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Autore Discussione: BRUTTE e tristi STORIE...  (Letto 165836 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Settembre 26, 2007, 10:39:22 pm »

CRONACA

Cagliari, non si trova il pensionato che ha rubato il pacco di pasta


CAGLIARI - Tutte le tv lo cercano, molti cittadini e organizzazioni di solidarietà vogliono dargli una mano: ma il pensionato che a Cagliari ha rubato un chilo di pasta non si trova. Emerge anzi qualche particolare che getta ombre sulla ricostruzione di quanto sarebbe avvenuto, e perfino dubbi sulla stessa veridicità dell'episodio.

Non si trovano, infatti, nè il 75enne che avrebbe rubato un pacco di pasta e un pezzo di formaggio in un piccolo negozio di generi alimentari del quartiere popolare di Is Mirrionis, a Cagliari, nè i proprietari dell'esercizio commerciale che l'avrebbero subito perdonato e poi organizzato iniziative di solidarietà per aiutarlo.

In una e-mail inviata ad agenzie e altri organi di stampa, il presunto titolare del negozio Ignazio Fenudu, di 43 anni (sarebbe originario di Orroli, piccolo centro del nuorese al confine con la provincia di Cagliari, ma anche in questo caso mancano riscontri), spiega al cronista del quotidiano L'Unione sarda - che ha pubblicato la storia - di essere stato subissato ieri di telefonate al suo cellulare ma di non aver risposto a nessuno ("non volevo assolutamente pubblicità raccontando la vicenda del 'signor Nicolo', non ho risposto e non ho intenzione di rispondere").

E', però, un altro il passaggio che ha suscitato perplessità: "Le foto che sono state inviate - scrive sempre il presunto titolare del negozio con riferimento a quella pubblicata dal quotidiano sardo- non appartengono nemmeno al negozio mio e di mia moglie. Ma sono le immagini di un panificio situato all'ingresso di Degioz, capoluogo di Valsavarenghe, in Valle d'Aosta (rintracciabili su google ndr) dove io e mia moglie passiamo abitualmente le vacanze. Dopo che le ho mandate via email mi sono sentito in colpa ma l'ho fatto solo ed esclusivamente per non far riconoscere la nostra bottega di alimentari".

Un particolare quest'ultimo scoperto dal quotidiano "Il Sardegna" del gruppo E-polis che oggi ha titolato "Troupe tv a caccia del supermarket ma nessuno lo trova: è in Val d'Aosta".

Inutile qualsiasi tentativo di mettersi in contatto col signor Fenudu, così come hanno dato esito negativo le ricerche del pensionato da parte dei servizi sociali del Comune di Cagliari.

(26 settembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Ottobre 17, 2007, 11:46:22 pm »

Fortugno due anni dopo: suicida il pentito-chiave

Enrico Fierro


L’unico fatto certo è che Bruno Piccolo, il pentito, è morto. Suicida come tutti i disperati. Impiccato in un anonimo appartamento di Francavilla, Abruzzo. Quella corda che si è stretta al collo e che lo ha ucciso, ora rischia di soffocare la verità sull’omicidio di Francesco Fortugno, il vicepresidente del consiglio regionale della Calabria ucciso il 16 ottobre di due anni fa. Piccolo, barista a Locri e mafioso per caso, ha scelto di farla finita il 15 ottobre, a poche ore dal secondo anniversario di quella tragedia.

Una tragedia che ha cambiato la sua vita e il destino dell’intera Calabria. Nell’appartamento che il servizio di protezione dei collaboratori di giustizia gli aveva messo a disposizione sono stati trovati tre biglietti. Parole senza senso. Frasi incompiute. Quasi una prova di scrittura di quella che forse avrebbe dovuto essere una lettera più completa per spiegare le ragioni del suo gesto.

«Io sono un giovane di 29 anni... ». Si legge nel primo. «Mio padre è morto e adesso mia madre vive da sola... Anch’io vivo da solo». Biglietto numero due. Frasi disperate, il racconto di una solitudine immensa. Perché ormai Bruno Piccolo era solo come un cane con la rogna, abbandonato da tutti, senza più nessun legame affettivo. Lo avevano ripudiato tutti. In paese, a Locri, non lo chiamavano più il barista, ma Bruno ’u ndegnu. Tradotto verrebbe l’indegno, ma l’italiano non rende affatto il senso di violenza, di schifo, di emarginazione che la parola detta in calabrese ha la forza di trasmettere. Altro foglio, ultima prova di scrittura. Umore cambiato. «Io sono una persona spensierata. Sono un giovane a cui piacerebbe divertirsi». Fine. E poi un sms trovato sul suo cellulare ed inviato ad un numero intestato ad una donna romena. «Non mi cercare più, è finito tutto... ». La fine di una relazione? Forse. L’ultimo pezzo di vita crollato in testa a Bruno ’u ndegnu.

Bruno Piccolo comincia a diventare l’indegno nel dicembre del 2005. Dall’omicidio di Francesco Fortugno sono passati due mesi. Nessuno sa perché quel politico calabrese, cattolico e per anni nella Dc, sia stato ucciso. Si parla di tutto, si indicano moventi.

Qualcuno si impegna a depistare. Perché hanno deciso di uccidere Franco Fortugno e proprio dentro un seggio delle primarie dell’Ulivo? Gli inquirenti hanno poco o nulla in mano. A Locri Bruno gestisce un bar, si chiama «Arcobaleno», un posto che diventa subito il luogo di ritrovo di Micu Novella, nipote dei Cordì, la cosca più potente del paese, Salvatore Ritorto e altri ragazzotti che fanno piccoli lavori per la «famiglia». Armi, rapine, droga. Si fanno le ossa prima di fare il grande salto nella ’ndrina. Mentre serve caffè e prepara dolci, Bruno ascolta i discorsi di quei picciotti. Si esalta quando sente i loro racconti di rapine, attentati e sparatorie per mettere in riga qualcuno. Si inebria quando tocca le loro armi. Quei picciotti lo affascinano.

«Dottore, io lavoro da quando avevo dieci anni. Ma sapevo che avvicinandomi a queste persone avrei potuto chiedere qualcosa. Io una cosa sola volevo: vendetta. Sì, volevo vendicarmi del farmacista di Locri. Mio padre stava lavorando a sistemare una casa sua quando cadde dall’impalcatura e morì. Lui non lo aiutò, lo trattò peggio di un cane. Ecco: volevo un po’ di giustizia per mio padre. Volevo ammazzarlo, il farmacista, ma gli ho bruciato solo la macchina». Piccolo racconta così i motivi che lo spinsero ad entrare in quel gruppo che tutti dicevano vicinissimo ai Cordì. E lo fa all’inizio del suo pentimento. «Si tratta di un soggetto - scrivono i pm della procura antimafia di Reggio - per lungo tempo educato all’importanza del lavoro che entra a far parte di un gruppo malavitoso composto da soggetti criminali più grandi di lui. E per questo entra dal grado più basso, quello del galoppino». È un tormento autentico, quello di Bruno il barista. Una lunga sofferenza vissuta nel carcere di Sulmona, che non sfugge ai vertici della cosca Cordì. A Locri si mormora, Bruno non sopporta il carcere. Lui e i suoi compari sono in galera per fatti che ancora non hanno attinenza con l’omicidio Fortugno, ma la polizia ha intercettazioni telefoniche, riscontri. Bruno può fornire elementi importanti.

I Cordì lo sanno e da quel momento iniziano a fare pressioni enormi su di lui e sulla sua famiglia. 3 dicembre 2005, Vincenzo Cordì incontra i suoi familiari nel carcere di Palmi dove è detenuto. «Piccolo è a Sulmona - dice - ci mandai a Filippo Barreca, così se lo prende lui quando sa che è con noi». 13 dicembre, Piccolo riceve la visita della madre e di uno zio. «Sta fermo, Bruno. Non ti scantare. Non parlare, tu non sei preparato a queste cose. Ricordati che hai due sorelle». 19 dicembre. Vincenzo Cordì gli scrive una lunga lettera. Paterni consigli e velate minacce. «L’importante in questi luoghi - scrive il boss - è stare tranquilli. Farsi la galera con onestà. Parlare poco e solo quando è necessario, e se c’è qualcuno che fa il furbo e ti dice chissà quanta galera ti fai, tu gli rispondi che non importa. L’importante è uscire a testa alta. Che la galera a noi non ci impressiona».

Come si fa resistere? Il carcere, la famiglia, quella di sangue, che ti rinnega, l’altra, quella di mafia, che ti preme fino a farti impazzire. Ma Bruno non molla, anche quando vogliono farlo passare per matto. Scavano nella sua vita privata: ha tentato il suicidio, pippava cocaina, lo hanno riformato dal servizio militare. Lui resiste, dalla sua ha la relazione del professor Chimenez che lo visita in carcere e lo giudica «munito di validi poteri attentivi e percettivi».

Davanti ai magistrati di Reggio dice tutto. Indica i nomi e l’organigramma del gruppo, parla dei Cordì e per la prima volta dell’omicidio Fortugno. «Dottore - dice al pm Marco Colamonici - ero a conoscenza di fatti che per me erano un peso enorme che non riuscivo più a portarmi dietro. Io non ho mai ucciso nessuno». Bruno fa i nomi, parla di Salvatore Ritorto (il presunto killer), di Micu Novella, il nipote dei Cordì, dice tutto quello che sa della «politica». Ma soprattutto aiuta Novella, il pentito numero due, a pentirsi e a gettare uno squarcio di luce importante sull’assassinio del vicepresidente del Consiglio regionale. Da allora Bruno Piccolo è ’u ndegnu. Scacciato da tutti.

Solo una lontana parente, dicono al servizio di protezione dei pentiti, aveva chiesto di fargli visita. La mamma e le sorelle no. Lui era ormai perso. Morto per i suoi. Forse è per questo che ha deciso di uccidersi a poche ore dal secondo anniversario di quel 16 ottobre che ha cambiato il destino suo e dell’intera Calabria.


Pubblicato il: 17.10.07
Modificato il: 17.10.07 alle ore 13.04   
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« Risposta #32 inserito:: Ottobre 19, 2007, 10:47:42 am »

Quella notte l’Armata Rossa era a pochi chilometri da Rechnitz ma arrivò a massacro compiuto

Il terribile segreto della contessa Thyssen

Un festino nazista con strage di ebrei

Il 24 marzo del ’45 nel castello austriaco furono uccise 200 persone


BERLINO — Ci sono storie che, come i peggiori fantasmi, restano nell’aria per decenni. Poi, all’improvviso, si materializzano e lasciano senza fiato.

Questa è una di quelle. La notte tra il 24 e il 25marzo 1945, le truppe dell’Armata Rossa erano a 15 chilometri dal castello di Rechnitz, sul confine tra Austria e Ungheria, residenza di Margit Thyssen-Bornemisza, maritata al conte Ivan Batthyany. Che il Terzo Reich fosse al crollo era chiaro, ma gli dei caduti erano più sprezzanti e mostruosi che mai. Margit organizzò l’ultima festa: 40 persone, tra Gestapo, SS e giovani nazisti. Fino a mezzanotte, balli, vino, liquori. A quel punto, però, serviva qualcosa di speciale che potesse fare ricordare quei momenti cruciali.

Franz Podezin, un amministratore della Gestapo che aveva anche una relazione sessuale con la Thyssen-Bornemisza, prese l’amante e una quindicina di ospiti, li armò e li accompagnò a una vicina stalla.

In alcuni locali del castello, erano ospitati (in condizioni tremende) circa 600 ebrei che avevano il compito di rafforzare le difese della zona e Podezin ne aveva presi 200, non più in grado di lavorare, e li aveva portati in quella stalla. Raggiuntala assieme agli ospiti li invitò a sparare «a qualche ebreo». Cosa che i pazzi ubriachi fecero dopo avere fatto denudare le vittime. Un massacro. Un certo Stefan Beiglboeck, la mattina dopo, ancora si vantava di averne massacrati sei o sette a mani nude. Tutti morti, tranne 15 che dovettero scavare le fosse e che il giorno successivo furono ammazzati a loro volta.

I sovietici arrivarono pochi giorni dopo, il 29 marzo, e il 5 aprile compilarono un rapporto nel quale dicevano che «in tutto sono state trovate 21 tombe» ciascuna delle quali conteneva dai dieci ai dodici corpi. «Apparentemente — aggiungeva — sono stati colpiti con bastoni prima di essere uccisi» con armi da fuoco. Il documento fu ritenuto propaganda comunista e dimenticato.

Poi, negli Anni Sessanta, alcuni processi per stabilire i fatti finirono in nulla dopo l’omicidio di due testimoni chiave. Un giornalista austriaco, negli Anni Ottanta, abbandonò un’inchiesta dopo avere ricevuto minacce. E una registrazione inviata alla tv viennese Orf, nella quale una vecchia testimone oculare raccontava la sua storia, andò perduta. Margit Thyssen-Bornemisza scappò in Svizzera, dove il padre Heinrich aveva vissuto durante la guerra—a villa La Favorita di Lugano — e da dove aveva diretto le forniture di acciaio emunizioni che le sue fabbriche garantivano al Terzo Reich. Morì nel 1989, mai perseguita, dopo essere tornata sul luogo del massacro, per una battuta di caccia. Questo è il terribile segreto dei Thyssen-Bornemisza così come lo ha ricostruito e raccontato David Litchfield, un autore inglese, qualche giorno fa sull’Independent di Londra e, ieri, sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, probabilmente il giornale tedesco più autorevole.

 E qui sta la parte interessante dello sviluppo che potrebbe avere la storia: per la prima volta, in Germania si parla apertamente di una vicenda che tocca il cuore della famiglia Thyssen, una delle più famose e ricche d’Europa, industriali, collezionisti d’arte e jet-set di prima fila. Che la dinastia si fosse arricchita con le forniture militari durante la prima guerra mondiale e poi durante il nazismo è cosa nota anche se poco raccontata. Ora, però, le accuse arrivano direttamente in casa, in Germania. Ed è quella notte del marzo 1945 che può diventare il tragico fantasma dei Thyssen-Bornemisza.

Danilo Taino
19 ottobre 2007

da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 19, 2007, 10:49:08 am »

ULTIMO MINUTO - CRONACA

Cogne, depositate le motivazioni

"Conflitto interiore all'origine dell'omicidio"


ROMA - Sono state depositate oggi le motivazioni della sentenza con cui la Corte d'Assise d'Appello di Torino ha condannato a 16 anni di carcere Annamaria Franzoni per l'omicidio del figlio Samuele. "La causa scatenante" di quello che i giudici definiscono "un massacro" risiederebbe, "in un conflitto interiore" di Annamaria Franzoni. Il documento è di 533 pagine e spiega perchè secondo i giudici la donna è colpevole e perchè c'è stata una riduzione di pena rispetto al primo grado. Stando alle motivazioni Il conflitto della Franzoni "aveva radice nell'ambito familiare". In particolare nella "difficile gestione da parte sua dei due figli bambini, gestione caratterizzata da sopraffaticamento e da stress".

Quella di Annamaria Franzoni, continuano i giudici, è stata una "condotta efferata, un dolo intenzionale di omicidio che ha superato in un breve momento ogni freno". Una violenza che non si fermò neanche davanti alla reazione di Samuele che "tentò un debole atto di difesa restando ferito alla mano".

(19-10-2007)
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« Risposta #34 inserito:: Ottobre 22, 2007, 09:18:46 am »

Il siriano Kamel A., calunniato ed espulso

La notizia è apparsa su qualche giornale nel febbraio scorso, proprio mentre alla Camera si discuteva l'ipotesi di consentire agli ufficiali dei Servizi di opporre, anche se imputati, il segreto di Stato. Le polemiche attorno alla norma "salva Pollari" - come veniva chiamata perché pareva cucita addosso all'appena rimosso capo del Sismi coinvolto nelle indagini sul sequestro di Abu Omar - quasi nascosero quel fatterello. E anzi l'avrebbero del tutto oscurato se anch'esso non avesse chiamato in causa l'ex capo del nostro servizio segreto militare e una sua allarmata dichiarazione di un anno prima, precisamente del 13 gennaio del 2006.

"Un cittadino straniero - aveva fatto sapere quel giorno il generale, che era ancora al comando del Servizio - è coinvolto in un progetto terroristico da porre in essere nel territorio nazionale, in particolare nella città di Milano". Quindi la dettagliata descrizione di un attentato che sarebbe stato compiuto a qualche settimana dalle elezioni politiche "in modo da condizionarne l'esito". Qualcosa di terrificante, quanto e peggio le bombe nella stazione di Madrid. Due cariche esplosive programmate per esplodere a mezzora l'una dall'altra, "in modo da causare il maggior numero di vittime".

La notizia del febbraio scorso era che l'intera ricostruzione del temuto attentato, così come l'allarme rosso antiterrorismo a Milano, si erano fondati sulle dichiarazioni di un sospetto calunniatore. Un cittadino libanese squattrinato il quale si era fatto venire l'idea di conquistare delle benemerenze trasformandosi in informatore dei servizi segreti. E aveva deciso così di accusare di terrorismo il suo coinquilino Kamel A., un siriano. Questi era stato subito sottoposto a pedinamenti e intercettazioni, tutte le sue amicizie e frequentazioni erano state passate al setaccio. Ma alla fine sia la Digos di Milano, sia il sostituto procuratore incaricato dell'indagine, Maurizio Romanelli, erano arrivati alla conclusione che il libanese si era inventato tutto. E, infatti, nei suoi confronti, era stato anche aperto un procedimento penale per calunnia.

Poiché il personaggio del momento era il generale Pollari, la notizia - a parte alcune ovvie e legittime domande sull'affidabilità di un servizio segreto che si fa ingannare così facilmente da un millantatore - si fermava qua, sovrastata dalle polemiche politiche. Nulla si diceva della sorte di Kamel A., il siriano calunniato. Eccola.

La mattina del 23 febbraio del 2006, poco più di un mese dopo l'allarme terrorismo di Pollari e mentre erano in corso gli accertamenti che avrebbe dimostrato la sua assoluta innocenza, la polizia aveva sfondato la porta della casa di Kamel A., l'aveva portato in questura e quindi caricato un aereo per Damasco. Questo in base all'allora appena emanato "Decreto Pisanu", la norma che consente di disporre l'espulsione di uno straniero per il semplice sospetto di terrorismo.
Nel caso specifico, come si legge nella tortuosa motivazione, perché Kamel A. era ritenuto "referente di un complesso e consolidato circuito relazionale con esponenti del radicalismo islamico implicati in progettualità terroristiche". Le accuse che si stavano rivelando false false, per gli autori del provvedimento di espulsione continuavano a essere valide.

Giunto in Siria, Kamel A. è stato preventivamente chiuso in un carcere a Damasco, "interrogato" secondo le usanze locali, ed è tornato libero due settimane dopo. La scoperta della sua innocenza, l'incriminazione del calunniatore, non hanno determinato la revoca del provvedimento. Da mesi l'hanno chiesta, al Tar del Lazio, i suoi avvocati. L'udienza ancora non è stata fissata. Kamel A. è ancora in Siria. Al momento dell'espulsione era titolare di un regolare permesso di soggiorno, di contratto di lavoro, ed era incensurato.

(glialtrinoi@repubblica.it)

(21 ottobre 2007)
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« Risposta #35 inserito:: Ottobre 24, 2007, 06:26:49 pm »

Parma, lo scempio del parcheggio

Vittorio Emiliani


A Parma l’amministrazione di centrodestra insiste, tenace, per stravolgere l’antica zona, centralissima, della Ghiara che sta fra la mole farnesiana della Pilotta e il fiume Parma. Luogo di mercato all’aperto, di fiere, di tornei equestri e di commerci minuti, di socializzazione popolare fin dal 1180, e poi, in modo stabile, dal 1827 con le Beccherie realizzate per la illuminata Maria Luigia d’Austria dal bravo architetto Nicola Bertoli (purtroppo distrutte, improvvidamente, nel 1929). Prima il sindaco Ubaldi, poi il suo successore, e quasi discendente di tanta stirpe, Pietro Vignali si sono applicati a un maxi-progetto cementizio che prevede lo sfondamento di un terzo della piazza.

Il motivo? Ricavare un primo piano scoperto nell’interrato e altri due piani sottoterra per magazzini e garage. Una tettoia molto evidente dovrebbe poi alzarsi oltre il parapetto del Lungoparma. In un primo tempo si pensava anche di passare sotto i resti del ponte romano della Ghiara “valorizzando” ben bene anche quel manufatto. Poi, in un soprassalto di pudore, ci si è rinunciato. Essendo il tutto in project financing, è chiaro che, al di là dei 25 milioni di euro dell’appalto, comunque succulenti, bisogna comunque dare all’operazione, tutta privata, un rendimento, un profitto piuttosto sostenuto.

L’amministrazione di centrodestra si è mossa con molta sbrigatività sloggiando subito i banchi di vendita tradizionalmente presenti e gli ambulanti e dando vita ad uno strano pre-contratto di assegnazione senza avere ancora acquisito alcun parere da parte delle due Soprintendenze competenti. E qui è cascato l’asino. Nel senso che la pratica di Ubaldi-Vignali è finita dove doveva finire - Parma è un valore planetario e il suo centro antico è sempre più ammirato - cioè all’esame dei Comitati di settore del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. Quello per i Beni storico-artistici ha pensato bene di inviare nella capitale dei Farnese un suo “scout” di valore come il professor Carlo Bertelli, noto storico dell’arte, già soprintendente a Brera. Il quale è tornato portando con sé una ricca documentazione, anche fotografica. Per dire un no secco al maxi-progetto in project financing e sì, invece, ad una riqualificazione “leggera” di quest’area: con «un flessibile moderno mercato mobile», scrive Bertelli, «dove gli esercenti abbiano garantiti i luoghi dove caricare e scaricare, i magazzini e le rimesse delle auto», con una «occupazione temporanea, e non definitiva, dello spazio aperto». Come si è fatto, con criteri aggiornati, in altre piazze di mercato tradizionalissime, per esempio a Campo de’ Fiori al centro di Roma. “Andare in Ghiara”, era un’espressione tipica nella parlata dei popolani di Oltretorrente che si recavano, al di là del ponte, nel cuore della Parma dei palazzi nobili, ma pure dei mercati, ancor oggi estesi, il mercoledì e il sabato, dalla Stazione ferroviaria a piazza Verdi, «fino a congiungersi (cito sempre il professor Bertelli) con il mercato stabile». Ma «l’area di Piazza della Ghiara», nota lo studioso, «si distingue per il suo carattere radicato di centro del commercio al minuto».

Già, ma i due sindaci di centrodestra si sono forse preoccupati, prima di lanciarsi nella discutibile impresa, di interpellare i cittadini e soprattutto i più diretti interessati, cioè i commercianti della Ghiara parmigiana? Neanche per idea. Hanno pensato loro per tutti. Allora la meritoria associazione cittadina Monumenta, presieduta dall’avvocato Arrigo Allegri, ha fatto, nell’estate scorsa, quello che il Comune - forse distratto, chissà - non aveva pensato di fare, ha cioè distribuito un limpido questionario in oltre 150 copie per verificare su quello opinioni e opzioni. E qui l’asino è cascato un’altra volta. Nel senso che appena sette dei commercianti fissi della piazza interessata hanno detto di approvare il maxi-progetto della Giunta di centrodestra. Mentre il 93 per cento l’ha sonoramente bocciato. Risultato analogo fra gli ambulanti del mercato bisettimanale: su 43 interpellati, appena due i favorevoli, 18 i contrari e, in questo caso, un po’ più le schede bianche (23). Ma, insomma, bocciatura secca su tutta la linea.

A questo punto però l’amministrazione si era già lanciata nella demolizione dei box, nel pre-contratto milionario (senza aggiudicazione e col rischio di dover sborsare 1.050.000 euro, soldi di tutti, a quel punto), nel mandare allo sbaraglio, cioè via dalla Ghiara, boxisti e ambulanti. E quindi non le restava che prendersela fieramente con le Soprintendenze parmigiane, col Ministero (e quindi con la “solita Roma”), colpevoli di ritardare un così illuminato e “gradito” progetto, scagliando anatemi contro l’associazione «Monumenta», giocando persino la carta di un “diffida”, condita da gratuiti insulti ai membri del Consiglio Superiore. La colpa non è di chi ha forzato tempi e procedure, ma di chi vuol vederci chiaro in un progetto pesante che interessa una zona storicamente strategica del centro storico di Parma. Possibile che prima Ubaldi e poi Vignali ignorassero che esistono normative rigorose intonate all’articolo 9 della Costituzione e quindi procedure per la tutela che portano i progetti fino ai Comitati di settore del Consiglio Superiore dei Beni Culturali? Non le ignoravano. Tant’è che nello strano bando di gara è stata inserita la clausola in base alla quale l’aggiudicazione avrebbe avuto luogo compatibilmente col benestare delle Soprintendenze. Può darsi però che si illudessero che i tempi fossero ancora quelli “dolci” del ministro Giuliano Urbani di Forza Italia, il quale “epurò” di forza lo stesso Consiglio Superiore e poi, di fatto, lo tenne chiuso per anni. Ma con Rutelli quell’organismo, composto da competenti di vaglia, c’è ed è stato riportato in onore. Sul mega-pasticcio della Ghiara di Parma non sono possibili ambigue mediazioni. La questione va risolta al più presto nel senso previsto, con rigore e con chiarezza, dai Comitati di settore: con un investimento assai più modesto e più rapido, dotare di infrastrutture e servizi leggeri piazza della Ghiara, come chiedono commercianti e ambulanti e restituirla agli stessi. «Pensare a parcheggi sotterranei nelle vostre città storiche», ha sentenziato di recente sir Richard Rogers, gran consulente di Tony Blair, «è una pura idiozia. Noi, a Londra, negli ultimi quarant’anni non abbiamo creato, neppure un parcheggio sotterraneo». I londinesi vanno a piedi, in bus, in metrò e in bicicletta. A Parma, si sa, la bicicletta va ancora, alla grande, ben più che a Londra.

Pubblicato il: 24.10.07
Modificato il: 24.10.07 alle ore 10.08   
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« Risposta #36 inserito:: Ottobre 24, 2007, 06:30:40 pm »

Fontana di Trevi: il vandalo e il ridicolo

Toni Jop


Calma, calma, non spingete: siete proprio sicuri che, di fronte all’acqua della Fontana di Trevi arrossata dall’anilina, possiamo strapparci le vesti per l’indignazione senza sfiorare il ridicolo? Non c’è giornale perbene, non c’è telegiornale perbene che non abbia incoraggiato l’opinione pubblica a lanciarsi sullo scivolo di un «orrore», velenosamente glamour, temperato solo dal fatto che alla fine l’attentatore è stato identificato. Si capisce ciò che sta alle spalle: se qualunque pirla ora si mette a colorare le fontane d’Italia è un bel guaio, se si permette a chiunque di intervenire arbitrariamente sui nostri monumenti giusto per garantire visibilità ai nessuno di massa, possiamo chiudere la baracca italia e buttare la chiave.

Ma c’è modo e modo. Intanto, vai col ralenti: ecco le immagini rubate al crimine; scandiscono un tempo segreto inchiodato dall’occhio semprevigile di una telecamera nascosta, appostata ‘n coppa ‘a Fontana che Totò voleva vendere a un turista facoltoso. Morto Totò, c’è la minaccia integralista in agguato, non vogliamo sottovalutarla e quella telecamera fa il suo giusto mestiere. Purtroppo, la sicurezza, a dispetto del genere femminile del vocabolo, ha un carattere decisamente macho e come tale fortemente esposto (o esposta?) al contatto ridicolo con la banalità disarmata. Le immagini: i tg ci danno dentro. Seguiamo il vandalo in azione; lui, il fessacchiotto, - raccontano - non sapeva di essere nel mirino della sicurezza, ecco il vandalo camuffato, sperava di farla franca, guardate com’è bardato per non farsi riconoscere, eccolo che getta nell’acqua la misteriosa pozione, ma è tutto registrato, non la scamperà, e infatti le forze dell’ordine lo hanno già individuato. Togli l’audio e forse capisci che: c’è un tipo nascosto un bel niente e gli manca solo di salutare la mamma mentre la telecamera lo inquadra implacabile. Del resto, lui non può non sapere che c’è almeno un occhio elettronico attorno alla fontana più celebre della terra. Eccolo lì che nemmeno protetto da un comune momento confusionale della piazza, svuota un secchiello di roba nell’acqua bassa della fontana e tutto inizia a tingersi di rosso. Fuga a tutta velocità a bordo di un paio di piedi con scarpe. Lasciandosi alle spalle un pacco di volantini dal testo sbiellato, una intenzione per niente creativa, la delusione per l’assenza di una desiderabile soggettività artistica nonché il crimine orrendo, uno specchio d’acqua rosso carminio che racconta le forme morbide della vasca in modo inconsueto, dirompente, visivamente eccitante; quella macchia di rosso omogeneo vìola il regime grigio intenso del marmo, spiazza il monumento, gli solleva le gonne, lo fa ridere di imbarazzo di fronte al mondo. E non gli procura danno permanente.

Un frammento di action painting meno invasiva degli imballaggi con cui Christo si è divertito a vestire, ad esempio, il Reichstag di Berlino. Quel gesto, rubricatelo come volete, ma - parola di antifascista militante - è stato un inedito, anche se mediocremente consapevole, modello di scrittura che è entrato in relazione - senza permesso, è vero - con il cuore immobile della monumentalità italiana, immobile solo per chi ci crede. Poiché gli stessi organi di informazione che oggi si sbracciano indignati per questo lampo di situazionismo d’accatto che pretende una matrice futurista, raramente sottolineano come l’uso di massa stia sgretolando questo parco monumentale, lo sta corrompendo, non meno di molti restauri, a dispetto di qualunque programma di conservazione. Ma lì corre il dané e tutto è allora possibile, mentre in quella immagine di Fontana di Trevi incendiata dall’anilina non corre un «bezzo» e i costi della ripulitura verranno secondo giustizia addebitati al vandalo «criminale». Avviso a quanti ora sognano di replicare il gesto: non fatelo, sareste solo dei pirla che copiano il compito altrui.


Pubblicato il: 24.10.07
Modificato il: 24.10.07 alle ore 10.09   
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« Risposta #37 inserito:: Novembre 04, 2007, 09:29:37 am »

3/11/2007 (8:27)

"Così quel bambino uccise Cosa Nostra"
 
Parla il carceriere:«L'ordine di sciogliere nell'acido il piccolo Di Matteo fece perdere ai clan faccia e rispetto della gente»

FRANCESCO LA LICATA
ROMA


«Lo chiamavano ‘u canuzzu’, ma non era un vezzeggiativo. Non era un modo amorevole per indicare un cucciolo. No, il piccolo Giuseppe Di Matteo aveva fatto la fine che fanno i ‘canuzzi’ in campagna: legati al collare, picchiati e poi ammazzati. Lo abbiamo ucciso, il piccolo Giuseppe, forse perché era diventato un problema, ancor di più di quando lo avevamo preso e tenuto prigioniero nella speranza di convincere il padre, il pentito Santino Di Matteo a ritrattare tutte le accuse che aveva rivolto contro Giovanni Brusca, contro Totò Riina e Leoluca Bagarella. E contro tutta la mafia. Più di due anni era durata la sua prigionia e per tutto quel tempo il padre aveva resistito e tenuto duro, continuando a collaborare coi giudici. Ecco perché Giuseppe alla fine era un problema: perché sulla sua pelle si giocava l’immagine di Cosa nostra e dei suoi capi. Fu Brusca a ordinare di affucarlo con la corda e poi sciogliere il corpo nell’acido. Era andato fuori di testa il boss, una volta tanto gelido da essere stato prescelto per premere il pulsante assassino che mise fine alla vita di Giovanni Falcone, della moglie e della scorta. Non ragionava più. Non c’era verso di fargli capire che l’uccisione del bambino sarebbe stato un terribile boomerang per tutte le “famiglie”. Era come accecato. E così pronunciò quell’ordine che, una volta emesso, nessuno poteva più raddrizzare senza correre il rischio di rimetterci la pelle. Chi poteva trovare il coraggio di “far ragionare” Giovanni Brusca? Così, mentre tutti restavamo prigionieri della paura, il piccolo Giuseppe scivolava verso una fine ingiusta e terribile. Ma non fu una vittoria della mafia. Un terribile castigo, anzi, si abbattè su Cosa nostra: come in un’esplosione atomica il clan dei corleonesi si è liquefatto. Riina è in galera e pure Provenzano e Bagarella e tutti i capi. Giovanni ed Enzo Brusca sono diventati pentiti. Anche Enzo Chiodo, che passò la corda attorno al collo di Giuseppe ora è collaboratore. E pure io, che mi porto appresso l’incubo di non aver saputo salvare Giuseppe. Ci credevamo immortali e potenti, noi uomini dei corleonesi. Avevamo messo nel conto di poter cambiare in nostro favore anche le sventure più grandi. E per fermare il pentito Di Matteo abbiamo scelto il ricatto più ignobile, prendergli il figlio. Così credevamo di aver risolto il problema ma invece andò a finire che quel bambino morto ammazzato, un bimbo, sconfisse la mafia. Fu peggio di una sconfitta militare, perché Cosa nostra perse la faccia e il rispetto della gente».

Sembra un ragazzino Giuseppe Monticciolo, il mafioso che racconta di essere stato incaricato da Giovanni Brusca di «risolvere il problema del bambino». Adesso che non è più un boss della mafia dice di sentirsi più libero. Vive nel Nord dell’Italia e da otto anni si è assuefatto alla vita del «signor nessuno»: anonima tranquillità, casa e lavoro. «Ma non sono stato mai così appagato», dice adesso accettando di incontrare il cronista in un posto «neutro». Soltanto oggi torna alla ribalta per aver scritto in un libro, affidandola al giornalista dell’Unità Vincenzo Vasile, «la storia del mio rapporto col piccolo Di Matteo» («Era il figlio di un pentito». Bompiani. pagg.203 E.15).

E’ un viaggio difficile, quello di Monticciolo. Lui sa che difficilmente potrà invocare perdono e comprensione. Ma cerca di «spiegare», nei limiti di una logica troppo lontana per chi non sta dentro gli ingranaggi mafiosi, il meccanismo, la trappola, «l’inganno» dice l’ex boss, che può portare l’uomo a trasformarsi in lupo. E racconta di quando «ammazzavo i cristiani senza pensare che stavo togliendo la vita ad esseri umani e padri di famiglia». Anche se poteva servire da alibi «la consapevolezza che a parti invertite le vittime non avrebbero avuto problemi a trasformarsi in carnefici». Già, andavano così le cose: «mi sentivo gratificato se il mio capo, Giovanni Brusca, sceglieva me per un omicidio “difficile”». Rivede mentalmente il film, Monticciolo. E tira fuori dalla moviola il campionario degli orrori. Come quando Bagarella «pretese che si uccidessero Giovanna Giammona, una donna, e il marito, Franco Saporito». Uno squadrone della morte partì alla volta di Corleone ed eseguì la sentenza in piazza: «Venne pure Bagarella perché voleva che si sapesse che la decisione era sua, anche contro la linea pacifista di Provenzano». Solo poco tempo prima «avevamo ucciso un commerciante, sempre a Corleone, perché Bagarella era convinto che congiurasse contro il nipote Giovanni, il figlio grande di Totò Riina».

Eccolo il delfino di don Totò, oggi condannato all’ergastolo proprio a causa delle confessioni di Monticciolo. Un ragazzetto ancora neppure diciottenne ma tanto determinato da rispondere allo zio (Bagarella) che chiede l’ennesimo omicidio: «Come lo dobbiamo ammazzare?». Così, senza l’ombra dell’indecisione.

In questo clima, Giovanni Brusca si imbarca nel «pessimo affare» del sequestro Di Matteo. Dice Monticciolo: «Pensava di averla vinta facilmente, anche perché contavamo nelle contraddizioni interne alla famiglia del bambino. Sapevamo che il nonno, il papà di Santino, non avrebbe esitato anche a sacrificare il figlio per salvare il nipote». E invece non andò così: caddero nel vuoto - per più di due anni - i messaggi terrificanti, le foto, i video inviati alla famiglia. Il piccolo Giuseppe, «sempre più magro, coi capelli lunghissimi, un fagotto di poco più di trenta chili che imprecava contro quel pentito di suo padre che lo aveva abbandonato» venne spostato per mezza Sicilia, affidato a mafiosi che lo vedevano come un «impiccio». Poi dovette occuparsene Monticciolo, dopo aver costruito un bunker, nella casa di campagna dei Brusca, che potesse ospitarlo. Ma era la fine. Così il pentito ricorda l’ultimo viaggio: «Infransi la regola che mi impediva di aver rapporti col bambino e ci parlai. Ricevetti una lezione di dignità, non mi permise mai di oltraggiarlo. Ricordo che, bendato, sentì il mare e i profumi dei fiori. Mi chiese di poterli vedere e toccare. Non potevo accontentarlo. Al contrario, però, riuscii a fargli avere diverse riviste sui cavalli. Gli piaceva cavalcare. Quando arrivò l’ordine feci in modo che non dovessi essere io a stringere il laccio. Questo incubo continua a vivere con me».

da lastampa.it
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« Risposta #38 inserito:: Novembre 07, 2007, 11:27:05 am »

I verbali

Perugia, la verità di Amanda: lei era con Patrick e gridava

«Ero spaventata e mi sono tappata le orecchie»

 
PERUGIA — «Patrick e Meredith si sono appartati nella stanza di Meredith, mentre io mi pare che sono rimasta in cucina. Non riesco a ricordare quanto tempo siano rimasti insieme nella camera ma posso solo dire che a un certo punto ho sentito delle grida di Meredith e io spaventata mi sono tappata le orecchie. Poi non ricordo più nulla, ho una grande confusione in testa. Non ricordo se Meredith gridava e se sentivo anche dei tonfi perché ero sconvolta, ma immaginavo cosa potesse essere successo». È l'alba di ieri. Amanda Knox, l'amica americana di Meredith che con lei condivideva l'appartamento, racconta di aver assistito all'omicidio. Cede di fronte alle contestazioni dei poliziotti che l'accusano di aver mentito quando ha raccontato di essere uscita di casa alle 17 del primo novembre e di essere tornata soltanto la mattina dopo, quando è stato trovato il corpo straziato di Meredith. Il suo fidanzato Raffaele Sollecito è stato sentito qualche ora prima e ha già ammesso che quell'alibi è falso, pur negando di aver partecipato al delitto. Amanda capisce di non avere via d'uscita, però si ritaglia un ruolo marginale. Accusa Patrick Lumumba Diya di essere l'assassino. Il suo racconto è confuso, si capisce che la ragazza non dice tutta la verità. Ma il pm ritiene che le sue dichiarazioni siano comunque sufficienti per firmare il provvedimento di fermo anche nei confronti dei due uomini.


I «non ricordo» di Amanda

Il racconto della giovane statunitense comincia alle 5.45 di ieri mattina. «Voglio riferire spontaneamente quello che è successo perché questa vicenda mi ha turbata profondamente e ho molta paura di Patrick, il ragazzo africano proprietario del pub Le Chic dove lavoro saltuariamente. L'ho incontrato la sera del primo novembre dopo avergli mandato un messaggio di risposta al suo, con le parole "ci vediamo". Ci siamo incontrati intorno alle 21 al campetto di basket di piazza Grimana e siamo andati a casa mia. Non ricordo se la mia amica Meredith fosse già a casa o se è giunta dopo. Quello che posso dire è che si sono appartati». Entra nei dettagli, descrive il momento della violenza. Poi aggiunge: «Ho incontrato Patrick questa mattina (il 5 novembre ndr) davanti all'università per Stranieri e mi ha fatto alcune domande. Voleva sapere che domande mi erano state fatte dalla polizia. Penso che mi abbia anche chiesto se volevo incontrare i giornalisti, forse al fine di capire se sapevo qualcosa della morte di Meredith». Poi parla del fidanzato: «Non sono sicura se fosse presente anche Raffaele quella sera, ma ricordo bene di essermi svegliata a casa del mio ragazzo, nel suo letto, e che sono tornata al mattino nella mia abitazione dove ho trovato la porta aperta». I poliziotti della squadra mobile e dello Sco, il servizio centrale operativo, danno atto al termine del verbale che «la Knox si porta ripetutamente le mani alla testa e la scuote ». Scrive il pm nel provvedimento di fermo: «Il rapporto sessuale tra Meredith e Patrick deve ritenersi di natura violenta, considerato il contesto particolarmente intimidatorio nel quale si è svolto e nel quale la Knox deve ritenersi abbia dato comunque un contributo al Diya».

Le bugie del fidanzato

I tabulati telefonici esaminati dalla polizia postale si sono rivelati fondamentali per ricostruire gli spostamenti dei ragazzi. E per smentire quanto avevano sino ad allora affermato. Il primo ad ammettere di aver «raccontato un sacco di cazzate» è Sollecito. Il giovane viene convocato in questura alle 22.40 del 5 novembre, due sere fa. Dopo la scoperta del cadavere di Meredith era già stato interrogato, ma aveva detto di non sapere che cosa fosse accaduto: «Ero fuori con Amanda», si era giustificato. Ora capisce che la situazione è cambiata. E così decide di modificare anche la propria versione. Il verbale di Raffaele Sollecito comincia alle 22.40 di martedì. «Conosco Amanda da due settimane. Dalla sera in cui l'ho conosciuta lei ha cominciato a dormire a casa mia. Il primo novembre mi sono svegliato verso le 11, ho fatto colazione con Amanda, poi lei è uscita e io sono tornato a letto. L'ho raggiunta a casa sua verso le 13-14. C'era anche Meredith che è uscita frettolosamente verso le 16 senza dire dove andasse. Io e Amanda siamo andati in centro verso le 18 ma non ricordo che cosa abbiamo fatto. Siamo rimasti in centro fino alle 20.30 o 21. Io alle 21 sono andato da solo a casa mia, mentre Amanda ha detto che sarebbe andata al pub Le Chic perché voleva incontrare dei suoi amici. A questo punto ci siamo salutati. Sono andato a casa, mi sono fatto una canna, ho cenato, ma non ricordo che cosa ho mangiato. Verso le 23 mi ha chiamato sull'utenza fissa di casa mio padre. Ricordo che Amanda non era ancora tornata. Ho navigato al computer per altre due ore dopo la telefonata di mio padre e ho smesso solo quando Amanda è rientrata, presumibilmente verso l'1. Non ricordo bene come fosse vestita e se era vestita allo stesso modo di quando ci siamo salutati prima di cena. Non ricordo se quella sera abbiamo consumato un rapporto sessuale. La mattina successiva ci siamo svegliati verso le 10 e lei mi ha detto che voleva andare a casa a farsi una doccia e cambiarsi gli abiti. Infatti è uscita verso le 10.30 e io mi sono rimesso a dormire. Quando è uscita Amanda ha preso anche una busta vuota, dicendomi che le sarebbe servita per metterci i panni sporchi. Verso le 11.30 è ritornata a casa e ricordo che si era cambiata i vestiti. Aveva con sé la solita borsa». È a questo punto che, secondo Sollecito, Amanda gli avrebbe detto di essere preoccupata. «Mi ha raccontato — sostiene il giovane — che quando è arrivata a casa sua ha trovato la porta d'ingresso spalancata e tracce di sangue nel bagno piccolo. Mi ha chiesto se la cosa mi sembrava strana. Io gli ho risposto di sì e le ho consigliato di telefonare alle sue amiche. Lei mi ha detto di aver telefonato a Filomena (un'altra ragazza che abita nella casa dell'omicidio ndr), mentre ha detto che Meredith non rispondeva».

Il ritorno a casa

I due vanno insieme nell'appartamento. E così Sollecito ricostruisce quei momenti: «Lei ha aperto la porta con le chiavi e sono entrato. Ho notato che la porta di Filomena era spalancata con dei vetri per terra e la camera tutta in disordine. La porta di Amanda era aperta e invece era tutto in ordine. Poi sono andato verso la porta di Meredith e ho visto che era chiusa a chiave. Prima ho guardato se fosse vero quello che mi aveva detto Amanda sul sangue nel bagno e ho notato gocce di sangue sul lavandino, mentre sul tappetino c'era qualcosa di strano, una sorta di mista acqua e sangue, mentre il resto del bagno era pulito.... Il resto era in ordine. In quel mentre Amanda entrava nel bagno grande e usciva spaventata e mi abbracciava forte dicendomi che prima, quando aveva fatto la doccia, aveva visto delle feci nel water che invece adesso era pulito. Mi sono chiesto che cosa stesse succedendo e sono uscito per vedere se riuscivo ad arrampicarmi sulla finestra di Meredith... Ho cercato di sfondare la porta ma non ci sono riuscito e a quel punto ho deciso di chiamare mia sorella e mi sono consigliato con lei perché è un tenente dei carabinieri. Mi ha detto di chiamare il 112, ma nel frattempo è arrivata la polizia postale. Nel precedente verbale vi ho riferito un sacco di cazzate perché lei mi aveva convinto della sua versione dei fatti e non ho pensato alle incongruenze».

Fiorenza Sarzanini
07 novembre 2007

da corriere.it
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« Risposta #39 inserito:: Novembre 07, 2007, 11:30:10 am »

CRONACA

IL RETROSCENA. Amanda e il ricordo di quella notte.

Le accuse all'amico africano "Diya la voleva, io e Raffaele siamo andati in un'altra stanza..."

"Volevamo divertirci poi ho sentito le urla"

di CARLO BONINI


COSA è accaduto dunque tra la mezzanotte e le tre della notte tra l'1 e il 2 di novembre? Amanda Marie Knox racconta la morte di Meredith Kercher così. "Quella sera, volevamo divertirci un po'", dice. Lei, il suo ragazzo, Raffaele Sollecito, il congolese Diya Patrick Lumumba. "Abbiamo invitato anche lei a farlo". Diya "la voleva". "Io e Raffaele siamo andati in un'altra stanza. Poi ho sentito le urla...".

Lunedì notte, nell'ammettere la sua presenza sulla scena del crimine, nell'accusarne quale autore materiale Lumumba, Amanda Marie Knox consegna a chi la ascolta una sequenza di fatti che, a prescindere se o meno veri, accompagnata da un affollato quadro indiziario, consente di associare tre nomi a un reato da ergastolo. Ma la sua confessione, per quel che se ne può capire in queste ore, lascia monca la ricostruzione delle ultime ore di Meredith, il peso e la condivisione della responsabilità nella sua morte.

Amanda è una bugiarda. Per quattro giorni, non ha mai smesso di mentire. E forse, lo diranno le prossime ore, continua a farlo. Almeno in parte. La mattina in cui viene scoperto il cadavere di Meredith, si fa "sorprendere" dai vicini e dalla polizia mentre, "sconvolta" rientra in casa per "scoprire" cosa vi è accaduto in sua assenza. Quindi, per quattro giorni, si afferra ad un alibi di cartapesta, secondo cui avrebbe trascorso la notte del delitto fuori da casa, insieme al fidanzato Raffaele.

Quando poi Raffaele la contraddice e finisce con il sostenere che, in realtà, la notte del delitto lei e Amanda si sono separati, spiega di essere sì tornata nella casa che divideva con Meredith, ma di non ricordare nulla di ciò che era accaduto. "Avevo bevuto. Mi sono addormentata". Quindi, l'ammissione. "Lui (Lumumba) la voleva... Ho sentito le urla".

Giuliano Mignini, il pm incaricato di venire a capo del delitto, è un magistrato prudente. Sa che le parole di Amanda sono sufficienti a un fermo che fissa un primo punto in questa storia, ma non spiegano ancora tutto. Che saranno un'eccellente leva per stimolare la memoria di Raffaele Sollecito (che ha sin qui continuato a negare la sua presenza nella casa di Meredith e Amanda), mettendone alla prova le sue confuse dichiarazioni. Per chiedere conto a Lumumba (non ancora interrogato) dei suoi spostamenti di quella notte. Ma, appunto, sono parole che ancora non completano definitivamente il quadro.

Le circostanze acclarate dicono che l'ultima persona ad ascoltare la voce di Meredith prima che incontri i suoi assassini (o il suo assassino) è la madre, in Inghilterra. Meredith la chiama alle 21.30 del 1 novembre. È in casa (almeno così le dice), dove è rientrata dopo aver cenato dalla sua amica Sophie, con cui ha visto un film in dvd ("The notebook" di Nick Cassavetes).

Verosimilmente (la circostanza non è ancora accertata), Meredith in quel momento è sola. E soltanto dopo qualche ora la raggiungeranno Amanda, Raffaele e Diya. Qui, se Amanda dice il vero, le viene offerto di "divertirsi un po'". Qui, se Amanda dice il vero, Meredith resiste a Diya e, lontana dagli occhi dei due fidanzati, paga con la morte. Tra la mezzanotte e le tre del mattino, secondo il referto medico-legale. Più probabilmente, intorno alla mezzanotte.

La posizione del cadavere, l'assenza apparente di segni di trascinamento, le tracce di sangue concentrate nelle immediate vicinanze del corpo, lasciano pensare a chi lavora all'indagine che Meredith venga uccisa nella sua stanza, ai piedi del letto. Esattamente dove verrà ritrovata il mattino successivo. Stando all'esame autoptico, prima di morire, ha avuto un rapporto sessuale non consenziente.

L'assassino (o gli assassini) l'hanno quindi uccisa con un colpo di "arma da taglio e punta" inferto al collo, da sinistra verso destra e ne hanno quindi ricoperto il corpo seminudo con un piumone, prima di richiudersi la porta della sua stanza alle spalle, assicurandola con alcune mandate di una chiave di cui si libereranno. Al pari dell'arma.

Per gli investigatori, a prescindere dalle parole di Amanda, quel che accade di lì in avanti sarebbe "ragionevolmente provato" da indizi di natura scientifica e tecnica. Prima di lasciare la casa, l'assassino (o gli assassini) simulano goffamente un tentativo di furto, sfondando il vetro di una delle porte-finestra con una pietra che sarà ritrovata nel salotto. Forse (ma questo lo potranno dire solo esami scientifici ancora in itinere) abbozzano una "ripulitura" della scena del crimine.

Quindi, una volta fuori della colonica, si liberano dei due cellulari di Meredith scagliandoli nel giardino di una villetta distante meno di un chilometro (l'esame delle impronte sui due apparecchi è risultato impossibile perché maneggiati da troppe mani dopo il loro ritrovamento da parte della padrona della villa).

Poi, si separano. Il traffico dei tabulati telefonici tra le tre utenze (Amanda, Raffaele e Diya) nelle ore immediatamente successive al delitto, sembra indicare che i due fidanzati si riuniscono, mentre Lumumba prende un'altra strada. In ogni caso - sostiene un investigatore - quelle chiamate provano la falsità degli alibi inizialmente forniti da Amanda e dal fidanzato Raffaele.

Nell'appartamento, la polizia scientifica, insieme al sangue, ha individuato alcune decine di impronte e sta lavorando all'individuazione di possibili tracce di liquido seminale che verranno presto incrociate con campioni biologici prelevati dai fermati. Potranno aiutare a stabilire se Amanda ha cominciato a dire la verità o ne continua ad occultare parte significativa.


(7 novembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #40 inserito:: Novembre 20, 2007, 06:53:59 pm »

ULTIMO MINUTO - CRONACA

Ballarò: "I Savoia chiedono 260 milioni

E' il risarcimento per i 54 anni di esilio"


ROMA - I Savoia chiedono 260 milioni di euro allo Stato italiano. 170 milioni di euro è la richiesta di Vittorio Emanuele; 90 milioni quella di suo figlio Emanuele Filiberto, più gli interessi. Vogliono il risarcimento dei danni morali per i 54 anni di esilio. Inoltre i Savoia vogliono la restituzione dei beni confiscati dallo Stato al momento della nascita della Repubblica Italiana. Lo rivela un servizio che andrà in onda questa sera su Rai Tre a Ballarò.

La famiglia Savoia "ha chiesto ufficialmente i danni al Governo Italiano", anticipa la redazione del programma televisivo. "La richiesta è arrivata circa 20 giorni fa con una lettera di sette pagine inviata al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e al presidente del Consiglio Romano Prodi dai legali dei Savoia Calvetti e Murgia. Tra i motivi della richiesta di risarcimento illustrati nella lettera e spiegati da Emanuele Filiberto in un'intervista all'interno del servizio ci sono - spiega la redazione del programma - "i danni morali dovuti alla violazione dei diritti fondamentali dell'uomo stabiliti dalla Convenzione Europea per i 54 anni di esilio dei Savoia sanciti dalla Costituzione Italiana".

"Secca la replica del governo attraverso il segretario generale della presidenza del consiglio Carlo Malinconico che spiega -conclude la redazione di Ballarò. "Il Governo non solo non ritiene di dover pagare nulla ai Savoia, ma pensa di chiedere a sua volta i danni all'ex famiglia reale per le responsabilità legate alle note vicende storiche".

(20-11-2007)

da repubblica.it
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« Risposta #41 inserito:: Dicembre 01, 2007, 11:13:03 pm »

Indagine della Finanza: in 40 anni di attività nessun contratto regolare, falsificati anche i timbri per le registrazioni

"Il re del mattone ha evaso 6 milioni"

Alessandro Cori


Il costruttore Sergio Brusori affittava in nero 256 immobili

Gli agenti della Gdf hanno censito 115 case e 135 uffici fra Bologna e provincia  Appartamenti per studenti, magazzini utilizzati da stranieri e intere palazzine abitate da famiglie. Tutti immobili rigorosamente in affitto e tutti rigorosamente in nero. Secondo la Guardia di finanza, a gestire le proprietà, sparse tra Bologna e provincia, c´era una sola famiglia che a partire dagli anni ‘60, mattone dopo mattone, ha tirato su un vero e proprio impero sconosciuto all´erario: ben 256 immobili per un´evasione totale di 6,5 milioni di euro, solo dal 2003 ad oggi. Per alcuni di questi immobili il contratto non era mai stato registrato, per altri era stata depositata una documentazione falsa.

Quando, a marzo, le Fiamme gialle si sono imbattute in due capannoni industriali (affittati a cinesi clandestini) di proprietà della stessa persona, hanno avuto qualche sospetto e hanno deciso di fare accertamenti. Mano a mano che le indagini andavano avanti quello che emergeva è sembrato sempre più sorprendente perfino agli agenti. La famiglia proprietaria dei due capannoni possedeva, oltre a quelli, più di 250 immobili: la maggior parte li aveva costruiti il capofamiglia, il 72enne Sergio Brusori, con la sua impresa edile chiusa poi a metà degli anni ‘90. Nessun appartamento di lusso, auto di grossa cilindrata o yacht parcheggiati all´estero, i Brusori non hanno mai dato nell´occhio, a loro "bastava" il mattone. A carico di Sergio Brusori, pende anche una accusa di sfruttamento della prostituzione, per fatti risalenti al 1997. Anche allora, come in questo caso, nella vicenda furono coinvolte le figlie.

Degli immobili in "nero" finora scoperti, sono 115 gli appartamenti a uso abitativo, alcuni a Bologna (via San Gervasio, via dei Lapidari, via Dallino) ma molti di più quelli in provincia. Altri 135 invece, ad uso ufficio, si trovano soprattutto ad Argelato. Basti pensare che a Funo ci sono strade intere in cui tutti i magazzini sono di proprietà dei Brusori.

Le verifiche fiscali effettuate dalla Guardia di finanza sulla famiglia hanno rivelato che nelle dichiarazioni dei redditi c´erano unicamente le rendite catastali degli immobili: che si aggiravano intorno ai 40-50 mila euro a testa. Uno sproposito. Questo ha fatto scoprire l´incredibile numero di proprietà, poi risultate quasi tutte affittate in nero. E, in quei pochi casi in cui un contratto c´era (27 su 250) era stato falsificato il timbro e dichiarato una cifra fasulla. Dagli accertamenti fatti finora, le fiamme gialle parlano di un reddito complessivo evaso, da parte dei componenti della famiglia, di almeno 6 milioni e mezzo di euro. A cui sono da aggiungere 200 mila euro evasi per il mancato pagamento dell´imposta di registro e quelli relativi all´Ici, ancora da quantificare ma certamente «decine di migliaia di euro» dice il colonnello della Gdf Gianfranco Frisani. Nei pochi casi in cui la famiglia Brusori aveva depositato un contratto di affitto, aveva provveduto a falsificare il timbro di registrazione del contratto e anche il modulo F23, che serve per il versamento dell´imposta di registro, pagata al 50% dall´inquilino.

I finanzieri, coordinati nelle indagini dal pm Enrico Cieri, hanno accertato questo "mondo sommerso" bussando alla porta di ciascuno dei 256 immobili e facendo compilare agli inquilini il questionario relativo agli affitti in nero. Ora i quattro componenti della famiglia (padre, madre e due figlie), più un genero, sono stati denunciati per dichiarazione fiscale infedele e falsificazione di impronta di pubblica certificazione.

(30 novembre 2007)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #42 inserito:: Gennaio 14, 2008, 12:55:49 pm »

CRONACA

Cecilia Carreri, magistrato a Vicenza, in permesso per sei mesi a causa di un forte mal di schiena, partecipava a gare estreme in barca a vela

Malata per il tribunale, era in regata giudice punita col trasferimento

Il Csm le ha tolto un anno di anzianità e l'ha spostata d'ufficio

Ha detto che lo sport le era stato prescritto come cura

 
ROMA - In ufficio non poteva andare per un mal di schiena talmente forte da impedirle di stare addirittura seduta. In barca vela, però, riusciva a muoversi con disinvoltura tanto da partecipare a una difficile regata in preparazione di una transaoceanica. Cecilia Carreri, giudice per indagini preliminari in servizio a Vicenza, è stata "condannata" dalla sezione disciplinare del Csm a una sanzione tutto sommato lieve: la perdita di un anno di anzianità e il trasferimento ad altro ufficio.

La vicenda risale al 2005 ed è arrivata al Consiglio superiore della magistratura grazie a un rapporto del presidente della Corte d'appello competente che raccontava come la collega si fosse "assentata dall'ufficio a più riprese e per periodi molto lunghi per motivi di salute" ma che tutto ciò non le aveva impedito di "svolgere 'attivita' fisica altamente impegnativa". Quindi il Pg della Cassazione Mario Delli Priscoli aveva promosso il procedimento contestando alla donna di aver "gravemente mancato ai propri doveri".

Nel 2005, la skipper con la toga aveva goduto prima di 45 giorni, poi di sei mesi di aspettativa per ragioni di salute, dal 26 febbraio al 26 agosto. Ma tra luglio e agosto di quell'anno aveva partecipato, a bordo di "Mare verticale" alla Rolex Fastnet race, una gara tra le imbarcazioni di altura che si disputa al largo delle coste della Gran Bretagna e che è preparatoria della transoceanica Transat Jacques Vabre. Una circostanza impossibile da negare, visto che della presenza del giudice-skipper dava conto il diario di bordo scaricato da un sito Internet, con tanto di foto e di un suo pensiero. Ma non era bastato. Dal 30 agosto al 28 ottobre il magistrato con la passione della vela aveva preso un ulteriore periodo di aspettativa per malattia, al termine del quale aveva partecipato in congedo ordinario alla transoceanica. La sua presenza a quest'ultima regata aveva avuto una "vasta eco" sulla stampa nazionale e locale e persino sul quotidiano francese "Liberation". Delle sue avventure estreme, in mare, in montagna, anche in solitaria, esiste in rete abbondante documentazione. Cecilia Carreri ha anche un bel sito nelle quali le racconta e ne ha scritto almeno un libro intitolato, appunto, "Mare verticale".

Lei, però, raggiunta telefonicamente dall' Ansa, dice: "Non sono io. Non mi riconosco in quella notizia. Ma se se vuole parliamo di vela e di alpinismo. La regata transoceanica che ho fatto l' ho compiuta in un periodo di ferie accordato dal presidente del Tribunale. Il ritorno mediatico che c'è stato è stato solo un fatto positivo che ha dato onore e prestigio alla magistratura".

Tutto ciò, però, aveva provocato "disagio" e "commenti critici" tra i colleghi e gli avvocati del suo distretto, quantomeno sorpresi dal fatto che il giudice-skipper avesse potuto partecipare a una "prova così fisicamente impegnativa" dopo 9 mesi di congedo per malattia.

Invano davanti al Csm, la Carreri si è difesa spiegando che attività sportive di una certa difficoltà e di livello elevato le erano state "caldamente prescritte" per la sua patologia e che in ogni caso le sue assenze non avevano determinato alcun disservizio. "Le fatiche sportive, sicuramente, non sono state oggetto di prescrizioni mediche" l'ha contraddetta il Csm, citando i suoi stessi certificati medici. Nessun dubbio, dunque, sulla sua colpevolezza: "Nel partecipare alle regate veliche nei periodi di aspettativa concessi per motivi di salute ha violato i doveri di correttezza". Ma non solo: la grande eco data alla sua partecipazione alla regata "ha determinato indubbiamente un grave danno alla immagine del magistrato e alla credibilità dell'istituzione giudiziaria".

(13 gennaio 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #43 inserito:: Gennaio 20, 2008, 04:48:53 pm »

Strage di Erba

Rosa Bazzi: «Vedo il fantasma di Raffaella»

Frasi da brivido nei pizzini di Olindo: «Avevi tutto e ci hai rovinato. Che cosa vuoi ancora da noi?»
 
 
COMO – A volte ritornano.
Rosa Bazzi ha confessato al marito Olindo Romano, in un colloquio avvenuto nel carcere di Como dove i due sono rinchiusi per aver sterminato la famiglia di Azouk Marzouk, che di notte Raffaella viene a trovarla.

O meglio, non proprio Raffaella, ma il fantasma della donna massacrata in casa dalla coppia di vicini.


DICE CHE ABBIAMO FATTO BENE - «Oggi a colloquio con la mia vita – Olindo chiama così, “la mia vita”, la moglie Rosa Bazzi – mi ha raccontato che sono alcune notti che vede Raffaella davanti alla sua branda, come quella sera, con il sangue che le scende sul volto e i colpi che io le ho inferto quando la uccidemmo. Le ha detto che abbiamo fatto bene a uccidere».

Sono frasi da brivido quelle che Olindo Romano scrive nei suoi «pizzini», trovati in una Bibbia e ora nelle mani del sostituto procuratore Massimo Astori, che si prepara all'apertura del processo prevista per il 29 gennaio.


L’INCUBO - In uno di quei messaggi descrive l'incubo che sua moglie avrebbe raccontato nel maggio scorso. «Raffaella vaga tra i due mondi nel vento finché anche lei non troverà la sua pace. Noi ti sentiamo. Ti abbiamo perdonato. Siamo pentiti anche se non completamente. Un giorno ti perdoneremo con tutto l'amore dei nostri cuori. Ci hai rovinato la vita e il resto della nostra esistenza. Dicci cosa vuoi, noi te lo daremo affinché tu possa trovare la pace. Avevi tutto e ci hai rovinato. Che cosa vuoi ancora da noi che stiamo scontando le nostre pene per causa tua e della tua famiglia?
Anche per noi verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Raffaella».


20 gennaio 2008

da corriere.it
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« Risposta #44 inserito:: Gennaio 21, 2008, 12:29:56 pm »

In Florida è Caccia al serial killer.

I volti delle vittime ricostruiti da una scultrice

Il mistero degli 8 scheletri nel bosco

I cadaveri appartengono a uomini uccisi dalla fine degli anni Ottanta al Duemila. Ora due hanno un nome


ST. PETERSBURG (Florida) — Arcadia Street porta fino ad un boschetto fitto, chiuso tra la zona industriale di Fort Myers e l'autostrada. Una zona poco frequentata, terreno di scambio tra malavitosi e deposito di resti di animali. Alle 10.30 del 23 marzo di un anno fa, un funzionario incaricato di eseguire un sopralluogo si inoltra fra gli alberi. Fa due passi e scorge «qualcosa» che spunta tra le foglie. Un altro passo. Il «qualcosa » gli buca lo stomaco: è un teschio. E non sarà l'unico. Prima del tramonto la polizia scopre i resti scheletriti di almeno otto individui. La Omicidi chiede aiuto alla Scientifica, convoca specialisti, ingaggia periti che hanno lavorato sulle vittime dell'11 settembre. Ad un antropologo forense è affidato il compito di «leggere le ossa», ad un botanico l'analisi del terreno, all'unità «scomparsi » l'esame delle denunce.

Passano i mesi prima che la polizia arrivi alle prime conclusioni. Le persone sono state assassinate tra la fine del 1980 e il 2000. Sono di razza bianca o ispanica; tutti, con l'eccezione di uno, hanno una buona dentatura; la loro età è compresa tra i 20 e i 40 anni. Non c'è traccia di vestiti né di un anello o di una collanina. Nulla che possa fare da gancio per l'inchiesta, affidata ai sergenti Jennifer De Soto e Barry Lewis. La polizia, come spesso accade nei casi freddi, si affida ai miracoli del laboratorio e all'aiuto dei cittadini. Vengono lanciati appelli in tv, si spera che qualche parente di scomparso si faccia vivo. Sarà il test del Dna a confermare l'esistenza di un legame. È così che il sergente De Soto arriva al primo break nell'indagine.

A novembre la Scientifica conferma che due degli scheletri appartengono a Erik Kohler e John Bevlins, due ventenni scomparsi nel 1995. Non si conoscevano tra loro, l'unico punto in comune una vita da vagabondi, tra denunce e piccoli crimini. Avevano rotto i ponti con la famiglia, nessuno li cercava. Li ha invece trovati l'assassino. Il profilo delle prime due vittime e la cattiva dentatura di uno degli scheletri spinge i poliziotti a pensare che il killer abbia scelto i suoi obiettivi tra quanti vivono al margine della società. Prede facili. Ma è solo un'ipotesi, lontana comunque dalle voci in città che parlava di Arcadia Street come del «cimitero della mafia».

In passato, una famiglia di Cosa Nostra aveva scaricato i corpi dei nemici eliminati in un boschetto. Una teoria che affascina ancora l'addetto alla stazione di servizio. Per lui gli otto «sono tizi che hanno combinato qualche guaio con le persone sbagliate». I sospetti che salgono dalla strada non distraggono il sergente De Soto da altre piste. Una è quella che porta al «sentiero del maiale selvatico». Sembra il titolo di una favola è invece la storia truce di un serial killer, Daniel Conahan, in prigione per l'uccisione di un giovane. Gli inquirenti non escludono che sia coinvolto in almeno altri cinque omicidi che presentano analogie con la vicenda degli scheletri. E una mancata vittima è stata trascinata da Conahan in una zona boscosa vicina ad Arcadia Street.

Il presunto killer ha sempre respinto ogni accusa denunciando di essere perseguitato perché gay. Inoltre alcune delle vittime sarebbero state assassinate dopo la sua cattura. Senza un vero sospetto la polizia si è rivolta, per la seconda volta, all'opinione pubblica. Venerdì sono stati mostrati i volti, ricostruiti da una scultrice forense del Wyoming, dei sei scheletri ancora da identificare. Sei teste senza corpo che colpiscono per la loro eccessiva somiglianza. L'angosciante passerella è finita, sabato sera, nella popolare trasmissione dedicata ai super ricercati d'America. La ballata degli scheletri continua.

Guido Olimpio
21 gennaio 2008

da corriere.it
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