglierei una mano per far cadere Prodi. Non mi sono mosso perché voglio capire come impostare la cosa, non vorrei farle danno». Ma Berlusconi è perentorio: «Guardi, non mi possono fare nessun danno, ho il diritto di farlo, lei vada tranquillamente dica che nella prossima campagna elettorale li prendiamo tutti noi, gli prometto che lo ricandidiamo, lo rieleggiamo». E´ sempre il senator Randazzo in cima ai pensieri del Cavaliere. E Saccà vuole saperne di più: «Tu gli hai spiegato la situazione, i rapporti con lui?». Pilello: «Gli ho detto che ho tanti parenti in Australia e che è stato tante volte a mangiare al ristorante di mio cugino». L´affare è delicato, Saccà si preoccupa, al punto che prima dell´incontro tra Pilello e Berlusconi, fa una telefonata al suo amico, è il 3 settembre. Pilello: «Sviluppi per la cosa Australia?». Saccà: «Niente perché lo devo vedere lui...capito...non voglio parlarne al telefono».

Senatori da comprare, attrici da piazzare, affari e politica, sembra una commedia all´italiana, ma sono soldi. Tanti. «L´uomo più ricco d´India, Pata, che è un grande produttore e che vorrebbe, mi ha detto Montezemolo, è un suo grande amico. E allora tu fai bene a tenere tutto più, come dire, autofinanziabile, in qualche modo per tenere alta la mia quota». E Pilello: «Se io aumento il capitale sociale a dismisura diranno e Agostino, su cento...che noi diciamo la società si paga da sola, e a questo punto è il management che vale tanto». Il sospetto dei pm napoletani è che dietro i progetti messi in campo dal duo Saccà-Pilello, si celi un giro di tangenti. Nel mirino una commercialista partenopea con studi a Londra, Stefania Tucci, ex moglie dell´ex ministro Gianni De Michelis. Per i pm «assicurava la formazione della provvista di euro 275.513 attraverso rapporti estero su estero con le società Bavaria». Sempre secondo l´ipotesi investigativa sarebbe stato Giuseppe Proietti ad aver consegnato somme di danaro a Saccà, che così consentiva l´acquisto da parte della Rai di alcune fiction prodotte all´estero. Bavaria è una delle società che avrebbe dovuto realizzare la città della fiction in Calabria. «Lolliwood», l´ha definita con indubbio sarcasmo «CalabriaOra», un quotidiano regionale calabrese. Perché Saccà, vero uomo bipartisan, in terra calabra si muove con tutti. Contatta il governatore Agazio Loiero, con lui progetta ipotesi di fiction, e poi il fratello di questi, Tommaso, funzionario regionale impegnato in Calabria film Commission. Ha buoni rapporti Saccà anche con Nicola Adamo, Pd, che gli promette interessamento e finanziamenti regionali, e con Doris Lo Moro, oggi deputata del Pd, all´epoca assessore regionale alla Sanità. Loiero e Saccà si parlano il 5 luglio 2007. Il tema è sempre quello della città della fiction a Lamezia,ma ad un certo punto il governatore ricorda al suo amico che «Francesca (la figlia di Loiero che lavora a Rai-fiction, ndr) deve passare dal terzo al primo livello di programmista». Saccà: «Esatto, esatto». Loiero: «Va bene». Saccà: «Ma non è necessario che gli dica i particolari, c´è una lettera del direttore Rai fiction che la riguarda con un passaggio di categoria più che legittimo...».

Della Città della fiction in Calabria venne anche posta una prima pietra, ci fu una cerimonia dove parteciparono tutti, presidente, assessori e rappresentanti della Bavaria e della altre società estere interessate. Mancava solo Gianni Speranza, il sindaco della città. All´epoca lo interpellammo, ci disse che non era rimasto dispiaciuto dall´esclusione, «tanto è solo una presa in giro». E sono le parole di Claudio Cappon, sentito come persona informata sui fatti, a confermarlo. «Non esiste - disse il direttore generale della Rai il 16 novembre del 2007 - all´evidenza della Direzione generale alcun progetto denominato Città della fiction da localizzarsi a Lamezia Terme. Successivamente ho appreso che il dottor Saccà aveva ricevuto un avviso di garanzia. Come non esiste un progetto Rai denominato Pegasus». Non esiste. Ma in una telefonata del 27 giugno 2007 Agostino Saccà ne parla con la figlia Graziella in termini entusiastici. Saccà le dice che presto incontrerà «Il Presidente», la figlia è contenta, «fidati, papino, per una volta ascoltami. Quello è il cavallo vincente, l´altro (presumibilmente Veltroni, ndr) no, tu sei bravo, tu non hai bisogno di nessuno».

Affari e politica, ma anche qualche risvolto comico come nelle migliori commedie all´italiana. I progetti di fiction da girare in Calabria sono tanti, uno sta particolarmente a cuore al governatore Loiero, quello su Natuzza Evola, una santona mistica che dice di parlare con i morti. Saccà ne parla al telefono con Tommaso Loiero, c´è una difficoltà il figlio della «santona» vuole associarsi all´impresa, fare il produttore. Saccà: «Spiega ad Agazio che quelli non so... qua ci sono produttori internazionali, gente in gamba e noi la prima cosa che facciamo ci sputtaniamo». Tommaso Loiero: «Ma Agazio ci tiene moltissimo a Natuzza». Saccà spazientito: «Ma questi qua li possiamo associare, lo chiedo a De Angelis (il produttore, ndr) di associarli al 20% che ne so». Tommaso Loiero: «Va bene Agostino, va benissimo questa è la soluzione migliore». Santi, santone, attrici, attricette, letti e senatori da comprare. Il fantastico mondo di Agostino.

Pubblicato il: 29.06.08
Modificato il: 29.06.08 alle ore 10.19   
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« Risposta #69 inserito:: Luglio 01, 2008, 06:26:10 pm »

NEANCHE UN RIGO DI CRONACA. SILENZIO, DIMENTICANZA O OMERTA’ ?

di Fulvio Vassallo Paleologo*


Nella notte tra il 29 ed il 30 giugno un immigrato africano è morto nel centro di identificazione all’interno del centro polifunzionale ( CPT, CID e CARA) di Pian del lago a Caltanissetta, dopo essersi sentito male nel pomeriggio della domenica, ed avere ricevuto, per quanto risulta dalle prime testimonianze, soltanto un bicchiere d’acqua ( non si sa se con i soliti tranquillanti di cui si fa largo uso nei centri di detenzione). Solo nella mattina del 30 giugno quando alle 7,30 sono arrivati i medici della Croce Rossa ne è stato constatato il decesso, malgrado gli altri migranti avessero sollecitato per ore l’intervento di un medico. Nel centro si respira ancora una atmosfera di grande tensione, probabilmente i migranti testimoni dei fatti saranno presto trasferiti altrove, in silenzio, prima che la vicenda diventi di dominio pubblico, come avviene di solito in queste circostanze. Anzi, in molti casi, la morte di uno significa la libertà di tanti altri, perché piuttosto che trattenere scomodi testimoni, si preferisce ributtare nella clandestinità quanti potrebbero raccontare cosa è successo. Tutto diventa più facile – se non è possibile una deportazione immediata - con la liberazione immediata dei testimoni e la consegna dell’ordine di lasciare entro 5 giorni il territorio nazionale. Senza soldi, senza documenti, un ordine impossibile da eseguire. Ed alla fine, scomparsi nella clandestinità i testimoni, nessuno ricorderà più nulla, neppure chi aveva il dovere di garantire la dignità, la salute e la vita di un immigrato senza nome rinchiuso in un centro di identificazione.

Abbiamo atteso per ore un comunicato da parte della direzione del centro o della Questura di Caltanissetta, o una agenzia di stampa che almeno desse notizia del fatto, confermato da fonti diverse durante la giornata. Niente. Una cappa di silenzio è calata sul centro polifunzionale di Pian del Lago, mentre probabilmente si staranno sistemando registri e referti, testimonianze e documenti vari, per dimostrare che alla fine si è trattata, come al solito, di una tragica fatalità. Tutti erano al loro posto, tutti hanno fatto il proprio dovere, medici, operatori dell’ente gestore e poliziotti di guardia. Come al solito, nessun colpevole, nessun responsabile per la vita di un uomo, di un “clandestino”.

Un copione tante volte visto, in Sicilia ed in altre parti d’Italia, ma di fronte al quale non cesseremo mai di esprimere la nostra indignazione. Ed una richiesta di chiarezza, in una struttura sempre più affollata, nella quale arrivano molti immigrati sbarcati a Lampedusa ancora da identificare, un centro che è stato negli anni teatro di episodi inquietanti sui quali ancora dovrebbe indagare la magistratura. Anche la relazione della Commissione De Mistura non aveva lesinato critiche alla gestione del centro di Caltanissetta, ed oggi la situazione sembra più grave che in passato, perché i centri di detenzione si vanno riempiendo per le retate di “clandestini” che la polizia sta intensificando nelle grandi aree urbane, mentre i centri di identificazione esplodono per l’aumento esponenziale degli sbarchi a Lampedusa e in altre parti della Sicilia.

Una giovane vita si spegneva nel centro di Pian Del Lago, e il ministro Ronchi dormiva a Lampedusa il sonno del “giusto”, o, dopo una lauta cena a base di pesce,  era ospite di una qualche missione notturna delle nostre forze navali, che continuano a salvare vite umane nel Canale di Sicilia, malgrado le diverse direttive operative dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere marittime FRONTEX.
 
Caro ministro, piuttosto che appropriarsi di meriti che non le appartengono, perché la situazione a Lampedusa è migliorata prima del suo avvento al governo, solo grazie al trasferimento ed alla apertura del centro alle organizzazioni umanitarie, a partire dal 2007, perché non spendeva una parola sul destino buio che attenderà in futuro i migranti dopo il loro arrivo a Lampedusa ? Soprattutto quelli che non riusciranno ad ottenere lo status di rifugiato o di protezione umanitaria, ma che in molti casi non sarà possibile espellere. Magari una breve dichiarazione, anche per avvertire che con il sovraffollamento dei centri di detenzione e di “accoglienza” nelle altre parti d’Italia, effetto delle nuove politiche securitarie del governo Berlusconi, dell’aggravante della clandestinità, del prolungamento a 18 mesi della durata della detenzione amministrativa, a Lampedusa si rimarrà non solo due ma anche dieci -dodici giorni, e forse mesi, come in passato, ai tempi del precedente governo Berlusconi, in 1600 persone, in uno spazio che ne potrebbe accogliere meno della metà. Mentre i fondi per finanziare la seconda accoglienza ed il sistema di protezione per i richiedenti asilo verranno drasticamente tagliati.

Un vero albergo a cinque stelle lo diventerà di certo in futuro, il nuovo centro di accoglienza di Lampedusa, forse talvolta un po’ troppo affollato, ma al sicuro da giornalisti curiosi ( come Gatti non ce ne sono tanti in giro) e da magistrati invadenti ( Il Tribunale di Agrigento è lontano). Magari il ministro potrebbe mandarci qualche suo dipendente in vacanza, così almeno potrebbe essere un poco più informato di quelle tragedie quotidiane dell’immigrazione che si consumeranno nel silenzio, in futuro anche a Lampedusa, come negli altri centri di detenzione in Italia. L’estate è lunga e non appena il nuovo pacchetto sicurezza sarà approvato, e i centri di detenzione in Italia arriveranno al collasso, Lampedusa scoppierà di nuovo, a meno che qualcuno non ritorni alla prassi ignobile di rispedire i migranti appena arrivati, in Libia, nelle carceri e nei fossati desertici che Gheddafi chiama centri di accoglienza, una pratica per la quale la Corte Europea dei diritti dell’uomo nel 2004 ha condannato l’Italia.

 Intanto, per l’ennesima volta, non rimane che chiedere chiarezza sulle circostanze della morte del migrante senza nome che ha concluso il suo viaggio della speranza, e la sua vita, nel centro di identificazione di Caltanissetta. Almeno che sia fatta una autopsia e che questa non sia quella farsa che spesso diventa nei tribunali siciliani (a Palermo si attende ancora di conoscere il risultato dell’autopsia di una donna rom morta otto mesi fa, all’ospedale di Villa Sofia, per cause mai chiarite). Vorremmo che qualche magistrato cerchi di capire che tipo di servizio di assistenza garantisce la Croce Rossa nelle diverse sezioni del centro polifunzionale di Caltanissetta. E vorremmo che si facesse finalmente chiarezza sul personale civile impiegato in questa struttura. Magari anche per sapere chi fosse presente al momento del decesso dell’immigrato, e chi fosse il responsabile in quel momento dell’ente gestore. Soprattutto vorremmo un magistrato che abbia la voglia di accertare se nel centro si continua ancora a fare largo uso di psicofarmaci. Alcuni anni fa, qualcuno aveva definito anche Pian del lago come un albergo a cinque stelle. La penna dei velinari si ripete sempre ma la realtà è più forte delle menzogne e delle omertà.

*Università di Palermo

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« Risposta #70 inserito:: Agosto 07, 2008, 11:22:00 am »

IL DIARIO DELLA TRAGICA SPEDIZIONE SUL NANGA PARBAT

«Ho scavato, là sotto c’erano gli occhi di Karl»

Volevamo portarlo via, non ci siamo riusciti

Gli aiuti? Non li abbiamo chiesti noi


DI WALTER NONES E SIMON KEHRER



DOMENICA 13 LUGLIO
L'attesa al campo base

Siamo al campo base del Nanga Parbat, ai 3950 metri. E' tutto pronto per partire, gli zaini sono fatti. Il tempo va migliorando, ormai ci siamo. Sento un'emozione identica a quella della vigilia del primo giorno di scuola. Abbiamo studiato tutto nei dettagli, con le fotografie, ma la verità è che non sappiamo cosa ci attende, è tutto nuovo. Karl sta cambiando modo di fare l'alpinismo e sono felice di farlo con lui. Cerca pareti nuove, difficili e non attrezzate. Se in vetta troveremo tempo buono abbiamo pensato di aprire una via nuova anche per la discesa perché la Buhl ormai è un'autostrada. Vedremo.
(Walter Nones)
E' un mesetto che ci stiamo acclimatando, ora ci sentiamo tutti e tre in forma. Domani ha tutta l'aria di essere il grande giorno. La montagna è gigantesca, sembra un labirinto di ghiaccio e neve. Mi chiedo se ce la faremo ad arrivare in vetta. In montagna le cose non diventano mai più semplici di come sono in partenza. E' il mio primo ottomila, un'emozione infinita. (Simon Kehrer)

LUNEDI' 14
È notte, si parte

E' incredibile la calma e la serenità che è in grado di trasmetterci Karl. Ci carica di entusiasmo e allo stesso tempo ci tranquillizza sulla nostra preparazione tecnica. Stamattina abbiamo chiamato Karl Gabl, che da Innsbruck prepara il tempo per gli alpinisti di tutto il mondo. Ci ha detto che il Nanga non l'ha ancora fatto, di richiamare. (Simon)
Karl ha risentito Gabl alle 10 di sera, là è ancora pomeriggio. Ci hanno detto che fino a giovedì sarà bello, poi potrebbe cambiare, di richiamare per gli aggiornamenti. Ci siamo guardati tutti e tre negli occhi. Ci è bastato uno sguardo. Si parte!! Ci mettiamo subito in marcia. Walter ha pure i tortellini nello zaino! Ce li faremo fuori alla prima sosta, così eliminiamo 250 grammi! Abbiamo scalato 2000 metri. La scelta di partire di notte è stata corretta: ci sono continue scariche di pietre e ghiaccio, ma almeno il freddo trattiene meglio i sassi. Percorriamo una morena. A mezzanotte siamo sotto la parete, la vera partenza. Ci riposiamo un po', beviamo qualcosa. Ma è già ora di riprendere la marcia. (Walter)

MARTEDI' 15
La neve ha rapito Karl

Siamo ripartiti tranquilli, come se avessimo un navigatore in corpo. Invece avevamo solo il fanalino in testa e la luna piena che ci ha accompagnati nella notte. Abbiamo affrontato lo spigolo slegati, ma lì sotto ci sentivamo protetti perché scaricava sui due lati. Le regole le abbiamo decise prima di partire: fino a pendenze di 60˚ si va slegati, distanti 50 metri. Ci siamo incantati di fronte all'alba, uno spettacolo incredibile: il rosso su un'infinità di bianco. Karl è davvero forte, non perde mai il buonumore, non sembra mai stanco. Ci dice: «Ci fermiamo a un autogrill a bere qualcosa?». Siamo scoppiati in una sonora risata. L'unico rumore umano su quella montagna. Ci siamo studiati tutto il percorso con i binocoli e Karl ha una memoria di ferro, ricorda e soprattutto riconosce ogni pendenza, ogni crepaccio. Per lui osservare la parete è come leggere un libro. E noi ora stiamo imparando a farlo come lui. Gli ultimi 80 metri sono stati una faticaccia. Due tiri misti su ghiaccio e roccia, legati perché i passaggi erano molto complicati. Ci abbiamo messo tre ore! Alla fine dello spigolo siamo finiti in neve fresca, poi un altro tiro per uscire da un seracco, poi ancora neve fresca. Che giornata infinita! Abbiamo scalato dalle 22 alle 16 del giorno dopo. Ci siamo macinati 2400 metri di dislivello. Io ero un po' lento, Karl mi ha chiesto come stavo. Mi sentivo bene. (Walter)

È questo il momento più difficile da ricordare e da scrivere. «Vi piace? Non è bellissimo? » ci ha detto Karl, con il suo solito sorriso contagioso. Ormai era ora di accamparci. Da lontano io e Karl abbiamo individuato un posto per la tenda. Gli ho detto di stare attento, che sembrava una crepacciata e lui: «Vado a vedere». Sono le ultime parole che gli ho sentito pronunciare. L'ho visto calpestare prudentemente la neve, passo dopo passo. Ero a tre metri. A un certo punto è sparito nella neve. Non l'ho sentito gridare, non ho sentito nulla. Ho pensato fosse caduto in un crepaccio di duetre metri. Io non avevo messo in conto che potesse essere morto. Per me era come fosse immortale, e mi rendo conto che è una cosa stupida. L'ho chiamato, ho urlato, ma non rispondeva. Ho gridato a Walter che stava dieci metri indietro che Karl era caduto in un buco, ma ho visto che pure lui stentava a capire. (Simon)

Sono corso su, ho urlato come un pazzo, ma Karl non rispondeva e non lo si vedeva. Probabilmente si è aperto un ponte di neve e ci è finito dentro. Non sapevamo che fare perché la corda ce l'aveva Karl nel suo zaino. Allora abbiamo preso tutte le fettucce e i cordini e li abbiamo uniti per formare un'unica fune, lunga una quindicina di metri. Simon si è legato e io l'ho calato. Non abbiamo mai smesso di chiamare, ma da là sotto arrivava solo silenzio. (Walter)

Mi sono calato nel crepaccio. C'era un vuoto di almeno trenta metri, ma non si vedeva nulla. Ho avuto paura, sì, mi sono spaventato. Ho visto la traccia della caduta, era dritta. Ho scavato con le mani, avrò tirato su settanta centimetri, ma dopo una giornata così lunga ero sfinito. Non si vedeva niente accidenti. E stava diventando tardi, dovevamo piantare la tenda. Allora ho preso la piccozza, ho sondato la neve e ho individuato lo zaino di Karl, incastrato. Ho cercato il viso, l'ho liberato dalla neve. Era molto pallido, gli occhi aperti. Il volto era quello di sempre, sereno e contento. Gli ho toccato il polso, ma non c'era più niente da fare. Ho avuto l'impressione che Karl nella caduta si sia rotto l'osso del collo, ma il suo volto era felice. Ci abbiamo provato a portarlo su, ma eravamo in bilico su un ponte di neve. Ho pensato a Silke, volevo riportarglielo il suo uomo, ma era un'impresa impossibile con il materiale che avevamo. Con due corde forse ce l'avremmo fatta. Ho tirato su lo zaino, ci serviva la corda per poter continuare. Ci siamo presi anche il satellitare, ma era una continua «ricerca rete». Alle 19, stravolti, abbiamo montato la tenda lì, vicino a Karl. La prima sosta, già senza il nostro capo squadra. (Simon)

Io e Simon non ci siamo più parlati. Avevamo bisogno del silenzio per elaborare il nostro lutto, ognuno per conto suo. Solo che i tempi dei sentimenti e quelli della montagna non vanno a braccetto. C'era la nostra vita in ballo e allora mi sono deciso ad aprire bocca: «Dobbiamo decidere che cosa fare, di Karl e di noi». Dopo ore di silenzio abbiamo cominciato a discutere, abbiamo analizzato ogni possibilità. Salire ci dava più sicurezza. Scendere con due viti da ghiaccio e due da roccia ci sembrava pericoloso. Ci siamo chiesti se arrivare in vetta. Ma abbiamo deciso che la cima era di Karl, che non era giusto arrivare in due se eravamo partiti in tre, era come rubargli qualcosa. Ci siamo messi a dormire. E' stato l'unico momento di debolezza che mi sono concesso. Un pianto per Karl. (Walter)

MERCOLEDI' 16
Il suo zaino come croce


Abbiamo trascorso la notte a ripeterci: «Dormi?» «No, sto pensando». Non vedevo l'ora che Walter attaccasse a parlare. A un certo punto, all'alba, ho sentito come una persona che fischiava. Siamo usciti in fretta dalla tenda, ci siamo aggrappati all'idea che qualcuno stesse arrivando, forse Karl stava tornando. E' una cosa assurda, lo so. Karl l'ho visto con i miei occhi, immobile nel ghiaccio. Devi rassegnarti, devi accettare la morte, ma la verità è che non vuoi. Mi sono tornati in mente Silke e i loro tre bambini. La loro vita sarebbe cambiata, ma ancora non lo sapevano. (Simon)
Finalmente la mattina, spostandoci di qualche metro, abbiamo trovato campo. Io alle dieci ho chiamato Manuela, le ho detto di Karl, ma di stare tranquilla perché noi stiamo bene e saremmo scesi dalla Buhl, che avrei richiamato dal campo base. Simon ha chiamato il manager di Karl, Herbert Mussner. Poi il telefono si è scaricato definitivamente. Siamo tornati nel buco dove c'era Karl, ci siamo calati ancora, ma era impossibile recuperarlo, non ce l'avremmo mai fatta. Così abbiamo preso il suo zaino e lo abbiamo messo sopra il crepaccio: quando arriverà l'elicottero sapranno dov'è. Ora l'obiettivo della nostra missione cambiava: fare in fretta per tornare da Karl. (Walter)

GIOVEDI' 17
Un dolore senza parole


Ci siamo alzati alle due di notte e messi in marcia alle 3.30 del mattino. Sembra una sciocchezza, ma ci vuole un'ora e mezza per fare acqua e preparare un tè. Dallo zaino di Karl abbiamo preso la sua macchina fotografica prima di partire. Il tempo era buono, abbiamo proceduto a zig zag. Faticosamente siamo saliti di 400 metri, ma alle tre è arrivato il brutto tempo. Ci siamo cercati un seracco idoneo per passare la notte, ai 6.800 metri più o meno. Tra il nevischio abbiamo piantato la tenda. In silenzio. Tutti e due eravamo molto a terra, ma cercavamo di non darlo a vedere l'uno all'altro. (Walter e Simon)

VENERDI' 18
Ghiaccio, pietre e paura


Ha nevicato tutta la notte. Vento e neve. La mattina siamo saltati fuori dalla tenda e scappati via. Arrivavano giù pietroni e ghiaccio che hanno piegato il telo. Un bello spavento davvero. La neve ci arrivava alla cintura, allora siamo saliti legati, a zig zag, con sci e pelli di foca, con pendenze fino ai 45˚. E' stata una giornata faticosissima per soli 120 metri di dislivello. Abbiamo montato la tenda e siamo crollati in un sonno profondo, stremati. (Walter e Simon)

SABATO 19
Telefono sceso dal cielo


Stamattina alle 7.30 ci hanno svegliati gli elicotteri. Non ci abbiamo fatto caso, erano lontani, pensavamo fossero per Karl. Sapevamo bene che non potevano aiutarci a quelle altitudini. Poi un elicottero ci ha buttato un sacco a 500 metri. Dieci minuti dopo un altro elicottero ha buttato un altro sacco, stavolta 150 metri a valle. Noi facevamo segno che andavamo in su, loro segno di andare in giù, forse per dirci dove era il sacco. Praticamente siamo scesi di tutti quei metri che faticosamente avevamo percorso il giorno prima per arrivare al pacchetto. Una faticaccia! (Walter)
L'ho aperto io il pacco. C'erano due bombole per il gas, cibo, un telefono satellitare e un bigliettino di Gnaro che ci diceva di tenere duro. Ho pensato che Gnaro stesse scalando il K2. Ci siamo portati via il telefono e il biglietto, cibo e gas li abbiamo lasciati per non appesantirci. Il telefono non prendeva. Siamo ripartiti. Ai 7.000 metri abbiamo scavato due ore nel ghiaccio per cercare di far stare la tenda in piano e l'abbiamo ancorata sopra gli sci. (Simon)

DOMENICA 20
Pronto, sono Walter


Il tempo è peggiorato. Abbiamo percorso un traverso di 400 metri, durissimo. Speravamo di arrivare alla sella, ma ci siamo fermati ai 7.300. C'è un po' di campo e chiamiamo il numero indicato in un sms: «Sono Walter Nones, mi hanno detto di chiamare qui». Dall'altro capo del mondo ha risposto Agostino Da Polenza. Siamo rimasti un po' sorpresi e gli abbiamo spiegato che era tutto ok, che saremmo scesi dalla Buhl. (Walter e Simon)

LUNEDI' 21
In tenda nella bufera


Ci siamo svegliati con una bufera micidiale, si vedeva a stento dove andare. Abbiamo girovagato fino alle 16, fino ai denti d'argento e montato la tenda ai 7.500 metri, nella bufera. Abbiamo parlato a lungo delle nostre donne. Le nostre imprese appartengono anche a loro, al loro coraggio di restarci accanto e capire le nostre passioni. Ad accettare il rischio che potremmo non tornare più. (Walter e Simon)

MARTEDI' 22
Pensiero fisso sull'incidente


Siamo partiti con una splendida giornata, ma dopo 200 metri di nuovo nebbia. Ci siamo fermati perché la nebbia non ci fa proseguire. Ci sono temporali, sembra di dormire accanto a una centrale elettrica. Siamo preoccupati per il tempo. Agostino ci ha detto che era in miglioramento, ma il cielo è troppo carico. Dormiamo quasi tutto il giorno. Karl ci manca. Ci manca il suo entusiasmo e la sua allegria. Le sue battute: «Chi mi dà il bacino della buonanotte?». Non abbiamo neppure più voglia di fare foto. Ancora non capiamo cosa sia successo. Era tutto normale, stavamo solo cercando un posto dove mettere la tenda. (Walter e Simon)

MERCOLEDI' 23
Con gli sci fino a 6400


Tutti ci avevano parlato di bel tempo. Invece c'è una nebbia micidiale. Decidiamo di fermarci, proseguire è troppo pericoloso. Agostino ci dice se possiamo chiamare due volte al giorno perché i media vogliono sapere. Non riusciamo a capire bene chi può essere interessato a noi. Nel pomeriggio c'è una schiarita. Smontiamo le tende e scendiamo con gli sci fino ai 6.400. La tenda è praticamente distrutta, sta in piedi solo da un lato. Per risparmiare peso avevamo solo un telo. (Walter e Simon)

GIOVEDI' 24
Elicotteri non richiesti


Decidiamo di non fare la Buhl: con la neve fresca significava valanghe. Tiriamo una linea dritta e arriviamo ai 5.200. Gnaro ci manda gli elicotteri, che ci fanno arrivare al campo base un giorno prima del previsto. Noi volevamo andare da Karl, ma ci ripetono che è impossibile. Volevamo restare al campo base a recuperare la nostra roba, ma ci portano a Gilgit, dove i giornalisti non fanno che chiederci chi pagherà i soccorsi. Ma l'intervento ha anticipato solo di un giorno il rientro al campo base che avremmo completato da soli. Comincia qui il nostro calvario mediatico. Non avevamo capito il casino che era scoppiato in Italia. L'avessimo saputo non avremmo telefonato da lassù. (Walter e Simon)

A cura di Cristina Marrone
07 agosto 2008

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« Risposta #71 inserito:: Agosto 07, 2008, 04:15:13 pm »

Il 6 Giugno 1968 veniva assassinato all'Hotel Ambassador di Los Angeles un senatore che aveva appena vinto le primarie in California, guadagnandosi la nomination alle presidenziali per il partito democratico. Nonostante fosse il fratello del famoso presidente ucciso a Dallas nel 1963, e nonostante avesse egli stesso ottime possibilità di diventare presidente, la sua vita e la sua morte sono finite nell'oblio.

Soprattutto la seconda, avvenuta ufficialmente per mano di Shiran Bishara Shiran, è stata sbrigativamente archiviata dalla storia senza mai essere stata presa seriamente in esame. D'altronde, mentre a Dallas abbiamo forse il più intricato "giallo" della storia moderna, Shiran ha sparato sotto gli occhi di tutti, e di cospirazione vera e propria - almeno a livello popolare - non si è mai parlato.

Ma la storia, com'è noto, "è scritta dai vincitori". Ed il vincitore di quella tornata elettorale fu lo stesso Richard Nixon che aveva inaspettatamente perso, otto anni prima, contro lo sconosciuto John Kennedy, e che rischiava ora di fare la stessa figura contro il fratello più giovane. Rimasto invece senza avversari, nell'autunno Nixon riusci finalmente a rientare in quella Casa Bianca da cui era uscito nel 1959, come vice di Eishenower, convinto di fare una semplice passeggiata elettorale.

(Nel 1964 Nixon aveva saggiamente scelto di non candidarsi, visto che in quel momento la popolarità di Johnson, appena succeduto a Kennedy, era alle stelle. Johnson infatti stravinse contro Barry Goldwater, mentre fu lui stesso a dover rinunciare a candidarsi, nel 1968, sotto il peso delle disastrose notizie che arrivavano dal Vietnam. Questo aprì la strada alla candidatura di Bob Kennedy - che era contrario a restare in Vietnam - e che venne così a trovarsi in piena rotta di collisione con il rientrante Nixon).

Vale la pena di ricordare una frase emblematica, pronunciata da Kennedy poco prima di candidarsi: "Soltanto i poteri di un presidente permetteranno un giorno di rivelare al mondo la verità sull'assassinio di mio fratello." E' chiaro quindi che la sua morte deve aver giovato sia chi ha poi vinto quelle elezioni, sia chi nel passato aveva tramato per la morte del fratello. Sempre che non si trattasse della stessa persona.

"Il coraggio morale è ancora più raro e prezioso del coraggio in battaglia, o di una grande intelligenza. Ma è  una dote assolutamente indispensabile per chi voglia cambiare un mondo che accetta così faticosamente il cambiamento. Ogni volta che una persona si batte per un'idea, agisce nell'intento di migliorare la situazione degli altri, o si scaglia contro un' ingiustizia, mette in moto sottili rivoli di speranza che, convergendo da mille sorgenti di energia e di coraggio, vanno a formare una corrente in grado di travolgere il più poderoso muro di oppressione e resistenza" - RFK
 

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IL FATTO

All'Ambassador Hotel di Los Angeles è passata da poco la mezzanotte del 5 Giugno, quando Robert Kennedy conclude il suo discorso di ringraziamento alla platea che lo festeggia per la vittoria nelle primarie, che gli vale anche la  candidatura alle presidenziali. A quel punto il programma prevede che il Senatore lasci il palco alla sua sinistra, per raggiungere la sala stampa dove lo attendono i giornalisti. Ma una sua guardia del corpo, Bill Barry, annuncia che il percorso è completamente bloccato dalla folla, e dirige tutti ad uscire invece dal lato opposto (vedi grafico, più sotto). Dopo un corridoio ci sono due porte metalliche "a molla", che danno alle cucine dell'albergo. Kennedy è preceduto dal maitre dell'hotel, Karl Uecker, che lo tiene per il polso e gli apre la strada fra la gente che gli viene incontro. Sul lato destro di Kennedy cammina Thane Eugene Ceasar, la nuova guardia del corpo che ha sostituito all'ultimo momento quella abituale del Senatore. L'altra guardia del corpo di Kennedy, Bill Barry appunto, è rimasto inspiegabilmente indietro.

Mentre procedono, Kennedy risponde alle domande di un giornalista, che sta trasmettendo via radio, senza saperlo, gli ultimi istanti della sua vita (l'audio/video a fine pagina, sottotitolato in italiano). Una volta nelle cucine, Kennedy si ferma a stringere la mano a camerieri e cuochi che lo festeggiano. L'ultimo a farlo è un bus-boy di 18 anni, John Romero, che resterà immortalato con lo sguardo fisso nel vuoto, accanto al Senatore morente.

In quel momento Uecker "sente qualcosa insinuarsi fra lui e il tavolo metallico che ha davanti". E' il braccio di Shiran, che punta verso Kennedy una calibro .22 ed inizia a sparare. Kennedy lo vede, e alza le mani davanti a sè, in un gesto instintivo di protezione. Uecker ed altri si avventano sul polso di Shiran, e cominciano a sbatterlo furiosamente contro il bordo del tavolo metallico. Ma Shiran non molla la presa, e ne nasce una colluttazione che sembra non finire mai, con le urla di chi ha paura, le urla di Shiran, e quelle di chi grida agli altri cosa fare per immobilizzarlo.

Quando Shiran viene finalmente disarmato, Kennedy si ritrova a terra con tre pallottole in corpo. Una quarta gli ha forato la giacca, sotto l'ascella destra, senza ferirlo. Il Senatore fa ancora in tempo a chiedere "is everybody allright?" (stanno tutti bene?), e poi crolla in una pozza di sangue. Viene operato d'urgenza al vicino Good Samaritan Hospital, mentre l'intera nazione attende, col fiato in sospeso, davanti ai televisori. Ma l'incubo di Dallas si ripete: Kennedy non supera la crisi, e muore, alle 1.44 del mattino, senza aver più ripreso conoscenza.

Dalla registrazione dell'intervista in corso, si sente con chiarezza solo il primo colpo, e forse il secondo sovrapposto (subito dopo la parola "camouflage"), poi le urla dei presenti coprono tutto ciò che accade. Nel parapiglia risulteranno ferite 5 altre persone: Ira Goldstein, che ha ricevuto due colpi (uno gli ha attraversato il pantalone, senza ferirlo, l'altro l'ha colpito alla natica), Paul Schrade (che si trovava immediatamente dietro a Kennedy, e ha ricevuto una pallottola in testa), William Weisel, Richard Lubic ed Elizabeth Evans, anche lei colpita alla testa ma, come gli altri quattro, miracolosamente sopravvissuta.

Shiran viene arrestato, giudicato e condannato in tempi molto brevi. Basti dire che il referto autoptico, rallentato  a sua volta da strani problemi burocratici, arrivò in tribunale quando già Shiran, pur non ricordando assolutamente nulla dell'attentato, aveva ammesso la propria colpevolezza, nella speranza di ricevere una pena più mite.

Sembrò a tutti un caso chiuso.

Ma se si prova a fare il conteggio dei proiettili, scopriamo che dovremmo averne quattro per Kennedy, due per Goldstein, e uno ciascuno per gli altri quattro feriti, il che porta ad un totale di dieci proiettili, quando la pistola di Shiran - ammesso e non concesso che li abbia sparati tutti - poteva contenerne soltanto otto.

In realtà furono poi sette i proiettili estratti dal corpo delle varie vittime, due risultarono conficcati nello stipite della porta alle spalle di Kennedy, e due fori furono trovati nel pannello del soffitto proprio sopra di lui, portando il minimo a undici proiettili sparati.

Decisamente troppi per il solo Shiran.

Di fronte alla necessità di scovare un secondo sparatore - e quindi di ammettere anche una "cospirazione" - inizia a questo punto, nella versione ufficiale della polizia, un balletto di proiettili di fronte al quale il famoso "magic bullet" di Dallas è una certezza statistica inconfutabile.

Qui infatti l'unico modo per fare tutti quei danni con otto proiettili è che a) il proiettile che ha forato la giacca di Kennedy sotto l'ascella, abbia poi compiuto una deviazione di 80 gradi verso l'alto, per colpire la testa di Shrade che era subito dietro di lui (non a caso Paul Schrade, che non è mai stato indennizzato, è stato fra i più instancabili nel chiedere una riapertura del caso). Che b) il proiettile che ha colpito il pantalone di Ira Goldman dal davanti sia poi rimbalzato su una piastrella dietro di lui, per rientrargli nella natica in direzione opposta, ma soprattutto che c) un colpo imprecisato abbia subito anch'esso una deviazione verso l'alto di 90 gradi, per forare il pannello del soffitto sopra Kennedy, rimbalzare su "qualcosa" di non meglio indentificato nell'interstizio, tornare indietro praticando un secondo foro accanto al primo, e ferire infine Kennedy dall'alto. Insomma, una specie di cartone animato, in cui le pallottole instancabili rimbalzano dappertutto, mentre nessuno riesce a impedire a Shiran di sparare nemmeno uno degli otto colpi che aveva in canna.

Nella foto sopra a sinistra, i due fori rilevati nello stipite della porta, contenenti un proiettile ciascuno (il che sarebbe già sufficiente a far "saltare" la tesi di Shiran come assassino unico, poichè 7+2=9). Nella foto a destra i due fori rilevati nel pannello del soffitto, proprio sopra il punto in cui si trovava Kennedy, per i quali invece "nessuna pallottola è mai stata trovata".

Ci si domanderà a questo punto come sia stato possibile condannare il solo Shiran, di fronte ad una contraddizione matematica così lampante.


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IL PROCESSO

La risposta è che tutte queste informazioni non arrivarono mai alla giuria. Non dimentichiamo che nel sistema americano il giudice ha enormi poteri nel condurre il processo a suo piacimento, e questo ovviamente torna molto comodo nell'ipotesi di una cospirazione. Inoltre, l'avvocato d'ufficio di Shiran, che fu scelto dallo stesso giudice, mostrò una scarsissima predilezione per il semplice calcolo aritmetico, preferendo concentrare tutti i suoi sforzi per far apparire Shiran come uno psicopatico. Ciò appariva ai giurati come un nobile tentativo per alleviarne i termini di una condanna ormai sicura, ma in realtà sviava radicalmente il processo da quello che avrebbe dovuto essere il suo corso naturale. Vi fu poi un grosso "intoppo procedurale", come già detto, per cui la giuria non potette nemmeno vedere l'autopsia sul corpo di Kennedy, che avrebbe smentito in pieno - come vedremo in seguito - la versione ufficiale dei fatti.

A questa procedura chiaramente deformata, si aggiunga il fatto che tutti gli elementi rimossi dal luogo del delitto (lo stipite della porta, i pannelli del soffitto, e la pistola stessa di Shiran) o "andarono perduti" dopo il processo, oppure "furono buttati via" dalla polizia di Los Angeles, perchè "occupavano spazio inutilmente". Che nessuno si sognasse mai, in altre parole, di riaprire un caso chiuso così abilmente sotto gli occhi di tutti.

(Sorte simile era toccata agli appunti di 7 ore di interrogatorio a Lee Harvey Oswald, che furono "buttati via" dalla polizia di Dallas, subito dopo la sua morte, perchè "tanto era chiaro che era stato lui." Strano paese, dove ti registrano su nastro persino la deposizione per una multa non pagata, ma poi se ammazzano il presidente buttano via tutto quello che ha detto l'assassino).

"Pochi sono disposti a sfidare la disapprovazione dei compagni, la critica dei colleghi, e la rabbia della società, in nome della semplice verità." - RFK
 


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IL CORONER DELLE CELEBRITA'


Ma il problema più grosso, per la versione ufficiale, si chiama Thomas Noguchi. Noguchi non è stato semplicemente un coroner (il medico legale, responsabile dell'autopsia), ma colui che ha trasformato alla radice il concetto stesso di indagine post-mortem, nella storia della criminologia americana. Soprannominato "Coroner of the Stars", per aver operato da sempre su Los Angeles, Noguchi partecipò già all'autopsia di Marylin Monroe (in cui suggerì la soluzione all'enigma del finto suicidio), condusse quelle di Robert Kennedy, di Sharon Tate (la moglie di Polansky uccisa dai seguaci di Manson), di John Belushi e di tanti altri personaggi dello spettacolo, e fu inoltre colui che dimostrò, per conto della famiglia Calvi, l'impossibilità del suicidio del "banchiere di Dio", trovato impiccato sotto un ponte di Londra.

La differenza fra Noguchi e gli altri coroners sta nell'approccio globale con cui affronta i casi a lui affidati. Noguchi non esamina semplicemente il cadavere sul tavolo della morgue, ma vuole arrivare a "ricollocarlo" (idealmente, s'intende) nella precisa dinamica dell'azione. E' quindi in realtà un investigatore a sè stante, che tende ad integrare le osservazioni sul cadavere con i rilevamenti sul luogo del delitto. (Ad esempio: muovendo nelle varie posizioni il braccio destro di Kennedy, Noguchi notò che solo ad una certa angolazione il foro di entrata di un proiettile sotto l'ascella risultava perfettamente rotondo. Grazie a questo dedusse che quel colpo poteva essere giunto solo quando il Senatore aveva già alzato il braccio davanti a sè, arrivando a stabilire con precisione in che punto della sequenza fosse partito quel colpo).

Purtroppo il suo metodo, invece di venire apprezzato per l'evidente contributo che può dare alle indagni, è stato spesso osteggiato dalla polizia di Los Angeles, che ha sempre visto in Noguchi un personaggio troppo ingombrante e difficile da controllare. E avevano tutt'altro che torto.

F.B.I. contro  L.A.P.D. (Los Angeles Police Department)

A differenza di Dallas, dove l'FBI tolse di forza la giurisdizione del caso alla polizia locale (storico l'episodio in cui lo sceriffo di Dallas si mette di traverso nel corridoio dell'ospedale, cercando di bloccare gli uomini di Kennedy che se lo stanno portando via nella bara) la polizia di Los Angeles seppe prendere in mano il caso e portarlo fino alla conclusione senza alcun intervento federale. Questo ha reso molto più facile controllare, ad esempio, certe testimonianze scomode, come quelle di chi inizialmente aveva sentito la famosa "ragazza in polka-dot" dire "abbiamo ucciso Kennedy", ma poi al processo, stranamente, non si ricordava più di nulla. Ma soprattutto, non dovendo spiegazioni a nessuno, hanno potuto concedersi tutte le "distrazioni" già citate, alle quali si possono aggiungere episodi come l'incenerimento "accidentale" di 2400 fotografie, "convinti che fossero solo dei duplicati". La misura della sfacciataggine è qui anche la misura dell'impunità in cui sapevano di muoversi gli alti livelli del dipartimento di polizia.

Tutto questo ha da sempre tagliato le gambe in partenza ad un'eventuale riapertura del processo: oggi di quegli elementi esistono solo le fotografie pubblicate in questa pagina, e poche altre.

Nove anni dopo però l'FBI fu costretta ad entrare in gioco, quando il giudice indipendente Thomas Kranz fu incaricato dal procuratore della Contea di Los Angeles di una revisione del caso, in seguito alle montanti proteste da parte di un numero crescente di voci pubbliche, a cui stava a cuore la verità. Il rapporto fu il solito atto di equilibrismo verbale - molto simile a quello della commissione HSCA nel caso JFK - che tendeva a ristabilire almeno una parte di verità, per accontentare le voci più esigenti, senza per questo smentire pubblicamente le stesse autorità che avevano agito inizialmente per coprirla del tutto.


IL RAPPORTO KRANZ

Nel 1977 Kranz consegnò ai suoi superiori un rapporto completo sull'assassinio di Robert Kennedy (qui l'originale in pdf.zip, 3 vol. 7.7 Mb), nel quale riportava, fra le altre cose, i risultati dell'autopsia di Noguchi. Leggendoli, diventa più facile capire perchè quest'ultima faticò così tanto ad arrivare in tempo utile al processo.

Ecco cosa dice, in sintesi, il passaggio sopra citato (che compare a pagina 7 del I Volume): il colpo mortale (3, nello schema di Noguchi a sx.) ha penetrato il cranio dietro all'orecchio destro, frantumandosi poi al suo interno. Bruciature di polvere da sparo sull'orecchio indicano che il colpo è stato sparato da circa 3-4 cm. di distanza. (Tutti i presenti hanno testimoniato che Shiran non si è mai avvicinato a meno di un metro da Kennedy).

Altri due colpi sono penetrati accanto alla scapola e sotto l'ascella destra (il primo si è piantato nelle vertebre cervicali di Kennedy, il secondo è fuoriuscito all'altezza della spalla).

A destra vedete la giacca di Kennedy, con i fori di entrata e uscita del colpo n. 2. Anche questi colpi risultarono sparati da distanza ravvicinata.
 

Il paradosso è impossibile da ignorare. Shiran spara da davanti, in orizzontale, e Kennedy viene colpito da dietro, tre volte, in verticale dal basso verso l'alto (da cui i buchi nel soffitto).


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THANE EUGENE CESAR


Molto meno rumore ha fatto invece la storia di Thane Cesar, l'uomo verso il quale puntano il dito tutti gli indizi emersi finora. Presto scomparso nel nulla, fu lo stesso capo della polizia di Los Angeles a suggerire a Kennedy questa guardia del corpo privata, dopo che una delle sue aveva improvvisamente dato forfait per la serata all'Ambassador. Thane Cesar risultò poi essere un fervente sostenitore di George Wallace, il governatore del Texas a sua volta candidato presidenziale di quell'anno per l'estrema destra. Un dichiarato sostenitore del Ku-Klux-Klan, Wallace, che combatteva praticamente ogni riforma propugnata da Kennedy, sarebbe finito a sua volta su una sedia rotelle, nel 1972, in seguito ad un attentato. (L'elezione del 1968 fu poi vinta da Nixon, contro Wallace appunto, e contro Hubert Humphrey, il candidato democratico che Kennedy aveva appena sconfitto nelle primarie, e che era rientrato in lizza dopo l'assassinio).

Notiamo inoltre come la società di detectives che aveva fornito le prestazioni di Cesar a Kennedy, la Ace Security, fosse di proprietà della Lockeed Corporation, un ambiente tutt'altro che "liberal" dal punto di vista ideologico. Stupisce infatti che nell'entourage di Kennedy non abbiano pensato di rivolgersi a organizzazioni più "amiche", nell'affrontare il delicato problema della sostituzione. Ma non va dimenticato che fu proprio Bill Barry, la prima guardia del corpo di Kennedy, a suggerire all'ultimo momento la deviazione attraverso le cucine dell'Ambassador (dove si trovava Shiran in attesa), e che lui stesso poi "non riuscì" ad essere accanto all'uomo che doveva proteggere, nel momento del bisogno.


LA TESI PIU' ACCREDITATA

Thane invece marciava immediatamente alla destra di Kennedy, e lo tirò a terra "per proteggerlo" - come da manuale - immediatamente dopo i primi spari. E' quindi l'unico ad aver potuto sparare a Kennedy da dietro, a bruciapelo e verso l'alto, e fu anche l'unico a farsi ritrovare con una pistola in mano, alla fine della sparatoria. Non disse però se la pistola avesse sparato o meno, e nessuno si preoccupò mai di chiederglielo. E nonostante questa fosse una calibro .22 - esattamente come quella di Shiran - non fu mai esaminata al processo, e scomparve poi nel nulla, insieme agli altri mille elementi "scomodi" sequestrati dalla polizia di Los Angeles. Stessa fine fece la pistola di Shiran, a causa di una "confusione fra due buste", in cui fu gettata naturalmente quella sbagliata.

C'è infatti chi ha suggerito che la pistola di Shiran fosse caricata a salve (nel qual caso basterebbe un rapido esame per scoprirlo), per evitare di ferire Thane Cesar mentre svolgeva il suo lavoro, coperto dalle urla e dai suoi colpi a vuoto. Questo sarebbe possibile, nonostante gli 11 colpi (che a sua volta non può aver sparato Thane da solo), se si considerano due testimonainze colte sul momento, ma poi significativamente ignorate dal giudice al processo: una certa Lisa Urso disse di aver notato, subito dopo la sparatoria, un uomo biondo, vestito di grigio, che riponeva la pistola in una fondina, mentre un altro testimone disse di aver visto un uomo coi capelli scuri, vestito di scuro, sparare due colpi e allontanarsi in fretta dalla cucina. (Con Thane, e forse altri, che sparavano a Kennedy da dietro, diventa anche pù facile spiegare il colpo ricevuto nella natica da Ira Goldsten, che invece prima obbligava a suggerire un improbabile "rimbalzo su una piastrella alle sue spalle").

Qualunque sia stata la dinamica effettiva dell'omicidio, è chiaro che ruota tutta intorno a Thane Cesar, ed alla sua posizione privilegiata al fianco di Kennedy.

A destra vedete una foto emblematica, che ritrae proprio Thane Cesar accanto a Shiran, subito dopo l'attentato. Sarebbe interessante conoscere i loro rispettivi pensieri in quel preciso momento. (Per non pensare alla faccia che avrebbero fatto i due uomini sulla destra, se gli avessero detto che l'assassino di Kennedy non è quello che tengono fermo, ma quello accanto, in divisa, che li sta aiutando a farlo).

Alcuni vedono le cose come sono, e si chiedono "perchè". Io sogno cose che non sono mai state, e mi chiedo "perchè no" - RFK
 
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« Risposta #72 inserito:: Agosto 08, 2008, 05:25:38 pm »

Boss paralitico l´incredibile fuga

Enrico Fierro


Una storia di mafia e latitanti che è già una leggenda nera. Nei bar di Africo, di Platì e di San Luca, i picciotti ne parlano: Ciccio Pakistan sta «fottendo» tutti: i carabinieri, i poliziotti, i giudici di Reggio e quei «vastasi» delle altre famiglie di ´ndrangheta che lo cercano per fargliela pagare.
È da un anno che tentano di stanarlo facendogli terra bruciata attorno: zero. Francesco Pelle, classe 1977, boss emergente di Africo, continua ad essere un imprendibile. Il 30 agosto dell´anno scorso i carabinieri setacciarono la sua casa di Africo, ma di «Pakistan» neppure l´ombra: si era nascosto nell´intercapedine di una doppia parete. A fine luglio di quest´anno i «cacciatori» del Ros dell´Arma hanno sfondato la porta della casa del suocero, sapevano che c´era un bunker nel sottoscala: hanno trovato tracce, questo sì, ma Ciccio niente. Continua a scappare. E mai uso di questo verbo fu così fuori posto, perché «Ciccio Pakistan», l´imprendibile, è paralitico. Dalla sera del 31 luglio di tre anni fa le sue gambe sono immobili come pezzi di legno, ha il bacino fracassato, la spina dorsale diventata ormai insensibile.

Inchiodato su una sedia a rotelle defeca e orina nei sacchetti, a trentuno anni vive nel ricordo di quando era un uomo completo. Per «scappare», per continuare la sua vita di fantasma ha bisogno di persone fidatissime. Gente che gli guarda le spalle, lo sposta quando il covo che lo nasconde è bruciato, lo accudisce, medici e infermieri che lo curano. Per gestire la latitanza di un uomo ridotto in quelle condizioni occorrono almeno una decina di persone a disposizione ventiquattr´ore al giorno, servono case, bunker, macchine e armi, soldi.

Prima di quella sera sciagurata, Ciccio era un giovane uomo col mondo in pugno in quel «Libano» di boss e guerre di mafia che va dai paesi dell´Aspromonte alla Locride. «Pakistan» voleva diventare il capo di Africo, paese dagli equilibri mafiosi fragilissimi dopo la cattura di un boss del peso di Giuseppe Morabito, «Peppe Tiradritto», ammanettato in un fienile puzzolente una notte del 2004. Aveva tutto: la gioventù´ e il prestigio, perché lui era il rampollo di famiglie importanti, i Pelle ("Gambazza") e i Vottari ("Frunzu"), padroni di San Luca. E poi si era rafforzato col matrimonio, come impongono le antiche regole della ´ndrangheta, sposando una Morabito, la figlia di Leo «Scassaporte». «Pakistan» si sentiva un intoccabile, ma era diventato un problema per le altre cosche della zona. «Ciccio diventerà il capo di tutta Africo», dice un mafioso una sera di febbraio del 2006. «Ciccio deve stare attento - avverte il suo interlocutore - perché le cose sono difficili, volevano ammazzarlo tempo fa e se non lo hanno fatto è solo perché suo cugino ha garantito per lui». La ´ndrangheta è governata da regole antiche e rigidissime, raramente una sentenza di morte viene annullata, quando questo accade è solo perché un altro boss, rappresentante di una «famiglia» di peso, si offre come «garante». La garanzia viene accettata per non turbare equilibri, ma può essere revocata quando ci si accorge che solo l´assassinio può rimettere a posto le cose. E forse, quella sera di luglio, per Ciccio Pakistan erano scadute tutte le garanzie.

È sulla verandina della sua casa di Africo a respirare il vento che viene dal mare e che si mescola ai mille profumi che regala l´Aspromonte. La giornata è di quelle che un uomo di ´ndrangheta si scolpisce nella mente: è nato il suo figlio maschio. Lo ha appena portato dall´ospedale, lo tiene in braccio, lo coccola, ne fissa i caratteri del viso per stabilire somiglianze. Dentro, in cucina, ci sono i suoi parenti, la famiglia. Di fronte una brutta casa ancora in costruzione, in basso un giardino con alberi e una siepe troppo fitta. È un attimo, Francesco Pelle si volta verso la moglie porgendogli quel fagottino, si gira sul fianco sinistro, il tempo che la donna accoglie il bambino tra le sue braccia e dalla siepe parte un lampo seguito da un rumore forte come il tuono. Il primo pallettone gli squarcia la schiena, un secondo gli frantuma il bacino, altri due colpi gli straziano il corpo. Ora Ciccio Pakistan è a terra, ancora vivo ma gravissimo. Quando a mezzanotte arrivano i carabinieri su quella verandina non c´è una goccia di sangue, le donne di casa hanno pulito tutto, il pavimento è lindo. Una omertà covata per secoli e diventata tratto genetico indelebile le ha indotte a cancellare ogni traccia. Ma il sangue non sparisce con un colpo di straccio. Rimane impresso nei ricordi perché la sua linea rossa possa scorrere ancora e rigenerarsi in interminabili vendette. Ciccio Pakistan lo hanno colpito in un giorno che un uomo non dimentica, altre famiglie piangeranno i loro morti nei giorni colorati di rosso sul calendario.

La sera del Natale 2006 verseranno lacrime di dolore i Nirta, i nemici dei Pelle, per Maria Strangio falciata da una raffica di mitra. Passeranno mesi con i maschi rintanati come lupi sulle montagne o nei bunker scavati sotto le case di San Luca. Latitanti volontari, uomini che fuggono dalla vendetta. Poi una sera qualcuno entra in una porcilaia e scanna tutti i maiali maschi, solo la scrofa viene lasciata vivere. È un segnale: le donne non si toccano. È il segnale che otto mesi dopo, il 15 agosto 2007, porta un killer poco più che ventenne ad appostarsi nella notte davanti a un ristorante di Duisburg. Sei morti giovani: il sangue scorre ancora.

Per i magistrati dell´antimafia reggina, la seconda guerra di mafia che ha sconvolto San Luca e i paesi dell´Aspromonte prima di deflagrare in Germania, scoppia il 6 gennaio del 2005, Epifania. È il giorno dell´ammazzatina di Pasquale Favasuli, 21 anni. Qualcuno, «un amico», gli ha dato appuntamento in una contrada di Casignana, qualcuno che voleva spiegazioni. Perché la sera prima di quell´appuntamento, Pasquale è nervoso assai, sospetta la «tragedia», così gli uomini della ´ndrangheta - veri cultori della materia - chiamano l´omicidio organizzato con l´inganno. Lo ammazzano, dicono, per una questione di «corna», perché Pasquale - legato ai Pelle - avrebbe insidiato la fidanzata di Domenico Giorgi, un picciotto legato da vincoli di sangue con i Nirta e gli Strangio "Jancu" di San Luca. Passano 9 mesi appena e quel sangue verrà vendicato con un altro omicidio, quello di Antonio Giorgi, giovane vittima pure lui. Non di una vendetta d´onore, questo è materiale buono per una soap-opera in salsa calabrese, ma di una vera e propria guerra per la conquista del potere mafioso. In ballo, ne è convinto il pm dell´Antimafia Franco Mollace che all´epoca indaga su quegli omicidi, c´è la droga e gli affari, appalti, commesse, racket. Per questo, una sera di luglio, sparano a Ciccio Pakistan. Per i soldi e per il potere.

«´U figghiolu è contento che mi ha fottuto», dice con un filo di voce ai compari che vanno a trovarlo il 5 agosto del 2006. È ricoverato a Reggio, i suoi picciotti temono un nuovo attentato e non lo lasciano un minuto. Minacciano medici e infermieri, occupano militarmente il reparto. Ma Ciccio Pakistan non si dà pace. «Mi hanno fatto il regalo per il bambino». Soffre le pene dell´inferno: «Mi hanno rovinato la vita. Sono ridotto come il Signore sulla croce». Vuole a tutti i costi vendicarsi: «Li sfondo quei bastardi». Lo trasferiscono in una clinica specializzata del Nord dove i medici non gli danno speranze. Non camminerà più, ha appena trent´anni e lo hanno ridotto come un mezzo uomo. «Carissimo cugino - scrive il 7 novembre 2006 in un sms indirizzato al parente - ti vorrei dire che forse non cammino più». Convoca i cugini del ramo Vottari e con loro, ne sono convinti i pm dell´Antimafia, organizza la vendetta. Il 13 dicembre 2006 lascia la clinica e torna in Calabria, due giorni prima ha buttato il vecchio cellulare e si è fatto un numero nuovo. A San Luca e Africo i capi delle cosche temono l´esplosione di una guerra senza fine. E hanno ragione, perché il giorno di Natale Ciccio Pakistan, secondo le accuse della Direzione antimafia, vendica le sue gambe perse per sempre e la sua vita di uomo ridotto a metà. È la strage di Natale. Maria Strangio, la moglie di Giovanni Luca Nirta, viene falciata da una raffica di mitra. Il resto della storia si conclude, per il momento, la notte di ferragosto in Muellheimerstrasse, Duisburg.

Ma dov´è adesso Ciccio Pakistan? In un anfratto dell´Aspromonte, o forse in un bunker tra San Luca e Africo, è in questi posti che hanno trovato sue povere tracce: medicamenti e pannoloni per incontinenti. È malato, ha bisogno di assistenza, polizia e carabinieri sanno che si è curato a Milano, forse in Slovenia, in un centro specializzato dell´Austria e in una clinica nelle Marche. Dicono che gli abbiano offerto la possibilità di consegnarsi, che una trattativa sia stata già avviata ma senza successo. Pakistan vuole continuare ad essere libero, latitante, nonostante le sue difficili condizioni.

Perché? È la domanda che assilla gli investigatori. Quali altre mosse sta preparando l´uomo che sognava di essere il capo dei capi della potente ´ndrangheta di Africo?

Pubblicato il: 08.08.08
Modificato il: 08.08.08 alle ore 10.51   
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« Risposta #73 inserito:: Agosto 13, 2008, 10:52:06 am »

Stazzema: si ricordano le vittime della strage


È iniziata martedì 12 agosto alle 10, con la Messa celebrata dall'arcivescovo di Pisa monsignor Giovanni Paolo Benotto, la commemorazione dell'eccidio di Sant'Anna di Stazzema: il 12 agosto 1944 centinaia di persone, 560 per l'esattezza, per buona parte anziani e bambini, vennero massacrate durante una delle stragi nazifasciste più efferate che la storia ricordi. Alle 11 il corteo è salito lungo la Via Crucis per raggiungere il Monumento Ossario dove il sindaco di Stazzema Michele Silicani e il presidente dell'Associazione Martiri Enrico Pieri hanno salutato gli intervenuti.

«La commemorazione di vittime inermi della barbarie nazifascista deve essere di monito a non dimenticare gli orrori della guerra e dell'odio tra i popoli e vale a spronare, anzitutto i giovani, a promuovere i valori della pace e della dignità della persona attraverso il dialogo, la tolleranza e la coesione sociale». Lo afferma il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in un messaggio inviato al Sindaco del comune di Stazzema. «L'impegno con il quale la vostra comunità contribuisce a mantenere vivo il ricordo dei Martiri di Stazzema - sottolinea il capo dello Stato - conferma che i valori che animarono le scelte dei tanti, che si sono impegnati nelle fila della resistenza per restituire all'Italia libertà ed istituzioni democratiche, costituiscono ancora oggi le fondamenta condivise della nostra Democrazia».

Quella di Sant’Anna di Stazzema, insieme all’eccidio di Marzabotto, è una delle stragi più efferate compiuti dagli occupanti nazifascisti. Solo nel 2004 il tribunale militare di La Spezia ha condannato gli ufficiali delle SS tedesche per gli omicidi compiuti in periodo di guerra. Durante il processo sono emersi degli aspetti inquietanti. Dal dopo guerra fino al 1994 sono stati occultati dei documenti che riportavano i numeri ed i responsabili delle stragi dei civili compiute dai nazifascisti. Le Fosse Ardeatine, Boves, Marzabotto e S.Anna di Stazzema hanno trovato dopo tanti anni giustizia, per lo meno quella del tribunale.

«Il processo riaperto dopo cinquant'anni, e il cui definitivo atto si è celebrato lo scorso novembre con la conferma delle condanne inflitte in primo e secondo grado - ricorda l'assessore alla cultura della Regione Toscana, Paolo Cocchi, durante la commemorazione - suona anche come suggello di verità storica, oltre che di giustizia e pietà verso le vittime e i loro familiari. Fu un crimine di guerra senza attenuanti. Via via che si spengono i protagonisti di quegli anni e ci viene a mancare la forza emotiva di chi vide e visse direttamente la guerra, - ricorda l’assessore - i lutti, le violenze, il riscatto antifascista, tocca ai figli di quella ultima generazione fare delle scelte. Scegliere cioè gli strumenti e le forme più idonee a far sì che i valori e le esperienze vissuti dai padri si trasmettano ai nipoti, a persone separate da quegli eventi da un vero e proprio abisso storico e culturale».

«È una nuova politica della memoria quello di cui abbiamo bisogno - aggiunge ancora Cocchi - che si nutra di verità storica, di un nuovo senso di giustizia che faccia tesoro dei molti drammi del '900 e di quelli odierni, che innervi le istituzioni e diventi pedagogia diffusa, educazione civica e non più lotta politica»

Pubblicato il: 12.08.08
Modificato il: 12.08.08 alle ore 13.28   
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« Risposta #74 inserito:: Agosto 14, 2008, 08:04:48 am »

«Quella strage compiuta anche grazie alle camicie nere»

Ella Baffoni


È giusto sostenere che quella di Sant’Anna di Stazzema è stata «solo» una strage nazista? È giusto rimuovere le responsabilità dei fascisti italiani, come fa il presidente della Camera Fini? Lo chiediamo a Paolo Pezzino, docente di storia contemporanea a Pisa, già consulente della procura di La Spezia per le indagini su diversi eccidi dell’«armadio della vergogna», tra cui Sant’Anna e Marzabotto. E che ha scritto, tra l’altro, «Anatomia di un massacro. Controversia sopra una strage tedesca» (il Mulino)
Il presidente Napolitano parla di «Stragi nazifasciste». Il presidente della Camera Fini ricorda la brutalità delle Ss. Non è una differenza forte?

«Non risulta nelle inchieste parlamentari né al processo sui fatti di sant’Anna di Stazzema la presenza di truppe regolari della Repubblica sociale o reparti di camice nere. Cosa che avvenne invece in altri episodi sanguinosi, come la strage di Vinca, a dieci chilometri da sant’Anna. Là ad agire c’era un reparto delle Brigate nere di Carrara».

Però tra i superstiti molti dichiararono che c’erano italiani a fianco dei tedeschi.

«Questo è sicuro. C’erano i portatori di munizioni, che spesso i tedeschi costringevano, e poi eliminavano perché non testimoniassero. Ma a sant’Anna quei portatori non furono uccisi dopo la strage. Uno di loro, Antimo Garibaldi, ebbe addirittura un lasciapassare tedesco. È anche vero che, processato all’epoca per collaborazionismo, fu assolto. Un’assoluzione che non cancellò i dubbi né i sospetti: sua moglie e sua figlia furono uccisi anche se risulta che lui li avvertì il giorno prima. È sicuro che collaborò con le Ss, che montò le mitragliatrici. Certo è che lui c’era, ed è sopravvissuto».

Insomma, ci fu la collaborazione di singoli italiani, non di reparti repubblichini o delle Brigate nere. La commissione parlamentare d’inchiesta, però, intendeva indagare «sulle cause dell’occultamento di fascicoli relativi a crimini nazifascisti».

«Certamente, questo era il titolo di quella commissione, due legislature fa, ed è una dizione corretta. In altri casi infatti - Marzabotto, ma non solo - la collaborazione della Repubblica sociale è accertata. Anche se il “lavoro più sporco” lo hanno sempre fatto le Ss».

Non la colpisce il lapsus di Fini, autodichiarato post fascista, che ricorda le responsabilità delle Ss ma non quelle dei fascisti italiani?

«Un po’ mi impensierisce. Bisogna riconoscere che la collaborazione degli uomini della Repubblica sociale fu sicuramente accertata in moltissimi casi. Le fonti dimostrano anche i motivi che scatenavano le stragi: le Ss ritenevano le popolazioni responsabili in solido degli atti dei partigiani - anche se a sant’Anna non ci fu una rappresaglia: i partigiani se ne erano andati da tempo - e anche i repubblichini pensavano che la popolazione fosse d’accordo con i partigiani e contro Mussolini, ed era infatti così. In ultima analisi la dizione «crimini nazifascisti» mi sembra corretta».

Colpisce un’altra differenza tra i due messaggi ufficiali. Quello di Napolitano richiama i valori della Resistenza, quello di Fini si richiama ai principi della Costituzione. Che è sì nata dalla Resistenza, ma non è la stessa cosa.

«Indubbiamente tutte le stragi servivano a fare «terra bruciata» attorno ai partigiani. Cosa che dimostra come la presenza di bande armate e organizzate fosse davvero pericolosa per i nazisti, soprattutto vicino alla linea del fronte, dov’era Sant’Anna. È la dimostrazione, tra l’altro, di quanto fosse importante l’azione partigiana in quelle zone. Non si può ricordare l’orrore di quelle stragi dimenticando il valore e i sacrifici dei partigiani. La terza carica dello stato, poi, dovrebbe avere memoria della Resistenza. Del resto, che dire? Il presidente del consiglio Berlusconi non ha mai celebrato il 25 aprile». e. b.



Pubblicato il: 13.08.08
Modificato il: 13.08.08 alle ore 10.38   
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