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Autore Discussione: BRUTTE e tristi STORIE...  (Letto 165812 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 31, 2008, 04:29:45 pm »

Mai trovato l'assassino. La pista dei servizi segreti

Una croce sul fiume riapre il giallo dell'amante di Jfk

Mary fu uccisa un anno dopo Kennedy.

Le voci su un diario segreto ispirarono le teorie sul complotto

 
WASHINGTON — Una croce di legno bianca misteriosamente riapparsa sul sentiero tra il fiume Potomac e il canale di Georgetown, lungo cui i washingtoniani fanno quotidianamente jogging, è al centro di un nuovo giallo sui Kennedy. Alla croce è affissa una cartolina rossa con l'Aquila americana, che contiene all'interno la fotografia di una donna e due scritte: «Mary Pinchot Meyer, 1920 — 1964» e «Ciliegie nella neve ». S'ignora chi ve l'abbia piantata e la Guardia forestale, che in passato asportò più volte identiche croci dallo stesso posto (le insegne private sono vietate nei parchi pubblici) indaga per scoprirlo. Ma l'America si chiede se quest'ultima croce non celi un messaggio, se qualcuno non stia per svelare chi e perché uccise Mary Pinchot Meyer.

La donna, ex moglie di Cord Meyer (direttore dell'Ufficio disinformazioni della Cia) e amante di John Kennedy, venne assassinata su quel punto del sentiero un anno dopo l'omicidio del presidente, e due anni dopo il suicidio, vero o presunto, di un'altra amante di lui, Marilyn Monroe. Ma non si trovò mai l'assassino, né si appurarono i suoi moventi.

A suo tempo, la tragedia venne ricostruita nei particolari. Mary, una pittrice di successo, lasciò il suo studio nel primo pomeriggio del 12 ottobre del '64 per fare jogging come al solito, risalendo il fiume. Un tenente dell'aeronautica, William Mitchell, che procedeva in senso contrario, la vide passare seguita da un uomo a una distanza di circa 200 metri. Poco più tardi, Henry Wiggins, un meccanico che lavorava a un'auto in panne sulla strada sopra il canale, sentì grida d'aiuto e due colpi di pistola. Gettò uno sguardo sul sentiero, vide una donna sanguinante a terra, sovrastata da un uomo, e corse al più vicino distributore di benzina. La polizia giunse subito e arrestò un giovane nero, Raymond Crump, mentre usciva dal fiume grondante d'acqua. Ma al processo, Crump, che si dichiarò innocente, fu assolto per insufficienza di prove.

Ben Bradlee, il futuro direttore del Washington Post, che avrebbe denunciato lo scandalo Watergate nel '72, era il cognato di Mary, ne aveva sposato la sorella Tony. Nel suo libro di memorie ha raccontato che quella notte ricevette due telefonate «che conferirono al delitto una nuova dimensione». La prima, del tutto inaspettata, da Parigi, fu di Pierre Salinger, l'ex portavoce del presidente Kennedy. La seconda, invece attesa, da Tokio, fu di Anne Truitt, una scultrice, la migliore amica della Meyer. La Truitt gli chiese di recarsi d'urgenza a casa di Mary per recuperare «un importante diario». Scossi, Ben e Tony Bradlee lo fecero la mattina successiva, e vi incontrarono con loro sorpresa James Angleton, il direttore del controspionaggio della Cia: i tre rinvennero il diario, lo lessero, si resero conto del rapporto segreto tra Mary e John Kennedy, ne giudicarono il contenuto delicato, e dopo qualche tempo lo distrussero.

La tragica scomparsa di Mary Pinchot Meyer generò teorie opposte: chi sostenne che fu uccisa perché in possesso di informazioni sull'assassinio Kennedy, indizi di un complotto della Cia; e chi affermò che la scoperta della tresca avrebbe danneggiato il clan Kennedy. Anni più tardi, alla pubblicazione delle memorie di Timothy Leary, il guru psichedelico, emerse una terza tesi: che Mary fosse stata assassinata per questioni di droga. «Mary — riferì Leary — mi telefonò poche ore dopo la morte di John Kennedy piangendo: "Aveva appreso troppe cose, non riuscivano più a controllarlo. Sono spaventata"». A oltre quarant'anni di distanza, l'America vorrebbe sapere la verità. Ma non sono molte le probabilità che quella croce bianca sul sentiero lungo il fiume sia il preannuncio che la verità sta per emergere. Semmai, il mistero s'infittisce.


Ennio Caretto
31 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #46 inserito:: Febbraio 08, 2008, 11:09:42 am »

MAFIA

Quando Lo Piccolo perorava la causa degli scappati

Il boss e i pizzini a Bernardo Provenzano per favorire gli esponenti del clan Inzerillo fuggiti in Usa negli anni '80


 PALERMO - «Si tratta di un impegno e di una decisione di almeno 25 anni fa, da allora ad oggi molte persone non ci sono più. Siamo arrivati al punto che siamo quasi tutti rovinati, e i pentiti che ci hanno consumato girano indisturbati. Purtroppo ci troviamo in una situazione triste e non sappiamo come nasconderci». Con queste parole il boss Salvatore Lo Piccolo cercava di convincere Bernardo Provenzano ad autorizzare il rientro in Sicilia dei cosiddetti 'scappati', esponenti del clan Inzerillo costretti, negli anni '80, dalla commissione provinciale di Cosa nostra, a lasciare la Sicilia dopo la guerra di mafia.

La vicenda è descritta in uno dei capitoli del provvedimento di fermo disposto dalla direzione distrettuale antimafia di Palermo. Nel pizzino, Lo Piccolo si rivolge al padrino di Corloene chiedendogli di arruolare gli Inzerillo «che non escono fuori dal seminato». «Comunque - conclude la lettera - in ogni caso qualsiasi decisione prenderete sarà fatto». Ma Provenzano, che deve fare i conti anche con chi, come il boss Nino Rotolo, del reintro degli esuli non vuole sentir parlare, è consapevole che il suo eventuale assenso potrebbe scatenare una nuova guerra di mafia. Per questo prende tempo e non si pronuncia mai in modo definitivo sulla vicenda. Dei cosiddetti scappati si torna a parlare in Cosa nostra nel 2004 col rientro in patria di Rosario Inzerillo, detto Sarino, fratello di Totuccio, Santo e Pietro, tutti morti nella guerra di mafia. «Lo schieramento, capeggiato da Rotolo - scrivono i magistrati - si opponeva al rientro degli Inzerillo, principalmente per il timore di possibili propositi di vendetta non disgiunti dal riconoscimento delle potenzialità degli avversari; dall'altra parte, una pluralità eterogenea di soggetti mafiosi, alcuni dei quali storicamente legati agli Stati Uniti d'America e alle famiglie della Lcn (La Cosa Nostra) statunitense, tra i quali spicca la figura di Salvatore Lo Piccolo, era invece favorevole».

Per capire le preoccupazioni di Rotolo rispetto al rientro dei nemici basta solo una frase detta dal capomafia a un suo fedelissimo nel 2005 e intercettata dalla polizia. «Michè (Michele Oliveri n.d.r.) - dice Rotolo - Non è che ci possiamo scordare, perchè se questi prendono campo ci scippano le teste a tutti». E sulla annosa vicenda gli investigatori, grazie alle intercettazioni, sono riusciti a sapere anche il punto di vista di alcuni esponenti del clan Inzerillo. Come Francesco che, detenuto, in un colloquio in carcere, invita i nipoti Gianni e Pino a non rimanere in Italia. «Non dall'Italia - dice - devi andare via dall'Europa.. non si può stare.. non si può lavorare liberamente.. moralmente.. Qua futuro non c'è, mi dispiace; è una bella terra, ma futuro non ce ne è. Se tu vuoi un pò di pace, te ne devi andare fuori».


07 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 08, 2008, 11:10:38 am »

Le indagini: Un omicidio avvenuto nel 1982 e svelato solo nel 2005

Il New Jersey e quel cadavere ammanettato nella macchina

L’ultima generazione pronta ad archiviare i vecchi odi


PALERMO — «C’è una bomba nella macchina parcheggiata davanti all’hotel Hilton di Mont Laurel», disse la voce anonima che aveva telefonato all’ufficio di polizia del New Jersey, Stati Uniti, il 14 gennaio 1982.

Il poliziotto andò e vide un’auto Mercury Cougar, con targa della Pennsylvania intestata al ristorante «Joe Pizza» di Filadelfia gestito da un esponente della famiglia Gambino, ricoperta di neve. Non ne scendeva più da due giorni, di neve, e quindi erano almeno due giorni che quella macchina era lì. Quando riuscì ad aprirla, il poliziotto trovò una pistola sotto uno dei sedili anteriori. Si allarmò. Poi guardò nel portabagagli e vide il cadavere di un uomo, con i polsi legati da un paio di manette, congelato e «duro come una roccia», scrisse nel rapporto al giudice. A quell’uomo avevano sparato sei volte, e in bocca avevano infilato una banconota da 5 dollari. Si chiamava Pietro Inzerillo, nato a Palermo 33 anni prima, esiliato negli Stati Uniti dopo che la mafia corleonese aveva ammazzato, in Sicilia, i suoi fratelli Totuccio e Santo.

«Non è chiaro il motivo dell’uccisione dell’Inzerillo Pietro, anche se egli era coinvolto con il traffico di eroina a livello internazionale », concluse il poliziotto nel suo rapporto. A Palermo, invece, fu subito chiarissimo: Pietro, mafioso anche lui, era uno degli «scappati» dalla furia omicida scatenata dalla fazione di Totò Riina contro gli Inzerillo e gli uomini d’onore dell’altro boss concorrente, Stefano Bontate. Uno zio di Pietro, Antonino Inzerillo, due mesi prima era uscito dalla sua casa americana, sempre nel New Jersey, senza tornarci più, e tutti pensavano che fosse rimasto vittima della «lupara bianca»; sicuramente, per andare all’appuntamento con i propri assassini, Pietro aveva seguito qualcuno di cui si fidava e che invece l’aveva tradito.

Ventitré anni dopo, il 30 agosto 2005, nel casotto dove teneva le sue riunioni di mafia, il boss Nino Rotolo—convinto seguace della tradizione «corleonese» — discuteva con un altro capomafia, Antonino Cinà. Non sapevano che una cimice piazzata dalla polizia registrava tutto. Parlavano dell’imminente uscita dal carcere di Tommaso Inzerillo, detto Masino u’ muscuni, nato nel 1949, rientrato in Italia dagli Usa e finito in carcere per vecchie pendenze.

«Masino, quello che era il sottocapo, gli fece la base al fratello di Totuccio per salvarsi lui! — racconta Rotolo a Cinà —. Perciò, vedi che uomo è». «Traditore», riassume Cinà, e Rotolo chiarisce: «In America... gli hanno fatto fare il cambio... Pietro, quello che hanno trovato nel bagagliaio...». Tradotto dal linguaggio malavitoso e dall’intreccio di nomi, Rotolo vuol dire che Masino Inzerillo fece da basista per l’omicidio di suo cugino Pietro (fratello di Totuccio e Santo, già eliminati a Palermo). E «fece il cambio»: aiutò i killer a far fuori Pietro per salvarsi lui.

Non solo. Due mesi più tardi lo stesso Rotolo spiega a un altro interlocutore che Masino Inzerillo ha «portato» ai suoi assassini anche lo zio Antonino, il fratello del padre scomparso poco prima dell’omicidio di Pietro. E lo svela per dire che lui, con un tipo come Masino ’u muscuni non vuole avere niente a che fare. Anche perché ne teme la vendetta, visto che Rotolo partecipò, al fianco di Riina, alla guerra contro gli Inzerillo e all’uccisione di Totuccio. E di Masino dice: «Era uno che addirittura aveva detto che sapeva pure casa mia, e doveva venire lui a casa mia! Non è che me lo posso scordare! Qua ci sono cose personali... ma a questo ce ne possiamo avere fiducia? Ha preso il fratello di suo padre, glielo ha portato e glielo ha fatto affogare. E a suo cugino gli ha sparato lui! Fiducia ne possiamo avere?... S’è venduto il suo sangue e a noi... tu pensi che ha riguardi per noi? Questo è un cane!».

Così parlava il «corleonese» Nino Rotolo, e per i magistrati che ieri hanno fatto notificare a Masino Inzerillo (già nuovamente in galera per un’altra vicenda) un ordine d’arresto per gli omicidi del cugino e dello zio del 1981 e ’82, quei discorsi intercettati valgono più delle parole di un pentito. Un atto d’accusa diretto, inconsapevolmente lanciatogli da un suo nemico interno a Cosa Nostra, dal quale ’u muscuni è chiamato ora a difendersi.

La guerra con gli «scappati» per uno come Rotolo non è ancora finita, e fino ai rispettivi arresti lui e Salvatore Lo Piccolo duellavano a colpi di pizzini (cercando la mediazione dell’attendista Provenzano) per stabilire se intimargli un nuovo esilio—come lui avrebbe voluto — o lasciarli in Sicilia e imbastirci qualche traffico con gli Stati Uniti, secondo il programma di Lo Piccolo. Tra i suoi fedelissimi, però, ce n’era almeno uno che con gli Inzerillo d’oltreoceano era già entrato in contatto: è Gianni Nicchi, tuttora latitante, considerato tra i più pericolosi killer di mafia rimasti in circolazione, nonostante la giovanissima età, 27 anni da compiere la prossima settimana.

 Nicchi è il figlioccio di Rotolo, lo chiama «padrino», e ci sono intercettazioni in cui parlano di omicidi compiuti e da compiere, di come si ammazza meglio, il primo colpo per buttare a terra la vittima e il secondo in testa per finirla, «poi basta». A uno così, di un’altra generazione rispetto a Rotolo, con tutto il rispetto dovuto la guerra agli Inzerillo sembra non interessare più di tanto. Quando il primo della stirpe morì ammazzato, nel maggio 1981, lui era un neonato di pochi mesi e così, nei suoi viaggi in America insieme a Nicola Mandalà (boss di Villabate, quello che organizzò il viaggio di Provenzano nella clinica di Marsiglia), non disdegna affatto d’incontrare e organizzare allegre cene in compagnia delle rispettive fidanzate con Frank Calì, uomo d’onore della famiglia Gambino e cognato di un Inzerillo, Pietro, nipote del Masino ’u muscuni tanto temuto e disprezzato dal suo «padrino» Rotolo. Le foto scattate durante un soggiorno statunitense del novembre 2003 e sequestrate dalla polizia sono piuttosto eloquenti, così come i rapporti dell’Fbi sui contatti newyorkesi di Mandalà e Nicchi col giovane Pietro Inzerillo. In un colloquio registrato Nicchi riferisce a Rotolo dei suoi incontri, assicurandogli che «questo Pietro è amico nostro, Frank Calò (che sarebbe Calì, ndr) è amico nostro...». Nell’ultima generazione mafiosa, evidentemente, quando ci sono affari in ballo le antiche divisioni si superano più facilmente; e anche i vecchi boss che hanno combattuto le guerre tra cosche e continuano a covare rancori, alla fine finiscono per adeguarsi.

Giovanni Bianconi
08 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #48 inserito:: Febbraio 10, 2008, 07:57:02 pm »

10/2/2008 (7:26) - INTERVISTA A DOUCH

Il boia di Pol Pot "Chi entrava doveva morire"
 
Furono ammazzati in 17 mila. Solo 6 i sopravvissuti
 
Douch parla per la prima volta: “Eseguivo ordini”

VALERIO PELLIZZARI
PHNOM PENH


Douch, il professore di matematica, per quaranta mesi sterminò tutta la classe intellettuale cambogiana con rigore scientifico, dentro il liceo di Tuol Sleng, nel cuore della capitale Phnom Penh, impegnato in un teorema personale di algebra degenerata. La sua voce è bassa, rispettosa, ma nello stesso tempo si snoda senza incertezze e soggezione. Sembra stia recitando un mantra, una preghiera buddista, invece incide la colonna sonora di un incubo ancora carico di interrogativi. E il suo aspetto mite, anonimo, quasi gracile, in nessun modo si concilia con il ruolo del carnefice. Tra il 1975 e l’inizio del 79, durante il regime tenebroso e maniacale di Pol Pot, due milioni di uomini e donne, quasi un terzo della intera popolazione, furono brutalmente eliminati. In mezzo a loro oltre diciassettemila cambogiani - quadri del partito, diplomatici, monaci buddisti, ingegneri, medici, professori, studenti, artisti della antichissima tradizione nazionale di musiche e danze - entrarono nella scuola trasformata in centro di tortura. Solo sei ne sono usciti vivi. Gli altri furono portati alla periferia della città e uccisi in una risaia. Di notte. Uccidere con il buio era una ossessione degli uomini con il pigiama nero, ovunque.

Douch è il soprannome scelto da giovane quando entrò nella guerriglia. Il vero nome è Kang Khek Ieu. Dopo la caduta dei khmer rossi il carnefice si era mescolato con i suoi compatrioti, tra campi profughi e villaggi di provincia, scomparso come tanti nel caos del dopoguerra, inghiottito dal nulla. Si era convertito al cristianesimo attraverso i missionari della Golden West Christian Church di Los Angeles. La sua vera identità è stata scoperta nel '98, e in breve tempo i soldati lo hanno arrestato. Dopo la morte di Pol Pot e di Ta Mok, il «macellaio» zoppo, resta il testimone più inquietante della follia politica progettata dai khmer rossi. Oggi è custodito nella prigione dell’Onu, a Phnom Penh, in attesa che si apra dopo trenta anni e infiniti rinvii il processo ai khmer rossi per genocidio. Ma per oltre otto anni, dopo la cattura, è stato in un carcere cambogiano, controllato dai militari del suo Paese.

Questa è l’unica intervista autorizzata in tutto il periodo di detenzione. Senza registratore, senza macchina fotografica, senza parlare direttamente con lui in francese o in inglese, ma con la mediazione obbligata di un interprete cambogiano. Il generale Neang Phat, segretario di Stato, e altri generali sono seduti nella stessa stanza, ascoltano e scrutano questo uomo indefinibile e inafferrabile, che alcuni di loro vedono per la prima volta. Douch è il ritratto perfetto della banalità e della innocenza del male.

Quando era stato creato il centro di tortura dentro il liceo di Tuol Sleng?
«Il 15 agosto 1975, quattro mesi dopo l’ingresso dei khmer rossi a Phnom Penh. Ma cominciò a funzionare effettivamente solo nel mese di ottobre».

Lei è stato il responsabile fino dall’inizio?
«Sono stato chiamato con l’incarico preciso di crearlo, di metterlo in funzione. Anche se non ho mai saputo perché la scelta fosse caduta su di me. Certo, prima del ‘75, quando i khmer rossi vivevano nella clandestinità, nella giungla, nelle zone liberate, io ero il capo dell’Ufficio 13, ero il responsabile della polizia nella zona speciale confinante con Phnom Penh».

Chi organizzava la vita nel centro, chi decideva i metodi degli interrogatori?
«Quelli che interrogavano venivano in parte dall’Ufficio 13, erano uomini che avevano lavorato con me, ex quadri dell’organizzazione. E poi c’erano quelli provenienti dalla divisione 703, militari, gente che usava violenza e brutalità. Si può dire che i carcerieri erano di due tipi. Quindi il personale della prigione in gran parte non era reclutato da me».

Come si svolgeva la sua giornata in quel luogo?
«Ogni giorno dovevo leggere, controllare le confessioni. Facevo questa lettura dalle sette di mattina a mezzanotte. E ogni giorno, verso le tre del pomeriggio, mi chiamava il professor Son Sen, il ministro della difesa. Lo conoscevo da quando insegnavo al liceo. Era lui che mi aveva chiesto di unirmi alla guerriglia. Mi chiedeva come procedeva il lavoro».

E poi?
Arrivava un messaggero, un emissario, che raccoglieva le confessioni pronte e le portava a Son Sen. Lei sa che i khmer rossi avevano svuotato le città. Non c’era popolazione urbana, le scuole erano chiuse, gli ospedali chiusi, le pagode vuote, le strade vuote. Solo pochissime persone potevano muoversi. Questi messaggeri erano gli unici collegamenti tra un ufficio e un altro. La sera non dormivo a Tuol Sleng. Avevo varie case, e per ragioni di sicurezza dormivo ogni notte in un luogo diverso».

Lei ha avuto momenti di incertezza, dubbi, sentimenti di ribellione mentre sterminava tutta la classe intellettuale del suo paese?
«Per capire quel mondo, quella mentalità, lei deve tenere presente che la pena capitale è sempre esistita in Cambogia».

Anche nei bassorilievi dei templi di Angkor Wat ci sono scene di massacri orrendi, ma erano state scolpite molti secoli fa.
«Certo i capi dei khmer rossi avevano studiato alla Sorbona a Parigi, non erano selvaggi incolti. Ma a Tuol Sleng comunque c’era una convinzione diffusa e tacita, che non aveva bisogno di indicazioni scritte. Io, e tutti quelli che lavoravano in quel luogo, sapevamo che chi entrava lì dentro doveva essere demolito psicologicamente, eliminato con un lavoro progressivo, non doveva avere scampo. Qualsiasi risposta non serviva per evitare la morte».

Sopra di lei qualcuno chiedeva il suo parere?
«Quei metodi non mi convincevano da quando lavoravo all’Ufficio 13. Ma allora, se vuole, c’era il pretesto della lotta rivoluzionaria, della clandestinità, l'idea di neutralizzare le spie infiltrate, o quelle che potevano essere spie. Poi quando è cominciato il lavoro a Tuol Sleng ogni tanto chiedevo ai miei capi: ma dobbiamo usare tutta questa violenza? Son Sen non rispondeva mai. Nuon Chea, il Fratello numero due nella gerarchia del potere, che stava sopra di lui, invece mi diceva: non pensare a queste cose. Personalmente non avevo risposte. Poi con il passare del tempo ho capito: era Ta Mok (considerato da tutti il più sanguinario dei khmer rossi) che aveva ordinato di eliminare tutti i prigionieri. Vedevamo nemici, nemici, nemici dappertutto. Quando scoprii che nella lista delle persone da eliminare c'era anche Von Vet, il ministro dell’economia, rimasi veramente sconvolto, scioccato».

Lo interrompe con rabbia il generale Neang Phat, fino a quel momento composto e taciturno. Si toglie le scarpe, le calze, gli mostra i segni delle torture che ha ancora oggi sulle gambe, a distanza di oltre trenta anni. «Eravamo quattromila uomini nel mio gruppo, siamo sopravvissuti in quattro. E per salvarci siamo dovuti scappare oltre confine. Voi invece avete continuato a torturare ed uccidere». Tacciono gli altri militari. Tace l'interprete. Suo padre era l’ambasciatore cambogiano in Cina, il Paese grande protettore di Pol Pot. Fu richiamato in patria e morì a Tuol Sleng, amministrato da quel piccolo uomo a piedi scalzi che adesso gli sta davanti. Douch risponde al generale, la sua voce riprende fiato, si esprime in modo concitato. Poi congiunge le mani, si piega in avanti, nel gesto dei monaci buddisti, sul viso si disegna un sorriso. In Cambogia e in molte regioni d'Oriente sorridere è un gesto di dolcezza, di cortesia, ma anche di ambiguità, di imbarazzo a volte di autentica perfidia. Questa stanza rettangolare, silenziosa, pulita, bene ammobiliata, è piena di incubi. Fuori è una bellissima giornata di sole e di clima mite.

Che cosa provava davanti a quel numero crescente di vittime che lei contribuiva ad alimentare?
«Ero spinto in un angolo, come tutti in quel meccanismo, non avevo alternativa. Nella confessione di Hu Nim, il ministro dell’informazione, uno dei grandi dirigenti khmer, anche lui arrestato, c’era scritto che la sicurezza in una certa zona era garantita, bene assicurata. Ma Pol Pot, il Fratello numero uno, il capo di tutto, non era soddisfatto per questa affermazione, era troppo normale, bisognava sospettare sempre, temere qualcosa. E quindi arrivava la solita richiesta: interrogateli ancora, interrogateli meglio».

Che significava solo una cosa, nuove torture.
«Succedeva così. Per esempio nel caso di mio cognato. Lo conoscevo bene, si erano creati sinceri legami di parentela, ma dovevo egualmente eliminarlo, sapevo che era una brava persona ma invece dovevo fingere di credere a quella confessione estorta con la violenza. Così per proteggerlo non avevo analizzato con troppo rigore quelle dichiarazioni. E in quella stessa occasione i superiori avevano cominciato a non avere più fiducia piena in me. Contemporaneamente non mi sentivo più sicuro».

In concreto cosa era successo?
«Un giorno mi telefonano alle cinque di mattina. Quello per noi non era un orario normale. Mi dicono che sono convocato per una riunione nell’ufficio dei messaggeri. Come ho detto prima quello era un centro molto importante nel sistema di potere creato da Pol Pot, erano gli unici che potevano muoversi. Nemmeno i diplomatici delle pochissime ambasciate rimaste aperte avevano libertà di movimento. Mandavano qualcuno in strada, chiamavano il soldato che stava lì vicino, quello ascoltava e poi andava a riferire».

Una impossibilità totale di movimento.
«Erano state eliminate le comunicazioni telefoniche nel Paese, non esisteva più il servizio postale. Tutte le direttive arrivavano e tornavano indietro attraverso questi messaggeri, questi corrieri, nelle strade vuote una persona veniva notata subito».

E allora quel giorno della telefonata?
«Alle cinque di mattina prendo una motocicletta e vado vicino alla stazione ferroviaria, appunto dove si trovava quell'ufficio. Vedo una luce accesa in una casa. Ho pensato che fosse arrivata anche per me l’ora di essere eliminato. Trovavano sempre qualche accusa infondata. E invece lì mi dicono: deve venire da voi un messaggero, quando arriva arrestatelo e poi cominciate con gli interrogatori».

Lei ha mantenuto il suo incarico fino all'ultimo. Era un esecutore perfetto?
«Obbedivo, chi arrivava da noi non aveva possibilità di salvezza. E io non potevo liberare nessuno».

Fino a quando ha continuato a funzionare il campo di Tuol Sleng?
«Fino al sette gennaio 1979, quando le forze di liberazione cambogiane appoggiate dai vietnamiti hanno conquistato Phnom Penh. In quel momento il mio superiore era Nuon Chea, il Fratello numero due».

Non esisteva un piano per l’emergenza, non c’era il timore che ormai gli oppositori avessero forze sufficienti per far cadere il regime?
«Non c’era alcun piano in caso di fuga, di ritirata. Organizzammo tutto sul momento. Eravamo trecento uomini a Tuol Sleng. Tutti insieme ci dirigemmo a piedi verso la stazione della radio, che a quel tempo era in una zona piuttosto periferica. E da quel punto ci dividemmo in due gruppi, ognuno per la sua strada».

Da quel momento lei scompare dalle cronache cambogiane, si perdono le sue tracce. E un giorno si converte al cristianesimo. Cosa la porta a quella decisione?
«Mi sono convinto che i cristiani sono una forza, e che questa forza può vincere il comunismo. Al tempo della guerriglia io avevo venticinque anni, la Cambogia era corrotta, il comunismo era pieno di promesse, io ci credevo. Invece quel progetto è completamente fallito. Sono entrato in contatto con i cristiani nella città di Battambang, con la Golden West Christian Church, con il pastore Christopher LaPelle».

Sembra un nome francese.
«No, è un cambogiano. Si chiama Danath La Pel. Ha adottato quel nome per diffondere meglio il messaggio di Cristo nel mondo. All’inizio degli Anni 80 si è trasferito in America. E nel ‘92 è tornato in Cambogia, per aiutare i suoi compatrioti a trovare Cristo».

Quindi lei non segue più gli insegnamenti del Bhudda, è un cristiano?
«Sì».
E padre Christopher conosceva la sua vicenda, il suo ruolo a Tuol Sleng? «All’inizio no, però dopo la conversione ho raccontato tutto».

Gli altipiani dell’Indocina sono stati il santuario di Pol Pot, gli stessi luoghi quaranta anni dopo ospitano adesso le chiese dei missionari cristiani.
«Significa che anche altri hanno fatto la mia scelta».

Lei oggi è pentito, ma tutte quelle migliaia di vittime, quella violenza con metodi primitivi, quelle menzogne trasformate in verità?
«Se uno cerca la responsabilità, e i diversi gradi di responsabilità, io dico che non c’erano vie di fuga per chi entrava nella macchina del potere ideata da Pol Pot. Solo ai vertici conoscevano la vera situazione del Paese, ma i quadri intermedi non sapevano. E poi c'era quella ossessione della segretezza. Certo lei mi chiede se non potevo ribellarmi, almeno fuggire».

Appunto.
«Ma se tentavo di fuggire loro avevano in ostaggio la mia famiglia, e la mia famiglia avrebbe subito la stessa sorte degli altri prigionieri di Tuol Sleng. La mia fuga, la mia ribellione non avrebbe aiutato nessuno».

Oggi non c’è un khmer rosso, anche tra i capi di quel regime, come Khieu Samphan o Jeng Sary, che ammetta di avere avuto colpe, responsabilità. Eravate tutti codardi allora, o siete tutti bugiardi oggi?
Dalla bocca di Douch non esce alcuna parola. Dal fondo della sala qualcuno insistentemente dice che il tempo a disposizione è scaduto, che è arrivata l’ora del pranzo per il prigioniero. Il pretesto più banale, più burocratico, per interrompere il racconto del carnefice. Douch, il seguace di Pol Pot, e oggi seguace di Cristo, congiunge le mani, si inchina, e si allontana. La scodella di riso è pronta. L’ora della giustizia per il genocidio della Cambogia invece aspetta da trenta anni.

da lastampa.it
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« Risposta #49 inserito:: Febbraio 10, 2008, 07:59:10 pm »

Ferrara Le immagini della scientifica. Registrate frasi e una risata

Federico, spunta un video sugli agenti sotto accusa

Morì dopo il controllo di polizia.

I fotogrammi sembrano non collimare con le foto del medico legale


MILANO — Nuove ombre sul caso di Federico Aldrovandi, il diciottenne morto a Ferrara il 25 settembre 2005 dopo un intervento della polizia. Un video di dodici minuti, registrato alla Scientifica quando il ragazzo era già cadavere, ma ancora disteso sull'asfalto, sembra aggiungere altro orrore alla vicenda. Immagini girate prima dell'arrivo del medico legale (alle 9.30), acquisite durante il processo in corso a carico di quattro agenti accusati di omicidio colposo, documentano ulteriormente la scena del delitto (dove compaiono una decina di poliziotti): il volto tumefatto del ragazzo, le mani livide e sporche di terra, i pantaloni abbottonati, il suo telefonino su una panchina, a distanza di oltre 20 metri.

Non ci sono manganelli nelle vicinanze, neppure il portafoglio di Federico. Poi niente sangue accanto al volto adagiato sulla strada. Fotogrammi che sembrano cozzare, secondo i legali della famiglia, con le fotografie scattate dal medico legale: qui il ragazzo è ritratto con una macchia di sangue del diametro di 20 centimetri alla sinistra del capo, il suo portafoglio compare nella tasca del giubbotto, i jeans sono slacciati. Quanto ai manganelli, rotti durante la colluttazione tra gli agenti e il ragazzo, si materializzano in questura solo nel pomeriggio. E poi ci sono i dialoghi del video, elemento nuovo dell'indagine, per i quali il pm ha ordinato la trascrizione: frasi mescolate a rumori di fondo, pronunciate da chi forse non immaginava di essere registrato. Subito, all'inizio delle riprese, si sente una gran risata, proveniente da qualcuno, non immortalato dalla telecamera, ma chiaramente vicino al cadavere.

Ma ci sono anche i singhiozzi di un agente che piange: «Sono un genitore anche io» sembra dire. Altre parole, collegate a una telefonata, sembrerebbero riferire di un colloquio con un magistrato. Se fossero verificate, potrebbero spiegare come mai il pm di turno quella mattina non è mai arrivato sul luogo del delitto. «Si è ammazzato da solo». «Qui ci vuole la benzina». Altri dialoghi da verificare, parole apparentemente senza senso, che forse, nel processo, potrebbero trovare una spiegazione. Grande attesa dunque per l'udienza di mercoledì 13 febbraio: saranno in aula alcuni dei protagonisti del video, come Marco Pirani e Paolo Marino, entrambi indagati in un'inchiesta bis per falso e abuso.

Grazia Maria Mottola
10 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #50 inserito:: Febbraio 21, 2008, 10:47:32 am »

Decoder, Paolo Berlusconi e il socio di Cosa Nostra

Giuseppe Caruso


Mafia, soldi sporchi, incentivi pubblici e interessi privati. C’è tutto questo sullo sfondo dell’inchiesta sul misterioso rapimento fallito ai danni di Giovanni Cottone, fino a pochi mesi fa socio al 49% di Paolo Berlusconi nell’azienda Solari.com. Adesso un pentito di quel rapimento, il suo uomo di fiducia per quattro anni, svela: «Giovanni Cottone faceva parte della malavita».

Solari.com è la società salita all’onore delle cronache in quanto beneficiaria della legge che destinava un contributo statale all’acquisto dei decoder per il digitale terrestre. Il governo guidato da Silvio Berlusconi a quel tempo aveva fatto le cose in grande: non solo aveva previsto denaro pubblico per il fratello del premier (la Solari aveva iniziato a distribuire i decoder Amstrad del tipo mhp nel gennaio 2005, in concomitanza con il lancio del servizio pay per view Mediaset premium), ma addirittura si era premurato, attraverso alcuni articoli della legge Gasparri, di far sì che in Sardegna, regione pilota dello switch off (la definitiva transizione dal sistema televisivo analogico a quello digitale terrestre) l’unico decoder in grado di ricevere il segnale fosse proprio l’mhp distribuito dalla Solari.com. Il risultato era stato quello di far più che raddoppiare il fatturato dell’azienda (passata a 141 milioni di euro in un anno) e di ricevere diverse interrogazioni parlamentari a riguardo, che vedevano come primo firmatario il senatore dell’allora Ulivo Luigi Zanda. L’indignazione per quel regalo familiare era molta, ma sarebbe stata maggiore se si fosse saputo chi era in realtà Giovanni Cottone, il proprietario dell’altra metà della Solari.

Il mistero svelato
A svelare il mistero ci ha pensato uno degli uomini che nel giugno scorso aveva tentato di rapirlo, di nome Giuseppe Sanese, professione ufficiale: buttafuori. Gli altri arrestati erano stati la moglie di Cottone (in via di separazione) Giuseppina Casale, Antonio Cottone (uomo d’onore, zio di Giovanni), Giovan Battista Rosano (altro uomo d’onore, da tempo in affari con Cottone) ed il poliziotto Alfredo Li Pira. Il piano del gruppo era di rapire Giovanni Cottone, farsi consegnare almeno 40 milioni di euro ed eliminarlo. Un sequestro molto simile, secondo gli inquirenti, a quello che ha portato all’uccisione del finanziere Gianmario Roveraro. Il piano era saltato perché la moglie di Cottone, Giuseppina Casale (descritta in un informativa della guardia di finanza come «persona in contatto con i salotti della Milano “bene” ma al contempo con la malavita palermitana») era stata sottoposta ad intercettazioni ambientali da parte del Gico palermitano per questioni relative al traffico di droga. Questi avevano informato gli omologhi milanesi, che erano intervenuti, arrestando il gruppo. Sanese era stato per più di quattro anni l’uomo di fiducia dello stesso Giovanni Cottone e collaborando con gli inquirenti ha svelato non solo i dettagli del sequestro fallito, ma anche i rapporti di Giovanni Cottone con Paolo Berlusconi e con la mafia. Gli interrogatori di Sanese sono avvenuti alla presenza dei pubblici ministeri Mario Venditti ed Alberto Nobili e del gip Guido Salvini, il 7 e l’11 giugno del 2007, e sono contenuti nella richiesta di rinvio a giudizio. Anche per le parole di Sanese, la procura di Milano ha aperto un’inchiesta su un’altra intricata vicenda, quella della truffa da almeno 40 milioni di euro che Cottone avrebbe realizzato ai danni di Paolo Berlusconi. Un capitolo oscuro di cui ci occuperemo nei prossimi giorni.

Il racconto
Ecco cosa dice Sanese ai magistrati. «Ho conosciuto Giovanni Cottone tramite Giovan Battista Rosano, che era compare, amico intimo di mio nonno. Rosano, che nella zona in cui abita a Palermo, che noi chiamiamo Borgo Nuovo, è molto rispettato, a Milano è molto amico dei Taormina, dei Carollo, dei Fidanzati (tutti clan mafiosi ndr). Una volta ha ucciso un uomo a coltellate... Rosano era il garante delle cavolate che il Cottone combinava. L’altro garante era lo zio del Cottone, Antonio, che lo ha cresciuto ed educato. I due, Rosano e Antonio Cottone, erano compari dello stesso gruppo mafioso. Perché ce l’avevano con Giovanni Cottone? Per diversi motivi. Il fatto più grave è quello del 1995. Giovanni Cottone era stato sequestrato dai catanesi perché aveva fatto un buco da 400 milioni. I catanesi poi gli hanno spaccato mani, mascelle e lui si è rivolto per salvarsi a Giovanni Rosano, lo zio Giovanni come lo chiamava lui, che è accorso con lo zio Antonio. Gli hanno salvato la vita, gli hanno evitato legnate, come raccontano loro, ma hanno dato 200 milioni in contanti ai catanesi. E Giovanni Cottone non li ha mai restituiti. «Qual era il mio ruolo a Milano?». Continua Sanese: «Facevo una finta sicurezza per Giovanni Cottone, perché poi l’interesse era portare capitali all’estero. Ogni settimana, ogni quindici giorni, portavo delle valigette con dei soldi all’Ubs, dove mi aspettava una persona e depositavo questi soldi (anche un miliardo di vecchie lire alla volta) e rientravo poi a Milano. Erano valigette Samsonite nere, con combinazione. Il compenso per questo lavoro era di un milione di vecchie lire. L’ho fatto per una decina di volte».

Al «Mangia & Ridi»
«Formalmente lavoravo presso il suo locale, che era il “Mangia & Ridi”. I soci del “Mangia & Ridi” erano Paolo Berlusconi, Giovanni Cottone e Roberto Guarneri. Già in quel periodo era in società con Paolo Berlusconi, stavano assieme ventiquattro ore al giorno. Infatti Katia Noventa, che era l’ex di Paolo Berlusconi, e la signora Casale, erano sempre insieme, cenavano e mangiavano sempre insieme. Se Berlusconi sapeva delle attività del Cottone? Quando ne parlavano a tavola, ne parlavano tranquillamente... Dicevo del “Mangia & Ridi”. In quel periodo nel locale andava tantissimo tirare di cocaina, lo facevano tutti. Cottone all’epoca mi ha presentato uno spacciatore di Opera, io andavo a prendere la coca davanti al carcere di Opera, i soldi me li dava lo stesso Cottone. Io mi preoccupavo di prepararla e dividerla e la davo a Claudio, l’ex direttore del “Mangia & ridi”. I camerieri servivano la coca a tavola ai vari artisti che venivano, vari vip che venivano, i soldi poi venivano contati da me e Claudio e divisi al 50% col Cottone. Siamo riusciti a prendere anche venti milioni delle vecchie lire in una sera». «Se Cottone faceva parte della malavita? Faceva parte della malavita, veniva anche il figlio di Nitto Santapaola (capo della mafia catanese negli anni ottanta ndr) a cena con noi, mi sono trovato a cena con i Vernengo (potente clan mafioso palermitano ndr). Sempre al “Mangia & Ridi”, nel ‘98, ‘99. Queste cose le so perché ero sempre accanto al Cottone. Lui fa comodo per pulire tanti soldi, questo è sicuro. In ristoranti, alberghi, comprare immobili... queste cose qua. Investiva soldi di altri che provenivano sicuramente da proventi illeciti... Con Paolo Berlusconi hanno realizzato anni fa una società in Germania, mi ricordo perché in quel periodo parlavano sempre con Paolo di questa cosa grossa che stavano facendo in Germania» «Come nasce la fortuna economica del Cottone? Come lui vanta, dallo spaccio di soldi falsi nei paesi del Nord Africa e poi da una mega truffa di gioielli e da una ricettazione grossa di rapine di gioielli, anche in via Montenapoleone. I gioielli li ho visti io, tanto oro l’ho portato in Svizzera. E poi tanta elettronica rubata, ricettazione di elettronica. I furgoni li scaricavo io».
(1 - segue)

Pubblicato il: 20.02.08
Modificato il: 20.02.08 alle ore 10.02   
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« Risposta #51 inserito:: Febbraio 21, 2008, 03:52:10 pm »

La misteriosa truffa a Paolo Berlusconi

Giuseppe Caruso


C’è un capitolo misterioso nel rapporto d’affari tra Giovanni Cottone e Paolo Berlusconi. È quello che vuole chiarire l’inchiesta aperta dal pubblico ministero Mario Venditti per truffa ai danni di Paolo Berlusconi e che vede come indagato proprio il suo ex socio Giovanni Cottone. L’inchiesta ha preso il via per quanto emerso dalle intercettazioni ambientali che hanno portato all’arresto del gruppo che voleva rapire Cottone e soprattutto per quanto dichiarato da Giuseppe Sanese nei due interrogatori del 7 e dell’11 giugno del 2007. Il dato particolare di questa vicenda è che Paolo Berlusconi ha sempre negato di essere al corrente della truffa, nonostante sia Sanese nel suo interrogatorio, sia Giuseppina Casale (moglie di Cottone e mente del sequestro) in un intercettazione ambientale dicano il contrario. Eppure in ballo ci sono almeno 40 milioni di euro, una bella cifra. Soprattutto se si tiene conto che la Pbf, la cassaforte del fratello del leader del Pdl, aveva mandato in archivio il bilancio 2006 con un buco di 37 milioni, aperto non solo dalle difficoltà de Il Giornale (che aveva salvato l´esercizio cedendo la sede alla Fininvest) ma soprattutto dai 63 milioni bruciati dalla Solari.com. Le perdite della controllata nell´elettronica di consumo avevano messo in allarme il collegio sindacale, tanto da chiedere un intervento di ricapitalizzazione al socio di controllo. La situazione dei conti della Pdf ha reso poi necessario l’intervento dell’avvocato Roberto Poli, oggi presidente dell’Eni, già protagonista in altre occasioni come consulente a fianco delle società del gruppo Berlusconi.

L’avvocato Ghedini, legale di Paolo Berlusconi, contattato da l'Unità lunedì scorso, ha dichiarato che «dai conti della Solari.com non risulta niente di anomalo. Aspettiamo notizie dalla procura». Anche l’avvocato di Giovanni Cottone, Jacopo Pensa, ha spiegato al nostro giornale che «si tratta di un buco dovuto a normali perdite di una società in difficoltà. Non c’è stata nessuna truffa da parte del mio cliente». Ma come detto, i protagonisti del mancato rapimento affermano che Paolo Berlusconi fosse perfettamente a conoscenza del fatto, tanto che l’obbiettivo del gruppo criminale era proprio quello di impadronirsi della cifra truffata.

Giuseppina Casale (definita dal Gico di Palermo in ottimi rapporti con i salotti della Milano “bene” e con la malavita palermitana) in un intercettazione ambientale con lo zio di Cottone, Antonio, racconta di una sua telefonata con Paolo Berlusconi. I due, come racconta Sanese, erano in ottimi e datati rapporti. Ecco il testo della telefonata della Casale iscritta negli atti di richiesta di rinvio a giudizio: «Perché (Cottone) viene a Palermo, inizia a fare “io mi compro tutta Palermo con i miei soldi...ha rubato...ha rubato a Paolo settantacinque milioni di euro e Paolo l’unica cosa che mi ha detto, mi ha chiamato mi fa: “Accetto che tu fai la separazione, appena che tu fai la separazione io a questo lo metto in mezzo alla strada».

Sanese racconta più dettagliatamente come Berlusconi fosse a conoscenza della truffa e spiega come sarebbe avvenuta. Cottone e la Casale nel periodo precedente al fallito sequestro si erano a lungo frequentati. Ecco il testo, anch’esso contenuto negli atti di rinvio a giudizio: «Perché tutti sanno di questa nota truffa che (Cottone) ha fatto a Paolo Berlusconi di 40 milioni di euro, almeno 40 milioni di euro che sono venuti a mancare a Paolo Berlusconi...dice: “come l’ha fatta?”. Io sentivo parlare a casa, che c’erano innanzitutto i pezzi dentro l’Amstrad, ha fatto una serie di di forniture di elettrodomestici dell’Amstrad (la marca dei decoder ndr), tutta con roba fasulla dentro e anziché mettere il materiale originale...e poi usava il meccanismo dei container...lo stesso che faceva con me in Svizzera. Cioè faceva entrare tre container, ne dichiarava due e uno lo vendeva. Ed ha fatto questa mega truffa, ha fatto questo buco a Paolo di almeno 40 milioni. Io poi ho visto una registrazione che aveva sul telefonino la Casale, che mi ha fatto ascoltare l’ultima telefonata che aveva fatto con Paolo Berlusconi, dove Paolo diceva: “Senti, senti tu continua così...” e che Paolo alla fine, dopo tutto lo sdegno, diceva “lo voglio vedere ridotto...ha tradito la mia amicizia ventennale” e non mi ricordo le parole di preciso, ma mi ricordo benissimo che lo voleva ridotto sul ciglio della strada a chiedere l’elemosina. Io la voce di Paolo Berlusconi la conosco bene, ci ho parlato tantissime volte. Se voleva fare un’azione legale? L’azione che voleva fare Paolo non lo so, la Casale mi ha raccontato ma io non ero presente quindi...i rapporti tra la Casale e Paolo Berlusconi? Ottimi rapporti, erano entrambi contro Cottone, tanto che la Casale ha detto a Paolo Berlusconi, dice: “Se dovessi fare qualcosa a mio marito, aspetta che prima avvenga la separazione”. Perché la Casale inizialmente voleva procedere per via legale».

(2 - fine)

Pubblicato il: 21.02.08
Modificato il: 21.02.08 alle ore 13.15   
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« Risposta #52 inserito:: Febbraio 23, 2008, 11:24:00 pm »

Museo Troisi chiuso per furti, ora gira il mondo

Massimiliano Amato


La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato il mancato rinnovo del comodato d’uso gratuito, scaduto il 31 dicembre, da parte dell’amministrazione di San Giorgio a Cremano, nel Napoletano.

Ma Alfredo Cozzolino, che pure ha pazientemente atteso per due mesi che qualcuno lo chiamasse dal Comune, la sua decisione la stava maturando da tempo. Più o meno da quella mattina in cui, entrando nel «Museo Troisi» a Villa Bruno che lui, vecchio amico di Massimo, aveva costruito pezzo su pezzo, si accorse che qualcosa non quadrava.

Non gli ci volle molto per accorgersi che mancava un cimelio. E che cimelio: il ciak usato sul set dell’ultimo film di Troisi, Il Postino. Trafugato. Alfredo non sporse nemmeno denuncia. Per lo sconforto. La stessa scena, peraltro, si sarebbe ripetuta altre volte nelle settimane successive: i predatori di souvenir si erano portati a casa polverosi fondali teatrali dei tempi de La Smorfia, fotografie dai vari set frequentati da Massimo, perfino vecchi nastri magnetici con la voce dell’artista che ci ha fatto ridere commuovendoci, mostrandoci l’altra faccia di Napoli. Quella che non intende rassegnarsi all’oleografia dominante e ironizza con intelligenza sui luoghi comuni che la perseguitano, ma anche sui tanti mali che la affliggono. Senza indulgere a sceneggiate. Anzi, bandendo la visceralità del vicolo.

Due giorni fa Alfredo Cozzolino ha noleggiato un camioncino, si è presentato a Villa Bruno e ha caricato quel che ormai rimaneva del museo, portandoselo a casa. «Almeno là sarà al sicuro», ha spiegato. Poi ha aggiunto: «Mi sono già messo in contatto con Lello Arena ed Enzo Decaro. Sono tutti e due d’accordo con me: il museo non avrà più una sede stabile, organizzeremo una mostra itinerante. Porteremo i cimeli di Massimo in giro per il mondo, non mancheranno certo quelli che apprezzeranno. Più di quanto non abbiano saputo fare i napoletani». Possibile tappa futura: a Lucera, in provincia di Foggia.

«Anche se questa amministrazione guidata dal sindaco Domenico Giorgiano - spiega Cozzolino - aveva fatto richiesta di rinnovo del comodato, non ho voluto. Ho ritenuto opportuno portare via la mostra perché la passata amministrazione l’aveva gestita politicamente e questo non mi è piaciuto. Ho soltanto mantenuto la parola». Dal Comune il sindaco Giorgiano, a capo di una giunta di centrosinistra come la precedente, commenta: «Cozzolino aveva tutto il diritto di fare quello che ha fatto». Cioè, di riprendersi gli oggetti messi faticosamente insieme scavando con affetto pari solo alla tenacia nei ricordi di una carriera finita troppo prematuramente ma intensissima: dai costumi di scena ai ciak usati nei film girati da Massimo, dalle cassette con le sue comparsate in televisione (memorabile l’intervista a Gianni Minà dopo la vittoria del primo scudetto del Napoli) a quelle con le prime performance teatrali al fianco di Arena e Decaro. Testimonianze di un percorso artistico unico e irripetibile, lasciate quasi completamente incustodite e alla mercè di ladri e cacciatori di memorabilia. Uno scandalo. Quasi quanto le tonnellate di immondizia putrescenti che hanno cancellato ormai intere strade di San Giorgio, arrivando fin davanti al portone della storica Villa Bruno, un tempo vanto della cittadina vesuviana e da qualche giorno ex Museo Massimo Troisi.

Pubblicato il: 23.02.08
Modificato il: 23.02.08 alle ore 10.39   
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« Risposta #53 inserito:: Febbraio 24, 2008, 04:13:32 pm »

Uno scrittore, un giallo - Donato Bilancia

Il doppio enigma del killer degli anonimi


QUANDO MI CHIEDONO DI SCRIVERE UN GIALLO (NE HO SCRITTO SOLTANTO UNO, E SUI GENERIS, GIALLO PARMA) NON PENSO A UN DELITTO SPECIFICO, A UN ASSASSINO SPECIFICO, ISCRITTO NELLA CRONACA NERA, SUL QUALE SVOLGERE UN'INDAGINE OGGETTIVA.

A UNA CONGETTURA CHE NON È PARADOSSO, MA UN'INTERPRETAZIONE TRASLATA DELLA REALTÀ.

A un uomo che ha scritto un giallo attraverso se stesso, quasi il suo corpo, la sua mente, fossero un fascio di fogli sui quali stendere una storia delittuosa con un capo e una coda, smarrendo troppo spesso il filo. Penso a Donato Bilancia. Troppi difetti d'autore, di commediante della perversione: eccesso di complessi, di fantasia macabra, di istrionismo del male, di contraddizioni nel comportamento. Sì, l'uomo è proprio Donato Bilancia. E assimilo la sua disgraziata avventura a un mucchio di fogli pieni di cancellature, note in margine, frasi incise con inchiostro rossosangue come incazzature di un autore che non ce la fa con la sua trama.

Dati di fatto: Bilancia resta l'assassino più famoso d'Italia. Nessuno ha ucciso come lui nel nostro Paese. Le ragioni? Un girotondo di motivi, senza che nessuno, in apparenza, prevalga. All'avvocato Nino Marazzita dichiara: «Io per primo sono interessato a capire. Ho bisogno di fare un viaggio dentro la mia testa. Sono in grado di raccontare le cose che ho fatto, i delitti che ho commesso, ma non le ragioni».
L'unico legame che collega i suoi crimini è apparso, ai più, la pistola Smith Wesson 38. Altro record sinistro: tredici ergastoli e una ventina di anni in più per un tentato omicidio e una rapina. Vittorino Andreoli, che ha condotto la perizia psichiatrica della difesa e che ha chiesto, senza ottenerla, l'infermità mentale, ha ammesso di essersi trovato davanti all'enigma personificato. Le parole di Andreoli tornano alla memoria sconvolgenti: i crimini di Bilancia sono l'evento più drammatico nello scenario del crimine dell'Italia del Novecento, e Bilancia nel suo genere è eccelso, una specie di Leopardi del crimine che ha distrutto ogni teoria criminologica.


Senza motivi
Nessuno prima di lui aveva ucciso così freneticamente senza un motivo apparente, né un vantaggio economico: Bilancia è un assassino anonimo che uccide anonimi, e uccide per uccidere, quando si sente completamente solo decide di annullarsi, spara per violenza autodistruttiva, una pulsione di morte per dirla con Freud. Bilancia uccide perché è già morto... Dunque non esistono le spinte dell'odio, della ritorsione, dell'ossessione, dell'erotomania o della sessualità ridotta a marciume? Visto che va esclusa l'incapacità di intendere e di volere, essendo stata negata l'infermità mentale, dobbiamo convenire che quello che abbiamo definito «un giallista attraverso se stesso», pur avendo il talento «di un Leopardi del crimine», altro non è che un autore velleitario, un grafomane dissennato, che non ha niente da dire, da proporsi, se non il silenzio della morte altrui per assimilarlo al silenzio mortale che si porta in corpo? Ma non c'è già, in questa constatazione che pare nullificante sull'«autore », almeno un barlume di una tematica tutt'altro che misera, insignificante?


Il complesso di Pollicino
Nel percorso, diciamo paradossalmente «creativo» di Bilancia, non tutto è soltanto cruento, vago. Ci sono spunti degni di nota, anche se sommersi, non evidenziati a dovere dai «critici giudicanti». Questi spunti si espongono alla derisione facile dei superficiali, al motteggio. Parliamo di complessi. Jung indica con questa parola un elemento dell'io che si separa dalla coscienza e che continua nell'inconscio a regolare l'atteggiamento dell'individuo. I complessi di cui ha sofferto Bilancia hanno, scientificamente, nomi buffi. Il «complesso di Pollicino», anzitutto. Bilancia trova il coraggio di manifestarlo, con disperazione, quando lo psichiatra Andreoli lo incontra in carcere. Il serial killer (definizione impropria, in quanto i delitti seriali si susseguono, in genere, con intervalli più lunghi) non ha più bisogno di fingere, e non finge. C'è qualcosa che vuol mostrare subito. Insiste. «Guardi!». È la parte inferiore del suo corpo, dalla cinta in giù, che considera atrofica. Una scena sconcertante.
Quel «Guardi!». La supplica contiene il tormento di una vita. Un complesso dal nome buffo, contenuto latente nella favola di Pollicino.

Portiamoci indietro nel tempo. Quando, d'estate, Bilancia tornava al Sud dai parenti, il padre mostrava il suo corpo nudo a tre cugine («Le mummie!» le chiama l'autore) per esporre il suo difetto. Nel giallo in chiave personale si legge: «Avrei voluto scomparire, mi attorcigliavo su me stesso, pregavo in ginocchio di smetterla, ero morto di vergogna ».

Lo deridono anche i compagni. Comincia a rubare. In riformatorio confronta i suoi genitali con quelli dei coetanei. Bilancia sarà sempre capace di simili prove di autolesionismo, dettate dalla disperazione, consumate con una spavalderia che è come una lama conficcata. Poi, nel giallo scritto attraverso se stesso, l'autore non insiste più drammaticamente sulla sua menomazione. La ricorda, in varie occasioni, in apparenza rassegnato, con una profonda malinconia carnale. Subentra, infatti, un altro complesso dal nome buffo: il «complesso di Cirano ». Ossia l'atteggiamento a soddisfare per vie traverse i propri desideri. Col gioco d'azzardo: il gioco dei dadi, in particolare, una sfida al destino ingrato. Bilancia si racconta come giocatore: «Giocavo, perdevo, vincevo forti somme, anche diventare uno scassinatore internazionale era gioco. Avevo intorno donne da copertina, avventuriere». Ma queste donne si dileguano dopo il primo rapporto deludente, e a conti milionari pagati.

«I soli momenti in cui mi sentivo vivo erano al Casinò. Il tavolo dei dadi mi faceva impazzire, era l'unico modo di salvarmi dal mondo. Meglio il gioco che le donne». Anche nei rapporti di polizia si sottolinea: «Aveva paura che le donne lo prendessero in giro per la sua scarsa virilità». Ma la scia tormentosa di questi complessi, di questi transfert in altre dimensioni di avventura in cui i sensi venivano messi in gioco, è il caso di dirlo, bastano a giustificare la nascita del killer di prostitute, dell'assassino di donne sui treni?
Nel giallo attraverso se stesso, l'autore lascia molte pagine bianche. Fino al marzo del 1998, quando ha inizio la primavera di sangue, la mattanza. Nei mesi precedenti, si segnalano comportamenti di disprezzo e disgusto nei confronti delle prostitute. Bilancia le porta ai tavoli da gioco per insultarle, maltrattarle, giustificandosi: «Della vita non me ne frega più niente, ormai. Anche di me non me ne frega più niente». Aggiunge con rancore: «Le donne tutte puttane!». La notte del 9 marzo, a Cogoleto, Bilancia ammazza, dopo un rapporto, la prostituta albanese Stala Truya («Le ho detto di scendere dall'auto, nuda, di guardare il mare. C'era la luna, le ho coperto la testa con un panno »). È la volta di Ljudmila Zuskova, ucraina, il 18 marzo, a Pietra Ligure. Ancora un delitto, sempre a Cogoleto, il 29, tocca a una ragazza nigeriana: Tessy Adodo. Poi, a Pietra Ligure, a una prostituta slava, Kristina Walla.


La strage continua.
Il serial killer sceglie, via via, prostitute di nazionalità diverse, quasi volesse insanguinare il mondo intero che mette in vendita i corpi, degradando la dignità femminile fino all'abiezione. A un certo punto, nel giallo criminale l'autore inserisce un nuovo elemento: una chiave universale, a sezione quadra, in grado di aprire la toilette dei treni. È una svolta simbolica e capiremo perché. Il 12 aprile, Bilancia sale sul pendolino per Venezia. In prima classe siede Elisabetta Zoppetti, infermiera, sola. Quando va in bagno, il serial killer la segue, apre, lei si mette a urlare, lui le copre la faccia con la giacca, le spara. Sei giorni dopo, Bilancia prende il treno a Sanremo, ammazza con la stessa modalità Maria Angela Rubino e scende con lucido tempismo a Bordighera. Due soli delitti in carrozze ferroviarie basteranno a imprimere su Bilancia il marchio dell'«assassino dei treni». A Novi Ligure la notte che gli sarà fatale. Il serial killer carica in macchina il transessuale venezuelano Julio Castro, di 23 anni, detto Lorena. Fra i due scoppia un litigio, Bilancia pretende un rapporto senza preservativo, ma il transessuale si oppone, lui leva dalla tasca la Smith Wesson, la ragazza reagisce con tutte le sue forze, grida, accorrono due metronotte. Bilancia spara ad entrambi, dopo aver colpito Lorena nel ventre; si preoccupa di dare il colpo di grazia ai metronotte, per assicurarsi della loro morte. Torna sul corpo della ragazza per l'ultimo colpo, ma c'è un clic dalla pistola scarica. Sarà Lorena a incastrare Bilancia, che si allontana da lei con un'alzata di spalle, credendola cadavere. In seguito, di questo episodio il serial killer dà versioni contraddittorie: «Un errore? Una superficialità? Se avessi voluto, stando attento come sono sempre stato, non mi avrebbero mai preso. Sarebbe bastato coprirmi la faccia, cosa che non ho mai fatto».

È il punto estremo.
Superato ogni limite, il protagonista del giallo che gronda sangue esorbita nelle pagine, l'assassinio lo deforma in mostro. Immagino l'«autore» del giallo gettare la penna dopo la sfuriata dei passi scritti con una veemenza atroce, uno sfogo demonico che gli ha incendiato il cervello. Si interrompe per riacquistare un minimo di lucidità, sottrarsi all'astrazione della follia, al nonsenso della trama. Cerca, quindi, un nesso, un senso che possano, se non giustificare, rendere meno arbitraria la messa in pagina.
La sua mente stravolta non gli offre spunti. Ma poi, ecco, come un vento lontano, quasi una straziante musica, si fa strada in lui. Nei suoi occhi, un pianto trattenuto, di cui non si sarebbe considerato più capace.
Rivede una sera del passato, che si fa prossima. La sera del 18 marzo 1987. Bilancia è col fratello Michele. Si passano la chitarra, la suonano. Una profonda serenità finisce per legarli. Ad ascoltare il suono della chitarra, a dar respiro alla serenità dei due uomini, c'è da un lato un bambino di quattro anni, il figlio di Michele che, in quei momenti, non pensa a nulla di sgradevole, alla moglie che lo ha lasciato, forse preferendogli un altro, nemmeno al rischio che, dopo la separazione, il Tribunale possa affidare il bambino alla madre. Ecco, Bilancia è felice proprio perché vede il fratello sorridere e rallegrarsi insieme al piccolo figlio...

Il suicidio
Rivede tutto questo, l'autore del giallo, ma, subito, una morsa alla gola. Rivede anche la scena di qualche giorno dopo. Un treno fermo, i viaggiatori attoniti che fissano un punto sotto il treno, fra le rotaie sporche di sangue, dove c'è un fagotto fatto di due corpi senza vita, abbracciati con tutta la forza di un'anima comune, di un sangue comune che li aveva resi vivi... è lui, Michele, che si è gettato sotto il treno dopo aver saputo che il Tribunale ha deciso di affidare il bambino alla madre. Michele si è buttato sotto il treno stringendo fra le braccia il figlio piccolo. E toccherà a Bilancia riconoscere i corpi straziati... L'«autore» si prende la faccia fra le mani, si chiede se quella scena che gli è entrata in ogni fibra, che lo ha spinto a esclamare sull'insanguinato fagotto umano «per colpa di una puttana», possa servire come detonatore per le pagine criminali scritte con l'inchiostro del diavolo, per la malinconia acerrima che, a causa di una malformazione fisica, ha sempre provato verso il sesso femminile. Una solitudine così irrimediabile, che impedisce le gioie dell'amore addirittura con la possibilità di essere derisi, è già un delitto, e l'ha commesso la natura... Bilancia pensa al padre, alla madre, si rende conto di quanta ingiusta condanna abbia pesato nel loro sangue, e nel sangue dei figli, sangue, sangue... Ha una preghiera d'amore per il padre e la madre, e la ripeterà al momento dell'arresto.

Si tratta, ora, di mettere sul brogliaccio, il titolo, il nome dell'autore, del protagonista. Bilancia dichiara: «Dentro di me ci sono due personaggi: Bilancia 1 e Bilancia 2. B1 è riuscito a controllare, anche se solo parzialmente, B2 fino al giorno del mio primo delitto. Poi non è stato più possibile. Quando B2 commetteva un omicidio, B1 assisteva passivamente. E quando mi hanno arrestato, B1 è cascato dalle nuvole ».

Chi lo ascolta ritiene che il serial killer cerchi pretesti con la solita astuzia. Bisogna andare di nuovo indietro nel tempo per trovare qualche fondamento a questa dichiarazione. A quindici anni, per impedire che i compagni di classe continuino a deridere il suo nome, Bilancia decide di cambiarlo: non più Donato, ma Walter (si sente gratificato anche quando, in carcere a Marassi, c'è chi lo chiama Gaber, per via del nasone e dei capelli lunghi come il cantante). Donato no, insopportabile, cancellato. Ma chi è il B1 e chi il B2? B1 è Walter, B2 è Donato. Walter è l'umiliato che si costruisce attraverso la sua rassegnazione, è l'uomo della forzata conciliazione col mondo, che recita il ruolo del mite, del simpatico, dell'amico anche spiritoso. Donato è la radice malata, il ladro, lo scassinatore, il vendicatore con la pistola, per torti subiti da chi si proclamava amico, il giocatore tra follia e azzardo nelle bische genovesi, l'assassino scatenato. Walter è quello che accetta e riceve, in carcere, un vitalizio di 528 euro al mese dall'Istituto per l'assicurazione degli infortuni sul lavoro (lo intasca dal 1973, per un brutto incidente in macchina). Mentre è Donato che, nell'agosto del 1998, si decide a scrivere al pontefice, Giovanni Paolo II, commentando: «Anche se non dovesse rispondermi, la sola idea di avergli scritto mi dà pace».


Alberto Bevilacqua
24 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #54 inserito:: Febbraio 26, 2008, 07:55:45 am »

CRONACA

Requisitoria del processo per le violenze e i soprusi durante i G8

Il pm cita agghiaccianti episodi, facendo nomi e cognomi

"Umiliazioni, pestaggi, sputi ecco l'inferno della Bolzaneto"

 di MASSIMO CALANDRI


GENOVA - Qualcuno dovrà pure spiegare l'odio e la violenza, la barbarie, la crudeltà gratuita. L'accanimento. Gli insulti, le umiliazioni, le botte.
I capelli tagliati a colpi di forbice, gli sputi, i volti marchiati, le dita spezzate. Qualcuno dovrà spiegare, ed assumersene le responsabilità.

Nella seconda udienza dedicata alla requisitoria del processo per le violenze e i soprusi nella caserma di Bolzaneto, i pubblici ministeri si sono concentrati sull'attendibilità dei testi. Spiegando che non furono solo le 209 vittime a raccontare nei dettagli l'orrore di quei tre giorni, ma che gli stessi imputati generali, funzionari di polizia, ufficiali dell'Arma, guardie carcerarie, poliziotti, carabinieri, medici hanno più o meno direttamente confermato quegli sconcertanti resoconti.

Vale allora la pena di riportare alla lettera una parte dell'intervento di Vittorio Ranieri Miniati, a nome anche dell'altro pm, Patrizia Petruzziello.
Un breve elenco di fatti specifici accaduti nel "carcere del G8". Una esemplare tessera del mosaico. Miniati cita ad esempio "le battute offensive e minacciose con riferimento alla morte di Carlo Giuliani o di alcuni motivi parafrasati a scopo di scherno". "Per la giornata di venerdì, in particolare: il malore di Angelo Rossomando e quello di Karl Schreiter. Il taglio di capelli di Taline Ender e Saida Teresa Magana. Il capo spinto verso la tazza del water a Ester Percivati. Lo strappo della mano di Giuseppe Azzolina, le ustioni con sigaretta sul dorso del piede a Carlos manuel Otero Balado, percosso tra l'altro sui genitali con un grosso salame. Le percosse con lo stesso grosso salame sul collo di Pedro Chicarro Sanchez".

"Per la giornata di sabato, in particolare: il malore di Katia Leone per lo spruzzo in cella di spray urticante. Il malore di Panagiotis Sideriatis, cui verrà riscontrata la rottura della milza. Il pestaggio di Mohammed Tabbach, persona con arto artificiale. Gli insulti a Massimiliano Amodio, per la sua bassa statura. Gli insulti razzisti a Francisco Alberto Anerdi per il colore della sua pelle. Le modalità vessatorie della traduzione di David Morozzi e Carlo Cuccomarino, che vengono legati insieme e le cui teste vengono fatte sbattere l'una contro l'altra".

"Per la domenica, in particolare: il malore di Stefan Brauer in seguito allo spruzzo di spray urticanti, lasciato con un camice verde da sala operatoria al freddo. Il malore di Fabian Haldimann, che sviene in cella ove è costretto nella posizione vessatoria. L'etichettatura sulla guancia, a mo' di marchio, per i ragazzi arrestati alla Diaz nel piazzale al momento dell'arrivo a Bolzaneto. La sofferenza di Anna Julia Kutschkau che a causa della rottura dei denti e della frattura della mascella non è neppure in grado di deglutire. Il disagio di Jens Herrrmann, che nella scuola Diaz per il terrore non è riuscito a trattenere le sue deiezioni e al quale non è consentito di lavarsi. La particolare foggia del cappellino imposto a Thorsten Meyer Hinrrichs: un cappellino rosso con la falce ed un pene al posto del martello, con cui è costretto a girare nel piazzale senza poterlo togliere".

Per chi lo avesse dimenticato, i responsabili di questi episodi sono uomini dello Stato. Quello che ci dovrebbero proteggere dai criminali.

(25 febbraio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #55 inserito:: Febbraio 26, 2008, 07:56:53 am »

G8, i pm su Bolzaneto: violenze anche in infermeria


Serviranno almeno altre quattro udienze per completare il racconto di quelle giornate del luglio del 2001 quando Genova ospitò il G8. Ma l’assaggio dato lunedì dai pubblici ministeri che hanno iniziato la loro requisitoria al processo per le violenze nella caserma di Bolzaneto fanno di nuovo, quasi sette anni dopo, accapponare la pelle.

I pm Vittorio Ranieri Miniati e Patrizia Petruzziello in questi anni hanno raccolto più di duecento testimonianze di chi quella notte finì in caserma.
Sotto accusa ci sono 45 tra vertici apicali, appartenenti al personale della polizia penitenziaria, polizia di Stato, carabinieri e medici.

Quella che descrivono, più che una caserma, è un luogo di tortura: ragazzi e ragazze picchiate, tenuti ore e ore in piedi con le mani alzate, accompagnati in bagno e lasciati con le porte aperte, insultati, spogliati, derisi e minacciati. Le dichiarazioni raccolte, secondo i pm, trovano attendibilità in varie tipologie di riscontri, a cominciare dai referti medici successivi alla detenzione e dai racconti di numerosi testimoni.

Tra i ricordi più agghiaccianti ripercorsi dai pm, c’è quella di Massimiliano A., 36 anni, napoletano, disabile al cento per cento, insultato per la sua bassa statura e a cui era stato negato perfino il permesso di andare in bagno.

Ma sono decine e decine le altre vessazioni che i manifestanti del Genoa Social Forum furono costretti a subire, dallo stare in piedi per ore o a fare la posizione del cigno e della ballerina, ad abbaiare come cani per poi essere insultati con minacce di tipo politico e sessuale. Nemmeno chi stava male ricevette conforto: «L'infermeria – ha denunciato il pm Ranieri Miniati – che doveva essere un aiuto in caso di sofferenza è diventata un luogo di ulteriore vessazione».

La requisitoria proseguirà nei prossimi giorni. Ci sarà molto altro di cui discutere: «Su oltre duecento persone offese – ha spiegato il pm Miniati – i casi di persone che non hanno reso dichiarazioni sono veramente poche: questo – ha aggiunto – denota non solo una non volontà di sottrarsi al processo, ma anzi la volontà di cercare questo processo e la verità».

Pubblicato il: 25.02.08
Modificato il: 25.02.08 alle ore 20.00   
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« Risposta #56 inserito:: Febbraio 28, 2008, 03:40:36 pm »

CRONACA

Gli accertamenti saranno lunghi e approfonditi: "Non prima di un mese i risultati"

L'adolescente che ha salvato Michele parlò con la polizia "ma non mi hanno creduto"

Gravina, nuovi esami medico legali Un bimbo: "Li ho visti entrare lì"

 
BARI - I medici legali nominati dalla Procura eseguiranno una risonanza magnetica per ricostruire in tre dimensioni i cadaveri di Francesco e Salvatore. L'esame servirà per capire quando e come Ciccio si è fratturato la gamba destra e se quel tipo di lesione è compatibile con una caduta accidentale nel pozzo abbandonato. Poi gli anatopatologi eseguiranno gli esami sui resti di cibo conservati nello stomaco dei due fratellini per risalire all'ora della loro morte.

"Saranno esami lunghi", hanno detto i medici. Forse non prima di un mese si conosceranno i risultati degli accertamenti. Poi le salme saranno consegnate alle famiglie e saranno celebrati i funerali. Per quel giorno, sarà proclamato il lutto cittadino. Ma non sarà il Comune di Gravina a pagare le esequie. La famiglia Pappalardi ha rifiutato l'offerta avanzata dall'amminstrazione locale. Il legale del padre dei fratellini ha spiegato perché la famiglia non vuole la loro solidarietà": "E' sempre stata trattata da famiglia poco affidabile e adesso non vuole quel tipo di aiuto".

LE IMMAGINI DEL POZZO

"Ciccio e Tore giocavano sempre là dentro. Ci andavamo in gruppo. Era una sfida entrare in quelle stanze buie. E' pieno di posti come quello qui intorno". I ragazzi di Gravina raccontano della masseria dalle cento stanze, come in paese è chiamato il caseggiato abbandonato dove sono morti Ciccio e Tore. Il compagno di Michele - il tredicenne che cadendo nel pozzo dell'orrore tre giorni fa indirizzò i soccorritori verso la cisterna dove erano conservati i corpi dei fratellini - ricorda di aver visto Francesco e Salvatore Pappalardi entrare anche loro nella vecchia casa, "ma non ricordo quando. L'ho detto alla Polizia, ma forse non mi hanno creduto".

L'INTERVISTA

Il suo amico Michele, caduto nel pozzo tre giorni fa, sta lentamente migliorando. Ha entrambe le gambe fratturate e lesioni anche alle vertebre. "Da ieri respira autonomamente - spiega il direttore sanitario dell'ospedale dove il ragazzino è ricoverato - e in giornata dovrebbere essere dimesso dalla terapia intensiva per essere trasferito in un reparto ortopedico".

(28 febbraio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #57 inserito:: Marzo 04, 2008, 11:24:04 pm »

2008-03-04 21:31

MOLFETTA, FORSE MORTI PER IDROGENO SOLFORATO


Non sono state le esalazioni di polvere di zolfo, sostanza tutt'altro che mortale, ad uccidere il titolare e quattro lavoratori della 'Truck center' di Molfetta. E' questa la novità più importante, secondo fonti vicine agli investigatori, emersa dalle prime indagini e in particolare dai rilievi eseguiti nell'autocisterna in cui è avvenuta la tragedia. Forse, sostengono sempre le stesse fonti, a provocare le cinque morti potrebbe essere stata la presenza di idrogeno solforato, gas incolore e velenoso. Se fosse così, bisognerà stabilire come e dove il gas si sia formato nella cisterna. Per avere risposte certe bisognerà attendere i risultati dei prelievi che stamani i nuclei specializzati di carabinieri e vigili del fuoco hanno compiuto alla presenza del magistrato inquirente, il pm della Procura di Trani Giuseppe Maralfa, nonché di tossicologi ed esperti dell'Arpa (Agenzia regionale per l'ambiente) Puglia.

Il magistrato ha aperto un fascicolo d'inchiesta a carico di ignoti con l'ipotesi di reato di omicidio colposo plurimo. Il sopralluogo è durato circa un'ora e al termine il pm si è allontanato in auto dribllando giornalisti e telecamere. La cisterna della tragedia, si è saputo, è di proprietà di Fs Logistica, società del gruppo Ferrovie dello Stato, e veniva utilizzata per il trasporto di zolfo dalla società 'Cinque Biotrans', che a sua volta affidava alla 'Truck center' la bonifica del mezzo.

Intanto i carabinieri stanno acquisendo di ora in ora documentazione relativa sia ai lavori che venivano eseguiti alla 'Truck center', sia alle misure di sicurezza adottate durante le operazioni di lavaggio delle cisterne e alla posizione dei dipendenti, a partire ovviamente dalle vittime di ieri. Il pm ha anche nominato oggi quali periti due consulenti dell'istituto di medicina legale dell'Università di Bari che dovranno eseguire le autopsie, affiancati dal tossicologo Roberto Gagliano Candela, dello stesso istituto. Nel pomeriggio i periti hanno compiuto un esame superficiale sul corpo di Guglielmo Mangano, il primo a cadere nella cisterna. Le autopsie dovrebbero concludersi in settimana, in modo da consentire al più presto la celebrazione dei funerali delle vittime, quasi certamente con un unico rito e a spese del Comune, che ha proclamato sino a quel giorno il lutto cittadino. Servirà più tempo invece, cioé almeno 15-20 giorni, per avere un primo quadro sufficientemente preciso di ciò che è accaduto alla 'Truck center', sulla base dei risultati dei prelievi e degli esami eseguiti.

Parallelamente bisognerà accertare se effettivamente siano state adottate tutte le misure di sicurezza previste dalla legge per operazioni come quella della pulitura di cisterne adibite al trasporto di zolfo. Anche stamani, durante il sopralluogo, i tecnici di carabinieri e vigili del fuoco sono scesi nella cisterna muniti di tute speciali di protezione per evitare rischi. Ieri, quando c'é stata la tragedia, nessuna delle vittime indossava materiale protettivo, forse perché il lavaggio era stato quasi ultimato. Ai periti anche il compito di spiegare se nella tragedia ci sia stata una componente di fatalità o imprudenza. Anche oggi intanto si sono contati altri due morti sul lavoro: un pensionato è annegato, travolto dal liquame, in una azienda agricola del bergamasco di proprietà di un cugino.

Nella provincia di Imperia ha perso invece la vita travolto dal muro perimetrale di una casa, mentre stava lavorando al tracciato di un impianto fognario, un operaio edile di 38 anni. 

da ansa.it
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« Risposta #58 inserito:: Marzo 06, 2008, 03:10:48 pm »

La prostituta e il sindaco Il delitto che scuote Detroit

Uccisa nel 2003. Un agente rivela: sono stati i miei colleghi


WASHINGTON — «Fragola» è bella ed è molto desiderata. Per questo la pagano bene quando lascia cadere il vestito nei night di Detroit. I clienti apprezzano. Ma forse non sono gli unici. «Fragola» ha mostrato il suo corpo a qualcuno di importante. In un fine settimana nel settembre 2002, l'avrebbero vista alla «Manoogian Mansion», la residenza del sindaco di Detroit Kwame Kilpatrick. Una esibizione seguita da un fuoriprogramma. La moglie del sindaco, Carlita, sarebbe piombata nella villa ed avrebbe preso a sberle la spogliarellista. «Spazzatura», ribattono gli amici di Kilpatrick convinti di cancellare le ombre.
Ma ombre ancora più nere tornano il 30 aprile di un anno dopo. «Fragola», il cui vero nome è Tamara Greene, 27 anni, è assassinata a colpi di pistola in una via di Detroit. Il killer risparmia il compagno della donna che le è seduto accanto nella vettura. A terra rimangono diversi bossoli. Per la scientifica potrebbero essere stati sparati da un Glock, arma in dotazione alla polizia, ma comune anche tra i criminali. Il delitto rilancia, sotto una luce diversa, la presunta esibizione di «Fragola». Kilpatrick reagisce con veemenza. Smentisce tutto e caccia il vice capo della polizia Gary Brown, colpevole di indagare sulla spogliarellista e sui comportamenti illegali all'interno del Comune. In soccorso di Kilpatrick interviene il procuratore Mike Cox che liquida la vicenda del balletto come «una leggenda metropolitana ».

Si muove anche la polizia di Stato — separata da quella metropolitana — e raccoglie testimonianze che sembrano dare ragione al magistrato. Ma l'atmosfera a Detroit è putrida. C'è un clima di sospetto, di pugnalate nell'ombra, di ricatti. Un ambiente che piacerebbe allo scrittore James Ellroy. Accade così che una pattuglia fermi per eccesso di velocità l'assistente del sindaco, Christine Betty. Una donna in carriera e molto — forse troppo — vicina al primo cittadino. Lei risponde telefonando al capo della polizia e insultando gli agenti: «Voi non sapete chi c... sono io?». Poi insinua che si è trattato di una trappola ordita dalla polizia. La poltrona di Kilpatrick diventa rovente.

Nell'aprile del 2004 la polizia di stato afferma che il giudice Cox ha ostacolato l'indagine e un tenente della Omicidi di Detroit, Alwin Bowman, accusa: «Mi hanno trasferito per impedire che facessi luce sul delitto di Tamara». Il giallo di «Fragola» si intreccia con le beghe consiliari. La stampa picchia duro, i reporter scavano nella melma, si attaccano dove possono. È di nuovo la moglie Carlita a finire in prima pagina perché usa un gigantesco Suv fornito al Comune per le esigenze della polizia. Nulla rispetto ai guai che aspettano il marito. Vengono infatti diffusi dei messaggi sms dai rivelano rapporti troppo «stretti» tra Kilpatrick e l'assistente Christine Betty. Agli schizzi di fango segue un altro colpo. L'ex tenente Bowman presenta, il 29 febbraio, una denuncia che scuote il Palazzo: «Tamara è stata uccisa da qualcuno della polizia. E c'era un legame tra la vittima e uno stretto collaboratore del sindaco».

L'ufficiale aggiunge che i suoi superiori hanno sempre mostrato «un interesse inusuale» per il caso. L'allora capo Jerry Oliver e il suo successore, l'ambiziosa Ella Bully Cummings, pretendevano di aver libero accesso alle carte dell'indagine. Una via vai di cartelline che avrebbero causato la perdita di documenti importanti. Un altro detective testimonia che alcune informazioni sono state cancellate dai computer del Dipartimento. Il tiro si sposta sulla Cummings che ha passato, contro ogni logica, il dossier Fragola all'unità «Cold case». Un modo per affossare l'inchiesta, dicono i nemici. «Non è vero», ribatte la Cummings chiedendo la collaborazione dei cittadini. Le ha risposto un amico della vittima: «Tamara doveva ricevere un grossa somma di denaro ». Era il prezzo del silenzio? Forse hanno preferito pagarla con una scarica di piombo.

Guido Olimpio
06 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #59 inserito:: Marzo 11, 2008, 05:52:03 pm »

sarebbero 160 le presunte vittime: indagini frenate per anni da una rete di complicita'

Gb: il giallo dell'orfanotrofio degli orrori

Jersey: rinvenute 2 camere delle torture nella struttura di Haut de la Garenne.

All'interno anche resti umani


LONDRA (GRAN BRETAGNA) - Come in un film dell'orrore. E' quello che ha per protagonista un orfanotrofio del Jersey un isola nel canale della Manica, l'Haut de la Garenne, che sarebbe stato almeno fino al 1986, un vero e proprio luogo di tortura e morte per i bambini che vi dimoravano. Torture che sarebbero venute alla luce solo dopo anni per la presunta complicità delle stesse forze di polizia che avrebbero insabbiato le denunce. Così solo da una settimana a questa parte le forze dell'ordine si sono mosse alla ricerca di prove per sostenere le testimonianze delle vittime. E così dopo la prima ora gli inquirenti britannici ritengono di aver individuato dopo una prima anche una seconda camera sotterranea delle torture nell’orfanotrofio.
 
La polizia scientifica al lavoro in una delle camere delle torture dell'orfanotrofio (Reuters)
Un cane poliziotto ha inoltre rilevato la presenza di resti umani. La seconda stanza è stata individuata vicino allo scantinato contenente tracce di sangue umano, un paio di catene e un bagno in muratura, scoperto all’inizio del mese, e gli inquirenti sospettano l’esistenza di altre due camere. Sono circa 160 le presunte vittime che hanno denunciato le violenze subite tra il 1960 e il 1986 nell’orfanotrofio Haut de la Garenne, violenze venute fuori solo ora, quando è stato violato il muro del silenzio, edificato da una rete di poliziotti, politici e imprenditori locali. Tanto che da più parti è stato richiesto al ministro della Giustizia di inviare magistrati indipendenti sull'isola per avere la certezza di un equo processo.

 LA CAMERA DEGLI ORRORI - Un portavoce della polizia, citato dal quotidiano Times di Londra, ha dichiarato: «Questa stanza può essere tre volte più grande della prima stanza e ci vorrà del tempo per esaminarla con cura. Manderemo prima un cane, attraverso un varco nel soffitto. Quindi entrerà un’unità di medici legali. Ovviamente, se troveranno qualcosa di rilevante, questo rallenterà l’intera operazione». La polizia ha inoltre denunciato iniziative avviate da ex funzionari di polizia, politici e imprenditori per screditare le indagini. Un portavoce delle forze dell’ordine ha dichiarato: «Alcuni funzionari hanno lasciato il corpo di polizia in circostanze diverse dopo essere stati accusati di attività che possono essere definite di corruzione. Questi funzionari e i loro associati, tra cui un imprenditore locale e un ristretto numero di politici, hanno lanciato una campagna volta a screditare gli inquirenti impegnati sul caso. Sono state inviate diverse lettere, tra cui alcune contenenti minacce contro uno degli agenti. Dopo l’annuncio dell’avvio delle indagini, un politico che ha partecipato al dibattito sugli abusi su minori è stato avvicinato da uno di questi ex funzionari di polizia e ammonito a non fidarsi e a non cooperare con gli inquirenti. Vogliamo sottolineare che al momento non ci sono prove del fatto che questi ex funzionari siano coinvolti in attività volte a coprire gli abusi. Obiettivo dell’indagine rimane quello di individuare le persone che hanno commesso gli abusi sui bambini».


11 marzo 2008

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