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Autore Discussione: Stefano FOLLI. -  (Letto 100550 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Marzo 15, 2014, 08:09:27 am »

Il premier alla verifica della Merkel con l'esigenza di un'altra Europa

di Stefano Folli
14 marzo 2014

È superfluo notare che l'attesa è ora per l'imminente incontro a Berlino fra Renzi e la cancelliera Merkel. Preceduto, va ricordato, da un colloquio a Parigi con Hollande da non sottovalutare. Perché il nostro premier, se vuole essere credibile nel ruolo che si è scelto (l'uomo che corregge e forse scardina l'austerità tedesca) ha bisogno quantomeno di alleati.

Ne ha bisogno, ma è poco plausibile che li trovi da un giorno all'altro. Per ragioni storiche e politiche. Se non altro, il neo premier italiano dovrà prima dimostrare di saper rilanciare l'economica in casa propria. Dovrà, per così dire, conquistare l'Europa con la bontà delle sue ricette che un noto esponente della vecchia sinistra, Fausto Bertinotti, definisce "social-liberiste" (e pazienza per la sfortunata assonanza con i "social-fascisti" contro cui si scagliava Stalin, ossia i socialdemocratici che non si piegavano a Mosca: di Bertinotti non si può certo dire che abbia nostalgie staliniste).

In altre parole, al di là di qualche frase di circostanza a Parigi, Renzi sa di doversi presentare alla Merkel armato solo della propria simpatia. In termini politici la svolta italiana può suscitare attenzione e persino qualche applauso di incoraggiamento; ma non fino al punto di fare del nostro presidente del Consiglio, da un giorno all'altro, il leader dell'Europa mediterranea contrapposta all'Europa nordica. Il solo pensarlo sarebbe ingenuo. Purtroppo tale impossibilità rende ancora più fragile la posizione di Roma: quella che un editoriale del Financial Times elogia parlando di un premier che «inizia a invertire la rotta delle politiche dell'austerity». Questa sembra la linea anche oltreoceano. Tutto ciò che contribuisce ad alzare il coperchio della strana scatola in cui è custodito lo spirito dell'Unione secondo l'ottica della Merkel, è benvenuto. L'opposto di quello che hanno pensato e pensano, almeno fino a oggi, i tedeschi. Ecco perché il viaggio di Renzi a Berlino assume un particolare significato. I due precedenti premier italiani nella fase post-berlusconiana, Monti ed Enrico Letta, non incontrarono certo la Merkel con l'idea di contestarne i princìpi, forse perché si sentivano interpreti di un'idea classica del rapporto con l'Europa.

Con Renzi tutto cambia, se vogliamo dar credito a quello che vediamo e sentiamo. Renzi ha spezzato una lancia a favore degli Stati Uniti d'Europa, la vecchia posizione federalista che riconduce ad Altiero Spinelli ed è stata per anni la bandiera italiana nella Comunità, prima di essere abbandonata in nome del realismo. Oggi Renzi torna a utilizzarla per distinguersi dall'Europa a guida tedesca. Il che getta nuova luce sul piano anti-crisi esposto mercoledì a Palazzo Chigi. Perché quel progetto, per essere credibile, ha bisogno di un'Europa diversa, non più legata all'ideologia dell'austerità e non più succube del dogma dei parametri (a cominciare, si capisce, dal 3 per cento in rapporto al deficit).

Renzi vorrebbe uscire dalla gabbia teutonica, ma ovviamente non può: nel senso che in solitudine non è in grado di fare quasi nulla. Non può nemmeno rischiare di apparire velleitario; o peggio di essere punito dall'Unione per aver violato i trattati. Certo, l'idea di Europa che Renzi ha in mente piacerebbe agli americani come piace agli inglesi; ma la tradizione della nostra politica europea (interrotta in parte solo da Berlusconi) va proprio nel senso opposto, tende all'intesa stretta con la Germania e con la Francia. Vedremo lunedì a Berlino cosa farà il premier. Se si limiterà a spiegare alla Merkel le misure economiche, sperando di ottenerne la benevolenza. Ovvero se metterà sul tavolo, con il coraggio un po' incosciente che non gli manca, la prospettiva di un'Europa che percorre un'altra strada, più solidale e volta all'integrazione politica.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

DA - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-03-14/il-premier-verifica-europea-071452.shtml?uuid=AB5Uaz2
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« Risposta #151 inserito:: Marzo 24, 2014, 05:15:15 pm »

I tagli alla politica: la priorità di Renzi non è l'Europa ma il fronte interno

Di Stefano Folli
22 marzo 2014

Non è del tutto chiaro cosa voglia dire in concreto la nuova frase-slogan che riassume il nostro rapporto con l'Europa: «né conflitti né sudditanza». Ricorda un po' il «non aderire né sabotare» del partito socialista alla vigilia della prima guerra mondiale, di cui ricorre appunto il centenario. Come è noto, non fu un'espressone fortunata nella sua ambiguità. Venne spazzata via nel grande incendio continentale e l'alternativa che si pose fu molto secca: o aderire, combattendo la guerra fino ai limiti estremi, o sabotarla come faranno i bolscevichi.

L'Europa di oggi non è forse alle soglie di un incendio, quanto meno non ancora, tuttavia Matteo Renzi dovrà presto decidere quale strada imboccare. Restare al «né né» rischia di essere alla lunga controproducente e di consegnare l'Italia all'irrilevanza. Almeno fino a quando non saranno realizzate le grandi riforme economiche e istituzionali alle quali il presidente del Consiglio si è impegnato anche in Europa.

A breve invece il problema non è così grave. In fondo a Bruxelles il premier ha badato a proseguire la sua campagna elettorale contro le forze anti-europee in vista del voto di maggio. Nelle conferenze stampa aveva necessità di tenere i toni alti per intercettare il malcontento euroscettico in patria: e quindi niente «sudditanza». Poi nei colloqui a porte chiuse con i vertici dell'Unione, al di là di qualche inevitabile screzio, è prevalso il realismo: e dunque niente conflitti. Di tutto il resto si parlerà dopo il 25 maggio con un nuovo Parlamento e, appena possibile, una nuova Commissione. Fermo restando che il peso italiano è limitato fino al varo delle famose riforme; e che il futuro dell'Europa è saldamente nelle mani della Germania e dei suoi stretti alleati.

In altri termini, la priorità di Renzi oggi non è l'Europa, da cui c'è poco da cavare, bensì il fronte interno. Qui la battaglia è appena agli inizi: come si capisce anche dall'incrinatura consumata con Cottarelli. La frattura viene motivata dal premier con l'intenzione di non avallare il taglio alle pensioni, ma la sostanza sembra essere un'altra. È molto difficile dare una piena copertura politica all'analisi tecnica del commissario. Ed è ancora più difficile tradurre in pratica i risparmi di spesa prospettati. Infatti già si afferma che le cifre da recuperare nel triennio, così come Cottarelli le ha messe in fila, sono eccessive.

Per meglio dire, sono cifre «pre-politiche» che logicamente non tengono conto del sentiero stretto lungo cui si muovono il governo, il Parlamento e, perché no, i sindacati. D'altra parte, era uno scenario prevedibile fin dall'inizio. Ora Renzi dovrà mostrare la sua qualità politica individuando una sintesi originale fra le contraddizioni nelle quali è costretto a navigare. Il suo gradimento personale nei sondaggi è sempre alto, ma è legato all'idea che di lui si è formata l'opinione pubblica: un grande risolutore dei problemi aperti, dotato quasi di un tocco magico. Non è un caso se i suoi avversari, assai più dei suoi amici, lo attendono al varco per vedere quali promesse il premier fiorentino riuscirà a mantenere.
Peraltro l'uomo è fortunato. Anche nei paradossi. La ribellione dell'amministratore delle ferrovie, Moretti, al taglio del suo stipendio di grande manager finisce per favorire Renzi. Incrocia il suo ostentato populismo "compassionevole", lo aiuta in campagna elettorale. Poi si vedrà.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-03-22/i-tagli-politica-priorita-renzi-non-e-europa-ma-fronte-interno-081704.shtml?uuid=ABLG1r4
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« Risposta #152 inserito:: Aprile 11, 2014, 11:18:20 pm »

Epilogo scontato, male minore

Di Stefano Folli
11 aprile 2014

Sarà anche una «giornata infausta per la democrazia», come dice Maria Stella Gelmini, ma in fin dei conti Berlusconi ha limitato i danni. L'affidamento ai servizi sociali, soluzione per la quale manca solo il suggello definitivo del tribunale, significa in pratica che il leader di Forza Italia presterà la sua opera per circa dieci mesi, in maniera molto blanda e comoda, presso un centro anziani vicino a Milano. Tutto secondo le previsioni.

S'intende che Berlusconi sfrutterà, per quanto è possibile, l'eco delle sue disavventure giudiziarie nell'imminente campagna elettorale.

Campagna alla quale egli potrà partecipare in misura limitata, a meno che non ottenga qualche deroga "su misura". Peraltro i margini di libertà personale garantiti dai servizi sociali sono piuttosto rilevanti se paragonati al nulla assoluto degli arresti domiciliari. Non siamo alla famosa "agibilità politica" che il condannato Berlusconi ha reclamato a gran voce quasi fosse un suo diritto, ma certo egli viene trattato con un occhio di riguardo. Dopo anni di processi, sentenze appellate, condanne confermate fino alla Cassazione, ecco che all'improvviso la pena si ammorbidisce e diventa quasi una formalità. Di fatto si è riconosciuto all'ex presidente del Consiglio una sorta di "status" particolare derivante dal suo essere un uomo pubblico, anzi un protagonista per vent'anni della scena nazionale. Nei limiti concessi dal codice e dalle consuetudini, non si è voluto infierire su un uomo già molto provato.

Che egli si lamenti e si consideri vittima di una sovrana ingiustizia, è comprensibile. Che il capogruppo Brunetta lo paragoni alla dissidente birmana Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace, è già più singolare. Di sicuro l'epilogo della vicenda era ormai scontato e tutti adesso sembrano recitare un po' una parte in cui non credono realmente. Del resto la notizia è stata accolta con una certa indifferenza dell'opinione pubblica. Altri fatti premono e i riflettori oggi sono accesi sul nuovo astro Renzi, o magari sul duello fra lui e il solito Grillo.

Questo vuol dire che, esclusa una cerchia piuttosto estesa di fedeli, seguaci e militanti intransigenti, nella percezione della gente il personaggio Berlusconi appartiene al passato. Alle elezioni può ancora raccogliere voti (non lui direttamente bensì il partito, se riuscirà a non frantumarsi), ma l'onda della sua storia si esaurisce qui. Ed il primo a rendersene conto è proprio lui, anche se non sopporta di sentirselo dire. Quindi la domanda da porsi riguarda, ma non da oggi, le conseguenze a breve termine del nuovo scenario sugli equilibri di governo e sugli assetti generali della politica.

La risposta è: scarse conseguenze. Il patto Renzi-Forza Italia era già alquanto sfilacciato e tale resterà. Ma nessuno lo spezzerà e dunque il cammino delle riforme proseguirà, sia pure fra ostacoli che sono manifesti e che non riguardano solo le convulsioni del centrodestra, bensì anche il malessere dentro il Pd. Niente di irrisolvibile, ma non c'è da illudersi circa un percorso trionfale in Parlamento. Si andrà avanti a fatica, ma si andrà avanti: magari con qualche compromesso sul Senato e sulla legge elettorale. Sulla politica economica invece il centrodestra cercherà di distinguersi e di non lasciare tutto lo spazio a Renzi. Aspettiamoci crescenti polemiche sul Def.

Per quanto riguarda gli assetti di Forza Italia, invece, siamo all'anno zero. Può esistere un berlusconismo senza Berlusconi che non sia solo piatta nostalgia senza prospettive? No, con ogni probabilità. E le incognite nascono proprio dalla mancata creazione di un vero gruppo dirigente. Così, nel terrore di perdere ogni identità, i più si aggrappano al vecchio leader, al nome nel simbolo, "al suo DNA che è dentro Forza Italia", come dice Toti. Ma è un po' poco per guardare all'avvenire.

©RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2014-04-11/epilogo-scontato-male-minore--080917.shtml?uuid=ABIt089
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« Risposta #153 inserito:: Aprile 16, 2014, 06:02:38 pm »

Se questo è un leader

di Stefano Folli
15 aprile 2014

Se è vero che per un attore, soprattutto un attore comico, i "tempi" in scena sono tutto, non si può dire che stavolta Beppe Grillo sia stato professionale. L'urgenza di cavalcare l'onda della campagna elettorale lo ha indotto a inoltrarsi lungo un sentiero molto pericoloso.
Si capisce perché. Usare i temi dell'Olocausto come piedistallo per attaccare il presidente della Repubblica, il capo del governo e in genere i partiti avversari, è già un azzardo incomprensibile.

Ma farlo nel giorno in cui la comunità ebraica italiana piange una figura storica come Emanuele Pacifici, è peggio di una sciocchezza: è un errore. Vuol dire aver mancato i "tempi" in misura clamorosa. S'intende che a Grillo tali osservazioni non interessano. Quel che gli preme è occupare il palcoscenico mediatico e creare scandalo nel giorno in cui sospetta, non a torto, che l'attenzione sarà tutta per Renzi grazie alle nomine nei grandi enti. Quindi avanti senza risparmio con la spregiudicatezza. La domanda è: c'è dell'antisemitismo sotto traccia, magari inconscio, in questa incapacità di rispettare la sensibilità altrui su un territorio immenso e sconvolgente come la "shoah"? Forse sì, ma c'è prima di tutto una discreta confusione mentale.
Grillo è l'uomo che più volte ha condiviso alcuni spunti "negazionisti", volti a sminuire o addirittura smentire l'esistenza storica dell'Olocausto ebraico. Sembra che anni fa fosse molto attento agli argomenti dell'ex presidente iraniano Ahmadinejad, nonché alle ragioni della sua politica verso Israele. Era stato il suocero iraniano ad avvicinarlo a queste tematiche.

La sostanza è che il leader dei Cinque Stelle non si ferma davanti a nulla quando c'è da rincorrere l'opinione pubblica. E nel suo messaggio, inutile negarlo, l'eco degli antichi complotti pluto-giudaico-massonici è tutt'altro che spenta, sebbene declinata in forma moderna. Del resto, Marine Le Pen si avvia a conquistare un eccezionale risultato elettorale in Francia proprio rendendo più attuale e quindi accettabile l'armamentario ideologico della vecchia destra francese legata agli stereotipi di Vichy. E in Inghilterra un certo Nigel Farage, come è noto, sta mettendo in crisi i conservatori rispolverando l'orgoglio insulare e autoreferenziale delle isole britanniche.
Grillo non va per il sottile se si tratta di coinvolgere tutti gli scettici che il 25 maggio potrebbero fare la differenza. Scettici non solo verso la moneta unica europea: anche contro i governi, le istituzioni, i patti politici visti come altrettanti inganni. Il messaggio grillino si scaglia contro qualsiasi tentativo di salvare il sistema, razionalizzarlo, riformarlo. Renzi è il principale bersaglio polemico, persino più di Napolitano, perché è da lì che viene oggi la vera minaccia all'espansione a cinque stelle.

E allora ecco che i toni s'inaspriscono sempre più e si cerca la trasgressione verbale, l'uscita scandalosa e intollerante che provoca polemiche. È "fascismo", tutto questo, come molti obiettano? È il riemergere di pulsioni anti-ebraiche? Probabilmente è tutto e il contrario di tutto, in una generale caduta dei freni inibitori. Grillo sfrutta temi laicamente sacri, come la "shoah", riscrive Primo Levi e ritocca le foto di Auschwitz così come pochi giorni fa irrideva ai valori dell'unità d'Italia e di fatto inneggiava alla secessione. Quel giorno pensava di fare lo sgambetto alla Lega, ieri di imporsi fra quanti disprezzano sempre e comunque la democrazia. Vuol dire che la partita del 25 maggio è aperta. A quanto pare, per rimontare i punti che lo dividono da Renzi (una decina) e per sedurre gli elettori che abbandonano Berlusconi, ogni arma per Grillo è lecita.

Da - ILSOLE24ORE
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« Risposta #154 inserito:: Aprile 28, 2014, 12:03:47 pm »

La fiducia copre i dissensi ma rivela i limiti dell'intesa fra Renzi e i centristi

di Stefano Folli
23 aprile 2014

La fiducia posta dal governo Renzi sul decreto lavoro non è una buona notizia per la maggioranza. Indica che la coesione interna lascia a desiderare, al punto che il presidente del Consiglio deve ricorrere all'arma assoluta: il voto di fiducia, appunto, che da un lato spazza via dal tavolo i distinguo; ma dall'altro rivela le fragilità politiche della coalizione. Si dirà che le cose non sono così drammatiche.

Come ha detto il ministro dell'Economia, i ritocchi apportati al provvedimento non sono tali da stravolgerne l'impianto e del resto tutti sono in campagna elettorale, anche il Nuovo centrodestra di Alfano. In altri termini, sta accadendo quello che era facile prevedere.

Nelle prime settimane di governo i centristi erano fin troppo appiattiti sulle posizioni di Renzi e oggi vogliono rimediare. Peraltro il premier ha rivelato un'eccezionale capacità di far propri idee e spunti in grado di accreditarlo presso i ceti più moderati. Questo ha messo in difficoltà gli amici di Alfano. Ma perché stupirsi? Renzi vuole essere il Tony Blair italiano ed è logico che intenda acquisire i consensi del centro o del centrodestra allo stesso modo in cui il suo modello inglese ereditò i voti della Thatcher. Nella logica renziana lo spazio politico ed elettorale di Alfano è destinato a esaurirsi e solo le esigenze di coalizione inducono il premier a un certo rispetto verso l'alleato. Ora però l'Ncd ha trovato la sua piccola rivincita, dal momento che sul lavoro Palazzo Chigi ha dovuto pagare qualche prezzo all'ala sinistra del Pd e al sindacato. Come detto, niente di realmente clamoroso. Non ci sono rischi di crisi, eppure il voto di fiducia testimonia se non altro il venire meno di una mediazione all'interno della maggioranza.

Oggi il problema è il lavoro, domani potrà essere un altro tema all'ordine del giorno. In fondo è comprensibile. Quello fra Renzi e i centristi è davvero un matrimonio di interesse e nulla più. Ognuno dei due contraenti persegue una strategia diversa, anzi opposta. Il Blair di Firenze sta costruendo un potere a "vocazione maggioritaria", come direbbe Veltroni: un Pd in grado di conquistarsi abbastanza voti per governare da solo (grazie al nuovo premio di maggioranza previsto dall'Italicum in un sistema monocamerale).

Viceversa gli alfaniani sono al governo alleati con il centrosinistra, ma si preparano a rientrare un giorno nel centrodestra post-Berlusconi: un salto mortale non privo di rischi che presuppone, per cominciare, un discreto risultato nelle europee di maggio. In ogni caso non sarà facile per l'Ncd abbandonare, magari l'anno prossimo, l'alleanza con il Pd e giocarsi una futura campagna elettorale nelle liste della coalizione avversaria. Un ritorno nell'alveo più congeniale che richiede però molta cura per non apparire mero trasformismo. Sotto questo aspetto il dissenso sul lavoro, benché ricomposto nel voto di fiducia, può essere interpretato come il primo passo verso un progressivo, lento distacco dal "renzismo" che tende a fagocitare tutti gli spazi. Vedremo chi ha più filo da tessere.


Oggi questa nota si conclude con un pensiero rivolto a Marco Pannella. Il grande combattente è impegnato in una battaglia per la salute e la vita. Non è la prima volta e la tempra dell'uomo è straordinaria. Ma è uno di quei momenti in cui la povertà della politica quotidiana lascia il passo a una riflessione più alta, a un omaggio non retorico a chi ha saputo sempre mettere in gioco se stesso per servire i suoi ideali.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-23/la-fiducia-copre-dissensi-ma-rivela-limiti-intesa-renzi-e-centristi-063652.shtml?uuid=ABNTJ6CB
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« Risposta #155 inserito:: Aprile 30, 2014, 11:21:33 pm »

Una campagna avvelenata

di Stefano Folli
30 aprile 2014

Fra le contraddizioni minori ma emblematiche dell'eterna campagna elettorale italiana, c'è anche questa. Silvio Berlusconi è un condannato a titolo definitivo per frode fiscale in attesa di scontare la sua pena, anch'essa molto simbolica, come servizio sociale a Cesano Boscone. Ma Berlusconi è anche il leader di Forza Italia che ieri è intervenuto via telefono al congresso del Sap, il sindacato autonomo della polizia. Parole applaudite che sono servite all'ex premier per rivendicare i meriti dei suoi governi a sostegno delle forze dell'ordine.

Bisogna ammettere che la situazione è bizzarra, probabilmente senza precedenti. Un condannato che parla a un congresso di poliziotti forse non si era mai visto (fra l'altro - episodio inquietante - gli stessi congressisti hanno dedicato un applauso di cinque minuti ai tre loro colleghi giudicati colpevoli di avere provocato la morte del giovane Federico Aldovrandi nel 2005).

La contraddizione è l'inevitabile conseguenza del compromesso all'italiana che ha chiuso per ora la vicenda. Berlusconi è entrato in una zona grigia che non gli permette di essere del tutto libero, ma gli consente di fare tutto quello che vuole in campagna elettorale tranne candidarsi. In effetti si tratta di un ex presidente del Consiglio e tuttora leader politico, sia pure sul viale del tramonto: si è deciso che la cosiddetta «agibilità politica» non gli poteva essere negata. Ma ciò non toglie che la soluzione individuata sia un pasticcio foriero di guai.

Difatti il Berlusconi di oggi è un personaggio indotto dalle circostanze e dai suoi rancori a imboccare una strada senza ritorno, in un'offensiva sempre più aspra contro le istituzioni e l'Europa mescolate insieme come due facce della stessa medaglia. Basta vedere l'attacco al capo dello Stato che non avrebbe avvertito il «dovere morale» di concedergli la grazia «motu proprio», cioè di sua iniziativa. Chiederla, infatti, avrebbe costituito da parte di Berlusconi «un'ammissione di colpevolezza». Si capisce che su questi presupposti dobbiamo attenderci una campagna elettorale violenta ed estremista, giocata sul registro anti-europeo e in cui il capo dello Stato diventa una sorta di bersaglio fisso, in quanto fattore di equilibrio del sistema.

Berlusconi, che oggi è parecchio sotto il 20 per cento, vuole recuperare a tutti i costi i voti del centrodestra tentati da Grillo. A sua volta quest'ultimo si batte come fosse la partita della vita perché vede la concreta possibilità d'insediarsi come secondo polo a non grande distanza dal Pd. E poi ci sono la Lega e Fratelli d'Italia, decisamente euro-scettici. Il voto di protesta rischia di essere quasi il 50 per cento dell'elettorato, forse più. Un dato su cui riflettere. E benché le elezioni di maggio siano più che altro un grande sondaggio sull'Unione e la moneta unica, non c'è dubbio che gli esiti riguarderanno la politica interna. Specie se la campagna si svolgerà secondo le peggiori previsioni, in un crescendo di demagogia e con toni quasi eversivi.

Questo dovrebbe obbligare Renzi e i suoi a una convincente controffensiva, senza assecondare più di tanto il populismo degli avversari (cosa che accade spesso). Ora che il primo voto sulle riforme è stato rinviato al 10 giugno, il premier dovrebbe stare attento ad adombrare le sue dimissioni. Non è il messaggio giusto da mandare agli elettori a poche settimane dal voto.

DA - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-30/si-annuncia-campagna-avvelenata-contro-europa-e-istituzioni-063955.shtml?uuid=AB7chkEB
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« Risposta #156 inserito:: Luglio 27, 2014, 11:30:18 pm »

Verità e limiti della minaccia elettorale che aleggia sulla politica riottosa

Di Stefano Folli
26 luglio 2014

«Colpi di Stato» contro «colpi di sole»... Per quanto possa sembrare incredibile, la polemica quotidiana tende a scendere ancora di livello. L'ossessione di Grillo per i complotti in atto (si è perso il conto di quanti ne ha denunciati finora) è il riflesso dell'imbuto in cui il capo dei Cinque Stelle si è infilato, incapace di gestire con qualità politica la fase che il paese sta vivendo. Quindi torna di moda anche la P2, come marchio d'infamia appiccicato all'asse Renzi-Berlusconi: e pazienza se nessuno riesce a spiegare come e quando la loggia massonica avrebbe preso il sopravvento.

Certo, nemmeno la replica di Renzi brilla per originalità. Ma il presidente del Consiglio ama ingaggiarsi in scontri verbali con Grillo, riservando invece qualche ammiccamento all'elettorato del M5S. C'è una logica in questo ed è come sempre di tipo elettorale. I Cinque Stelle restano uno straordinario serbatoio dal quale l'unico in grado di attingere è proprio Renzi. Le polemiche quotidiane sono parte di un lento lavoro ai fianchi che prosegue a margine della rissa in Senato.

Del resto, quasi tutto quello che il premier fa contiene un messaggio elettorale, più o meno esplicito. Gli italiani vengono coltivati con cura, giorno dopo giorno. Il quadro economico generale è drammatico? Il presidente del Consiglio punta tutto sulla fiducia nel domani: chiede agli elettori di seguirlo, se possibile a occhi chiusi. La riforma del Senato è impantanata? La colpa è di chi dice sempre "no". E naturalmente i grillini si sono trasformati da anti-casta in difensori dei privilegi istituzionali. C'è del vero in queste frustate, ma c'è soprattutto una superiore capacità propagandistica: un talento che Renzi ha dimostrato di possedere in sommo grado. Il tutto al servizio di una strategia piuttosto semplice: riassorbire il dissenso grillino, da un lato, e stabilizzare Berlusconi, dall'altro, facendo del centrodestra un secondo polo consistente ma per nulla minaccioso sul terreno politico.

Ne deriva che il premier, un passo per volta, prepara il terreno per il successo elettorale prossimo venturo. Purtroppo per lui, i dati della realtà non lo favoriscono. La trasformazione del Senato non è ancora una battaglia vinta e in ogni caso il percorso costituzionale è lungo. La ripresa è inesistente e in autunno, con la legge di stabilità, si prevedono altri provvedimenti impopolari. In Europa il "renzismo" ha creato più che altro sconcerto e irritazione, fallendo l'obiettivo della maggiore flessibilità sui conti e forse creando qualche imbarazzo anche alla Bce di Draghi. Le altre riforme sono ancora in cantiere.

Ecco allora che quando il premier minaccia le elezioni anticipate in caso di insabbiamento della riforma del Senato, egli rivela il suo vero animo. Le elezioni sono il modo più semplice per tagliare il nodo gordiano prima che la morsa dell'economia stritoli le illusioni della propaganda. Ma le elezioni prima della fine dell'anno, in pieno semestre europeo, sono assai improbabili. Per convincere il capo dello Stato servirebbe uno "shock": magari una bocciatura esplicita della riforma, non un semplice rinvio. Senza contare che in quel caso si andrebbe a votare con la legge elettorale introdotta dalla Consulta, non certo con l'Italicum (e nemmeno con il Mattarellum evocato da Giachetti). Un'ipotesi che Renzi ha sempre visto con timore. Non solo: si dovrebbe votare per il Senato come è ora, essendo la riforma in alto mare. La minaccia dello scioglimento non è da sottovalutare, ma oggi è soprattutto uno strumento di pressione sui parlamentari.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-07-26/verita-e-limiti-minaccia-elettorale-che-aleggia-politica-riottosa-081302.shtml
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« Risposta #157 inserito:: Agosto 02, 2014, 10:41:08 am »

Verità e limiti della minaccia elettorale che aleggia sulla politica riottosa

Di Stefano Folli
26 luglio 2014

«Colpi di Stato» contro «colpi di sole»... Per quanto possa sembrare incredibile, la polemica quotidiana tende a scendere ancora di livello. L'ossessione di Grillo per i complotti in atto (si è perso il conto di quanti ne ha denunciati finora) è il riflesso dell'imbuto in cui il capo dei Cinque Stelle si è infilato, incapace di gestire con qualità politica la fase che il paese sta vivendo. Quindi torna di moda anche la P2, come marchio d'infamia appiccicato all'asse Renzi-Berlusconi: e pazienza se nessuno riesce a spiegare come e quando la loggia massonica avrebbe preso il sopravvento.

Certo, nemmeno la replica di Renzi brilla per originalità. Ma il presidente del Consiglio ama ingaggiarsi in scontri verbali con Grillo, riservando invece qualche ammiccamento all'elettorato del M5S. C'è una logica in questo ed è come sempre di tipo elettorale. I Cinque Stelle restano uno straordinario serbatoio dal quale l'unico in grado di attingere è proprio Renzi. Le polemiche quotidiane sono parte di un lento lavoro ai fianchi che prosegue a margine della rissa in Senato.

Del resto, quasi tutto quello che il premier fa contiene un messaggio elettorale, più o meno esplicito. Gli italiani vengono coltivati con cura, giorno dopo giorno. Il quadro economico generale è drammatico? Il presidente del Consiglio punta tutto sulla fiducia nel domani: chiede agli elettori di seguirlo, se possibile a occhi chiusi. La riforma del Senato è impantanata? La colpa è di chi dice sempre "no". E naturalmente i grillini si sono trasformati da anti-casta in difensori dei privilegi istituzionali. C'è del vero in queste frustate, ma c'è soprattutto una superiore capacità propagandistica: un talento che Renzi ha dimostrato di possedere in sommo grado. Il tutto al servizio di una strategia piuttosto semplice: riassorbire il dissenso grillino, da un lato, e stabilizzare Berlusconi, dall'altro, facendo del centrodestra un secondo polo consistente ma per nulla minaccioso sul terreno politico.

Ne deriva che il premier, un passo per volta, prepara il terreno per il successo elettorale prossimo venturo. Purtroppo per lui, i dati della realtà non lo favoriscono. La trasformazione del Senato non è ancora una battaglia vinta e in ogni caso il percorso costituzionale è lungo. La ripresa è inesistente e in autunno, con la legge di stabilità, si prevedono altri provvedimenti impopolari. In Europa il "renzismo" ha creato più che altro sconcerto e irritazione, fallendo l'obiettivo della maggiore flessibilità sui conti e forse creando qualche imbarazzo anche alla Bce di Draghi. Le altre riforme sono ancora in cantiere.

Ecco allora che quando il premier minaccia le elezioni anticipate in caso di insabbiamento della riforma del Senato, egli rivela il suo vero animo. Le elezioni sono il modo più semplice per tagliare il nodo gordiano prima che la morsa dell'economia stritoli le illusioni della propaganda. Ma le elezioni prima della fine dell'anno, in pieno semestre europeo, sono assai improbabili. Per convincere il capo dello Stato servirebbe uno "shock": magari una bocciatura esplicita della riforma, non un semplice rinvio. Senza contare che in quel caso si andrebbe a votare con la legge elettorale introdotta dalla Consulta, non certo con l'Italicum (e nemmeno con il Mattarellum evocato da Giachetti). Un'ipotesi che Renzi ha sempre visto con timore. Non solo: si dovrebbe votare per il Senato come è ora, essendo la riforma in alto mare. La minaccia dello scioglimento non è da sottovalutare, ma oggi è soprattutto uno strumento di pressione sui parlamentari.

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Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-07-26/verita-e-limiti-minaccia-elettorale-che-aleggia-politica-riottosa-081302.shtml
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« Risposta #158 inserito:: Agosto 09, 2014, 05:34:19 pm »

Una vittoria simbolica e i suoi risvolti

Di Stefano Folli
09 agosto 2014

È giusto che il presidente del Consiglio si goda la sua vittoria insieme alla tenace Maria Elena Boschi e ai 183 senatori della maggioranza trasversale che hanno votato "sì" alla riforma. Molti altri si sono astenuti, anche nel Pd e Forza Italia, così da rendere il traguardo dei due terzi dell'assemblea un miraggio remoto.

Tuttavia di vittoria si tratta, perseguita con determinazione da Renzi fin dal primo giorno a Palazzo Chigi. Qualcuno dice: una determinazione degna di miglior causa. In ogni caso ci sarà tempo per valutare pregi e difetti di questa controversa e cruciale riforma costituzionale che istituisce una sorta di Camera delle autonomie non elettiva. Siamo solo alla prima lettura, ne mancano altre tre fra Montecitorio e di nuovo Palazzo Madama: se il nuovo assetto presenta i sintomi di qualche stortura, ci sarà tempo per provvedere. Almeno questa è la speranza degli scettici. Che sono numerosi e non tutti meritano di essere qualificati come irriducibili conservatori attaccati alla poltrona. Alcuni hanno presentato emendamenti migliorativi che sono stati accolti in misura molto avara; il che è stato un errore che potrebbe comportare conseguenze.

In ogni caso per Renzi è un giorno di sole da segnare sul calendario dopo tanta pioggia. Inutile sottolineare adesso, per l'ennesima volta, la centralità delle riforme economiche - e potremmo aggiungere la giustizia - rispetto a questi interventi istituzionali che forse appassionano noi italiani ma lasciano indifferenti gli osservatori appena passate le Alpi. È un argomento molto serio ma ormai assai dibattuto, dopo le cifre crudeli della recessione e le parole di Draghi. Meglio afferrare il senso profondo del voto di ieri: la riforma ha un valore simbolico che non può essere sottovalutato. Renzi la considera una spinta decisiva verso il mitico "cambiamento". Il premier concede che ci possano essere "intoppi" lungo la strada, ma è chiaro che nella sua idea spettacolare della politica contano soprattutto i simboli. E il risultato del voto senza dubbio contiene una carica innovativa.

Naturalmente l'aspetto simbolico è importante, ma non è tutto. Serve a creare uno stato d'animo nell'opinione pubblica, e tuttavia l'effetto sarebbe stato assai maggiore se le cifre dell'economia non fossero quelle che sappiamo. Ragion per cui il presidente del Consiglio non dovrà attendersi un tappeto di fiori. Gli si chiederà - anzi, già tutti glielo chiedono - di non accontentarsi dei simboli e di procedere sulla via dei fatti. Con o senza Senato, la luna di miele con gli italiani è finita, come riconosce anche la stampa internazionale. E quei 183 senatori in festa, quegli abbracci fra i ministri renziani e gli esponenti di Forza Italia, non possono far dimenticare che esiste un'area di disagio calcolata in quasi cinquanta voti mancanti. Per cui il referendum finale non sarà una concessione del governo per andare incontro al popolo, come parrebbe a sentire certe affermazioni, bensì un obbligo costituzionale imposto dal venir meno della maggioranza dei due terzi.

Comunque sia, è consigliabile vedere il bicchiere mezzo pieno. La trasformazione del Senato inaugura, almeno questo è l'auspicio, una stagione di riforme rilevanti. Ora si attendono quelle che riguardano il mercato del lavoro, la pubblica amministrazione, la spesa pubblica, la giustizia. A voler essere ottimisti, il voto simbolico di ieri dovrebbe equivalere al colpo di pistola dello "starter". Un'iniezione di fiducia, un messaggio corroborante. Ma è bene che Renzi e i suoi non esagerino con i festeggiamenti. In definitiva, al di fuori della cittadella della politica, non c'è quasi nessuno che ha voglia di condividere tanto entusiasmo.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-08-09/una-vittoria-simbolica-e-suoi-risvolti-081144.shtml?uuid=ABe65miB
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« Risposta #159 inserito:: Settembre 22, 2014, 04:05:12 pm »

Più La Malfa che Thatcher nel piano Renzi

Di Stefano Folli
21 settembre 2014

Circa quarant'anni fa, in un'Italia molto diversa da oggi, Ugo La Malfa aveva posto un problema centrale alla politica del suo tempo, descrivendo la cittadella fortificata in cui si erano rinchiusi i privilegiati, ossia coloro che avevano un lavoro, e dalla quale erano invece esclusi i disoccupati. La sfida era piuttosto esplicita e così la intesero coloro ai quali era rivolta: il mondo comunista e socialista e i sindacati.

Questi ultimi in particolare, con Luciano Lama, seppero raccogliere il messaggio e il confronto che ne seguì diede un contributo non trascurabile all'evoluzione della sinistra.

Questo per dire che non c'è bisogno di scomodare Blair o Schroeder, e tanto meno di tirare in ballo la Thatcher, per spiegare le iniziative di Renzi sulla riforma del lavoro.

Nell'Italia smemorata dei nostri tempi tutto appare nuovo e mai sentito prima, per cui ogni presa di posizione che increspa lo stagno deve essere per forza importata dall'estero. Ed è vero, senza dubbio, che è urgente un rinnovamento culturale in grado di restituire un senso alla politica e anche di modellare nuove relazioni con il sindacato: purché quest'ultimo decida di vivere nel nostro tempo.

In ogni caso, quello che risulta essere - e in effetti è - un grave ritardo nell'aggiornare gli schemi e i codici del dibattito politico, è anche figlio della pigrizia degli ultimi vent'anni. Ossia il periodo in cui la sinistra, dietro l'alibi della lotta mortale a Berlusconi, ha rinunciato a muoversi con passo rapido e si è chiusa nel fortilizio da cui troppi sono stati tenuti fuori: i disoccupati, certo, ma anche coloro che via via hanno perduto fiducia nel sistema. Eppure sarebbe bastato ritrovare gli autentici spunti riformatori del dopoguerra, sviluppandoli nella cornice del Duemila, per colmare il vuoto.

Sulla questione del lavoro, è stato notato da molti osservatori, Renzi ha ragione. Come ha ragione nel colpire le incrostazioni ideologiche dure a morire, specchio di un'Italia che in quei termini non esiste più. Si chiedeva al premier di essere concreto, di passare ai fatti dopo tante parole, e non si può adesso rimproverargli di essere fedele a se stesso.

Anche perché l'attuale sinistra - che militi nel Pd, in altre formazioni o nel sindacato - dovrebbe avere tutto l'interesse a incoraggiare il riformismo di Palazzo Chigi. Magari per correggerlo e integrarlo nel corso del dibattito parlamentare, ma senza dare l'impressione di un «no» pregiudiziale e quindi ideologico: il che vale per la Cgil, naturalmente, ma anche per la minoranza del Pd (non tutta per la verità, basta leggere le parole di buon senso pronunciate dal presidente democratico, Orfini).


Su questo punto ha ancora ragione il presidente del Consiglio quando ironizza su coloro che vorrebbero riportare il Pd al 25 per cento. In effetti solo chi non ha una precisa percezione dell'Italia ingessata nella camicia di forza dell'immobilismo politico, sindacale, amministrativo, può ritenere che paragonare l'avversario alla Thatcher sia un insulto. Sarebbe meglio riconoscere che la "signora di ferro" ha avuto ben pochi continuatori in Italia, uno dei Paesi più refrattari del mondo alle sue ricette.

Di sicuro non c'è stato alcun "thatcheriano" di rilievo a destra, nella stagione di Berlusconi. Quanto a Renzi, il suo discorso nello stile "pensiamo prima ai disoccupati" riecheggia, magari in modo inconsapevole, antiche suggestioni domestiche, benché minoritarie, e non ha niente a che vedere con il liberismo estremo degli anni Ottanta.

Qual è allora la principale differenza fra l'appello di Ugo La Malfa e la strategia renziana quarant'anni dopo? Sono assai diversi i protagonisti, ovviamente, ma è molto diverso soprattutto lo scenario. L'Italia di allora era ancora piuttosto ricca e poteva ridistribuire le risorse. L'Italia di oggi è in recessione ed è sollecitata dall'Europa, dal Fondo monetario, dalla stessa Banca centrale. È una condizione scomoda e scivolosa.

Ma c'è anche un'altra differenza, forse la maggiore. La riforma del lavoro – come tutti hanno capito, anche chi la avversa – è il tema cruciale dell'autunno. È la riforma che può aprire un varco nell'ingessatura del sistema. Ma può essere all'occorrenza un punto di frattura, se si vuole dividere l'opinione pubblica e cacciare nell'angolo i conservatori di sinistra accanto a quelli di destra. Il rischio è proprio questo: che si tratti di una pedina di un gioco tutto politico con risvolti elettorali. Una sfida vissuta sul filo delle dichiarazioni "spot" e delle polemiche solo mediatiche.

Un tempo discutere di occupati e disoccupati voleva dire trovare elementi di sintesi per far progredire il Paese e dare risposta a una sofferenza sociale. C'è da augurarsi che sia così anche oggi, benché la società del web e della tv obblighi a cercare il colpo a effetto, come in un duello all'OK Corral. Forse sul lavoro si può ancora individuare il terreno di un rapido confronto che eviti la solita contrapposizione del palazzo contro la piazza. Non perché il palazzo, in questo caso il Parlamento, non abbia tutti gli strumenti per affermare la propria decisione, ma per evitare agli italiani nuove nevrosi e al limite ulteriori ritardi.

Stavolta Renzi ha imboccato la strada giusta, purché sappia portare fino in fondo l'iniziativa riformatrice e sappia collocarla nella cornice di un impegno che dovrà essere più ampio e convincente di quello che riguarda l'articolo 18. Sarebbe invece pericoloso, nelle attuali circostanze, se qualcuno pensasse di suscitare tanto clamore con il retro-pensiero di aprire un sentiero verso le elezioni anticipate. Non è il caso di Renzi, probabilmente. Almeno non ancora.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-09-21/piu-malfa-che-thatcher-piano-renzi-081104.shtml?uuid=ABQN3lvB&p=2
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« Risposta #160 inserito:: Ottobre 07, 2014, 11:34:49 am »

Il momento delle scelte

Di Stefano Folli
07 ottobre 2014

Chiedere la fiducia al Parlamento su una legge delega non è affare di tutti i giorni. Si potrebbe senz'altro definirla una forzatura, dettata dal desiderio del presidente del Consiglio di presentarsi davanti ai partner europei, domani a Milano, potendo sbandierare la riforma del lavoro come un successo del governo.

E d è quello che accadrà. In altre parole. Renzi non ha più motivo di aspettare. Può essere che alla fine il testo su cui si voterà la fiducia recepirà qualcosa delle obiezioni provenienti dalla minoranza del Pd, ma ormai l'aspetto è quasi secondario. La battaglia dell'articolo 18 si conclude con l'umiliazione della sinistra del partito, che è stata prima contenuta e poi disgregata. Renzi ha fatto il suo gioco, forte di un consenso di opinione pubblica di cui si coglie il riflesso nei sondaggi. La minoranza di D'Alema e Bersani, peraltro tutt'altro che concordi fra loro, esce male dal braccio di ferro: non solo ha perso – e questo era forse inevitabile – ma si è frammentata, dando l'idea di non avere alcuna strategia per il futuro.

Lo stesso può dirsi per la Cgil. Vedremo stamane come andrà il breve incontro a Palazzo Chigi con i sindacati, ma tutto lascia pensare che Susanna Camusso seguirà la sorte del Pd anti-renziano e sarà indotta ad accettare una decisione governativa che vorrebbe contrastare senza però averne più la forza. Quindi Renzi potrà presentarsi a Milano non proprio a mani vuote, così da rintuzzare la critica che ha preso piede anche in Europa: ossia che il premier italiano parla molto e costruisce poco. Stavolta non è del tutto esatto. La riforma del lavoro e la questione dell'art. 18, quali che siano i giudizi su questo punto specifico, segnano una svolta: a Roma qualcuno ha cominciato a parlare il linguaggio della concretezza e i fatti sono lì a dimostrarlo. Anche se il prezzo è un Pd diviso come mai in passato; un Pd delle cui fratture il segretario-premier non si cura affatto, ma nel quale quasi nessuno, Stefano Fassina a parte, ha voglia di innescare una crisi politica e magari di governo. Sarebbe un inspiegabile atto di autolesionismo.

Le conseguenze economiche e sociali della riforma sono naturalmente tutte da verificare. Può darsi che nell'immediato non ce ne siano di positive e sarebbe una pessima notizia per quanti sperano di risalire la china della recessione anche grazie all'abolizione dell'art. 18. In ogni caso il valore politico e mediatico dell'operazione è ben chiaro al presidente del Consiglio che saprà sfruttarlo a dovere, a cominciare dall'incontro europeo di Milano.

Il problema è che i vari partner arrivano a questo appuntamento, privo peraltro dell'ufficialità di un vertice, in una condizione di grave lacerazione. Francia e Germania sembrano oggi agli antipodi, entrambe a causa della politica interna. Da un lato Parigi che sfora volontariamente il tetto del deficit per tagliare un po' d'erba sotto i piedi della Le Pen che sembra davvero a due passi dall'Eliseo.

Dall'altro Angela Merkel che deve rintuzzare la crescita del partito anti-euro, ormai al 10 per cento in qualche Land: il che rende assai problematica qualche concessione della Cancelliera ai paesi indebitati del Sud.

È una storia intricata, quasi certamente senza lieto fine. Ogni capitale misura il senso e la portata delle sue scelte pensando alle ricadute sull'opinione pubblica interna. Lo fanno i francesi, lo fanno i tedeschi. E gli italiani a modo loro non sono da meno. La cautela della politica economica, gli 80 euro e il Tfr, i precari della scuola stabilizzati: sono tutti gesti di chi si preoccupa delle conseguenze sociali ed elettorali di certi atti. E quindi anche l'Italia raggiunge Francia e Germania nel club di chi pensa prima alle elezioni è solo dopo al futuro dell'Europa unita.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-07/il-momento-scelte-063618.shtml?uuid=AB74ck0B
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« Risposta #161 inserito:: Ottobre 26, 2014, 08:11:45 am »

A Roma per esistere ancora, a Firenze per andare oltre il Pd

Di Stefano Folli
25 ottobre 2014

Forse è fin troppo ovvia l'immagine dei due Pd: uno in piazza a Roma con la Cgil e l'altro a Firenze con il premier Renzi che è anche segretario dell'intero partito. I giornali stanno già ricamando intorno al dualismo e ancor più lo faranno domattina, dopo aver contato quanti esponenti della minoranza dei democratici avranno manifestato insieme a Susanna Camusso e viceversa quanto innovativi saranno i toni dei renziani in riva all'Arno.

Sono due mondi, è logico. Due mondi che tendono a essere sempre meno conciliabili. Ma una scissione a sinistra del Pd non è affatto verosimile. Non s'intravedono spazi politici per una simile, temeraria operazione. Tanto meno si possono immaginare spazi elettorali. E' vero quello che dicono Bersani e i suoi amici: in piazza con il sindacato ci sarà un pezzo dell'elettorato che ha concorso al 40,8 per cento del voto europeo. Tuttavia è chiaro che questo argomento non abbia alcuna presa sugli stati d'animo del presidente del Consiglio.

Un po' si capisce. Una volta stabilito che la minoranza non ha interesse oggi alla scissione (i casi isolati sono un'altra cosa), che motivo c'è di preoccuparsi? Renzi si limita a esprimere formale "rispetto" verso i manifestanti e a tirare diritto. Del resto, se si fermasse perchè intimorito dalla Cigl, la sua parabola sarebbe conclusa e nulla di ciò che è stato fatto fin qui, nel bene o nel male, avrebbe senso. Infatti il "renzismo" coincide in ultima analisi con la volontà di superare il potere di veto di questo o quel gruppo organizzato: l'autentico grande potere che ha contribuito a tenere in stallo l'Italia.

E' una lettura semplificata del fenomeno politico del momento, ma piuttosto realistica. Il pensiero nemmeno recondito del premier è che le manifestazioni sindacali, quando sono volte a restaurare quel potere di veto, suscitano oggi il disappunto della maggioranza degli elettori e quindi portano acqua al mulino del premier. Basti ricordare la frase beffarda rivolta a D'Alema: «ogni volta che parla, io guadagno tot voti». A maggior ragione, ogni volta che la Camusso va in piazza e minaccia lo sciopero generale (uno sciopero che sarebbe oltremodo politico), il presidente del Consiglio si frega le mani e pensa di raccogliere nuovi consensi in quell'ampia "zona grigia" dove si vincono le elezioni.

Troppo facile, peraltro, sottolineare che il suo commento al raduno sindacal-politico ricalca alla perfezione quello fatto a suo tempo da Berlusconi premier a proposito di una manifestazione oceanica promossa da Cofferati: «Se loro mobilitano tre milioni di persone, noi ci rivolgiamo agli altri 57 che sono restati a casa». Oggi che è arrivata la stagione delle disillusioni, Renzi cita un milione di persone contro 60 a casa.

Non c'è nulla di strano. Il "partito della nazione" di Renzi, riunito alla Leopolda per il quinto anno consecutivo, cercherà i suoi voti ovunque: a sinistra non meno che a destra. Se vincerà, non dovrà più soggiacere ai veti, avendo la forza per respingerli.

Ma di qui ad allora basta poco per mettere un piede in fallo. Un eccesso di sicurezza potrebbe essere pericoloso anche per un tipo spavaldo. Il quale a Bruxelles ha accettato un compromesso che costerà all'Italia fra i 4 e i 5 miliardi di euro. Ma a Firenze la presenta come una vittoria, l'inizio della fine dell'Europa tedesca. Può darsi persino che abbia ragione. La fantasia al potere.

Da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-25/a-roma-esistere-ancora-firenze-andare-oltre-pd-081350.shtml?uuid=ABPceg6B
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« Risposta #162 inserito:: Novembre 09, 2014, 11:28:52 am »

La legge elettorale e l'incognita del Quirinale

Di STEFANO FOLLI
04 novembre 2014

Un passo dopo l'altro, ci si avvicina ai passaggi cruciali che decideranno il futuro della legislatura e le prospettive del governo Renzi. Le scadenze si affollano nell'agenda di fine anno, dalla riforma del lavoro alla legge di stabilità, ma la vera incognita resta ancora la legge elettorale. Sulla quale l'incertezza è ovviamente aumentata dopo che il presidente del Consiglio ha rimescolato le carte e ha avanzato la proposta di assegnare il premio di maggioranza non più alla coalizione vincitrice, bensì alla lista, cioè al partito. Questo significa che quando il Senato l'avrà votata, nella migliore delle ipotesi non prima di gennaio inoltrato, la legge tornerà alla Camera per una seconda lettura non solo formale.

I tempi insomma si allungano, anche perché gli accordi in Parlamento attendono di essere definiti. Nessuno mette in discussione il "patto del Nazareno"; ma i fatti dimostrano che l'intesa con Berlusconi, pur solida, non è una camicia di forza in grado di coprire tutte le contraddizioni. Prova ne sia l'infinita altalena sui candidati alla Corte Costituzionale. In altri termini, Renzi va per la sua strada, ma gli ostacoli potrebbero essere più insidiosi del previsto. Il suo tallone d'Achille - egli stesso ne è ben consapevole - è l'economia, o meglio il rischio concreto che le misure già in atto o in preparazione non riescano a imprimere uno stimolo significativo al sistema produttivo.

A maggior ragione il premier deve consolidare in fretta il suo "blocco sociale" e di conseguenza un sistema di potere ancora imperfetto. Anche nel discorso di ieri agli industriali di Brescia è emersa questa determinazione, nel segno del dinamismo innovatore, ma si è avvertita fra le righe l'inquietudine di chi teme che non tutti i tasselli del mosaico vadano al loro posto in tempo utile.

Sotto il profilo politico-istituzionale, le carte migliori in mano a Renzi sono due. La prima è la condizione di grave prostrazione in cui versa la minoranza del Pd, incapace di costituire una minaccia alla stabilità del governo e tanto meno di prefigurare una scissione credibile, che non sia cioè l'uscita alla spicciolata dal Pd di tre o quattro irriducibili oppositori del "renzismo".

La seconda è invece l'appoggio fermo e costante garantito al premier dal presidente della Repubblica. La capacità di Napolitano di influenzare le decisioni di Renzi si è vista ancora la settimana scorsa, in occasione della scelta di Paolo Gentiloni come ministro degli Esteri. Al tempo stesso abbiamo avuto conferma della disponibilità del presidente del Consiglio ad accettare i consigli del Quirinale, ricercando il compromesso. Questa è la falsariga che segnerà i rapporti istituzionali anche nel prossimo futuro. Fino al momento in cui Napolitano deciderà di lasciare il Quirinale.

Il presidente ha superato di recente la prova più dura, anche sotto il profilo psicologico: la testimonianza resa davanti ai magistrati di Palermo. Ne è uscito rinfrancato, avendo rintuzzato quella che poteva diventare una prova di forza contro gli equilibri costituzionali del paese. Ciò nonostante, egli non fa mistero della sua intenzione di voler mettere fine al suo secondo mandato in ragione dell'età e della salute. È ragionevole pensare che questo non accadrà prima della fine del semestre europeo dell'Italia, ma nemmeno troppo più in là. Ne deriva un intreccio molto delicato. È impensabile che quel giorno, quando sarà, il governo abbia completato il percorso delle riforme, anzi con ogni probabilità non avremo nemmeno la nuova legge elettorale. Il rischio è allora che i due piani s'intreccino e che sul cammino della legge elettorale si scarichino tutte le tensioni e gli inevitabili veleni della contesa per il Quirinale.

© Riproduzione riservata 04 novembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/04/news/la_legge_elettorale_e_l_incognita_del_quirinale-99696982/?ref=HRER2-1
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« Risposta #163 inserito:: Novembre 09, 2014, 12:10:11 pm »

Perché Napolitano lascerà il Quirinale alla fine dell'anno

Di STEFANO FOLLI
08 novembre 2014
   
Il presidente della Repubblica non fa mistero della sua intenzione di concludere in tempi brevi il suo secondo mandato. La data nella sua mente è già ben definita: la fine dell'anno, allo spirare del semestre italiano di presidenza dell'Unione europea.

È un percorso di cui si mormora da tempo nei palazzi della politica romana e adesso c'è anche la certezza che la decisione del presidente è presa. Tuttavia lo stato d'animo del presidente non è quello con cui, fino a qualche mese fa, egli guardava alla conclusione del suo incarico. Aveva sperato a lungo di legare questa scadenza al successo delle riforme istituzionali e della legge elettorale.

CON gli amici che vanno a trovarlo o gli parlano al telefono Giorgio Napolitano lascia trasparire in questi giorni un duplice sentimento. Da un lato è soddisfatto per l'energia e la determinazione messe in mostra dal presidente del Consiglio, Renzi. Gli sembra che il dinamismo e la volontà di affrontare i problemi siano i fattori politici di cui il Paese ha bisogno in questa fase drammatica. La legislatura ha bisogno di un motore e Renzi dimostra di possedere il temperamento adatto a incarnare lo spirito dei tempi.

Dall'altro lato il presidente della Repubblica non fa mistero della sua intenzione di concludere in tempi brevi il suo secondo mandato. La data nella sua mente è già ben definita: la fine dell'anno, allo spirare del semestre italiano di presidenza dell'Unione europea. Le ragioni sono legate alla fatica del compito, sempre più estenuante per un uomo che nel prossimo mese di giugno festeggerà i novant'anni.

NAPOLITANO è stanco e ritiene di aver diritto di esserlo. Rispetta gli impegni con puntualità, quelli interni e quelli internazionali, ma sta diradando l'agenda, se si tratta di allontanarsi dal Quirinale. Fra qualche giorno, il 17, sarà all'Università Bocconi per assistere al ricordo di Giovanni Spadolini a vent'anni dalla morte. Poi un paio di appuntamenti europei, di cui uno a Torino, utili a ricordare che il destino italiano si compie in Europa e non altrove. Infine il messaggio di Capodanno agli italiani, l'ultimo dei nove pronunciati a partire dal 31 dicembre 2006.

È un percorso di cui si mormora da tempo nei palazzi della politica romana e adesso c'è anche la certezza che la decisione del presidente è presa.

Nel 2015 Napolitano seguirà le vicende italiane dallo studio di Palazzo Giustiniani che è già pronto ad accoglierlo quale presidente emerito. Tuttavia lo stato d'animo del presidente non è quello con cui, fino a qualche mese fa, egli guardava alla conclusione del suo incarico. Aveva sperato a lungo di legare questa scadenza al successo delle riforme istituzionali e della legge elettorale. Soprattutto quest'ultima, che non richiede, come è noto, una revisione della Costituzione, gli è sempre parsa la più adatta a chiudere un'epoca e ad aprirne un'altra: proprio perché, nella condizione del Paese, si tratta di una legge di sistema, destinata a garantire l'assetto generale delle istituzioni.

Dunque una legge sfrondata dagli elementi di incostituzionalità che avevano provocato il naufragio della precedente norma a opera della Consulta. E al tempo stesso un modello in grado di rassicurare l'opinione pubblica circa il fatto che il confronto politico si sviluppa entro argini ben definiti e se possibile tra forze che tendono a riconoscersi l'un l'altra come pienamente legittimate, in grado cioè di scambiarsi i ruoli di governo e opposizione in un quadro di stabilità. In fondo era solo su questa base che Napolitano aveva accettato il secondo mandato. E chi ricorda il discorso d'insediamento davanti alle Camere riunite, il 22 aprile 2013, rammenta anche il tono aspro, quasi sferzante con cui il capo dello Stato appena rieletto aveva richiamato i parlamentari alle loro responsabilità. Era in gioco allora come oggi la corretta funzionalità delle istituzioni e una prospettiva politica capace di rendere salde le radici europee della dialettica interna.

Nel mosaico immaginato da Napolitano c'era molto di più: il riassetto del sistema bicamerale, la riforma della pubblica amministrazione, della giustizia e altro. Ma la nuova legge elettorale appariva quasi un pegno urgente da offrire agli italiani per convincerli che la stagione dell'eterna transizione era davvero alle spalle.

Come chiunque può notare, oggi lo scenario non è quello sperato e Napolitano non nasconde la sua delusione. È chiaro che alla fine dell'anno non avremo la riforma del voto, ma è altrettanto certo che il presidente della Repubblica non aspetterà i tempi dei partiti. Non intende farsi condizionare dai ritardi e della solita pratica del rinvio. Su tale passaggio si mostra molto deciso con i suoi interlocutori. Quindi viene meno il nesso tra riforme e dimissioni. E non ci sarà l'inaugurazione di Expo 2015, come vorrebbe il premier Renzi. L'uscita dal Quirinale sarà il compimento di una missione personale, il cui bilancio sarà dato dalla gran mole di atti compiuti in oltre otto anni e mezzo. Ma se le forze politiche non sono state in grado di dare forma conclusa a un nuovo capitolo della storia repubblicana, il presidente le lascia alle loro responsabilità. Non le asseconderà al solo scopo di coprire lacune e debolezze di un sistema rinnovato solo in piccola parte.

Ora prevalgono le ragioni di salute, per cui ogni giorno trascorso nel palazzo costa un sacrificio di cui non tutti sono consapevoli. Napolitano è sicuro di aver superato in modo brillante la prova più dura sul piano psicologico, la testimonianza davanti ai magistrati e agli avvocati del processo di Palermo. Ma l'intera vicenda, come è noto, lo ha ferito. Ripete spesso due punti che gli stanno a cuore. Primo, non intende trovarsi a gestire una nuova crisi politica e di governo, non se la sente più di reggere gli sforzi fisici e mentali già sopportati nel recente passato.

A maggior ragione  -  ed è il secondo aspetto sottolineato  -  egli non porterebbe mai il paese a nuove elezioni anticipate. Non ci sarà più uno scioglimento delle Camere da lui firmato. Toccherà eventualmente al successore decidere in merito. E il presidente ritiene che in democrazia il Parlamento deve essere pronto e capace in ogni momento di eleggere un'altra figura al vertice istituzionale.

Questo è il sentiero prefigurato al Quirinale. I partiti hanno quindi poco tempo per affrontare il problema ed evitare che la scelta del successore di Napolitano, di qui a poche settimane, si trasformi in un altro episodio di logoramento istituzionale. Tuttavia il copione non è stato ancora scritto. Non esiste un'ipotesi reale di accordo su un nuovo nome. Ci sono in campo tre soggetti maggiori, il Pd, Forza Italia e i Cinque Stelle. Più altri soggetti minori suscettibili di giocare una loro partita, come i leghisti. Se e come i fili saranno annodati, attraverso quali intese trasparenti o sotterranee, per ora non è dato sapere. Ma tutti sanno che il tempo stringe.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/11/08/news/perch_napolitano_lascer_il_quirinale_alla_fine_dellanno-100044655/?ref=HREA-1
« Ultima modifica: Dicembre 14, 2014, 11:12:15 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #164 inserito:: Dicembre 14, 2014, 11:02:11 pm »

Quirinale, Italicum e guerra nel Pd. Renzi ora deve scoprire le carte
Il nodo è se il premier è in grado o no di far passare il suo candidato al Colle senza una trattativa interna


Di STEFANO FOLLI
14 dicembre 2014
   
POCHI credono che l'assemblea di oggi risolverà qualche problema all'interno del Partito Democratico. Le divisioni interne ci sono e continueranno a esistere anche domani. Del resto, nonostante Civati che si è preso i titoli della vigilia, la prospettiva non è una scissione in grande stile, ma un calcolo di convenienza la cui posta in gioco è Renzi: la sua leadership, la sua filosofia politica. La possibilità di condizionarlo quando si sceglierà il prossimo presidente della Repubblica.

Non sarà quindi una rituale occasione di partito, con la passerella degli oratori dai tempi contingentati, a ratificare la frattura. Non siamo a Livorno nel '21 e Civati non è Bordiga, così come senza dubbio Renzi non è Turati. Più che nel fuoco di un grande scontro ideologico, il Pd si consuma in un gioco tattico abbastanza estenuante, dove contano di più i successi o i passi falsi in Parlamento dei discorsi nelle assemblee interne. Questo non significa che la riunione odierna sia poco significativa. Al contrario, è un passaggio carico di tensione e in effetti Civati ha buttato altra benzina nel camino acceso. Ma un punto è chiaro: oggi all'orizzonte non c'è una scissione, quanto meno non una scissione in tempi brevi. Non è il luogo né il momento. Prima vengono altri nodi assai insidiosi per il presidente del Consiglio: la fronda sulla legge elettorale, sulla riforma del Senato e soprattutto sull'elezione del capo dello Stato. La minoranza non dispone di numeri notevoli, però è in grado di mettersi di traverso, facendo saltare qualsiasi strategia renziana. E poiché l'accordo del premier con Berlusconi non è di ferro, come tutti hanno ormai compreso, il risultato è che si naviga al buio in un mare pieno di scogli.

A cosa può servire allora l'assemblea di Villa Borghese? Forse a rispondere all'interrogativo che da tempo aleggia sulla Roma politica: Renzi intende umiliare la minoranza interna fino alle estreme conseguenze o al contrario è pronto a sancire un compromesso? Ben sapendo che tale compromesso, per essere credibile, non può essere una semplice tregua, ma deve comportare un'intesa sul nome del capo dello Stato e sulla riforma elettorale (in questo ordine). Finora il premier ha evitato di prendere posizione in merito. Ma il tempo passa e ci si avvicina alle scadenze decisive. Al netto delle feste di fine anno, manca circa un mese al momento in cui il Parlamento si riunirà in seduta comune, quindici giorni dopo le formali dimissioni di Napolitano.

Forse converrebbe a Renzi diradare la nebbia che avvolge le sue intenzioni. Un punto a suo vantaggio è che la minoranza è suddivisa in almeno tre segmenti. Ci sono gli irriducibili come Civati, appunto, e Fassina, testimoni di una linea dura e massimalista che può persino far comodo al premier. Poi c'è D'Alema che mette sul piatto il peso di una storia, ma il cui presente è segnato da una relativa debolezza. E infine viene Bersani, in fondo il più dialogante e al tempo stesso il più rappresentativo: Renzi fino ad ora ha esitato ad assumerlo come interlocutore, rinunciando quindi a dividere il fronte avversario più di quanto già non sia. Potrebbe tuttavia essere giunto il momento di mettere le carte in tavola, in modo che sia chiaro cosa si vuole a Palazzo Chigi. Se il premier si sente in grado di far passare il suo candidato al Quirinale senza una vera trattativa interna, imponendolo quindi alla minoranza, allora ci si può aspettare oggi un discorso perentorio e al limite sprezzante, di quelli a cui Renzi ha abituato i giornali e i Tg. Se invece questa certezza non c'è (e oggi un certo pessimismo è d'obbligo), allora il presidente del Consiglio potrebbe cogliere l'occasione dell'assemblea per trasmettere qualche segnale di disponibilità. Probabilmente troverà qualcuno all'ascolto.

© Riproduzione riservata 14 dicembre 2014

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