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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 143404 volte)
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« Risposta #45 inserito:: Gennaio 02, 2009, 10:10:47 am »

IL COMMENTO

Il ritorno alla realtà

di MASSIMO GIANNINI


IN una buona democrazia la funzione principale dello Stato di diritto è quella di promuovere nei suoi cittadini la libertà dalla paura. Questa lezione di Norberto Bobbio, antica ma ancora una volta straordinariamente moderna, risuona come un'eco nel messaggio di Capodanno di Giorgio Napolitano.

Dietro la rituale cortina fumogena di applausi bipartisan, nel discorso del presidente della Repubblica si coglie una doppia inquietudine. Gli italiani si sentono prigionieri della paura. Chi li governa non sta facendo quanto dovrebbe per "liberarli".

L'età dell'oro è finita. Viviamo un "tempo di ferro". Non è del tutto usuale che debba essere un Capo dello Stato, a compiere questa operazione-verità di fronte ai cittadini. A spiegare loro, sia pure senza concessioni al declinismo o peggio ancora al disfattismo, che questa crisi economica è la più grave degli ultimi 70 anni. Che le prospettive di crescita della ricchezza e dell'occupazione sono molto più drammatiche di quanto non dicano i bollettini della Banca d'Italia. Che i rischi di una Grande Depressione sono molto più concreti di quanto non avvertano i rapporti del Fondo monetario. Che mai come in questo momento è necessario stare vicino agli ultimi e ai penultimi, alle famiglie con un solo reddito, ai lavoratori cassintegrati, ai giovani precari, ai vecchi e ai nuovi poveri sconfitti e umiliati dal turbocapitalismo. Che oggi più che mai bisogna "guardare in faccia i pericoli" ai quali questa crisi ci espone, piuttosto che snobbarli, truccarli o nasconderli.

Per vincere una paura occorre innanzi tutto definirla e riconoscerla. Al contrario di quanto accadeva anche solo pochi mesi fa, oggi siamo immersi in uno stato di paura tutt'altro che "liquida", cioè indefinibile e inafferrabile. Gli italiani sanno benissimo cosa li spaventa. E' la politica che fa finta di niente. In campagna elettorale il centrodestra, dall'opposizione, ha compiuto un'irresistibile manovra di disvelamento, speculando sulle insicurezze degli italiani con il cinismo propagandistico e ad alto tasso di consenso dei suoi moduli assertivi: criminalità e delinquenza, immigrazione e clandestinità. Ora che quelle insicurezze si sono in buona parte dissolte il centrodestra, dalla maggioranza, sta compiendo un'irresponsabile manovra di occultamento. Se la vera, tangibile paura degli italiani riguarda l'incertezza economica, l'insufficienza del salario, l'erosione del reddito, la precarietà del lavoro, Berlusconi risolve il problema o negandolo (cioè trattando la recessione strutturale più complessa di questo secolo come una banale flessione del ciclo congiunturale) o esorcizzandolo (cioè invitando le famiglie a spendere in beni di consumo il denaro che non hanno e le imprese a impiegare in beni di investimento le risorse che non possiedono).

L'efficacia del messaggio di Napolitano sta soprattutto in questo. C'è un principio di realtà nella valutazione dei fatti, e anche un principio di lealtà nei confronti del Paese, che interpella la coscienza di tutti gli schieramenti politici e di tutti gli attori sociali. Ma che chiama in causa soprattutto il governo. Il Capo dello Stato invoca quella volontà e quella capacità di "unire le forze in un comune destino", che servirebbero oggi per tirarci fuori da questa crisi come servirono ieri per salvarci da due sfide ancora più terribili: la ricostruzione della nazione dopo la Seconda guerra mondiale e la rifondazione della democrazia dopo gli Anni di piombo. Sono due riferimenti storici che colpiscono, per il loro tragico impatto evocativo e simbolico. Ma che traccia si può cogliere, di quel prezioso "spirito di unità nazionale", nel modo in cui il governo e la maggioranza impongono la loro agenda a un Parlamento ridotto a votificio e a un'opposizione trattata come un bivacco di manipoli tenuti in ostaggio da un Robespierre molisano? Che margini ci sono per quell'auspicato "clima di reciproco ascolto", nel modo in cui il governo e la maggioranza procedono su tutti i temi più sensibili, dalle misure anti-recessione alle modifiche della costituzione, dal federalismo alla giustizia?

Perché questa crisi diventi davvero un'occasione per cercare di curare i mali antichi del Paese, e non solo una maledizione nella quale affondare per perpetuarli, è necessario che chi oggi detiene il potere da schiaccianti posizioni di forza lo eserciti con il massimo della condivisione delle riforme e il minimo della deresponsabilizzazione degli avversari. Berlusconi sta facendo esattamente il contrario. Sulle riforme applica la tocquevilliana "dittatura della maggioranza": costruisce decreti e disegni di legge per lo più blindati in Consiglio dei ministri, salvo poi lamentarsi per la consueta "mancanza di proposte costruttive" e per gli inevitabili e inutili dissensi d'aula o di piazza. Con gli avversari adotta la napoletana formula del "piangi e fotti": si lamenta dell'estremismo giustizialista grazie al quale Di Pietro tiene in scacco il Partito democratico, ma proprio su quello costruisce la sua pregiudiziale ideologica contro la sinistra riformista che in fondo resta sempre "comunista". Sarebbe indispensabile una strategia radicalmente diversa. Se è vero che nella fase attuale l'opposizione non è all'altezza dei suoi compiti, questo è ancora più drammaticamente vero per il governo e per la maggioranza.

Il presidente del Consiglio dovrebbe capire che è anche un suo interesse aiutare il Pd nel travagliato percorso di ridefinizione e di autonomizzazione identitaria avviato tra molte difficoltà e non pochi errori da Veltroni. E' anche suo interesse coinvolgerlo, nei limiti del possibile e nel rispetto dei ruoli, come interlocutore privilegiato in tutti i processi di cambiamento politico-istituzionale e di modernizzazione socio-economica necessari al Paese. Ma il Cavaliere non lo fa. E davvero non si capisce il perché, se non per la sua bulimia cesarista evidentemente insaziabile. Finché non si convincerà a cambiare registro, gli appelli del Quirinale resteranno disperati messaggi in bottiglia, perduti nella tempesta perfetta della crisi globale. Napolitano continuerà a vestire inutilmente i panni che furono di Roosevelt, raccontando ai cittadini che "l'unica cosa della quale non dobbiamo avere paura è la paura stessa". Non ci libereremo mai dalla paura. Non conosceremo mai un New Deal italiano.

m. giannini@repubblica. it

(2 gennaio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #46 inserito:: Gennaio 23, 2009, 01:13:36 pm »

IL COMMENTO

Tra rischio e strategia

di MASSIMO GIANNINI


DOPO tante contese tra "manipoli" e tante offese alla potestà legislativa, l'apparenza del voto sul federalismo segna una pagina di "normalità" parlamentare. Il governo presenta un ddl, l'opposizione propone i suoi emendamenti. La maggioranza li recepisce. Si va al voto e, invece del solito muro contro muro, la prima si astiene sul testo modificato dalla seconda. Una prassi, nella fisiologia democratica. Un "evento", nell'anomalia italiana. La realtà suggerisce un quadro più complesso. L'Udc ha guardato solo al "merito", e non si è mossa dal no.

Il Pd ha invece scommesso sul "metodo", partecipando al confronto con le sue contro-proposte.
C'è un movente strategico: dimostrare che l'opposizione non è "sfascista", e che qualche riforma condivisa sarebbe possibile se solo il premier rinunciasse alla sua visione plebiscitaria del potere.
C'è un movente tattico: far uscire il Pd dall'angolo, tenendo aperto un canale con Bossi (ove mai il Senatur rompesse con il Cavaliere) e tenendo buoni i "federali" del Nord (da Errani a Chiamparino, favorevoli al federalismo).

Ma quella di Veltroni è una scelta rischiosa. Intanto perché sul progetto federalista del Pdl, come su tanti altri temi, il Pd si è dimostrato all'inizio incoerente e indeciso.

E poi perché, di fronte a un paradossale Tremonti che in piena crisi economica riconosce in aula l'assoluta "imponderabilità" dei costi della riforma, il Pd rischia di avallare un'operazione che espone il Paese a un salto nel buio. A questo punto, l'astensione può avere un senso solo se è un atto di responsabilità specifico, e condizionato alle prossime decisioni del governo. Sul federalismo stesso, in vista del voto della Camera e dei decreti delegati.

Ma anche sulla giustizia e sul presidenzialismo. Non può funzionare, invece, se diventa un assegno in bianco firmato alla Lega, magari in cambio di futuri e inverosimili "ribaltoni". Questo il già sfiduciato "popolo della sinistra" non lo capirebbe.

E alle prossime elezioni europee il "partito liquido" diventerebbe, a tutti gli effetti, un partito liquefatto.

m.giannini@repubblica.it

da repubblica.it
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« Risposta #47 inserito:: Febbraio 17, 2009, 09:19:32 am »

EDITORIALE

La prova di Forza del Cavaliere

di MASSIMO GIANNINI


"Qui l'invasore non passerà", aveva detto con troppa sicumera Walter Veltroni, in chiusura di campagna elettorale. Invece, secondo i dati parziali dello spoglio, Berlusconi ha vinto anche in Sardegna. L'invasore non solo è passato. Ma ha dimostrato di essere il "padrone dell'isola". Ha confermato di essere il "padrone d'Italia". Se lo scrutinio finale non si discosterà dalle percentuali della notte, questo dice il risultato del voto regionale sardo. Trasformato fatalmente in un test di mezzo-termine, per il rapporto tra il Cavaliere e il Paese, per gli equilibri interni al Pdl e per il futuro del Pd.

Nel rapporto tra il Cavaliere e il Paese (salvo sorprese clamorose nello spoglio definitivo) il voto della Sardegna evidenzia un dato politico incontrovertibile. La luna di miele tra il premier e l'Italia non è affatto finita. Nonostante le difficoltà del governo su scala nazionale, nonostante i morsi della crisi economica.

Con questa vittoria, Berlusconi rinnova il mito del Leader Invincibile. A sconfiggere Soru non è stato Ugo Cappellacci, ma il premier in persona. "Ci ho messo la faccia", ha detto. E per questo ha vinto, battendo l'isola palmo a palmo, weekend dopo weekend. E ancora una volta, forte di questa personalizzazione della campagna, e di questa presidenzializzazione del voto, ha sbaragliato l'avversario. Ha spazzato via la logica antagonista sulla quale avevano contato Soru e il Pd: la Sardegna in carne e ossa del modello Tiscali e dei modernizzatori schierati per lo sviluppo sostenibile contro la Sardegna di cartapesta di Villa Certosa e dei ricchi cementificatori della costa. La banda larga di Renato contro la bandana di Silvio. Questo schema "sociologico" non ha retto alla prova dell'urna.

Il dato politico dice che le percentuali di voto ottenuto in Sardegna dal Pdl e dal Pd (se saranno confermate dal risultato definitivo) ricalcano quelle già registrate alle ultime politiche: tra il 48 e il 50% il primo, tra il 44 e il 46% il secondo. È la conferma che il blocco sociale creato dal centrodestra è ormai strutturale, e non è scalfibile dal centrosinistra.

Per gli equilibri interni al Pdl, con questa vittoria Berlusconi rafforza il ruolo del Sovrano Indiscutibile. Regola, una volta per tutte, i conti con la sua maggioranza. Quando c'è un voto da conquistare, quando c'è un consenso da rafforzare, non ce n'è per nessuno. Vince il Cavaliere, da solo. Può anche candidare un Carneade contro il parere dei suoi alleati, come ha fatto con Gianni Chiodi in Abruzzo. Può anche candidare il figlio del suo commercialista facendolo sapere agli alleati attraverso i giornali, come ha fatto con Cappellacci in Sardegna. Può anche candidare il suo cavallo, come fece Catilina. Ma se poi è lui a corrergli in groppa, il traguardo finale è assicurato.

Non c'è Bossi che tenga con i suoi diktat sul federalismo e i suoi distinguo sulla Costituzione. Meno che mai c'è Fini, con le sue difese lealiste di Napolitano e le sue pretese "laiciste" sulla bioetica. Chi vince ha sempre ragione, e comanda. Da domani, in un Pdl sempre più militarizzato, sarà probabilmente impossibile registrare il benché minimo caso di ammutinamento. E forse, vista l'esperienza sarda, sarà verosimilmente possibile che nell'Udc scatti di nuovo la tentazione di un arruolamento.

Per il futuro del Pd, la sconfitta in Sardegna (se sarà ribadita dall'esito ufficiale) rischia di suonare come una doppia campana a morto. Innanzi tutto per Soru, che aveva a sua volta personalizzato questa battaglia, accreditando l'idea che un suo trionfo lo avrebbe accreditato per una "nomination" nazionale: a questo punto il suo sogno tramonta, e per quanto abbia inciso il voto disgiunto il governatore uscente non è riuscito a ripetere il miracolo del 2004, quando vinse grazie al sostegno di quei ben 94 mila elettori che votarono per lui e non per la coalizione. Ma soprattutto per Veltroni e per la sua leadership. Se fossero vere (e confermate) le prime indicazioni sul voto alle liste, il distacco patito dal Pd rispetto al Pdl sarebbe drammatico: oltre i 20 punti percentuali.

Si avvicina il momento di una inevitabile resa dei conti per un "apparatciki" troppo autoreferenziale nella gestione del partito e troppo ondivago nell'azione politica. La ricomposizione della Sinistra Arcobaleno, alla luce della vicenda sarda, non è sufficiente. E ora cade anche l'illusione che Berlusconi si batta con un "uomo nuovo", fuori dalle nomenklature romane. Neanche questo basta a espugnare la fortezza del Cavaliere. Per Veltroni, e per il centrosinistra riformista, è un vicolo cieco. Per uscirne urge almeno un vero congresso. Da statuto, è previsto dopo le europee. Ma di questo passo c'è da chiedersi cosa resterà del Pd, dopo l'Election Day del prossimo giugno.

m. gianninirepubblica. it

(17 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #48 inserito:: Febbraio 18, 2009, 10:55:21 am »


IL COMMENTO

Responsabilità collettiva

di MASSIMO GIANNINI

 
La scelta di Walter Veltroni è dolorosa, ma anche doverosa. Da troppi mesi il Pd si dibatte in una crisi tormentata e complessa, che investe il suo profilo politico, i contenuti della sua piattaforma programmatica, la forza della sua leadership, e soprattutto il suo rapporto con l'opinione pubblica.

Il voto di ieri, e le dimissioni del segretario, sono solo l'epilogo di una crisi d'identità che era già contenuta nel risultato delle elezioni del 13 aprile di un anno fa, e che si è ulteriormente aggravata prima con la sconfitta in Abruzzo, ora con la disfatta in Sardegna.

Prima che la casa bruci, e che del Pd non restino altro che macerie, Veltroni ha fatto la cosa giusta: si è fatto da parte, con una mossa che tuttavia chiama in causa, per un'assunzione di responsabilità collettiva, l'intero gruppo dirigente che in questi mesi ha gestito il partito insieme a lui, o lo ha sabotato nei corridoi.

Anche per questo, un congresso straordinario oggi è una scelta irrinunciabile, per ridefinire il progetto e scegliere un nuovo leader, finalmente in una competizione a viso aperto e a tutto campo. Altre vie d'uscita da questo vicolo cieco non ce ne sono.

L'errore più drammatico, per il Pd, sarebbe quello di tirare a campare all'insegna, ancora una volta, di un falso unanimismo. O peggio ancora, quello di tornare indietro, di rinunciare all'idea del partito unico e di tornare alla vecchia distinzione Ds-Margherita.

Sarebbe un dramma, non solo per i destini del centrosinistra ma per il futuro del bipolarismo italiano.

(17 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #49 inserito:: Febbraio 20, 2009, 03:54:40 pm »

L'ex premier: "Ho espresso solidarietà a Veltroni, gli scontri tra noi una favola

Al Pd è mancata la struttura, non basta Facebook. Nessun endorsement a Bersani"

"Caro Walter, nessuno ha complottato la crisi nasce da una politica confusa"

di MASSIMO GIANNINI


Onorevole D'Alema, adesso sarà contento. Veltroni si è dimesso.
"Rispetto la sua decisione, come lui rispettò la mia quando mi dimisi da presidente del Consiglio. Tuttavia avrei preferito che si arrivasse a discutere tutti insieme in un congresso, senza questo trauma. Non c'è nulla di personale tra me e Veltroni. Le mie sono state osservazioni politiche. Umanamente sono vicino a Walter, e gliel'ho anche fatto sapere".

Eppure lei non c'era alla conferenza stampa di addio, e la sua assenza è stata notata...
"Quella conferenza stampa indetta al termine di una riunione del coordinamento hanno assistito i membri del coordinamento, del governo ombra, i collaboratori e i dirigenti del Pd. Io non ho nessuno di questi incarichi. E se mi fossi presentato dopo, sono sicuro che avreste scritto "ecco, D'Alema è venuto a godersi la fine del suo nemico". Mi creda, qualunque cosa avessi fatto, non avevo scampo".

Il discorso di addio del segretario le è piaciuto?
"A Veltroni riconosco una profonda autenticità di ispirazione. D'altro canto non è affatto vero che io e Veltroni litighiamo da 20 anni. Abbiamo avuto momenti di dissenso politico, e fasi di intensa collaborazione. Eppure, da anni non si parla di noi se non in termini di duello personale".

Tutta colpa solo dei giornalisti, secondo lei? Non c'è anche una vera "arte sicaria", come scrive Giuliano Ferrara, nel suo modo di incoronare e poi azzoppare i leader?
"Fesserie. Ferrara è legato a Berlusconi. Quindi scrive contro di noi, com'è ovvio che sia".

Ora l'umore prevalente dei vostri elettori è il seguente: andatevene tutti a casa. Cosa risponde?
"Rispondo che io me ne sono già andato da un pezzo. Vorrei che fosse chiaro a tutti un concetto definitivo: io non faccio parte di alcuna "struttura" dirigente del Pd, da quando il Pd è nato. Io non ho nessun incarico, nessuna poltrona da difendere. Dunque, se la richiesta è quella di uscire dagli organismi dirigenti del partito, rispondo "già fatto". Se invece la richiesta è quella di tacere, allora no, mi dispiace, a questo diritto, che come cittadino e come iscritto a quel partito mi riconosce persino la Costituzione, non intendo rinunciare. Spero solo che ora si creino le condizioni per una migliore collaborazione, e si possa finalmente cominciare a lavorare insieme".

Con Veltroni collaborazione e solidarietà non hanno funzionato, come ha detto lui stesso nel discorso di commiato. Perché?
"Walter ha ragione, su questo. Tuttavia le condizioni di maggiore solidarietà non si ottengono mettendo il bavaglio al dibattito politico, ma promuovendolo e indirizzandolo verso esiti condivisi. E questo, vede, è il vero problema di questi mesi. Si è creduto di andare avanti con una scorciatoia: il rapporto taumaturgico tra un leader e le masse. E non ha funzionato. Serviva e serve un gruppo dirigente che collabora, e che è capace di una riflessione profonda, poi di una mediazione e infine di una decisione. Insomma, serve la politica. E a mio avviso è proprio questa che è mancata. E di qui nascono le nostre difficoltà. Non dai complotti, non da chi ha remato contro, ma da scelte insufficienti, o confuse".

Facciamo qualche esempio?
"Ce ne sono diversi. Il primo riguarda la natura del partito. Per troppi mesi siamo rimasti sospesi nell'incertezza del "partito leggero": non abbiamo capito se doveva essere un partito di iscritti, di sezioni, di gazebo. Il risultato è un ircocervo, che oggi nessuno sa ben definire. La mia vecchia sezione Ds contava 427 iscritti, era un centro vivace, pieno di iniziative. Quando abbiamo fatto il Pd, e abbiamo dato vita alla cosiddetta "elezione per adesione", sono venute a votare 687 persone. Da allora, più nulla. Il tesseramento è iniziato con grande ritardo. Oggi la sezione ha 120 iscritti, e non ha più neanche una sede. Casi analoghi sono avvenuti in tante parti del Paese. Oggi il Pd ha grosso modo la metà degli iscritti che avevano i Ds".

Non poteva dirlo? Non poteva fare qualcosa?
"La sua domanda mette in luce precisamente le difficoltà della mia posizione personale, perché se taccio mi rendo corresponsabile, se critico sono colpevole di un sabotaggio e di un intollerabile dualismo con Veltroni. Lei capisce che è davvero insopportabile. Comunque queste cose le ho dette nell'ultima direzione del partito: un grande partito, se vuole essere riformista e di massa, deve avere regole, strutture. Bisogna che la gente lo trovi, nel suo quartiere, nella sua città. Certo, lo deve trovare anche su Internet, su Facebook, o nelle piazze quando c'è una manifestazione. Ma questo non basta, non può bastare".

Ma lei pensa che i guai del Pd siano limitati al fatto che non si trovano le sezioni?
"Questo è solo il primo problema, che riguarda il "contenitore". Ma in questi mesi siamo stati vaghi e indecisi anche sui contenuti. Vuole gli esempi? Il conflitto in Medioriente: era l'occasione per esprimere una posizione fortissima, improntata al nostro ruolo storico di mediazione nel Mediterraneo e alla linea di Blair, di Sarkozy e del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Il nostro messaggio, invece, è stato debole e confuso".

Senta, mi vuol far credere che il Pd ha avuto il tracollo in Sardegna perché non ha avuto una posizione chiara sul Medioriente?
"Le faccio un altro esempio, che sicuramente ha interessato più da vicino l'opinione pubblica: il testamento biologico. La vera forza di un partito nuovo non sta nella semplice giustapposizione di linee differenti. L'obbligatorietà della nutrizione e dell'idratazione forzata per persone che abbiamo perduto coscienza non è prevista nella legislazione di nessun Paese civile. L'idea che queste pratiche non siano "trattamenti sanitari" è assurda e antiscientifica. Io rispetto i cattolici, ma la libertà di scelta in materia di trattamenti sanitari è un principio costituzionale e di civiltà. Sia chiaro, non metto in discussione la libertà di coscienza. Ma un grande partito, su un tema come questo, non può non capire che deve discutere, deve rispettare la diversità, ma alla fine deve arrivare a una sintesi. Un grande partito non può non capire che, in un momento come questo, sostituire Ignazio Marino dalla commissione che discute di testamento biologico è un grave errore. Noi, in tutta questa partita, abbiamo dato un'immagine sbiadita".

Vi siete divisi anche sulle alleanze.
"E' vero. Per me la vocazione maggioritaria si pratica, non si predica. Berlusconi non ha mai detto di avere una vocazione maggioriaria e fa una politica accurata delle alleanze. Sta cercando di recuperare l'Udc, e in Sardegna ha cercato addirittura il Patrito sardo d'azione, mentre noi non riusciamo a riunire neanche a livello locale le forze che sono all'opposizione del governo. Chapeau. Ma le pare possibile che l'unico tema su cui abbiamo avuto una posizione forte è stata la legge elettorale europea con lo sbarramento del 4%? Va bene che vogliamo semplificare lo schieramento politico italiano, ma lei darebbe la vita per un partito che ha questa Weltanschaung?".

Ma Veltroni, almeno, ha responsabilmente riconosciuto i suoi errori. Voialtri, invece?
"Io non do la colpa di ogni cosa a Veltroni. Sono il primo a sapere che un leader no è un demiurgo. Quello che dico, però, è che per risolvere la nostra crisi dobbiamo avere il coraggio di vedere i problemi veri, non limitarci a dare la colpa ai clan o alle "correnti"".

E lei, allo stesso modo, non avverte il senso di una responsabilità collettiva dell'intero gruppo dirigente?
"Pur non facendo parte del gruppo dirigente, mi prendo le mie responsabilità. In questi mesi ho più volte chiesto di essere messo in condizione di dare un contributo, e spesso sono stato trattato come uno che cercava solo una collocazione".

Perché ha dato il suo imprimatur alla candidatura di Bersani? In questo momento non era meglio evitare?
"Innanzi tutto Bersani ha detto con chiarezza che di questo si sarebbe discusso nel congresso del partito. Continuo a credere che quella candidatura, se da una parte ha irritato qualcuno, dall'altra parte, come è naturale, ha motivato e riavvicinato al Pd altri. Francamente questa osservazione, piuttosto banale, non mi sembra avesse un carattere di rottura e di destabilizzazione. Altri sono stati i problemi del Pd".

Comunque, a questo punto come si esce da questa catastrofe? Cosa farà l'assemblea costituente di domani?
"Intanto bisogna avere senso di responsabilità, evitare proprio i catastrofismi, le campagne autodistruttive. Non dimentichiamo che in 15 anni abbiamo saputo anche vincere e governare bene il Paese. All'assemblea costituente ascolteremo le proposte del vertice, ma sarà necessario interpretare anche le aspettative della base, e poi decidere. Mi affido pienamente al gruppo dirigente".

L'ipotesi di una segreteria di traghettamento affidata a Franceschini la convince?
"Ho stima di Franceschini. Se questa sarà la soluzione, avrà bisogno di un forte consenso, perché prima delle elezioni di giugno si dovranno sciogliere nodi complessi, a partire dalla collocazione del Pd tra le famiglie politiche europee, altro tema che abbiamo rinviato troppo a lungo".

Ma non sarebbe più lineare un congresso straordinario subito, o nuove primarie?
"Per un congresso mi pare manchino i tempi tecnici. Quanto alle primarie, non sta a me dare indicazioni. Qualunque cosa io dica può essere usata contro di me".

Insomma, lei non teme che per il Pd l'avvento di un "reggente" sia come il governo Badoglio, e che il passaggio successivo sia l'8 settembre?
"No, se le decisioni dell'assemblea costituente di domani saranno chiare e condivise, questo rischio non c'è. Se invece si produrrà uno strappo tra il vertice e la base, allora sì, corriamo un rischio serio. E' vero che per lanciare un partito nuovo come il Pd occorre tempo. Ma in un anno siamo passati dal 33% delle politiche al 23% dei sondaggi di oggi, avvalorati dal voto sardo. Questo non significa che il progetto politico non conserva intatte tutte le sue potenzialità. Ma per ripartire bisogna avere il coraggio della verità".

(20 febbraio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #50 inserito:: Marzo 06, 2009, 12:44:37 pm »

ECONOMIA      L'ANALISI

La favola del corvo

di MASSIMO GIANNINI



Ultimo venne il corvo. Alla fine anche Tremonti si è arreso all'uccello del malaugurio che già da settimane, secondo la vulgata governativa, volteggiava tra Confindustria e Bankitalia. Il 2009, dunque, sarà "un anno terribile". Noi lo sapevamo già. Come lo sapevano migliaia di cassintegrati rimasti senza lavoro, di precari rimasti senza sussidi, di piccole imprese rimaste senza ordinativi. Ora lo riconosce pubblicamente anche il ministro del Tesoro. La paura ha ceduto alla speranza. La resa di Giulio è verosimilmente dolorosa, e colpevolmente tardiva. Ma nessuno se ne può compiacere. Se anche lui ha capitolato, dopo mesi di cadornismo congiunturale, vuol dire che l'Italia è davvero messa male.

Resta da chiedersi il perché, di tanta prolungata "resistenza" di fronte all'inesorabile asprezza della crisi e di tanta ostinata "renitenza" di fronte all'ineludibile principio di realtà. L'ottimismo di facciata imposto da Berlusconi all'intera squadra di governo spiega il rebus solo in parte. Il vero problema di Tremonti è la tenuta dei conti pubblici, e quindi l'affidabilità del marchio Italia sui mercati. Con un Prodotto lordo in picchiata al - 2,6%, il deficit lievita inevitabilmente verso quota 4%. Ma quello che è peggio, è che il debito esplode oltre il tetto del 110%, già pericolosamente stimato dalla Commissione Ue. In due mesi siamo tornati indietro di dodici anni. Formalmente l'Italia non figura tra i "Pigs": il Portogallo e l'Irlanda stanno peggio per crescita insufficiente, la Grecia per instabilità politica, la Spagna per emorragia occupazionale. Ma sostanzialmente l'Italia può rivelarsi il primo dei "Pigs": sta peggio di tutti per indebitamento.

Per questo, a dispetto delle indubbie capacità previsive testimoniate dal suo fortunato bestseller pre-elettorale e al prezzo di un'apparente incoscienza dimostrata con il suo modesto pacchetto anti-crisi, Tremonti è stato così prudente e continua ad essere così restio ad aprire i cordoni della borsa. Proprio lui, il seducente modernizzatore della nuova destra politica, è diventato il sedicente conservatore del vecchio rigore contabile. Dice no al sussidio di disoccupazione proposto dal Pd, dice no all'aumento degli stanziamenti per nuovi ammortizzatori sociali, dice no a qualunque intervento sulle pensioni. Congela, ma non riforma. Ricama, ma non innova. Teme di non poterselo permettere. Se una sola posta di bilancio gli sfugge di mano, il Paese può imboccare il tunnel del default.

Tremonti ha due incubi: gli spread, cioè i differenziali di rendimento tra i nostri titoli pubblici e quelli tedeschi, e le aste dei titoli di Stato. Se per effetto di un drastico peggioramento della nostra situazione finanziaria i primi salgono troppo, o le seconde attirano poco, l'Italia rischia la bancarotta. In questi ultimi giorni, dopo una fase di relativa quiete, gli spread sono tornati ad aggirarsi intorno ai 150 punti base. Non è un dramma: ma un po' di tensione è tornata. La scorsa settimana, all'ultima asta dei Btp, il Tesoro è riuscito a collocare oltre 10 miliardi di titoli, con una domanda del mercato a livelli record. Un segnale confortante: ma legato essenzialmente al buon rendimento offerto. L'equilibrio del mercato è fragilissimo. Basta un niente, e tutto può saltare. Sui "Cds" (le polizze che coprono dall'ipotesi di crack dei singoli Paesi) e sugli "swap" (prodotti assimilati che investono sul rischio-default degli Stati Sovrani) l'Italia resta ai primissimi posti. Nel primo caso siamo a 173 punti base, subito dopo i 350 dell'Irlanda. Nel secondo caso (come riferiamo a pagina 7 del giornale) a 116 punti base, subito dopo i 237 della Grecia e i 221 dell'Irlanda.

Camminare a lungo, sull'orlo di questo precipizio, non è facile per nessuno. Tremonti non può sperare neanche troppo nell'Europa. È in atto un tentativo, che parte da Roma e incrocia altre cancellerie europee, per verificare se si possa attribuire alla Bce la facoltà di trasformarsi in acquirente di ultima istanza dei titoli del debito pubblico rimasti eventualmente invenduti alle aste indette dagli Stati Sovrani. Ma una prima istruttoria fatta in questi giorni a Francoforte ha già dato esito negativo: occorrerebbe una modifica del Trattato, e questo sbarra la strada a qualunque ipotesi di accordo, visti i dissidi che già caratterizzano il rapporto franco-tedesco su una proposta come quella dell'emissione di un eurobond europeo. Come ha detto in questi giorni lo stesso ministro a un interlocutore autorevole: "Non troviamo un'intesa nemmeno sulle date delle riunioni, figuriamoci se possiamo trovarla su robe del genere...".

Insomma, l'Italia è senza rete. E come si dice in queste ore nel grattacielo dell'Eurotower, "praticamente non ha margini di manovra". Deve solo sperare che la crisi, benché così acuta, non sia troppo lunga. Che nel frattempo non crolli qualche banca, magari schiacciata dal macigno delle "zombie banks" dell'Est-Europa. Che il quadro sociale e politico regga, sotto il peso di un'emergenza occupazionale sempre più rovinosa. Tremonti lo sa, ma non può dirlo. Per questo sembra paralizzato, e vive come una minaccia ogni richiesta di "fare di più" contro la crisi. Per questo appare isolato, e vede come il fumo negli occhi Mario Draghi, l'ombra di Banco che incombe suo malgrado su Palazzo Chigi e su Via XX Settembre, nel malaugurato caso di un tracollo dell'economia. Ma per governare la madre di tutte le crisi servono realismo e coraggio. Il primo, finalmente, sembra arrivato. Il secondo, purtroppo, lo stiamo ancora aspettando.

(6 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #51 inserito:: Marzo 12, 2009, 11:31:22 am »

ECONOMIA      L'ANALISI

Un riformismo responsabile

di MASSIMO GIANNINI


Obama può. Franceschini no. Il presidente Usa, al culmine di una crisi industriale e occupazionale che distrugge un milione di posti di lavoro ogni due mesi, può proporre al suo Paese "una storica riforma della sanità, che estenderà a tutti l'assistenza pubblica" finanziandola con "un aumento della tassazione per i più ricchi". Usa esattamente questa formula, il capo dei "democrats" americani: "I più ricchi". E il suo annuncio non desta scandalo. Nessuno si ribella, tacciandolo di bolscevismo. Al segretario dei democratici italiani, al contrario, questa "licenza" politico-culturale non è permessa. Il Pd non può proporre "un contributo straordinario di solidarietà, a carico dei redditi più alti compresi quelli dei parlamentari", per finanziare un sostegno da 500 milioni di euro "a vantaggio delle famiglie che versano in condizioni di povertà estreme". Usa esattamente questa formula, Franceschini: "redditi più alti". Ma la sua iniziativa fa subito scandalo. Vellica pulsioni strumentali: quelle del Pdl, che lo accusa di "comunismo". Innesca reazioni paradossali: quelle di Rifondazione, che grida all'"elemosina di Stato".

L'idea di un "contributo di solidarietà" sui redditi superiori ai 120 mila euro non nasce dentro il dissennato e autolesionista "brodo di coltura" che ai tempi del governo Prodi, alla vigilia di una Finanziaria che impose agli italiani un insostenibile "saio fiscale", generò la campagna ideologica e demagogica della sinistra radicale irresponsabilmente riassunta nello slogan "anche i ricchi piangano". Di quel clima tossico, di quelle surreali "scene da lotta di classe", per fortuna, oggi non c'è più traccia. Buona o cattiva che sia, fattibile o irrealizzabile che si dimostri, la proposta attuale non risponde a una logica "punitiva", ma alla più semplice etica redistributiva. Nel momento in cui un Paese è chiamato all'ennesimo sacrificio, si cerca di alleviare la condizione di chi sta peggio chiedendo uno sforzo in più a chi sta meglio. Inserendo questo tassello in un mosaico più generale, che parte dalla necessità di rilanciare in fretta il contrasto all'evasione fiscale attraverso il ripristino della tracciabilità dei pagamenti (che il governo Berlusconi ha colpevolmente eliminato), il rifinanziamento degli interventi socio-assistenziali e del fondo per le politiche sociali (al quale lo stesso governo ha inopinatamente sottratto 300 milioni di euro).

Non si comprende perché questo impianto è perfettamente giustificabile nel piano di "Stimolo" all'economia lanciato da Obama, e diventa inaccettabile nel pacchetto di misure anti-crisi proposto da Franceschini. Certo che è "una goccia nel mare", e per questo non ha senso la pelosa indignazione del leader del Prc Ferrero. Certo che "le una tantum non risolvono tutti i problemi", e per questo non ha senso la spocchiosa insoddisfazione del vicepresidente di Confindustria Bombassei. Ma è una proposta sulla quale si può e si deve discutere. Magari defindendola meglio e sapendo che a denunciare 120 mila euro di reddito l'anno, in questo Paese dei paradossi, è spesso la "middle-class" a reddito fisso, mentre sono proprio i veri evasori del lavoro autonomo che spesso si riparano dietro dichiarazioni vergognose da 20 mila euro l'anno. Ma questa discussione va fatta con mente serena, con spirito laico e fuori dall'arena degli "opposti estremismi".

Certo, il centrosinistra deve risalire una china difficile, quasi proibitiva, di giudizi e pregiudizi. Deve farsi perdonare la sua inerziale incapacità nell'aggredire la spesa pubblica, e la sua proverbiale caparbietà nel trasformare in "oppressione" la pressione fiscale. E certo, mentre ritrova la voglia di dare voce ai bisogni del suo blocco sociale di riferimento con proposte improntate a una forte radicalità, deve anche trovare il coraggio di parlare ai ceti più lontani con il linguaggio disincantato di un chiaro riformismo. Mentre incalza in campo aperto il governo con il contributo di solidarietà sui redditi più alti, deve anche saper affrontare a viso aperto con i sindacati la questione previdenziale. In questo, davvero, i "democrats" americani hanno le carte in regola che democratici italiani, per le loro colpe storiche e i loro ritardi culturali, ancora non possiedono.

Ma questa nuova incursione dimostra palesemente una verità. Com'è già accaduto per l'assegno per i disoccupati, quando l'opposizione abbandona le fumose mediazioni politiciste e le dannose tentazioni inciuciste, quando mette in campo proposte concrete e comprensibili a tutti i cittadini, quando su queste lavora ai fianchi il governo e cerca sponde trasversali nella maggioranza, cresce la validità della sua offerta programmatica e sale la qualità del confronto parlamentare. Non è un caso che il contributo di solidarietà abbia trovato una sponda nella Lega di Bossi e Maroni, oltre che nell'Udc di Casini e Buttiglione. È la conferma che, tra i paletti di una drammatica crisi economica, il Pd ha margini di manovra da esplorare e spazi politici da occupare. Basta seguire - stavolta fino in fondo, cioè nella pratica di ogni giorno e non più solo da un episodico pulpito del Lingotto - la lezione americana di Obama: è l'ora delle responsabilità.
m.giannini@repubblica.it

(12 marzo 2009)
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« Risposta #52 inserito:: Marzo 13, 2009, 11:17:36 pm »

ECONOMIA      IL COMMENTO

Socialismo bancario


di MASSIMO GIANNINI


Di fronte alle tante "zombie banks" che si aggirano sinistre per il mondo, sarebbe sbagliata una difesa d'uffico del sistema creditizio. E in tempi di drammatico "credit crunch", resta drammaticamente vera la profezia di Mark Twain: un banchiere è un tizio che ti presta l'ombrello quando c'è il sole, e lo rivuole appena comincia a piovere.

Ma l'operazione "prefetto di ferro" orchestrata dal ministro Tremonti per vigilare sui flussi di erogazione del credito da parte delle banche è una misura di stampo sovietico. Ricorda la Gosbank degli Anni '20, che controllava per conto del Pcus il finanziamento del Piano quinquennale.

Nel consueto, assordante silenzio dei liberali alle vongole di casa nostra, fa dunque un fragoroso rumore la circolare del governatore Draghi, che avverte i nuovi "custodi" del Gosplan acquartierati a Via XX Settembre: la Banca d'Italia è disponibile a collaborare con i prefetti, ma secondo le leggi vigenti potrà fornire ai medesimi solo le informazioni territoriali e i dati aggregati sul credito, e non anche i numeri relativi ai fidi erogati dai singoli istituti. Ovvio, in un paese che ha a cuore il buon funzionamento del capitalismo liberale. Scandaloso, nell'unico paese in cui una destra pretende di governare con le regole del socialismo reale.

Infatti Tremonti, ancora una volta, non ha gradito le puntualizzazioni di Draghi. "Ci sarà un grande impegno dei prefetti" nel controllo sulle banche, ha rilanciato. "Io darei tutta la vigilanza sul credito alla Bce", ha aggiunto. Il superministro, con tutta evidenza, vede due sbocchi possibili per la Banca d'Italia: o si rassegna a prendere ordini dal potere politico secondo il modello della Gosbank sovietica, appunto, o si accontenta di rimanere in vita come innocuo centro di studi economici. In questo buio Medio Evo dei mercati globali molti banchieri hanno fatto danni giganteschi. Ma molti politici rischiano di combinarne di peggiori.

(13 marzo 2009)
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« Risposta #53 inserito:: Marzo 26, 2009, 04:13:29 pm »

IL COMMENTO

La caccia al manager

di MASSIMO GIANNINI


Dunque, uno spettro si aggira per il mondo. "Rabbia populista", l'ha definito Newsweek osservando le nuove vandee americane. "Lotta di classe", lo definiremmo attingendo alle antiche categorie marxiane. I titoli tossici producono veleni sociali. L'epidemia deflagra negli Stati Uniti, dove centinaia di risparmiatori truffati accerchiano Bernie Madoff all'uscita del tribunale e decine di poveri cristi infuriati assediano le ville blindate dei manager dell'Aig. Ma ora si propaga pericolosamente anche in Europa.

In Gran Bretagna, in piena notte, un gruppo di attivisti anonimi attacca la residenza edimburghese di Fred Goodwin, il superbanchiere responsabile del crac della Royal Bank of Scotland, che prima di lasciare dietro di sé una montagna di macerie se n'é andato in pensione con un bonus da 16,9 milioni di sterline. In Francia, in pieno giorno, un centinaio di impiegati della 3M Santè, a rischio di licenziamento, prendono in ostaggio l'amministratore delegato Luc Rousselet. La stessa cosa, 10 giorni fa, era successa al ceo della Sony francese, Serge Foucher, anche lui sequestrato dagli operai della fabbrica di Pontonx-sur-l'Adour. Appena un po' meglio era andata a Louis Forzy, direttore della Continental: fischiato e preso a lanci d'uova dai 1.120 addetti dell'impianto di Claroix.

Chiamatelo come volete. Il "capitalism disaster" di Naomi Klein. Il "turbo-capitalismo" di Robert Reich. L'"economia canaglia" di Loretta Napoleoni. Ma questo rischia di essere l'effetto più dirompente del virus incubato dall'Occidente: un potenziale e colossale ritorno del conflitto sociale. Nella frattura del circuito della rappresentanza, che vede il cittadino globale sempre più isolato e scollegato dall'élite politica, folle di moderni "proletari" scelgono altrove i loro capri espiatori. Privati dei risparmi, impoveriti nei redditi e derubati di certezze, individuano nei manager, ricchi, apolidi e irresponsabili, il simbolo del male. Sono loro i "predoni". Sono loro le "mosche del capitale", raccontate a suo tempo da Paolo Volponi, che vanno cacciate o schiacciate.

Promotori e sostenitori delle nuove "ronde anti-manager" non hanno tutti i torti. Ma quello che sta accadendo è inquietante. "Bank Bosses Are Criminals", pare sia il motto dei "giustizieri" che si stanno coalizzando in Nord Europa. Uno slogan sinistro, che riecheggia quello degli ultras degli stadi di tutte le latitudini: "All Cops Are Bastards". L'Italia, per ora, sembra immune. A meno di non voler considerare alla stessa stregua il blitz a colpi di letame compiuto dai centri sociali al "Cambio", il ristorante della Torino-bene. Ma che succede se la nuova "lotta di classe" dilaga e si espande ovunque? Un mese fa l'Economist ha fatto un'inchiesta, inquietante: nel mondo c'è un enorme "ceto medio globale", a spanne due miliardi e mezzo di persone, che in questi decenni di globalizzazione si è arricchito quanto basta per uscire dalla povertà, e per acquisire uno status sociale e una condizione materiale da neo-borghesia.

La "tempesta perfetta" rischia di ricacciare questo gigantesco pezzo di umanità sulle sponde desolate del sotto-sviluppo. L'Economist ripescava Marx, e ricordava che "la borghesia ha sempre giocato un ruolo fortemente rivoluzionario" nella Storia. Di fronte al crollo del benessere economico e delle aspirazioni sociali ha supportato i governi nazifascisti nell'Europa degli Anni 30 e le giunte militari nel Sud America degli Anni 80. Ha manifestato pacificamente per ottenere il diritto di voto nella Gran Bretagna del 19esimo secolo e ha ottenuto la democrazia nell'America Latina degli Anni 90.

Cosa accadrebbe, se questa massa di popolo conquistato al benessere ripiombasse, in poco tempo, nell'abisso della quasi-miseria? L'Economist non dava una risposta, ma si limitava a porre la domanda. Allargato su scala planetaria, ed esteso ai giganti del Terzo Millennio come Cina, India, Russia e Brasile, il nuovo "conflitto di classe" non è più solo un problema di difesa della democrazia economica. Diventa una questione di tenuta della democrazia in quanto tale. Questa rischia di essere la vera posta in gioco. Non solo per l'Occidente, ma per il mondo intero.
m.giannini@repubblica.it

(26 marzo 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #54 inserito:: Aprile 09, 2009, 11:26:55 pm »

IL COMMENTO

C'è giustizia in Parlamento

di MASSIMO GIANNINI


C'E' un giudice a Montecitorio. La doppia, clamorosa bocciatura delle norme sulle ronde e sul tempo di permanenza degli immigrati nei Cpt è un'ottima notizia. In primo luogo, è una novità che fa ben sperare per la civiltà giuridica del Paese. Pure in questi tempi di crisi del multiculturalismo e di drammatica escalation dei flussi migratori, non esiste altra democrazia europea che abbia introdotto leggi non da stato emergenziale, ma da stato criminogeno. Le ronde anticlandestini sono questo e non altro. E non è un caso che fossero state bocciate dal Consiglio superiore della magistratura perché incostituzionali e dal sindacato di polizia perché ingestibili. L'allungamento a 180 giorni della permanenza dell'immigrato nei centri di smistamento è persino peggio: una misura sostanzialmente carceraria, stabilità da un'autorità amministrativa, in assenza di reato e di garanzia giurisdizionale.

La natura quasi eversiva di queste misure sta nella "furia" di Maroni che tuona: "Ora dovremo liberare 1038 clandestini". Dice proprio così, il ministro degli Interni: "Liberare". È la conferma implicita che per lui e per il Carroccio, i Cpt sono e devono essere galere. Il fatto che queste torsioni della dottrina del diritto e queste violazioni dell'habeas corpus siano state respinte dal Parlamento è un segno di tenuta culturale, che nonostante tutto getta una luce meno sinistra sull'Italia ai tempi di Berlusconi. La piaga della clandestinità, con tutti i suoi risvolti drammatici in termini di convivenza civile e ordine pubblico va affrontata e gestita senza inefficaci moralismi ma senza demagogici ideologismi.

In secondo luogo, la doppia bocciatura dei provvedimenti fortemente voluti dalla Lega, è una novità che fa ben sperare per la qualità politica del centrodestra. Il ritiro della prima norma e l'affondamento in aula della seconda, dimostrano che nemmeno nella destra berlusconiana, populista e plebiscitaria, c'è spazio solo per il pensiero unico "elaborato" fra il Cavaliere e il Senatur nel chiuso delle cene di Arcore. Il partito moderato di massa, se esiste davvero, non nasce pronta cassa sulla ruota esclusiva Forza Italia/Lega. Il partito degli italiani, se esiste davvero, non è ancora e forse non sarà mai il partito dei padani, xenofobi e spaventati. E' chiaro che il patto d'acciaio con Bossi è e resta strategico per Berlusconi, ma quello che è accaduto ieri alla Camera dimostra che, intorno alla leadership attualmente minoritaria, ma radicalmente alternativa di Gianfranco Fini esiste un nocciolo duro, da destra costituzionale e nazionale, non riducibile alla categoria gregaria dell'intendenza di De Gaulle, che sempre "seguirà" gli ordini del capo.

Quel nocciolo duro ha dimostrato di esistere già al congresso del Pdl, quando il presidente della Camera ha illustrato a una folla in mera adorazione del sovrano il manifesto di un partito conservatore e riformatore moderno, imperniato intorno ai diritti degli individui, alla tutela delle istituzioni e alla difesa dello stato laico, in totale antitesi rispetto al partito personale, confessionale e a-costituzionale incarnato dal Cavaliere.

Quel nocciolo duro ha dato una prova ulteriore della sua possibilità di crescere con la raccolta delle 101 firme, proprio contro la Lega e proprio sul decreto sicurezza, avvenuta nelle scorse settimane. Un'iniziativa che sembrava estemporanea, e per alcuni versi velleitaria, e che ora si dimostra invece opportuna e lungimirante.

Non sappiamo dove porterà, questa "leadership duale" che Fini sta cercando di consolidare nella metà campo del centrodestra. Quel che è certo, a questo punto, è che il presidente della Camera ha fugato un sospetto, che suo malgrado aleggiava su di lui. Quello di rappresentare, nonostante le sue positive intenzioni e oggettive riflessioni da statista, un vacuo "grillo parlante" nel centrodestra. Fini nel Pdl di oggi come Follini nella Cdl di ieri: votato alle guerre alate della testimonianza, ma confinato nelle terre desolate dell'irrilevanza. Quasi un "utile idiota", sfruttato dal Cavaliere per rappresentare l'immagine, falsa e artefatta, di un pluralismo formale che serviva solo a coprire, dietro una sterile cortina di dissenso, l'assolutismo sostanziale imperante nel partito del Popolo delle libertà.

Le cose, evidentemente, non stanno così. Come sempre, in politica chi ha più filo da tessere tesserà. Ma intanto accontentiamoci dell'evidenza. Quei 17 franchi tiratori, presenti e resistenti nei banchi di un Pdl che si pretende militarizzato, dimostrano che un'altra destra è possibile. Di questi tempi non è poco.

(9 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #55 inserito:: Aprile 15, 2009, 08:55:37 am »

ECONOMIA     

Perché è stato alzato al 20% il tetto all'acquisto di azioni proprie

La norma è passata all'interno del decreto-incentivi approvato prima di Pasqua

Anche Parlamento e Consob nello schema "blinda-Mediaset"

Berlusconi: "Ho già parlato della difesa delle aziende italiane con Cardia"

di MASSIMO GIANNINI

 
SEPOLTA dalle tragiche macerie del terremoto d'Abruzzo, un'altra legge ad personam, o per meglio dire ad aziendam, ha incassato silenziosamente il timbro del Parlamento.

E' una norma che nasce all'ombra del conflitto d'interessi di Silvio Berlusconi: capo del governo e padrone di un impero mediatico. Tradisce una visione proprietaria del libero mercato: la regola generale al servizio di un'esigenza particolare. Sancisce una posizione gregaria delle autorità indipendenti: il "vigilante", debitamente sollecitato, obbedisce al "vigilato".

Mercoledì scorso il Senato ha approvato in via definitiva il cosiddetto decreto incentivi. Un pacchetto-omnibus nel quale c'è di tutto: dal raddoppio degli incentivi per l'auto ai bonus per gli elettrodomestici. Nel gigantesco garbuglio sono stati infilati un paio di articoli che prevedono "strumenti di difesa del controllo azionario delle società da manovre speculative", e introducono misure volte a prevenire "eventi di scalate ostili in una fase di mercato caratterizzato da corsi azionari molto al di sotto della media degli ultimi anni".

Nobile intenzione. Il legislatore, in piena crisi finanziaria, si preoccupa dei troppi "avvoltoi" stranieri che svolazzano sulla Borsa italiana. Vuole difendere almeno le spoglie dei pochi, grandi "campioni nazionali" rimasti su piazza: Eni ed Enel, Fiat e Telecom, Intesa e Unicredit. Con tre disposizioni specifiche. La prima prevede l'innalzamento dal 10 al 20% della quota di azioni proprie che ogni società può acquistare e detenere in portafoglio. La seconda prevede l'incremento fino al 5% annuo delle partecipazioni consentite a chi già possiede tra il 30 e il 50% di una Spa. La terza introduce la possibilità per la Consob di ridurre dal 2 all'1% la soglia valida ai fini dell'obbligo di comunicare alla Vigilanza l'avvenuto acquisto di un pacchetto azionario.

Non c'è male, per un governo che si professa liberale, anche se non più liberista. E nemmeno per un centrodestra che, fregandosene allegramente della cultura dell'Opa e della contendibilità delle aziende, ha già rimesso pesantemente in discussione la passivity rule, cioè quel complesso di regole volte a limitare le iniziative di contrasto consentite a una società su cui pende un'Offerta pubblica d'acquisto. In tempi di ferro, come dice Tremonti, ci si difende con tutti i mezzi. Ma il problema, nel caso di specie, non è solo questo: dietro la nuova crociata per salvare "l'italianità" si nasconde un interesse di bottega, molto più spicciolo: difendere Mediaset. Vediamo perché.

I titoli del Biscione, come la maggior parte del listino, soffrono da mesi e mesi un crollo verticale di valore. Al 31 dicembre 2007 un'azione Mediaset valeva 9,3 euro. Un anno dopo, a fine 2008, ne valeva 3,9. Attualmente staziona intorno ai 3,5 euro, con una capitalizzazione di circa 4,2 miliardi. Poco più di un terzo di due anni fa. Già a luglio dell'anno scorso Piersilvio Berlusconi denunciava: "Dall'inizio dell'anno abbiamo subito una perdita di valore del 41%". Anche il Cavaliere, ovviamente, è preoccupato.

L'8 ottobre 2008, in un'ormai leggendaria conferenza stampa, arringa le masse: "Abbiate fiducia, comprate azioni Eni, Enel e Mediaset". Nulla cambia, com'è ovvio, e un mese dopo il premier incurante delle polemiche insiste: "Le azioni di una società non possono mai valere meno di 20 volte gli utili prodotti". Tecnicamente non ha tutti i torti. Politicamente la sua posizione è indifendibile. Ma queste, per un "uomo del fare", sono questioni da legulei bizantini. Così, di fronte al progressivo tracollo della Borsa che nessuno riesce a fermare, il presidente del Consiglio e il suo inner circle usano tutte le armi a disposizione.

All'inizio del 2009 scattano i primi contatti riservati tra Gianni Letta e Lamberto Cardia, presidente della Consob. Il tema è: cosa si può fare per sostenere i corsi azionari e per evitare che qualche raider si faccia venire idee strane? In meno di un mese scatta una manovra di geometrica potenza. Ai primi di marzo, secondo un'indiscrezione raccolta a Piazza Affari, da Mediaset arriva agli uffici Consob una richiesta di parere sui limiti all'acquisto di azioni proprie. Il 12 marzo, in un'intervista al settimanale di famiglia, Panorama, Cardia fa il primo passo: "Serve una spinta in più per ritrovare la fiducia e ridare fiato alla Borsa - dice il presidente della Consob - il governo ha già fatto molto, però nella situazione attuale si può andare oltre... Si potrebbe, per un periodo prefissato e in tempi di crisi, dare la facoltà alle società quotate di comprare azioni proprie non più fino al 10 ma fino al 20%. Questo potrebbe servire a contrastare la volatilità e a rafforzare la presa sul capitale. Naturalmente tutte queste scelte spettano alla politica, governo e Parlamento. I miei sono solo contributi di pensiero".

Ben detto. Ma questo "contributo di pensiero" è esattamente il segnale che aspettano in casa Berlusconi. Nel giro di una settimana succedono due cose, per niente casuali. Il 17 marzo il cda Mediaset approva il bilancio 2008 ed esamina i primi tre mesi del 2009, che riflettono la crisi, tra una caduta del 12% dei ricavi pubblicitari a gennaio e un taglio dei dividendi, per la prima volta dopo sette anni, da 0,43 a 0,38 euro per azione. Nel comunicato finale, il Biscione comincia a mettere fieno in cascina e precisa che alla prossima assemblea sarà proposta la facoltà di "acquisire fino a un massimo di 118.122.756 azioni proprie, pari al 10% dell'attuale capitale sociale, in una o più volte, fino all'approvazione del bilancio 2009". Il 18 marzo due parlamentari del Pdl, Marco Milanese ed Enzo Raisi, presentano un emendamento al decreto incentivi, che prevede esattamente l'innalzamento dal 10 al 20% della quota di azioni proprie acquistabili da una singola azienda, l'incremento dei tetti per la cosiddetta Opa totalitaria e la riduzione dal 2 all'1% della soglia al di sopra della quale scatta l'obbligo di comunicazione. Ecco la norma ad aziendam.

Il blitzkrieg è scattato. Ha solo bisogno di una cornice presentabile sul piano etico e sostenibile sul piano politico. Alla prima esigenza provvede ancora Cardia, che il 19 marzo, in una prolusione alla Scuola Ufficiali carabinieri di Roma, chiude il cerchio: "E' di ieri la notizia della presentazione di un emendamento al decreto incentivi all'esame della Camera, che accoglie alcune proposte formulate dal presidente della Consob a titolo personale per sostenere le società quotate in un momento nel quale la grave depressione delle quotazioni potrebbe facilitare manovre speculative o ostili. Chi lavora in istituzioni pubbliche deve essere orgoglioso di lavorare al servizio della collettività...".

Alla seconda esigenza provvede lo stesso Berlusconi: il 31 marzo, in una dichiarazione a Radiocor, afferma pubblicamente che il governo punta ad aumentare il tetto per il possesso delle azioni proprie delle società quotate. E dichiara con assoluto candore di averne "parlato con il presidente della Consob", che si è detto "d'accordo su questa direzione". Nessuno lo nota, neanche i giornali specializzati. Ma è la smoking gun dell'ennesimo caso di conflitto di interessi.

Il resto è cronaca di questi ultimi giorni, con il Parlamento che approva definitivamente la norma ad aziendam. Nel silenzio assordante dei benpensanti. Si segnala una sola eccezione. Salvatore Bragantini, ex commissario Consob, in un commento nelle pagine interne del Corriere della Sera del 3 aprile scorso, critica giustamente il "decreto protezionista" corretto dagli emendamenti del Pdl, e si chiede: "Sarebbe interessante capire quale società potrà essere la vittima destinataria delle proposte". Ora lo sappiamo. Come temevamo, è la società del capo del governo.

(15 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #56 inserito:: Maggio 01, 2009, 12:47:41 pm »

ECONOMIA      L'ANALISI

La strada da Torino a Detroit

di MASSIMO GIANNINI


Se è vero che la Fiat è un secolo di storia italiana, oggi il Lingotto scrive una bella pagina di quella storia. Fallito nel 2005 il primo "sogno americano" di Gianni Agnelli con la General Motors, quattro anni dopo tocca a Sergio Marchionne coronare il secondo con la Chrysler. L'accordo con la casa di Detroit ha un grande valore industriale per il gruppo torinese e un forte impatto simbolico per il Paese. L'amministratore delegato della Fiat parla di "momento storico".

Il presidente americano Obama parla di "un futuro luminoso". Al di là dell'enfasi retorica, hanno ragione entrambi. Ma con qualche "caveat" che, proprio in queste ore di comprensibile soddisfazione, è utile sottolineare.

Dal punto di vista aziendale, questo successo insegna l'importanza del lavoro duro, dal primo dei manager all'ultimo degli operai, che sempre sta dietro e determina i destini di un'impresa. Insegna la centralità della manifattura, la passione e la fatica di chi, dietro una scrivania o alla catena di montaggio, partecipa alla vera "creazione di valore". Che non è il profitto (quello arriva a valle del ciclo, se tutto funziona come deve) ma è il prodotto (che sta a monte di tutto, se ognuno lavora come sa). Qui, al di là di tutte le dietrologie, sta il segreto del "modello Marchionne". Dopo l'ubriacatura finanziaria degli anni '90, a lui si deve il merito di aver riportato la Fiat a fare al meglio quello che l'ha resa, appunto, un pezzo di storia italiana: l'automobile. Nient'altro che l'automobile. Così la Fiat torna ad essere "il ritratto di famiglia di noi italiani". Gliene va dato atto.

Ma dobbiamo sapere che questo accordo è solo l'inizio della corsa, e non ancora il traguardo finale. L'innesto della tecnologia di Torino con le strutture produttive di Detroit consente alla Fiat di candidarsi al ruolo di player mondiale, tra i 5 o 6 che resteranno in piedi di qui al prossimi 2013, secondo la profezia dello stesso Marchionne. Lo sbarco sulle highways e nelle metropoli Usa dello "stile Italia", incarnato da modelli seducenti come la 500 e sportivi come l'Alfa Romeo, porta il nuovo colosso che nascerà a una "massa critica" di circa 4 milioni di auto prodotte. Tante, ma non ancora sufficienti per superare la soglia dei 6 milioni, considerata necessaria per reggere l'urto della competizione globale. Una successiva integrazione con la tedesca Opel sarebbe il coronamento di un'operazione perfetta, e finalmente completa. Ma questa è un altro capitolo della storia, ancora tutto da scrivere.

Dal punto di vista nazionale, questo successo insegna che la piccola Italia, con tutte le sue anomalie, le sue rigidità e i suoi ritardi, è ancora capace di esprimere le sue "eccellenze", almeno nei pochi settori rimasti in piedi dopo decenni di politiche economiche dissennate e di politiche industriali scellerate. Sembra passato un secolo da quel terribile 2002, quando la Fiat affondava nel mare di un debito lordo pari a 30 miliardi di euro, e sui mercati veniva considerata già "tecnicamente fallita". E sembra passato un millennio da quella nera domenica di ottobre, quando la dolente carovana di Lancia Thesis con dentro i manager di Torino capitanati da un disorientato Paolo Fresco e da uno sconfortato Galateri imboccavano il viale alberato della villa di Arcore, e si presentavano col cappello in mano a Silvio Berlusconi, a chiedere il salvataggio del governo. Il Cavaliere li accolse con lo stesso, infastidito sussiego del notabile che riceve i suoi portaborse. Li maltrattò, gli promise aiuti solo a patto che l'intero vertice si facesse da parte. Perché - così disse - "ho io un po' di idee, per rilanciare la Fiat".

Il successo del Lingotto in terra americana, oggi, sana quella ferita. E sia pure con molti anni di distanza, risarcisce la più importante azienda privata italiana da quell'insopportabile umiliazione. Non che la Fiat non avesse di che farsi perdonare. Gli errori strategici non sono mancati. I favori politici meno che mai. Ora, dopo aver molto ricevuto in termini di sussidi diretti e indiretti, il Lingotto restituisce credibilità a se stesso, e prestigio al Paese. Non possiamo che rallegrarcene.

Ma dobbiamo sapere che quella credibilità e quel prestigio sono frutto solo della forza di poche grandi industrie del Primo Capitalismo (come la Fiat, appunto) e del sacrificio di migliaia di piccole e medie imprese del Quarto Capitalismo. Sono queste che ogni giorno si vanno a cercare all'estero qualche metro in più di quota di mercato. Supplendo, con la sola "arma" dell'innovazione dei propri prodotti o dei propri processi, alle inefficienze dello Stato, alle deficienze delle infrastrutture, alle assenze della politica. Ora il presidente del Consiglio si dichiara giustamente "orgoglioso" dell'accordo Fiat-Chrysler. Ma mentre sale anche lui sul carro dei vincitori, dovrebbe essere consapevole che questa è l'affermazione di un'impresa, non la vittoria di un Sistema-Paese. Anche questo è un altro capitolo di storia, ancora tutta da scrivere.

Dal punto di vista globale, infine, questo successo insegna che il mondo, di fronte a una crisi eccezionale, deve cercare solo risposte eccezionali. L'accordo Fiat-Chrysler ne è un formidabile concentrato. Nasce una nuova società che, oltre al Lingotto con il 20%, avrà nel suo capitale il Tesoro Usa con una quota del 23% e i sindacati americani e canadesi dell'auto con quote del 55%. Chi avrebbe mai potuto immaginare che la patria dell'ortodossia liberista degli "spiriti animali" si sarebbe convertita all'eresia del modello renano e della cogestione sindacale? E chi avrebbe mai potuto immaginare che una grande industria privata come la Fiat avrebbe accettato di convivere con un socio pubblico ingombrante come Tim Geithner? Non solo: i sindacati, dopo una lotta durissima, hanno dovuto scegliere tra l'ideologia e la realtà. Ma chi avrebbe immaginato che migliaia di lavoratori, per salvare l'auto, avrebbero accettato pesanti tagli nel costo del lavoro, forti limiti agli straordinari (pagati solo dopo 40 ore settimanali) e la rinuncia a festività come i lunedì di Pasqua dei prossimi due anni? E ancora: le quattro principali banche con cui Chrysler è indebitata, cioè Jp Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup, hanno dovuto scegliere tra il rigore e il buon senso. Ma chi avrebbe mai immaginato che avrebbero accettato di ridimensionare da 6,8 a 2 miliardi di dollari i loro crediti da riscuotere?

L'insieme di queste "singolarità" dà la misura delle incognite che ancora incombono su questa operazione. Ma c'è poco da fare: questo è il frutto amaro della crisi. Obama l'ha capito per primo, con grande pragmatismo. Gliene va dato atto. E anche da questo punto di vista l'accordo Fiat-Chrysler può diventare un paradigma dei tempi che viviamo. Per uscire dalla tempesta perfetta non c'è più una soluzione precostituita, non c'è più un modello prestabilito. Il turbocapitalismo contro il neo-statalismo. Tutto si mescola, tutto cambia segno e senso. Bisogna mettersi in marcia, e tentare tutte le strade. Quella che va da Torino a Detroit può portare lontano.
m.giannini@repubblica.it

(1 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #57 inserito:: Maggio 01, 2009, 02:40:24 pm »

Massimo Giannini


Vita virtuale e crisi reale
 


Chi in questi giorni, folgorato sulla via di Damasco, ha visto improvvisamente la "fine dell'apocalisse", è purtroppo servito. Le due grandi locomotive del mondo, Stati Uniti e Germania, deragliano nell'abisso della recessione. In America il Prodotto interno lordo crolla di schianto: meno 6,1 per cento nel primo trimestre 2009, rispetto a un'attesa del meno 4,7%.

Tre trimestri consecutivi di caduta della ricchezza nazionale non si vedevano dal 1974, anni di shock petroliferi e di "economia di guerra". Due trimestri consecutivi in cui la somma del decremento del Pil raggiunge il 12,9% non si vedevano da sessant'anni. Cede tutto: dagli investimenti all'export.

In Germania, per molti versi, va persino peggio: il Pil del 2009 è stimato dalla Merkel a meno 6%, rispetto al meno 2,25 dell'ultima previsione governativa. La peggiore performance tra i Paesi industrializzati, se si eccettua il Giappone. Cede tutto, anche qui: dalle esportazioni, che a febbraio scendono del 23,1%, alla disoccupazione, che nel 2010 raggiungerà il picco dei 4,62 milioni di unità.

Chi si ostina a vedere "l'uscita dal tunnel", in Italia, soffre dunque di miopia economica. Francesco Daveri, su Lavoce.info, segnala che a dispetto di una declamata ripresa del clima di fiducia tra gli imprenditori, almeno secondo l'indagine Isae, l'andamento della capacità produttiva nel primo trimestre 2009 evidenzia un'ulteriore riduzione nell'utilizzo degli impianti tra le imprese manifatturiere.

Si chiede Daveri: da cosa nasce, allora, questo ritrovato "clima di fiducia"? Molto probabilmente dalle dissimulazioni della "vita virtuale", cioè dalla scomparsa del termine "crisi" dalle prime pagine dei quotidiani. Temo che abbia ragione. Per superare la recessione non basta farla sbianchettare dai titoli di giornali e Tg. Nella "vita reale" c'è chi ne soffre le conseguenze ogni giorno, sulla propria pelle, e prima e poi ne chiederà conto a chi governa. Per questo la "mistica della ripresa" è anche miopia politica.

(30 aprile 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #58 inserito:: Maggio 05, 2009, 11:32:18 pm »

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Leoni per Agnelli


Massimo Giannini


Preferisci essere una zampa del leone o la coda di un topolino?
Detta brutalmente, questa è l'incognita che il gruppo Fiat si trova di fronte, nel complesso risiko che dovrebbe portare il Lingotto al centro di una grande alleanza proprietaria e finanziaria che incrocia Chrysler, con GM Europa e Opel, o in alternativa con Peugeot-Citroen e Bmw.

E' chiaro a tutti che la famiglia Agnelli, con le sue sole gambe, non può reggere l'urto di una sfida globale di queste proporzioni. Anche per la situazione debitoria in cui si trova il gruppo, sulla quale in questi giorni di legittimo orgoglio "neo-colonialista" si è preferito non insistere più di tanto. Ma è un fatto che, di qui ai prossimi mesi, al Lingotto serviranno cospicue iniezioni di capitale fresco. Solo nelle attività industriali, il gruppo torinese mostra un indebitamento di oltre 7 miliardi di euro, ai quali se ne sommano altri 16 per le attività finanziarie. Le banche azioniste, Unicredit e Intesa, hanno già dichiarato di essere pronte a fare la loro parte, se e quando ce ne sarà bisogno.

Ma è evidente che anche l'impegno rinnovato e rafforzato dei soci creditizi non basterà. Servirà molto altro, e molto di più. La posta in gioco, indipendentemente da come andrà a finire la "campagna di Germania" avviata in questi giorni da Marchionne, riguarda il futuro assetto di governance azionaria che sarà disegnato intorno al Lingotto. E quindi, sostanzialmente, il modello di capitalismo finanziario che nascerà dalla definitiva internazionalizzazione del gruppo. E' altrettanto chiaro a tutti, nonostante la presa tuttora esercitata dagli Agnelli sulla Fiat attraverso Exor, che questo impianto familiare (o familistico) non può resistere all'evoluzione dei tempi. Anche John Elkann si dovrà dunque rassegnare all'evidenza, e si dovrà convincere della necessità di aprire i forzieri di Torino, e di rimettere in gioco quote azionarie e risorse finanziarie insieme ad altri partner globali, non certo e non solo italiani. Questa è la sfida. Questo è lo scambio, con tutto il rispetto. Leoni per Agnelli.

(5 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #59 inserito:: Maggio 08, 2009, 11:19:06 pm »

IL RETROSCENA.

Il contributo statale effettivo per ogni famiglia non sarà di 150 mila euro, ma di un terzo

Fondi "virtuali" e stanziamenti basati su previsioni di incassi crescenti delle lotterie

I trucchi del "decreto abracadabra" ricostruzione diluita in 23 anni

di MASSIMO GIANNINI


 Impegni solenni, progetti altisonanti. Garantiti dalle solide certezze del presidente del Consiglio. Ma se scorri il testo del provvedimento, ti accorgi che lì dentro di veramente solido c'è poco e niente.

Tutto balla, in quello che è già stato ribattezzato il "Decreto Abracadabra". Le cifre, innanzitutto. Dopo il Consiglio dei ministri straordinario del 23 aprile, Berlusconi e Tremonti avevano annunciato uno stanziamento di 8 miliardi per la ricostruzione dell'Abruzzo: 1,5 per le spese correnti e 6,5 in conto capitale. A leggere il decreto 39, si scopre che lo stanziamento è molto inferiore, 5,8 miliardi, ed è spalmato tra il 2009 e il 2032. Di questi fondi, 1,152 miliardi sarebbero disponibili quest'anno, 539 milioni nel 2010, 331 nel 2011, 468 nel 2012, e via decrescendo, con pochi spiccioli, per i prossimi 23 anni. Da dove arrivano queste soldi? Il governo ha spiegato poco. Il premier, ancora una volta, ha rivendicato il merito di "non aver messo le mani nelle tasche degli italiani". Il ministro dell'Economia si è fregiato di aver reperito le risorse "senza aumentare le accise su benzina e sigarette, senza aumenti di tasse, ma spostando i fondi da una voce all'altra del bilancio".

Il "Decreto Abracadabra" non aiuta a capire. Il capitolo "Disposizioni di carattere fiscale e di copertura finanziaria" dice ancora meno. Una prima, inquietante cosa certa (come recita l'articolo 12, intitolato "Norme di carattere fiscale in materia di giochi") è che la ricostruzione in Abruzzo sarà davvero un terno al lotto: 500 milioni di fondi dovranno arrivare, entro 60 giorni dal varo del decreto, dall'indizione di "nuove lotterie ad estrazione istantanea", "ulteriori modalità di gioco del Lotto", nuove forme di "scommesse a distanza a quota fissa". E così via, giocando sulla pelle dei terremotati. Un "gioco" che non piace nemmeno agli esperti del Servizio Studi del Senato: "La previsione di una crescita del volume di entrate per l'anno in corso identica (500 milioni di euro) a quella prevista a regime per gli anni successivi - si legge nella relazione tecnica al decreto - potrebbe risultare in qualche modo problematica".

Una seconda, inquietante cosa certa (come recita l'articolo 14, intitolato "Ulteriori disposizioni finanziarie") è che altre risorse, tra i 2 e i 4 miliardi di qui al 2013, dovranno essere attinte al Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate, che dalla Finanziaria in poi è diventato un vero Pozzo di San Patrizio, dal quale il governo pompa denaro per ogni emergenza, senza che si capisca più qual è la sua vera dotazione strutturale.
E questo è tutto. Per il resto, la copertura finanziaria disposta dal decreto è affidata a fonti generiche e fondi imprecisati: dai soldi dell'Istituto per la promozione industriale (trasferiti alla Protezione civile per "garantire l'acquisto da parte delle famiglie di mobili ad uso civile, di elettrodomestici ad alta efficienza energetica, nonché di apparecchi televisivi e computer") al trasferimento agli enti locali dei mutui concessi dalla Cassa depositi e prestiti.

A completare il gioco di prestigio contabile, non poteva mancare il solito, audace colpo a effetto, caro ai governi di questi ultimi anni: altri fondi (lo dice enfaticamente il comma 4 dell'articolo 14) potranno essere reperiti grazie alle "maggiori entrate derivanti dalla lotta all'evasione fiscale, anche internazionale, derivanti da futuri provvedimenti legislativi". Insomma, entrate scritte sull'acqua. A futura memoria. E a sicura amnesia.

Ma non è solo l'erraticità dei numeri, che spaventa e preoccupa nel "Pacchetto Ricostruzione". A parte gli interventi d'emergenza, ci sono altri due fronti aperti e dolenti per le popolazioni locali. Un fronte riguarda l'edificazione delle case provvisorie ("a durevole utilizzazione", secondo la stravagante formula del decreto) che dovrebbero garantire un tetto ad almeno 13 mila famiglie, pari a un totale di 73 mila senza tetto attualmente accampati nelle tendopoli. I fondi previsti per questi alloggi (nessuno ancora sa se di lamiera, di legno o muratura) ammonterebbero a circa 700 milioni. Ma 400 risultano spendibili quest'anno, 300 l'anno prossimo.

Questo, a dispetto del giuramento solenne rinnovato dal Cavaliere a "Porta a Porta" di due giorni fa, fa pensare che l'impegno di una "casetta" a tutti gli sfollati entro ottobre, o comunque prima del gelo invernale, andrà inevaso. Quasi la metà di loro (secondo il timing implicito nella ripartizione biennale dei fondi) avrà un tetto non prima della primavera del prossimo anno.

Un altro fronte, persino più allarmante, riguarda la ricostruzione delle case distrutte. Il governo ha annunciato "un contributo pubblico fino a 150 mila euro (80 mila per la ristrutturazione di immobili già esistenti), a condizione che le opere siano realizzate nel rispetto della normativa antisismica".

Basterà presentare le fatture relative all'opera da realizzare, e a tutto il resto penserà Fintecna, società pubblica controllata dal Tesoro, che regolerà i rapporti con le banche. Detta così sembra facilissima. Il problema è che quei 150 mila euro nel decreto non ci sono affatto. Risultano solo dalle schede tecniche che accompagnano il provvedimento. E dunque, sul piano legislativo, ancora non esistono. Non basta. Sul totale dei 150 mila euro, il contributo statale effettivo sarà pari solo a 50 mila euro. Altri 50 mila saranno concessi sotto forma di credito d'imposta (dunque sarà un risparmio su somme da versare in futuro, non una somma incassata oggi da chi ne ha bisogno) e altri 50 mila saranno erogati attraverso un mutuo agevolato, sempre a carico della famiglia che deve ricostruire, che dunque potrà farlo solo se ha già risparmi pre-esistenti. Se questo è lo schema, al contrario di quanto è accaduto per i terremoti dell'Umbria e del Friuli, i terremotati d'Abruzzo non avranno nessuna nuova casa ricostruita con contributo a fondo perduto. Anche perché nelle schede tecniche del decreto quei 150 mila euro sono intesi come "limite massimo" dell'erogazione. Ciò significa che lo Stato declina l'impegno a finanziare la copertura al 100% del valore dell'appartamento da riedificare.

Nel "Decreto Abracadabra", per ora, niente è ciò che appare. Man mano che si squarcia la cortina fumogena della propaganda, se ne cominciano ad accorgere non solo i "soliti comunisti-sfascisti" dell'opposizione come Pierluigi Bersani (che accusa l'esecutivo di trattare gli aquilani come "terremotati di serie B"), ma anche amministratori locali come Stefania Pezzopane, o perfino presidenti di Confindustria come Emma Marcegaglia, che l'altro ieri a L'Aquila ha ripetuto "qui servono soldi veri". C'è un obbligo morale, di verità e di responsabilità, al quale il governo non può sfuggire. Lo deve agli abruzzesi che soffrono, e a tutti gli italiani che giudicano. L'epicentro di una tragedia umana non può essere solo il palcoscenico di una commedia politica.

(7 maggio 2009)
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