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Autore Discussione: Stefano FOLLI. -  (Letto 100450 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Dicembre 07, 2010, 03:55:29 pm »

Le 317 firme?
Sono una forma di pressione sul premier perché si dimetta prima del 14 dicembre.

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 03 dicembre 2010 alle ore 07:47.

   
IL PUNTO

Un quadro politico logorato e logorante


«Abbiamo 317 firme» ha annunciato ieri il capogruppo di «Futuro e Libertà» alla Camera, l'uomo più vicino al presidente dell'assemblea, Fini. 317 firme equivalgono alla maggioranza assoluta di Montecitorio. Costituiscono sulla carta la base di un governo diverso e alternativo a quello in carica. Però solo sulla carta. Nella realtà parlamentare quelle 317 firme indicano per ora un progetto (sbarazzarsi di Berlusconi evitando le elezioni), ma non prefigurano una maggioranza politica né tantomeno un governo di ricambio. Forse tale maggioranza prenderà forma nelle prossime settimane, ma al momento non c'è.

Casini ha sempre tenuto a distanza Di Pietro, Fini avrebbe qualche problema a governare con la sinistra (e viceversa). Un conto è votare la sfiducia al presidente del Consiglio, tutt'altro conto è ricostituire in questo Parlamento una coalizione in grado di gestire la legislatura. E non si parla di un «governo breve» con l'obiettivo minimale di riformare la legge elettorale: ipotesi che il Quirinale ha più volte fatto capire di ritenere irrealistica. Si parla di una maggioranza e di un governo in grado di affrontare la speculazione finanziaria europea. Un compito eccezionale in un'ora eccezionale.

A ben vedere, l'unica ragione per evitare le elezioni anticipate come sbocco di una crisi «al buio», cioè priva di una soluzione predefinita, sarebbe un esecutivo di salute pubblica in grado un proporre un programma molto severo di risanamento economico, in vista dei sacrifici che l'Europa potrebbe chiedere. Un patto nazionale d'emergenza capace di riunire le maggiori forze politiche, dal Pdl al Pd, mettendo da parte la lista dei livori e dei veti reciproci. Ciascuno si assume la propria dose di responsablità politica e sociale.

Niente di tutto questo s'intravede. Il cammino verso il 14 dicembre continua con l'annuncio di una sfiducia che non contiene in sé una clausola «costruttiva» (l'indicazione della nuova maggioranza) come dovrebbe essere se fossimo in Germania. E infatti le 317 firme per ora sono soprattutto uno strumento di pressione. Su Berlusconi, s'intende, affinchè vada a dimettersi prima del fatidico voto del Parlamento. Questa insistenza lascia pensare che in realtà non ci sia tutta questa sicurezza sui numeri.

Quello che in realtà sperano i fautori della «sfiducia», appartengano essi al centrosinistra o al cosiddetto «terzo polo», è che il presidente del Consiglio alzi bandiera bianca prima del 14, schiacciato sotto il peso delle rivelazioni e dei sospetti. Nonostante le parole pragmatiche di Hillary Clinton, infatti, i veleni di Wikileaks continuano a dominare la scena. C'è di tutto: interessi personali nei rapporti con Putin, problemi di salute del premier. Arriveranno magari nuove confessioni di giovani ragazze. Non si può escludere nulla.

Finora però questa gragnuola di proiettili mediatici non ha prodotto il cedimento di un Berlusconi peraltro piuttosto provato. Non ha causato lo sfaldamento del Pdl, anche se si allude sempre a un piccolo gruppo orientato da Pisanu a Palazzo Madama. Tantomeno ha provocato la spaccatura fra la Lega e lo stesso Berlusconi: anzi, il contrario. E' chiaro che le mancate dimissioni del premier prima del 14 renderanno necessario il voto in Parlamento. Lì si vedrà se i 317 deputati sono davvero determinati ad aprire la crisi. Che sarà senza dubbio «al buio», assegnando perciò una responsabilità molto gravosa al presidente Napolitano.

©RIPRODUZIONE RISERVATA
http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-12-02/firme-sono-forma-pressione-222001.shtml?uuid=AYQrLboC
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« Risposta #16 inserito:: Dicembre 07, 2010, 03:56:29 pm »

Verso il 14 senza mediazioni e per ora senza un vincitore certo

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 07 dicembre 2010 alle ore 09:30.
L'ultima modifica è del 07 dicembre 2010 alle ore 09:39.

   
Ci vuole una dose di ottimismo quasi sconfinato per credere possibile un fatto nuovo, cioè l'apertura di un negoziato tra Berlusconi, Fini e Casini prima del 14 dicembre. La realtà dice l'esatto contrario: la politica romana è in una condizione di stallo, scandito qui e là da schermaglie sempre più aspre, talvolta al limite della volgarità. E il Parlamento chiuso è la fotografia amara che descrive lo stato delle cose.

Sappiamo, d'altra parte, che nei giorni scorsi non sono mancati i tentativi di stabilire un contatto, se non proprio un avvio di dialogo, fra i contendenti. È noto che il tessitore più tenace è stato, al solito, Gianni Letta. Ma non ci sono margini e si capisce perché. La tensione che si è accumulata ha bisogno di sfogarsi. «Futuro e Libertà», il gruppo di Fini, è nato per riscattare il centrodestra dal «berlusconismo». Giusta o sbagliata, questa è la sua ragion d'essere: chiudere la stagione di Arcore. E infatti il presidente della Camera accentua i suoi attacchi al premier, imprimendo loro un profilo etico prima ancora che politico. Berlusconi, scandisce Fini, non solo non ha mantenuto le promesse fatte agli italiani, ma è anche privo di «onestà intellettuale».
È vero che in politica tutto può cambiare in fretta, ma su queste premesse è impossibile immaginare che i finiani rinuncino a votare la sfiducia il 14. E in cambio di cosa, poi? Berlusconi non concede nulla perché è convinto di vincere tra una settimana il braccio di ferro parlamentare, prima al Senato e subito dopo a Montecitorio. Si tratta di un azzardo perché nessuno può essere certo di come si risolverà un voto sul filo del rasoio. Però è un azzardo tipico del personaggio, che non a caso ostenta sicurezza. Quanto all'uscita di Fini («non ci saranno ribaltoni») sembra soprattutto un modo per difendersi dall'accusa più insidiosa che il Pdl gli rovescia addesso: quella di essere diventato uno strumento della sinistra, pronto a qualsiasi avventura parlamentare. Perciò il presidente della Camera parla ai suoi e li rassicura. Obiettivo ovvio: tenere unito «Futuro e Libertà».

Tuttavia, se non ci saranno «ribaltoni», vuol dire che la crisi dovrà aprirsi e risolversi risolversi nel perimetro del centrodestra allargato a Casini. Operazione complessa al limite della temerarietà, che richiede quelle dimissioni di Berlusconi prima del 14 che a Palazzo Chigi, lo sappiamo da tempo, non prendono in considerazione. E allora? Un nuovo governo Berlusconi, ma alle condizioni di Fini e Casini, non è realistico prima del voto parlamentare. Dopo il voto, si vedrà. Ma con due ipotesi sul campo molto diverse tra loro.

Se Berlusconi sarà sfiduciato, le dimissioni apriranno una fase nuova e imprevedibile, la cui gestione graverà sulle spalle del capo dello Stato. Ma di sicuro il «bis» dell'attuale premier sarà allora l'ultima delle opzioni plausibili. Più realistico immaginare le elezioni anticipate se Berlusconi e Bossi resteranno uniti e sapranno impedire defezioni nel Pdl. La Lega sarà più che mai il partito cruciale per decidere le sorti della legislatura. La seconda ipotesi è che il presidente del Consiglio ottenga la fiducia sia al Senato sia alla Camera, magari per pochissimi voti. In quel caso il governo non sarebbe più forte, ma Berlusconi avrebbe ottenuto una vittoria netta contro i suoi avversari. Lo sconfitto sarebbe Fini molto più di Casini. Così come, nel caso opposto e con il governo caduto, sarebbe il presidente della Camera il vero vincitore del braccio di ferro.

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http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-12-06/verso-senza-mediazioni-senza-214439.shtml
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« Risposta #17 inserito:: Gennaio 01, 2011, 11:38:05 am »



La divergenza ormai palese Berlusconi-Bossi sul voto anticipato

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 31 dicembre 2010 alle ore 08:17.
L'ultima modifica è del 31 dicembre 2010 alle ore 07:34.


Fino a oggi il patto politico e di convenienza fra Berlusconi e Bossi ha resistito a tutto e ha permesso al premier di rintuzzare l'attacco culminato nelle mozioni di sfiducia del 14 dicembre. In sostanza, ha salvato il governo. Ora però emerge una divergenza cruciale che segnerà l'avvio del nuovo anno e il destino della legislatura....

Da un lato, Berlusconi vorrebbe proseguire a oltranza, se possibile fino al 2013, convinto di raggranellare strada facendo i voti parlamentari indispensabili per tamponare la fragilità della maggioranza. In altri tempi si sarebbe detta la ricetta sicura del «tirare a campare», secondo la formula andreottiana: un esecutivo troppo debole per nutrire ambizioni, appunto un «governicchio», eppure determinato a resistere.
...

Dall'altro lato, Bossi è in uno stato di crescente disagio e teme che la «palude romana» finisca per ingoiare la sua riforma federalista. Oppure, se vogliamo suggerire un'interpretazione meno benevola, ma forse più veritiera, teme che passi il momento magico e che gli italiani comincino a comprendere che la riforma avrà bisogno di tempi molto lunghi – sanando grandi contraddizioni, economiche e amministrative – prima di produrre risultati tangibili.
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In altri termini, la Lega vorrebbe votare in fretta, sventolando la sua bandiera federalista; Berlusconi, no. La Lega ha paura del tirare a campare, cioè di un «effetto palude» sui propri livelli di consenso elettorale, oggi molto alti; Berlusconi vede troppi rischi e non poche incognite nel ritorno ravvicinato alle urne. Non è ancora una frattura, ma certo è un'incrinatura strategica di non poco conto.
...

Deriva anche dal fatto che il Carroccio e i suoi uomini, non solo Bossi ma Maroni, Calderoli e l'intero gruppo dirigente, pensano al loro futuro e intendono essere protagonisti del prossimo Parlamento. Il presidente del Consiglio sa invece che il suo potere personale ha raggiunto lo «zenit» in questa legislatura: nella prossima il suo ruolo sarà inevitabilmente diverso, per ragioni politiche e anagrafiche. Logico che preferisca attendere, visto che a Palazzo Chigi nessuno lo insidia e le opposizioni sono troppo frastornate per proporre un'alternativa credibile.
...

Nella Prima Repubblica ci si sarebbe limitati al piccolo cabotaggio quotidiano, all'insegna del rinvio. Ora non è più possibile, a meno di non voler certificare il fallimento, peraltro palese, del bipolarismo fin qui sperimentato. Il vecchio sentiero non è praticabile perché esiste un partito territoriale come la Lega che obbedisce a una logica talvolta ambigua, ma sempre collegata a un obiettivo preciso. E fino a oggi Bossi è stato abile nell'arte di non farsi logorare.
...


Berlusconi sa bene che la fiducia ottenuta a metà dicembre gli impone di governare. Ma questa volta c'è bisogno di un programma serio, si potrebbe dire di un progetto a medio termine che non sia solo annunciato. Un programma per cui al momento manca la cornice politica, perché è evidente che l'Udc di Casini non ha intenzione di farsi coinvolgere più di tanto (al di là di uno svogliato appoggio parlamentare a qualche provvedimento di legge) nell'epilogo della lunga stagione berlusconiana.

Però il leader centrista non vuole nemmeno offrire all'asse Pdl-Lega il pretesto per chiedere lo scioglimento delle Camere. Questo è un nodo che Berlusconi e Bossi dovranno sciogliere fra di loro, trovando un'intesa o consumando il loro dissidio. E poi dovranno parlarne con il Quirinale.

Berlusconi: al paese non servono elezioni anticipate. Ora riforme condivise

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http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2010-12-30/divergenza-ormai-palese-berlusconibossi-194322.shtml?uuid=AY8qYqvC
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« Risposta #18 inserito:: Gennaio 29, 2011, 11:37:18 am »

Il bivio del premier: equilibrio istituzionale o una rischiosa deriva

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 29 gennaio 2011 alle ore 08:02.
L'ultima modifica è del 29 gennaio 2011 alle ore 09:11.

Portare in piazza la nevrosi istituzionale rischia di essere l'ultimo errore. Finirebbe per certificare una condizione non più solo di malessere, bensì di autentico sfascio generale. Eppure è quello che potrebbe accadere il prossimo 13 febbraio se davvero il Pdl, il partito del presidente del Consiglio, scendesse nelle strade di Milano con il proposito di manifestare contro la procura e contro le inchieste in corso. Soprattutto perchè la volontà di denunciare la «giustizia politica» e chi l'amministra è rivendicata ogni giorno dallo stesso premier in un crescendo inquietante.

Berlusconi ha il diritto di sentirsi perseguitato; forse ha persino ragione nel lamentare l'accanimento nei suoi confronti e l'uso mediatico delle intercettazioni. Ma ha torto nel voler alimentare, da presidente del Consiglio in carica, uno scontro aspro e senza fine con l'ordine giudiziario. Come pure ha torto nel voler aizzare la contrapposizione permanente fra la legittimità popolare (il voto) e la sostanziale illegittimità di una magistratura «eversiva».

L'idea che i seguaci del capo del governo vadano in piazza, con il suo pieno sostegno, a gridare la loro rabbia e la loro frustrazione contro i pubblici ministeri pone la polemica ai confini dello Stato di diritto. E infatti ieri Umberto Bossi è intervenuto di nuovo per frenare la deriva in corso.

Non è la prima volta, come è noto. Nei giorni scorsi il capo della Lega aveva consigliato a Berlusconi di prendersi «un po' di riposo» e ora dice che «bisogna finirla con questa confusione». Non sembra che si tratti di un semplice auspicio. Bossi è il vero partner politico del presidente del Consiglio, da lui dipendono le sorti del governo. Quando consiglia di «abbassare i toni» conviene seguire il suggerimento, tanto più che l'uomo è stato ed è leale a Berlusconi e non ha alcuna intenzione di buttare a mare la coesione del centrodestra.

A questo punto è augurabile che prevalga il buonsenso. Sappiamo che il premier ha da tempo deciso di non chiarire la vicenda di Arcore recandosi a parlare con i magistrati. Dobbiamo attenderci perciò il conflitto di attribuzione presso la Corte Costituzionale e il ricorso al tribunale dei ministri. Tutto questo mentre la procura di Milano insiste per stringere i tempi del processo. E' un incrocio pericoloso che va gestito con moderazione sul piano dei comportamenti politici. Bossi l'ha capito, Berlusconi è assai più incerto.

Lo spirito del combattente gli fa dire che «le tempeste non mi spaventano»; ma al di là delle parole resta il dubbio su quali saranno le scelte dei prossimi giorni. Il premier è davanti a un bivio decisivo: dovrà decidere se assumere con convinzione un profilo istituzionale ovvero trasformarsi in un capo-popolo, con tutti i pericoli connessi. Il suo richiamo al Parlamento e alla maggioranza che più volte ha confermato la fiducia all'esecutivo è sacrosanto: ma naturalmente ne discendono dei doveri, non solo dei diritti.

Va colto nella giornata di ieri anche il riferimento di Casini, a Todi, all'esigenza di dare a questa crisi uno sbocco politico e non giudiziario. Le lacerazioni derivanti da una rimozione di Berlusconi per via giudiziaria, anzichè attraverso un processo politico ed elettorale, sarebbero insondabili. Di sicuro molto gravi per l'equilibrio del paese. E' un punto su cui il ventaglio delle forze politiche d'opposizione non ha ancora espresso un'idea chiara.

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http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-01-29/bivio-premier-equilibrio-istituzionale-081359.shtml?uuid=Aa7C8u3C
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« Risposta #19 inserito:: Febbraio 22, 2011, 04:08:13 pm »

Nessun margine per una riforma condivisa della giustizia

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 22 febbraio 2011 alle ore 08:51.
L'ultima modifica è del 22 febbraio 2011 alle ore 08:04.

   
«La riforma della giustizia si farà» garantisce il ministro Alfano. E si farà - insiste - anche la riforma della Corte, adombrata nei giorni scorsi dal presidente del Consiglio, ma in termini punitivi verso i giudici della Consulta. S'intende che ci vuol altro per dissipare il generale scetticismo. Lo scenario in cui cadono queste e altre affermazioni non promette certo un clima propizio ad affrontare un tema così cruciale.

Sono anni, peraltro, che la riforma viene proposta a parole, senza che mai seguano i fatti. Per essere concreti la si doveva avviare all'inizio della legislatura. Oggi, con i processi di Berlusconi alle porte e un aspro, permanente scontro politico-istituzionale, perché mai si dovrebbe essere ottimisti?

In realtà Berlusconi e i suoi ministri non suggeriscono un percorso costituzionale realistico per realizzare davvero la riforma della giustizia. Quello che propongono è un progetto politico con tre obiettivi.

Primo, garantire la compattezza di una maggioranza di centrodestra che in queste settimane ha dimostrato di esistere e che oggi ruota intorno ai 320 voti alla Camera. Non è proprio la soglia di sicurezza desiderata dal premier, ma quasi.

Secondo, utilizzare il tema della giustizia come strumento privilegiato per mantenere alta la tensione nel paese. Si capisce infatti che l'attacco alla Consulta può avere un'utilità solo politica, mentre sarebbe controproducente se il traguardo fosse una riforma condivisa dell'istituto. In questo secondo caso, l'unica strada è quella che s'intravede nelle parole di Giorgio Napolitano: considerare la Costituzione e i suoi princìpi un essenziale «punto di riferimento». Solo così sarebbe possibile costruire nel tempo quell'ampia intesa necessaria per modificare qualche capitolo della Carta senza strappi pericolosi.

Terzo obiettivo: esportare un po' di contraddizioni nel centrosinistra. L'appello ai «garantisti» del Pd perché escano dal loro riserbo e accettino un compromesso almeno sul ripristino dell'immunità parlamentare, ha un sapore strumentale. È vero che nell'opposizione la linea favorevole all'immunità ha molti sostenitori (da Violante all'Udc ad alcuni esponenti di «Futuro e Libertà»). Esiste anche un ddl costituzionale «bipartisan» che porta le firme di Franca Chiaromonte e Luigi Compagna. Ma in termini politici non esiste - per le ragioni qui riassunte - un clima idoneo a realizzare una convergenza destra-sinistra. Non adesso e non con Berlusconi gravato dalle imputazioni che conosciamo.

Semmai dalla polemica in corso s'intuisce che esiste, sulla carta, uno spazio per interventi comuni sulla giustizia. Ma non all'interno di questa cornice politica. I cosiddetti «garantisti» dell'opposizione dovranno mordere il freno. E del resto è chiaro che Berlusconi preferisce appiattire il centro e il centrosinistra sulla linea intransigente di un Di Pietro. È una manovra ripetuta più volte negli anni, spesso con successo.

Nel frattempo la crisi libica rischia di modificare l'agenda delle priorità. Dovrebbe essere il terreno della coesione nazionale, come ha suggerito Casini. Lo stesso Romano Prodi è apparso cauto e ha giustamente messo in rilievo che il problema è la disunione dell'Europa.

Viceversa la polemica su Berlusconi amico di Gheddafi è fuorviante, visto che il trattato italo-libico è stato approvato in Parlamento quasi da tutti, poco più di un anno fa. Uniche eccezioni l'Udc e l'Idv.

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« Risposta #20 inserito:: Marzo 01, 2011, 11:03:17 am »

Perché in questa fase la tensione istituzionale è inevitabile

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 01 marzo 2011 alle ore 09:42.
L'ultima modifica è del 01 marzo 2011 alle ore 09:42.

   
Una volta di più le teorie sul Berlusconi «moderato», sul presidente del Consiglio prudente e desideroso di non turbare gli equilibri istituzionali sono smentite dalla cronaca quotidiana.

Una volta di più registriamo le critiche, o meglio gli attacchi berlusconiani al presidente della Repubblica (non solo allo «staff» del Quirinale, come si vorrebbe credere), alla Consulta e naturalmente alla magistratura.

Si dirà che non c'è niente di nuovo in queste uscite e che non vanno prese troppo sul serio poiché fanno parte del personaggio Berlusconi. Ma la realtà è diversa.
Perché, dopo un periodo di calma apparente, il premier sente il bisogno di alzare di nuovo la tensione con il capo dello Stato, definito troppo «puntiglioso» nel controllo delle leggi? Perché non passa quasi giorno senza che la Corte Costituzionale sia colpita con uno sberleffo o una sciabolata?

La ragione riguarda lo stato di salute del governo. Finora Berlusconi ha avuto successo nel chiudere la sua maggioranza in un campo trincerato. Ha ottenuto l'assenso di Bossi a proseguire la legislatura e i numeri della coalizione alla Camera gli hanno dato ragione. Tuttavia adesso comincia il difficile. Le riforme più volte annunciate devono prendere forma, così da dare un senso al biennio che finirà nel 2013. Altrimenti si aprirebbe lo scenario peggiore: un premier barricato a Palazzo Chigi, impegnato a difendersi dai magistrati e di fatto non in grado di governare.

Una simile ipotesi sarebbe incompatibile con la volontà di trascinare la maggioranza fino al termine naturale della legislatura. Per quale motivo, ad esempio, la Lega accetterebbe di puntellare il governo per ben due anni? Non potrebbe farlo solo in nome dell'ordinaria amministrazione. Fin qui Bossi e i suoi si sono concentrati sui decreti del federalismo fiscale che dovranno essere votati entro i primi di maggio. Oltre quella data il leader leghista ha chiesto al suo vecchio alleato due cose: numeri certi in Parlamento e un programma di riforme.

Il primo punto sembra acquisito, sia pure con qualche residua incertezza. Il secondo è quanto mai nebuloso. La riforma costituzionale della giustizia, sulla carta da sempre al vertice delle priorità berlusconiane e peraltro mai realizzata, sconta un generale scetticismo. Cui va aggiunta la diffidenza della stessa Lega. Difficile credere che il premier abbia oggi la serenità e la credibilità necessarie per discutere davvero di una riforma così complessa.

Questo spiega il ricorrente riemergere del malanimo contro le altre istituzioni: un Quirinale sentito come avversario, un Parlamento dove solo «50 o 60 lavorano», per non dire della Consulta. Sembra quasi che Berlusconi, dopo aver epurato la sua maggioranza da ogni elemento ostile, oggi cerchi altrove le ragioni della paralisi, ossia del «non governo».
E naturalmente le trovi nella complessità dei meccanismi costituzionali.

È una riscoperta della venatura «antipolitica» tipica del Berlusconi dell'esordio: il famoso '94 a cui tanti fanno riferimento. Ma diciassette anni dopo lo spirito è ben diverso.
Gli attacchi ai vari livelli istituzionali rischiano di essere una prova di debolezza, oppure un alibi. O un pericolo. Un punto è certo. Avendo deciso di prolungare la legislatura, Berlusconi ha bisogno di qualche risultato concreto per tenere unita la maggioranza. In assenza di risultati non c'è che un tendenziale scontro istituzionale.

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« Risposta #21 inserito:: Marzo 15, 2011, 04:53:55 pm »

Irrompe la questione nucleare e può cambiare il destino del Pd

di Stefano Folli

Questo articolo è stato pubblicato il 15 marzo 2011 alle ore 09:00.
L'ultima modifica è del 15 marzo 2011 alle ore 08:11.
   

La questione nucleare intreccia di nuovo il suo destino con quello del centrosinistra. In forme che nessuno poteva prevedere fino a una settimana fa e che oggi rischiano di caricarsi di conseguenze politiche per nulla secondarie.

Vediamo i fatti. Dei tre referendum che saranno votati alla metà di giugno, il più significativo sembrava essere quello sul «legittimo impedimento»: un'occasione di mobilitazione per tutti gli anti-Berlusconi e un'opportunità per Di Pietro di ritrovare una parte da primo attore nella commedia italiana. Ma la tragedia del Giappone rimette al centro il tema dell'energia nucleare. E così il secondo referendum voluto dall'Italia dei Valori, formulato per respingere la costruzione di nuovi impianti sul territorio nazionale, diventa cruciale (il terzo quesito, sull'acqua pubblica, resta sullo sfondo).

Oggi sono in pochi a dirsi sicuri che i referendum non raggiungeranno comunque il «quorum». Una settimana fa la grande maggioranza dava per certo il fallimento dei quesiti.
Il Giappone ha cambiato completamente la prospettiva. Ora che la Germania ha deciso la moratoria dei vecchi impianti e la Svizzera ha sospeso le procedure per le nuove installazioni, l'Italia è percorsa da una vigorosa ondata emotiva. Del resto, c'erano voluti anni e anni per riassorbire il trauma di Chernobyl, da noi molto più che altrove nell'Europa occidentale.
È chiaro che l'allarme a Tokio, se non dovesse rientrare in pochi giorni (e non sembra proprio), determinerà un senso d'angoscia che andrà a scaricarsi sul quesito referendario.

Per il momento la questione mette in difficoltà il governo Berlusconi e tutti i «nuclearisti» italiani. Ieri il ministro dell'Ambiente, Stefania Prestigiacomo, si è spinta a sostenere che «non cambierà nulla nel programma di rientro dell'Italia nel nucleare europeo». Ma è sembrata un'affermazione un po' troppo ottimista. Qualcosa cambierà: se non altro, nella migliore delle ipotesi, per quanto riguarda gli «standard» di sicurezza, i controlli tecnologici, la scelta dei siti.

Tuttavia gli esiti di questa svolta anti-nucleare nell'opinione pubblica peseranno soprattutto sul profilo del centrosinistra. Se mai i tre referendum dovessero toccare il «quorum» sulla spinta psicologica del Giappone, quel giorno potrebbe costituire un nuovo inizio per il Partito democratico.

Si capisce perché. Il quorum sul nucleare, e di conseguenza la vittoria dei referendari, porterebbe con sé, per effetto di trascinamento, il quorum e la vittoria sul «legittimo impedimento» (oltre che sull'acqua). Sarebbe una sorta di trionfo degli intransigenti, ben rappresentati dal duo Vendola e Di Pietro. L'estrema cautela che caratterizza Bersani e il gruppo dirigente del Pd dovrebbe fare i conti con la realtà. Non a caso un giovane come il lombardo Civati, membro della direzione e fino a qualche tempo fa stretto alleato di Matteo Renzi, ha già detto che il partito deve far sua a viso aperto la battaglia referendaria. Per non rischiare di regalare la svolta ai capi di due formazioni esterne al Pd, l'Italia dei Valori e Sinistra e Libertà.

Di sicuro un nuovo «no» degli italiani al nucleare, raddoppiato dall'abolizione del «legittimo impedimento», cambierebbe il volto del centrosinistra. Renderebbe impossibile allentare il legame anche elettorale con Di Pietro e Vendola. Fin da adesso, peraltro, ci sono deboli margini per qualsiasi dialogo sulla riforma della giustizia tra il Pd e la maggioranza di governo.


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« Risposta #22 inserito:: Aprile 29, 2011, 06:42:18 pm »

La coerenza della politica estera oggi può garantirla il Quirinale

di Stefano Folli

28 aprile 2011

Se si esclude una battuta del ministro Calderoli («si va di male in peggio»), ieri la Lega non ha buttato altra benzina sul fuoco in cui arde la politica estera dell'Italia. Non è poco, pensando che proprio ieri i Tornado hanno volato per la prima volta con il loro carico di bombe nel cielo sopra Misurata.

Quando un partito vuole dissociarsi e provocare la caduta del governo di cui fa parte, di solito insiste, alza il tono, non dà tregua. Viceversa, Bossi e i suoi, pur nella loro irritazione, hanno evitato di compiere altri passi verso la crisi e sembrano in attesa; mentre l'offensiva di carta è affidata alla "Padania", il foglio che riflette gli umori della base.

Un altro dato: non è in vista, almeno fino a stamane, alcun autonomo documento leghista per la seduta di martedì alla Camera. Ci sono le mozioni delle diverse opposizioni, ma non c'è il testo che segnerebbe la vera, irrimediabile frattura fra il Carroccio e il governo Berlusconi. Questo non significa che il peggio sia passato. Al contrario, l'impressione è che il paese stia attraversando un momento di estrema confusione. Non dipende solo dall'avvicinarsi del voto amministrativo a Milano e altrove. Dipende dal progressivo sfilacciamento della relazione politica fra la Lega e il Pdl.

È un logoramento i cui protagonisti si muovono con ovvia cautela, perché non si sa cosa ci sia dietro l'angolo e non conviene a nessuno passare per destabilizzatore. Ma in tanti sono scontenti: a cominciare da Maroni fino al gruppo (Calderoli) più vicino a Tremonti. Il quale a sua volta appare sotto tiro. In fondo, se Berlusconi ha ancora un amico, questi è Umberto Bossi. Ma anche il vecchio leader è deluso e dubbioso: sulla Libia e su molto altro. Non può ammettere - come ha detto con tono accorato a Napolitano - che la Lega sia ferita nella sua dignità.

Ciò significa che l'incidente libico, peraltro gravissimo, potrà essere tamponato in tempo per il dibattito a Montecitorio. Ma l'impianto di fondo della coalizione Pdl-Lega come l'abbiamo conosciuta in questi anni si sta sgretolando. Berlusconi ha costruito la sua lunga stagione politica su di una salda ed efficiente leadership personale. Riconosciuta come tale anche dagli avversari. Ma ormai è evidente - e non da oggi - che il problema del governo risiede anche nella guida. È la debolezza del leader, il più delle volte, la fonte delle contraddizioni e degli incidenti di percorso. Lo si è visto nella gestione a zig-zag della questione libica. E se ne è avuta conferma nell'incontro bilaterale con Sarkozy.

Ora il presidente del Consiglio ha una sola strada davanti a sé, come si è capito ieri sera con il colloquio al Quirinale: affidarsi senza riserve a Napolitano, nei termini ben riassunti dal ministro degli Esteri, Frattini. La cornice è quella offerta dalla risoluzione Onu, all'interno della quale il capo dello Stato ha agito fin dal primo istante. Napolitano è l'unico soggetto in grado di limare gli spigoli, anche rispetto a Bossi, con l'obiettivo di portare l'insieme delle forze politiche (escluse l'Italia dei Valori e la sinistra pacifista) a superare senza danni lo scoglio parlamentare. Se la Lega acconsente, l'impresa è tuttora possibile.

Il risultato sarà che la coerenza della politica estera italiana è garantita dal Quirinale più che dal governo. Un'anomalia, certo, ma anche l'unica via per limitare i danni e sfuggire al discredito internazionale. Lo ha capito Berlusconi e nel complesso lo ha compreso il Pd che non a caso ha presentato una mozione di grande equilibrio.

da - ilsole24ore.com/art/notizie/2011-04-28/

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« Risposta #23 inserito:: Maggio 02, 2011, 05:25:00 pm »

Evitata una crisi incomprensibile

di Stefano Folli

Se non è proprio un lieto fine, almeno è una fine prevedibile. Il lungo valzer sull'orlo del vulcano si conclude senza passi falsi fatali. In questo Umberto Bossi, bisogna riconoscerlo, è maestro. Non ha mai avuto intenzione di far cadere il Governo, in cui convivono ancora troppi interessi leghisti.

Tuttavia lo ha fatto credere. Ha illuso l'opposizione che le avrebbe tolto le castagne dal fuoco, rovesciando Berlusconi. E si è mosso con abilità in modo da soddisfare le inquietudini della sua base elettorale, giusto due settimane prima del voto amministrativo.
Dietro le quinte, numerosi contatti e colloqui. Anche con il Quirinale che ha sempre tenuto stretto il bandolo della matassa. Alla fine questo lavorìo ha prodotto una mozione che nessuno potrà leggere come un annuncio di crisi. Al contrario, non c'è niente che con un po' di buona volontà, magari correggendo qualche capoverso, non possa essere sostenuto da una base parlamentare ampia. Se poi si riuscisse, martedì alla Camera, a evitare di votare sui vari documenti, in molti sarebbero contenti. Ma anche se così non fosse, anche se mancheranno le convergenze che in questo clima sono poco plausibili, lo scoglio sarà superato e il governo andrà avanti.

Tanto più che le minacce rivolte ieri da Gheddafi all'Italia, per quanto poco verosimili, dovrebbero indurre a una maggiore compattezza sia il governo sia le forze parlamentari. E soprattutto dovrebbero consigliare di rafforzare, non di indebolire, l'impegno italiano nella crisi mediterranea.
Le opposizioni diranno (lo stanno già dicendo) che Bossi ha fatto la voce grossa, ma poi ha dovuto piegarsi a Berlusconi. Non è esatto. Il vecchio leader è riuscito ad occupare per giorni le prime pagine dei giornali, ha rimesso al centro la Lega, ha evitato che il partito si divaricasse nel gioco delle fazioni interne. In più ha tenuto sulla griglia Berlusconi, ricordandogli che il governo si regge su un patto Pdl-Lega e che all'interno di tale patto il Carroccio rivendica pari dignità. E ancora: sarà difficile che dalla prossima settimana riprenda la guerriglia politico-mediatica contro Tremonti, dopo la difesa intransigente del ministro dell'Economia fatta da Bossi.

Per il resto, si vedrà. Si dice che il Carroccio abbia avuto compensazioni su vari piani. E promesse per il futuro, relative agli assetti della giunta Moratti bis, se le elezioni vedranno la riconferma del sindaco. Quello che è abbastanza sicuro è che diminuiranno le eccessive attenzioni di Berlusconi verso il gruppo dei Responsabili, in procinto di ottenere un grappolo di poltrone governative. Alla Lega non è mai piaciuto che il baricentro del governo si spostasse verso questa pattuglia di trasformisti, o supposti tali: anche per il sapore di vecchia politica che i Responsabili portano con sé.

Sarà un problema in più per Berlusconi, che ha promesso molto a troppi. Ora dovrà ricominciare da capo e «trovare la quadra», come dice Bossi. Non tanto sulla Libia, visto che ormai il dissidio volge all'epilogo, quanto sul mosaico disordinato di una maggioranza debole ma famelica.
Riguardo alla crisi nel Mediterraneo, in Parlamento si parlerà d'iniziativa diplomatica dell'Italia, di escludere in modo tassativo l'intervento di terra, di un limite temporale alle azioni aeree (questo è poco verosimile, ma volendo si può trovare una formula). Quel che è certo è che con un po' d'ipocrisia si è evitata la disgregazione del governo sulla politica estera.

da - ilsole24ore.com/art/notizie/2011-05-01/
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« Risposta #24 inserito:: Giugno 18, 2011, 11:05:21 pm »

Se pure Pontida non è il giorno del giudizio, il dopo resta oscuro

di Stefano Folli


La verità di Pontida si annuncia cangiante, difficile da afferrare. Per certi aspetti ha ragione Berlusconi e i vertici del Pdl quando si dicono certi che la giornata di domani non segnerà la fine dell'alleanza. Bossi accenderà gli animi delle migliaia di militanti attesi sul pratone (nonostante le previsioni di pioggia), ma al dunque - si suppone - non pronuncerà parole definitive. Lo stesso attivismo leghista delle ultime ore, dai toni duri sulla Libia all'intransigenza contro gli immigrati clandestini, dimostra l'intenzione non di rompere, ma di avere argomenti per arginare il malcontento della base.

È possibile che vada così. Con la conseguenza di rendere indolore il passaggio della «verifica» in Parlamento e di aprire la strada verso la pausa estiva, in un quadro di minori tensioni nella maggioranza. Ma questa è solo una parte della verità, figlia peraltro del rapporto tuttora solido fra Bossi e Berlusconi. L'altra parte riguarda le contraddizioni di fondo che logorano il governo in forme sempre più evidenti. Sono contraddizioni, diciamo così, di natura strategica: toccano in primo luogo un partito, il Carroccio, che ormai è a disagio in una cornice di alleanze che ha dato troppo poco rispetto alle attese alimentate negli anni.

Lo stesso federalismo è ancora un oggetto misterioso e non si sa quando riuscirà a migliorare la qualità della vita nelle regioni settentrionali (le uniche che interessano alla Lega). E poi c'è il senso di angoscia indotto dai 40 miliardi di euro che l'Unione esige siano risparmiati entro il 2014. Tutti, sia pure confusamente, si rendono conto che il momento è drammatico. E che si sta aprendo un fossato fra la debolezza del premier e le esigenze del paese. Nella Lega in tanti sono convinti che l'attuale governo è, se non proprio morto, certo malato al punto da esser prigioniero della sua sostanziale paralisi. La stessa inchiesta che ha investito Palazzo Chigi come un'onda anomala viene vista come il segno che un'epoca si sta concludendo. E si conclude all'italiana, con i magistrati alla porta.

Allora può essere che la domenica di Pontida non coincida con il giorno del giudizio. Ma la prospettiva a breve resta oscura. La manovra economica a cui il ministro Tremonti si accinge richiederebbe un quadro politico molto forte e determinato. Anche una leadership adeguata. Ma non c'è nulla di questo. E ci si balocca invece con un'idea di riforma fiscale per la quale evidentemente non ci sono le risorse e che accenderebbe i sospetti dell'Europa. Una riforma che sarebbe figlia solo del disperato bisogno di recuperare consensi da parte di Pdl e Lega. Non si vede perché il ministro dell'Economia dovrebbe percorrere un simile sentiero, considerando che la sua credibilità dipende dal rapporto con l'Europa piuttosto che dai compromessi romani.

Conclusione. Se anche Berlusconi domani sopravvive agli strali di Pontida, ed è probabile che accada, la crisi resta virtualmente aperta. E l'autunno si annuncia gravido di rischi. I problemi richiederebbero una coesione staordinaria per essere affrontati. Ma nessuno la vede. Ecco perché il presidente della Repubblica ha ricordato ai partiti che si può e anzi si deve essere politicamente distinti. Ma che questo non dovrebbe impedire di «lavorare insieme» per il bene comune. Come dire: non c'è bisogno di un super-governo di larghe intese per affrontare con spirito concorde i nodi di fondo. Tutti li vedono, quei nodi. Ma dov'è il senso di responsabilità nazionale?

da - ilsole24ore.com/art/notizie/2011-06-18/pure-pontida-giorno-giudizio-081502.shtml?uuid=AaHOurgD
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« Risposta #25 inserito:: Giugno 27, 2011, 05:34:40 pm »

Berlusconi usa la verifica per garantirsi un'estate più tranquilla

il Punto di Stefano Folli

22 giugno 2011


Sarà anche una maggioranza «di carta», come dice Antonio Di Pietro, però si tratta di una carta assai resistente. Ieri alla Camera il centrodestra ha raccolto 317 voti sul decreto sviluppo. In merito all'approvazione della «fiducia» non c'erano dubbi, tuttavia il punteggio raggiunto è alto. Ad esso corrisponde il risultato deludente delle opposizioni, rimaste nel loro complesso al di sotto della somma potenziale: nove voti di meno, frutto delle assenze.

È singolare questa disparità. La maggioranza Berlusconi-Bossi, nonostante le difficoltà che conosciamo, dimostra una notevole compattezza, di cui si è compiaciuto il neosegretario del Pdl Alfano. Al contrario le opposizioni non sembrano rendersi conto di un punto cruciale: è soprattutto nelle battaglie parlamentari, prima che nelle piazze, che occorre essere credibili. Anche quando, in base ai numeri, la sconfitta è certa.

Sta di fatto che Berlusconi non ha perso l'occasione di agitare questo argomento nell'informativa del pomeriggio al Senato: opposizioni divise, incapaci di darsi una coerenza e una linea politica. Lo aveva già detto Bossi a Pontida e il presidente del Consiglio si è affrettato a ribadire il punto di vista. Dimostrare che non ci sono alternative all'attuale maggioranza, salvo il caos e la speculazione internazionale, aiuta a cementare il sostegno al governo. Al di là della freddezza della Lega e del suo desiderio malcelato di mettere fine prima o poi all'era berlusconiana.

Sotto questo aspetto Berlusconi ha vissuto una giornata positiva. Se l'obiettivo è andare avanti oltre l'estate, resistendo ai colpi dell'avversa fortuna, non c'è dubbio che il premier possa dirsi soddisfatto. Le richieste della Lega, dai ministeri al Nord alla fine dell'intervento in Libia, si sono rivelate ben poco distruttive. Certo, «nulla è scontato», come dice Bossi. Ma l'ultimo che vuole creare veri problemi a Berlusconi è proprio il suo vecchio alleato. Poi è inevitabile che intervenga qualche giochetto procedurale figlio di «furbizie», come stigmatizza il presidente della Camera a proposito degli ordini del giorno contro il trasferimento dei ministeri: presentati dall'opposizione, ma accolti dal governo al fine di annacquarli.

Vedremo oggi a Montecitorio. Ieri l'impressione era di un governo poco vitale, forse addirittura imbalsamato, eppure in grado di reggersi sulle sue gambe. I voti continuano a esserci, l'impalcatura della maggioranza regge. Il discorso di Berlusconi è apparso piuttosto di maniera, la copia di quello pronunciato a metà dicembre. E tuttavia era del tutto funzionale all'obiettivo di durare, scavalcando l'estate grazie alla generale assenza di alternative.

Quanto alle riforme, al piano per il Sud, alle tre aliquote fiscali, alla revisione istituzionale, sono temi affastellati - e non certo per la prima volta - alquanto alla rinfusa. I famosi cinque punti del programma sono sulla griglia da tempo immemorabile. Stavolta la novità è che non si parla di giustizia, s'introduce il nodo della riforma tributaria, facendo attenzione a non urtare Tremonti (peraltro assente), e si accetta l'agenda del rigore europeista.

La reale praticabilità delle riforme ancora una volta annunciate non interessa più di tanto Berlusconi. L'importante è aver saldato il cerchio della maggioranza, controllato gli umori del Carroccio e verificato la tenuta dei Responsabili. Poi, ogni giorno ha la sua pena. Ma il traguardo del 2013 è lontano, ancora troppo lontano.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-06-21/berlusconi-verifica-garantirsi-estate-220307.shtml?uuid=AaW4bzhD
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 31, 2011, 09:24:56 am »

Con l'effetto-Renzi, a sinistra primarie aperte più vicine

di Stefano Folli

30 ottobre 2011


Dopo il week-end fiorentino della Leopolda, il Partito democratico si risveglia un po' diverso. Le acque del centrosinistra sono ormai increspate e non solo per merito di Matteo Renzi. C'è una dinamica fra i volti nuovi del Pd che improvvisamente conquistano la scena e impongono i loro temi. Dal punto di vista mediatico è stata una buona idea la visita dell'altro giovane emergente, Civati, al convegno del sindaco fiorentino.

E poi ci sono anche i giovani del Mezzogiorno riuniti con Bersani a Napoli.
In generale si sta verificando un fenomeno ben noto in politica: quando si affermano protagonisti inediti, più freschi, percepiti con simpatia dall'opinione pubblica come interpreti della "modernità", il vecchio gruppo dirigente appare da un giorno all'altro ossificato. Ed è qui l'essenza del successo di Renzi. Perché di successo si deve parlare, se si ammette che da oggi l'identità del partito dovrà tener conto delle novità.
Intendiamoci: per Renzi e i suoi amici il difficile comincia adesso. È facile raccogliere sorrisi e pacche sulle spalle quando si resta nel generico. Un buon comunicatore (e il sindaco di Firenze è più che buono, è ottimo) sa navigare nel mondo dei "media" come un pesce nell'acqua.

Man mano che la corsa si fa dura vanno però precisati i fatidici "contenuti", le idee, le priorità. Occorre saper essere "moderni" restando però dentro una tradizione culturale che per Renzi coincide con l'incontro dei vari filoni riformisti che animarono le speranze poi deluse del primo Ulivo.
Sotto questo aspetto il sindaco dovrà fare uno sforzo nel suo intervento conclusivo di oggi. Dovrà essere molto più concreto e propositivo di quanto non sia stato finora. Qualcosa sul modello e nello stile indicato da quel personaggio davvero pragmatico che è l'ex sindaco di Torino, Chiamparino, intervenuto ieri.

Abbiamo capito che la partita si giocherà all'interno del Pd, senza fratture che nessuno si augura. Anche perché a questo punto della legislatura, con le elezioni in vista, eventuali punizioni inflitte ai «giovani che scalciano» (parole di Bersani non proprio ben scelte) sarebbero un suicidio.
Al contrario, il risultato politico di questa tornata di convegni, e in particolare della Leopolda, riguarda il processo delle primarie. Vedremo come finirà, ma non c'è dubbio che il tema ha acquistato una forza ineludibile che prima non aveva. Primarie "aperte", alla francese. Non quelle ingessate, cosiddette «di coalizione», con il segretario Bersani come unico candidato del Pd. Date le circostanze, un ricorso alle primarie aperte sarebbe il vero «big bang» in grado di scuotere il centrosinistra e di presentarlo agli elettori sotto una luce realmente rinnovata.

Bersani dovrebbe essere il primo a cavalcare la tigre, perché in fondo ha poco da temere dai «nuovisti» se la sfida è per la leadership. Il segretario è solido ed è in grado di reggere agli attacchi, mentre ha tutto da perdere se lascia ai giovani lo spazio mediatico e in più passa per uno che non li capisce e li snobba. Da oggi, in ogni caso, il Pd, inteso come gruppo dirigente, dovrà badare a scrollarsi di dosso l'etichetta di «conservatore» e «passatista» che gli è stata appiccicata addosso. Può riuscirci, ma ci vuole un supplemento di fantasia. Il che non farà male all'esangue centrosinistra che si prepara al voto.

da - http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011-10-30/effettorenzi-sinistra-primarie-aperte-081159.shtml?uuid=AauwQEHE
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« Risposta #27 inserito:: Novembre 03, 2011, 05:03:31 pm »

Il Parlamento da coinvolgere

di Stefano Folli

L'Italia non può presentarsi a mani vuote domani al vertice del G-20. Non potrebbe in ogni circostanza, ma in particolare non può farlo dopo le terribili giornate vissute dal Paese: gli "spread" arrivati oltre i 450 punti e la Borsa che si schianta senza paracadute nella peggiore seduta degli ultimi tre anni. «Le misure sono improrogabili» ha fatto sapere Giorgio Napolitano con una nota assolutamente perentoria, diffusa un attimo dopo che era stata resa nota la telefonata fra Silvio Berlusconi e Angela Merkel.

Un colloquio, quest'ultimo, auspicato nelle ore precedenti dallo stesso Quirinale, in quanto necessario per ancorare il Governo al realismo, cioè alla linea del rigore e soprattutto della tempestività. Senza l'assenso o almeno la non ostilità del Governo di Berlino non c'è via d'uscita, tanto meno c'è un qualche recupero di credibilità. È la triste condizione di un esecutivo "commissariato", ma tant'è.

Il Capo dello Stato, il Governo tedesco, i mercati finanziari: nelle ultime ore intorno al presidente del Consiglio la pressione è stata concentrica, determinando la convocazione urgente della riunione ristretta di ieri sera. Preparatoria, si deve immaginare, di un decisivo Consiglio dei ministri oggi. In ogni caso il presidente del Consiglio ha il dovere di assumersi le responsabilità del caso insieme ai suoi ministri, in particolare quello dell'Economia, e di essere convincente davanti agli italiani, davanti al Parlamento e domani di fronte ai partner. Dopo settimane di parole e di vaghe assicurazioni, è il tempo dei fatti. Sappiamo che la maggior parte dei provvedimenti fino a ieri sera o non era pronta o si era arenata. Ma l'impegno preso da Berlusconi con la Merkel, se ha un senso, è quello di superare di slancio gli ostacoli e di obbligare il governo ad approvare almeno un segmento significativo dell'agenda europea prima del G-20.

Sarebbe anche consigliabile che il premier, prima della partenza alla volta del vertice, andasse a informare il Parlamento. È essenziale coinvolgere l'intero arco politico in una discussione su temi che investono ormai la salvezza nazionale. E qui veniamo al punto. Giorgio Napolitano non ha chiesto solo misure improrogabili e immediate. Ha chiesto anche «misure condivise» e ampie intese parlamentari. In sostanza ha consigliato al premier e alla maggioranza di cercare il consenso del l'opposizione su provvedimenti che riguardano il futuro del Paese e non si prestano ai conflitti di fazione.

Un segnale di grande novità e di serietà sarebbe, ad esempio, un passo del presidente del Consiglio verso i leader dell'opposizione, da Bersani a Casini, prima o dopo il G-20. Un colloquio, uno scambio di idee, una mano tesa: sarebbe il modo migliore per dare all'opinione pubblica l'idea di una classe politica all'altezza della sfida comune. Nessuno rinuncerebbe alle proprie posizioni, ma si riconoscerebbe che l'Europa rappresenta il destino comune.

In tal senso e in nome di questi principi il presidente della Repubblica si attende anche dal centrosinistra e dal "terzo polo" un po' di coraggio e di audacia. Il coraggio e l'audacia di condividere in tutto o in parte le misure dell'agenda europea. È già accaduto la scorsa estate. Perché non può accadere ancora? È comprensibile, anzi è ovvio che l'opposizione chieda a gran voce le dimissioni del Governo, tuttavia i provvedimenti per l'Europa, promessi nella famosa "lettera d'intenti", hanno una loro urgenza e corrono su di una sorta di corsia preferenziale.

Salviamo l'Italia, sembra dire il capo dello Stato, e dopo sarà tutto più facile. Anche approdare a un equilibrio politico diverso dall'attuale, se così vorrà una maggioranza parlamentare. Dopo sarà possibile presentarsi ai partner con maggiore credibilità. Ma è evidente che questo potrà avvenire solo se oggi ognuno avrà fatto il proprio dovere verso l'Europa. A cominciare da un premier logorato e colpevole di molti errori, da cui è lecito attendersi un gesto di generosità, ossia il ritiro, dopo gli ultimi appuntamenti europei. Ma senza ignorare le responsabilità di un'opposizione spesso latitante e miope.

Ecco perché la richiesta al Governo di venire in Parlamento può favorire la svolta. Viceversa, reclamare un esecutivo di emergenza senza voler contribuire prima ad approvare le misure in agenda rischia di essere solo un'astuzia tattica.

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« Risposta #28 inserito:: Novembre 07, 2011, 09:03:44 am »

Sfiducia e incertezza: il dramma italiano e il peso del Quirinale

di Stefano Folli


Al termine di una giornata drammatica ci si domandava ieri sera cosa deve ancora accadere nei prossimi giorni e settimane. Il presidente della Repubblica non si limita più a suggerire coesione.

Le sue parole sono ormai un grido d'allarme rispetto a una minaccia urgente. Una minaccia di fronte alla quale rischiamo di essere impotenti, cioè «inadeguati», prigionieri di «debolezze strutturali» di cui paghiamo il prezzo al mercato dei titoli di Stato.

Volano gli spread e con loro i tassi d'interesse: un nodo scorsoio che annienta ogni speranza di contenere il debito e liberare qualche risorsa per dare respiro all'economia reale.

Ancora Napolitano: «Si avverte acuto il bisogno di più cultura delle istituzioni, di più senso delle istituzioni, di più attenzione all'esercizio delle funzioni dello Stato e alla condizione in cui versano le sue strutture portanti». Il termine «istituzioni» ricorre in forme insistite nelle parole del capo dello Stato. Si capisce che qui è il cuore del problema: istituzioni indebolite, non sorrette dalla necessaria forza politica e morale, come si nota anche nelle incongruenze del processo legislativo. Istituzioni, in sostanza, troppo fragili e impacciate di fronte alla sfida che l'Europa ci propone in termini perentori, persino brutali.

Che altro deve dire il presidente della Repubblica per far intendere che il nocciolo della crisi riguarda la credibilità del governo sulla scena internazionale? È qui il nodo che non si riesce a sciogliere, con danni che si scontano ogni giorno, mentre i mercati finanziari guardano all'Italia con crescente diffidenza e la stessa opposizione rimane incapace di offrire un'alternativa concreta e plausibile, al di là delle formule retoriche e dei dissensi che la lacerano.

Sì, una giornata drammatica. Nel corso della mattina Napolitano era presente all'incontro promosso dall'Abi in cui Giovanni Bazoli aveva chiesto con tono accorato «scelte in grado di migliorare il clima di fiducia». Scelte tutt'altro che indolori perché implicano «sacrifici per tutti, perdite di posizioni» ed esigono «disponibilità al cambiamento». Come dire che è indispensabile la rottura immediata di infinite incrostazioni e la correzione di ingiustizie accumulate negli anni. Perché senza riforme «l'Italia rischierebbe di compromettere il suo futuro nella democrazia».

Frasi gravi e con ogni evidenza assai ponderate, in sintonia con i giudizi che di lì a poco avrebbe dato il capo dello Stato. Frasi che poi non hanno trovato un riscontro o un commento negli esponenti del Governo, come ci si poteva attendere. Tace Berlusconi e anche il ministro dell'Economia Tremonti, che in serata ha partecipato alla Festa della Zucca di Pecorara (Piacenza), non ha rilasciato dichiarazioni.

Si può pensare che l'esecutivo voglia replicare con i fatti, mettendo a punto le misure per lo sviluppo e traducendo in atti concreti gli impegni promessi all'Europa con la recente lettera. Ci si augura che sia così, ma intanto lo «spread» oltre quota 400 è un indizio terribile che segnala l'incertezza del quadro generale. I tempi della politica sono troppo lenti rispetto al precipitare della crisi. E del resto all'orizzonte non s'intravede una soluzione.

Montezemolo ha proposto in una lettera a "Repubblica" un «governo di salute pubblica» al posto di Berlusconi, indicando un'agenda di cose da fare. Ma la freddezza, a dir poco, del Pdl e del Pd, dimostra che un simile governo non troverebbe una maggioranza in Parlamento. E non si può caricare sulle spalle del presidente della Repubblica l'onere che spetta alla responsabilità delle forze politiche. Per cui oggi l'alternativa è fra una lenta agonia e le elezioni anticipate (meglio se in fretta).
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« Risposta #29 inserito:: Novembre 07, 2011, 09:04:59 am »

La paralisi che l'Italia non può permettersi

di Stefano Folli

06 novembre 2011

La fine politica di Silvio Berlusconi non è affare di ordinaria amministrazione. Niente di paragonabile al passaggio da Kohl alla Merkel in Germania o dalla Thatcher a Major nell'Inghilterra degli anni novanta. Berlusconi non è solo un politico di lungo corso che resiste sulla poltrona. È il personaggio che nel bene e nel male ha segnato un'epoca. Di più: è la figura dominante degli ultimi diciotto anni, leader ma di fatto proprietario, anche in senso patrimoniale, del centrodestra italiano.

Ora è all'epilogo, ma non c'è da stupirsi che il suo tramonto equivalga a uno psicodramma. O che sia così difficile, nella crisi, intravedere una soluzione parlamentare che non passi attraverso le elezioni anticipate. Elezioni da augurarsi il prima possibile, se il rebus resterà tale anche nei prossimi decisivi giorni.

Allo stato delle cose, ci sarebbe solo un modo per uscire dal vicolo cieco. Tutte le grandi forze politiche, di centrodestra come di centrosinistra, dovrebbero avere un colpo d'ala in nome di una comune visione dell'Europa. Che significa, in primo luogo, rispettare l'agenda che la stessa Europa ci ha dato. Un colpo d'ala capace di escludere gli interessi di parte, così da deporre le armi nelle mani del presidente della Repubblica, rimettendosi senza riserve mentali alle sue decisioni e garantendo in via preliminare l'appoggio in Parlamento a un esecutivo di buona volontà. Quante probabilità ci sono che una simile svolta si verifichi nelle prossime ore? Meglio non farsi illusioni: le probabilità sono esigue. E il primo a rendersene conto deve essere Giorgio Napolitano, se ancora ieri ha avvertito il bisogno di denunciare "il clima di guerra" che si respira nel Paese.

In teoria il presidente del Consiglio potrebbe ancora sbloccare la paralisi se nelle prossime ore mettesse in pratica quel gesto di generosità unilaterale che tanti gli hanno suggerito nelle ultime settimane, in Italia e all'estero (talvolta con toni ruvidi e ultimativi abbastanza imbarazzanti, come nel caso del Financial Times). Potrebbe annunciare le misure concrete per l'Europa (la legge di stabilità e non solo: riforma delle pensioni e del lavoro e così via) chiedendo il voto delle Camere. E, magari, mettendo sul tavolo le dimissioni, in modo da autorizzare il Pdl a cercare un nuovo equilibrio e il governo, guidato da un altro esponente del centrodestra (Letta, Alfano, Schifani), potrebbe tentare l'allargamento della maggioranza all'Udc, in un'atmosfera meno avvelenata.

Ma anche qui è bene non credere alle favole. Berlusconi non ha interesse a uscire di scena in modo indolore. Un po' per temperamento e un po' per calcolo, tenterà fino alla fine di restare in sella. Sforzandosi di far capire ai parlamentari che lo stanno abbandonando un concetto semplice: "Dopo di me il diluvio". Ossia, dopo Berlusconi ci sono solo le elezioni.

È vero, è falso? Diciamo che ogni giorno che passa, l'ipotesi di una legislatura che continua con una guida diversa da Berlusconi perde consistenza. Sarebbe stata plausibile qualche mese fa: magari l'estate scorsa, nei giorni in cui veniva recapitata la lettera della Bce. Oggi il passaggio di mano all'interno del centrodestra sembra fuori tempo massimo. E peraltro il diretto interessato, Berlusconi, non lo sta affatto accreditando. Il presidente del Consiglio tenterà nei prossimi giorni l'ultimo arroccamento, prima sul rendiconto generale dello Stato, poi sulla legge di stabilità (Senato e Camera). Ovviamente l'esecutivo è appeso a un filo e comunque non avrebbe i numeri per la normale navigazione parlamentare. Eppure il premier giocherà le sue carte fino in fondo. L'argomento che si sente nel Pdl ("attenti, di questo passo rischiamo una terribile sconfitta elettorale") non lo suggestiona. Dopo quasi diciotto anni di monarchia assoluta, gli viene spontaneo replicare: seguitemi e la legislatura non sarà interrotta; votatemi contro e insieme al mio governo cadranno anche le vostre speranze di essere rieletti. Perché andremo al voto e sarò ancora una volta io a preparare le liste elettorali.

Come si vede, il paradosso è completo. Da un lato c'è una maggioranza che si scioglie, ma che ha ancora la forza di combattere in Parlamento. Dall'altra parte non c'è un'alternativa pronta, con numeri saldi e coerenza d'intenti. In fondo tutti si preparano alle elezioni, anche senza dirlo. Casini e Fini chiedono un governo senza Berlusconi, ma in realtà guardano alle urne. Dove sperano di beneficiare del collasso del centrodestra e anche di trarre vantaggio da quella perdita di credibilità berlusconiana sulla scena internazionale che dovrebbe incoraggiare una forza moderata, legata al partito popolare europeo e capace di offrire un volto diverso dell'Italia.

Allo stesso modo anche il Pd sta indossando il vestito elettorale. È il solo modo per tenere insieme quell'alleanza con Di Pietro e Vendola a cui Bersani ha dedicato in questi mesi molte energie. Ieri, nella cornice di Piazza San Giovanni stracolma di folla, il segretario ha fatto un discorso dai toni europeisti (con citazioni di Spinelli, De Gasperi e Romano Prodi), ma dall'evidente accento elettorale. L'attacco alle destre europee non lascia dubbi, benché Bersani abbia lasciato un vago spiraglio al governo tecnico, ossia a un'intesa di alto profilo che in questi termini sarebbe inaccettabile per il Pdl. E infatti Alfano propone, di rimando, un mero allargamento della maggioranza con Berlusconi a Palazzo Chigi.

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