LA-U dell'OLIVO

Forum Pubblico => GIORNALISMO INVESTICATIVO d'INCHIESTA. OPINIONISTI. => Discussione aperta da: Admin - Luglio 03, 2007, 09:54:58 pm



Titolo: MASSIMO GIANNINI
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2007, 09:54:58 pm
IL COMMENTO

Pensioni, se la politica si arrende

di MASSIMO GIANNINI


"Pensions casinò". Dopo la sorprendente apertura di gioco che il ministro del Lavoro ha fatto ieri sulla proposta avanzata da Cgil Cisl e Uil, non c'è formula migliore di quella inventata da Giuliano Amato nel suo ultimo libro per descrivere la sempiterna trattativa tra governo e parti sociali. La riforma senza fine, stavolta, rischia davvero di diventare la fine della riforma. Al tavolo della cervellotica roulette previdenziale italiana, alla fine, il banco paga sempre. I padri vincono, i figli perdono.

Dopo mesi di appuntamenti mancati e di rinvii annunciati, Cesare Damiano annuncia l'ennesima capitolazione della politica, di fronte all'ennesimo veto del sindacato. Il governo è disposto a rivedere i criteri di attuazione dei coefficienti previdenziali, già fissati dalla legge Dini del 1995, ed è disponibile a sostituire con uno "scalino" a 58 anni dal 2008 e un sistema di incentivi nei due anni successivi lo "scalone" a 60 anni, già previsto dalla legge Maroni del 2004. In un colpo solo, non uno ma due passi indietro.
Accantoniamo per un momento la pur non trascurabile sequenza di impegni formali disattesi da Palazzo Chigi in quest'ultimo anno e mezzo. Dal Dpef dell'anno scorso (che prefigurava la riforma delle pensioni nella successiva Finanziaria) al protocollo d'intesa sottoscritto con Epifani Bonanni e Angeletti a settembre 2006 (che indicava il 31 marzo 2007 come termine per il raggiungimento di un accordo). Dal "dodecalogo" prodiano "non negoziabile" di dicembre (che stabiliva al punto 8 il "riordino del sistema previdenziale con grande attenzione alle compatibilità finanziarie e privilegiando le pensioni basse e i giovani") al "preambolo" del Tesoro di aprile (che stabiliva la chiusura della trattativa "prima del nuovo Dpef").

In quest'ultima settimana, piaccia o no alla Triplice confederale, sembravano acquisiti nel dibattito alcuni elementi sostanziali. Oggettivi, dunque non discutibili e per questo non disponibili. La rinuncia alla revisione dei coefficienti costerebbe, di qui al 2040, un punto e mezzo di Pil, portando la spesa previdenziale italiana al record europeo del 16,6%. La rinuncia all'applicazione dello "scalone" costerebbe, nel 2008, circa 4,5 miliardi di euro, che diventerebbero 10 miliardi l'anno a regime. Conclusione ovvia: "I soldi per eliminare lo scalone non li abbiamo, e anche se li avessimo riterrei sbagliato metterli in un'operazione di questo tipo". L'aveva detto Massimo D'Alema ad un Epifani piuttosto contrariato, durante un ruvido faccia a faccia a Serravalle Pistoiese. Solo quattro giorni fa.
Nel giro di un week-end, queste amare ma banali verità sembrano già dissolte. Le parole di un vicepresidente del Consiglio (politicamente impegnative, perché traducono fedelmente la linea del ministro dell'Economia) svaniscono nel vento. Se quella di Damiano non è solo una posizione personale, il governo è pronto ad accogliere il surreale invito del leader della Cgil: si siede al tavolo senza la calcolatrice. Negozia a mani nude: sulla base della pura convenienza elettorale, e senza nessun criterio di sostenibilità attuariale. Concede al sindacato esattamente quello che il sindacato ha chiesto.
Il governo depone la calcolatrice matematica.

Superare lo schema dello "scalone" è un giusto obiettivo di equità, che il programma dell'Unione aveva indicato chiaramente. Ma il sistema alternativo non dà alcuna garanzia per la tenuta dei conti previdenziali di qui al 2011. Al contrario, rischia di aggravare gli squilibri. Lo stesso esperimento della legge Maroni, nella somma algebrica tra le erogazioni rinviate e i minori contributi versati, dimostra che il meccanismo degli incentivi non funziona. Non solo: prevedere che a fine periodo si torni automaticamente allo scalone, nell'ipotesi di un risultato insoddisfacente del triennio di "sperimentazione", è un puro atto di autolesionismo. La minaccia possibile produce un esodo prevedibile: di qui al 2011 non si troverà un solo "pensionando" disposto ad accettare il rischio, e a restare al lavoro in cambio di una manciata di spiccioli.
Ma il governo depone anche la calcolatrice politica. Per non incrinare l'asse con la sinistra (da Rifondazione al Pdci ai Verdi) si acconcia ad accettare l'idea di un'altra "non-riforma" delle pensioni. Per non fare un torto all'ala dura della Fiom (che tiene palesemente in ostaggio Epifani) si adatta a un nuovo compromesso al ribasso. Per non disturbare 129.500 "anziani" (tanti sarebbero nel 2008 i cinquantasettenni "pensionabili" coinvolti dallo scalone) fa l'ennesimo torto ad alcuni milioni di giovani. Costretti a pagare oggi, con i loro contributi attuali, gli incentivi di chi vuol restare e la pensione di chi se ne vuole andare. Condannati a non avere domani, senza un decente "terzo pilastro" previdenziale, uno straccio di pensione per se stessi.

Così la politica non è più arte del possibile. Diventa solo arte del rinvio. Il centrosinistra commette lo stesso "delitto" che aveva giustamente imputato al centrodestra. La legge Maroni aveva rinviato di tre anni la sua efficacia, scaricando su un futuro governo l'onere di difendere una scelta impopolare. Il lodo Damiano rinvia di altri tre anni la resa dei conti, scaricando su un futuro governo la responsabilità di compiere una scelta risolutiva. E soprattutto, scaricando ancora una volta sui giovani il "costo" di un patto inter-generazionale che non hanno mai potuto sottoscrivere, ma hanno solo e sempre dovuto subire.
Il Partito democratico deve servire anche a questo. Un governo riformista non può farsi imporre la linea da un sindacato. Un leader riformista non può sacrificare, ancora una volta, il tutto per una parte. Oggi vale per Prodi, a ottobre varrà per Veltroni.

(3 luglio 2007)

da repubblica.it


Titolo: D'Alema mediatore d'attacco sulle pensioni: «Stavolta stiamo rischiando tutti...
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2007, 06:48:47 pm
Il retroscena

Lo sfogo di Massimo: qui crolla la baracca

D'Alema mediatore d'attacco sulle pensioni: «Stavolta stiamo rischiando tutti e si va a casa» 

 
Sulle pensioni c'è il rischio di «prendere la facciata», insieme al rischio di «perdere la faccia davanti al Paese e all'Europa». Ed è un avviso che Massimo D'Alema trasforma in un appello, rivolto al presidente del Consiglio e agli alleati di Rifondazione. Stavolta nessuno potrà rinfacciargli di aver complottato contro Romano Prodi. Semmai ieri il ministro degli Esteri si è adoperato nel tentativo di ricondurre tutto alla ragione.

Lo «scalone » non è un santo Graal, sulla riforma della previdenza non si può scatenare una guerra di religione, tantomeno va interpretata come una sfida tra riformisti e massimalisti, «perché stavolta qui non rischia solo qualcuno, qui rischiamo tutti.

Si sfascia la baracca, si va a casa».

È la ferrea realtà delle cose che impone un compromesso, in questo senso a D'Alema forse non saranno nemmeno piaciute le conclusioni dai toni ultimativi del premier, che al vertice prima della riunione di governo ha parlato al ministro del Prc Paolo Ferrero perché Fausto Bertinotti intendesse. «Ci sono dei margini? Potete scostarvi dalla vostra ultima proposta? ». «No, Romano, per noi questa è l'ultima mediazione».

E invece «bisogna trovare una soluzione», così si è espresso il vicepremier, ripetendo quanto aveva detto al leader della Cgil Guglielmo Epifani durante il dibattito di Serravalle Pistoiese: «I soldi per cancellare lo scalone non ci sono, si tratta di cifre insostenibili per il nostro sistema. E se anche quei soldi ci fossero, comunque andrebbero impegnati in altri settori nell'interesse del Paese». Nessun diktat, nessun desiderio di far ingoiare un rospo agli alleati del Prc, bensì l'invito a una visione più concreta, a un realismo «di sinistra ».

D'Alema vorrebbe rifuggire dalla logica celodurista che si sta facendo strada, e che ad un esponente del governo ricorda «la famosa scena del film con James Dean, Gioventù Bruciata, in cui il duello a chi frena per ultimo con l'auto, prima del burrone, si risolve in tragedia». Ecco a cosa somiglia la decisione di Prodi di presentare venerdì prossimo in Consiglio dei ministri l'ultima proposta, e lo show down rivela un deficit politico o forse il desiderio di forzare la mano per altri fini. D'Alema è consapevole che il governo è in una fase preagonica, e teme si arrivi all'accanimento terapeutico.

Anche in questo caso constata la realtà delle cose. Ieri gli avversari del Polo, leggendo la sua intervista al Corriere, hanno notato il modo crudo in cui ha illustrato la posizione del Paese sullo scenario internazionale, paragonando l'Italia a «una provinciale di lusso che lotta per non retrocedere». Nel fronte berlusconiano resta il rammarico, unito a continui segnali di riconoscimento. «D'Alema è D'Alema», sostiene Donato Bruno, uno degli uomini più vicini al Cavaliere: «Lui è uno che non stacca mai. Anche quando è andato a Valencia a vedere le regate di Luna Rossa non ha smesso di lavorare». Se è vero che per il vicepremier c'è il rischio di «prendere la facciata» e di «perdere la faccia» sulle pensioni, e che su quel tema vanno concentrate tutte le energie, gli sarà parso ieri surreale l'estenuante dibattito in Consiglio sui costi della politica.

E non solo perché il governo detiene il record di poltrone seggiole e sgabelli, dunque non ha il pedigree per impancarsi, ma anche perché così si liscia involontariamente il pelo all'antipolitica, che a D'Alema fa venire l'orticaria. Eppoi il clamoroso conflitto con il ministro della Difesa sulla nomina del nuovo capo di Stato Maggiore, «che con una sua intervista ci creò seri problemi internazionali », testimonia «la mancanza di collegialità» nel governo, è la dimostrazione dello scollamento.

Nelle liti D'Alema vede «la tradizione autolesionistica del centrosinistra italiano, che è democratico, molto democratico, talmente democratico da rasentare la confusione». Aspetta che Walter Veltroni, almeno nel Pd, metta un po' d'ordine se ci riesce, e «rispetti i patti». C'è chi dice che tra i due siano riaffiorate vecchie ruggini, chi invece giura che non sia così, e che all'orecchio del ministro sia arrivata una battuta del sindaco di Roma: «Meno male che c'è Massimo a tenere alta la bandiera ». «Massimo», che pensa «a un futuro all'estero», potrebbe essere costretto a tardare, per sopraggiunti impegni in Italia.

Francesco Verderami
07 luglio 2007
 


Titolo: La mossa della Bonino sulle pensioni L'ultimatum?
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2007, 10:02:27 pm
La mossa della Bonino sulle pensioni L'ultimatum?

Un azzardo calcolato 

 
Magari alla fine si rivelerà solo una pantomima. Il ministro per gli Affari europei, Emma Bonino, radicale, che rimette a Romano Prodi il mandato, senza però dimettersi. Il premier che le chiede col cuore in mano di rimanere. E lei che in qualche modo trasforma l'ultimatum in un altolà. Ma il gesto ha una sua plausibilità, almeno per le motivazioni che lo accompagnano.

E rivela comunque un grande tempismo

Spedire una lettera al premier avvertendolo che lascerà l'incarico se passa una riforma delle pensioni «sotto le pressioni della sinistra comunista e di alcuni leader sindacali », per la Bonino è un azzardo calcolato. E tutt'altro che solitario. Il ministro sa di dar voce ad un fronte vasto, eterogeneo e con addentellati internazionali; e di poter contare su una filiera di alleati nell'opposizione, ma anche all'interno del centrosinistra. Le parole dette l'altroieri al Parlamento dal governatore di Bankitalia, Mario Draghi, sono un appiglio vistoso. Gli avvertimenti arrivati nei giorni scorsi a Palazzo Chigi dall'Europa costituiscono un'altra sponda solida. E nella stessa Unione, non solo la Margherita di Francesco Rutelli, ma anche settori dei Ds e il candidato alla segreteria del Pd, Walter Veltroni, hanno condiviso l'allarme di Draghi. L'impressione è che la Bonino si sia mossa dopo avere misurato e pesato questo schieramento. La reazione accorata di Prodi, il «no comment» di Fausto Bertinotti e le repliche stizzite dell'estrema sinistra fotografano i destinatari politici della provocazione. L'effetto che potrà avere, invece, è meno facile da decifrare. L'impressione è che Palazzo Chigi sia stato colto parzialmente di sorpresa. In questo anno i radicali sono stati alleati fedeli di Prodi. E hanno assecondato soprattutto i tentativi di modernizzazione economica, per quanto frustrati. Non a caso, il sodalizio sembra incrinarsi nel momento in cui prende corpo una riforma osteggiata dall'Europa e imposta soprattutto dall'area comunista dell'Unione; e al suo posto riemerge quasi di rimbalzo il radicalismo «liberista ».

È un tentativo un po' disperato di ipotecare l'ultimo tratto dei negoziati sulle pensioni; e di imprimere una piega diversa da quella che ormai la maggioranza dà per scontata. Il problema è che i rapporti di forza non consentono al presidente del Consiglio e al ministro dell'Economia, Tommaso Padoa-Schioppa, un ripensamento che terremoterebbe il governo. L'invito a «ripensarci» che arriva da Rifondazione, Comunisti italiani e Verdi sembra scontare un eventuale abbandono della Bonino. È come se le cose fossero andate troppo avanti per essere rimesse in discussione. D'altronde, l'asse con l'antagonismo e i sindacati garantisce la sopravvivenza di Prodi. Si sapeva anche prima, però. La novità è che un frammento dell'«altra maggioranza» sembrerebbe non accettare più questo fatto compiuto. È come se si appellasse a Palazzo Chigi e agli alleati che condividono il malumore, perché battano un colpo: quello che a lungo gli stessi radicali non hanno battuto.

Per il momento, l'unica risposta viene dai socialisti di Enrico Boselli: sono pronti a passare all'appoggio esterno del governo, se la Bonino si dimette davvero. L'incognita è proprio questa. Il premier esorcizza l'abbandono. «Non intendo neppure prendere in considerazione la tua ipotesi di remissione del mandato», dice Prodi. «Sapremo coniugare equità e rigore». È la prosa di chi non pensa di cambiare strada. Non crede fino in fondo alle dimissioni del suo ministro.

E semmai ritiene che l'iniziativa possa circoscrivere le ultime resistenze della sinistra comunista. È un gioco sempre più acrobatico, però: anche per la Bonino. Il messaggio che arriva al Paese oltre le dietrologie, comunica un senso di precarietà crescente. Aumenta le scommesse su una crisi di governo al massimo in autunno. E dilata la sensazione di una riforma delle pensioni «fatta in casa», trascurando le indicazioni europee e regalando ancora all'area comunista il ruolo di regista dell'Unione: poco importa se meritato o millantato.

Massimo Franco
18 luglio 2007
 
DA corriere.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2007, 11:57:16 pm
IL COMMENTO

Il riformismo possibile di un governo di coalizione

di MASSIMO GIANNINI


TRA SCALONI che scendono e scalini che salgono, finestre che si aprono e finestre che si chiudono, Romano Prodi attraversa il "cantiere delle pensioni" portando a casa un compromesso dignitoso. La sopravvivenza è garantita, almeno fino all'autunno. Il passaggio era insidiosissimo. Per la prima volta dopo la Finanziaria, il governo di centrosinistra era chiamato a rimettere in discussione vantaggi e privilegi della sua costituency politico-culturale. Non più solo una lenzuolata di liberalizzazioni a scapito di chi probabilmente simpatizza per l'opposizione, ma un fazzoletto di limitazioni a danno di chi notoriamente vota per la maggioranza. Non più solo un sacrificio richiesto ai tassisti o ai commercianti, ma un beneficio sottratto a Cgil Cisl e Uil. E quindi per la strana "proprietà transitiva" della sinistra italiana, un maleficio imposto a Rifondazione e al Pdci.

Forse è esagerato parlare di una "svolta storica per il Paese", come fa il premier. Ma sia pure con un ritardo di quattro mesi sulla tabella di marcia, e in un clima di diffuso scetticismo (se non addirittura di palese disfattismo), il governo esce tutto sommato indenne da un test politico importantissimo. E se la parziale riscrittura del patto previdenziale firmata nella lunga notte di Palazzo Chigi non si può festeggiare come un trionfo dei "riformisti", non si può neanche giudicare come una vittoria dei "massimalisti". Qualunque giudizio di merito si dia di questa riforma, a sentire dalle reazioni che ha innescato segna senz'altro un punto a favore di chi (dalla Bonino a Rutelli) insisteva per un atto di coraggio da parte del governo. E un punto a sfavore di chi (da Giordano a Diliberto) si considerava impropriamente la "guardia rossa" dell'esecutivo.

Se si giudicasse con i criteri dell'idealismo, senza conoscere niente del passato e del presente dell'Italia, senza sapere nulla delle sue prassi consociative e delle sue incrostazioni corporative, senza alcuna consapevolezza della disomogeneità culturale delle sue maggioranze e della fragilità istituzionale della sua democrazia, questo accordo andrebbe bocciato.

In tutta Europa, dalla Gran Bretagna all'Olanda, si va in pensione a 65 anni. L'ultima riforma varata in Germania innalza l'età di pensionamento addirittura a 67 anni dal 2030. Solo qui si può rischiare una crisi di governo se si innalza di un anno l'anzianità e si porta lo "scalino" a 58 anni. Solo qui si può rischiare l'ordalia nelle fabbriche se non si introduce la categoria dei "lavori usuranti" sconosciuta all'Occidente.

Se si giudica con i parametri del realismo, tenendo conto delle premesse concrete dalle quali si partiva, della fragilità politica della coalizione, della capacità d'interdizione della sinistra radicale, della forza d'urto della sinistra sindacale, questo accordo va promosso. È meno di quello che sarebbe servito, ma è più di quello che si poteva temere. Molto semplicemente, e senza troppi velleitarismi impensabili nell'Italia ingessata di oggi, è una prova di "riformismo possibile".

Sul piano tecnico, i pregi della riforma sono almeno due.
1) La nuova disciplina riporta un equilibrio tollerabile nelle dinamiche finanziarie del sistema. Assicura grosso modo gli stessi risparmi della Maroni. E, almeno nella fase iniziale, non lo fa a spese della fiscalità generale, ma attraverso una redistribuzione delle poste interne al perimetro previdenziale. In prospettiva restano diverse incognite sulla copertura. Preoccupa il "paracadute" introdotto dal Tesoro dopo il 2011: se a quella data il riordino degli enti non avrà dato i risparmi attesi (cosa per la verità assai probabile, se non addirittura certa) sarà necessario il ricorso a ulteriori aumenti contributivi. Tra quattro anni è dunque ragionevole temere un ulteriore aumento di pressione fiscale a carico della collettività. Ma nell'insieme l'edificio finanziario può reggere.

2) Il superamento dello scalone di Maroni è modulato con tempi e formule accettabili. Accantonata l'ipotesi nefasta dello "scalino più incentivi" (inefficace e già fallita come dimostrato dallo stesso superbonus sperimentato dal Polo), il governo ha adottato la più funzionale formula "scalino più quote". Con un correttivo non secondario, che infatti fa gridare la Fiom e i due partiti comunisti. Dopo il primo scalino a 58 anni nel 2008, ogni quota successiva risultante dalla somma tra età anagrafica e contributiva dà diritto alla pensione solo in presenza di un requisito minimo di età: 59 anni dal primo luglio 2009, 60 dal primo gennaio 2011, 61 dal primo gennaio 2013.

Con questo meccanismo si raggiunge un doppio risultato: si introducono di fatto altri tre scalini di innalzamento, e a regime si raggiungono gli stessi livelli di anzianità previsti dalla legge Maroni. È vero che il governo Prodi scende dallo scalone, riducendo l'età pensionabile da quota 60 (come prevedeva la legge del Polo) a quota 58 (come previsto dal primo scalino della nuova riforma). Ma è anche vero che a fine corsa raggiunge lo stesso traguardo. E salva il principio della "gradualità", che non può fare e non deve fare scandalo neanche per il più convinto dei riformisti.

La Maroni era rozza tecnicamente e diabolica politicamente proprio per questo: introduceva una disparità sociale a danno dei pensionandi dal primo gennaio 2008, e ne scaricava l'onere politico sul governo successivo. Bisognava uscirne, senza rinunciare a correggere le anomalie. Questo era scritto nel programma dell'Unione. Questo, onestamente, è stato fatto.

Se due sono i pregi, due sono anche i difetti.
1) La riforma rinvia ancora una volta la trasformazione definitiva del sistema previdenziale. Il tanto atteso passaggio al contributivo (tanto versa oggi il lavoratore attraverso i suoi contributi, tanto incasserà domani con la sua pensione) resta una chimera. Qui sta la colpevole rinuncia del governo, che cede ad un intollerabile veto sindacale: l'aggiornamento dei coefficienti di trasformazione, già previsto dalla Dini e già rinviato dalla Maroni, viene ulteriormente procrastinato al 2011. E quello che è peggio, viene affidato nuovamente a una misura discrezionale, e non automatica, come un decreto del ministro del Lavoro. L'esito è scontato: tra quattro anni ripartirà il tormentone, con i sindacati che si oppongono all'aggiornamento e il governo di turno che sarà costretto a un nuovo braccio di ferro. Siamo al rinvio del rinvio. Su questo si poteva e si doveva osare di più.

2) Preoccupa l'estensione delle categorie escluse. Archiviata la richiesta di Rifondazione, che per esigenze di classe avrebbe voluto esentare tutto il lavoro operaio, l'area delle categorie usurate si è ristretta, sulla carta, ai lavori "nocivi", agli addetti alle catene di montaggio, ai turnisti notturni. Dovrà decidere una Commissione, l'ennesima. Ma la platea degli esclusi dall'aumento dell'età rimane comunque molto vasta: circa 1 milione e mezzo di lavoratori. Quanto costa questa "clausola di salvataggio"? Difficile dirlo. Ma è un'altra probabile incognita finanziaria, oltre che un discutibile discrimine sociale.

Il tempo dirà il risultato pratico della riforma. Quello che si avverte fin da ora, nel bene e nel male, è il suo impatto politico. Dopo la firma apposta sul testo da Cgil, Cisl e Uil, per i partiti della sinistra radicale è più difficile rompere su questo l'alleanza. Giordano e Diliberto possono soffiare sul fuoco della rabbia dei duri della Fiom. Ma per ora, sia pure con la formula un po' ambigua della firma "per presa d'atto" apposta sul documento firmato nella notte, Epifani sembra reggere all'urto dei metalmeccanici di Cremaschi. Questo rende più stretto il sentiero di Prc e Pdci, che ora sono in evidente difficoltà. La prova sta nell'appello, improprio, che ora i due partiti comunisti fanno alle fabbriche, chiedendo ai lavoratori di esprimersi sull'accordo con un referendum, e scavalcando ancora una volta a sinistra i sindacati.

Ma l'arma appare spuntata. Hic Rhodus hic salta. La riforma delle pensioni non è una legge sulla fecondazione assistita, dove ci si può rimettere alla libertà di coscienza dei singoli. O la sinistra radicale considera come un "male minore" l'accordo siglato a Palazzo Chigi, e allora deve cercare di farlo accettare anche agli operai di Mirafiori. Oppure lo considera un "male assoluto", e allora si deve assumere la responsabilità di uscire dalla maggioranza, e di far rivivere al centrosinistra il terribile trauma del '98.

Quello che non può fare, è sospendere il giudizio e considerare la partita ancora aperta, lasciando che la coalizione arda a fuoco lento in vista del solito, palingenetico "autunno caldo". Se c'era una battaglia da fare, andava fatta prima dell'accordo. Adesso che è stato firmato, per una sinistra di lotta che voglia continuare ad essere anche sinistra di governo, c'è solo da difenderlo.

(21 luglio 2007)
 da repubblica.it


Titolo: "Basta montature su Unipol"
Inserito da: Admin - Luglio 22, 2007, 02:37:05 pm
POLITICA

Parla Il ministro degli Esteri: polemica sulla diffusione dei verbali

"Una crisi dal Prc sulle pensioni? Sconcertante". E sostiene il sistema tedesco

"Basta montature su Unipol"

Il vicepremier: salta lo stato di diritto

di MASSIMO GIANNINI


 "È pazzesco, pazzesco...". Quando gli avevano letto i primi lanci d'agenzia con le parole della Forleo, l'altro ieri pomeriggio, era in viaggio verso il Salento. E stentava a credere alle sue orecchie. "Un'altra volta? Ancora con quelle intercettazioni vecchie di anni, e totalmente prive di risvolti penali?". Massimo D'Alema era in macchina, e alternava rabbia e stupore. "Ragazzi, qui siamo fuori dello stato di diritto. Noi "complici"? E di quale reato? Quelle fantomatiche "notizie riservate" di cui parlavo con Consorte stavano su tutti i giornali... E poi, parliamoci chiaro: ma perché questa vecchia immondizia rispunta fuori proprio oggi?".
Il ministro degli Esteri faticava a trattenersi: "Dico la verità: sono abbastanza scosso. Voglio leggere bene quello che dice il Gip. Ma se è quello che mi hanno riferito, mi sento assolutamente tranquillo. Quella è solo cattiva letteratura. E le argomentazioni mi sembrano molto, molto fragili, anche dal punto di vista giuridico. Però...".
C'è un però, che il vicepremier ci teneva a sottolineare: "Non si può crocifiggere in questo modo un cittadino, formulando un giudizio che pare già una sentenza. Così salta per aria il sistema democratico...". Il giorno dopo, la rabbia è un po' sfumata. D'Alema non vuole entrare nel merito delle accuse formulate dalla Forleo. Ritrova invece la voglia di parlare di politica. Ma l'intervista non può che partire dal nuovo caso giudiziario esploso sui Ds per l'affare Unipol.

Ministro D'Alema, dunque siete stati "complici" del "disegno criminoso" ordito da Consorte?
"Ho troppo rispetto per la magistratura per commentare questa iniziativa, sulla quale si pronunceranno gli organi competenti. Confido nelle istituzioni, e confido in me stesso. Sono sereno, non ho nulla da nascondere e sono pronto a respingere fermamente ogni accusa, come mi è già capitato altre volte".
Ma stavolta il quadro è più opaco. Quelle parole sui soldi che mancavano per la scalate, quelle telefonate su Bonsignore, per esempio...
"Le ripeto, sono assolutamente sereno. Non do giudizi sul merito, al contrario di altri io rispetto la legge e prima di replicare aspetto che le carte siano state effettivamente trasmesse al Parlamento. Questo polverone riemerge per la quarta volta. È sempre lo stesso, non c'è un solo elemento in più. Anche in passato, ogni volta che sono stato accusato di qualcosa, ho dimostrato la mia totale estraneità ad ogni illecito e ho ottenuto il proscioglimento in istruttoria. Sono certo che andrà così anche stavolta, e sa perché? Perché ho fiducia che, alla fine, la macchina della giustizia renda giustizia a chi la merita. Perché ho sempre fatto politica in assoluta onestà e trasparenza. E continuo a farla. Continuo a occuparmi dei problemi del Paese, che sono molto più seri e importanti di questa spazzatura. E ora non mi chieda altro, perché finché non vedrò le carte ufficiali non ho altro da aggiungere, se non un ringraziamento per gli attestati di fiducia e stima che in questi giorni sono giunti, a me e al mio partito, da tanti cittadini e dal mondo politico".
Allora parliamo di pensioni, per esempio. Questa riforma è un davvero un buon compromesso, o un altro cedimento alla sinistra radicale?
"Questa riforma è un punto di svolta. È un nuovo successo del governo, che dovrebbe dimostrare a tutti, a partire dagli alleati nella coalizione, che la nostra azione da i suoi frutti. Pochi governi al mondo scontano uno squilibrio così stridente tra la sostanza delle cose che fanno e la percezione tra l'opinione pubblica dei risultati raggiunti. In un anno abbiamo arginato il tracollo dei conti pubblici, abbiamo aumentato il tasso di crescita del Paese, abbiamo riportato l'inflazione sotto la media Ue, abbiamo raggiunto risultati importanti in materia ambientale, abbiamo varato misure di giustizia sociale. Adesso è arrivata anche questa riforma delle pensioni, che riporta in equilibrio i conti della previdenza, raggiunge a regime gli stessi obiettivi della Maroni, ma con gradualità. Inoltre, si porta dietro un elemento perequativo di lungo periodo a beneficio dei giovani, e un aumento delle pensioni minime per oltre tre milioni di anziani. Capisco che alle élite il tema non interessa. Ma la povertà resta un enorme problema in Italia: non lo dico io, lo sostiene l'Istat".
E allora perché Prc e Pdci preannunciano battaglia in Parlamento? Perché la Fiom prepara una rovente campagna referendaria nelle fabbriche?
"Sono stupito da queste reazioni, per fortuna minoritarie. Tra l'altro, il superamento dello scalone, ma anche l'aumento graduale dell'età pensionabile, facevano parte del programma dell'Unione sottoscritto da tutti. Il sindacato confederale, nella sua migliore tradizione, ha trattato con noi interpretando l'interesse generale. Ha ottenuto per la prima volta un forte miglioramento dei trattamenti pensionistici di 3 milioni di persone. Lo può e lo deve rivendicare con orgoglio".
E se Rifondazione vi rifacesse lo scherzo del '98, aprendo una bella crisi in Parlamento proprio sulle pensioni?
"Lo troverei francamente sconcertante. Chi vuole la crisi perché questa riforma non è abbastanza "di sinistra" si accomodi pure: poi però non si deve lamentare, se è costretto a prendersi lo scalone della Maroni, a rinunciare agli aumenti delle pensioni minime e a perdere le garanzie per i lavori usuranti".
Il Polo vi accusa: avete fatto una riforma che è tutta una contraddizione.
"Il Polo non ha titolo per parlare. Berlusconi aveva fatto finta di risolvere il problema delle pensioni, con una legge iniqua e da far pesare sul futuro governo. Berlusconi aveva fatto finta di risolvere un sacco di problemi. Aveva fatto finta di sbloccare la Tav, che invece abbiamo sbloccato noi, concludendo l'accordo con la Francia e ottenendo i finanziamenti Ue. Aveva fatto finta di firmare il contratto del pubblico impiego, dimenticandosi di stanziare le risorse che noi abbiamo dovuto reperire. Aveva fatto finta di dare i fondi alla lotta contro l'Aids, mentre poi è toccato a noi onorare l'impegno con il G8. E' così su tutto: lui si è preoccupato della finzione, noi ci siamo occupati della realtà".
La destra fa del catastrofismo, voi fate del trionfalismo. Non so cosa sia peggio...
"Quale trionfalismo? Io sto ai fatti. Dopo un anno e mezzo, siamo al giro di boa. Smettiamola di pensare che ci sia un 'male esistenziale' che mina la vita di questo centrosinistra. Reagiamo a un'offensiva che fin dal primo giorno, e non solo da parte del centrodestra, ha cercato di mettere in discussione il diritto di questa maggioranza a governare il Paese. Con la riforma delle pensioni si chiude una fase. Ora è il momento di ridare slancio vero alla nostra azione riformatrice. Abbiamo appena concluso la stagione del rigore, stiamo cogliendone i frutti per redistribuirli nel segno dell'equità sociale, e dal prossimo autunno si tratta di concentrare gli sforzi su competitività, innovazione e sviluppo. Il bilancio reale per il governo è largamente positivo, non deve più essere offuscato dal chiacchiericcio e dalle polemiche inutili".
La legge elettorale non è chiacchiericcio. Perché avete scoperto il sistema tedesco? Si prepara un altro inciucio con Berlusconi, come teme qualche vostro alleato?
"Se la ricerca di un ampio consenso politico e parlamentare sulla riforma elettorale, sollecitata dal presidente della Repubblica, è ogni volta un "inciucio", allora siamo davvero tutti "inciucisti". Compreso Napolitano. Questa è davvero una polemica demenziale. Proprio noi gridiamo adesso all'inciucio, dopo aver accusato Berlusconi di non essere stato "inciucista" nella passata legislatura, e di avere approvato a maggioranza una legge elettorale mostruosa? La verità è che quando si parla di regole è sempre necessario cercare la più ampia intesa possibile".
Converrà che la sua virata sul sistema tedesco è quanto meno sorprendente...
"Io non ho mai nascosto la mia preferenza per un sistema maggioritario e uninominale a doppio turno. Ma resta sempre il solito, piccolo problema: non ha i numeri per imporsi in Parlamento. Il sistema tedesco può essere una valida alternativa, con le dovute condizioni che ne assicurino l'impianto bipolare, a partire dalle soglie di sbarramento. Del resto, di questa soluzione avevo già parlato pubblicamente cinque mesi fa: mi fa piacere che oggi registri un diffuso consenso".
Ma lei ne ha parlato con il Cavaliere? Vi siete incontrati?
"Non ho un colloquio privato con Berlusconi da almeno 4 o 5 anni. E del resto, com'è noto, in questi mesi mi sto occupando di politica estera. E anche su questo, me lo faccia dire, un po' più di serietà nel dibattito non guasterebbe".
Lei allude all'incidente diplomatico innescato dalle sue parole su Hamas?
"Sì, alludo. Non è stato un incidente diplomatico, ma una gigantesca montatura, l'ennesima, il cui solo obiettivo è di far cadere il governo. Io ho detto un'assoluta banalità: Hamas fa atti di terrorismo, ingiustificabili e condannabili, ma ha anche radici profonde nel popolo palestinese, e non è nostro interesse spingerla tra le braccia di Al Qaeda. Ho ripetuto quello che avevamo scritto insieme ai ministri degli Esteri dell'Europa mediterranea nella lettera a Blair. A Strasburgo il Parlamento europeo ha approvato all'unanimità i contenuti di quel testo in una risoluzione, con il voto degli eurodeputati della Cdl. E nel frattempo a Roma io, che ripetevo gli stessi concetti, venivo attaccato come un 'pericoloso terrorista'".
Parliamo di Partito democratico. L'accelerazione sulla costituente e la candidatura di Veltroni, se hanno ridato forza al Pd, hanno indebolito il governo. Non è così?
"No, penso esattamente il contrario. Parliamoci chiaro: il salto di qualità che ha dato Walter con la sua discesa in campo, fotografato puntualmente dai sondaggi, è stato utile anche per Prodi".
Sarà. E allora perché si continua a parlare in giro di una imminente staffetta tra Prodi e Veltroni?
"Già il fatto che se ne parli "in giro", come lei sostiene, rende la cosa poco plausibile. No, mi creda: se è vero che con Veltroni si rafforza il maggior partito del governo, allora è altrettanto vero che si rafforza anche il governo. Capisco che può sembrare un ragionamento semplicistico rispetto ai bizantinismi della dietrologia, ma questa è una verità elementare. Detto questo, è chiaro che la forza del governo dipende dal governo. Se, per esempio, si mostra orgoglioso e difende la riforma delle pensioni che abbiamo appena fatto, è un conto. Se la rimette in discussione il giorno dopo averla firmata, allora fa harakiri, ed è tutt'altro conto".
Ma è vero, come ha detto il presidente del Senato, che la candidatura di Veltroni nasce da un patto tra lei e Marini?
"Io non ho fatto nessun patto con nessuno. Ho appreso che Marini aveva incoraggiato Veltroni quando sono andato a parlargli. Siamo stati in molti a incoraggiare Walter. Io l'ho fatto subito, e con grande convinzione. Del resto, per andare in Campidoglio non c'è alcun bisogno di passare per Palazzo Madama".

(22 luglio 2007) 

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI - Quando vince il partito del mercato
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2007, 12:13:48 pm
ECONOMIA IL COMMENTO

La sindrome di Macbeth
di MASSIMO GIANNINI


PRODI attacca Almunia. Padoa-Schioppa contesta Draghi. Il governo vive la paura di Macbeth: quando ti sembra che la foresta di Birnam si muova e accerchi Dunsinane, vuol dire che il tuo regno è in pericolo. Vedi "anime belle" e nemici dappertutto.

Il comunicato ufficiale con cui il ministro del Tesoro ha voluto correggere i dati che il governatore della Banca d'Italia ha fornito l'altro ieri in Parlamento, durante la sua audizione sulla Finanziaria, è una novità assoluta e irrituale. Se non fosse nota l'indiscussa "cifra" personale e professionale dei due protagonisti, verrebbe da leggere in questo botta e risposta una grave rottura istituzionale. O, peggio, un becero duello rusticano che svilisce due preziosi "santuari" laici della Repubblica, come quello che nella scorsa legislatura vide contrapposti Antonio Fazio e Giulio Tremonti. Per fortuna, non c'è né l'una né l'altro. Mario Draghi dà ordini precisi ai suoi collaboratori: "Sdrammatizzare, sdrammatizzare. Se domani facessi una conferenza stampa con il ministro del Tesoro, direi che tra noi non c'è alcun problema. Ma semmai solo un giudizio diverso sulla velocità del risanamento".

Tommaso Padoa-Schioppa mostra altrettanta serenità, mentre passeggia per le vie di Firenze, dove ha tenuto una lezione all'Istituto Europeo, e prova a chiudere il caso con un po' d'ironia: "Quando c'ero io, in Banca d'Italia, certi errori non si facevano...". Eppure, lette in sequenza, le reazioni di Palazzo Chigi e del Tesoro ai rilievi sollevati da Bruxelles e da Via Nazionale tradiscono un eccesso di nervosismo. Svelano un'insidiosa sindrome da accerchiamento.

Il governo, dietro alle precisazioni contabili, ci tiene a chiarire un aspetto: la Finanziaria dello scorso anno conteneva misure più o meno discutibili, ma quello che è certo, cifre alla mano, è che ha riportato l'Italia sul sentiero virtuoso di un aggiustamento strutturale dei conti pubblici, anche rispetto agli impegni assunti con la Ue. È stato quell'aggiustamento strutturale che ci ha consentito di vivere di rendita, con la Finanziaria di quest'anno, che potrà a sua volta apparire discutibile, ma che non altera il percorso di rientro dal deficit e contiene misure di rilancio della crescita, tra sgravi fiscali e sostegni alle imprese.

E allora, se c'è un rammarico che Padoa-Schioppa avverte, ma che non confesserebbe mai, è probabilmente questo: perché, in due anni, il governatore della Banca d'Italia non ha mai risparmiato le sue critiche su ciò che non si è fatto, mentre è stato sempre troppo avaro di elogi su ciò che invece si è fatto? Animato da questo rammarico, dopo aver letto l'audizione di Draghi alla Camera dell'altro ieri, ha voluto marcare il punto "politico" con il comunicato: "L'ho detto questa estate, e lo ripeto oggi: agli italiani dobbiamo sempre dire la verità".

Il governatore, dietro alla replica affidata a un altro comunicato, prende atto dei chiarimenti del Tesoro, ma ribadisce la sua linea: "Il risanamento c'è, ma è troppo lento". Nelle telefonate serali di mercoledì, subito dopo l'audizione e mentre correva in macchina verso l'aeroporto alla volta di Londra, aveva capito che "da Palazzo Chigi ci erano rimasti un po' male". Ma ieri pomeriggio, nei colloqui a Palazzo Koch con i suoi colleghi del Direttorio, è stato ancora più esplicito: "Noi non sbagliamo le cifre, anche perché lavoriamo da sempre sui documenti ufficiali del Tesoro. Come si fa a dire che non abbiamo riconosciuto al governo ciò che ha fatto? Se si ha la pazienza di leggere quello che ho detto alla Camera, si vede che io nella prima parte del testo do atto al governo di aver messo in campo misure positive nel 2006. Certo, poi non nascondo che invece, dal punto di vista del risanamento, questa manovra del 2007 è un'occasione perduta...".

E questa posizione riflette fedelmente il contenuto del comunicato serale, con cui Bankitalia ribadisce che il rapporto deficit/Pil si riduce solo dello 0,5% tra 2006 e 2007, e appena dello 0,2% tra 2007 e 2008. "Si poteva e si doveva fare di più, non c'è nessuna ambizione sul fronte della spesa pubblica", è la posizione del governatore. Ma questo non significa che la Banca d'Italia voglia "sabotare" il governo. O voglia vedere sempre e solo il bicchiere mezzo vuoto della sua politica economica. "In quest'ultimo anno e mezzo - si dice a Palazzo Koch - abbiamo riconosciuto meriti espliciti all'esecutivo, nell'azione di medio periodo".

Fa fede, in effetti, l'ultima pagina delle Considerazioni finali, che il governatore ha scritto di suo pugno. A pagina 20 del testo letto il 31 maggio 2007 all'assemblea della banca centrale, l'ultimo capitolo comincia così: "Il Paese ha trasformato il proprio sistema bancario, ha iniziato a rimettere in ordine la finanza pubblica, ha ripreso a crescere...".

Chi ha ragione? Chi ha torto? La partita è aperta. Due cose sono chiare. La Finanziaria dell'anno scorso è stata un concentrato di impopolarità sociale, ma anche un capolavoro di intransigenza contabile. La Finanziaria di quest'anno è un concentrato di generosità elettorale, ma anche un capolavoro di negligenza riformatrice. Se questo è vero, c'è una terza cosa altrettanto chiara. La Banca d'Italia fa il suo mestiere. Il governo fa qualche fatica. Per questo si sente assediato, anche se non lo è.

(12 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2007, 11:58:00 pm
ECONOMIA IL COMMENTO

La catena degli errori

di MASSIMO GIANNINI


Con tenace auto-accanimento terapeutico, il governo continua a farsi del male sul Welfare. Con la parziale modifica del testo di legge secondo le richieste avanzate dalla sinistra radicale, Prodi ha sfilato una piccola pietra, e adesso viene giù tutto il muro. Il cedimento è stato due volte colpevole. Primo, perché è l'ennesimo di una lunga serie. Secondo, perché ha di fatto sconfessato il referendum di una settimana fa, al quale hanno votato oltre 5 milioni di lavoratori.

Invece di usarlo come uno scudo, per blindare l'accordo sottoscritto con sindacati e Confindustria, il premier lo ha parzialmente disatteso, per ammorbidire Rifondazione e Pdci. Si capisce anche il perché: alla vigilia dell'insidiosa manifestazione di piazza di sabato, Prodi cerca di disarmare gli "antagonisti" della maggioranza. Ma non ci voleva il genio della lampada, per capire che questa mossa di pura realpolitik avrebbe re-innescato una rincorsa, prevedibile e perversa, tra i partiti e le parti sociali.

Così, all'insegna della tattica di piccolo cabotaggio, il governo rinuncia a una strategia di respiro più ampio. Il risultato è un incomprensibile "stop and go". Il premier prima fa un passo indietro, correggendo in Consiglio dei ministri il provvedimento sul Welfare e ottenendo l'astesione dei dissidenti Ferrero e Bianchi. Poi - di fronte alle legittime proteste di Cgil-Cisl-Uil e Confindustria, esposte di fronte alle rispettive basi all'accusa di non aver saputo negoziare con l'esecutivo le condizioni migliori - fa due passi avanti, assicurando che si resta allo "spirito del Protocollo di luglio".

Ma ora, in questa surreale catena degli errori, è di nuovo la sinistra radicale che non ci sta, rifiuta un altro passaggio in Consiglio dei ministri e replica il suo logico "indietro non si torna". Arriveranno la altrettanto logiche controrepliche: domani tocca al direttivo di Confindustria, dopodomani agli esecutivi di Cgil, Cisl e Uil. E così via, in un crescendo di conflittualità e di confusione che culminerà con la rituale e paradossale "parata" del 20: il corteo di lotta e di governo, in cui la sinistra sfilerà contro se stessa.

(16 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI - Il tabù infranto della sinistra
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2007, 09:56:51 pm
CRONACA
IL COMMENTO

Il tabù infranto della sinistra

di MASSIMO GIANNINI


FORSE è troppo illudersi che il pacchetto sicurezza approvato ieri dal governo sia il primo atto fondativo della "rivoluzione d'ottobre" avviata con la nascita del Partito democratico. Ma una cosa si può dire: con quei cinque disegni di legge varati dal Consiglio dei ministri la sinistra supera un suo atavico tabù.

Sfida la destra sui valori della legalità. E gli sfila il monopolio storico della lotta alla microcriminalità. Sappiamo bene che, qui ed ora, quel pacchetto ha un forte appeal propagandistico, più che un reale impatto politico. Si tratta di provvedimenti che se tutto va bene (perché il governo resiste) otterranno la ratifica parlamentare tra un paio d'anni. E se tutto va male (perché il governo cade) non la otterranno mai.

Inserire le norme in un decreto legge avrebbe avuto tutt'altro significato, nel dibattito pubblico tra i poli e nella vita quotidiana dei cittadini. Sappiamo altrettanto bene che, qui ed ora, quel pacchetto può produrre un certo effetto emotivo sulla società civile, ma nessuna efficacia pratica nei confronti di chi delinque. La certezza delle pene effettive, applicate nei tribunali dal potere giudiziario, conta più delle misure repressive decise a tavolino dal potere esecutivo.

Ma per la sinistra si tratta comunque di una svolta culturale importante. Di un tentativo di ridefinire la propria identità, non più solo in base ai vecchi ideologismi (bisogna comprendere prima di tutto le ragioni del reo) ma alla luce dei nuovi paradigmi (bisogna difendere prima di tutto i diritti della vittima). Con la consapevolezza che il vero "soggetto debole" è sempre e comunque chi subisce il reato, non chi lo commette. L'ala radicale dell'Unione è scontenta, i ministri dei partiti comunisti si sono astenuti.

Ma è difficile leggere una "deriva securitaria" da Codice Rocco, nell'introduzione di nuovi reati come l'impiego dei minori nell'accattonaggio o nell'attribuzione di poteri supplementari ai sindaci.
Nelle misure predisposte dal governo c'è il tentativo di fornire una risposta alle paure e alle inquietudini comuni alla stragrande maggioranza degli italiani. La prova sta nelle reazioni largamente positive dei sindaci del centrosinistra e nelle reazioni imbarazzate e imbarazzanti del centrodestra. Fini e Pisanu costretti a dire "non basta", e a ripescare la solita metafora stantia della montagna che partorisce i topolini, sono la prova di un disagio: la Cdl ha accusato un colpo che non si aspettava, tanto più su un terreno che considera da sempre di sua esclusiva competenza.

E invece, oggi più che mai, bisogna ripetere fino alla noia che la sicurezza non è né di destra nè di sinistra. Al contrario, nella modernità liquida in cui siamo immersi, è un valore trasversale per eccellenza. E la legalità, nel melting pot instabile in cui viviamo, è un principio bipartisan per definizione. Per questo preoccupa la risposta negativa che arriva dall'opposizione, di fronte agli appelli al dialogo che la maggioranza ha lanciato in vista del dibattito parlamentare. Ma ormai non c'è più da stupirsi: dalla legge elettorale alla riforma del Welfare, non c'è un solo "tavolo" al quale il centrodestra, ancora una volta militarizzato dal Cavaliere, sia disposto a sedersi. È un male per la democrazia, è un danno per il Paese.

Bisogna dare atto a Giuliano Amato di aver tenuto duro, di fronte all'intollerabile "fuoco amico" che la sinistra massimalista gli aveva scaricato contro in questi ultimi mesi. Quasi come se una delle menti più lucide del costituzionalismo italiano e del riformismo di matrice socialista si fosse trasfigurato nella semplice e bruttissima copia del vecchio sceriffo di New York Rudolph Giuliani. E soprattutto bisogna dare atto a Romano Prodi di aver lanciato un segnale di vitalità: nonostante tutti i conflitti interni alla sua coalizione, il premier dimostra una volta di più la sua tempra di combattente.

Il varo del pacchetto sicurezza è un altro passo nella terra incognita del nuovo riformismo. Per questo si può collegare, quanto meno idealmente, al lungo cammino cominciato sabato scorso dal Pd. Se non fosse tristemente nota la condizione di precarietà strutturale di questa maggioranza, verrebbe voglia di scommettere sulla lunga durata di questo governo. Purtroppo l'ennesimo voto a "geometria variabile", che l'Udeur di Mastella e l'Idv di Di Pietro hanno sfoderato proprio ieri sulla commissione d'inchiesta per il G8 di Genova, ci ha riportato immediatamente alla dura realtà.

(31 ottobre 2007)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI - Ultimatum di Gianfranco Fini al Cavaliere...
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2007, 06:24:57 pm
POLITICA

Ultimatum di Gianfranco Fini al Cavaliere: ha lacerato il centrodestra

"Berlusconi sbaglia e lo sa benissimo, purtroppo non lo riconosce"

"Cambio di strategia entro gennaio o ognuno andrà per la sua strada"

di MASSIMO GIANNINI

 
ROMA - Gianfranco Fini lancia l'ultimatum a Silvio Berlusconi: "Adesso basta - dice in questa intervista a Repubblica - è arrivato il momento in cui o questo centrodestra è in grado di trovare una soluzione unitaria, di ridarsi una missione, di rioffrire al Paese un progetto, oppure si prende atto che la coalizione non c'è più, e ognuno va per la sua strada. Tertium non datur... ". In assenza di una svolta concreta, il leader di An si spinge a delineare un possibile capolinea per la Cdl. "Io voglio rilanciare l'alleanza, sia ben chiaro. Ma non accetto che mi si diano pagelle. In questi 18 mesi di governo del centrosinistra noi abbiamo fatto tutto quello che potevamo per far cadere il governo Prodi. Ma non è servito a niente. Non voglio fare il grillo parlante, ma è ora che Berlusconi ne prenda atto".

Presidente Fini, la sua analisi non coincide affatto con quella del Cavaliere, che invece dice di aver lottato da solo, mentre voi facevate giochi di palazzo. E proprio per questo, a lei e Casini ripete "dopo tutto quello che ho fatto, solo io ho titolo per darle, le pagelle".
"Questo ragionamento per me è inaccettabile. Berlusconi sbaglia, e lo sa benissimo. Purtroppo non lo riconosce, e questo è l'errore più grande che sta commettendo. Ognuno di noi, in questo anno e mezzo, ha combattuto la battaglia politica. Con modalità diverse, con la presenza assidua dei senatori in aula, con manifestazioni di piazza. Io personalmente ho fatto un corteo a Roma con centinaia di migliaia di persone, ho organizzato convegni, ho incontrato le categorie, ho contrastato la maggioranza su tutti i temi, la sicurezza, la giustizia, il fisco. Nell'opposizione c'è stata una pluralità di sforzi. Nonostante questo, il governo non è caduto. Insomma, dopo 18 mesi vogliamo riconoscere onestamente che non sono serviti a raggiungere l'obiettivo? Vogliamo riconoscere che se nel Paese c'è una maggioranza che vuole mandare a casa Prodi, in Parlamento c'è una maggioranza che non vuole andare a elezioni anticipate?".

Berlusconi non pare convinto: dice che lui ha fatto "implodere il centrosinistra". E davvero così?
"Questo governo ha una maggioranza numerica, anche se non ha una maggioranza politica. Piaccia o no, questo è il quadro che ci si presenta dopo il voto del Senato sulla Finanziaria. Dobbiamo prenderne atto, una volta per tutte. E dobbiamo fare autocritica. Tutti, e sottolineo tutti. A partire dal risultato elettorale del 2006. Abbiamo perso per 24 mila voti: dove abbiamo sbagliato? Da allora ci siamo dati un obiettivo che non abbiamo raggiunto: dove abbiamo sbagliato?".

Tutte queste domande il Cavaliere non se le pone proprio. Lui vuole solo elezioni subito.
"Anch'io voglio le elezioni. Anch'io voglio mandare a casa Prodi prima possibile, perché questo governo fa solo danni al Paese. Lo ha detto anche Dini al Senato. Ma ora, con grande realismo, voglio chiedere a Berlusconi: qual è la strada migliore per raggiungere l'obiettivo? Quella seguita fino ad ora, evidentemente, non lo è. Lo dicono i fatti. Dopo il voto del Senato sulla Finanziaria c'è un solo modo per staccare dalla maggioranza numerica attuale quei 5 o 10 senatori, che sarebbero anche pronti a farlo, ma a condizione di non tornare a votare subito con questa legge elettorale, che per loro equivarrebbe al suicidio politico. E quel modo è l'accordo tra i Poli su una nuova legge elettorale, e possibilmente su quelle due riforme costituzionali che servono a garantire la governabilità".

Scusi se insisto. Ma Berlusconi ha detto che il dialogo sulle riforme è solo una perdita di tempo.
"Questo è un grave errore strategico. Continuare ad agitare lo spettro delle elezioni anticipate è un'assicurazione sulla vita per Prodi. Io capisco che in questi giorni Berlusconi ha i gazebo nelle piazze, e vuole galvanizzare i suoi. Ma lo aspetto al giro di boa".

E quale sarebbe il giro di boa?
"Guardiamo il quadro politico: alla Camera la Finanziaria passerà senza problemi, e il provvedimento sul Welfare sarà inserito nella stessa manovra, con un decreto su cui metteranno la fiducia. Dunque, per me il giro di boa è l'inizio dell'anno nuovo. Se in quel momento saremo in grado di rilanciare su basi nuove la nostra iniziativa politica, bene. Altrimenti ognuno andrà per la sua strada".

E nel frattempo? Cosa chiede a Berlusconi?
"Mi passi il gioco di parole: la vera cosa sbagliata, che Berlusconi non deve ripetere, è dire che non abbiamo sbagliato. Diciamo la verità: oggi il centrodestra è più lacerato di prima. Il grande consenso che registriamo nel Paese ci deriva dal fallimento cosmico di Prodi, più che dalle nostre virtù. Non abbiamo una posizione unitaria sulle riforme, cioè sulle regole del gioco democratico. E in assenza di nuove regole, a votare non si torna. Non solo: la prospettiva unitaria, ad oggi, è lontanissima".

E quindi?
"E quindi io chiedo: cominciamo a riflettere su nostri errori, per non ripeterli più. Smettiamola di dire solo "tanto prima o poi Prodi cade e noi rivinciamo", senza fare niente di costruttivo. Cominciamo a porci qualche domanda. Intanto, perché abbiamo perso le ultime elezioni? Forse è stato un errore non attuare il Patto per l'Italia, che aveva isolato le posizioni conservatrici della Cgil? Forse è stato un errore non occuparci della riforma della giustizia civile? Forse è stato un errore ridurre le aliquote Irpef, senza preoccuparci di inserire nella riforma il quoziente familiare? E poi, appunto: cosa facciamo se torniamo a governare il Paese? Non possiamo pensare di limitarci a un generico heri dicebamus. E infine, cominciamo ad elaborare una proposta sulla legge elettorale, e a discutere con il centrosinistra...".

Così allunghereste la vita di Prodi, le risponderebbe il Cavaliere.
"E vero l'esatto contrario. Io voglio che Prodi vada a casa, come e più di quanto lo voglia Berlusconi. E non voglio fargli sconti di nessun genere. È su questo che non ci capiamo. Io posso tranquillamente trattare con Veltroni sulla riforma elettorale, ma ciò non significa affatto che la mia opposizione al governo diventa meno dura. I fatti più recenti lo dimostrano: abbiamo attaccato il governo, senza pietà, sulla sicurezza nelle città come sull'immigrazione clandestina. An ha appena presentato una mozione di sfiducia per Padoa-Schioppa, sulla vicenda Petroni-Rai. L'equazione secondo la quale se tratto sulle riforme rendo la vita facile a Prodi la vede solo Berlusconi. Insisto, è vero l'esatto contrario: è più facile che Prodi cada se c'è un serio confronto sulla riforma elettorale, piuttosto che se non c'è niente di alternativo".

Infatti Prodi dice che al suo governo non c'è alternativa.
"Appunto. Vuole una prova ulteriore di quello che dico? Negli ultimi tre mesi vari cespugli dell'Unione, dalla sinistra radicale a Di Pietro o Dini, hanno minacciato di far cadere il governo sul pacchetto sicurezza o sulla manovra. Ma alla fine hanno sempre trovato il compromesso. Oggi è Mastella che minaccia la crisi. E la minaccia sul referendum elettorale, perché lì non esiste compromesso: o si fa, o non si fa. Quella è davvero la questione dirimente. Per questo dobbiamo smetterla di sottrarci al confronto".

Presidente Fini, andiamo sul pratico: se domani Veltroni la chiama, lei si siede al tavolo, anche senza il Cavaliere?
"Non c'è neanche bisogno che Veltroni mi chiami. Il confronto è già avviato. Sulle riforme costituzionali c'è in Commissione un testo già pronto per l'aula. Dobbiamo approfondirlo, perché il problema italiano, oltre che la legge elettorale, è anche il rafforzamento dei governi. Le due questioni si tengono: lo dimostrano l'esperienza francese, dove c'è il maggioritario abbinato al semi-presidenzialismo, e quella tedesca, dove il proporzionale si associa al cancellierato. In Italia, sui modelli elettorali la situazione è più complessa. Siamo divisi noi, ma la confusione è massima anche nel centrosinistra".

Veltroni ha fatto una proposta mista, italo-franco-ispanica. La convince?
"Il suo mi pare il tentativo di tenere insieme modelli non conciliabili. Ma soprattutto, Veltroni parla a nome di tutta la coalizione? Questo non l'ho proprio capito. Io, per parte mia, resto affezionato ad una logica maggioritaria e bipolare".

Quindi lei boccia il modello tedesco che molti, a partire dall'Udc, considerano l'unico possibile terreno d'incontro bipartisan?
"Ogni Paese ha la sua storia. E lo dico soprattutto agli amici dell'Udc. In Germania Schroeder si condannò alla sconfitta annunciando prima del voto che in nessun caso avrebbe mai fatto accordi con Lafontaine. In Italia, se lasciassimo i partiti liberi di decidere le alleanze dopo il voto, sarebbe il caos".

A proposito di Udc. Cosa dice il "borsino" dei suoi rapporti con Casini? Colpite uniti nella critica al Cavaliere, ma marciate sempre divisi per contendervi la sua eredità?
"La politica va oltre le questioni personali. Non c'è dubbio che sul sistema tedesco noi siamo fortemente contrari, mentre Casini è fortemente contrario al referendum. Ma abbiamo il dovere di cercare insieme una sintesi. Anche perché è evidente a tutti che, se c'è una possibilità di trovare un'intesa sulla riforma elettorale, questa nasce dal terrore diffuso nei confronti del referendum. E questo conferma che siamo stati lungimiranti a sostenere la raccolta delle firme".

Quanto le ha bruciato il Cavaliere che va a benedire Storace?
"Un vero leader dovrebbe lavorare per unire, non per alimentare i frazionismi".

Dica la verità: quanto l'ha amareggiata l'offensiva di Mediaset sulle sue vicende personali? Le sono bastate le scuse?
"Di nuovo, le questioni personali in politica non c'entrano nulla. Quando si parla di informazione, in Italia il primo problema è la Rai. Poi, certo, si pongono anche i problemi legati al duopolio. In ogni caso, il problema non è il rapporto privato tra Berlusconi e Fini. Il problema è la strategia e il destino di questo centrodestra".

Che secondo lei è a rischio...
"É a rischio, perché non si è fatto quello che ha fatto il centrosinistra con il Partito democratico. Loro si sono mossi, noi siamo fermi. Io ormai mi sono stancato di parlare del "partito dei moderati". Berlusconi ha detto che per lui è "un sogno nel cassetto". Peccato che poi ha buttato le chiavi...".

Ma secondo lei, a questo punto, la leadership del Cavaliere è in pericolo?
"Dipende solo da lui. Se continua a considerarsi infallibile, e a scaricare la colpa sugli altri, è chiaro che si indebolisce sempre di più".

(18 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI - Partita doppia
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2007, 11:36:05 am
L'ANALISI

Partita doppia

di MASSIMO GIANNINI


CRONACHE da un altro mondo. Un partito laburista vince le elezioni con una solida maggioranza, 83 deputati su 150. Può governare da solo, anche se conterà sul voto coalizzato dei Verdi. Il premier conservatore, sconfitto, telefona al leader vincente: "concede" la vittoria, saluta e se ne va. Non è Marte. È l'Australia, dove la sinistra riformista di Kevin Rudd, dopo dodici anni di dure battaglie politiche, è tornata al potere battendo la destra conservatrice di John Howard. Miracoli del sistema maggioritario. Semplice, efficace, trasparente.

Le cronache del nostro mondo sono altrettanto "marziane". Ma per ragioni opposte. Raccontano di un Paese in cui fior di professori rimpiangono una mai esistita "età dell'oro" del proporzionale, fior di politici fingono di credere a un dialogo sulla riforma della legge elettorale con la ragionevole certezza che, purtroppo e salvo sorprese clamorose, un accordo per cambiarla non si troverà. Questa settimana si gioca un partita doppia. Veltroni scommette tutto nel confronto sulle riforme con i dirigenti dell'opposizione, Prodi scommette tutto nello scontro sul Welfare con i dissidenti della maggioranza. Ma forse, nell'uno e nell'altro caso, di realmente decisivo non ci sarà granché. Si è aperta una fase di grande confusione, e di grande fibrillazione. Nei due schieramenti prevale il posizionamento tattico, e non è ancora il tempo del ricollocamento strategico. Le vere scadenze, quelle esiziali, sembrano solo rinviate.

Si ballerà fino a Natale, e oltre. Sul Welfare, dopo tante retromarce e altrettante fughe in avanti, il governo sembra aver trovato un compromesso sull'unica scelta sensata, che in realtà non sarebbe mai dovuta tornare in discussione. Si torna al punto di partenza, cioè al testo varato in Consiglio dei ministri, sulla base dell'accordo sottoscritto con le parti sociali il 23 luglio, e approvato da 5 milioni di lavoratori con tanto di consultazione nelle fabbriche. Questa mossa ristabilisce le regole della concertazione, restituendo al loro ruolo negoziale la Confindustria e i sindacati.

Placa gli ardori "liberaldemocratici" di Dini, che avrebbe qualche difficoltà a giustificare la caduta del governo per un no alle norme sullo staff leasing. Scontenta la sinistra radicale, con la quale tuttavia il premier già prefigura misure di compensazione sulla lotta al precariato. In questo scenario, Prodi supera un altro ostacolo. Ma rimette il suo destino all'ordalia di fine anno, quando la Legge Finanziaria tornerà al Senato in seconda lettura. Solo lì, nella resa dei conti finale tra i centristi di Dini e i comunisti di Giordano e Diliberto, si capirà se il governo regge.

Anche sulla legge elettorale ogni possibile svolta è rinviata a gennaio. Sarà la Corte costituzionale, con il suo quasi certo via libera ai quesiti, a innescare sul serio la bomba ad orologeria del referendum. E solo in quel momento si vedrà chi vuole davvero un accordo, per impedirne lo svolgimento, e chi invece punta le sue carte sul pronunciamento del "popolo sovrano", per lucrarne i vantaggi. Ma nel frattempo, anche ieri, qualche movimento si è prodotto.

In attesa del primo faccia a faccia con Berlusconi, in agenda per venerdì prossimo, Veltroni ha incontrato Fini. Sul modello elettorale non c'è stata alcuna intesa, né poteva esserci. Il Pd oscilla, dal sistema tedesco al modello misto cucito su misura da Vassallo, tendenzialmente proporzionale. An, al contrario, per coerenza non si sposta dall'impianto bipolarista, e tendenzialmente maggioritario. Ma dopo quell'incontro si fissano almeno quattro punti fermi, sull'incerto sentiero delle riforme.

Primo: si può dialogare con tutti, anche con quelli che per un anno e mezzo ti hanno preso a schiaffi, gridando al golpe. Non è scritto forse nel programma dell'Unione che il centrosinistra non ripeterà l'errore del Titolo V, poi clamorosamente ribadito dal centrodestra con la devolution, e che nessuna riforma di sistema sarà più varata a maggioranza? Secondo: si deve dialogare con tutti, senza canali preferenziali con nessuno. Terzo: le leggi sul conflitto di interessi e sull'assetto del sistema radio-tv sono necessarie per la qualità della nostra democrazia, ma non possono essere merce di scambio nella trattativa con il Cavaliere. Quarto: si può e si deve dialogare su tutto, non solo sulla legge elettorale ma anche sulle riforme istituzionali: dal bicameralismo ai regolamenti parlamentari.

Forse è proprio quest'ultimo, il paletto più importante piantato da Veltroni con Fini. Se la stessa disponibilità sarà espressa anche dall'Udeur di Casini e dalla Lega di Bossi, forse cadrà la più inaccettabile delle pregiudiziali fin qui poste dall'opposizione. Berlusconi resterà l'unico a dire no alle riforme istituzionali, perché "sarebbero solo un espediente per far durare il governo Prodi". Se la sentirà il Cavaliere di assumere una posizione così ostinatamente solitaria, e così palesemente strumentale?

Il primo voto di Palazzo Madama sulla manovra doveva sancire un cambio di fase, e cambio di fase c'è stato. Doveva implodere il centrosinistra, è esploso il centrodestra. Ora è nella Cdl, ridotta ad "ectoplasma" secondo il suo stesso inventore, che si respira quel "clima libanese" che solo un mese fa Mastella denunciava nell'Unione. La berlusconiana "rivoluzione del predellino" ha rimesso in campo il piccolo Murat di Arcore, ma al prezzo di un profondo isolamento.

Può darsi che la tentazione del Cavaliere sia proprio questa, come ha scritto Roberto D'Alimonte sul Sole 24 Ore: far saltare tutti i tavoli, cavalcare selvaggiamente il referendum e presentarsi subito dopo alle elezioni in splendida solitudine. Uno contro tutti, a caccia del "premio" che lo farebbe governare da solo. Silvio e il suo popolo. Senza mediazioni, senza parrucconi. Per lui è un sogno, per noi è un incubo.

Oppure, al contrario, può darsi che nel suo inesauribile, parossistico "fregolismo" politico, il Cavaliere punti davvero a un governo di larghe intese, e poi al Quirinale. Dal bipolarismo coatto al bipolarismo contraffatto. Altro che lezione australiana.

(27 novembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI - Non si tratta con chi protesta così
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2007, 11:40:10 pm
IL COMMENTO

Non si tratta con chi protesta così

 di MASSIMO GIANNINI

Dopo i taxi, i Tir, l'Italia è ancora una volta ostaggio delle minoranze corporative. L'inconsistenza delle classi politiche alimenta ed esalta l'arroganza delle categorie sociali. Manca un disegno collettivo, manca l'idea di un interesse generale. In questa "mucillagine", per usare una felice espressione del Censis, ogni rivendicazione, anche la più selvaggia, anche la più violenta, diventa possibile. Può anche darsi che gli autotrasportatori che dividono in due la Penisola, forse, tra tanti torti abbiano anche qualche ragione.

Ma quello che non è accettabile è che, per farla valere, minaccino i colleghi più "moderati", e soprattutto paralizzino un'intera nazione, scaricando il costo della loro vertenza sul resto del Paese. Bloccando le autostrade, facendo mancare gli approvvigionamenti di carburante, di pane, latte e altri generi alimentari.

Ha perfettamente ragione Romano Prodi, quando esprime la sua più totale "riprovazione" per certi metodi, che al posto della sana concertazione privilegiano il conflitto sistemico. Ed ha perfettamente ragione chi invoca la precettazione, visto che i blocchi stradali sono una violazione aperta delle norme di legge.

Il problema è che, troppo spesso, questi comportamenti irresponsabili pagano: in Italia un tavolo non si nega mai a nessuno. Lo dimostra ancora una volta l'epilogo della Vandea dei tassisti romani: caso unico al mondo, una categoria che esce da un provvedimento di "liberalizzazione" spuntando un aumento di tariffe del 18%.

E invece, con chi tiene sotto ricatto la collettività, non si dovrebbe mai trattare. Non c'è bisogno di scomodare la Gran Bretagna di Margareth Thatcher, che al tempo delle lotte durissime dei minatori inglesi ripeteva "niente birra e panini al numero 10 di Downing Street". Basta guardare alla Francia di Sarkozy, che ha retto l'urto dei ferrovieri e degli autotrasportatori per un'intera settimana. Alla fine hanno ceduto loro. E solo a quel punto hanno trovato udienza a Palazzo Matignon.

(11 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI - Quando vince il partito del mercato
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2007, 12:03:31 pm
ECONOMIA IL COMMENTO

Quando vince il partito del mercato

di MASSIMO GIANNINI


Tommaso Padoa-Schioppa è la metafora vivente del prodismo da combattimento. Non è un mago della comunicazione. È molto impopolare, perché se certamente non ha mai peccato, sicuramente ha più volte tassato. È molto testardo, e va avanti a dispetto delle accuse d'impeachment, delle imboscate parlamentari, delle proteste sociali.

Piaccia o no, il 2007 si chiude all'insegna di un doppio colpo del ministro dell'Economia. Un "impolitico" freddo, alla Thomas Mann, che suo malgrado si ritrova in prima linea a gestire le questioni più scottanti di questa legislatura rissosa come una curva, precaria come un co. co. co.

Il primo colpo riguarda l'Alitalia. Il via libera del consiglio dei ministri alla vendita ad Air France nasce dal blitz con cui Padoa-Schioppa è riuscito a convincere il premier ad anticipare i tempi della decisione politica, dopo la delibera "tecnica" già compiuta dall'azienda. Non avrebbe avuto alcun senso rinviare ancora la scelta, lasciando la nostra compagnia di bandiera in un limbo pericoloso fino a metà gennaio. Prevale il "partito del mercato" e soccombe il "partito dell'italianità". Un epilogo non scontato, visto che a sostenere la cordata di Air One c'era un folto schieramento bipartisan. Ma è la scelta più sensata, che massimizza il risultato per l'azionista Tesoro, rispetta l'autonomia del cda e tiene conto dei pareri degli advisor.

Nessuno si straccerà le vesti se Alitalia esce dall'asfittico giardinetto tricolore, per finire nel network del più grande vettore mondiale. Ci perderà qualche leader di partito, che non potrà più pretendere una rotta dedicata al proprio collegio, e magari dovrà rinunciare a piazzare l'amico boiardo o il cognato steward. Ci guadagneranno i passeggeri, che potranno volare con tariffe più basse sulle tratte dove crescerà la concorrenza. E se Alitalia cederà gli slot su Malpensa, anche il malessere del Grande Nord (strumentalmente cavalcato da Forza Italia e Lega) sarà sostanzialmente guarito.

Il secondo colpo di Padoa-Schioppa riguarda i conti pubblici. E questo era anche meno scontato. In un anno e mezzo l'Italia ha risanato il suo bilancio. Si può continuare a storcere il naso sulla qualità di alcune misure adottate, sulla carenza di tagli definitivi nei grandi capitoli strutturali della spesa pubblica, sull'insostenibile pesantezza del "saio fiscale" imposto ai contribuenti. Si può ripetere che la Finanziaria dell'anno scorso è stata troppo vessatoria, e che quella di quest'anno è stata troppo rinunciataria. Ma quello che oggi conta, al di là della debolezza permanente del messaggio mediatico, è la forza sorprendente del risultato aritmetico. Nel 2007 il deficit pubblico scende sotto al 2% del Pil, contro una stima iniziale del 2,8%: partiva dal 3,3%, ereditato dal governo Berlusconi. Il debito pubblico cala al 104,6% dal 106,8% della precedente legislatura, quando aveva raggiunto quota 1.575 miliardi, quasi 27 mila euro per ogni cittadino. L'avanzo primario cresce al 3%, contro lo 0 degli ultimi lasciti tremontiani. La spesa pubblica scende al 49,2%, e quella primaria cala addirittura al 44,4%. Persino la pressione fiscale si riduce dal 43,1 al 42,9%. E poco, ma è meglio di niente.

In meno di due anni, il governo è riuscito a correggere i conti dello Stato di 1,3 punti percentuali di Pil, più di 20 miliardi di euro. Il "tesoretto" non nasce per caso. L'esecutivo ha fatto molti errori, e persino alcuni danni. La sfida della modernizzazione, a partire dalle lenzuolate liberalizzatrici di Bersani, è stata parzialmente perduta. La partita vera, quella della crescita, è ancora tutta da giocare. Lo snodo cruciale del 2008 per rilanciare la domanda interna, attraverso la crescita congiunta dei salari e della produttività, è uno solo: rivedere il modello contrattuale, abbattendo il totem del "doppio livello".

Per riuscirci serve un governo coeso e capace di coordinare il tavolo tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil. Questo, fuori dalle generiche fumisterie delle conferenze stampa, è il vero "patto sociale" che serve all'Italia. Non riuscì a Prodi e Ciampi nel '98, forti del clamoroso successo del traguardo di Maastricht. Difficile che riesca oggi a Prodi e Padoa-Schioppa, fiaccati da una maggioranza politica tenuta in ostaggio costante da una minoranza ideologica.

Ma se anche cadesse domattina, le cifre del risanamento basterebbero a dimostrare che sulla politica economica Padoa-Schioppa ha fatto quello che doveva, pur giocando nell'unica "squadra" d'Europa che schiera non uno ma addirittura due partiti comunisti. E basterebbero a dimostrare che Prodi non ha governato inutilmente. Ha galleggiato, ma nel galleggiamento ha reso comunque un servizio utile al Paese, rimettendo in ordine la sua contabilità.

A Dini che da falso profeta del rigore grida "le sue sono promesse di un disperato" bisognerebbe squadernare questi numeri, che in un Paese normale sarebbero la base di partenza per qualunque verifica di maggioranza. A Berlusconi che da vero esteta del rancore urla "questo è il peggiore governo della storia" bisognerebbe ricordare cosa ha fatto lui, quand'era a Palazzo Chigi. Ma va capito, il "povero Silvio" in stile Cornacchione. Era troppo impegnato a fare la guerra alle toghe rosse, per potersi avventurare nella guerra agli evasori fiscali. Era troppo occupato a privatizzare le istituzioni repubblicane, per potersi preoccupare della privatizzazione di Alitalia. Il prodismo da combattimento non esalta i cervelli, il padoa-schioppismo di complemento non riscalda i cuori. Ma se l'unica alternativa resta il berlusconismo, conviene pensarci due volte prima di sciogliere la ditta.

(29 dicembre 2007)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI
Inserito da: Admin - Gennaio 17, 2008, 11:14:13 pm
CRONACA IL COMMENTO

Istituzioni avvelenate

di MASSIMO GIANNINI


QUASI come l'Antigone di Sofocle, che nella cultura giuridica universale rimane il modello più alto e ineguagliato della "resistenza al potere", un paradosso estremo vuole che oggi sia addirittura Sandra Mastella ad incarnare il nuovo simbolo di un'altra "resistenza", quella del potere politico al potere giudiziario. Il terremoto che ieri ha travolto lei, il marito ministro e l'Udeur, non è una splendida tragedia greca, ma un bruttissimo dramma italiano.

Un dramma che annienta la trama già lacerata del tessuto repubblicano. Avvelena il campo già intossicato della dialettica istituzionale. E rischia di travolgere, insieme alle persone e agli organi che rappresentano, anche il governo.

L'inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere è in pieno corso. Le carte e i materiali d'indagine andranno dunque letti, capiti e approfonditi. Per l'ennesima volta, come già accaduto per l'inchiesta della procura di Potenza "Why not" e come ormai accade per la quasi totalità delle inchieste che riguardino i politici, il castello accusatorio riposa sulle intercettazioni telefoniche.

Con tutti gli elementi di ambiguità e di indecifrabilità che questi strumenti probatori si portano dietro, per colpa di una disciplina normativa oscura, carente e dunque inafferrabile, come Franco Cordero ha scritto più volte su questo giornale. Mai come in questo caso la cautela è d'obbligo. Ma per tentar di salvare qualcosa nello spazio non più "terzo" e ormai desertificato delle nostre istituzioni, dov'è diventato impossibile discernere il giusto giuridico e il bene politico, alcune riflessioni si impongono. E chiamano in causa, insieme, le due "caste": quella togata e quella eletta.

Per le toghe non è un periodo felice. Le vicende incrociate della Forleo e di De Magistris, se da un lato hanno ridato fuoco alle polveri del conflitto con i politici, dall'altro lato hanno suscitato più di una perplessità, sulle modalità di gestione dell'azione penale. A maggior ragione, da parte della Procura campana che indaga sui Mastella e sull'Udeur, sarebbe stata necessaria qualche accortezza elementare, a garanzia della onorabilità degli indagati e della credibilità dell'indagine. Nel metodo, ancora una volta un soggetto colpito da una misura restrittiva della propria libertà personale ha dovuto apprendere il fatto dalla tv, a scandalo ormai già clamorosamente scoppiato, piuttosto che dalla regolare notifica personale della Procura. Ne sono seguiti silenzi, mezze smentite, mezze conferme. Insomma, il caos. Ancora una volta, siamo al totale snaturamento degli istituti che regolano il funzionamento del diritto. Nel merito, si capirà meglio nei prossimi giorni. Ma certo, un ministro indagato per concussione e falso, sua moglie agli arresti domiciliari per tentata concussione, e un'altra ventina tra assessori regionali e sindaci dell'Udeur colpiti da provvedimenti restrittivi, di cui 4 addirittura in carcere, dovrebbero lasciar pensare a una rete pervasiva e capillare, di corruttela e di malaffare, che azzera un partito e fa vacillare il governo, mettendo a rischio la presenza nella maggioranza dei suoi 3 senatori. Una vera e propria Tangentopoli campana, intestata al ministro della Giustizia in veste di "collettore" di mazzette e di illeciti. Ebbene, ad una sommaria analisi delle ordinanze emesse dalla procura, si fa fatica a individuare questa "rete pervasiva" di malaffare. E soprattutto, quello che a prima vista non si vede è il denaro. Si vede la solita spartizione di poltrone di sottogoverno, che è propria delle lottizzazioni partitiche, nazionali e locali. L'inchiesta riguarda essenzialmente un gran giro di nomine nel settore sanitario, a partire dalle Asl, per le quali Mastella e i suoi esercitavano pressioni, ma di natura essenzialmente politica. Allo stato attuale, non si vedono scambi di soldi. Non si vedono appalti sui quali lucrare la percentuale.

Senza nessuna intenzione assolutoria, che sarebbe del tutto prematura ed impropria quanto un'opposta pretesa accusatoria, queste sono le prime impressioni. E se saranno confermate dai fatti, non si può non vedere una palese sproporzione tra le misure cautelari richieste per Sandra Mastella, ad esempio, e la sua effettiva "pericolosità sociale". Se pensiamo ad Ahmetovic, tanto per fare un esempio, c'è da restare basiti.

Per i politici è un periodo ancor meno felice. E qui lo si può dire. Lasciamo stare la signora Sandra, la cui "spiegazione" è involontariamente quasi comica: ci colpiscono per il nostro impegno cattolico, ha detto di lei e della sua famiglia, con un'uscita che voleva forse intercettare la corrente papista dopo l'infortunio laicista della Sapienza, ma che è davvero degna di miglior fortuna. In compenso, suo marito Mastella ha fatto un gesto di grande responsabilità istituzionale, a rassegnare subito le dimissioni da ministro, che Prodi avrebbe forse fatto meglio ad accettare. Ma nel suo intervento alla Camera le ha condite con un sovraccarico di aggressività quasi ideologica che non fa onore al suo gesto. Parlare di "caccia all'uomo", di "muro di brutalità", di giudici come di "frange estremiste" per le quali il Guardasigilli sarebbe un "nemico da abbattere": ecco tutta questa afflizione martiriologica è parsa sopra le righe, per un ministro che, al contrario del suo predecessore leghista, non ha certo messo a ferro e fuoco la magistratura.

Questo, purtroppo, è stato un drappo rosso agitato davanti agli scranni di un Parlamento che, delegittimato nel Paese, non aspettava altro. Se si può capire ed anche condividere sul piano umano, l'applauso scrosciante che ha accompagnato l'intervento del Guardasigilli ha un significato politico allarmante. Forse per la prima volta, è stato un applauso sinceramente bipartisan, che ha visto il centrodestra spellarsi le mani più del centrosinistra. E dove tutti gli interventi, da quello di Fini a quello di Bondi, hanno azzardato un solo implicito tentativo, quello che fu già di Bettino Craxi ai tempi di Mani pulite (noi non ci faremo processare da queste toghe) e hanno puntato a un solo esplicito obiettivo (sovvertire i ruoli, e mettere alla sbarra la magistratura). Persino il moderato Casini ha parlato di "giustizia a orologeria", e ha invocato la solita "emergenza democratica". Quasi come se la "Casta", tutta intera, si ritrovasse finalmente unita, non per fare le riforme, ma per tutelare se stessa da un'altra "Casta", e contro un altro potere dello Stato.

Politica e magistratura non usciranno mai da questa guerra, se non deporranno le armi della solita, ovvia autoconservazione corporativa, che finisce col perdere di vista, per sempre, il bene comune dei cittadini. Non ci si può scandalizzare, se nel fiume carsico dell'anti-politica e dell'anti-qualunque cosa, il Beppe Grillo di turno rievoca l'antica invettiva di Pasolini, che in uno dei suoi scritti corsari notava "c'è da chiedersi cos'è più scandaloso: se la provocatoria ostinazione dei potenti a restare al potere, o l'apolitica passività del Paese ad accettare la loro stessa presenza fisica".

Diciamo la verità. Un'emergenza democratica c'è davvero. Ma è molto più vasta di quella che vede il leader dell'Udc. Riguarda l'affidabilità delle nostre istituzioni. Tutte le istituzioni, perché l'una non è meglio dell'altra. E nessuna è esente da responsabilità, se lo spirito repubblicano ci appare oggi così tristemente e pericolosamente dissolto.

(17 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI - Il Paese dell'anomalia
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2008, 12:27:27 pm
POLITICA IL COMMENTO

Il Paese dell'anomalia

di MASSIMO GIANNINI


NELL'esausta democrazia italiana, malata di opposti estremismi e di mutui immobilismi, è difficile anche morire.
Tra grandi montagne di rifiuti materiali e piccole vendette personali, le ultime ore di vita del governo di Romano Prodi sono un tormento politico e un calvario mediatico. Nulla è normale, lineare, fisiologico, nell'irrisolta e mai realmente compiuta Seconda Repubblica.

In qualunque altro Paese dell'Europa moderna una maggioranza cade in Parlamento, per una rottura politica che gli elettori capiscono, e di cui comprendono le ragioni. Solo in Italia il leader di un piccolo partito può annunciare la fine di una maggioranza politica in una conferenza stampa, e poi nel solito salotto di Porta a porta. Senza prima spiegare alle Camere le sue motivazioni, e senza rendere conto all'opinione pubblica delle sue decisioni.

La "rupture" di Clemente Mastella è il gesto irresponsabile di un ministro Guardasigilli che, colpito da una pesante e non del tutto convincente inchiesta della magistratura, ha trasformato se stesso in un martire, mai abbastanza "protetto" dai suoi stessi alleati. E fingendo di immolare se stesso sull'altare della persecuzione giudiziaria, ha finito per sacrificare il governo sull'altare della convenienza politica. Forse l'ha fatto per evitare comunque le forche caudine del referendum, come lasciano pensare le mosse dell'Udeur successive al via libera della Consulta ai quesiti. O forse l'ha fatto perché ha già in tasca un accordo con Berlusconi, come lascia sospettare la sua pretesa, del tutto irrituale, di ottenere "la crisi di governo e le elezioni anticipate".

Sta di fatto che questo, probabilmente, è l'atto finale con il quale si compie il destino di Prodi, e si avvera l'ormai celebre profezia di Fausto Bertinotti, che aveva paragonato il premier al Cardarelli di Flaiano, "il più grande poeta morente". È anche, verosimilmente, il rito di passaggio che finirà per riportare gli italiani alle urne, con tre anni di anticipo sulla regolare scadenza della legislatura. Ma neanche quest'ultimo strappo, al momento, è ancora sufficiente a trasformare una crisi virtuale, che purtroppo dura ormai da qualche mese, in una vera e propria crisi formale. C'è modo e modo di morire. E se proprio gli tocca, Prodi vuol morire a modo suo. In un modo che lasci il segno, non solo sulla sua immagine personale di questi giorni, ma anche e soprattutto sull'anomala transizione italiana di questi anni.

Per questo la sua strategia, messa a punto nella notte insieme ai colleghi ministri e ai leader del centrosinistra, prevede una serie di tappe che non appaiono del tutto scontate, e che potrebbero riservare persino ulteriori sorprese.

Prodi oggi non andrà a dimettersi nelle mani del Capo dello Stato, come gli chiede in coro il centrodestra ricompattato dall'eutanasia del centrosinistra. Si presenterà invece alla Camera, per il dibattito sulla giustizia, o facendosi approvare un ordine del giorno, o chiedendo esplicitamente la fiducia. La otterrà, perché nonostante tutto il Pd e la sinistra radicale non hanno alcuna intenzione di staccare la spina, e perché a Montecitorio il governo ha i numeri anche senza l'Udeur.

A quel punto, forte di questo imprimatur di un ramo del Parlamento, affronterà le forche caudine del Senato. E a Palazzo Madama, se nel frattempo non fosse riuscito un tentativo estremo di far rientrare Mastella, o quanto meno di convincere i dubbiosi del suo partito a recedere dal proposito di uscire dalla maggioranza, il premier potrà anche cadere. Ma nella caduta, marcherà a fuoco l'intollerabile anomalia del sistema politico-istituzionale: un voto disgiunto tra la Camera che dà la fiducia e il Senato che la nega, ultimo frutto avvelenato di una legge elettorale scellerata (il "porcellum"). E così segnalerà una volta di più l'urgenza di non interrompere il cammino del governo, perché anche ad esso è collegato il cammino delle riforme istituzionali ed elettorali necessarie a superare quell'anomalia di sistema.

Visto nell'ottica degli "addetti ai lavori", in questo percorso tortuoso c'è un elemento di valutazione che anche il presidente della Repubblica, quando sarà chiamato a decidere il da farsi, non potrà trascurare del tutto. Ma non si può negare che, visto invece in nell'ottica della gente comune, questo può sembrare un inutile, disperato bizantinismo del Palazzo romano.

Si può capire che Walter Veltroni, e con lui lo stato maggiore del Pd, faccia di tutto per sostenere il tentativo del governo. Ha vissuto con crescente disagio il dovere morale di intestarsene i problemi, dallo scandalo dei rifiuti a Napoli allo stesso caso Mastella. Ha dovuto procedere, con andatura a tratti schizofrenica, su un doppio binario: la condivisione forzata (esprimendo solidarietà politicamente "costose" perché altamente impopolari, per esempio a Bassolino e a Pecoraro-Scanio) e la vocazione maggioritaria (sostenendo costantemente la sfida ai "nanetti" dell'Unione sulla libertà del Pd di presentarsi da solo qualunque sia il sistema elettorale, che ha finito per far saltare i nervi all'Udeur).

Proprio oggi, nonostante tutto, Veltroni non può permettersi il lusso di scaricare Prodi, senza pagare a sua volta il prezzo di una co-gestione dei suoi insuccessi più recenti: dall'azione di governo allo stesso esito, purtroppo improduttivo, del dialogo sulla riforma elettorale.

Questo tema chiama in causa l'altro protagonista di questa fase cruciale. Non si capisce perché mai Silvio Berlusconi dovrebbe fermarsi, ormai a meno di un metro dal traguardo che insegue da un anno e mezzo di spallate fallite. Il Cavaliere ha tutto l'interesse a sbarrare la strada non solo alla sopravvivenza di Prodi, il che è fin troppo ovvio, ma anche a qualunque altra ipotesi che non contempli le elezioni anticipate. Governo tecnico-istituzionale compreso. Conoscendo il soggetto, già pareva difficile individuare la sua convenienza a fare un accordo con Veltroni sul "Vassallum" o sulla bozza Bianco, che avrebbe allungato la vita a un Prodi solido al governo.

Figuriamoci dove può essere il suo vantaggio ad assecondare l'operazione proprio adesso, appoggiando un tentativo ulteriore di un Marini o di chissà chi altro, con un Prodi ormai "morente" a Palazzo Chigi. Il richiamo della foresta, per il Cavaliere, è a questo punto troppo forte. E Fini e Casini, in queste condizioni-capestro, non possono resistergli senza dare ai rispettivi elettorati l'impressione di voler azzardare chissà quale inciucio.

Per questo, alla fine, l'epilogo di questa crisi saranno le elezioni anticipate.

Solo dopo averle vinte, semmai, Berlusconi potrà fare il nobile gesto da "costituente". E aprire lui, a quel punto, da sovrano illuminato e autocandidato al Quirinale, la stagione delle "larghe intese". È un'ipotesi suggestiva, che lo consegnerebbe alla Storia. Ma con il Cavaliere non si sa mai. In fondo, in lui si insinua sempre il dubbio che fu già di Groucho Marx: perché dovrei fare qualcosa per i posteri? Cos'hanno fatto i posteri per me?

Eppure, con l'ultimo audace colpo di dannunziano autolesionismo, è proprio a quest'uomo che un centrosinistra ormai a pezzi sta per riconsegnare le chiavi del Paese.

(22 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI - Molti meriti, molti errori
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2008, 11:23:06 pm
POLITICA L'EDITORIALE

Molti meriti, molti errori

di MASSIMO GIANNINI


Stavolta è finita sul serio. Il "guerriero", come l'ha orgogliosamente ribattezzato Diliberto, si è arreso. Triste destino, quello di Romano Prodi.

L'unico leader politico di centrosinistra che riesce a vincere contro Silvio Berlusconi per ben due volte, ma per una ragione o per l'altra non riesce a governare per più di 600 giorni. Il Professore ha combattuto fino all'ultimo, ridando uno straccio di orgoglio e un briciolo di dignità a quel pezzo di coalizione che l'ha sostenuto fino all'ultimo. Ma al Senato, il suo vero Vietnam, nulla ha potuto contro il "fuoco amico" dei proto-comunisti alla Turigliatto, dei soliti trasformisti alla Mastella, degli pseudo liberisti alla Dini.

Romano si è fermato a Ceppaloni. Si compie così il destino di un governo che ha finito per pagare un prezzo di immagine e di credibilità molto più alto dei suoi effettivi demeriti. Il risanamento dei conti pubblici in appena un anno e mezzo è un risultato vero, che già di per sé basterebbe a considerare tutt'altro che inutile la pur breve e rissosa stagione del "prodismo da combattimento".

Certo, Prodi ha commesso molti errori. Se dopo il voto della primavera 2006 avesse accettato l'idea di non aver stravinto una tornata elettorale sostanzialmente pareggiata, e avesse lasciato all'opposizione la presidenza di almeno un ramo del Parlamento, oggi forse racconteremmo un'altra storia. Se avesse saputo mettere in riga giganti e nanetti dell'Unione in conflitto permanente effettivo con la stessa grinta sfoderato in questi ultimi tre giorni di crisi, oggi forse non sarebbe caduto per mano dei suoi stessi alleati.

Se avesse compreso fino in fondo la strumentale irriducibilità della scelta ribaltonista consumata dalle truppe mastellate e dal manipolo diniano, oggi forse ci avrebbe risparmiato lo spettacolo, indecente per gli eletti e umiliante per gli elettori, di un Palazzo Madama trasformato in osteria, tra insulti, sputi e bocce di spumante.

Ma l'uomo è così. Alla fine ha prevalso la linea del "meglio perdere che perdersi". Meglio affrontare la sconfitta a viso aperto, offrendo in pasto al Paese il nome e il cognome dei congiurati che uccidono il governo, e degli sciagurati che hanno reso ingovernabile l'Italia, architettando alla fine della scorsa legislatura una riforma elettorale vergognosa che proprio ieri ha prodotto l'ultimo, insostenibile corto-circuito: la fiducia alla Camera, la sfiducia al Senato. Ora che il ciclo di Prodi è finito, quello che comincia è un'avventura in una terra incognita. È quella che Giulio Tremonti definisce la "crisi perfetta", quella dove nessuno controlla niente, e nessuno capisce come se ne possa uscire.

Sul terreno politico-istituzionale restano solo macerie. Per il Professore un reincarico è impensabile. Per un governo tecnico-istituzionale alla Marini i margini sono strettissimi. Per il centrosinistra non si vedono sbocchi unitari: la Cosa Rossa di Bertinotti e company riconquista l'allegra e irresponsabile adolescenza del non-governo e delle mani libere, il Pd di Veltroni sostiene il costo più alto precipitando nel baratro del governo, e rischiando di veder trasformata la sua legittima "vocazione maggioritaria" in una traversata nel deserto incerta e solitaria.

Per il centrodestra, in mille pezzi solo fino a due settimane fa, quando le mura della Casa delle libertà erano crollate sotto i colpi di piccone della "rivoluzione del predellino" del Cavaliere, si rivede invece un orizzonte unitario. E soprattutto si riapre la strada per Palazzo Chigi. Sarà difficile se non impossibile, perfino per il presidente Napolitano, fermare la "macchina da guerra" berlusconiana, che l'uomo di Arcore vuole lanciata a folle corsa verso il voto anticipato. Con tanti saluti alla crisi dei salari, al tracollo dei mercati, al referendum di Segni e Guzzetta. Sta per cominciare, temiamo, tutto un altro film. Berlusconi Tre. La vendetta. O l'eterno ritorno. Con la stessa legge elettorale, la "porcata" di Calderoli, che ha massacrato il sistema repubblicano. Con un'altra armata Brancaleone, che andrà dal neo-fascista Tilgher al catto-populista Mastella, incrociando l'eversore padano Bossi e forse lo stesso "traditore" toscano Dini. Con l'ennesima accozzaglia di mezzi partitoni e di micro-partitini che, per garantirsi la sopravvivenza, non esistano a tenere in ostaggio un'intera nazione. Povera Italia. Meritava di più.

(24 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI - Walter e la strategia della speranza
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2008, 11:37:44 am
POLITICA

IL PERSONAGGIO

Walter e la strategia della speranza

di MASSIMO GIANNINI


Un destino rinchiuso in due giorni. Di qui a mercoledì prossimo si decide la crisi di governo, si consuma la fine del centrosinistra, si compie il futuro del Partito democratico. Walter Veltroni lo sa bene. E per questo è determinato a combattere a viso aperto la sua battaglia.

"Nelle prossime quarantotto ore si gioca tutto. Noi insisteremo per un governo tecnico-istituzionale che, in otto mesi o al massimo un anno, porti a termine le riforme necessarie a modernizzare il sistema, dalla legge elettorale ai regolamenti parlamentari. Questo chiederemo al presidente Napolitano. Con sincera speranza, ma senza troppe illusioni. Dobbiamo essere pronti ad affrontare anche lo scenario alternativo: le elezioni anticipate che, a giudicare dalla chiamata alle armi del centrodestra, sembrano più vicine".

Il leader del Pd è appena rientrato da Firenze, dove ha lanciato l'ultimo appello al "senso di responsabilità nazionale di tutte le foze politiche", per riscrivere insieme le regole del gioco, "nell'interesse del Paese". Un appello che sembra destinato a cadere nel vuoto, visto l'abisso aperto da Berlusconi che rievoca ancora una volta la magica Piazza, rilanciando l'ultimatum fatale: "O elezioni subito, o milioni di persone si riverserannio a Roma".

Veltroni naturalmente non condivide, ovviamente non apprezza. E in vista della salita al Colle, prevista per domani, non vuole ancora arrendersi del tutto alla deriva berlusconiana. Spera ancora che Napolitano riesca a convincere Marini ad accettare un incarico esplorativo. E spera ancora che il presidente della Camera riesca a sua volta a convincere il Cavaliere, in nome "dell'emergenza nazionale", a sostenere un "governo di scopo" che riscriva la legge elettorale e i regolamenti parlamentari, e poi porti il Paese alle urne.
Il sindaco parte da una convinzione: "Io non credo affatto che gli italiani siano entusiasti di tornare a votare adesso, in una situazione socio-economica così incerta, e con una paralisi politico-istituzionale così evidente. Ma soprattutto sono sicuro che gli italiani non vogliono ritrovarsi al governo del Paese, di qui a pochi mesi, un'altra coalizione di diciotto partiti, che può solo litigare senza decidere niente. Perché parliamoci chiaro, se si tornasse a votare subito, e se il centrodestra vincesse, Berlusconi si troverebbe prima o poi nelle stesse condizioni in cui si è trovato Prodi. E questo è esattamente quello che i cittadini temono di più". Ecco perché, anche se ormai appare un'impresa disperata, il Pd deve battersi comunque per sostenere un eventuale incarico a Marini.

Ma Veltroni è un idealista pragmatico, e non vive nel mondo dei sogni. Se l'ipotesi principale resta quella del governo tecnico - istituzionale, lui sa bene che il Partito democratico deve essere pronto a gestire anche l'ipotesi subordinata, quella del voto anticipato. Non può non tener conto che questo è l'ordine categorico, impartito dal quartiere generale del Cavaliere e ormai condiviso dall'intero stato maggiore della rinata Casa delle Libertà. Compreso Casini, che non può più permettersi il lusso di votare insieme al centrosinistra un ipotetico "governo per le riforme". Il sindaco di Roma prende atto: "Berlusconi gioca a confondere le acque, e un minuto dice una cosa, due ore dopo dice l'esatto contrario. Ma è evidente che ormai il centrodestra punta tutte le sue carte sulle elezioni ad aprile...". E questa evidenza rende molto più stretti i margini di manovra del presidente della Repubblica.

Per questo Veltroni deve prepararsi a raccogliere la sfida del voto anticipato. E se è vero, come dice l'unto del Signore, che "siamo già in campagna elettorale", allora il leader del Pd non si tira indietro: campagna elettorale sia. "A Berlusconi dobbiamo far pagare tutti i prezzi politici possibili. Prima decreta la morte della Casa delle Libertà, si inventa un sedicente Partito del Popolo, annuncia che andrà al voto da solo, definisce "ectoplasmi" gli ex alleati di An e Udc. Poi, di punto in bianco, rifonda l'antica alleanza, riaccoglie nella casa del padre tutti i reprobi, uccide il vitello grasso per Mastella, e forse persino per Dini". "E lo stesso prezzo politico - aggiunge il sindaco - dobbiamo farlo pagare anche a Fini. "Prima rompe con il padre-padrone di Forza Italia, dichiara finito il centrodestra, firma il referendum elettorale per correggere la "porcata" di Calderoli. Poi, di punto in bianco, restituisce con tutti gli onori la corona al sovrano di Palazzo Grazioli, torna sotto il tetto della Cdl, e soprattutto grida elezioni anticipate, "anche con questa legge elettorale". Tutti questi voltafaccia, giocati sulla pelle del Paese, "noi dobbiamo farglieli pagare: stanno rimettendo in piedi un caravanserraglio che finirà per andare da Tilgher a Mastella, e voglio vedere come faranno a reggere".

In compenso, Veltroni sa perfettamente quello che deve fare il suo partito: "Lo confermo, il Pd va da solo". Va da solo alla Camera, e al massimo può puntare a qualche desistenza al Senato. Ma il dado della "vocazione maggioritaria" è ormai tratto, e indietro non si torna. "Su questo punto - osserva il leader - io vado fino in fondo. E' un'idea che avevo in testa fin dall'inizio, e ora siamo tutti d'accordo. Anche le prime reazioni di Prodi, dopo la caduta al Senato, sono assolutamente positive. Il partito è compatto, non c'è nessuna resa dei conti da fare, nessuna vendetta politica da consumare. C'è solo da andare avanti sulla strada che abbiamo intrapreso, che è l'unica che può cambiare il Paese, ed è l'unica che la gente apprezza davvero". Questa è l'altra convinzione del sindaco. La svolta maggioritaria del Pd è servita a far capire agli italiani che il rinnovamento è possibile. Che è finita davvero l'era del bipolarismo coatto e delle Armate Brancaleone messe insieme per vincere il giorno delle elezioni ma non per governare l'intera legislatura.

"A Firenze, di fronte a Joschka Fischer e a Ségolène Royal, ho rilanciato la necessità di un ambientalismo del fare e non del vietare: è venuto giù il teatro. La gente ha capito il nostro messaggio, e reagisce bene al fatto che recuperiamo la nostra identità culturale e la nostra libertà programmatica". Convinto di questo consenso sociale, e della sua capacità personale di incarnare una leadership moderna, aperta e non ideologica, Veltroni pensa di poter battere il Cavaliere, anche se si andasse a votare subito.

E' il primo a credere che esista un "veltronismo", che è valore politico e colore mediatico, capace di allargare il perimetro storico del vecchio Ulivo e di intercettare fasce di elettorato, in campo neutro e in campo avverso. Può darsi che abbia ragione.

Può darsi che si sbagli. Ma la prova del budino, per il Pd, è l'unica possibile. "Del resto - ripete lui stesso - che alternativa abbiamo? Ci rimettiamo a fare l'alleanza con i comunisti e tutti gli altri cespugli? Avete visto che venerdì hanno già annunciato il no alle missioni militari? E avete visto che oggi Diliberto torna alla carica con la falce e martello?". No, basta con questi compromessi forzati che non portano da nessuna parte. Basta con un altro caravanserraglio, da opporre a quello berlusconiano. Basta con quello che Giulio Tremonti chiama il centrosinistra "salsiccia", tipo mutui subprime americani dove dentro trovi di tutto.

C'è davvero "un'occasione storica per realizzare qualcosa di nuovo", e il leader non vuole lasciarsela sfuggire. Ai democratici non resta quindi che la "traversata nel deserto". Che può portare al governo, se quella di Veltroni non si rivelasse una pia illusione ma una scommessa vincente. Oppure può portare all'opposizione, il luogo dove "siamo allenati a stare da una vita", per usare la metafora dolceamara di D'Alema. Come il vecchio Pci si ritirò nell'orgogliosa "ridotta della diversità", così oggi il nuovo Pd si rinchiude nella fiduciosa trincea dell'autosufficienza. In tutti e due i casi, e per ragioni uguali e contrarie, una mossa ad alto rischio. Una scelta che ti può condannare a una lunga solitudine. Ma se davvero il centrosinistra è perduto, bisogna almeno salvare il Partito democratico.

(28 gennaio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI
Inserito da: Admin - Febbraio 08, 2008, 11:14:03 pm
POLITICA IL COMMENTO

Un terremoto nella politica

di MASSIMO GIANNINI


Financial Times: l'Inferno di Dante è la metafora migliore della politica italiana. Wall Street Journal: in Italia il caos è la normalità politica. I giudizi caustici e sarcastici della grande stampa internazionale, formulati in questi giorni sulla solita crisi di governo dei soliti spaghetti-boys, meritano una postilla critica.

Se di caos si tratta, non è certo "caos calmo". Stavolta si può parlare di "caos creativo". La campagna elettorale appena cominciata si apre con un autentico, e speriamo palingenetico terremoto. L'epicentro del sisma è il Partito democratico. La decisione di Veltroni di presentarsi da solo al voto del 13 aprile, ieri confermata all'unanimità dall'intero vertice del Pd, si è rivelata un formidabile moltiplicatore di semplificazione e di innovazione dell'intero sistema politico. A sinistra, il consolidamento della "vocazione maggioritaria" ha prodotto, con geometria quasi gramsciana, un immediato sovvertimento dei rapporti di forza. Non è più l'avanguardia riformista a dover subire gli impedimenti tattici e i condizionamenti programmatici della retroguardia radicale o della vecchia guardia centrista, come è successo in questi tormentatissimi due anni di governo Prodi. Stavolta è Rifondazione a dover inseguire ipotesi di accordo "tecnico" al Senato, e sono il Pdci e i Verdi a dover accelerare sulla Cosa Rossa per non sparire dal panorama della rappresentanza nazionale. Stavolta, mentre Mastella e Dini trasmigrano allegramente sull'altra sponda senza lasciare il briciolo di un rimpianto, sono Di Pietro e Boselli a dover immaginare punti di convergenza sulla piattaforma dei "democrats". È un cambio di fase straordinario. Appariva impensabile fino a poche settimane fa. E invece ora esiste, nella realizzazioni pratiche del "nuovo" centrosinistra e non solo nelle proiezioni oniriche di qualche suo leader.

Ma la svolta autonomista del Pd non ha terremotato solo la sinistra. Da ieri, il sisma attraversa con la stessa intensità anche l'altra metà campo del centrodestra. Anche qui si verifica un'inversione di ruoli mai vista prima. Stavolta è Berlusconi che deve inseguire, e non più tirare la volata. La discussione su una possibile lista unitaria dei tre partiti maggiori della ex Cdl, Forza Italia, An e Udc, federati con la Lega, apre anche a destra scenari inediti e promettenti. Costringe il Cavaliere a tornare a far politica, e a riprendere in mano, con una variante più realistica, la marinettiana "rivoluzione del predellino" che aveva inventato due mesi fa a Piazza San Babila. Stavolta, chiedendo ai suoi alleati ritrovati di fare oggi quello che Ds e Margherita avevano fatto oltre due anni fa. Non si tratta ancora di fondare un partito unico, ma di avviare intanto un processo di convergenza, che semplifica il quadro elettorale e avvicina le forze moderate più affini sul piano culturale.

Non sappiamo ancora se il tentativo berlusconiano sarà coronato dal successo: come dimostrano i tumultuosi quindici anni della sua biografia politica e personale, l'uomo cambia idea quasi ogni giorno, e Casini si conferma un figliol prodigo straordinariamente generoso, ma anche particolarmente geloso del suo "marchio". Allo stesso modo, non sappiamo affatto se il tentativo veltroniano sarà coronato dal successo: i sondaggi premiano il cammino "solitario" avviato dal Pd, ma la distanza da colmare è ancora molta, e soprattutto si fa fatica a credere che il nuovo partito, non coalizzato a sinistra, possa raggiungere la maggioranza dei consensi contro un'alleanza di destra comunque coalizzata.

Ma intanto una cosa è sicura. Grazie alla scelta quasi temeraria di Veltroni, alle elezioni del 13 aprile gli italiani potrebbero trovare nell'urna una scheda che offre da una parte un unico partito riformista che si candida a governare da solo, dall'altra una lista unica moderata che riunisce tre simboli diversi. È un grande passo avanti. Una prima risposta, autoprodotta dal sistema politico, contro i suoi stessi vizi consolidati in questi decenni: la frammentazione partitocratica, la partenogenesi delle nomenklature, la conflittualità permanente tra le coalizioni, la ricerca di visibilità dei singoli.

Il processo è solo agli inizi. Ma al di là dei sondaggi, quello che sta accadendo è già sufficiente a considerare una felice intuizione il progetto del Partito democratico. È già sufficiente a giudicare lungimirante la strategia di chi lo ha lanciato più di tre anni fa, cioè Prodi e D'Alema, e di chi lo ha realizzato oggi, cioè Veltroni. Il verdetto elettorale sarà quello che sarà. Ma una nuova storia è già cominciata. "Si può fare": e stavolta non è solo vuota retorica.

(8 febbraio 2008)

DA repubblica,it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il falò delle vanità
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2008, 09:59:02 am
ECONOMIA IL COMMENTO

Il falò delle vanità

di MASSIMO GIANNINI


La relazione unificata del Tesoro rotola come un macigno sulla campagna elettorale. Di fronte alle previsioni sull'andamento dell'economia nei prossimi anni, le generose promesse programmatiche di Berlusconi e Veltroni sono buone giusto per un romanzo di Tom Wolfe: il falò delle vanità. Purtroppo ci aspettano tempi durissimi. Persino più duri di quelli che avevamo immaginato. L'ultimo documento economico redatto dal governo Prodi prende atto di quello che in troppi, soprattutto nel ceto politico, non hanno voluto vedere.

Non basta dire che l'Italia crescerà meno del previsto. Un aumento del Pil che scende dall'1,5 allo 0,6 per cento è molto più di una flessione, e poco meno di una recessione. Un dato che non registra solo il peggioramento del ciclo, ormai già in atto da qualche mese nella percezione e nelle tasche dei cittadini. Si riflette negativamente anche su tutte le voci del bilancio pubblico come di quello familiare.

Visto che decresce il denominatore (cioè il Pil) sono destinati a risalire automaticamente i numeratori (cioè il deficit e il debito pubblico). Questo vuol dire che non ci saranno risorse per finanziare lo sviluppo. Con un Paese che viaggia a crescita zero, è persino ridicolo continuare a litigare su un "tesoretto" dal quale attingere per sostenere i salari e i redditi medio-bassi.

Come si temeva quel "tesoretto", se mai è esistito, è destinato a svanire in fretta. E ha fatto bene Padoa-Schioppa a non considerarlo, nella sua Relazione unificata, per non alimentare, insieme a vecchie polemiche, anche nuove illusioni. Per le élite politiche è davvero il momento dell'assunzione di responsabilità: chiunque vinca le elezioni, non ha di fronte a sé l'avvincente cavalcata nelle verdi vallate che sognava il mai troppo compianto Beniamino Andreatta, ma una lunga traversata nel deserto della quasi stagflazione che ci regalerà il non rimpianto George Bush.

Tanta parte di queste difficoltà nasce dai costi di una crisi che nasce in America, e che l'America scarica sul resto del mondo. L'Europa ne soffre. L'Italia, in ragione dei suoi ritardi strutturali sulla finanza pubblica, sulla competitività delle imprese e sulla produttività del lavoro, ne paga conseguenze anche più pesanti. Di tutto questo bisognerebbe parlare, in questa campagna elettorale che era partita bene ma che sta lentamente e pericolosamente scivolando verso i soliti cliché: ideologismi contrapposti, attacchi personali e vaghezze progettuali. Invece di rinfacciarsi il passato e il presente di Prodi, Berlusconi e Veltroni ripartano da quel tanto di buono che il suo governo ci lascia in eredità: un risanamento ben avviato. E cerchino di costruire su questo, ciascuno nel proprio ruolo, un progetto per il Paese. Almeno sul bilancio dello Stato, il premier uscente può dire "missione compiuta". Per i suoi successori, al contrario, la missione è ancora tutta da inventare.

(12 marzo 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI. Due padri per una sconfitta
Inserito da: Admin - Aprile 29, 2008, 05:39:11 pm
POLITICA IL COMMENTO

Due padri per una sconfitta

di MASSIMO GIANNINI

 
Lo tsunami del 13 aprile sommerge la Capitale. Com'era prevedibile, l'onda lunga della destra italiana travolge anche l'ultima, flebile "resistenza" romana. La vittoria a Sondrio o a Vicenza è un pannicello caldo, che non lenisce ma semmai acuisce la ferita profonda patita dal centrosinistra, prima a livello nazionale e poi, dopo i ballottaggi, a livello locale. Con la trionfale marcia su Roma di Alemanno la sconfitta del Pd diventa disfatta. Una disfatta che non è orfana, ma stavolta ha almeno due padri.

C'è un padre, sul piano della proiezione politica romana. Si chiama Francesco Rutelli. Nonostante l'ottimo passato da sindaco negli ormai lontanissimi anni '90, stavolta Rutelli è stato un handicap, non una risorsa. Non è un giudizio politico, ma numerico. Il candidato alla provincia del Pd Zingaretti, nelle stesse circoscrizioni in cui si votava anche per le comunali, ha ottenuto 731 mila voti contro i 676 mila ottenuti da Rutelli. Vuol dire che quasi 60 mila elettori di centrosinistra, con un ragionato ancorché masochistico calcolo politico, hanno votato "secondo natura" alla provincia, mentre hanno fatto il contrario per il Campidoglio.

Piuttosto che votare l'ex vicepremier del governo Prodi, hanno annullato o lasciato bianca la scheda. In molti casi hanno addirittura votato Alemanno. Dunque, a far montare la "marea nera" della Capitale che ha portato alla vittoria il candidato sindaco del Pdl ha contribuito un'evidente "pregiudiziale Rutelli" a sinistra. Soprattutto nelle aree più radicali. Che magari non ne hanno mai apprezzato "l'equivicinanza" tra le disposizioni della Curia vaticana e le posizioni della cultura laica. E che forse, punendo Rutelli, hanno deciso di dare una lezione al Pd, colpevole di aver "cannibalizzato" la sinistra nel voto nazionale di due settimane fa. Con una campagna elettorale imperniata su un principio giusto (l'autosufficienza dei riformisti) ma declinato nel modo sbagliato (il principale "nemico" è la sinistra). Così Veltroni, salvo che negli ultimissimi giorni, ha finito per perdere di vista il vero avversario, cioè Berlusconi. Adottando nei confronti del Cavaliere una forma di parossistica "pubblicità involontaria", con la trovata non proprio geniale del "principale esponente dello schieramento a noi avverso", ripetuta ossessivamente, fino all'assurdo, e così trasformata in un boomerang .

Di questa disfatta, quindi, c'è un padre anche sul piano della dimensione politica nazionale. Quel padre si chiama Walter Veltroni. Il leader del Pd ha scontato un deficit oggettivo: nella partita sulla sicurezza, determinante nel giudizio degli elettori in tutta Italia e nelle singole città, ha dovuto inseguire il Pdl. E da sempre, in quello che Barbara Spinelli sulla Stampa definisce il "populismo penale", la destra eccelle storicamente sulla sinistra. Semplicemente perché, nella percezione dei cittadini impauriti (giusta o sbagliata che sia) "does it better": può farlo meglio. Ma il leader del Pd ha pagato anche un errore soggettivo: non ha capito che la sfida su Roma avrebbe richiesto un altro "metodo di selezione", più consono all'idea del Partito democratico costruito "dal basso", che gli elettori avevano iniziato a conoscere e ad apprezzare con le primarie.

La candidatura di Rutelli, al contrario, è il frutto dell'ennesima alchimia di laboratorio (o di loft). Una collocazione di "prestigioso ripiego", per un dirigente che è già stato sindaco due volte, che ha corso e perso un'elezione politica nel 2001, che è stato vicepremier nel 2006 e che ora, nel nuovo organigramma del Pd sconfitto il 13 aprile, rischiava di ritrovarsi senza un "posto di lavoro". L'opinione pubblica, di sinistra ma anche di centro e di destra, ne ha tratto la sgradevolissima impressione di una nomenklatura che usa le istituzioni come "sliding doors". Porte girevoli, dalle quali si entra e si esce secondo opportunità pratica personale, e non secondo utilità politica generale.

Ora, sul terreno di questa incipiente Terza Repubblica, per il centrodestra si aprono le verdi vallate del governo nazionale e locale, da Milano a Roma, con la fine di quello che Ilvo Diamanti definisce il "bipolarismo metropolitano". Per il centrosinistra, al contrario, non restano che macerie. Risultati alla mano, è difficile contestare l'irridente sberleffo di uno striscione della destra che, in serata, inneggiava a "Veltroni santo subito", lungo la scalinata del Campidoglio: "Con le primarie ha fatto cadere il governo Prodi. Con le politiche ha cacciato i comunisti dal Parlamento. Candidando Rutelli ha perso Roma".

L'analisi è rozza, ma ha un suo fondamento. Ora il Pd corre un rischio mortale. All'indomani della disfatta, un regolamento di conti al vertice sarà inevitabile. Ma a un anno dalle elezioni europee, nelle quali si voterà con il proporzionale, un possibile ritorno al passato (cioè alla vecchia e agonizzante divisione Ds-Margherita) sarebbe imperdonabile.

(28 aprile 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI. L'ultimo passo della nuova destra
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2008, 09:49:35 pm
POLITICA L'ANALISI

L'ultimo passo della nuova destra

di MASSIMO GIANNINI


UN EX MISSINO eletto e acclamato dall'"aula sorda e grigia" è la fine e l'inizio della nostra "rivoluzione conservatrice".
Con Fini alla presidenza della Camera si chiude il ciclo della costituzionalizzazione reale della vecchia destra italiana, e si apre quello della trasformazione finale della nuova destra berlusconiana.

Il "traghettamento" di An oltre l'abisso del neofascismo di matrice evoliana o almirantiana, benché troppo veloce e tutto sommato neanche troppo doloroso, è infine compiuto e legittimato da un riconoscimento istituzionale. L'uscita dal ghetto (o dalle "fogne", come i missini di allora definivano la loro "alterità", subita ma insieme anche voluta) è definitiva e irreversibile. La pretesa "sfida culturale" del post-fascismo, cioè di quello che nell'89 Piero Ignazi chiamava "il polo escluso", è sostanzialmente vinta, benché non sia costata la giusta ma immensa fatica che è stata invece sistematicamente richiesta al post-comunismo. Di più: ora si riformula quasi come sottintesa "egemonia politica".

Il discorso di Fini a Montecitorio riflette questo passaggio che a suo modo, e senza enfasi, si può effettivamente definire storico. Il leader di An ha fatto di tutto per anestetizzarlo, adottando un profilo di assoluta pragmaticità e rifiutando ogni possibile solennità. Per lui il conto col passato si è chiuso con il lavacro di Fiuggi, nel gennaio del '95. Non ci sono altri peccati da confessare, né altre colpe da espiare. Per lui, a dispetto delle poche croci celtiche appese al collo dei suoi luogotenenti e dei molti saluti a braccio teso del suo "popolo" al Campidoglio, lo "sdoganamento" è avvenuto allora. E da allora lui e i suoi elettori hanno smesso di essere "figli di un dio minore", per diventare quello che sono oggi, per riconoscimento congiunto degli elettori e degli eletti: classe dirigente. C'è del vero in questa rappresentazione, anche se naturalmente la realtà è un po' più complessa. Ma tant'è.

Il passo cruciale che, nelle parole di Fini, testimonia la metamorfosi dalla "destra di lotta" alla "destra di governo" sta ovviamente nel riconoscimento del 25 aprile e del primo maggio come date fondanti della nostra vicenda repubblicana. La Festa della Libertà e la Festa del Lavoro. Due ricorrenze con le quali "si onorano valori condivisi", e sotto le quali si possono seppellire per sempre "le ideologie del '900". Da vecchio presidente di An Fini potrà anche qui rivendicare la piena continuità con le "Tesi politiche" di An del '94, che sotto il titolo "Sciogliere tutti i fasci" (e sia pure attraverso una troppo comoda "liquidazione" contestuale dei valori del fascismo e dell'antifascismo) riconoscevano l'antifascismo come "momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato".

Ma da nuovo presidente della Camera Fini ha fatto uno sforzo ulteriore di ridefinizione identitaria, che non era scontato e va salutato positivamente. Anche se si è ben guardato dal pronunciare le due parole-chiave, Fascismo e Resistenza, senza le quali il 25 aprile è declinato come semplice "Festa di Libertà", senza dire da che né spiegare grazie a chi. Ma in una stagione in cui purtroppo l'antifascismo non porta più voti, come ha inequivocabilmente dimostrato il verdetto delle urne, conviene accontentarsi del buono che passa il Parlamento. In questa chiave gli interventi di Fini ieri, quello di Schifani il giorno prima e lo stesso messaggio di Berlusconi lanciato proprio il 25 aprile segnano un promettente cambiamento di fase, che spiazza e scavalca (una volta tanto al centro) gli editorialisti troppo sprezzanti dei giornali "cognati" e i revisionisti troppo zelanti della ridotta forzista.

Fini, responsabilmente, auspica una "legislatura costituente". L'impianto del suo ragionamento sorregge l'auspicio. Ma il responso del 13 aprile, per la sua indiscutibile nettezza, lo profila in modo assai diverso da come qualcuno, prima del voto e sull'ipotesi di un pareggio, aveva immaginato. Niente larghe intese, niente commistioni di ruoli, niente zone grigie.

C'era chi aveva profetizzato che l'uomo di Arcore avrebbe lasciato a Letta Palazzo Chigi, avrebbe concesso una Camera all'opposizione, avrebbe inventato una nuova Bicamerale o una Commissione Attali. Niente di tutto questo. Il Cavaliere è il dominus, unico e incontrastato sulla scena: ha stravinto le elezioni, si prende tutto e assegna le parti in commedia. E l'apertura al dialogo con il centrosinistra sconfitto non è il cedimento a una logica di pari dignità, ma il proponimento dell'esercizio di una piena sovranità. Tanto è vero che il coinvolgimento del Pd veltroniano (unico interlocutore prima e dopo le elezioni) avviene "a chiamata" e secondo convenienza. Sulla generica necessità di "fare le riforme", o sulla specifica esigenza di riscrivere i regolamenti parlamentari o magari alcune parti della Carta del '48.

La legge elettorale (un'unanime "porcata" solo fino a pochi mesi fa) è già uscita dall'agenda perché questa riforma "l'hanno fatta gli italiani con il loro voto". Di nuovo: c'è del vero in questa rappresentazione, anche se naturalmente la realtà è un po' più complessa. Ma tant'è.

La nuova legislatura, costituente o meno che sia, nasce in effetti all'insegna di uno spirito collaborativo. Andrà dimostrato con i fatti, ma a giudicare dai segnali incrociati che arrivano dai neo-eletti presidenti delle due Camere c'è comunque un bel salto di qualità rispetto al minaccioso "non faremo prigionieri" e a tutti gli altri anatemi guerreschi dei due cicli precedenti, 1994 e 2001. Anche perché, per tornare alla "lunga marcia" che ha portato il delfino di Almirante dai Campi Hobbit a Montesarchio nel '77 fino al soglio della terza carica dello Stato nel 2008, questa apertura di gioco democratico avviene finalmente nel solco della Costituzione.


Anche il tributo che Fini ha reso a Giorgio Napolitano non era preventivamente scontato né banalmente rituale. È il segno che si riconoscono le prerogative del presidente della Repubblica, si apprezza il suo ruolo di garante super partes, si riconosce la sua funzione insostituibile nel bilanciamento dei poteri. La compiuta parlamentarizzazione della destra può coincidere con la condivisa costituzionalizzazione delle riforme. È una buona notizia per la Repubblica italiana.

Com'è una buona notizia, al netto della sterile apologetica patriottarda del Ventennio e della nevrile retorica nazionalista dell'ex Msi, il tributo che Fini ha reso al Tricolore. Nello strano impasto culturale che cementa la nuova destra berlusconiana, l'unità e l'identità della nazione che il leader di An adotta come vessillo diventa allo stesso tempo un presidio istituzionale dentro il governo e un paletto politico dentro la maggioranza. Se si pensa che Umberto Bossi solo due giorni fa ricordava che i fucili della Padania sono sempre caldi, e solo due anni fa invitava a usare la bandiera italiana come carta igienica, si può almeno formulare una speranza: da ieri, forse, abbiamo fatto un altro passo avanti sulla strada della normalizzazione politica. Ora è davvero Terza Repubblica. Difficilmente potrà essere peggiore della Seconda.


(1 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI
Inserito da: Admin - Maggio 14, 2008, 06:37:15 pm
POLITICA IL COMMENTO

Il Cavaliere ecomunenico

di MASSIMO GIANNINI


L'Unto del Signore che invoca in Parlamento "l'aiuto di dio" è la rappresentazione plastica della quarta reincarnazione del leader. È un vezzo culturale da antico presidenzialismo americano, ma è anche il sigillo politico del nuovo "ecumenismo berlusconiano".

Dopo quindici anni di avventura politica vissuta pericolosamente, il Cavaliere che chiede alla Camera la fiducia al suo nuovo governo usa un linguaggio da papa laico, e lancia un messaggio da pontefice repubblicano. Questo giornale non ha mai risparmiato critiche a Silvio Berlusconi, e a tutto quello che di negativo ha rappresentato e di anomalo continua a rappresentare nell'eterna transizione italiana, cominciata e mai finita dopo il terremoto di Tangentopoli.

E continuerà a non risparmiargliele, ora che si accinge a governare per la terza volta il Paese con una maggioranza solida e un esecutivo compatto, che non gli consentono più alibi di sorta. Ma in tutta onestà, nel discorso pronunciato ieri dal premier si farebbe qualche fatica a trovare una nota dissonante nei toni, o un aspetto discordante nei contenuti. Naturalmente ci sarebbe molto da obiettare, sulle questioni di merito che il Cavaliere ha eluso o affrontato in modo poco chiaro o troppo sommario.

Ma specularmente c'è qualcosa da dire, sulle questioni di metodo che invece ha indicato con un'attitudine al confronto (e non più allo scontro) e una disponibilità all'accordo (e non più al conflitto) per lui del tutto ignote.

Dal "tempo nuovo della Repubblica", che deve investire tutte le sue energie sulla crescita, all'"aria nuova" di dialogo politico-istituzionale, da "respirare a pieni polmoni" per arrivare alle riforme condivise necessarie a modernizzare il Paese. Dal superamento delle differenze ideologiche e persino "antropologiche" tra i poli al riconoscimento della funzione politica dell'opposizione e persino del ruolo strutturale suo governo-ombra. Berlusconi inaugura la legislatura con un'apertura di gioco che, se il paragone non suonasse troppo azzardato e per certi versi blasfemo, avrebbe un respiro quasi moroteo.

In quel "nessuno deve sentirsi escluso", e in quella continua chiamata al centrosinistra ad assumersi insieme "le comuni responsabilità", si coglie un'intenzione positiva che va raccolta e gli va rilanciata come sfida per il futuro: se questo è davvero il nuovo spirito bipartisan che anima il presidente del Consiglio, e se questo è davvero lo zeitgeist repubblicano che deve aleggiare sulla legislatura, serviranno molti fatti concreti e non più solo alcune enunciazioni di principio.

Ma intanto, con questo suo discorso quasi "epifanico", il Cavaliere sembra voler dismettere le pessime abitudini di questi anni. L'usufrutto personale dell'istituzione e l'utilizzo congiunturale della Costituzione. Il populismo mediatico al posto del riformismo politico. L'uso plebiscitario del Parlamento e l'abuso proprietario sulla televisione. Tutto questo, a prendere per buone le sue parole, sembra appartenere al passato.

Per la prima volta, dopo una campagna elettorale che erroneamente avevamo giudicato "sotto tono" mentre evidentemente era già l'espressione di un "altro tono", la corsa a Palazzo Chigi non era più l'assalto al Palazzo d'Inverno. E per la prima volta, dopo le rovinose e rissose esperienze del 1994 e del 2001, la guida del governo non è più vissuta come "presa del potere". Non sembra esserci più un "nemico alle porte": un "comunista" da liquidare, una "toga rossa" da cacciare o un sindacalista da combattere.

Con questo "nuovo Berlusconi", sempre che nei prossimi giorni e nei prossimi mesi la realtà non smentisca l'apparenza, la "rivoluzione" sembra farsi istituzione.

Semmai viene da chiedersi dov'era nascosto, in tutti questi anni, il responsabile "uomo di Stato" che abbiamo visto ieri a Montecitorio. Dov'era riposto, mentre si trasfigurava nell'esasperato tribuno che nel 2006 gridava "i magistrati sono un cancro da estirpare", o nel capo-popolo che solo sei mesi fa a piazza San Babila arringava le masse dal predellino di una Mercedes. Certo, si potrebbe rispondere che il "nuovo Berlusconi", dopo il trionfo del 13 aprile, è davvero "stanco di guerra" semplicemente perché ha risolto tutti i problemi che lo convinsero a scendere in campo: ha ormai praticamente definito i suoi guai giudiziari, ed ha anche felicemente risolto i problemi finanziari della sua azienda.

Ma questa, ancorché parzialmente vera, sarebbe comunque una lettura riduttiva del berlusconismo, sia pure declinato nella concezione leaderistica che ha impresso alla nostra democrazia. Resta il fatto che ha plasmato una destra corporata e radicata nel territorio, e ha dimostrato una sintonia profonda e costante con il Paese. Resta il fatto che oggi questa sua "vocazione istituzionale", sorprendente perché sconosciuta, lo proietta quasi naturalmente verso il Quirinale. E questa proiezione spiega forse più di ogni altra cosa le ragioni della sua "offerta" di collaborazione e di condivisione al Pd di Veltroni.

E qui, per il centrosinistra, c'è insieme un'opportunità e un pericolo. L'opportunità è quella di rientrare e di partecipare alla dialettica democratica, dopo una sconfitta elettorale cocente, senza rinchiudersi nella torre d'avorio del riformismo elitario o, peggio ancora, nella pregiudiziale dell'illuminismo minoritario. Il rischio è quello di appiattirsi, per banale debolezza o per becero calcolo, fino a snaturarsi e a far scomparire del tutto l'idea stessa di opposizione, parlamentare e sociale.

Servirà un doppio registro: confronto se possibile, scontro se necessario. Due soli esempi. Il primo, sulle riforme istituzionali: è giusto cercare un'intesa sulla nuova legge elettorale, ma è doveroso combattere un federalismo fiscale che disarticola definitivamente l'unità nazionale e crea una cesura irreparabile tra regioni ricche e regioni povere. Il secondo, sulle leggi ordinarie: non si può votare no a una detassazione degli straordinari e a una cancellazione dell'Ici (solo per una questione di bandiera identitaria o di filibustering parlamentare) se queste misure erano anche nel programma del Pd, ma non si può accettare un pacchetto-sicurezza purchessia (solo per far finta di sedare le ansie legittime dell'opinione pubblica) se scardina i principi giuridici del diritto interno e internazionale.

Oggi più che mai, come spiegava proprio Aldo Moro alla Dc dei primi anni Sessanta, "non bisogna aver paura di avere coraggio". Per il Pd è una buona lezione, nell'era del neo-moroteismo berlusconiano.



(14 maggio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI. Il crepuscolo del diritto
Inserito da: Admin - Giugno 28, 2008, 05:39:52 pm
POLITICA IL COMMENTO

Il crepuscolo del diritto

di MASSIMO GIANNINI


ESISTE una vera e propria vocazione del nostro tempo a vivere senza il diritto. Salvatore Satta, uno dei più grandi giuristi del Novecento italiano, lo scriveva nel novembre del '54, in un ciclo di discorsi poi confluiti nel saggio filosofico "Il mistero del processo". Viene da chiedersi cosa scriverebbe oggi di fronte al Lodo Alfano, col quale Silvio Berlusconi, da quell'insondabile "ossessione processuale" che lo insegue ormai da quindici anni, si sta per sottrarre per sempre.

L'approvazione in Consiglio dei ministri del disegno di legge che sospende i processi a beneficio delle quattro alte cariche dello Stato, per l'ennesima volta, marchia questa legislatura con il fuoco della personalizzazione della norma giuridica e della privatizzazione della cosa pubblica. Poteva essere una legislatura costituente, diventa una legislatura destabilizzante. Qui non c'entrano toghe rosse e pm mozza-orecchi, congiure giacobine e rivoluzioni giustizialiste. È l'improvvisa, convulsa manomissione delle regole messa in atto dal Cavaliere nel giro di due settimane, che dovrebbe far gridare allo scandalo chi ha ancora a cuore la qualità della democrazia, la difesa dei valori repubblicani, la tutela dei principi liberali.

Prima l'emendamento sulla sospensione dei processi, infilato surrettiziamente in un decreto legge in materia di sicurezza. Uno schiaffo multiplo: alle competenze del Capo dello Stato, alle esigenze dei cittadini. Ora il Lodo Alfano. Non è una "legge vergogna" in sé. Ma lo diventa per la genesi delle ragioni con le quali è stata congegnata, e per l'eterogenesi dei fini con la quale è stata approvata. È nata per evitare al presidente del Consiglio di sottoporsi alle ultime tre udienze, e poi alla sentenza, nel processo sul caso Mills, che lo vede imputato per corruzione in tatti giudiziari. È stata spacciata come una norma di "civiltà giuridica", uguale a quella che esiste in altri Paesi europei.

Il merito di questi provvedimenti è discutibile. Il Lodo Alfano è così ambiguo che, al comma 6, non chiarisce in modo netto se l'immunità assicurata al Berlusconi presidente del Consiglio possa "traslare", in corso di legislatura, anche all'ipotesi in cui lui stesso diventi nel frattempo presidente della Repubblica. Ma è soprattutto il metodo che è inaccettabile. Queste non sono misure di economia processuale o di garanzia costituzionale, che il governo in carica approva per venire incontro ai bisogni della collettività. Sono puri e semplici "salvacondotti" individuali, che un premier inquisito introduce a forza nell'ordinamento, per risolvere qui ed ora i suoi problemi.

Nell'irresponsabile corto-circuito tra i poteri dello Stato, con l'esecutivo che usa il legislativo per domare il giudiziario, l'intero corso della vicenda pubblica assume una piega radicalmente diversa. Questo chiama in causa tutti gli attori della scena istituzionale, politica e sociale. Non si tratta di urlare forte ma invano al "fascismo", o di rifugiarsi nel rito rassicurante ma sterile del "girotondismo". Ognuno è chiamato ad esercitare fino in fondo il proprio compito, con realismo e senso di responsabilità. Ma anche con il rispetto doveroso del proprio ruolo, e con la forza necessaria delle proprie convinzioni, maggioritarie o minoritarie che siano.

Nelle istituzioni, il presidente della Repubblica e la Consulta sapranno usare tutta la saggezza, ma anche tutta la fermezza che serve a fronteggiare questi tentativi di ripiegare la vita nazionale su una biografia personale. La Costituzione gli attribuisce quanto basta, per non affidare la tenuta delle regole democratiche solo ai "messaggi in bottiglia" della moral suasion. Nella politica, l'opposizione ha il dovere di battersi fin dai prossimi giorni, in Parlamento, con parole nette e con proposte chiare. Senza improvvisare Aventini inutili o promettere "autunni caldi" improbabili. E soprattutto senza farsi paralizzare, attonita e inconcludente, di fronte al "totem" del dialogo, che ormai rischia di diventare una forma impropria di "ideologia della legislatura".

Il dialogo può essere un utile metodo di governo. Ma ha senso se precipita su un merito, su un oggetto concreto, di volta in volta sviscerato, riveduto, condiviso. Se Berlusconi continua a bastonare il Pd a colpi di Lodo Alfano, ed è lui stesso a dire "con loro non dialogo più perché rappresentano un'opposizione giustizialista", non ha molto senso che Veltroni continui a ribattere che a questo punto "il dialogo è compromesso". Il dialogo su cosa? Il dialogo con chi? Sulla giustizia, se le basi sono queste, molto più semplicemente il dialogo non c'è e non ci può essere. C'è lo scontro aperto, nelle sedi in cui questo è previsto, cioè le aule di Camera e Senato. Se poi tra un mese si avvia un confronto sul federalismo, o si apre un tavolo sulla legge elettorale, allora si valuta il da farsi. Ma intanto questo è lo stato dell'arte.

Quello che stupisce, e che a tratti inquieta, è che dopo la "rivoluzione light" del 13 aprile, e di fronte al vento del mutato Zeitgeist che gonfia le vele del Cavaliere, ci siano tanti, troppi benpensanti disposti a rinunciare alla difesa delle proprie idee. Per il puro e semplice timore di sentirsi fuori dal senso comune prevalente, esclusi dalla nuova "egemonia culturale" dominante. Il fatto oggettivo che "tanto ha già vinto tre volte le elezioni e può rivincerle anche la quarta", non è una ragione valida per turarsi il naso e dire sì al salvacondotto al Cavaliere. Per accodarsi e subire passivamente la lezione quasi eversiva di Giuliano Ferrara, che sul Foglio titola "nessuno lo può giudicare" e attacca "il corteo vociante dei giustizialisti", che avranno pure dalla loro "i commi e i codicilli", ma "hanno perso l'autorità civile per giudicare in nome del popolo italiano chi da quel popolo è stato eletto democraticamente".
L'alba nascente di questo "nuovo potere", autoritario e avvolgente, populista e popolare, non può coincidere con il lento crepuscolo del diritto. Piaccia o no ai sovrani di turno, una democrazia vive anche di quei commi e di quei codicilli.

(28 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI. Intervista al segretario del Pd Walter Veltroni.
Inserito da: Admin - Giugno 29, 2008, 11:56:38 am
POLITICA

Intervista al segretario del Pd Walter Veltroni. "L'Italia sull'orlo del baratro ma ancora una volta chi lo governa si occupa dei suoi problemi personali"
 
"Paese al collasso, dialogo finito" Berlusconi? "Pensa solo a sè"

E nel Pd stop alla costruzione di steccati. "Votati dal 34% perchè andati soli"

di MASSIMO GIANNINI

 

ROMA - "L'Italia vive la crisi più drammatica dal dopoguerra in poi. Berlusconi prende in giro i cittadini, e si occupa solo dei suoi affari personali. Ora basta, il dialogo è finito". Walter Veltroni va all'attacco. Se mai è esistito, il "Caw" è archeologia repubblicana. Tra maggioranza e opposizione è guerra aperta. Il leader del Pd denuncia la "crisi devastante in cui versa il Paese", e punta il dito contro il Cavaliere.

Onorevole Veltroni, da cosa nasce questo suo allarme?
"La crisi ha origini antiche. Ma oggi quello che sconcerta è il capovolgimento delle priorità. L'Italia vive la condizione più drammatica dal dopoguerra. Siamo in piena stagnazione. I consumi crollano: quelli finali sono a -2,3%, a -4% nel Mezzogiorno. Per la prima volta siamo passati dal 6,4 al 7,1% nel tasso di disoccupazione. La produttività è -0,2%, il Pil ristagna al +0,1%. Il Paese è fermo".

Ma è fermo da anni.
"Sì, ma ora si sommano due circostanze. La prima è la sconcertante manovra del governo. Ora che sale la nebbia degli spot, finalmente viene fuori la realtà. C'è una prima novità, devastante: le tasse aumentano, dello 0,2% nel 2010. E nonostante la promessa elettorale sul calo della pressione fiscale sotto il 40% del Pil, nel 2013 arriverà al 42,9%. Poi c'è la seconda notizia, non meno clamorosa: l'esito della famosa Robin Hood Tax. Dei 5 miliardi presi sa quanto va alla famosa carta per i poveri? 290 milioni di euro quest'anno, 17 l'anno prossimo e 17 l'anno successivo. Briciole. Nel frattempo, aumentano di circa 300 euro le spese nelle famiglie: 180 euro per benzina gas e luce, 100 euro per i generi alimentari. Poi c'è una terza notizia: si riduce la spesa per gli investimenti, 10 miliardi in meno da qui al 2011. Vogliono dare le armi ai vigili urbani, vogliono mettere i vigilantes, ma intanto riducono le spese per gli straordinari delle forze di sicurezza: 800 milioni in meno per la polizia, 800 milioni in meno per i carabinieri, e tagliano 150 mila persone nella scuola. Ecco l'Italia vera: sull'orlo del precipizio".

Segretario, non la vede un po' troppo nera?
"Niente affatto. Questa è la fotografia del Paese, attraversato da impoverimento, insicurezza e paura. E la nostra destra che fa? Chiede le impronte dei bambini rom, una cosa che solo a sentirla fa venire i brividi. Vara una manovra che truffa i cittadini. Inventa il reato di immigrazione clandestina, che il premier definisce impraticabile dopo aver firmato il ddl che lo contiene. Inventa la bufala dei mutui, che costa 13 mila euro in più a famiglia. Mette in scena la farsa dei rifiuti, con Bossi e Calderoli che chiedono alle Regioni di prendere i rifiuti. Perché non l'hanno chiesto prima? Anche i rifiuti sono diventati merce elettorale? E infine rilancia le leggi ad personam. Questo, alla fine, genera un'inquietante caduta dello spirito pubblico. Nel momento più drammatico della storia italiana, di cosa stiamo parlando dall'inizio della legislatura? Del decreto per Rete4, della norma sposta-processi, del Lodo Schifani. Lo trovo intollerabile".

Sul Lodo Schifani o Alfano qual è la valutazione del Pd?
"Non do valutazioni finché c'è di mezzo quell'emendamento al decreto sulla sicurezza. Se non si stralcia la norma blocca-processi, non discutiamo del resto. Dopodiché, sul Lodo io chiedo: è la priorità di un'Italia che non sa come arrivare alla fine del mese? E poi aggiungo: c'è bisogno di disciplinare questo tema adesso, in modo così scandalosamente segnato dalla preoccupazione contingente di una delle 4 cariche istituzionali, che vuole una norma per sé e non una norma per la democrazia? E quale principio stabiliamo: un'alta carica dello Stato, che poi magari diventa un'altra alta carica dello Stato, può compiere qualsiasi tipo di reato senza essere perseguibile per un tempo illimitato? No, a tutto questo io dico no. Se c'è un'esigenza di garanzia generale, allora studiamo pure una norma. Ma intanto come disegno di legge costituzionale, e poi la facciamo scattare dalla prossima legislatura. Così si fa, nelle democrazie europee".

Quindi su questo in Parlamento sarà battaglia?
"Sarà battaglia su questo, ma sarà battaglia su tutto. Noi vogliamo combattere per ristabilire una gerarchia delle priorità. Qui di urgente non ci sono i decreti salva-processi del premier, ma i disagi di milioni di italiani. Per questo voglio la grande manifestazione d'autunno".

Di Pietro, dal quale siete sempre più divisi, obietta: se c'è davvero l'emergenza democratica, è ridicolo aspettare l'autunno.
"Ho parlato dell'autunno perché su alcune questioni sociali, che Di Pietro non sa neanche dove stiano di casa, sarà quello il momento più critico. Detto questo non mi spaventa avere idee diverse su come fare opposizione. Io non vivo col problema che c'è uno che urla più di me, perché sono un riformista e so che per un riformista c'è sempre uno che urla più di te. Ma so anche che quelle urla poi si perdono nell'aria. E so che quelli che alla fine cambiano davvero le cose sono i riformisti. Vivere con la paura del nemico a sinistra è qualcosa di cui ci dobbiamo liberare per sempre".

Ma di fronte a Berlusconi che continua a bastonarvi ha senso continuare a restare appesi al "dialogo", come fosse la nuova ideologia della legislatura?
"Lei ha ragione. Il dialogo ha senso solo se dà risultati concreti. Secondo un sondaggio Ipsos, il 71% degli italiani è favorevole al dialogo tra maggioranza e opposizione, purché risolva i problemi. È questo, oggi, che è venuto meno. Berlusconi, alla Camera il primo giorno, ha parlato di un clima nuovo nei rapporti tra maggioranza e opposizione. Io prudentemente risposi "vedremo se alle parole corrisponderanno i fatti". Oggi rivendico la giustezza di quella scelta: pensi che regalo sarebbe stato per Berlusconi, se di fronte alle sue aperture l'opposizione avesse detto: no, io con te non ci parlo perché sei Berlusconi. Sarebbe stato il suo alibi perfetto. Invece noi abbiamo detto: se c'è la disponibilità a fare riforme istituzionali nell'interesse del paese noi siamo pronti. Nessuno può dire che noi abbiamo avuto un atteggiamento pregiudiziale. Ma proprio per questo oggi possiamo avere la libertà totale di dare i giudizi più severi sull'operato del premier".

Ma in queste condizioni ha ancora senso, il dialogo?
"No. In queste condizioni il dialogo è finito. È finito perché loro non sono in grado di votare un presidente della commissione di vigilanza se non facendo trattative che noi non facciamo. È finito perché loro sanno procedere solo per strappi, come hanno fatto sulla giustizia. È finito perché Berlusconi è tornato ad essere ciò che è...".

Il Caimano?
"Non ho mai dato giudizi personali e continuo a non darli. Mi limito a osservare che il modo in cui Berlusconi ha condotto la campagna elettorale, e poi le cose che ha detto in Parlamento, e poi quelle che sta facendo ora, sono una somma di doppiezze, indistinguibili e inconciliabili. E sono una somma zero per il Paese".

Lei boccia legittimamente il governo, ma parla come se nel Pd fossero tutte rose e fiori. In realtà, dalla sconfitta del 13 aprile, non le pare che siate usciti confusi, sfibrati, divisi?
"Ho già detto che la sconfitta c'è stata, ed è stata dura. Ma oggi, a chi accusa dall'interno il gruppo dirigente, rispondo citando Roberto D'Alimonte sul "Sole 24 Ore". Il risultato delle elezioni non poteva essere un punto d'arrivo, ma solo un punto di partenza. Come tale, è stato tutto sommato un buon risultato, ottenuto in condizioni difficili, su cui si può costruire con pazienza, intelligenza e umiltà. Invece quello che appare oggi è un partito ripiegato su se stesso. Eppure, rispetto alle elezioni che avevamo vinto per modo di dire nel 2006, al Senato noi siamo cresciuti del 6%, alla Camera del 2%. Abbiamo il 34% dei voti, cioè siamo agli stessi livelli del Labour in Inghilterra, dell'Spd in Germania, dei socialdemocratici in Svezia".

Verissimo. Ma il Pd resta minoranza nel Paese. E ora oscilla paurosamente sulle alleanze.
"Sa perché abbiamo preso quel 34%? Perché siamo andati liberi, ed è una scelta di cui mi piace assumermi fino in fondo la responsabilità. L'Unione era un'esperienza finita, forse già prima del voto del 2006. Oggi c'è qualcuno che ha nostalgia con quelle riunioni di maggioranza con tredici partiti? Se c'è lo dica, si faccia avanti".

C'è chi le obietta: andare da soli non vuol dire coltivare il mito dell'autosufficienza.
"Questo è un vizio da vecchia politica politicante: attribuire agli altri una posizione che non hanno, per poi poter polemizzare. Io non sono contro le alleanze a priori, ma ho sempre detto, e lo ripeto oggi, che l'alleanza si fa sui programmi, sulle scelte concrete. Quindi, dalla sinistra radicale a Casini, va bene tutto quello che è convergenza di programma. Ma ferma restando l'idea di fondo: mai più l'unione, che è la principale contraddizione rispetto all'Ulivo. Mai più partiti di lotta e di governo. Quella roba il Paese non la sopporta più".

Sia sincero. Non coglie segnali di malessere dentro il Pd? Ci sarà un motivo se "Europa" definisce l'ultima assemblea costituente "un funerale di prima classe"?
"Un segnale di malessere è il fatto che la nostra gente non è contenta di vedere che nel Pd si vanno costruendo recinti e steccati che non dovrebbero esistere. Abbiamo convocato per la terza volta in sei mesi un congresso, perché quando un'assemblea costituente riunisce 2800 persone è come fosse un congresso. Ditemi: quale partito italiano o europeo ha una vita democratica di questa dimensione? E perché la stessa critica non viene fatta ad An, o a Forza Italia? Non si dovevano sciogliere nel Popolo della libertà? La nostra forza, la forza del Pd, sta nell'essere capaci di riconoscere un pluralismo interno di idee, non di strutture. Un pluralismo di contributi intellettuali e di valori, non di casematte organizzate".

La dica pure, la parola maledetta: correnti. Le Fondazioni non sono correnti? La dalemiana Red non è una corrente?
"Non lo so, non me ne occupo. Io non faccio correnti, perché la mia unica "corrente" è il popolo del Pd, sono quei 3 milioni e mezzo di cittadini che hanno votato alle primarie".

E di Parisi che la invita a dimettersi cosa mi dice?
"Ho stima intellettuale per Parisi. Ma provo nei suoi confronti una delusione umana. Mi sarebbe molto piaciuto che estraesse il suo dardo fiammeggiante nel momento in cui Prodi dopo la vittoria del 2006 fu assediato dai partiti, che lo costrinsero a fare un governo di cento persone. Allora mi sarebbe piaciuto che Arturo si alzasse in piedi e dicesse "se è così io non ci sto". Ma non l'ha detto".

Nel Pd c'è chi dice: se vanno male le europee del 2009 Veltroni è finito. E c'è persino chi pensa che lei potrebbe crollare prima. Cosa risponde?
"Rispondo che fa sempre più rumore un albero che cade, piuttosto che la foresta che cresce. Io mi occupo di far crescere la foresta. Gli altri, se vogliono, si occupino di logorare me e il Pd in previsione delle europee. Io farò il contrario. Lavorerò per preparare, fin dal prossimo autunno, l'alternativa forte e credibile a un governo che sta portando l'Italia al collasso. La luna di miele tra Berlusconi e il Paese sta finendo. Tocca a noi proporre alla gente un'altra idea dell'Italia".

(29 giugno 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI. La fine del dialoghismo
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2008, 05:23:24 pm
POLITICA

IL COMMENTO

La fine del dialoghismo

di MASSIMO GIANNINI

 

CHE SIANO l'espressione post-moderna delle vecchie "correnti" di partito, o la rappresentazione pre-politica delle nuove "casematte" del potere, dobbiamo essere grati alle Fondazioni del centrosinistra. Il convegno di ieri è servito a dimostrare due cose. La prima: il dialogo è morto. La seconda: il Pd non si sente molto bene.

1) La morte del dialogo l'ha annunciata pubblicamente Fabrizio Cicchitto, plenipotenziario di Berlusconi: sul sistema elettorale alla tedesca non c'è alcun margine di manovra. Al partito del premier quel modello non interessa affatto. È inutile affannarsi sui manuali di diritto costituzionale comparato: ancorché non del tutto inviso alla Lega, un ritorno al proporzionale è inviso al Pdl. Dunque, qui ed ora non è proprio nel novero delle cose possibili. Così a Veltroni non è rimasto altro da fare, se non decretare ufficialmente l'avvenuto decesso del famoso e fumoso dialogo tra centrodestra e centrosinistra. È una cattiva notizia per il Paese, perché quella che era stata annunciata come una possibile legislatura costituente per i due poli si sta rivelando un'avventura destabilizzante per le istituzioni.

Ma almeno si fa piazza pulita, una volta per tutte, di un colossale equivoco, che rischiava di trasformare l'iniziale "luna di miele" del Cavaliere con un bel pezzo d'Italia e con una bella fetta di Parlamento in una "luna di melassa" in cui si mescolavano i ruoli, si confondevano gli obiettivi, si snaturavano i valori. Il dialogo era diventato un mantra indiscutibile. Un totem intoccabile. Una variabile indipendente: dai soggetti e dai luoghi, dalle forme e soprattutto dai contenuti. Insomma: generato direttamente dal combinato disposto del bipolarismo conflittuale della passata stagione politica e dal conformismo post-ideologico di quella appena avviata, il dialogo era ormai assurto a nuova "ideologia della legislatura": il "dialoghismo". Un valore in sé, retorico e artificioso, che produceva e si riproduceva in una bolla di consenso vacuo e privo di ricadute pratiche. Come nella rivoluzione, anche per il trionfo del dialogo è essenziale che il dialogo non abbia mai successo.
Ma il dialogo, in realtà, è solo un possibile metodo di governo, funzionale alla soluzione dei problemi di interesse generale. Richiede una disciplina comune, una legittimazione reciproca, una responsabilità speculare. Se si decide di adottarlo, il metodo si pratica, sempre e in modo sistematico, quando in ballo ci sono le regole del gioco democratico da riscrivere insieme. Purtroppo non è questa la "declinazione" che ne hanno dato il presidente del Consiglio e la sua coalizione. Lo hanno usato, alternativamente, ora come strumento di difesa di se stessi, ora come arma di offesa contro l'opposizione. Lo hanno attivato, strumentalmente, come formula "a chiamata", come il job on call della legge Biagi. Sulla giustizia, sulla norma blocca-processi, sul lodo Alfano, prima o poi sul Csm, Berlusconi non vuole e non chiede alcun contributo al centrosinistra. Procede imperterrito, a colpi di mano e a botte di fiducia. La stessa cosa fa sul decreto-sicurezza o sulle impronte per i bimbi rom. Sulla legge elettorale, sui regolamenti parlamentari, sul federalismo, prima o poi sul presidenzialismo, semina invece il suo cammino di ipotetici appelli alla condivisione e di apparenti richieste di collaborazione.

L'opposizione gli va dietro. E puntualmente scopre che il "sentiero" del dialogo indicato dal Cavaliere è in realtà disseminato solo di trappole. Cicchitto uccide in culla il modello tedesco sulla riforma elettorale. Maroni annuncia che il Pdl farà da solo sulla riforma federale.
A questo punto, il centrosinistra non può non prenderne atto, e imboccare finalmente una strada diversa. Che non è quella della "subcultura" grillista-dipietrista di Piazza Navona. Ma non è neanche quella che vuole il principale partito d'opposizione davvero svilito, a tratti, al ruolo di "corpo diplomatico". Incosciente della sua identità, e quindi sempre troppo timido sulle risposte da dare alla destra. Inconsapevole della sua funzione, e dunque sempre troppo disponibile alla "chiamata" di comodo del Cavaliere. Ora almeno questo gioco, ambiguo e improduttivo, finisce. Si dialoga se c'è un "oggetto". In caso contrario si tace. O ci si scontra, com'è normale e fisiologico in ogni democrazia.

2) La malattia del Pd è stata certificata, ancora una volta, dalle visioni politiche radicalmente opposte e apparentemente inconciliabili di Veltroni e D'Alema. La diversa proposta sul modello elettorale, che il primo vuole tuttora ancorato all'esempio maggioritario, e che il secondo vede sempre legato all'esperienza proporzionale, nasconde una diversa lettura del destino del Partito democratico. Veltroni resta fedele all'ideale di un bipartitismo imperfetto, nel quale il sistema francese esalta la vocazione maggioritaria del Pd, lo consolida nella sua autosufficienza riformista, e lo salva per sempre dall'abbraccio mortale con la sinistra massimalista. D'Alema resta affezionato all'idea che questo bipolarismo non funzioni, e vede nell'introduzione del sistema tedesco il possibile passepartout per riaprire al Pd la porta delle alleanze, ricucendo i vecchi rapporti con le sinistre antagoniste (da Bertinotti ai Verdi) e soprattutto saldando un nuovo asse con il centro cattolico (da Casini a Pezzotta).

Ma anche sul tema dei rapporti con il centrodestra la dissonanza è sconcertante. Prima delle elezioni Veltroni sedeva al tavolo con Berlusconi, e D'Alema dietro le quinte inorridiva di fronte ai primi vagiti di un improbabile "Veltrusconi". Oggi i ruoli si sono invertiti. D'Alema cerca di non rompere l'esile filo del confronto con la maggioranza (anche a costo di farsi dare dell'inciucista e di non criminalizzare a priori l'ipotesi di una "grande coalizione") mentre è Veltroni a dire no grazie, con questo premier non si può. E intorno ai duellanti, si agitano le mine vaganti. Da Francesco Rutelli, che continua a schiumare rabbia per la sconfitta di Roma, ad Arturo Parisi, che continua a sparare comunque sul quartier generale.

Non è un bello spettacolo, quello che si recita tra le macerie del loft. Quello che è peggio, è che la battaglia tra i leader si combatte o sul terreno spurio delle fondazioni culturali, o nel chiuso dei corridoi e dei caminetti. Se l'irriducibilità delle posizioni non è ricomponibile, allora sarebbe quasi più opportuna la resa dei conti, alla luce del sole di un vero congresso. Ad ogni modo, qualunque cosa è meglio di questo lento logoramento. Questo Berlusconi autoproclamato sovrano, sempre più minaccioso e rutilante, meriterebbe una risposta unitaria. Questo centrodestra di cortigiani silenziosi e obbedienti, sempre più piegati al "centralismo carismatico" dominate, richiederebbe un'alternativa seria. Su internet circola uno slogan: "Errore di sistema, riavvia il Pd". Forse è proprio quello che serve.

(15 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI. Rischio-Italia sui mercati
Inserito da: Admin - Luglio 25, 2008, 11:19:47 pm
ECONOMIA IL COMMENTO

Rischio-Italia sui mercati

DI MASSIMO GIANNINI



I CITTADINI tedeschi sono preoccupati.

L'indice Ifo sulla fiducia delle imprese è crollato ai livelli più bassi dall'11 settembre, e la cancelliera Angela Merkel li ha informati che la Germania non riuscirà ad evitare la "tempesta perfetta" che sta sconvolgendo l'economia finanziaria, e che nel 2009 produrrà i suoi effetti negativi sull'economia reale: la crescita di quest'anno non raggiungerà l'obiettivo del 2,2%.

Cosa dovrebbero dire i cittadini italiani, che di fronte al "disaster capitalism" celebrato da Naomi Klein si ritrovano con un indice Isae sulla fiducia delle imprese già ai livelli peggiori dal 2001 e con un Prodotto lordo a crescita zero? La manovra approvata dalla Camera non può confortarli. Dispone la "quantità" del risanamento, ma non propone la "qualità" dello sviluppo.

C'è un "caso Europa", che ormai non si può più sottovalutare. Lehman Brothers parla per la prima volta di rischio-recessione nell'Eurozona. Ma da qualche settimana sui mercati c'è anche un "caso Italia", che ormai non si può più nascondere.

Il Bollettino economico della Banca d'Italia aveva registrato, tra l'inizio di aprile e i primi giorni di luglio, una riduzione del premio di rischio sui titoli italiani. Il differenziale di rendimento tra le obbligazioni emesse da società non finanziarie con elevato merito di credito e i titoli di Stato era sceso di 0,3 punti percentuali, un calo addirittura maggiore di quello registrato dagli emittenti di altri Peasi europei. Ma nelle ultime due settimane lo spread tra i nostri Bpt decennali e i Bund tedeschi ha ripreso impercettibilmente ma inesorabilmente a crescere, tra i 50 e i 60 punti base.

In un mercato già di per sé volatile, gli operatori internazionali non si fidano di un Paese che non sembra in grado di risolvere i suoi problemi, endemici e sistemici, già ricordati da Mario Draghi nella sua audizione in Parlamento il 2 luglio scorso: indebitamento strutturale in aumento (più 0,6% al netto delle una tantum), spesa corrente in tensione (per la prima volta oltre il 40% del Pil), produttività in caduta libera (nel privato e soprattutto nel pubblico impiego), costo del lavoro per unità di prodotto in ascesa costante (più 4,5% tra inizio 2007 e primo trimestre 2008).

Ma c'è un altro termometro, che riflette con inquietudine crescente il grafico della "febbre italiana" di queste settimane. È il prezzo dei "Credit default swap", cioè le polizze di assicurazione sottoscritte dagli investitori che vogliono ricoprirsi dai rischi di insolvenza sui titoli obbligazionari emessi da un Paese.

Nel mese di luglio, sui mercati, il costo dei "Cds" nell'Eurozona è schizzato alle stelle per tutti i bond messi in circolazione dagli Stati con i tassi di crescita più bassi, le finanze pubbliche più critiche e i sistemi bancari più esposti. Dal 5 giugno scorso, giorno dell'allarme inflazione lanciato dal presidente della Banca centrale europea Trichet, assicurare un pacchetto di titoli di debito italiani del valore di 10 milioni di euro costa 15 mila euro in più.

Peggio dell'Italia, tra i 15 di Eurolandia, va solo la Grecia, con un "rincaro" di 16 mila euro, mentre vanno un po' meglio il Portogallo (più 14 mila euro), la Spagna (più 13 mila euro) e l'Irlanda (più 10 mila euro). A reggere l'urto restano solo la Germania (con un aumento di mille euro) e in parte la Francia (più 3 mila euro).

Cosa significa tutto questo? Il nostro Paese, suo malgrado, è tornato ad essere un sorvegliato speciale in Europa. È l'anello debole di una catena che non si può più spezzare (è irrealistica l'ipotesi che l'Italia esca dal sistema monetario europeo) ma che ci può soffocare (ogni aumento dei tassi di interesse deciso dalla banca centrale aumenta il costo già esponenziale del nostro debito pubblico).

L'euro ci ha salvato, come ripete Lorenzo Bini Smaghi: "Se non fossimo nella moneta unica - secondo il membro italiano del board della Bce - oggi ci ritroveremmo nel baratro in cui cademmo nel 1992". Ma l'ombrello dell'euro non può bastare. Per questo la manovra economica triennale che da oggi passa all'esame del Senato è palesemente deficitaria, come denunciato dal governatore di Via Nazionale. Nel primo anno ruota tutta intorno agli aumenti delle entrate, e nei due anni successivi si affida a un piano di riduzione delle spese quasi interamente affidato al conto capitale (cioè agli investimenti), agli enti locali (che saranno costretti a ridurre il perimetro del Welfare) e ai ministeri (che di perdere il "portafoglio" non ne vogliono sapere).

La nave europea non va. E noi siamo, ancora una volta, la zavorra. Lo dice oggi il Fondo monetario, che ha appena rivisto il suo outlook. Lo dirà il 7 agosto la stessa Bce, nell'ultimo consiglio prima delle vacanze. L'"allerta" sull'Italia e sull'impennata dei premi sui suoi "Credit default swap" non è un complotto delle tecnocrazie senza popolo. È nei fatti: lo ha lanciato il Financial Times tre giorni fa. Il "warning" della bibbia del capitalismo finanziario internazionale è caduto nell'indifferenza generale.

Si capisce che nel governo nessuno raccolga questi segnali. Berlusconi considera la magistratura "un cancro da estirpare", e ovviamente è troppo preso dalla sua rituale "caccia alle toghe". Tremonti giudica la speculazione "una peste del XXI secolo", e naturalmente è troppo impegnato nella sua virtuale "caccia agli untori". Ma i mercati globali sanno valutare i pericoli. Le istituzioni finanziarie sanno giudicare le politiche. Sarà banale, ma mai come stavolta si può dire che chi semina vento raccoglierà tempesta.

(25 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'ultimo insulto a Napolitano
Inserito da: Admin - Luglio 27, 2008, 03:43:45 pm
POLITICA

IL CASO

L'ultimo insulto a Napolitano


di MASSIMO GIANNINI


Un destino ineluttabile accomuna i presidenti della Repubblica che hanno avuto la ventura di condividere la difficile "coabitazione" istituzionale con un premier come Berlusconi. Per un pezzo d'Italia che considera il Cavaliere un «golpista», e non un presidente del Consiglio scelto democraticamente dai cittadini attraverso il sacro rito repubblicano delle libere elezioni, gli inquilini del Quirinale non fanno mai abbastanza per combattere o abbattere il Tiranno. È toccato a Carlo Azeglio Ciampi, che nonostante abbia bocciato e rinviato alle Camere le due leggi più politicamente «sensibili» della seconda legislatura dell'uomo di Arcore (la riforma delle tv e la riforma dell'ordinamento giudiziario) ha subìto più di un assedio dagli estremisti del girotondismo e patito più di un'accusa dai professionisti dell'antiberlusconismo. Oggi tocca a Giorgio Napolitano, che nonostante l'impeccabile gestione dei passaggi più delicati dell'innaturale metamorfosi del bipolarismo italiano (la crisi del governo Prodi, il fallimento delle riforma elettorale e l'avvento del terzo governo Berlusconi) subisce i soliti strattoni da un'opposizione di palazzo che non si rassegna alla sconfitta e pretende il sovvertimento dei principi della sovranità parlamentare. E patisce le offese da un'opposizione di piazza che non conosce le regole ed esige la battaglia tra le istituzioni al di fuori dei paletti dell'architettura costituzionale.

L'offensiva è partita con il «vaffa-day» grillista dell'8 luglio, che ha preso a pretesto (giusto) le leggi-canaglia del premier per sviluppare una forsennata (e insensata) batteria di «fuoco amico»: contro il Pd, contro Veltroni, e soprattutto contro il Quirinale. Poi è toccato a Di Pietro, che ha cavalcato Piazza Navona con una disinvoltura a dir poco irresponsabile, all'insegna del nuovo motto consolatorio e pre-rivoluzionario: «Il regime non passerà!». Poi è stata la volta dell'Unità, che sia pure con tutto il garbo possibile ha spiegato comunque al capo dello Stato che promulgare la legge sulle immunità delle quattro alte cariche dello Stato è come apporre la firma su quello che Guido Carli, in altri tempi, avrebbe chiamato un «atto sedizioso». Infine, in un crescendo di qualunquismo e di pressappochismo, è Beppe Grillo a tornare sul «luogo del delitto». E stavolta non con la critica politica, ma con l'insulto personale.

«Napolitano è in salute?», si chiede il nuovo Torquemada della mediocrazia italiana sul suo blog. Si fa la domanda, e si dà la risposta. «La salute può essere l'unica giustificazione del suo comportamento. Vorrei essere rassicurato se è in grado di esercitare ancora il suo incarico e per quanto tempo. Se possibile disporre della sua cartella sanitaria...». Sono parole che si commentano da sole. E non meriterebbero neanche una replica. Dopo la manifestazione dell´8 luglio avevamo parlato di "subcultura", suscitando su Internet la reazione sdegnata dei grillisti. Di fronte alla nuova invettiva del Grande Imbonitore, non sapremmo trovare una definizione migliore. Ma una replica s'impone, perché queste parole riflettono una malattia diffusa, che è nata in una certa destra ma ormai sembrano attecchita anche in una certa sinistra: l'uso congiunturale della Costituzione e l'abuso conflittuale delle istituzioni. Nel caso di specie (il lodo Alfano) Napolitano ha fatto il suo dovere. Ha firmato una legge varata dal Parlamento. Poteva respingerla, se vi fossero emerse antinomie palesi e profili di manifesta incostituzionalità (combinato disposto degli articoli 74 e 87 della Carta fondamentale). Ma nella legge sull'immunità queste «falle» pregiudiziali non compaiono. Il governo ha persino recepito alcuni rilievi con i quali la Corte costituzionale aveva decretato nel gennaio 2004 l'illegittimità dell'analogo Lodo Schifani.

Vogliamo rassicurare Grillo e i grillisti: il presidente della Repubblica non solo è in ottima salute sul piano fisico e mentale, ma è anche in perfetta forma sul piano politico e istituzionale. I militanti del «vaffa» dovrebbero sapere che Napolitano non è Sarkozy o Bush e che il nostro capo dello Stato non può prevaricare le Camere, senza trasformare la repubblica parlamentare in regime presidenziale. E dovrebbero sapere che il sindacato definitivo sulla costituzionalità delle leggi non spetta al Quirinale, ma compete invece alla Consulta. Non capire tutto questo, e continuare a sparare a casaccio sul Quartier Generale, per certa sinistra barricadera è un errore uguale e contrario a quello che sta compiendo la destra egemone. È un altro modo per snaturare la dialettica democratica, e per alterare il fisiologico bilanciamento dei poteri.

La critica al Colle non configura di per sé un reato di «lesa maestà». Ma andrebbe per lo meno ben motivata, e ben argomentata. A chi giova, invece, l'ingiuria gratuita? A chi conviene trascinare anche Napolitano dentro la palude indistinta del senso comune dominante, dove tutto è sempre e solo «casta», dove si annacquano i distinguo e si accorciano le distanze, dove tutti sono uguali e ugualmente meritevoli di sberleffo satirico, di disprezzo pubblico, di condanna morale? La vera, subdola insidia del berlusconismo, l'ossimoro della «rivoluzione istituzionale» che incarna, la deriva di «autoritarismo plebiscitario» che rappresenta, meritano risposte diverse, più forti e più alte. E regalare Napolitano al solo Popolo delle Libertà, invece che lasciarlo a rappresentare tutto il popolo italiano, non è solo un clamoroso svarione tattico, ma è anche e soprattutto un rovinoso errore politico.

(26 luglio 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Un paio di domande al ministro Tremonti
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2008, 09:06:08 am
POLITICA

Un paio di domande al ministro Tremonti

di MASSIMO GIANNINI
 

 
Zygmunt Bauman, nel suo magnifico saggio sulla "Solitudine del cittadino globale", sostiene che nelle società moderne, con il passaggio del controllo sui fattori economici dalle istituzioni rappresentative di governo al libero gioco delle forze di mercato, i ministri dell'economia sono ormai sempre più simili a "cimeli". Icone simboliche di un "centralismo statuale" che non esiste più.

La riflessione torna utile per ragionare su quanto sta accadendo in Italia, a proposito del federalismo fiscale.

Dal giugno scorso il ministro dell'Economia Giulio Tremonti l'ha presentato giustamente come la "madre di tutte le riforme". Una progetto "ad alta intensità politica", sul quale misurare la capacità congiunta di maggioranza e opposizione a trovare larghe intese al servizio del bene collettivo, non dell'interesse particolare.

Ora il nuovo testo della legge delega sul federalismo fiscale ha visto finalmente la luce. Come ha scritto ieri su questo giornale Massimo Riva, si qualifica soprattutto per una clamorosa sorpresa.

Riconosce l'autonomia impositiva ai comuni, attraverso la "razionalizzazione dell'imposizione immobiliare, compresa quella sui trasferimenti della proprietà e di altri diritti reali". Fuori dal burocratese: reintroduce l'Ici, l'imposta comunale sugli immobili che il governo di centrodestra aveva cancellato per tutti i contribuenti con la prima casa, onorando una promessa elettorale di Berlusconi. Nessuno scandalo. E accaduto l'inevitabile.

Il federalismo fiscale si riprende con una mano quello che il governo centrale aveva tolto con l'altra. E la spiegazione è semplice, e una volta tanto davvero bipartisan. I sindaci del Pdl e del Pd si sono ritrovati sulla stessa linea. L'imposizione sugli immobili rappresenta storicamente la prima fonte di incasso per gli enti locali: 42,8 miliardi di euro, di cui solo l'Ici rappresenta il 26% in termini di gettito. Se gli togli quella fonte di entrata, i comuni muoiono. Era chiaro a tutti, fin dall'inizio. Ma il Cavaliere ha voluto onorare comunque il suo patto con gli italiani, stabilendo che il primo atto del suo governo fosse proprio la soppressione definitiva dell'Ici. Ora ha capito che quella promessa, politicamente spendibile, è tecnicamente inesigibile.

E così, con il pretesto della riforma federale, risarcisce i comuni ma tradisce i contribuenti. L'errore non è tanto nella retromarcia di oggi, ma nella fuga in avanti di ieri. Ma qui veniamo al ruolo e alla responsabilità del ministro dell'Economia. Lui è il vero "dominus" di questa partita, perché politicamente ha avuto il merito di lanciare il federalismo come laboratorio di sintesi tra centrodestra e centrosinistra, e perché contabilmente ha ora il compito di indicare le cifre di gettito da devolvere agli enti locali e quelle da indirizzare allo Stato centrale.

Di fronte all'inganno della nuova Ici, e all'impianto fiscalmente instabile e costituzionalmente discutibile del federalismo, vorremmo rivolgere almeno un paio di rispettose domande a Giulio Tremonti, che su questo come su altri temi spinosi (vedi Alitalia) tace ormai da troppi giorni.

Prima domanda. Il federalismo fiscale è un obiettivo sul quale convergono tutte le forze presenti in Parlamento, ma ora stanno venendo al pettine i nodi veri del progetto: i fondi perequativi per le aree più svantaggiate, e soprattutto i costi dell'operazione. Avevamo capito che una delle colonne portanti del nuovo disegno federale sarebbe stata la clausola di salvaguardia sull'invarianza degli oneri a carico dello Stato, e soprattutto sull'invarianza della pressione fiscale a carico dei cittadini.

Ebbene, signor ministro: come si concilia questo obiettivo con la reintroduzione surrettizia dell'Ici, e di altre forme di tassazione sulle proprietà immobiliari? Perché anche sul federalismo dobbiamo scoprire a posteriori il trucco che c'è ma non si vede, con le tasse che aumenteranno invece che diminuire, come è già accaduto con la presentazione del Documento di programmazione Economica di luglio?

Seconda domanda. In campagna elettorale il leader del Popolo delle libertà aveva fatto anche altre suggestive promesse, fiscali e para-fiscali. Una di queste era la soppressione delle province. Eravamo in pieno rigurgito populista contro le "caste": quale impegno più sensato, se non quello di eliminare un ente locale che nella migliore delle ipotesi duplica funzioni già assorbite da comuni e regioni, e nella peggiore brucia risorse per tenere in piedi piccole consorterie di sottogoverno?

Un'altra promessa era la soppressione del bollo auto. Eravamo in pieno raid petrolifero, con il prezzo della benzina in corsa prolungata: quale impegno più giusto, se non quello di eliminare un iniquo e odioso balzello, su uno dei beni "più amati dagli italiani"? Ebbene, signor ministro: come mai nel testo del federalismo fiscale si parla, proprio in favore delle province, di "razionalizzazione dell'imposizione fiscale relativa agli auotoveicoli e alle accise sulla benzina e il petrolio"?

Che vuol dire, in italiano? Forse significa che invece di eliminare le province e cancellare il bollo auto (come promesso prima del 13 aprile) il governo compie il capolavoro di salvare capra e cavoli, attribuendo alle prime il gettito del secondo? E se è così, come dobbiamo giudicare questo paradossale artificio, se non l'ennesimo inganno ai danni degli elettori?
Non sappiamo se Tremonti ci risponderà. Ma poiché sappiamo che non è e non si sente affatto un "cimelio", secondo la felice definizione di Bauman, confidiamo che qualche spiegazione, prima o poi, possa e debba darla agli italiani.


(6 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'ultimo valore
Inserito da: Admin - Settembre 11, 2008, 07:23:03 pm
Riporto da " la Repubblica "


L'ultimo valore
di MASSIMO GIANNINI


Se occorreva una lettura alta e forte del "sommario di decomposizione" politica, civile e culturale che l'Italia sta vivendo in questo tempo di egemonia della "nuova destra", quella di Giorgio Napolitano non poteva essere più vera, anche se più amara. In quale altro Paese d'Europa un Capo dello Stato è costretto ad ammettere che non tutti gli italiani "si identificano nella Costituzione repubblicana"? Forse solo nei Balcani.

C'è un pezzo di destra berlusconiana, priva di retaggi ideali e di ancoraggi politici con la grande tradizione liberal-conservatrice dell'Occidente, che concepisce la politica come epifania personale, e non come servizio reso al Paese nel rispetto dei suoi valori fondativi. C'è un pezzo di destra post-fascista, non rassegnata a spegnere la fiamma dentro il mare indistinto del popolarismo europeo, che rifiuta una memoria condivisa della storia perché coltiva un'altra idea della democrazia. C'è un pezzo di destra leghista, non rassegnata a declinare la devolution come federalismo solidale, che rifiuta il primato della Repubblica perché insegue la primazia della Padania.

Per questa Italia la prima parte della Costituzione è quasi un "relitto". Con quel suo carico di diritti pre-moderni (l'uguaglianza, l'equità, la solidarietà, il lavoro...) che imbrigliano l'economia e imbrogliano i cittadini. "Costituzione sovietica": non la definisce così il Cavaliere? La seconda parte è quasi un "delitto". Con quel suo apparato di bilanciamenti istituzionali (il ruolo del Parlamento, le prerogative del Capo dello Stato, l'autonomia della magistratura) che minano il potere politico e minacciano il potere esecutivo. Non è per questo che, sempre per il Cavaliere, si rende necessario il presidenzialismo e si deve "riformare" il Csm? È grave questo uso spregiativo della Costituzione. Ma ancora più grave è che, secondo il falso spirito "modernizzatore" dominante, si vuol far passare per arcaico (e dunque politicamente irrilevante) anche chi la Costituzione la invoca e la difende. Per questo dobbiamo essere grati, una volta di più, a Giorgio Napolitano.

(11 settembre 2008) "


Titolo: MASSIMO GIANNINI. Il racconto di un trader: ormai il sistema è al collasso
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2008, 03:54:52 pm
ECONOMIA   

Il racconto di un trader: ormai il sistema è al collasso

"Sta accadendo qualcosa di inimmaginabile, mai visto prima"

"Serve una terapia d'urto o le Borse rischiano la chiusura"

di MASSIMO GIANNINI


 
"FORSE non avete capito cosa sta succedendo. Qui il problema non è Wall Street che perde il 4%. Qui siamo a un passo dal collasso totale dei mercati, dalla crisi del sistema finanziario globale".

Il noto trader milanese consulta le carte, snocciola le cifre, riordina i fatti, e in cima alla giornata più drammatica e indecifrabile di questo Settembre Nero dei mercati avanza l'ipotesi più funesta: "Non si può escludere nulla. Nemmeno che da un momento all'altro si decida la chiusura delle principali Borse mondiali...".

Benvenuti nel Nuovo ?29. Evocata, temuta, ma in fondo mai presa sul serio, la "crisi di sistema" del capitalismo finanziario globale si materializza nelle parole dell'operatore che la sta vivendo in presa diretta, minuto per minuto. È anonimo, e non può essere diversamente, perché quello che dice è talmente preoccupante da non poter essere "firmato" da chi, ogni giorno, compra e vende titoli per milioni di euro. "In questo momento - spiega - ogni parola può creare altro panico, ed è meglio evitare...".

Ma se quello che racconta è vero - e a giudicare dall'andamento degli scambi sui mercati e dalle mosse delle autorità politiche e monetarie non possiamo dubitarne - il panico è già abbondantemente giustificato. "Sta accadendo qualcosa di inedito, che non abbiamo mai visto prima. Dall'America si sta diffondendo una crisi di fiducia senza precedenti, tra banche e banche e tra banche e clienti. Una crisi che colpisce in prima battuta quelle che un tempo avremmo chiamato le "Big Five", cioè le grandi "investment banks" : Bear Stearns, Lehman Brothers, Merrill Lynch, Morgan Stanley e Goldman Sachs. Le prime due ce le siamo già giocate, la terza prova a salvarla Bank of America, ma ora il punto è che stanno finendo nel mirino anche le altre due".

Non a caso, i titoli Morgan e Goldman, a New York, sono letteralmente crollati, lasciando sul campo oltre il 40% del proprio valore. "Ma quello è solo il sintomo, la febbre - spiega l'operatore - perché la malattia è molto più grave. E la malattia è questa: dopo il crac della Lehman gli investitori istituzionali, e soprattutto gli hedge funds, stanno chiudendo le proprie posizioni presso le grandi banche d'investimento americane, perché non si fidano più della loro solvibilità. Questo sa cosa significa? Significa il collasso dei mercati azionari e obbligazionari mondiali, il "meltdown" totale di tutti gli scambi finanziari del pianeta".

Non è un'esagerazione. È la pura realtà, che deriva da un dato di fatto che ci porta a riflettere sulle distorsioni del modello capitalistico "drogato" da Greenspan e cavalcato da Bush: "Queste grandi "investment banks" muovono ogni giorno trilioni di miliardi di dollari. Hanno in custodia, in regime di sostanziale monopolio, la quasi totalità dei titoli posseduti dagli investitori istituzionali e dagli hedge funds di tutto il mondo.

Ora, se questi ultimi cominciano a ritirarli, perché temono il default delle stesse banche d'affari, non si rischia solo qualche altro "fallimento eccellente", ma si blocca tutto il meccanismo che regge i mercati finanziari. Glielo spiego con un esempio: le banche d'affari sono il "motore" del sistema finanziario globale. I loro clienti, investitori istituzionali ed hedge funds, sono l'olio che fa girare quel motore. Nel momento in cui l'olio viene a mancare, perché i clienti smettono di versarlo, il motore fonde, e la macchina è da buttare".

Questa è la posta in gioco. "Con un'aggravante. Investitori ed hedge funds chiudono le loro posizioni, e per esempio sulla piazza di Londra stanno cercando di dirottare i propri investimenti sulle grandi banche "retail", che al momento sembrano più sicure: Deutsche Bank, Santander, Bnp. Ma ormai non funziona più neanche questo, perché i mercati, terrorizzati dal fantasma del crac globale, sono totalmente illiquidi. Non si riesce né a comprare né a vendere, perché mancano le controparti.

Per questo la crisi è di sistema, e rischia di travolgere tutto. Non c'è più fiducia. Le mosse di Paulson non convincono nessuno, la gente non crede al salvataggio di Aig, che infatti continua a perdere a rotta di collo, e i "Treasury bond" americani hanno raggiunto un rendimento dello 0,23%, una cosa che non si vedeva da mezzo secolo. Le stesse banche centrali, la Fed e la Bce, non sanno che pesci prendere, perché hanno capito che questo non è un "trend" classico dei cicli borsistici: rialzi e crolli non sono mai stati un problema, figuriamoci, ci siamo abituati, fanno parte del gioco. Il guaio, stavolta, è che è proprio il gioco in sé che si sta rompendo".

Il trader italiano, di stanza a Piazza Affari, vive ai margini del ciclone finanziario americano. Ma cita altri due indizi, che danno la misura del livello di allarme scattato anche nelle "province" dell'impero del capitale globale: "Primo: stamattina la Banca d'Italia ci ha chiesto di fornirgli entro mezz'ora, e dico entro mezz'ora, le posizioni aperte con Lehman da tutti noi operatori nazionali: una roba mai successa. Secondo: nel pomeriggio abbiamo vissuto momenti di forte tensione, perché neanche la Cassa di compensazione aveva più liquidità sufficiente. Cioè: la Cassa non paga, noi non paghiamo, e così tutto l'ingranaggio va in tilt da un momento all'altro". Il tema vero è: ci si può ancora salvare da questo Nuovo '29 che incombe?

L'operatore spera, ma non si avventura: "Parliamoci chiaro: qui, se siamo ancora in tempo, ci sono solo due possibilità per non far fondere tutta la macchina. La prima possibilità è che almeno un paio di grandissime banche commerciali di dimensione mondiale, che so, Hsbc tanto per fare un nome, si comprino le banche d'affari americane a un passo dal tracollo: operazione possibile, anche se molto complicata, che richiederebbe comunque una fortissima "moral suasion" da parte del potere politico. La seconda possibilità è che invece sia proprio la politica americana a fare il passo più estremo, nazionalizzando Morgan e Goldman prima che sia troppo tardi. Operazione complicata e forse impossibile, se non al prezzo di addossare ai contribuenti i costi enormi del doppio salvataggio e snaturare per sempre il modello liberale del capitalismo Usa".

Altre soluzioni, per il trader milanese, non ne esistono. E oltre tutto bisogna fare presto, perché la velocità con cui questa crisi si sta avvitando su se stessa è impressionante. Per questo, in attesa che qualcuno decida qualcosa, l'operatore ipotizza addirittura il ricorso all'arma fine di mondo: "Se questo è il clima, ci può stare anche che le autorità decidano, da un giorno all'altro di chiudere le Borse. È un'ipotesi estrema, è chiaro, che in Italia è successa solo nel luglio '81 dopo lo scandalo P2, e in America dopo l'attacco alle Torri Gemelle dell'11 settembre. Ma ora come ora non mi sento di escludere niente. Qualcosa bisogna pur fare. Bisogna prendere il toro per le corna. Anzi, stavolta bisogna prendere l'orso per la coda, visto che sul mercato, di tori, non ce ne sono più".

(18 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI. Lufthansa resta in pista anche dopo il crak...
Inserito da: Admin - Settembre 19, 2008, 10:37:16 am
ECONOMIA   

Tre giorni fa l'ultimo contatto tra fonti della cancelleria e Gianni Letta

Il piano "A" ipotizzava l'alleanza con la Cai. Il piano "B" prevede il passaggio del controllo

Lufthansa era vicina all'accordo ma resta in pista anche dopo il crac


di MASSIMO GIANNINI

 
"NOI SIAMO pronti, dipende solo dal governo". Per un'Alitalia che non vola più, c'è una Lufthansa che "rulla" i motori. La compagnia tedesca è in pista. E anche se il Piano Fenice sembra ormai carta straccia, può ancora diventare il "cavaliere bianco" che salva la compagnia italiana dal fallimento economico, e il Cavaliere di Arcore dal disastro politico.

A dispetto dell'apparente vantaggio di Air France, in questi ultimi giorni i contatti tra Roma, Amburgo e Colonia, head quarters della compagnia tedesca, si sono fatti sempre più fitti. I colloqui tra Palazzo Chigi e la Cancelleria di Angela Merkel erano già stati avviati da un paio di settimane. L'ultima conversazione tra Gianni Letta e l'ambasciatore Michael Steiner risale a tre giorni fa. Il senso delle comunicazioni arrivate dalla Germania è univoco: "A Lufthansa interessa moltissimo Alitalia".

Oggi la compagnia tedesca, con 92 mila dipendenti e una flotta di 343 aerei di cui 87 a lungo e 164 a medio raggio, è il terzo vettore europeo dopo Air France-Klm e British Airways-Iberia. Mettendo le ali sul mercato italiano, farebbe un salto in alto, completando la sua strategia di vettore "multi-hub" e "multi-brand".

Inserendo gli aeroporti di Malpensa e Fiumicino nel grande network che orbita intorno a Francoforte, e che con Milano si arricchirebbe del traffico business del Sud-Europa, e con Roma si avvarrebbe di un ponte per il traffico con l'Africa, il Medio e l'Estremo Oriente. Tutte le mosse fatta da Lufthansa sullo scacchiere europeo - da quella iniziale su Swiss Air a quelle più recenti sulla scandinava Sas e su Austrian Airlines - sono ispirate alla stessa filosofia, che con Alitalia raggiungerebbe il coronamento finale.

I progetti predisposti da Lufthansa sono due e prevedono due scenari differenti. Entrambi sono già stati sottoposti dal chairman Wolfgang Mayrhuber al board e al direttore generale, Peter Hartman. Il piano A è quello che ruota intorno all'operazione Cai.

Se ieri la trattativa con i sindacati si fosse chiusa positivamente, e la cordata Cai fosse decollata regolarmente, con ogni probabilità Roberto Colaninno, di qui a una settimana, avrebbe potuto dare il grande annuncio ufficiale: il partner internazionale scelto da Alitalia è Lufthansa.

I tedeschi, secondo questo primo progetto, sarebbero stati anche disposti ad entrare subito con una quota di minoranza, per rispettare almeno in una prima fase il caveat posto dal premier sull'italianità della compagnia di bandiera. Ma a regime, cioè alla scadenza del lock up che avrebbe vincolato i soci italiani di Cai a non vendere le rispettive quote prima di cinque anni, verosimilmente Lufthansa avrebbe rilevato la maggioranza, e preso in mano la cloche della "Nuova Alitalia".

Il piano B è invece quello più "radicale", e ricalca le orme di quello che i vertici della compagnia tedesca misero a punto nell'inverno dello scorso anno, quando il governo Prodi aveva annunciato la privatizzazione dell'Alitalia e indetto la relativa gara pubblica, aperta anche ai vettori stranieri.

È un piano che prevede l'acquisizione immediata di Alitalia, e che trasferisce subito la proprietà da Roma a Colonia, salvando ovviamente il "marchio", la divisa e tutto quello che in questi decenni ha rappresentato la storia della nostra compagnia di bandiera. Esattamente come è accaduto nel caso Swiss Air. Oltre a Milano, verrebbero potenziati gli scali del Nord, Torino, Venezia e Bologna, messi in raccordo con Francoforte, Monaco e Zurigo. La flotta sarebbe ridotta di una cinquantina di aerei, ma Alitalia beneficerebbe dell'integrazione nella rete Star Alliance, la più estesa del pianeta, che comprende quindici compagnie tra cui United, All Nippon, Thai e Singapore Airlines, e nella quale c'è anche Air One.

La via maestra che il governo e la cordata italiana stavano seguendo era ovviamente la prima, che almeno allo start up avrebbe salvato la "bandiera" dell'Alitalia e, quindi, la faccia di Berlusconi. I tedeschi erano disposti ad accettare il compromesso. Ma hanno posto una sola condizione, semplice e chiarissima: "Qualunque nostro coinvolgimento presuppone una discontinuità tra la vecchia e la nuova Alitalia".

In altre parole, a questo punto Lufthansa scende in campo solo se prima si passa attraverso una procedura concorsuale, e si divide il destino della compagnia cattiva (gli esuberi, i debiti e le attività improduttive) da quella buona (gli aerei, le rotte e gli slot). "Solo così - hanno spiegato i tedeschi - è possibile rinegoziare su basi nuove anche i rapporti con i sindacati, e soprattutto con i piloti, riallineando i contratti di lavoro alla produttività media dei vettori europei".

Proprio l'impossibilità di procedere a questa "cesura" normativa e contrattuale tra un prima e un dopo, del resto, fu la ragione che spinse i tedeschi a ritirarsi dalla gara dell'anno scorso, lasciando libera la pista alla sola Air France. E proprio questo spiega sia il perché, da Amburgo e da Colonia, ieri si guardava con attenzione all'esito della trattativa, sia il perché tre giorni fa il portavoce del colosso tedesco Thomas Jachnow aveva frenato le fughe in avanti del Cavaliere dicendo "Alitalia ci interessa, ma non ora viste le sue pessime condizioni finanziarie".

Adesso che l'improbabile italian job è saltato in aria, per l'irresponsabilità politica di Berlusconi e la responsabilità sindacale della Cgil, non c'è più molto da fare. O si decreta il fallimento di tutta la compagnia, o si conserva l'impianto attuale, con la bad company da liquidare progressivamente e la best company da cedere immediatamente. Magari attraverso una procedura competitiva trasparente, che recuperi almeno un barlume di concorrenza ed eviti la mannaia della Commissione Ue.

In tutto questo, che fine farà il progetto Lufthansa? Da quanto riferiscono fonti vicine alla Cancelleria, non è una domanda da rivolgere alla Germania. Semmai va girata al governo italiano. Adesso che in nome dell'italianità avete tradito il mercato e ucciso l'Alitalia, siete disposti a rinunciare all'assillo della bandiera e al vessillo dell'ideologia, vendendola ai tedeschi che sono pronti a comprarla?


(19 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI. Intervista al leader della Cgil Epifani: ...
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2008, 04:23:43 pm
ECONOMIA   

Intervista al leader della Cgil: "Che danno quegli applausi. Ma i piloti vanno coinvolti"

"Palazzo Chigi ci ha dipinto come quelli che giocano allo sfascio"

Alitalia, il rilancio di Epifani "Ora vendiamola agli stranieri"

di MASSIMO GIANNINI
 


ROMA - "O il governo e il commissario trovano il modo di riaprire la trattativa con Cai, oppure io vedo una sola strada: la vendita immediata a una grande compagnia straniera, che ci può assicurare un know how industriale più forte e condizioni finanziarie più solide". Il giorno dopo la disfatta politico-sindacale sull'Alitalia, Guglielmo Epifani riapre i giochi. In questa intervista a Repubblica il leader della Cgil respinge le accuse di Berlusconi, lancia segnali a Colaninno e soprattutto rilancia l'ipotesi di una cessione a un vettore internazionale. "Io personalmente vedo con favore Lufthansa, ma non sta certo a noi scegliere il partner. Tocca al governo decidere".

Epifani, lei giustamente ha fretta. Ma vedere quei dipendenti in divisa che esultavano davanti a Fiumicino, all'annuncio del ritiro dell'offerta Cai, è anche una vostra sconfitta, non trova?
"Certo, quegli applausi hanno nuociuto all'immagine dell'Alitalia. In qualsiasi altra situazione di grave crisi aziendale, e ne abbiamo vissute e ne viviamo tante, una notizia del genere viene accolta con profonda preoccupazione da tutti. Stavolta non è stato così, e di questo i lavoratori devono essere coscienti. Noi, di sicuro, non abbiamo gioito. Anche se è altrettanto certa un'altra verità: le caratteristiche della cordata italiana, l'assenza di know how specifico, la mancanza di procedure trasparenti, sono alla base della criticità oggettiva dell'intera operazione Cai".

Il problema è che dietro quella gente ci siete voi, c'è il vostro no. Avete giocato al tanto peggio tanto meglio?
"No, non è mai stata questa la nostra posizione. Noi abbiamo lavorato fin dall'inizio per cercare una soluzione positiva. Mentre fin dall'inizio è stato il governo ad accreditare l'immagine di una Cgil che giocava allo sfascio, sulla pelle dei lavoratori e del Paese. La nostra storia dimostra che questa non è e non è mai stata la nostra cultura. Berlusconi ripete da giorni che siamo manovrati dalla politica, quando è evidente a tutti che la Cgil ormai da decenni non è più cinghia di trasmissione di nessuno. Il giorno in cui Cai doveva decidere Berlusconi ha detto "si firmi anche senza la Cgil". Dopo che la Cai si è ritirata ha detto "è stata tutta colpa della Cgil". Le pare un modo serio di trattare? A colpi di ultimatum quotidiani, di drammatizzazioni continue, di ricatti veri e propri?".

Quanto ad accuse e a "penultimatum", anche i sindacati non sono stati da meno.
"Attenzione: un conto è la polemica, anche dura, che in una trattativa così delicata ci può stare. Tutt'altro conto è il livore degli attacchi, personali e politici, ai quali naturalmente abbiamo il dovere di rispondere. L'alzata di toni del governo contro di noi è indegna di un Paese civile. Questo modo di intendere i rapporti con le forze sociali è un imbarbarimento della vita del Paese".

Un clima di aggressione ideologica contro di voi, soprattutto da parte di un pezzo di governo che ha vissuto ai tempi di Craxi lo scontro sulla scala mobile, può anche esserci stata...
"Certo che c'è stata. L'abbiamo respinto e la respingiamo con altrettanta forza... ".

Ma qui c'è un fatto sul quale anche voi dovete riflettere. Un accordo è saltato per l'ennesimo no della Cgil. Non siete forse un elemento di freno sistematico alla modernizzazione del Paese?
"La modernizzazione del Paese la vuole anche la Cgil. Noi non viviamo con la testa rivolta al passato. Un sindacato che fa questo muore. Ma allo stesso tempo respingiamo una modernizzazione che scommette sulla sudditanza o peggio sull'irrilevanza delle rappresentanze sociali. Questa scommessa per noi è inaccettabile, anche perché prefigura una deriva autoritaria che dovrebbe preoccupare non solo noi, ma tutte le forze sociali che hanno a cuore la democrazia".

Perfetto. Ma nel caso Alitalia la Cgil ha compiuto uno strappo del tutto inedito. Si è schierata con sei sigle autonome, dividendosi da Cisl e Uil. Per difendere voi stessi, avete difeso una corporazione, i piloti. Non è così?
"Né oggi né mai ho difeso logiche di casta, privilegi o posizioni di potere consolidato. Ma una trattativa complessa non si gestisce usando l'esclusione e la forza. Il personale di volo non è rappresentato da noi, ma è sbagliato tagliarlo fuori dal confronto. E se io cerco di allargare il perimetro del confronto, lo faccio in nome della democrazia sindacale, non certo del corporativismo".

Ma c'è un paradosso: per cercare di allargare il consenso, come lei ha detto in questi ultimi giorni a proposito del piano Cai, avete finito per cavalcare il dissenso.
"Capisco che questa può essere l'impressione. Ma il problema di chi deve amministrare una compagnia aerea non è solo firmare un accordo. Perché se il giorno dopo la firma Fiumicino e Malpensa si bloccano e gli aerei non volano perché il personale di volo entra in sciopero, quell'accordo diventa carta straccia. E questo problema non si risolve minacciando soluzioni autoritative. Si risolve trattando con tutti, e cercando di trovare un'intesa che soddisfi tutte le rappresentanze dei lavoratori".

C'è anche un'altra chiave di lettura: la Cgil ha detto no perché, se avesse firmato, dal giorno dopo sarebbe implosa al suo interno. Che ne dice?
"Dico che è falso. Fratture con la base ne hanno e ne hanno avute tutti i sindacati. Fa parte della nostra storia. Ma nel caso dell'Alitalia questo è davvero l'ultimo dei problemi. La verità è che non si può trattare con la pistola alla tempia".

Continuate a sottovalutare un punto: Alitalia è nell'abisso. Tutti trattano con la pistola alla tempia, non crede?
"È vero. Ma tutto era già noto da un pezzo. La trattativa andava preparata per tempo, non improvvisata in un mese".

Per tempo, lei dice. E allora perché non avete accettato l'offerta Air France, che avrebbe risolto tutto e non sarebbe costata un euro ai contribuenti?
"Berlusconi scarica anche quella su di noi. Ma voglio ricordare che Spinetta, allora, pose due condizioni per acquistare Alitalia: la prima era in effetti il consenso del sindacato, e lì noi non trovammo l'intesa sui livelli occupazionali, ma la seconda era il via libera del governo in carica e di quello che, di lì a poco, avrebbe vinto le elezioni. Berlusconi aveva la vittoria in tasca, e fu lui a costruire la compagna elettorale sullo slogan "non passa lo straniero"".

Epifani, mettiamo da parte il passato, e veniamo al presente. Cai si è ritirata, il governo dice no a ogni forma di nazionalizzazione. Come si esce da questo buco nero, che rischia di ingoiare 20 mila famiglie?
"Innanzitutto bisogna che chi ha alzato irresponsabilmente i toni li abbassi immediatamente. E poi occorre che il capo del governo e il commissario straordinario riprendano in mano il bandolo di questa matassa".

Il suo collega Bonanni dice: basta che Epifani fa una telefonata a Colaninno, e tutto è risolto.
"Non sono io che devo attivarmi. Lo ripeto, la partita adesso è in mano a Berlusconi e a Fantozzi. Tocca a loro studiare una soluzione".

Ma lei cosa propone? Avrà un'idea, no?
"Io vedo solo due possibilità. La prima è che il governo ritrovi uno spiraglio per riprendere il negoziato con Cai, sapendo bene che il problema del consenso del personale di volo non è un'invenzione o una scusa, ma un'esigenza essenziale per chi fa trasporto aereo. So che è molto difficile, per le condizioni finanziarie della cordata e per i dissensi di merito che ancora restano in campo. Ma il governo ha il dovere di provarci".

E se non ci riesce?
"Vedo solo una seconda possibilità, che non considero nemmeno una "ipotesi B" perché è meno convincente, ma semmai è dal mio punto di vista addirittura più forte: il governo avvii subito, in modo limpido e trasparente, le procedure per vendere a una grande compagnia aerea internazionale. Io credo che le disponibilità ci siano, anche se ovviamente nessun partner potenziale si muove in assenza di una scelta netta e decisa da parte del governo".

Allude a Lufthansa?
"Non sta a me scegliere il partner. Ma lo ripeto, so che, a precise condizioni, esistono disponibilità. E dunque, se è così e se la pista Cai è chiusa per sempre, la Cgil chiede al governo di non esitare un solo minuto: faccia un passo indietro sul principio dell'italianità, e scelga subito un grande vettore straniero cui affidare le sorti di Alitalia. Sarebbe una scelta che avrebbe il vantaggio di un know how industriale più forte, condizioni finanziarie più solide e una tempistica più rapida. Se il governo fa questo, dichiarando a viso aperto il suo gioco nei confronti del Paese e del sindacato, la Cgil è pronta a fare fino in fondo la sua parte. Come ha sempre fatto, nella sua lunghissima storia".

(20 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Lufthansa scopre le sue carte "Noi puntiamo al 49 per cento"
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2008, 10:09:48 am
ECONOMIA    IL RETROSCENA. La proposta del presidente Mayrhuber anticipata a Cgil, Cisl e Uil

In alternativa, Air France si accontenterebbe di una quota del 10-15%

Lufthansa scopre le sue carte "Noi puntiamo al 49 per cento"


di MASSIMO GIANNINI
 


"ALITALIA ci interessa molto. Ma noi puntiamo alla maggioranza...". Wolfgang Mayrhuber va dritto al cuore del problema, quando spiega a Epifani, Bonanni e Angeletti i progetti di Lufthansa sulla nostra compagnia di bandiera.
Alle nove del mattino, davanti a una tazza di caffè sorseggiata nella quiete di Villa Almone, residenza romana dell'ambasciatore tedesco Michael Steiner, il chairman del colosso tedesco conferma ai leader di Cgil, Cisl e Uil che, se il governo italiano fosse disponibile, potrebbe acquisire fin da subito il controllo di Alitalia. "Ci vuole un accordo in tempi rapidi - spiega il manager - e Lufthansa è pronta a fare la sua parte".

Non tanto e non solo per bruciare la concorrenza di Air France, quanto piuttosto perché la mitica "cordata italiana" raggruppata sotto le insegne di Cai, per quanto corroborata dal sofferto accordo con le rappresentanze dei lavoratori, non avrebbe la "massa critica", in termini di capacità finanziaria e di potenzialità operativa, per reggere l'urto della concorrenza globale.

Dunque, nel breve giro di tre giorni, un altro bluff del governo è finalmente caduto. Non era affatto vero che "non esistono manifestazioni di interesse da parte delle compagnie straniere", come Berlusconi ha ripetuto per giorni e giorni, costringendo il commissario Fantozzi a ripetere lo stesso bugiardo refrain. Con l'unico obiettivo (del tutto strumentale) di mettere le confederazioni con le spalle al muro, e con l'unica pretesa (del tutto inattuale) di difendere la linea del Piave dell'"italianità", inopinatamente e irresponsabilmente fissata dal Cavaliere fin dalla campagna elettorale della scorsa primavera.

Sono bastate poche ore di colloqui nell'ufficio del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (prima con Francesco Mengozzi in rappresentanza dei francesi, poi con lo stesso Mayrhuber in rappresentanza dei tedeschi) a far venire in campo le due proposte alternative di Air France e di Lufthansa. Molto diverse l'una dall'altra, ma entrambe molto concrete.

Negli incontri di Palazzo Chigi e di Villa Almone, i tedeschi hanno riproposto il loro schema di gioco, che contempla due ipotesi. Da un lato, una partecipazione con la quale Lufthansa si affianca a Cai: "Ma per noi - è il senso della posizione tedesca - questa è l'ipotesi meno preferibile". Dall'altro lato, un ingresso nel capitale della nuova compagnia in posizione di maggioranza relativa, o comunque con una quota che può arrivare o si può avvicinare al 49%: "E per noi - è la postilla tedesca - questa è una soluzione di gran lunga migliore".

Mayrhuber spiega ai sindacati perché questa seconda opzione è più "funzionale". "È inutile che voi, oggi, stiate a discutere dell'italianità e della non italianità della vostra compagnia di bandiera. Così come sarebbe inutile che lo facessimo noi tedeschi in casa nostra, o i francesi in casa loro. Rischiamo di fare una guerra nel pollaio di casa, mentre qui in Europa presto arriveranno i grandi vettori dell'Estremo Oriente che ci spazzeranno via".

Per questo l'unica strategia è quella dell'integrazione. E per i tedeschi la "polpa" buona di Alitalia è oggi una formidabile occasione di integrazione, dentro un modello di network aereo multi-hub e multi-brand. "Noi siamo pronti, il piano industriale è pronto". Epifani, Bonanni e Angeletti (e insieme a loro anche la leader dell'Ugl Renata Polverini) condividono e appoggiano la proposta Lufthansa, anche nella sua forma più "radicale", cioè il pieno controllo di Alitalia.

Ma a questo punto, se ci sarà il via libera all'accordo sindacale con Cai allargato anche a tutte le sigle autonome dei piloti e del personale di volo, il problema è solo politico. "Ma il governo di cosa ha paura?", è la domanda congiunta di Mayrhuber e Steiner. "Io sono chairman di Lufthansa - spiega il primo ai leader sindacali per smitizzare il mantra dell'italianità - e non sono nemmeno tedesco, sono austriaco. E tutto sommato nemmeno Lufthansa è poi così tedesca...". Oltre il 51% del suo capitale è collocato sul mercato, e i primi due azionisti sono la francese Axa (col 10,56%) e l'inglese Barclays (con il 5,07%).

Solo il premier può sciogliere il nodo. Ma per farlo deve uscire dalla logica "resistenziale" alla quale ha costretto tutti, a partire da Colaninno e dai suoi sedicenti "capitani coraggiosi". L'offerta Lufthansa è preferibile per ragioni economiche. Intanto parte con il consenso di tutte le sigle, confederali e autonome. E poi, ruotando su una strategia industriale "a rete integrata" che non contempla l'individuazione di un unico hub italiano, incontra il consenso politico della Lega e del Nord, che non devono subire lo smacco del downgrading di Malpensa.

Ma l'opzione tedesca pone un problema politico: obbliga il Cavaliere a una marcia indietro di fronte agli elettori (ai quali ha giurato che l'Alitalia sarebbe rimasta italiana) e di fronte ai soci di Cai (ai quali ha promesso prebende pubbliche in cambio della fiche privata sulla compagnia di bandiera).

L'offerta Air France è preferibile per ragioni politiche. Intanto la Francia è presidente di turno della Ue, e al Cavaliere può convenire l'idea di fare un favore a Sarkozy. E poi Jean Cyril Spinetta si accontenta di una quota del 10-15%, e in una prima fase si acconcia ad affiancare Cai in posizione minoritaria, perché questo gli consente di blindare comunque Alitalia nel patto Sky Team (la cui eventuale rescissione costerebbe circa 200 milioni di euro alla nostra compagnia) per poi fagocitarla con tutta calma nel giro di qualche anno.

Ma l'opzione francese sconta un'incognita economica: quanto può reggere lo schema "Cai più Air France"? La competizione internazionale nel trasporto aereo sarà feroce, e richiederà investimenti massicci. I soci Cai, nonostante la buona volontà dimostrata con l'accettazione del lock up che li obbliga a non cedere le proprie quote di qui a cinque anni, dovranno rimettere mano pesantemente al portafoglio, per fare cospicue ricapitalizzazioni molto prima del 2013. E poiché è chiaro che i vari Aponte, Fratini e Bellavista non avranno né denaro né voglia, a quel punto Air France avrà buon gioco a conquistare, senza inutili spargimenti di carta bollata, la maggioranza.

Alla fine, per l'Italia e per l'Alitalia, l'alternativa è semplice. Per il governo si tratta di scegliere tra una vendita immediata, o una svendita differita. Per il Cavaliere si tratta di scegliere tra un insano, autarchico provincialismo e un sano, realistico europeismo.


(27 settembre 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il potere oltre le regole
Inserito da: Admin - Ottobre 03, 2008, 06:08:51 pm
POLITICA     IL COMMENTO

Il potere oltre le regole

di MASSIMO GIANNINI


NEGLI STATI UNITI, alla vigilia del voto del Congresso americano sul maxi-piano di salvataggio bancario più imponente della storia, il segretario al Tesoro Henry Paulson ha compiuto un atto simbolico carico di significati: si è inginocchiato di fronte al presidente Nancy Pelosi, per invocare al Parlamento un'approvazione rapida di quel pacchetto di norme.

Il potere esecutivo, sia pure in una condizione di assoluta emergenza nazionale, si rimette al giudizio solenne del potere legislativo. È un segno tangibile di come, nonostante il caos finanziario che non ha saputo scongiurare e che ora fatica a gestire, la democrazia americana sa riconoscere i suoi valori, le sue regole, le sue istituzioni.

In Italia, alla vigilia del varo imminente dell'ennesimo decreto legge, stavolta sulla prostituzione, il presidente del Consiglio lancia un attacco ideologico contro il Parlamento, colpevole di intralciare l'azione del governo. "Imporrò alle Camere l'approvazione entro due mesi di tutti i decreti legge che riterrò necessari per governare il Paese - annuncia Berlusconi - e non esiterò a porre la fiducia ogni volta che servirà, poiché la fiducia è questione di coraggio e di responsabilità".

Il potere esecutivo, sia pure dotato di una maggioranza senza precedenti, sottomette il potere legislativo. È un segno tangibile di come, nonostante l'esistenza formale dei suoi precetti e la resistenza sostanziale dei suoi organi di garanzia, la democrazia italiana rischia di svilire i suoi principi, i suoi precetti, la sua qualità.

L'offensiva del premier tocca un nervo scoperto per il ceto politico, e un punto sensibile per l'opinione pubblica. In questi anni l'odiata Casta che abita le aule parlamentari, tra privilegi e inefficienze, non ha fatto nulla per meritare la fiducia del popolo sovrano. Berlusconi, ancora una volta, cavalca l'onda dell'antipolitica.

E da "uomo del fare" che combatte i "parrucconi", ha capito ciò che i governati sfiduciati chiedono ai governanti delegittimati: decidere, o anche solo far finta di aver deciso. È quello che il premier sta facendo, incrociando il senso comune dominante. Sui rifiuti e sull'Alitalia, sui rom e sulla camorra. Non conta ciò che c'è "nel" provvedimento. Conta solo che ci sia "il" provvedimento.

Tutto quello che intralcia o rallenta il processo va rimosso, o quanto meno esecrato. Vale la decisione. Non c'è più spazio per la discussione e, a volte, nemmeno per la ragione. E così, oggi, pur guidando un governo del presidente e comandando una maggioranza di 162 tra deputati e senatori, il Cavaliere si permette il lusso di additare proprio il Parlamento come il luogo della "non decisione".

L'attacco al potere legislativo è una mossa ad effetto, che può far presa nella gente. Ma è una scelta grave. Lo è dal punto di vista politico. Anche il Parlamento, per lo più ridotto a "votificio", necessita di riforme. Ma queste riforme non può imporle a forza il capo dell'esecutivo, a colpi di decreti legge e di fiducia.

La revisione dei regolamenti parlamentari è opportuna, ma è materia da trattare con cautela e rispetto. Non a caso è disciplinata addirittura dalla Costituzione, che attribuisce ai regolamenti la forza di fonti del diritto e all'articolo 64 ne vincola la modifica alla "procedura rinforzata" delle maggioranze assolute.

Ma la scelta di Berlusconi è grave anche e soprattutto dal punto di vista istituzionale. Ha un solo precedente, evidentemente non casuale, nella storia repubblicana. È Bettino Craxi, che al congresso del Psi di Verona, nel 1984, furibondo per la mancata conversione del decreto di San Valentino sulla scala mobile, tuonò contro i parlamentari che si occupavano "solo di conferenze sulle aspirine" e di "norme in materia di pollame, molluschi, prosciutto di San Daniele e scuole di chitarra".

Perché, a distanza di 25 anni, Berlusconi sente oggi il bisogno di replicare, con formule addirittura deteriori, il modello craxiano? Che bisogno ha, proprio ora che tiene il Paese in tasca e domina in splendida solitudine la scena politica, di riaprire un conflitto così aspro e avvelenato con le istituzioni?

C'è una sola risposta con un senso compiuto: è il Quirinale. Il Cavaliere ha fretta di chiudere la Seconda Repubblica e di inaugurare, se serve anche nel fuoco della battaglia, una Terza Repubblica tagliata ancora una volta a misura della sua biografia personale. E colpisce che, di questa trama palese, le anime belle della sedicente "cultura liberale" non vedano i fili.

Se Veltroni, per aver accostato il premier a Putin, è accusato di essere ancora prigioniero della "vecchia narrazione" di un centrosinistra tenuto insieme solo dal cemento dell'anti-berlusconismo, di quale "nuova narrazione" sarebbe invece interprete Berlusconi, che ritorna in guerra contro i suoi soliti fantasmi, umilia il Parlamento, svalorizza il Capo dello Stato, minaccia la Corte costituzionale?

La vera "cifra" del nuovo berlusconismo, micidiale miscela di cesarismo regressivo e di populismo deliberativo, è racchiusa in un mirabile enunciato di Giuliano Ferrara, il suo più brillante esegeta: "La democrazia, alla fine, non è expertise, ma è solo consenso". In questi tempi difficili è una verità agghiacciante. Ma purtroppo è esattamente così che Berlusconi sta riducendo la nostra democrazia.

(3 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Due mosse, una incognita
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2008, 10:31:24 am
ECONOMIA    IL COMMENTO

Due mosse, una incognita

di MASSIMO GIANNINI
 


I risparmiatori non perderanno un euro, lo Stato Padrone non tornerà. Se queste due promesse fossero vere, dovremmo accogliere con favore il decreto anti-crisi varato per fronteggiare la "tempesta perfetta" che sta travolgendo il sistema bancario mondiale. Non si può dire che Berlusconi e Tremonti non siano stati rapidi nell'azione, e convincenti nella comunicazione. Il governo ha dato un segnale forte e insieme rassicurante. Almeno nella forma.

Il coinvolgimento diretto del governatore della Banca d'Italia, nella preparazione e nell'illustrazione dei provvedimenti, restituisce ai cittadini, almeno sulla carta, l'immagine di una coesione istituzionale importante. Se poi verrà anche quella politica, e se il Cavaliere smetterà di "fregarsene" del contributo dell'opposizione, sarà un altro passo significativo sulla via della civiltà politica e della responsabilità nazionale.

Per giudicare la sostanza, invece, il condizionale è d'obbligo. Purtroppo, com'era già successo con la Finanziaria triennale approvata prima dell'estate, il Consiglio dei ministri è durato pochi minuti, forse anche meno dei nove necessari per la manovra. Non ha licenziato un testo. Non ha messo nero su bianco una sola cifra. Dunque, per esprimere un'opinione bisogna fidarsi sulla parola di quanto il premier e il ministro dell'Economia hanno detto in conferenza stampa.

L'impostazione del decreto si articola su due misure. Con una prima decisione, coerente alla luce della sonora bocciatura all'Ecofin della proposta italiana di istituire un grande Fondo europeo per gestire i fallimenti creditizi dell'Unione, Berlusconi e Tremonti hanno deciso di seguire l'esempio dell'Irlanda e della Germania: dunque sì a un fondo nazionale che affiancherà la garanzia mutualistica dello Stato a quella privatistica già prevista per i depositi degli italiani. Una scelta limitata, perché assunta al di fuori di quella logica comunitaria che sarebbe stata necessaria e sicuramente più efficace. Ma sensata, perché volta a tranquillizzare i clienti delle nostre banche, finora tutelati da un Fondo di garanzia interbancario ma non anche dal Tesoro. "Nessun cittadino ci rimetterà un euro", ripete il Cavaliere. E a questo punto, è ragionevole ritenere che sia così.

Con una seconda mossa, sorprendente per la pseudo-cultura del liberismo alle vongole che caratterizza da sempre la destra italiana, Berlusconi e Tremonti hanno invece deciso di non seguire l'esempio inglese e olandese: dunque no alle nazionalizzazioni e all'ingresso diretto dello Stato nella proprietà e nella gestione degli istituti di credito in crisi. Se questa "filosofia" è sincera, va dato atto al governo di aver evitato una forma di "socialismo finanziario" pericoloso, per i destini dell'economia di mercato.

L'intervento pubblico sarà "eventuale", cioè attivato o su richiesta della banca in difficoltà patrimoniale o su sollecitazione della Banca d'Italia. Sarà "temporaneo" perché finalizzato solo a rafforzare i "ratios" dell'istituto per il periodo necessario a superare le difficoltà. E soprattutto sarà "neutrale", perché si tradurrà nell'acquisto da parte del Tesoro di azioni privilegiate della banca, e dunque senza diritto di voto sulle strategie. "La gestione delle banche resterà assolutamente privata", giura Tremonti.

È un impegno solenne, che vogliamo prendere per buono. Sarebbe molto grave, invece, se la manovra per mettere al sicuro i risparmi degli italiani si accompagnasse al tentativo di mettere le mani sulle banche. E soprattutto su quelle più lontane dall'orbita del centrodestra. Nel decreto legge c'è un codicillo che autorizza qualche sospetto. Nel caso in cui la Banca d'Italia decida sull'opportunità di ripatrimonializzare una banca, e il Tesoro intervenga direttamente nel suo capitale, scatta anche la rimozione automatica del management responsabile.

In teoria, un principio legittimo, che è compreso tra i sette criteri concordati dall'Ecofin dell'altro ieri: come ha detto ancora Tremonti, "lo Stato non dà i denari del contribuente a chi ha sbagliato". Ma in pratica, anche un grimaldello pericoloso, che può essere usato per scardinare posizioni ritenute di volta in volta scomode o anche semplicemente non gradite al governo.

È inutile fingere di non vedere quello che tutti vedono. Almeno a livello italiano ci sono due piani diversi di valutazione della crisi, e dei suoi risvolti politico-finanziari. C'è un piano di sistema, che chiama in causa la qualità delle nostre banche, il loro modus operandi, la loro struttura patrimoniale. E a questo risponde (bene) la prima mossa. Ma c'è anche un piano di potere, che chiama in causa la proprietà delle nostre banche, la loro "governance" e la loro contiguità con la politica. E a questo rischia di rispondere (male) la seconda mossa.

Anche nel nostro sistema creditizio, per quanto solido e liquido, ci possono essere delle mele marce. Anche un banchiere come Alessandro Profumo ha sicuramente compiuto errori gravi, dei quali è giusto che risponda ai suoi azionisti. Se serve, anche rassegnando il suo mandato. Ma se la posta in gioco "nascosta" di questo giusto lavacro del "mercatismo" diventa solo la "normalizzazione" di Unicredit (colosso internazionale autonomo e distante dal nuovo capitalismo domestico che si va ricomponendo intorno al Cavaliere), allora si deve sapere che quella non è una mela. Non è neanche un albero. È almeno la metà del bosco. E sarebbe inaccettabile che a controllarlo, in modo diretto o indiretto, fosse il governo, o l'establishment che gli è sempre più vicino.
 
(9 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: M. GIANNINI. Intervista a Veltroni: il corteo del 25 si farà, il ...
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2008, 09:52:27 am
POLITICA

Intervista al leader del Pd: il corteo del 25 si farà, il governo lo rispetti

Le gaffe e gli svarioni del premier danneggiano il Paese: "Chieda scusa"

Veltroni: "Sì al dialogo in Parlamento per l'Italia, non per Berlusconi"


di MASSIMO GIANNINI


ROMA - Onorevole Walter Veltroni, la crisi mondiale dilaga, la gente è sempre più preoccupata, ma in Italia, nel piccolo teatrino della politica, si continua a litigare sul nulla. Com'è possibile?
"Non per colpa nostra. Noi stiamo vivendo la crisi più spaventosa che la nostra generazione abbia mai conosciuto. Una crisi planetaria che cambia i paradigmi fondamentali della nostra società e contagia anche l'industria e l'economia reale. In Italia non è più solo crisi del Mibtel, ma è ormai anche crisi occupazionale. Di fronte a tutto questo, il dibattito politico dovrebbe elevarsi a un'altezza molto diversa. Pagheremo a lungo i danni di questa tempesta. E per quanto il nostro sistema bancario sia più solido e più liquido di altri, le nostre aziende vivono già nel dramma. Il governo Berlusconi non se n'è accorto".

Come fa a dirlo? Il premier ha persino detto che potrebbero chiudere i mercati.
"Appunto. Il nostro premier è stato rimesso in riga, per la seconda volta in due giorni, dalla Casa Bianca. Sono momenti difficili e le parole sono pietre. Le gaffes e le smentite fanno danni profondi. Chi governa deve dimostrare se è o no all'altezza di una crisi di questa dimensione storica. E per ora, purtroppo, non ci siamo proprio".

Cosa glielo fa pensare?
"Intanto, mi piacerebbe che la destra chiedesse scusa per i tre gravissimi errori che ha commesso in questi anni. Primo errore: il mito della deregulation, mutuata dalle esperienze thatcherian-reaganiane degli anni '80, che è stato il vero elemento ideologico e fondativo di Forza Italia. L'idea che tutto dovesse essere libero e selvaggio, che ogni forma di presenza dello Stato e di regolazione fosse solo un orpello o un freno agli spiriti animali del capitalismo. Il secondo errore: il mito populista dell'autarchia e del partito 'Nimby', l'idea assurda che il mondo è solo casa tua, che l'Europa sia un fastidio. Il tutto, per inseguire e cavalcare in modo irresponsabile le paure dell'uomo moderno nella globalizzazione. La crisi globale rilancia, semmai, la necessità di forme di governo mondiale e la necessità di un'Europa unita e forte. Il terzo errore: il mito dell'economia come pura finanza. L'idea che il sistema economico sia un gioco di bussolotti, dove qualche signorotto sposta miliardi con un dito, dalle tasche dei cittadini alle sue. E invece la crisi dimostra che l'economia è fatta di impresa e lavoro".

La destra sbaglierà pure, ma stravince le elezioni. Come lo spiega?
"Senta, io l'altra sera io non ero al Bagaglino, ma ero a vedere il film di Calopresti, sulla tragedia della Thyssen: un racconto dell'Italia che si spezza la schiena per portare a casa 1.400 euro al mese. Berlusconi, in sei mesi, questo problema non lo ha proprio avvistato. E oggi sa qual è il paradosso? Che invece di riconoscere i suoi tragici errori, fa il triplo salto mortale: ora si riscopre statalista, si reinventa europeista".

Ma in compenso ha varato il decreto per coprire i depositi e per sostenere le banche. Lo voterete?
"Noi sosterremo quel decreto ma chiederemo un'integrazione: si deve rafforzare il fondo per le piccole e medie imprese. Altrimenti come si affronta la recessione in atto? Come si sostengono salari, consumi e investimenti? Serve un grande Patto tra i produttori, e serve anche un'interpretazione più flessibile del Patto di stabilità. Perché l'Italia e l'Europa hanno urgente bisogno di crescita. Anche per questo il governo deve immediatamente decidere misure fiscali a sostegno di salari e pensioni".

Ma lei non teme che, con il pretesto della crisi, il governo voglia allungare le mani sulle banche?
"Allarghiamo il discorso. Io credo che la cosa peggiore che si possa fare è rimbalzare dal liberismo allo statalismo. Io resto convinto che una società democratica viva se esiste un libero mercato. In una condizione in cui lo Stato si riservi il suo ruolo, quello di fare le regole e di farle rispettare. Lo Stato non è giocatore, è arbitro. Per questo può anche scendere in campo, per aiutare pro-tempore un'azienda di credito in crisi. Ma non può alterare l'intero campionato. Non mi basta l'intervento del Tesoro con le azioni privilegiate, se poi in assemblea ha diritto di veto sulla governance e sulle scelte strategiche della banca. Io non voglio che il governo gestisca le banche. Non voglio che un ministro, di destra o di centrosinistra, si trasformi in un nuovo Cuccia. La politica che gestisce la finanza l'abbiamo già vissuta: le banche pubbliche, i boiardi, ed è stata un disastro che non dobbiamo ripetere".

E' sempre convinto che l'Italia, per colpa di Berlusconi, stia vivendo una crisi democratica?
"Non io, tutto l'Occidente si interroga su questo problema. La società contemporanea ha bisogno di decisioni all'altezza della sua velocità, altrimenti l'urgenza dei problemi, il crescente bisogno di rassicurazione provocato dall'insicurezza sociale e personale possono portare, come già è avvenuto nella storia, a ritenere accettabili pericolose forme di scambio tra democrazia e decisione. In Italia la destra applica lo schema ideologico della deregulation economica anche alle istituzioni. Così tutto diventa un intralcio, per le scelte di un potere sempre più individuale e sempre più autoreferenziale. Per Berlusconi sono un fastidio le opposizioni, i sindacati, i giornali, la magistratura, la Corte costituzionale. Persino il Parlamento diventa un fastidio, mentre invece è e deve continuare ad essere la casa della democrazia".

Ma deve funzionare meglio, come chiede anche il presidente Napolitano.
"Assolutamente sì, è la nostra priorità. Il Parlamento deve essere veloce e trasparente. Ma guai se viene meno la sua funzione di garanzia. Alla crisi delle istituzioni si risponde con la democrazia che decide, non col potere di un uomo solo. Ma non possiamo non denunciare questo rischio: dalla crisi degli anni '30 si uscì con il New Deal di Roosevelt in America, ma con il nazismo in Europa".

Ora la accuseranno di equiparare Berlusconi a Hitler.
"Non scherziamo. Sto dicendo che la crisi dell'economia, quando si accompagna alla crisi della democrazia, può portare a sbocchi autoritari. E' sempre stato così nella storia. La democrazia è decisione e bilanciamento dei poteri. A Berlusconi, che oggi invoca la possibilità di usare a dismisura i decreti, vorrei ricordare che Bush e Paulson, il loro maxi-piano da 700 miliardi di dollari non l'hanno presentato con un decreto legge".

Resta convinto che con il Cavaliere rischiamo la "putinizzazione" della democrazia italiana? Non si pente di quel paragone?
"Guardi che quel rischio riguarda tutte le democrazie occidentali. Il mio riferimento a Putin è di carattere storico politico, è il richiamo a un modello di populismo personalistico, che mi pare del resto Berlusconi non disdegni affatto. E' vero o no che considera Putin il suo miglior partner politico? Ed è vero o no quello che ha raccontato Paolo Guzzanti, a proposito dei giudizi del premier sulla guerra in Georgia? Dunque, perché si offende tanto?".

Ma ci sono spazi per collaborare col governo? Ci sono spazi per una politica di "unità nazionale", come vi chiede un pezzo di Pd?
"Lo ripeto per l'ennesima volta: noi siamo pronti a dare il nostro contributo sulla crisi, come abbiamo già fatto sull'Alitalia. Questa non è "unità nazionale", è senso di responsabilità e amore per l'Italia. E vuol dire convergenza su provvedimenti che si condividono, ma senza nessuna confusione di ruoli tra maggioranza e opposizione, senza zone di vischiosità. Vuol dire atteggiamento consono, in Parlamento, alla grave situazione che il Paese sta vivendo, ma con il profilo di una grande forza nazionale, di alternativa e nel rispetto assoluto delle scelte fatte dagli elettori".

Cosa risponde al "me ne frego" del Cavaliere?
"Che è proprio una brutta frase, vedo ripetuta anche ieri. Comunque non mi importa delle risposte sgraziate e scorrette di Berlusconi. Registro solo quanto sia paradossale, in un momento come questo, rispondere respingendo con arroganza la disponibilità dell'opposizione a sostenere lo sforzo dell'Italia".

In compenso Gianni Letta dice "si deve dialogare".
"Esiste un abisso, ancora una volta, tra le sagge parole di Letta e l'aggressività inutile del premier. Voglio essere chiaro: è per l'Italia che siamo pronti a collaborare, non per Berlusconi. Confermo la mia disponibilità al confronto, verso il Paese e il Parlamento, non verso chi guida pro-tempore il governo. Perché, questo, ancora una volta, è il problema: chi ha vinto le elezioni è convinto di aver preso il potere".

Lei è disponibile, ma il premier dice "non si collabora con chi va in piazza".
"Il premier non può non ricordare che due anni fa manifestò in Piazza San Giovanni per contestare il governo Prodi, con uno slogan che diceva "contro il regime e per la libertà". E io mi chiedo: dov'erano allora, quelli che oggi ci invitano con il ciglio alzato a rinunciare alla nostra manifestazione? L'Italia non si deve rassegnare al pensiero unico, a questo Truman Show, al Paese irreale e senza memoria che Berlusconi vuole costruire".

Ma la manifestazione del 25 ottobre la farete? E per dire cosa?
"La faremo. E sarà una manifestazione grande, popolare, di un'opposizione nazionale che ha un forte contenuto di proposta e di alternativa e che vuole unire e rassicurare il Paese. Al contrario di quella del Polo nel 2006, la nostra sarà una piazza serena e senza odio, un modo per tenere unito il Paese, e per parlare agli italiani di tutto ciò di cui tace il governo. Lavoro, salari, investimenti, scuola, piccole imprese, contrasto del razzismo. Due anni fa Prodi rispettò la manifestazione della destra a Piazza San Giovanni. Ora Berlusconi faccia altrettanto, e rispetti la nostra. Se non lo farà, sarà purtroppo un'ulteriore conferma delle nostre preoccupazioni sul profondo malessere della democrazia italiana".

m.giannini@repubblica.it

(12 ottobre 2008)


da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI. Un'identità da ricostruire
Inserito da: Admin - Ottobre 20, 2008, 05:37:48 pm
IL COMMENTO

Un'identità da ricostruire


di MASSIMO GIANNINI


Il lungo addio tra Partito democratico e Italia dei Valori si è infine consumato. A una settimana dalla manifestazione del 25 ottobre, la "rupture" decretata da Veltroni è per il centrosinistra un atto costitutivo di igiene politica, e un gesto tardivo di ricostruzione identitaria.

C'è una ragione tattica e congiunturale, che spiega la fine di questa alleanza spuria e antitetica. In Abruzzo è saltato definitivamente l'accordo che avrebbe consentito al Pd di saldare un asse solido e promettente con l'Udc, alla stregua di quello che è avvenuto in Trentino. Veltroni ha convinto Casini a siglare un patto elettorale in vista delle regionali di fine novembre: tu ritiri il tuo candidato, l'Idv ritira il suo, e tutti insieme troviamo una figura "terza" per il ruolo di "governatore", sulla quale convogliare tutti i nostri voti. Era fatta. E sarebbe stato un altro passo, forse decisivo, sulla via di una graduale ricomposizione politica tra la sinistra riformista (disintossicata dai germi massimalisti) e il centro cattolico (depurato dalle tossine berlusconiane). Ma Di Pietro ha fatto ciò che da tempo gli riesce meglio: ha detto no. E ha fatto saltare il tavolo.

La ferrea logica dei numeri dice ora che questa scelta, miope e irresponsabile, equivale a regalare l'Abruzzo al centrodestra. Se si considera che l'alzata d'ingegno dell'ex pm si produce nelle stesse ore in cui il Pd erige un muro persino esagerato per difendere come una "sua" bandiera la candidatura di Leoluca Orlando alla Commissione di vigilanza Rai, allora si capisce perché Veltroni debba aver considerato la misura ormai più che colma. E abbia deciso a sua volta di troncare il filo che lo teneva unito all'Italia dei Valori, già fragile e sfibrato soprattutto dopo gli attacchi insensati contro Napolitano riecheggiati tra la folla di Piazza Navona.

Ma c'è anche una ragione strategica e strutturale, che giustifica lo scioglimento di un "contratto" politico che, con tutta evidenza, non si doveva sottoscrivere. Fin dall'inizio, e cioè prima del voto del 13 aprile, l'accordo tra Pd e Idv è risultato strumentale e asimmetrico. Non si è capito in virtù di quale principio, nel ridefinire giustamente il perimetro delle alleanze dopo il disastroso fallimento dell'Unione e nel rivendicare con orgoglio il coraggio di presentarsi "da soli" alla resa dei conti con il Cavaliere, i riformisti abbiano concesso ai dipietristi la "deroga" che hanno negato a tutti gli altri, dai post-comunisti ai neo-socialisti. La necessità di coprirsi al centro, presidiando attraverso l'ex pm le piazze grilliste e giustizialiste, è parsa fin da allora una giustificazione ovvia, ma non sufficiente.

Ancora meno si è capito in virtù di quale principio, nel rinserrare le file dopo l'inevitabile disfatta elettorale, si è consentito a Di Pietro di rinegoziare unilateralmente i termini dell'accordo, e di rinnegare la pattuita costituzione di un unico gruppo parlamentare. Da allora, complice anche una linea "democrat" spesso timida e quasi sempre ondivaga, il tribuno di Montenero di Bisaccia ha occupato quasi per intero lo spazio politico dell'opposizione. Ha sparato sul quartier generale veltroniano, a colpi di cinica delegittimazione dell'alleato maggiore. E fingendo di assediare il Palazzo d'inverno berlusconiano, a forza di proclami populisti e barricaderi, ha finito per fare il gioco del Re di Prussia. Per lucrare una rendita di opposizione per se stesso, ha in realtà regalato una rendita di posizione al Cavaliere.

A questo punto si può chiudere una lunga stagione di ambiguità, che al Partito democratico ha recato solo danni. Ma la condizione è che, proprio alla vigilia di un rilevante appuntamento di piazza, il centrosinistra riformista riformuli il suo profilo di opposizione. Serve un'impronta più forte, più nitida, e soprattutto più coerente. E' difficile essere capiti dal cittadino, se un giorno si denuncia il rischio di "putinizzazione" della democrazia italiana e il giorno dopo si propone al "tiranno" uno scambio tra Commissione di vigilanza Rai e Corte costituzionale.

E' ancora più difficile essere votati dall'elettore, se un giorno si dichiara che il "dialogo è finito", e il giorno dopo si tratta su una pessima legge elettorale per le europee. Il Pd ora ha mani libere, e non rischia più di essere schiacciato sulle posizioni estreme di un alleato minore. Nel fuoco della crisi finanziaria e della recessione, ha molte frecce al suo arco per inchiodare il governo sulle misure di sostegno al reddito, ai consumi, agli investimenti. Rispetto a un centrodestra sempre più autarchico e autocratico, può scegliere una linea pregiudizialmente frontista o pragmaticamente trattativista. Ma fatta la scelta, ha il dovere di difenderla con rigore, e di assumerla come piattaforma per le future alleanze. E' finito il tempo delle geometrie variabili, dentro l'opposizione e nel rapporto tra opposizione e maggioranza.

Se il Pd vuole ricostruirsi come grande forza di alternativa e di governo, deve praticare la virtù dell'autonomia, senza coltivare il mito dell'autosufficienza. Nel test delle prossime amministrative l'Udc può essere una chiave, come lo sono le liste civiche con cui apparentarsi sul territorio.
Come dimostra il pessimo epilogo del caso Di Pietro, Veltroni fino ad oggi non è "andato da solo". Semmai è stato "male accompagnato". Questo errore non si deve più ripetere.

(20 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI reazione di Berlusconi è l'indizio della inquietante deriva...
Inserito da: Admin - Ottobre 27, 2008, 03:10:05 pm
L'ANALISI.

La manifestazione del Circo Massimo ha aperto lo spiraglio di una fase nuova di una politica diversa

La politica del disprezzo del premier e "l'assedio democratico" del Pd

La reazione di Berlusconi è l'indizio della inquietante deriva imboccata

di MASSIMO GIANNINI

 
SOLO nella "democrazia dell'applauso" che Berlusconi gradisce può succedere che la voce di una piazza, sicuramente severa ma serena, venga tacitata con uno spregevole "frottole e insulsaggini". Solo nell'"Impero dell'assenso" cui il Cavaliere ambisce può accadere che alla critica di un oppositore, sicuramente aspra ma legittima, si risponda con uno sprezzante "si riposi e ci lasci lavorare".

Come se nel sano gioco democratico non fosse proprio questa la funzione dell'opposizione: incalzare e insidiare ogni giorno la maggioranza, e non certo restare seduta in panchina per cinque anni, ad osservare immobile le giocate del "manovratore" e ad aspettare in silenzio che arrivi il fischio di fine legislatura.

Eppure è esattamente questa la realtà in cui vive questo Paese, degradato da un quasi Ventennio di berlusconismo dominante. La reazione del presidente del Consiglio alla grande manifestazione organizzata dal Pd al Circo Massimo è l'ennesimo indizio di quale deriva inquietante abbia imboccato il "premierato di comando" del Cavaliere. Nelle sue parole infastidite c'è una visione tecnicamente "totalitaria" della dialettica politica. Non c'è solo l'insofferenza verso ogni forma di dissenso. C'è anche l'intolleranza verso quello che Antonio Gramsci chiamava "l'assedio democratico" che le forze che ambiscono a governare, attraverso la critica incisiva e la proposta alternativa, devono portare a chi governa.

E invece è proprio questo che si è verificato sabato scorso, al Circo Massimo.
Un buon esercizio di "assedio democratico". Walter Veltroni ha riconquistato un pezzo importante dell'agorà. Cioè proprio di quello spazio, politico e pubblico, che il Cavaliere vorrebbe appunto ridotto all'assenso, o al silenzio. Già solo per questo l'evento è stato un successo per il leader che l'ha voluto, e un segnale per il Paese che l'ha osservato.

Il Pd ha dimostrato di esistere innanzi tutto a se stesso, attraverso una grande partecipazione popolare che rinsalda un legame sancito dalle elezioni primarie. Ma lo ha dimostrato anche all'Italia, attraverso un atto di fiducia collettiva che squarcia il velo del conformismo imperante ed apre almeno uno spiraglio alla speranza di una fase nuova e di una politica diversa, che può esistere al di là del "pensiero unico" della destra. Ci sarà modo e tempo per rispondere alle tre domande cruciali, che tuttora pendono sul Pd e che Veltroni ha lasciato in sospeso.

La prima domanda riguarda il rapporto con la società. Come si può ritornare a parlare a quella vasta area del Paese che ti ha voltato le spalle? Se è vero che "l'Italia è migliore della destra che lo vuole rappresentare", è purtroppo altrettanto vero che il Paese ha liberamente scelto di farsi governare proprio da questa destra "peggiore". Il centrosinistra non può non riflettere su questo, se non vuole archiviare il 25 ottobre come una prova di forza, magnifica ma autoreferenziale, e non vuole rifugiarsi nel porto sicuro, nostalgico ma minoritario, della berlingueriana "diversità".

L'ingranaggio tendenzialmente illiberale della macchina di potere berlusconiana (dominio politico-controllo economico-monopolio mediatico) è un problema enorme. Ma da solo non basta a spiegare il consenso "nordcoreano" riconosciuto al Cavaliere persino dal New York Times.

La seconda domanda riguarda il rapporto con la maggioranza. Se la natura di questa destra al governo è così rozza e imperiosa secondo la descrizione di Veltroni, così dura e dispotica secondo la reazione del premier, come si può continuare a parlare di "dialogo"? Berlusconi ha tutto l'interesse a usarlo come "termometro ideologico", per misurare tutti i rialzi di temperatura della sinistra e per denunciarne la presunta "febbre anti-democratica".

Veltroni ha tutto l'interesse a sfilarsi da questo trabocchetto politico: il Pd ha deve alzare la voce ogni volta che serve, e recuperare la sua capacità di proposta, distinta e diversa. Il dialogo può essere un buon "metodo" solo se chi lo invoca ne rispetta le regole. E soprattutto se, attraverso di esso, si raggiungono accordi migliorativi nel "merito". Ma che dialogo c'è con un premier che dichiara "facinorosa" la tua piazza composta, e respinge con un "me ne frego" qualunque offerta di collaborazione sulle misure anti-crisi? Che dialogo c'è con un ministro che definisce "campagna terroristica" la tua protesta pacifica sulla scuola, e rifiuta qualunque modifica al suo decreto? Il riformismo è modernizzazione della società, ma è anche conservazione dei valori repubblicani.

La terza domanda riguarda il rapporto con le opposizioni. Come si può rielaborare una strategia delle alleanze, riaprendo il confronto con Idv e sinistre, e provando a gettare un ponte verso l'Udc? E' un triplo salto mortale. Ma proprio il messaggio forte arrivato dal Circo Massimo consente l'azzardo. Se il Pd gioca le sue carte a viso aperto nella sua metà del campo, con la forza di un profilo identitario che respinge il massimalismo ma con il coraggio di un progetto radicalmente alternativo a quello della destra, può fare sua l'intera posta.

La prova è nelle parole concilianti di Di Pietro, che ora definisce la piazza veltroniana "la mia casa". E' la prova che sbaglia chi confonde il riformismo con la moderazione. Tanto più al cospetto di una "dittatura della maggioranza" così pervasiva, il riformismo deve coniugare responsabilità, compatibilità, ma anche radicalità. Lo slogan "un'altra Italia è possibile" non può diventare una scorciatoia nella suggestione anti-globalista e alter-mondialista. Ma il senso di questa festa del 25 ottobre dimostra che "un'altra politica" non solo è possibile, ma è necessaria.

Metterla responsabilmente in campo, ed opporla fermamente alla destra, è da oggi in poi la missione del Pd. Ma a condizione che i suoi leader smettano di indulgere nelle rituali pratiche di cannibalismo interno, ed inizino finalmente a dimostrarsi all'altezza del compito che le centinaia di migliaia di persone presenti al Circo Massimo gli hanno affidato. Per una sinistra riformista non ci sarebbe stagione più propizia di quella in cui bruciano, in un gigantesco falò delle vanità, gli immensi "valori di carta" del turbo-capitalismo moderno.


(27 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Veltroni: La reazione del premier alla nostra manifestazione...
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2008, 09:35:53 am
Intervista a Veltroni: "La reazione del premier alla nostra manifestazione è stata imbarazzante. Berlusconi non conosce le regole della democrazia"

"Crisi economica insopportabile voteremo un decreto sui salari"

"Detassare stipendi e pensioni: un provvedimento così si approverebbe in 5 minuti

In pochi mesi abbiamo creato una grande forza del riformismo di massa.


di MASSIMO GIANNINI


ROMA - "L'impoverimento del Paese è ormai una vera e propria emergenza nazionale. Berlusconi fa finta di non averlo capito. Ma così l'Italia non può andare avanti. Chiedo al governo un atto immediato di responsabilità: presenti un decreto urgente, per dare, a cominciare dalle tredicesime e per i prossimi anni, un importante sgravio fiscale a salari, stipendi e pensioni. E' necessario un importo medio tra i 400 e i 600 euro per sostenere la domanda interna. E questo è tanto più necessario per un paese come il nostro che ha livelli di povertà superiori alla media europea. Sono circa quindici milioni gli italiani sotto o appena sopra la terribile soglia di povertà. Se presentano un provvedimento così, siamo pronti a votarlo subito".

Tre giorni dopo la grande manifestazione del Pd al Circo Massimo, il leader Walter Veltroni accusa il governo e rilancia la sfida sulla crisi dell'economia. "C'è un'urgenza assoluta di provvedimenti che affrontino la durissima recessione in corso, tra aumento verticale della cassa integrazione, difficoltà creditizie enormi per le imprese, aumento esponenziale della precarietà dei lavoratori".

Secondo lei Berlusconi non si rende conto della drammaticità della situazione?
"Assolutamente no. Infatti invita gli imprenditori a cena per convincerli a spendere più soldi per gli spot sulle sue reti tv. Tutto questo è scandaloso. Per questo rilancio la mia proposta. Non basta detassare gli straordinari, infrequenti in tempi di recessione. Detassino subito i salari e le pensioni e garantiscano i flussi bancari, attraverso un fondo di garanzia, per le piccole e medie imprese. Se presentano al Parlamento un provvedimento del genere, lo approviamo in cinque minuti".

Lei non vuole proprio seguire il consiglio del Cavaliere, che nonostante il bagno di folla di sabato le dice "si riposi per i prossimi cinque anni"?
"Ho trovato la reazione del premier francamente imbarazzante. Solo lui poteva pronunciare parole di quel genere, che confermano la sua sostanziale estraneità alla cultura delle regole e l'idea sostanzialmente illiberale di una persona che non conosce a fondo la grammatica della vita democratica, che presuppone rispetto di chi la pensa diversamente. I governi esistono in tutti i paesi, mentre le opposizioni esistono solo nei paesi democratici. É questo principio che Berlusconi dimostra di non saper accettare. E per questo si spaventa di fronte a un grande movimento di popolo. Prenda il caso della scuola. I loro tagli e la loro "riformetta" sono mille miglia lontani da quel grande disegno di innovazione, fondata su pari opportunità e merito, di cui il sistema formativo italiano avrebbe bisogno. Invece di minacciare la polizia sarebbe giusto ritirare il decreto e sedersi a discutere, con una scadenza definita, con il mondo della scuola".

Lei parla di "grande movimento di popolo". Loro rispondono che il Circo Massimo è stato un flop, altro che 2 milioni e mezzo.
"E' un segnale di nervosismo inquietante. Un misto di arroganza e di smarrimento. Ho in tasca i ritagli dei giornali di due anni fa, dopo la manifestazione della Cdl a Piazza San Giovanni. Berlusconi disse "siamo oltre 2 milioni". A me non interessa rispondere con i numeri della manifestazione di sabato. So solo che noi, un partito solo, il Pd, eravamo tre volte tanti rispetto a loro, cioè i tre partiti Fi-An-Lega che manifestarono nel 2006 in una piazza, come tutti sanno, infinitamente più piccola del Circo Massimo. Non credono alle nostre cifre? Non mi importa: mettano loro la cifra che vogliono. Ma poi la moltiplichino comunque per tre. Per fortuna anche tra loro si cominciano a sollevare voci diverse. Fini, Fitto, Prestigiacomo. Si deve avere rispetto per una grande manifestazione di popolo. Perché questa è stata la nostra giornata al Circo Massimo. Guardi qua, il titolo di "Le Monde": parla di una "marea umana". Ora, questa marea umana qualcosa deve insegnare. Prima di tutto al governo, ma poi anche a noi stessi".

E cosa deve insegnare, secondo lei?
"Il Circo Massimo è stato un evento di straordinaria intensità, compostezza, serenità. Nulla a che vedere con le espressioni di odio della manifestazione della Cdl di due anni fa. Quell'evento parla in due direzioni. La prima direzione è il Paese, e la rappresentazione che al Paese danno i commentatori della vita politica. A me piacerebbe molto, oggi, che qualcuno tra costoro dicesse "forse ci siamo sbagliati". A dire che il Pd non esiste, che la sua leadership è debole. La marea umana di sabato ha spazzato via tutte queste diagnosi. Ha dimostrato non solo che il Pd esiste, ma anche che è forte, ha senso di appartenenza, radici, orgoglio e identità proprie. E soprattutto ha dimostrato che il Pd ha un popolo. Un grande popolo democratico, di cui tutti si devono rendere conto, e a cui tutti dobbiamo rendere conto".

Lei dubitava anche di questo?
"Non io. Io ero tranquillo sul successo dell'iniziativa perché sentivo crescere il disagio nel Paese, mentre non stavo a sentire le troppe cassandre che dicevano che la manifestazione era inutile. Ora ho avuto la conferma di quanto sia stata giusta la nostra scelta. Il Pd è nato meno di un anno fa. Si è costruito un profilo politico, si è dato un simbolo, un programma, una struttura, una carta dei valori, uno statuto, ma soprattutto si è costituito il popolo democratico, con il suo orgoglio e la sua identità. In pochi mesi abbiamo fatto ciò che in Italia non era mai riuscito a nessuno, dal Partito d'azione in poi: creare una grande forza del riformismo di massa, perché il riformismo non è una variabile del moderatismo. Il riformismo è innovazione. E io traggo dalla folla del Circo Massimo la spinta ad andare ancora più avanti sulla strada delineata al Lingotto. Una grande forza nazionale, di popolo, capace di contrastare ogni conservatorismo".

"Riformismo di massa": è così che lo ha definito. Non sembra un ossimoro?
"Sembra, ma non lo è affatto, perché di questo in effetti si tratta. Sa qual è la mia più grande soddisfazione, di fronte a quella folla immensa di sabato scorso? Il fatto che al Circo Massimo sventolassero solo bandiere del Pd. E non ci fossero altre bandiere. Questa, per l'Italia, è davvero un'epifania politica. Vuol dire che per la prima volta può scendere in piazza il popolo del riformismo. E vuol dire che per la prima volta può farlo senza sentirsi più "ex" di nulla. E se non si sente più "ex" il nostro popolo, meno che mai ci si deve sentire il nostro partito. Questa è la svolta che è necessaria: il Pd deve essere un partito del popolo. Per questo ho evitato di parlare di partiti, di alleanze, e invece ho parlato di persone, di operai, di piccoli imprenditori, di precari, di studenti. Io mi voglio alleare con la gente, perché penso che i cittadini esistano in quanto tali, non in quanto appartenenti a questo o a quel partito. Delle appartenenze ci si occuperà dopo".

La frase "la destra è peggiore dell'Italia che vuole rappresentare" non è un controsenso, visto che l'Italia ha chiesto proprio a quella destra di governarla?
"Nessun controsenso. Con quella mia frase voglio testimoniare a tutti gli italiani, compresi quelli che non ci votano, che noi siamo la forza responsabile che può portare l'Italia fuori da questa lunga notte. Vede, per il centrodestra hanno votato tanti italiani che hanno creduto alle promesse di Berlusconi, meno tasse più sicurezza e così via, e che oggi sono delusi. Ebbene, a quel Paese che lavora e che produce, e che non è dominato dall'ideologia e dalla xenofobia, io voglio testimoniare che noi siamo la forza, di volta in volta moderata e radicale, che può dare le risposte che cerca".

Parla da leader di un nuovo "populismo di sinistra", come scrive Edmondo Berselli?
"Depurata dall'"ismo", che come tutti gli "ismi" non mi piace, è una formula che approvo. Il Pd è e deve essere sempre di più un "partito del popolo". Questo è il senso della bellissima sfida democratica".

Lei accennava al Circo Massimo come un evento che parla in "due direzioni". La prima l'abbiamo capita, è il Paese. Qual è la seconda?
"E' il centrosinistra. Quella piazza ci sbatte in faccia per la terza volta la realtà vera, quella che abbiamo già conosciuto con l'enorme partecipazione delle primarie del 2007 e poi con quel 33,7% ottenuto alle elezioni del 13 aprile. E la realtà vera ci dice che il popolo del Pd vuole da noi certo una discussione democratica, ma anche e soprattutto coesione, spirito di squadra e contrasto dell'avversario. Basta con i distinguo e le interviste polemiche. Abbiamo di fronte una battaglia politica molto difficile, per affrontarla dobbiamo essere uniti. Tutti, senza eccezioni".

Non si illuderà mica di dare una spallata a Berlusconi, che viaggia col vento dei consensi in poppa?
"Noi dobbiamo convincere gli elettori, soprattutto i moderati, che quel vento sta cambiando. Ce lo confermano tre dati significativi. Primo dato: la manifestazione del Circo Massimo, che dimostra che un'altra politica è possibile. Secondo dato: l'ultimo sondaggio di Mannheimer dà il governo in calo di 18 punti e mezzo. Terzo dato: il voto in Alto Adige, con la destra che perde 3 punti alla provincia di Bolzano e 10 a Bolzano città. Sono primi segnali di uno sfaldamento che, prima o poi, arriverà. La crisi economica è realmente drammatica. Questa destra non l'ha capito, e ne pagherà le conseguenze. Purtroppo a pagarle saranno anche e soprattutto gli italiani".

m. gianninirepubblica. it


(28 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI. Intervista a Massimo D'Alema: "Veltroni coinvolga tutti...
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2008, 11:22:18 pm
Intervista a Massimo D'Alema: "Veltroni coinvolga tutti, il profilo riformista va alzato"

"Walter prenda l'iniziativa altrimenti non ci si lamenti se nascono le fondazioni" "

"Tra Berlusconi e il paese idillio finito nel Pd si deve aprire una nuova fase"

di MASSIMO GIANNINI


ROMA - "La protesta di massa sulla scuola, la drammatica crisi economica che attanaglia famiglie e imprese. Ormai è evidente: l'idillio tra Berlusconi e l'Italia si sta incrinando e la vicenda della legge elettorale europea, di cui apprezziamo il ritiro, non è solo il risultato della fermezza dell'opposizione ma anche di difficoltà interne alla maggiranza. Di qui dobbiamo partire per rifondare un nuovo centrosinistra, che rappresenti agli occhi dei cittadini un'alternativa vera e credibile per il futuro governo del Paese". Ammainate le bandiere della grande manifestazione del 25 ottobre, Massimo D'Alema scende in campo e suona la carica al Partito democratico e a Veltroni. "Adesso - dice l'ex premier ed ex ministro degli Esteri - bisogna lavorare per costruire intorno al Pd una vasta coalizione democratica, e che ci permetta di alzare il nostro profilo riformista, di dialogare con tutte le opposizioni, di parlare ai ceti moderati che hanno votato Berlusconi, e che ora capiscono la sua palese inadeguatezza".

Onorevole D'Alema, non è che state scommettendo un po' troppo su questa "fine della luna di miele" tra il Cavaliere e gli italiani?
"Nessuna illusione. Ma non possiamo non vedere quello che sta succedendo. L'Italia attraversa una crisi senza precedenti, che sarà di lungo periodo. Si è ormai dissolta l'idea che Berlusconi vivesse una sorta di 'luna di miele permanentè con il Paese. Stanno esplodendo i primi, seri problemi nel rapporto tra il governo e i cittadini. Sta crollando come un castello di carta la straordinaria 'fiction'costruita dal governo in questi mesi. Ci sono problemi enormi, il governo li ha gravemente sottovalutati e oggi dimostra di non avere la forza per affrontarli con la necessaria radicalità".

In realtà, l'unico serio "problema nel rapporto tra il governo e i cittadini", come lo chiama lei, riguarda la scuola.
"E le pare una cosa da poco? Quello che sta accadendo sulla scuola merita una grandissima attenzione. Un insegnate mi faceva notare una cosa molto giusta: mentre nel �77 in prima fila c'era la parte meno qualificata del corpo studentesco, oggi in testa ai cortei ci sono i primi della classe, che non vedono più una prospettiva per il futuro. Perché questo succede: se tagli gli investimenti nelle università, blocchi il turn over e cacci i ricercatori, rubi il futuro agli studenti più bravi e più capaci. Ora, io penso che l'opposizione debba rispettare e non strumentalizzare i fatti. Ma gli scontri dell'altro ieri a Roma mi hanno enormemente allarmato. Ci sono aspetti che devono essere chiariti e che riguardano anche la condotta della polizia: il centro era tutto bloccato alla circolazione, per chiunque, eppure un furgoncino carico di mazze è potuto arrivare fino a Piazza Navona, dove ha scaricato la sua 'merce', e dove un gruppo di squadristi ha atteso il corteo degli studenti. Com'è possibile?".

Comunque sulla scuola chi è senza peccato scagli la prima pietra.
"E' evidente, ma da questa crisi non si esce con le scelte primitive della destra. Giusto colpire gli sprechi e i privilegi, ma per farlo non si possono prosciugare le risorse di tutta la scuola. Giusto colpire gli abusi al diritto di assistenza dei disabili, ma per farlo non si può eliminare il diritto. Giusto colpire i casi di 'baronatò e i corsi universitari con un solo studente, ma per farlo non si può tagliare 1 miliardo di euro a tutta l'università. L'autonomia non è arbitrio. E il fatto che non ci siano i soldi è una scusa. Le scelte compiute dal governo su Alitalia alla fine costeranno 2 miliardi ai contribuenti. La soppressione dell'Ici per i più abbienti è costata 3,5 miliardi. Quei soldi c'erano. Il problema è che sono stati usati per effettuare una politica redistributiva a favore della parte più ricca del Paese. Quindi il governo non è stato costretto a tagliare: ha fatto una scelta, ben precisa. Ed è una scelta di destra che il Paese mostra di non gradire".

Lei ha qualche dubbio sul referendum contro la legge Gelmini. Perché?
"Non è questione di dubbi. Penso che il referendum è uno strumento monco e improprio, perché i tagli alla scuola approvati in Finanziaria non sono materia da referendum, e le norme della Gelmini, se e quando il referendum si facesse, cioè all'incirca nel 2010, avranno già prodotto i loro effetti. Quindi io dico: raccogliamo pure le firme, ma impegniamoci davvero, qui ed ora, per costringere il governo a un cambiamento di rotta".

Quali altri segnali vede, di questa incrinatura tra il governo e il Paese?
"C'è il profondo malessere che sta crescendo dentro la stessa maggioranza sulla riforma delle legge elettorale per le europee. Su questo abbiamo fatto una riunione con tutti i gruppi parlamentari. Ebbene, oltre a una convergenza sul tema specifico, è emersa la preoccupazione condivisa sulla visione della democrazia di questa maggioranza: questa idea oligarchica, presidenzialista e plebiscitaria del potere, indebolisce la democrazia e produce solo una parvenza di decisionismo".

Ma la denuncia di questa situazione, e tutti i no che ne derivano, basta a voi dell'opposizione per mettervi l'anima in pace?
"No, non basta. E qui veniamo al cuore del problema. Questa crisi, drammatica, non è solo della maggioranza, è del Paese. E questo da un lato getta le basi per una prospettiva politica nuova, dall'altro lato carica l'opposizione di una grande responsabilità. Dobbiamo alzare nettamente il nostro profilo riformista. Dobbiamo ridefinire il progetto politico dell'opposizione, e aprire una fase nuova che ci consenta di creare un campo di forze per l'alternativa. E non sto parlando di nomenklatura, ma di pezzi della società italiana, di ceti moderati, di classi dirigenti, che devono tornare a guardare a noi come a un nuovo centrosinistra di progetto e di governo, che non riproduca i limiti e gli errori del passato. La costruzione di questa coalizione va di pari passo con la nostra capacità di parlare al Paese, che non è solo quello che scende in piazza".

La vostra piazza del 25 ottobre non doveva servire proprio a questo?
"E' stata una piazza molto bella, soprattutto perché è stata festosa. Tuttavia, dopo il grande sforzo comune di quella manifestazione, mi piacerebbe adesso che l'insieme del gruppo dirigente fosse coinvolto in una riflessione per il rilancio della nostra prospettiva. Capisco l'appello di Veltroni all'unità, ma è innanzitutto da lui che deve venire l'iniziativa per favorirla e renderla efficace. Siamo in uno scenario che sta cambiando profondamente. Siamo passati dall'illusione di una partnership con Berlusconi per fare le riforme (quello che Ferrara sul Foglio sintetizzava con l'espressione 'Caw'), ad una aspra conflittualità, di cui innanzitutto il premier porta la responsabilità. Ora, però, è molto importante dare anche forza propositiva alla nostra iniziativa e rilanciare la capacità di dialogare con l'intera società italiana".

Partiamo dall'opposizione. Il suo ragionamento implica che, a partire da Di Pietro, vadano ridiscusse le alleanze. E' così?
" Prima ancora di questo occorre mettere a fuoco un nuovo progetto riformista e riformatore per l'Italia, sul quale cercare il massimo dei consensi possibili, e non solo nell'opposizione. I temi non mancano: dai meccanismi per il voto europeo al federalismo, dal referendum sulla legge elettorale al Mezzogiorno. Insomma, anziché una inutile discussione tra di noi se si debba guardare a destra o a sinistra, ciò che dobbiamo fare è accrescere la nostra capacità di attrazione, a partire dal nostro progetto riformista e dall'iniziativa politica che mettiamo in campo. L'obiettivo, certamente, è quello di allargare il campo delle alleanze".

E cosa intende quando parla di riflessione sul Pd e sulla sua organizzazione interna? Siamo di nuovo alla diarchia conflittuale D'Alema-Veltroni?
"No, nessuna diarchia e nessun conflitto. Ma per il Pd il problema non pienamente risolto continua ad essere quello della piena valorizzazione delle sue risorse. Andiamo verso la conferenza programmatica, e quello sarà un momento di verifica importante proprio per marcare il nostro profilo riformista. Questo richiederebbe il contributo di tutti, perché in caso contrario è inevitabile che le forze si disperdano. Se non è il partito a chiamare ed impegnare tutti, non ci si può lamentare se nascono fondazioni, associazioni, e iniziative di vario segno"..

La sua Red come la vogliamo giudicare?
"Io mi occupo della Fondazione Italianieuropei. Red è un'associazione che ci aiuta a sviluppare i nostri progetti, e sta coinvolgendo molte persone anche fuori dal Pd. Non c'è nulla di anormale in questo. E' sbagliata l'immagine di un partito che si identifica in un principe buono, minacciato da un gruppo di pericolosi oligarchi cattivi".

E questa idea chi la mette in giro, se non tutti voi messi insieme?
"Io non mi riconosco tra i diffusori di questa immagine. Veltroni è il leader del Pd. Come sa io non ho incarichi e non ne cerco. Sono uno dei pochi che ha lasciato incarichi per favorire il rinnovamento. Ma in questo partito c'è un gruppo dirigente formato da molte personalità, e non da oligarchi cattivi. Questo gruppo dirigente è anche una garanzia del rapporto tra il Pd e il Paese. Mettere al lavoro queste persone, vecchie e giovani, non indebolisce Veltroni, ma al contrario lo rafforza".

E il congresso straordinario che fine ha fatto? Ormai si farà dopo le europee.
"Non ho mai chiesto che si tenesse un congresso straordinario. Il congresso com'è previsto dallo statuto, si terrà dopo le europee".

Comunque di tempo ne avete. Il Cavaliere vi consiglia un riposo di 5 anni.
"Berlusconi non ha molto da ironizzare. I sondaggi dicono che le difficoltà della maggioranza sono serie, il governo ha perso 18 punti. Ma la fine dell'idillio non si traduce in un travaso di consensi dalla maggioranza all'opposizione. Quando un Paese non ha fiducia né nel governo, né nell'opposizione significa che c'è il rischio di una democrazia più debole. Anche per questo è urgente rilanciare non solo la nostra battaglia di opposizione, ma il nostro progetto politico. Il partito del centrosinistra riformista è nato per questo".
m.giannini

(31 ottobre 2008)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Se prevale l'ideologia
Inserito da: Admin - Novembre 14, 2008, 10:34:28 pm
ECONOMIA   

Se prevale l'ideologia


di MASSIMO GIANNINI



ROMA - La sana retorica del Sogno americano spinge Paul Krugman a evocare il prossimo avvento di "Franklin Delano Obama" e la possibile apertura di un nuovo corso rooseveltiano, ricco di speranza e proiettato nel futuro. L'insana logica dell'incubo italiano ci costringe a fare i conti con un conflitto politico-sindacale fuori dal tempo e dalla storia, gravido di rischi e ripiegato sul passato.

Di fronte alla tempesta perfetta dei mercati finanziari e dell'economia reale, una classe dirigente degna di questo nome, in una democrazia seria e responsabile, si darebbe un'unica missione: unire gli sforzi collettivi in una sorta di "comitato di salute pubblica" e concordare, nei limiti del possibile e nel rispetto dei rispettivi ruoli, le misure necessarie a fronteggiare la crisi. Ma in questa Italia arrabbiata e irresponsabile succede l'esatto contrario. Tutto va in frantumi.

La maggioranza rompe con l'opposizione, la Cgil rompe con il governo, i sindacati confederali rompono tra di loro, gli irriducibili rompono con gli autonomi. In questo quadro in rapida decomposizione l'unica cosa che resiste sono gli scioperi, che sono un costo per gli imprenditori, un sacrificio per i lavoratori e un danno per i consumatori.

Stiamo assistendo a una stupefacente moltiplicazione di errori tattici, di rigurgiti ideologici, di riflessi condizionati. Il primo errore lo commette Berlusconi, che in un momento di forte tensione sociale non trova di meglio da fare che tagliar fuori la Cgil da un vertice segreto a Palazzo Grazioli in cui riunisce ministri economici, Confindustria, Cisl e Uil. Il secondo errore lo commettono la Marcegaglia, Bonanni e Angeletti, che non avvertono l'urgenza morale e l'esigenza politica di chiedere l'allargamento del tavolo o di rifiutare l'invito del premier.

Sono errori dettati non da dilettantismo, ma da un ideologismo: questo governo di destra sempre più marcata, soprattutto attraverso la filiera dei ministri ex-socialisti memori delle feroci battaglie sulla scala mobile, non rinuncia all'obiettivo di regolare una volta per tutte i conti con la Cgil: l'ultimo avamposto del dissenso sociale contro un esecutivo che, ormai, tollera solo il consenso universale.

A questo ideologismo (che trova una sponda gregaria nei segretari di Cisl e Uil, colpevolmente disposti a riesumare il fantasma degli accordi separati e lo spettro dei Patti della lavanderia) Epifani risponde con un riflesso pavloviano. Un altro sciopero il 12 dicembre, stavolta solitario, che si somma all'impressionante sequenza "cilena" delle agitazioni in corso: da quella dei cobas Alitalia che da tre giorni tengono sotto ricatto il Paese (dalla quale si sono dissociate le sigle del cosiddetto Fronte del no) a quella dell'Onda studentesca che domani torna in piazza contro la riforma Gelmini e i tagli alle università (dalla quale, per riflesso pavloviano uguale e contrario, si è ora dissociata la Cisl).

Da questo scenario di conflittualità endemica l'opinione pubblica può ricavare solo un'inquietante sensazione di inadeguatezza. È inadeguato il governo, cui sta palesemente sfuggendo il controllo della situazione. Siamo in pieno ciclo recessivo, e non si vede ancora una "exit strategy". Si rincorrono voci, si alternano ipotesi, ma per ora si sa solo che "anche il Tesoro ha problemi di liquidità", come avverte Tremonti. In questo clima, il premier dovrebbe avere tutto l'interesse a svelenire il clima: costruire un pacchetto anti-crisi, coinvolgere l'opposizione sindacale in un confronto leale e trasparente di fronte al Paese, chiamare l'opposizione politica a un dibattito serrato ma rispettoso di fronte al Parlamento.

Sta facendo l'opposto. Delegittima il centrosinistra e insulta il Pd. Spacca la Triplice e attacca la Cgil. È una scelta insensata e potenzialmente suicida. Un vero uomo di Stato come Nicolas Sarkozy non la compirebbe mai.

Ma è inadeguato anche il sindacato. La drammaticità del momento richiederebbe quello che un tempo si sarebbe definito un "equilibrio più avanzato". Uno sforzo unitario, piuttosto che la ricerca di una distinzione. Il terreno è infido, ma ci sarebbe. La crisi morde più duramente i ceti meno abbienti, che vanno difesi con tutti gli strumenti possibili. Ma è ormai chiaro che molti (tra gli ultimi, i penultimi e comunque i più deboli) sono fuori e lontani dal perimetro della rappresentanza confederale.

E dunque le piattaforme rivendicative e le "azioni di lotta" di Cgil, Cisl e Uil, tanto più se frammentate e contraddittorie tra loro, finiscono per assumere una fisionomia fatalmente corporativa, che spesso tutela chi è già tutelato e magari lascia scoperto chi non gode di alcuna protezione sociale. E per quanto possano essere legittime le proteste e le agitazioni messe in campo dai confederali in questi e nei prossimi giorni (al contrario di quelle realizzate da Aquila Selvaggia, in palese violazione delle norme di legge) non si può non tenere conto del devastante effetto-domino che producono nei cittadini, sempre più esasperati dai disservizi pubblici e dai disagi privati. Sono scelte scontate e probabilmente autolesioniste. Un grande leader sindacale come Luciano Lama non le avrebbe mai compiute.

m. gianninirepubblica. it

(13 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Una manovra da 10 minuti
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2008, 11:43:30 pm
ECONOMIA      IL COMMENTO

Una manovra da 10 minuti

di MASSIMO GIANNINI


C'è qualcosa che non torna, nella filosofia adottata dal centrodestra per fronteggiare il micidiale intreccio di recessione-deflazione che sta soffocando l'economia italiana. Più che un "piano keynesiano", come lo definisce Giulio Tremonti, il decreto anti-crisi approvato dal governo somiglia a un "programma malthusiano". Scambia la carità di Stato per sostegno al reddito. Confonde il beneficio una tantum con il rilancio dei consumi. Spaccia il rinvio di un acconto fiscale per supporto agli investimenti. Se è vero che ad una "crisi eccezionale" si deve rispondere con "misure eccezionali", come ha detto Barroso tre giorni fa, la risposta italiana non è all'altezza della sfida. Di veramente "eccezionale", nel provvedimento, c'è solo la rapidità con la quale è stato licenziato dal Consiglio dei ministri: dieci minuti.

Trenta secondi in più dei nove minuti e mezzo con i quali fu approvata prima dell'estate la manovra di bilancio triennale. È la conferma che il governo è più interessato al "come" e molto meno al "cosa" si decide. Ma al di là di questa nuova performance decisionista (o "cesarista", secondo la disincantata visione di Gianfranco Fini) il New Deal tremontiano è insufficiente e deludente. La rituale raffica di soccorsi a pioggia. Nessuno di questi, singolarmente preso, inutile e disprezzabile. Ma è l'insieme delle misure, complessivamente considerate, che non suggerisce un disegno generale e strutturale. Il decreto parla in parte ai poveri, che non hanno avuto nulla da anni. Ma parla poco alle imprese, che dovrebbero essere il motore della ripresa. E non parla affatto ai ceti medi, che dovrebbero essere il volano della domanda. In compenso ha un forte accento populista, che il ministro dell'Economia rimarca con una mossa plastica in conferenza stampa: si toglie la giacca, si allenta la cravatta, e illustra il suo "pacchetto" così, da peronista "descamisado".

La manovra è insufficiente per quantità. Gli 80 miliardi venduti dal Cavaliere non possono ingannare nessuno. La quasi totalità di questa cifra-monstre è assorbita da fondi Ue e risorse Cipe per grandi opere che diventeranno agibili tra qualche decennio e infrastrutture che forse non lo diventeranno mai (come l'immancabile Salerno-Reggio Calabria). L'entità vera, per famiglie e imprese, non supera i 4 miliardi di euro. "Non potevamo fare manovre che aumentano il debito del 50% come fanno alcuni Paesi, proprio noi che abbiamo un debito pari al 105% del Pil", aggiunge Tremonti.

Un approccio molto responsabile. Ma da un lato colpisce che oggi sia proprio lui, dopo aver picconato senza pietà i "tecnocrati" del centrosinistra alla Ciampi e Padoa-Schioppa, a vestire i panni dell'ortodossia contabile. E dall'altro lato stupisce che oggi sia di nuovo lui, dopo aver inventato la finanza creativa e le cartolarizzazioni, a non saper trovare nelle pieghe del bilancio pubblico le risorse aggiuntive che avrebbero permesso di raddoppiare l'importo della manovra, come sarebbe stato necessario. Un esempio su tutti, già indicato da Tito Boeri: i 3,82 miliardi di euro di interessi sul debito risparmiati grazie al minor rendimento corrisposto dal Tesoro sui titoli di Stato.
La manovra è deludente per qualità. Da un ministro dell'Economia "fantasioso" come il nostro, era legittimo aspettarsi molto di più, rispetto all'ordinaria riproposizione delle solite misure-tampone, oltre tutto spalmate su una platea talmente estesa di beneficiari teorici che alla fine non ci saranno benefici pratici per nessuno. Tremonti usa un doppio registro. Nel rapporto con i cittadini-contribuenti, il registro è quello dello "Stato minimo" friedmaniano: molte banali una tantum, a sfondo demagogico e pauperista. Il bonus straordinario per le famiglie con redditi fino a 22 mila euro è senz'altro un aiuto a chi è più in affanno, ma difficilmente servirà a far ripartire gli acquisti da Natale in poi: la detassazione integrale delle tredicesime avrebbe avuto un impatto molto diverso. L'ampliamento del fondo degli ammortizzatori sociali per i lavoratori "parasubordinati" è senz'altro un gesto di buona volontà, ma non potrà mai coprire i bisogni dei 350 mila "atipici" che di qui a fine anno si ritroveranno senza contratto.

La Social Card da 40 euro al mese per i pensionati con meno di 6 mila euro di reddito è comunque una boccata d'ossigeno per chi non arriva alla quarta settimana. Peccato che quasi tre milioni di italiani non arrivino più neanche alla seconda, e dunque avrebbero bisogno di sussidi molto più consistenti. E sarebbe meglio evitare paragoni impropri tra la nostra "tessera del pane" (che vale 480 milioni di euro e di fatto trasforma un diritto del Welfare in un'elemosina del Sovrano) e i kennediani "Food stamp program" (che impegnano ben 10 miliardi di dollari e interessano quasi 30 milioni di americani incapienti).

Nel rapporto con gli altri poteri pubblici, al contrario, il registro è quello dello "Stato massimo" colbertiano: molti interventi a gamba tesa, dirigisti e anti-mercatisti. Il calmiere per i mutui a tasso variabile, con la copertura dello Stato per la quota di interessi superiore a 4%, trasforma la rinegoziazione dei contratti in un'imposizione governativa, benché rischi di rivelarsi una beffa visto che a gennaio, con il calo del costo del denaro già avviato dalla Bce, quel livello sarà raggiunto spontaneamente dal mercato. La sottoscrizione dei "bond" per le banche in difficoltà che vi faranno ricorso prevede l'obbligo di trattare con il Tesoro le condizioni di erogazione del credito alle piccole e medie imprese. Il blocco degli automatismi tariffari per l'elettricità e le autostrade mette a rischio i timidi passi di questi anni verso le liberalizzazioni, e prefigura quasi un ritorno al vecchio sistema dei prezzi amministrati.

Si potrebbe continuare. E parlare dello sconto Ires-Irap per le imprese, davvero troppo modesto per rappresentare una svolta per tante piccole aziende soffocate dal "credit crunch". O dell'aumento della quota di detassazione del salario di produttività, che poteva essere più corposo fin dall'inizio se solo si avesse avuto il buon senso di non detassare anche gli straordinari (mossa del tutto insensata in un ciclo di bassissima congiuntura). O ancora dell'inasprimento dell'Iva sulle pay-tv, bastosta secca contro Murdoch, ex alleato e ora acerrimo concorrente del Cavaliere: una norma che serve a Mediaset a far finta di indignarsi (con tanto di comunicato "di disappunto") mentre è chiaro a tutti che l'impero mediatico berlusconiano è il carnefice, mentre la vittima è solo Sky. Al fondo, resta l'impressione di una "manovrina d'autunno" modesta e contraddittoria. Così poteva farla il governo Prodi prima del tracollo di due anni fa, o lo stesso governo Berlusconi subito dopo il trionfo del 13 aprile.

Oggi serve molto di più, e molto di meglio. Se i democratici americani di Obama hanno avuto il grande merito di vincere le elezioni proponendo il ritorno "da Wall Street a Main Street", mentre i democratici italiani di Veltroni hanno avuto la grande colpa di esser passati in troppa fretta "from Marx to market", la ricetta berlusconian-tremontiana tradisce un impianto bushista, da "conservatorismo compassionevole". È probabile che lo sciopero della Cgil, confermato da Guglielmo Epifani, non serva a cambiare il corso della storia. È possibile che "l'unità degli sforzi", chiesta dalla Confindustria di Emma Marcegaglia, sia più utile a far uscire l'Italia dal declino. Ma la richiesta di "collaborazione nell'interesse del Paese", strumentalmente rilanciata dal premier all'opposizione, è solo l'ennesima presa in giro che avvelena il confronto parlamentare. Eppure di correzioni e di integrazioni ci sarebbe un enorme bisogno. Perché una cosa è chiara a tutti: questo falso "piano rooseveltiano" del governo non potrà reggere l'urto della tempesta perfetta.
m. gianninirepubblica. it


(29 novembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'editto albanese
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2008, 07:21:46 pm
ECONOMIA      L'EDITORIALE

L'editto albanese

di MASSIMO GIANNINI


Sei anni dopo l'editto bulgaro dell'aprile 2002 contro Biagi, Santoro e Luttazzi, è arrivato anche l'editto albanese contro i direttori dei giornali. Di ritorno da Tirana, il Cavaliere ci ha regalato un altro esempio del suo personalissimo modo di essere uno "statista liberale".

Non bastano più la militarizzazione della politica e la colpevolizzazione dell'avversario, la delegittimazione delle istituzioni e la denigrazione del dissenso. Ora siamo all'attacco pubblico rivolto contro le singole testate giornalistiche, i loro titoli, le loro vignette.

"Colpevoli" di aver informato i propri lettori su quanto accade ai danni di Sky con l'inasprimento dell'Iva, e di aver rivelato ciò che è palese a tutti e che questo giornale denuncia da anni: l'insostenibile conflitto di interessi che esplode sistematicamente tra il Berlusconi capo del governo e il Berlusconi proprietario di Mediaset.

Ma stavolta quel minaccioso "cambiate mestiere" indirizzato ai direttori (per lui un altro "cancro da estirpare", proprio come i magistrati) tradisce ormai molto di più del suo già colossale conflitto di interessi. Molto di più del vittimismo arrogante e manipolatorio, con il quale trasforma ogni volta un torto inflitto in un torto subito. Molto di più della "follia" lacaniana (e nient'affatto erasmiana) che lo pervade ogni volta che è in gioco il suo impero mediatico. Dietro quelle parole del Cavaliere c'è davvero una visione tecnicamente "totalitaria" della democrazia, che tra un editto e l'altro sta ormai precipitando in un'autocrazia.

m.giannini@repubblica.it


(3 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Veltroni: "In direzione ci contiamo, poi tutti a remare...
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2008, 09:48:48 am
L'INTERVISTA.

Veltroni: "In direzione ci contiamo, poi tutti a remare per il Pd"

"Il centrosinistra ricade nel solito vizio autolesionista: segare l'albero su cui sta seduto"

"Basta veleni e attacchi anonimi chi vuole un nuovo leader esca fuori"


di MASSIMO GIANNINI


ROMA - "Io non amo parlare di questioni interne al Pd, ma di fronte a quello che sta accadendo avverto la necessità di dire: adesso basta. Basta con le confessioni anonime, basta con i retroscena, basta con i veleni. È inimmaginabile che nel cuore di una crisi economica gravissima e di una crisi di consenso del governo, il centrosinistra riformista ricada nel suo solito vizio autolesionista: quello di segare l'albero su cui sta seduto". Sono ore difficili, per Walter Veltroni. Nel suo ufficio del Nazareno, il segretario del Partito democratico ostenta serenità. Ma si capisce che non ne può più.

Diciamo la verità: non è un bel momento, per il Pd.
"Questo stillicidio quotidiano non fa male a me, fa male al partito e fa bene alla destra. Berlusconi è impegnato in un attacco contro di noi che non ha precedenti. Di fronte a questa offensiva io non invoco solidarietà o spirito di squadra. Capisco che sono termini "d'antan", che oggi in politica non vanno più di moda. Ma pretendo trasparenza e coerenza, questo sì".

Che vuol dire?
"Trasparenza vuol dire che se si è convinti che il problema del Pd sia la leadership, è giusto dirlo a viso aperto. Il 19 dicembre ci sarà la direzione del partito: quello è il luogo per sollevare il problema e per trovare serenamente le forme per risolverlo, se serve anche attraverso un congresso straordinario da fare subito. Io voglio bene al Pd, più di quanto ne voglia a me stesso. Sono pronto a mettermi in gioco, se questa si rivelerà la soluzione più condivisa. Ma se nessuno pensa che il nostro problema sia la leadership, allora chiedo a tutti il massimo della coerenza. Discutiamo pure. Ma avendo ben chiara una cosa: tutti remano nella stessa direzione per raggiungere i migliori risultati. Dopo le elezioni, nell'autunno del 2009, ci sarà il congresso e si tireranno le somme. Ma fino a quel momento, mai più conflitti sotterranei, mai più interviste polemiche, mai più giochi al massacro".

Lei sta dicendo che in direzione sarebbe pronto anche a farsi da parte, se non fosse possibile ricomporre le fratture interne?
"Considero gli interessi generali più importanti di quelli personali. Ho sempre lavorato per il bene di questa "creatura", un partito riformista di massa, una forza del 34% che in Italia non è mai esistita se non nella breve parentesi del primo governo Prodi, tra '96 e '98. In meno di un anno i risultati sono stati straordinari. La Summer School è stata un successo. La nostra tv sta andando benissimo. Il Circo Massimo è stato un trionfo. Abbiamo vinto le elezioni in Trentino e in Alto Adige. Abbiamo gioito per la vittoria di Obama, perché qui qualcuno aveva intuito che era uno straordinario seme di futuro. Siamo risaliti di 4 punti nei sondaggi mentre Berlusconi ha cominciato a cadere. Insomma, tutto stava andando per il meglio. Ho chiesto ai segretari regionali due giorni fa: cosa diavolo è successo in pochi giorni?".

Se vuole le faccio l'elenco: i pizzini di Latorre, il ritorno in pista di D'Alema, il pasticcio della Vigilanza Rai, gli attriti sul partito del Nord, il de profundis di Parisi, ora persino la nuova "questione morale" esplosa a Napoli. Non basta?
"Sono cose molto diverse tra loro. Alcune possono essere persino delle opportunità, come la disponibilità di alcuni dirigenti a contribuire al progetto Pd. Altre appartengono alla solita sindrome auto-distruttiva del centrosinistra. Una sindrome che ha ucciso l'Unione, e che nel nostro popolo produce sconcerto e amarezza. Ma sia chiaro, il Pd non può fare e non farà la stessa fine. Il logoramento è un errore che non possiamo permetterci, nell'interesse non di una persona, ma dell'intero partito che si deve presentare al Paese con un'immagine determinata e coesa, con un progetto forte e innovativo. Questo sarà il messaggio con il quale mi presenterò alla direzione del 19".

Lei ha parlato di "Lingotto 2". Sembra passato un secolo, da quel battesimo di Torino.
"Ma quella per me resta la piattaforma di modernizzazione sulla quale dobbiamo costruire. La profondità della crisi spinge ad una stagione di forte innovazione, serve un aggiornamento di molti paradigmi politici, un'accelerazione della nostra spinta riformatrice, pensi solo a come deve essere rinnovato il Welfare. Dobbiamo guardare al futuro, e profilarci come una grande forza di popolo. Alla direzione dirò esattamente questo: dobbiamo essere davanti alle fabbriche in crisi, in mezzo ai precari che perdono il lavoro, tra le piccole imprese soffocate dal credito".

Ma intanto c'è chi l'accusa di essere un "dittatore" e chi la critica di essere troppo debole. Come è possibile?
"Questo è un vero paradosso. Ho letto un retroscena su un giornale, in cui un anonimo mi rimproverava di gestire il partito con metodi addirittura dittatoriali (mentre se ho un difetto è quello di essere troppo tollerante) e di aver tenuto in piedi un inciucio con la destra sulla Rai, mentre non vedo Letta da mesi, e non parlo con Berlusconi da dopo il voto. Bene, è proprio questo veleno quotidiano che deve finire".

Lei continua a parlare di un governo in crisi, e di un centrodestra in enorme difficoltà. Ne è realmente così convinto?
"Basta vedere la giornata di martedì. Il premier la mattina dice "siamo disposti a rivedere la norma su Sky" e la sera chiede le dimissioni dei direttori del Corriere della Sera, della Stampa e di tutti i dirigenti della sinistra. È qualcosa che trasmette il senso di instabilità, di incertezza di chi in questi mesi ha detto tutto e il contrario di tutto, e che sulla crisi non ha fatto nulla, se non mettere le mani nelle tasche degli italiani. Oltre tutto senza avere l'onestà di Bush, che ha chiesto scusa al suo paese per la guerra in Iraq".

Diciamolo, onorevole Veltroni: la vicenda Villari è stata un mezzo disastro anche per il Pd.
"Abbiamo avuto un calo nei sondaggi, proprio nei giorni della vicenda Villari. Non voglio aggiungere altro, per amore di unità verso il partito. Altro che "atteggiamento dittatoriale"... E quello che mi sconcerta è che qualche giornale ha rappresentato Villari come una specie di campione della resistenza alla partitocrazia, un uomo che sta abbarbicato ad una poltrona contro il parere delle più alte autorità istituzionali e di tutte le forze politiche".

C'è un altro nervo scoperto, più doloroso. Genova, Firenze, ora Napoli: nel Pd c'è una "questione morale", come sostiene Gustavo Zagrebelski?
"Nel centrosinistra ci sono migliaia e migliaia di amministratori perbene, che lavorano nell'interesse della comunità e contrastano ogni forma di malaffare e di malgoverno. Premesso questo, c'è una questione morale nella vita politica italiana, che deve essere affrontata come dice il presidente della Repubblica. Il Pd non è al riparo da tutto questo. La nostra sfida è far crescere una generazione di dirigenti che abbia un'etica dell'amministrare in sintonia con lo spirito del partito. C'è bisogno che il Pd apra porte e finestre, e selezioni al suo interno le forze migliori. Soprattutto nel Sud".

Secondo Zagrebelski, i "cacicchi" del Pd proliferano in periferia perché il centro del partito non c'è...
"I cacicchi hanno cominciato a proliferare parecchio tempo fa. E poi insisto, questa idea del potere si fa strada quando vengono meno i grandi principi dell'impegno politico. Il Pd è nato anche per ricostruire quei principi. E se mi chiede se da questo punto di vista sono soddisfatto, la mia risposta è no, noi abbiamo ancora una grande lavoro da fare".

Perché avete ribadito il vostro no alle proposte di Chiamparino e Cacciari sul Pd del Nord?
"Faremo il coordinamento del partito del Nord, ma non il "partito del Nord". Perché l'Italia ha un'altra storia, e perché abbiamo bisogno di un partito nazionale grande e forte. Per questo faremo anche il coordinamento del partito del Sud. Ma un partito moderno ha bisogno di tempo e di tranquillità. A noi sono negati l'uno e l'altra. Non conosco altro partito nel quale ci sia una tale bulimia nei confronti dei leader. Io sono qui da dodici mesi. Ho conosciuto leader come Lula. Chirac, Blair che hanno impiegato anni per affermare il loro progetto. Serve tempo, per costruire una politica di innovazione radicale. Dopodiché naturalmente si risponde di quello che fa. Ed io risponderò del lavoro che avrò fatto. Ma a coloro i quali mi hanno scelto, cioè il popolo delle primarie, come prevede lo statuto".

Un altro fronte aperto è la collocazione in Europa. Rutelli non morirà mai socialista, Fassino firma il manifesto del Pse. Insomma, è il solito caos.
"C'è qualcuno che pensa che la soluzione migliore, come ho letto in qualche agenzia di un certo tipo, sia quella di tornare ciascuno al passato? Cioè tornare ai Ds, alla Margherita, magari Ds insieme a i comunisti e Nichi Vendola e la Margherita insieme a Casini? E' questa la prospettiva? Per me lo sbocco resta un altro. Io capisco che chi viene da una tradizione politica culturale diversa non se la sente di diventare socialista. Però capisco anche chi dice, perché è la verità, che nel campo socialista esiste gran parte delle leadership e delle politiche che stando al governo o all'opposizione incarnano nei singoli paesi lo schieramento di centrosinistra".

Ma così siamo sempre al "ma anche". Come se ne esce?
"Sono dell'idea che si debba creare un grande campo democratico progressista. Penso che il partito del socialismo europeo sbaglierebbe a coltivare l'autoreferenzialità, e penso che noi dobbiamo essere il soggetto attivo di un nuovo campo, capaci però di evitare ogni isolamento. Le forme attraverso le quali questo doppio movimento potrà realizzarsi le vedremo insieme".

Ma con quali alleanze pensa di rilanciare il Pd di qui alle europee?
"Questo Paese ha bisogno di avere finalmente ciò che nella storia gli è sempre mancato: un riformismo democratico, lo stesso che ha cambiato il volto di molti dei paesi europei. Per sconfiggere Berlusconi serve un cambiamento radicale del Paese. E questo cambiamento lo può fare solo il riformismo, non uno strano impasto di Dini e Caruso. Di fronte alla crisi di consenso della destra, se il riformismo italiano tiene la barra dritta può creare le basi per un consistente spostamento di elettorato da una parte all'altra. Questo significa "vocazione maggioritaria". Noi dobbiamo poter dire all'Italia: provate noi, provate un'alternativa riformista, provate a fare come si è fatto negli Stati Uniti con Obama o in Inghilterra con Blair. Questa è la mia scommessa, e questo proporrò alla direzione".

(4 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: Ciampi: "Questione morale? Il Cavaliere non dia lezioni"
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2008, 10:57:54 am
L'INTERVISTA.

L'ex capo dello Stato: "L'etica della politica riguarda tutti ma per il Pd rigenerarsi è doveroso.

C'è uno scollamento tra centro e periferia"

Ciampi: "Questione morale? Il Cavaliere non dia lezioni"


di MASSIMO GIANNINI


ROMA - "Sono avvilito. Non trovo un altro aggettivo per definire il mio stato d'animo...". Carlo Azeglio Ciampi osserva l'Italia, il quadro politico, l'andamento dell'economia, e scuote la testa. "Le cose non vanno affatto bene", dice l'ex presidente della Repubblica. Preoccupato tanto per la caduta dello standard etico della nazione, quanto per il crollo della produzione industriale e per la difficile tenuta della finanza pubblica.

Presidente Ciampi, cosa le sembra più preoccupante in questo momento? Il riesplodere della questione morale che attanaglia i partiti o la recessione economica che morde la carne viva delle famiglie e delle imprese?
"Penso che siano due facce della stessa medaglia: il Paese, in questo momento, non riesce più a trovare lo spirito per reagire di fronte ai problemi. Manca la spinta etica, latita la volontà politica, non si avverte la volontà di ricreare uno spirito di collaborazione senza il quale i problemi non si superano. Né quelli della politica, né quelli dell'economia".

Colpa del governo? Colpa dell'opposizione? Con chi dobbiamo prendercela?
"Non voglio entrare in polemiche personali. Quello che vedo è che, in questo momento, prevale sempre la necessità di costruire l'immagine. La sostanza dei problemi, cioè la realtà dei fatti, non interessa più. Conta solo la loro rappresentazione, soprattutto per chi governa. Ed è questo, soprattutto, che avvilisce l'opinione pubblica".

Ora è riesplosa la "questione morale", che secondo il presidente del Consiglio sta travolgendo la sinistra. Lei cosa ne pensa?
"Io penso che la questione morale esiste, eccome se esiste. Lo dico da tanto tempo, quando parlo con gli amici che mi vengono a trovare. Ma penso anche che la questione morale riguarda tutta la politica, e coinvolge allo stesso modo la sinistra e la destra, non certo solo uno schieramento".

Berlusconi afferma il contrario.
"Si sbaglia. Nessuno può rivendicare una purezza assoluta che purtroppo non esiste, in questo campo. Nessuno può arrogarsi il diritto di distribuire patenti di moralità o di immoralità. E' un problema che investe tutto il ceto politico. Vogliamo chiamarla deontologia? Vogliamo chiamarla onestà? Ognuno scelga il termine più appropriato. Sta di fatto che se la politica, tutta la politica, non ritrova e non rifonda le sue ragioni etiche, i cittadini si allontaneranno sempre di più, e la nostra democrazia vivrà momenti difficili".

Perché secondo lei il Pd sembra così vulnerabile, anche sotto questo profilo?
"Io ho guardato con grande simpatia alla nascita di un partito della sinistra riformista in Italia. Ma penso che ora il Pd debba davvero rigenerarsi. Sia sul piano dei gruppi dirigenti, sia sul piano del programma politico. La gestione del partito, in questi mesi, è stata difficoltosa, e ha finito per creare uno scollamento sempre più marcato tra il centro e la periferia. Si spiegano anche così le inchieste che sono state parte, da Firenze a Napoli. E anche in Abruzzo, dove si voterà domenica prossima, sarà difficile che il partito non risenta di quanto è accaduto al presidente della Regione qualche mese fa. Per questo dico che ora, al Pd, serve una scossa, uno scatto di volontà e di rinnovamento. Se manca quello, la forza del progetto sarà irrimediabilmente ridimensionata".

Ora Veltroni e D'Alema hanno ritrovato un terreno d'intesa, proprio per rispondere agli attacchi sul fronte giudiziario. Basterà secondo lei?
"Non lo so. Ma so che certi dualismi sono perniciosi nella vita di un partito. Non sono in grado di dire se si tratti di un dualismo reale. Ma so che viene percepito come tale dall'opinione pubblica. E tanto basta a creare il problema, che andrebbe risolto al più presto".

Intanto l'economia va sempre peggio, e il premier continua a dire che tutto va bene. Non è anche questo un gigantesco problema?
"Certo. Ma da ex governatore della Banca d'Italia, e da ex ministro del Tesoro, la cosa che mi preoccupa di più è vedere a che livello è tornato il differenziale tra i nostri Btp e il bund tedesco. Nei giorni scorsi abbiamo sfiorato addirittura i 140 punti base. E' un segnale pericoloso, che nessuno dovrebbe sottovalutare. Negli anni in cui raggiungemmo il traguardo dell'euro quella fu proprio la chiave di volta del nostro successo. Non vorrei che oggi accadesse il contrario".

L'Europa non ce lo perdonerebbe.
"L'Europa vive una fase molto delicata. Guardiamo a quello che sta succedendo in Grecia, dove ancora una volta si assiste a una divaricazione drammatica tra le elite e il popolo. Teniamo conto che la Grecia non è solo membro della Ue, ma è anche nell'euro, cioè nella moneta unica. Mai come in questo momento l'Italia deve dare un contributo positivo alla stabilità delle finanze pubbliche, e quindi della moneta unica".

(11 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Le bugie del premier
Inserito da: Admin - Dicembre 13, 2008, 05:01:13 pm
IL COMMENTO

Le bugie del premier

di MASSIMO GIANNINI


 ANCORA una volta dobbiamo essere grati a Giorgio Napolitano. Il suo richiamo al rispetto dei "principi fondamentali della Costituzione", che nessuno "può pretendere di modificare o di alterare", è la terapia più tempestiva ed efficace contro la "sindrome di Cromwell" che ormai pervade il presidente del Consiglio, come ha magistralmente spiegato Gustavo Zagrebelsky nell'intervista a Repubblica di ieri. In un equilibrio sempre più instabile tra i poteri dello Stato, il presidente della Repubblica resta il garante più credibile della nostra democrazia. L'argine più forte rispetto all'autoritarismo plebiscitario del Cavaliere. Silvio Berlusconi può anche sublimare la sua inesauribile vena mimetica e mistificatoria, e dire "il Quirinale non ce l'aveva con me".

Ma è un fatto che il richiamo del Capo dello Stato arriva proprio all'indomani dell'annuncio tecnicamente "eversivo" del premier: la modifica unilaterale della Costituzione, imposta forzosamente al Parlamento e poi sottoposta eventualmente al giudizio del popolo sovrano attraverso il referendum confermativo. Ed è un fatto che quel richiamo tocca il nervo più scoperto del "berlusconismo da combattimento": l'ossessione giudiziaria, che spinge il premier a forzare le regole fino al punto più estremo.

Non solo piegando lo Stato di diritto in Stato di governo (con l'uso personale dei "lodi" e delle leggi). Ma addirittura trasformando la Costituzione in "strumento di potere" (come ha osservato ancora Zagrebelsky). Questo, e non altro, è il disegno del Cavaliere. Per quanto dissimuli, il premier racconta almeno due bugie. La prima bugia riguarda la forma. Berlusconi mente quando dice che il suo progetto non lede la Carta Costituzionale e i suoi principi fondamentali, perché "le ipotesi di riforma della giustizia, come per esempio quelle relative ad un intervento sul Csm, non riguardano questi principi". Non è così. Il Consiglio superiore della magistratura è organo di rilevanza costituzionale, disciplinato dall'articolo 104 all'articolo 113. E come insegna la dottrina, "è la massima espressione dell'autonomia della magistratura rispetto agli altri poteri dello Stato (in particolare il governo)". Dunque, nel dettato costituzionale la disciplina giuridica del Csm è intrinsecamente collegata al principio fondamentale su cui si regge l'intera giurisdizione, cioè la magistratura come "ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere". Per questo, al contrario di quello che sostiene il presidente del Consiglio, riscrivere le norme costituzionali sul Csm può tradursi facilmente in una lesione dei principi fondamentali e in una manomissione dei cardini della nostra democrazia, che si basa sulla separazione e sul bilanciamento dei poteri.

La seconda bugia riguarda la sostanza. Berlusconi mente quando dice che la riforma della giustizia per via costituzionale è irrinunciabile perché in caso contrario verrebbe meno uno degli impegni presi in campagna elettorale. Non è così. Nel programma del Pdl non c'è traccia di una riforma costituzionale del sistema giudiziario. E non è mai menzionata la separazione delle carriere. L'unica proposta concreta, contenuta nel decalogo berlusconiano, riguardava genericamente una "distinzione più marcata delle funzioni tra i giudici e pm". Perché ora il premier ha cambiato idea, se non per rimettere in riga la magistratura, giudicante e requirente, scorporando i pubblici ministeri dall'unico ordine giudiziario e subordinandone l'attività al controllo del potere politico? Qui sta la natura "rivoluzionaria", e per certi versi post-democratica, della visione berlusconiana. L'uso congiunturale delle istituzioni, l'uso strumentale dei fatti.

A rimettere in moto la necessità della sedicente "riforma costituzionale" della giustizia è lo scontro tra le procure di Salerno e Catanzaro intorno all'inchiesta "Why not". Uno scontro rovinoso per la credibilità delle toghe, e indecoroso per l'immagine della Repubblica. Ma al contrario di ciò che urlano i rappresentanti del centrodestra, il progetto di Berlusconi e Alfano sarebbe stato del tutto inutile a prevenire l'esplosione di quel conflitto, incubato esclusivamente nell'ambito della magistratura requirente. Se c'è una vera emergenza, quella non riguarda né la separazione delle carriere, nè il Csm. Ma solo la maggiore rapidità ed efficienza della macchina giudiziaria, che si può agevolmente raggiungere per legge ordinaria. Di tutto questo, nel piano del Cavaliere sulla giustizia non c'è traccia.
Stupisce che molti osservatori non vedano i rischi insiti in questa offensiva berlusconiana, e scambino la difesa della Costituzione per difesa di una corporazione. La giustizia va cambiata. Ma nell'interesse collettivo. Non nell'interesse soggettivo di chi (come denuncia Valerio Onida sul Sole 24 Ore) è pronto a fondare una "Costituzione di maggioranza". La Costituzione è di tutti. E tale vorremmo che restasse.

m.giannini @ repubblica.it

(13 dicembre 2008)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il ritorno alla realtà
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2009, 10:10:47 am
IL COMMENTO

Il ritorno alla realtà

di MASSIMO GIANNINI


IN una buona democrazia la funzione principale dello Stato di diritto è quella di promuovere nei suoi cittadini la libertà dalla paura. Questa lezione di Norberto Bobbio, antica ma ancora una volta straordinariamente moderna, risuona come un'eco nel messaggio di Capodanno di Giorgio Napolitano.

Dietro la rituale cortina fumogena di applausi bipartisan, nel discorso del presidente della Repubblica si coglie una doppia inquietudine. Gli italiani si sentono prigionieri della paura. Chi li governa non sta facendo quanto dovrebbe per "liberarli".

L'età dell'oro è finita. Viviamo un "tempo di ferro". Non è del tutto usuale che debba essere un Capo dello Stato, a compiere questa operazione-verità di fronte ai cittadini. A spiegare loro, sia pure senza concessioni al declinismo o peggio ancora al disfattismo, che questa crisi economica è la più grave degli ultimi 70 anni. Che le prospettive di crescita della ricchezza e dell'occupazione sono molto più drammatiche di quanto non dicano i bollettini della Banca d'Italia. Che i rischi di una Grande Depressione sono molto più concreti di quanto non avvertano i rapporti del Fondo monetario. Che mai come in questo momento è necessario stare vicino agli ultimi e ai penultimi, alle famiglie con un solo reddito, ai lavoratori cassintegrati, ai giovani precari, ai vecchi e ai nuovi poveri sconfitti e umiliati dal turbocapitalismo. Che oggi più che mai bisogna "guardare in faccia i pericoli" ai quali questa crisi ci espone, piuttosto che snobbarli, truccarli o nasconderli.

Per vincere una paura occorre innanzi tutto definirla e riconoscerla. Al contrario di quanto accadeva anche solo pochi mesi fa, oggi siamo immersi in uno stato di paura tutt'altro che "liquida", cioè indefinibile e inafferrabile. Gli italiani sanno benissimo cosa li spaventa. E' la politica che fa finta di niente. In campagna elettorale il centrodestra, dall'opposizione, ha compiuto un'irresistibile manovra di disvelamento, speculando sulle insicurezze degli italiani con il cinismo propagandistico e ad alto tasso di consenso dei suoi moduli assertivi: criminalità e delinquenza, immigrazione e clandestinità. Ora che quelle insicurezze si sono in buona parte dissolte il centrodestra, dalla maggioranza, sta compiendo un'irresponsabile manovra di occultamento. Se la vera, tangibile paura degli italiani riguarda l'incertezza economica, l'insufficienza del salario, l'erosione del reddito, la precarietà del lavoro, Berlusconi risolve il problema o negandolo (cioè trattando la recessione strutturale più complessa di questo secolo come una banale flessione del ciclo congiunturale) o esorcizzandolo (cioè invitando le famiglie a spendere in beni di consumo il denaro che non hanno e le imprese a impiegare in beni di investimento le risorse che non possiedono).

L'efficacia del messaggio di Napolitano sta soprattutto in questo. C'è un principio di realtà nella valutazione dei fatti, e anche un principio di lealtà nei confronti del Paese, che interpella la coscienza di tutti gli schieramenti politici e di tutti gli attori sociali. Ma che chiama in causa soprattutto il governo. Il Capo dello Stato invoca quella volontà e quella capacità di "unire le forze in un comune destino", che servirebbero oggi per tirarci fuori da questa crisi come servirono ieri per salvarci da due sfide ancora più terribili: la ricostruzione della nazione dopo la Seconda guerra mondiale e la rifondazione della democrazia dopo gli Anni di piombo. Sono due riferimenti storici che colpiscono, per il loro tragico impatto evocativo e simbolico. Ma che traccia si può cogliere, di quel prezioso "spirito di unità nazionale", nel modo in cui il governo e la maggioranza impongono la loro agenda a un Parlamento ridotto a votificio e a un'opposizione trattata come un bivacco di manipoli tenuti in ostaggio da un Robespierre molisano? Che margini ci sono per quell'auspicato "clima di reciproco ascolto", nel modo in cui il governo e la maggioranza procedono su tutti i temi più sensibili, dalle misure anti-recessione alle modifiche della costituzione, dal federalismo alla giustizia?

Perché questa crisi diventi davvero un'occasione per cercare di curare i mali antichi del Paese, e non solo una maledizione nella quale affondare per perpetuarli, è necessario che chi oggi detiene il potere da schiaccianti posizioni di forza lo eserciti con il massimo della condivisione delle riforme e il minimo della deresponsabilizzazione degli avversari. Berlusconi sta facendo esattamente il contrario. Sulle riforme applica la tocquevilliana "dittatura della maggioranza": costruisce decreti e disegni di legge per lo più blindati in Consiglio dei ministri, salvo poi lamentarsi per la consueta "mancanza di proposte costruttive" e per gli inevitabili e inutili dissensi d'aula o di piazza. Con gli avversari adotta la napoletana formula del "piangi e fotti": si lamenta dell'estremismo giustizialista grazie al quale Di Pietro tiene in scacco il Partito democratico, ma proprio su quello costruisce la sua pregiudiziale ideologica contro la sinistra riformista che in fondo resta sempre "comunista". Sarebbe indispensabile una strategia radicalmente diversa. Se è vero che nella fase attuale l'opposizione non è all'altezza dei suoi compiti, questo è ancora più drammaticamente vero per il governo e per la maggioranza.

Il presidente del Consiglio dovrebbe capire che è anche un suo interesse aiutare il Pd nel travagliato percorso di ridefinizione e di autonomizzazione identitaria avviato tra molte difficoltà e non pochi errori da Veltroni. E' anche suo interesse coinvolgerlo, nei limiti del possibile e nel rispetto dei ruoli, come interlocutore privilegiato in tutti i processi di cambiamento politico-istituzionale e di modernizzazione socio-economica necessari al Paese. Ma il Cavaliere non lo fa. E davvero non si capisce il perché, se non per la sua bulimia cesarista evidentemente insaziabile. Finché non si convincerà a cambiare registro, gli appelli del Quirinale resteranno disperati messaggi in bottiglia, perduti nella tempesta perfetta della crisi globale. Napolitano continuerà a vestire inutilmente i panni che furono di Roosevelt, raccontando ai cittadini che "l'unica cosa della quale non dobbiamo avere paura è la paura stessa". Non ci libereremo mai dalla paura. Non conosceremo mai un New Deal italiano.

m. giannini@repubblica. it

(2 gennaio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Tra rischio e strategia
Inserito da: Admin - Gennaio 23, 2009, 01:13:36 pm
IL COMMENTO

Tra rischio e strategia

di MASSIMO GIANNINI


DOPO tante contese tra "manipoli" e tante offese alla potestà legislativa, l'apparenza del voto sul federalismo segna una pagina di "normalità" parlamentare. Il governo presenta un ddl, l'opposizione propone i suoi emendamenti. La maggioranza li recepisce. Si va al voto e, invece del solito muro contro muro, la prima si astiene sul testo modificato dalla seconda. Una prassi, nella fisiologia democratica. Un "evento", nell'anomalia italiana. La realtà suggerisce un quadro più complesso. L'Udc ha guardato solo al "merito", e non si è mossa dal no.

Il Pd ha invece scommesso sul "metodo", partecipando al confronto con le sue contro-proposte.
C'è un movente strategico: dimostrare che l'opposizione non è "sfascista", e che qualche riforma condivisa sarebbe possibile se solo il premier rinunciasse alla sua visione plebiscitaria del potere.
C'è un movente tattico: far uscire il Pd dall'angolo, tenendo aperto un canale con Bossi (ove mai il Senatur rompesse con il Cavaliere) e tenendo buoni i "federali" del Nord (da Errani a Chiamparino, favorevoli al federalismo).

Ma quella di Veltroni è una scelta rischiosa. Intanto perché sul progetto federalista del Pdl, come su tanti altri temi, il Pd si è dimostrato all'inizio incoerente e indeciso.

E poi perché, di fronte a un paradossale Tremonti che in piena crisi economica riconosce in aula l'assoluta "imponderabilità" dei costi della riforma, il Pd rischia di avallare un'operazione che espone il Paese a un salto nel buio. A questo punto, l'astensione può avere un senso solo se è un atto di responsabilità specifico, e condizionato alle prossime decisioni del governo. Sul federalismo stesso, in vista del voto della Camera e dei decreti delegati.

Ma anche sulla giustizia e sul presidenzialismo. Non può funzionare, invece, se diventa un assegno in bianco firmato alla Lega, magari in cambio di futuri e inverosimili "ribaltoni". Questo il già sfiduciato "popolo della sinistra" non lo capirebbe.

E alle prossime elezioni europee il "partito liquido" diventerebbe, a tutti gli effetti, un partito liquefatto.

m.giannini@repubblica.it

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La prova di Forza del Cavaliere
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2009, 09:19:32 am
EDITORIALE

La prova di Forza del Cavaliere

di MASSIMO GIANNINI


"Qui l'invasore non passerà", aveva detto con troppa sicumera Walter Veltroni, in chiusura di campagna elettorale. Invece, secondo i dati parziali dello spoglio, Berlusconi ha vinto anche in Sardegna. L'invasore non solo è passato. Ma ha dimostrato di essere il "padrone dell'isola". Ha confermato di essere il "padrone d'Italia". Se lo scrutinio finale non si discosterà dalle percentuali della notte, questo dice il risultato del voto regionale sardo. Trasformato fatalmente in un test di mezzo-termine, per il rapporto tra il Cavaliere e il Paese, per gli equilibri interni al Pdl e per il futuro del Pd.

Nel rapporto tra il Cavaliere e il Paese (salvo sorprese clamorose nello spoglio definitivo) il voto della Sardegna evidenzia un dato politico incontrovertibile. La luna di miele tra il premier e l'Italia non è affatto finita. Nonostante le difficoltà del governo su scala nazionale, nonostante i morsi della crisi economica.

Con questa vittoria, Berlusconi rinnova il mito del Leader Invincibile. A sconfiggere Soru non è stato Ugo Cappellacci, ma il premier in persona. "Ci ho messo la faccia", ha detto. E per questo ha vinto, battendo l'isola palmo a palmo, weekend dopo weekend. E ancora una volta, forte di questa personalizzazione della campagna, e di questa presidenzializzazione del voto, ha sbaragliato l'avversario. Ha spazzato via la logica antagonista sulla quale avevano contato Soru e il Pd: la Sardegna in carne e ossa del modello Tiscali e dei modernizzatori schierati per lo sviluppo sostenibile contro la Sardegna di cartapesta di Villa Certosa e dei ricchi cementificatori della costa. La banda larga di Renato contro la bandana di Silvio. Questo schema "sociologico" non ha retto alla prova dell'urna.

Il dato politico dice che le percentuali di voto ottenuto in Sardegna dal Pdl e dal Pd (se saranno confermate dal risultato definitivo) ricalcano quelle già registrate alle ultime politiche: tra il 48 e il 50% il primo, tra il 44 e il 46% il secondo. È la conferma che il blocco sociale creato dal centrodestra è ormai strutturale, e non è scalfibile dal centrosinistra.

Per gli equilibri interni al Pdl, con questa vittoria Berlusconi rafforza il ruolo del Sovrano Indiscutibile. Regola, una volta per tutte, i conti con la sua maggioranza. Quando c'è un voto da conquistare, quando c'è un consenso da rafforzare, non ce n'è per nessuno. Vince il Cavaliere, da solo. Può anche candidare un Carneade contro il parere dei suoi alleati, come ha fatto con Gianni Chiodi in Abruzzo. Può anche candidare il figlio del suo commercialista facendolo sapere agli alleati attraverso i giornali, come ha fatto con Cappellacci in Sardegna. Può anche candidare il suo cavallo, come fece Catilina. Ma se poi è lui a corrergli in groppa, il traguardo finale è assicurato.

Non c'è Bossi che tenga con i suoi diktat sul federalismo e i suoi distinguo sulla Costituzione. Meno che mai c'è Fini, con le sue difese lealiste di Napolitano e le sue pretese "laiciste" sulla bioetica. Chi vince ha sempre ragione, e comanda. Da domani, in un Pdl sempre più militarizzato, sarà probabilmente impossibile registrare il benché minimo caso di ammutinamento. E forse, vista l'esperienza sarda, sarà verosimilmente possibile che nell'Udc scatti di nuovo la tentazione di un arruolamento.

Per il futuro del Pd, la sconfitta in Sardegna (se sarà ribadita dall'esito ufficiale) rischia di suonare come una doppia campana a morto. Innanzi tutto per Soru, che aveva a sua volta personalizzato questa battaglia, accreditando l'idea che un suo trionfo lo avrebbe accreditato per una "nomination" nazionale: a questo punto il suo sogno tramonta, e per quanto abbia inciso il voto disgiunto il governatore uscente non è riuscito a ripetere il miracolo del 2004, quando vinse grazie al sostegno di quei ben 94 mila elettori che votarono per lui e non per la coalizione. Ma soprattutto per Veltroni e per la sua leadership. Se fossero vere (e confermate) le prime indicazioni sul voto alle liste, il distacco patito dal Pd rispetto al Pdl sarebbe drammatico: oltre i 20 punti percentuali.

Si avvicina il momento di una inevitabile resa dei conti per un "apparatciki" troppo autoreferenziale nella gestione del partito e troppo ondivago nell'azione politica. La ricomposizione della Sinistra Arcobaleno, alla luce della vicenda sarda, non è sufficiente. E ora cade anche l'illusione che Berlusconi si batta con un "uomo nuovo", fuori dalle nomenklature romane. Neanche questo basta a espugnare la fortezza del Cavaliere. Per Veltroni, e per il centrosinistra riformista, è un vicolo cieco. Per uscirne urge almeno un vero congresso. Da statuto, è previsto dopo le europee. Ma di questo passo c'è da chiedersi cosa resterà del Pd, dopo l'Election Day del prossimo giugno.

m. gianninirepubblica. it

(17 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Responsabilità collettiva
Inserito da: Admin - Febbraio 18, 2009, 10:55:21 am

IL COMMENTO

Responsabilità collettiva

di MASSIMO GIANNINI

 
La scelta di Walter Veltroni è dolorosa, ma anche doverosa. Da troppi mesi il Pd si dibatte in una crisi tormentata e complessa, che investe il suo profilo politico, i contenuti della sua piattaforma programmatica, la forza della sua leadership, e soprattutto il suo rapporto con l'opinione pubblica.

Il voto di ieri, e le dimissioni del segretario, sono solo l'epilogo di una crisi d'identità che era già contenuta nel risultato delle elezioni del 13 aprile di un anno fa, e che si è ulteriormente aggravata prima con la sconfitta in Abruzzo, ora con la disfatta in Sardegna.

Prima che la casa bruci, e che del Pd non restino altro che macerie, Veltroni ha fatto la cosa giusta: si è fatto da parte, con una mossa che tuttavia chiama in causa, per un'assunzione di responsabilità collettiva, l'intero gruppo dirigente che in questi mesi ha gestito il partito insieme a lui, o lo ha sabotato nei corridoi.

Anche per questo, un congresso straordinario oggi è una scelta irrinunciabile, per ridefinire il progetto e scegliere un nuovo leader, finalmente in una competizione a viso aperto e a tutto campo. Altre vie d'uscita da questo vicolo cieco non ce ne sono.

L'errore più drammatico, per il Pd, sarebbe quello di tirare a campare all'insegna, ancora una volta, di un falso unanimismo. O peggio ancora, quello di tornare indietro, di rinunciare all'idea del partito unico e di tornare alla vecchia distinzione Ds-Margherita.

Sarebbe un dramma, non solo per i destini del centrosinistra ma per il futuro del bipolarismo italiano.

(17 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI. Onorevole D'Alema, adesso sarà contento...
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2009, 03:54:40 pm
L'ex premier: "Ho espresso solidarietà a Veltroni, gli scontri tra noi una favola

Al Pd è mancata la struttura, non basta Facebook. Nessun endorsement a Bersani"

"Caro Walter, nessuno ha complottato la crisi nasce da una politica confusa"

di MASSIMO GIANNINI


Onorevole D'Alema, adesso sarà contento. Veltroni si è dimesso.
"Rispetto la sua decisione, come lui rispettò la mia quando mi dimisi da presidente del Consiglio. Tuttavia avrei preferito che si arrivasse a discutere tutti insieme in un congresso, senza questo trauma. Non c'è nulla di personale tra me e Veltroni. Le mie sono state osservazioni politiche. Umanamente sono vicino a Walter, e gliel'ho anche fatto sapere".

Eppure lei non c'era alla conferenza stampa di addio, e la sua assenza è stata notata...
"Quella conferenza stampa indetta al termine di una riunione del coordinamento hanno assistito i membri del coordinamento, del governo ombra, i collaboratori e i dirigenti del Pd. Io non ho nessuno di questi incarichi. E se mi fossi presentato dopo, sono sicuro che avreste scritto "ecco, D'Alema è venuto a godersi la fine del suo nemico". Mi creda, qualunque cosa avessi fatto, non avevo scampo".

Il discorso di addio del segretario le è piaciuto?
"A Veltroni riconosco una profonda autenticità di ispirazione. D'altro canto non è affatto vero che io e Veltroni litighiamo da 20 anni. Abbiamo avuto momenti di dissenso politico, e fasi di intensa collaborazione. Eppure, da anni non si parla di noi se non in termini di duello personale".

Tutta colpa solo dei giornalisti, secondo lei? Non c'è anche una vera "arte sicaria", come scrive Giuliano Ferrara, nel suo modo di incoronare e poi azzoppare i leader?
"Fesserie. Ferrara è legato a Berlusconi. Quindi scrive contro di noi, com'è ovvio che sia".

Ora l'umore prevalente dei vostri elettori è il seguente: andatevene tutti a casa. Cosa risponde?
"Rispondo che io me ne sono già andato da un pezzo. Vorrei che fosse chiaro a tutti un concetto definitivo: io non faccio parte di alcuna "struttura" dirigente del Pd, da quando il Pd è nato. Io non ho nessun incarico, nessuna poltrona da difendere. Dunque, se la richiesta è quella di uscire dagli organismi dirigenti del partito, rispondo "già fatto". Se invece la richiesta è quella di tacere, allora no, mi dispiace, a questo diritto, che come cittadino e come iscritto a quel partito mi riconosce persino la Costituzione, non intendo rinunciare. Spero solo che ora si creino le condizioni per una migliore collaborazione, e si possa finalmente cominciare a lavorare insieme".

Con Veltroni collaborazione e solidarietà non hanno funzionato, come ha detto lui stesso nel discorso di commiato. Perché?
"Walter ha ragione, su questo. Tuttavia le condizioni di maggiore solidarietà non si ottengono mettendo il bavaglio al dibattito politico, ma promuovendolo e indirizzandolo verso esiti condivisi. E questo, vede, è il vero problema di questi mesi. Si è creduto di andare avanti con una scorciatoia: il rapporto taumaturgico tra un leader e le masse. E non ha funzionato. Serviva e serve un gruppo dirigente che collabora, e che è capace di una riflessione profonda, poi di una mediazione e infine di una decisione. Insomma, serve la politica. E a mio avviso è proprio questa che è mancata. E di qui nascono le nostre difficoltà. Non dai complotti, non da chi ha remato contro, ma da scelte insufficienti, o confuse".

Facciamo qualche esempio?
"Ce ne sono diversi. Il primo riguarda la natura del partito. Per troppi mesi siamo rimasti sospesi nell'incertezza del "partito leggero": non abbiamo capito se doveva essere un partito di iscritti, di sezioni, di gazebo. Il risultato è un ircocervo, che oggi nessuno sa ben definire. La mia vecchia sezione Ds contava 427 iscritti, era un centro vivace, pieno di iniziative. Quando abbiamo fatto il Pd, e abbiamo dato vita alla cosiddetta "elezione per adesione", sono venute a votare 687 persone. Da allora, più nulla. Il tesseramento è iniziato con grande ritardo. Oggi la sezione ha 120 iscritti, e non ha più neanche una sede. Casi analoghi sono avvenuti in tante parti del Paese. Oggi il Pd ha grosso modo la metà degli iscritti che avevano i Ds".

Non poteva dirlo? Non poteva fare qualcosa?
"La sua domanda mette in luce precisamente le difficoltà della mia posizione personale, perché se taccio mi rendo corresponsabile, se critico sono colpevole di un sabotaggio e di un intollerabile dualismo con Veltroni. Lei capisce che è davvero insopportabile. Comunque queste cose le ho dette nell'ultima direzione del partito: un grande partito, se vuole essere riformista e di massa, deve avere regole, strutture. Bisogna che la gente lo trovi, nel suo quartiere, nella sua città. Certo, lo deve trovare anche su Internet, su Facebook, o nelle piazze quando c'è una manifestazione. Ma questo non basta, non può bastare".

Ma lei pensa che i guai del Pd siano limitati al fatto che non si trovano le sezioni?
"Questo è solo il primo problema, che riguarda il "contenitore". Ma in questi mesi siamo stati vaghi e indecisi anche sui contenuti. Vuole gli esempi? Il conflitto in Medioriente: era l'occasione per esprimere una posizione fortissima, improntata al nostro ruolo storico di mediazione nel Mediterraneo e alla linea di Blair, di Sarkozy e del Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Il nostro messaggio, invece, è stato debole e confuso".

Senta, mi vuol far credere che il Pd ha avuto il tracollo in Sardegna perché non ha avuto una posizione chiara sul Medioriente?
"Le faccio un altro esempio, che sicuramente ha interessato più da vicino l'opinione pubblica: il testamento biologico. La vera forza di un partito nuovo non sta nella semplice giustapposizione di linee differenti. L'obbligatorietà della nutrizione e dell'idratazione forzata per persone che abbiamo perduto coscienza non è prevista nella legislazione di nessun Paese civile. L'idea che queste pratiche non siano "trattamenti sanitari" è assurda e antiscientifica. Io rispetto i cattolici, ma la libertà di scelta in materia di trattamenti sanitari è un principio costituzionale e di civiltà. Sia chiaro, non metto in discussione la libertà di coscienza. Ma un grande partito, su un tema come questo, non può non capire che deve discutere, deve rispettare la diversità, ma alla fine deve arrivare a una sintesi. Un grande partito non può non capire che, in un momento come questo, sostituire Ignazio Marino dalla commissione che discute di testamento biologico è un grave errore. Noi, in tutta questa partita, abbiamo dato un'immagine sbiadita".

Vi siete divisi anche sulle alleanze.
"E' vero. Per me la vocazione maggioritaria si pratica, non si predica. Berlusconi non ha mai detto di avere una vocazione maggioriaria e fa una politica accurata delle alleanze. Sta cercando di recuperare l'Udc, e in Sardegna ha cercato addirittura il Patrito sardo d'azione, mentre noi non riusciamo a riunire neanche a livello locale le forze che sono all'opposizione del governo. Chapeau. Ma le pare possibile che l'unico tema su cui abbiamo avuto una posizione forte è stata la legge elettorale europea con lo sbarramento del 4%? Va bene che vogliamo semplificare lo schieramento politico italiano, ma lei darebbe la vita per un partito che ha questa Weltanschaung?".

Ma Veltroni, almeno, ha responsabilmente riconosciuto i suoi errori. Voialtri, invece?
"Io non do la colpa di ogni cosa a Veltroni. Sono il primo a sapere che un leader no è un demiurgo. Quello che dico, però, è che per risolvere la nostra crisi dobbiamo avere il coraggio di vedere i problemi veri, non limitarci a dare la colpa ai clan o alle "correnti"".

E lei, allo stesso modo, non avverte il senso di una responsabilità collettiva dell'intero gruppo dirigente?
"Pur non facendo parte del gruppo dirigente, mi prendo le mie responsabilità. In questi mesi ho più volte chiesto di essere messo in condizione di dare un contributo, e spesso sono stato trattato come uno che cercava solo una collocazione".

Perché ha dato il suo imprimatur alla candidatura di Bersani? In questo momento non era meglio evitare?
"Innanzi tutto Bersani ha detto con chiarezza che di questo si sarebbe discusso nel congresso del partito. Continuo a credere che quella candidatura, se da una parte ha irritato qualcuno, dall'altra parte, come è naturale, ha motivato e riavvicinato al Pd altri. Francamente questa osservazione, piuttosto banale, non mi sembra avesse un carattere di rottura e di destabilizzazione. Altri sono stati i problemi del Pd".

Comunque, a questo punto come si esce da questa catastrofe? Cosa farà l'assemblea costituente di domani?
"Intanto bisogna avere senso di responsabilità, evitare proprio i catastrofismi, le campagne autodistruttive. Non dimentichiamo che in 15 anni abbiamo saputo anche vincere e governare bene il Paese. All'assemblea costituente ascolteremo le proposte del vertice, ma sarà necessario interpretare anche le aspettative della base, e poi decidere. Mi affido pienamente al gruppo dirigente".

L'ipotesi di una segreteria di traghettamento affidata a Franceschini la convince?
"Ho stima di Franceschini. Se questa sarà la soluzione, avrà bisogno di un forte consenso, perché prima delle elezioni di giugno si dovranno sciogliere nodi complessi, a partire dalla collocazione del Pd tra le famiglie politiche europee, altro tema che abbiamo rinviato troppo a lungo".

Ma non sarebbe più lineare un congresso straordinario subito, o nuove primarie?
"Per un congresso mi pare manchino i tempi tecnici. Quanto alle primarie, non sta a me dare indicazioni. Qualunque cosa io dica può essere usata contro di me".

Insomma, lei non teme che per il Pd l'avvento di un "reggente" sia come il governo Badoglio, e che il passaggio successivo sia l'8 settembre?
"No, se le decisioni dell'assemblea costituente di domani saranno chiare e condivise, questo rischio non c'è. Se invece si produrrà uno strappo tra il vertice e la base, allora sì, corriamo un rischio serio. E' vero che per lanciare un partito nuovo come il Pd occorre tempo. Ma in un anno siamo passati dal 33% delle politiche al 23% dei sondaggi di oggi, avvalorati dal voto sardo. Questo non significa che il progetto politico non conserva intatte tutte le sue potenzialità. Ma per ripartire bisogna avere il coraggio della verità".

(20 febbraio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La favola del corvo
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2009, 12:44:37 pm
ECONOMIA      L'ANALISI

La favola del corvo

di MASSIMO GIANNINI



Ultimo venne il corvo. Alla fine anche Tremonti si è arreso all'uccello del malaugurio che già da settimane, secondo la vulgata governativa, volteggiava tra Confindustria e Bankitalia. Il 2009, dunque, sarà "un anno terribile". Noi lo sapevamo già. Come lo sapevano migliaia di cassintegrati rimasti senza lavoro, di precari rimasti senza sussidi, di piccole imprese rimaste senza ordinativi. Ora lo riconosce pubblicamente anche il ministro del Tesoro. La paura ha ceduto alla speranza. La resa di Giulio è verosimilmente dolorosa, e colpevolmente tardiva. Ma nessuno se ne può compiacere. Se anche lui ha capitolato, dopo mesi di cadornismo congiunturale, vuol dire che l'Italia è davvero messa male.

Resta da chiedersi il perché, di tanta prolungata "resistenza" di fronte all'inesorabile asprezza della crisi e di tanta ostinata "renitenza" di fronte all'ineludibile principio di realtà. L'ottimismo di facciata imposto da Berlusconi all'intera squadra di governo spiega il rebus solo in parte. Il vero problema di Tremonti è la tenuta dei conti pubblici, e quindi l'affidabilità del marchio Italia sui mercati. Con un Prodotto lordo in picchiata al - 2,6%, il deficit lievita inevitabilmente verso quota 4%. Ma quello che è peggio, è che il debito esplode oltre il tetto del 110%, già pericolosamente stimato dalla Commissione Ue. In due mesi siamo tornati indietro di dodici anni. Formalmente l'Italia non figura tra i "Pigs": il Portogallo e l'Irlanda stanno peggio per crescita insufficiente, la Grecia per instabilità politica, la Spagna per emorragia occupazionale. Ma sostanzialmente l'Italia può rivelarsi il primo dei "Pigs": sta peggio di tutti per indebitamento.

Per questo, a dispetto delle indubbie capacità previsive testimoniate dal suo fortunato bestseller pre-elettorale e al prezzo di un'apparente incoscienza dimostrata con il suo modesto pacchetto anti-crisi, Tremonti è stato così prudente e continua ad essere così restio ad aprire i cordoni della borsa. Proprio lui, il seducente modernizzatore della nuova destra politica, è diventato il sedicente conservatore del vecchio rigore contabile. Dice no al sussidio di disoccupazione proposto dal Pd, dice no all'aumento degli stanziamenti per nuovi ammortizzatori sociali, dice no a qualunque intervento sulle pensioni. Congela, ma non riforma. Ricama, ma non innova. Teme di non poterselo permettere. Se una sola posta di bilancio gli sfugge di mano, il Paese può imboccare il tunnel del default.

Tremonti ha due incubi: gli spread, cioè i differenziali di rendimento tra i nostri titoli pubblici e quelli tedeschi, e le aste dei titoli di Stato. Se per effetto di un drastico peggioramento della nostra situazione finanziaria i primi salgono troppo, o le seconde attirano poco, l'Italia rischia la bancarotta. In questi ultimi giorni, dopo una fase di relativa quiete, gli spread sono tornati ad aggirarsi intorno ai 150 punti base. Non è un dramma: ma un po' di tensione è tornata. La scorsa settimana, all'ultima asta dei Btp, il Tesoro è riuscito a collocare oltre 10 miliardi di titoli, con una domanda del mercato a livelli record. Un segnale confortante: ma legato essenzialmente al buon rendimento offerto. L'equilibrio del mercato è fragilissimo. Basta un niente, e tutto può saltare. Sui "Cds" (le polizze che coprono dall'ipotesi di crack dei singoli Paesi) e sugli "swap" (prodotti assimilati che investono sul rischio-default degli Stati Sovrani) l'Italia resta ai primissimi posti. Nel primo caso siamo a 173 punti base, subito dopo i 350 dell'Irlanda. Nel secondo caso (come riferiamo a pagina 7 del giornale) a 116 punti base, subito dopo i 237 della Grecia e i 221 dell'Irlanda.

Camminare a lungo, sull'orlo di questo precipizio, non è facile per nessuno. Tremonti non può sperare neanche troppo nell'Europa. È in atto un tentativo, che parte da Roma e incrocia altre cancellerie europee, per verificare se si possa attribuire alla Bce la facoltà di trasformarsi in acquirente di ultima istanza dei titoli del debito pubblico rimasti eventualmente invenduti alle aste indette dagli Stati Sovrani. Ma una prima istruttoria fatta in questi giorni a Francoforte ha già dato esito negativo: occorrerebbe una modifica del Trattato, e questo sbarra la strada a qualunque ipotesi di accordo, visti i dissidi che già caratterizzano il rapporto franco-tedesco su una proposta come quella dell'emissione di un eurobond europeo. Come ha detto in questi giorni lo stesso ministro a un interlocutore autorevole: "Non troviamo un'intesa nemmeno sulle date delle riunioni, figuriamoci se possiamo trovarla su robe del genere...".

Insomma, l'Italia è senza rete. E come si dice in queste ore nel grattacielo dell'Eurotower, "praticamente non ha margini di manovra". Deve solo sperare che la crisi, benché così acuta, non sia troppo lunga. Che nel frattempo non crolli qualche banca, magari schiacciata dal macigno delle "zombie banks" dell'Est-Europa. Che il quadro sociale e politico regga, sotto il peso di un'emergenza occupazionale sempre più rovinosa. Tremonti lo sa, ma non può dirlo. Per questo sembra paralizzato, e vive come una minaccia ogni richiesta di "fare di più" contro la crisi. Per questo appare isolato, e vede come il fumo negli occhi Mario Draghi, l'ombra di Banco che incombe suo malgrado su Palazzo Chigi e su Via XX Settembre, nel malaugurato caso di un tracollo dell'economia. Ma per governare la madre di tutte le crisi servono realismo e coraggio. Il primo, finalmente, sembra arrivato. Il secondo, purtroppo, lo stiamo ancora aspettando.

(6 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Un riformismo responsabile
Inserito da: Admin - Marzo 12, 2009, 11:31:22 am
ECONOMIA      L'ANALISI

Un riformismo responsabile

di MASSIMO GIANNINI


Obama può. Franceschini no. Il presidente Usa, al culmine di una crisi industriale e occupazionale che distrugge un milione di posti di lavoro ogni due mesi, può proporre al suo Paese "una storica riforma della sanità, che estenderà a tutti l'assistenza pubblica" finanziandola con "un aumento della tassazione per i più ricchi". Usa esattamente questa formula, il capo dei "democrats" americani: "I più ricchi". E il suo annuncio non desta scandalo. Nessuno si ribella, tacciandolo di bolscevismo. Al segretario dei democratici italiani, al contrario, questa "licenza" politico-culturale non è permessa. Il Pd non può proporre "un contributo straordinario di solidarietà, a carico dei redditi più alti compresi quelli dei parlamentari", per finanziare un sostegno da 500 milioni di euro "a vantaggio delle famiglie che versano in condizioni di povertà estreme". Usa esattamente questa formula, Franceschini: "redditi più alti". Ma la sua iniziativa fa subito scandalo. Vellica pulsioni strumentali: quelle del Pdl, che lo accusa di "comunismo". Innesca reazioni paradossali: quelle di Rifondazione, che grida all'"elemosina di Stato".

L'idea di un "contributo di solidarietà" sui redditi superiori ai 120 mila euro non nasce dentro il dissennato e autolesionista "brodo di coltura" che ai tempi del governo Prodi, alla vigilia di una Finanziaria che impose agli italiani un insostenibile "saio fiscale", generò la campagna ideologica e demagogica della sinistra radicale irresponsabilmente riassunta nello slogan "anche i ricchi piangano". Di quel clima tossico, di quelle surreali "scene da lotta di classe", per fortuna, oggi non c'è più traccia. Buona o cattiva che sia, fattibile o irrealizzabile che si dimostri, la proposta attuale non risponde a una logica "punitiva", ma alla più semplice etica redistributiva. Nel momento in cui un Paese è chiamato all'ennesimo sacrificio, si cerca di alleviare la condizione di chi sta peggio chiedendo uno sforzo in più a chi sta meglio. Inserendo questo tassello in un mosaico più generale, che parte dalla necessità di rilanciare in fretta il contrasto all'evasione fiscale attraverso il ripristino della tracciabilità dei pagamenti (che il governo Berlusconi ha colpevolmente eliminato), il rifinanziamento degli interventi socio-assistenziali e del fondo per le politiche sociali (al quale lo stesso governo ha inopinatamente sottratto 300 milioni di euro).

Non si comprende perché questo impianto è perfettamente giustificabile nel piano di "Stimolo" all'economia lanciato da Obama, e diventa inaccettabile nel pacchetto di misure anti-crisi proposto da Franceschini. Certo che è "una goccia nel mare", e per questo non ha senso la pelosa indignazione del leader del Prc Ferrero. Certo che "le una tantum non risolvono tutti i problemi", e per questo non ha senso la spocchiosa insoddisfazione del vicepresidente di Confindustria Bombassei. Ma è una proposta sulla quale si può e si deve discutere. Magari defindendola meglio e sapendo che a denunciare 120 mila euro di reddito l'anno, in questo Paese dei paradossi, è spesso la "middle-class" a reddito fisso, mentre sono proprio i veri evasori del lavoro autonomo che spesso si riparano dietro dichiarazioni vergognose da 20 mila euro l'anno. Ma questa discussione va fatta con mente serena, con spirito laico e fuori dall'arena degli "opposti estremismi".

Certo, il centrosinistra deve risalire una china difficile, quasi proibitiva, di giudizi e pregiudizi. Deve farsi perdonare la sua inerziale incapacità nell'aggredire la spesa pubblica, e la sua proverbiale caparbietà nel trasformare in "oppressione" la pressione fiscale. E certo, mentre ritrova la voglia di dare voce ai bisogni del suo blocco sociale di riferimento con proposte improntate a una forte radicalità, deve anche trovare il coraggio di parlare ai ceti più lontani con il linguaggio disincantato di un chiaro riformismo. Mentre incalza in campo aperto il governo con il contributo di solidarietà sui redditi più alti, deve anche saper affrontare a viso aperto con i sindacati la questione previdenziale. In questo, davvero, i "democrats" americani hanno le carte in regola che democratici italiani, per le loro colpe storiche e i loro ritardi culturali, ancora non possiedono.

Ma questa nuova incursione dimostra palesemente una verità. Com'è già accaduto per l'assegno per i disoccupati, quando l'opposizione abbandona le fumose mediazioni politiciste e le dannose tentazioni inciuciste, quando mette in campo proposte concrete e comprensibili a tutti i cittadini, quando su queste lavora ai fianchi il governo e cerca sponde trasversali nella maggioranza, cresce la validità della sua offerta programmatica e sale la qualità del confronto parlamentare. Non è un caso che il contributo di solidarietà abbia trovato una sponda nella Lega di Bossi e Maroni, oltre che nell'Udc di Casini e Buttiglione. È la conferma che, tra i paletti di una drammatica crisi economica, il Pd ha margini di manovra da esplorare e spazi politici da occupare. Basta seguire - stavolta fino in fondo, cioè nella pratica di ogni giorno e non più solo da un episodico pulpito del Lingotto - la lezione americana di Obama: è l'ora delle responsabilità.
m.giannini@repubblica.it

(12 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Socialismo bancario
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2009, 11:17:36 pm
ECONOMIA      IL COMMENTO

Socialismo bancario


di MASSIMO GIANNINI


Di fronte alle tante "zombie banks" che si aggirano sinistre per il mondo, sarebbe sbagliata una difesa d'uffico del sistema creditizio. E in tempi di drammatico "credit crunch", resta drammaticamente vera la profezia di Mark Twain: un banchiere è un tizio che ti presta l'ombrello quando c'è il sole, e lo rivuole appena comincia a piovere.

Ma l'operazione "prefetto di ferro" orchestrata dal ministro Tremonti per vigilare sui flussi di erogazione del credito da parte delle banche è una misura di stampo sovietico. Ricorda la Gosbank degli Anni '20, che controllava per conto del Pcus il finanziamento del Piano quinquennale.

Nel consueto, assordante silenzio dei liberali alle vongole di casa nostra, fa dunque un fragoroso rumore la circolare del governatore Draghi, che avverte i nuovi "custodi" del Gosplan acquartierati a Via XX Settembre: la Banca d'Italia è disponibile a collaborare con i prefetti, ma secondo le leggi vigenti potrà fornire ai medesimi solo le informazioni territoriali e i dati aggregati sul credito, e non anche i numeri relativi ai fidi erogati dai singoli istituti. Ovvio, in un paese che ha a cuore il buon funzionamento del capitalismo liberale. Scandaloso, nell'unico paese in cui una destra pretende di governare con le regole del socialismo reale.

Infatti Tremonti, ancora una volta, non ha gradito le puntualizzazioni di Draghi. "Ci sarà un grande impegno dei prefetti" nel controllo sulle banche, ha rilanciato. "Io darei tutta la vigilanza sul credito alla Bce", ha aggiunto. Il superministro, con tutta evidenza, vede due sbocchi possibili per la Banca d'Italia: o si rassegna a prendere ordini dal potere politico secondo il modello della Gosbank sovietica, appunto, o si accontenta di rimanere in vita come innocuo centro di studi economici. In questo buio Medio Evo dei mercati globali molti banchieri hanno fatto danni giganteschi. Ma molti politici rischiano di combinarne di peggiori.

(13 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La caccia al manager
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2009, 04:13:29 pm
IL COMMENTO

La caccia al manager

di MASSIMO GIANNINI


Dunque, uno spettro si aggira per il mondo. "Rabbia populista", l'ha definito Newsweek osservando le nuove vandee americane. "Lotta di classe", lo definiremmo attingendo alle antiche categorie marxiane. I titoli tossici producono veleni sociali. L'epidemia deflagra negli Stati Uniti, dove centinaia di risparmiatori truffati accerchiano Bernie Madoff all'uscita del tribunale e decine di poveri cristi infuriati assediano le ville blindate dei manager dell'Aig. Ma ora si propaga pericolosamente anche in Europa.

In Gran Bretagna, in piena notte, un gruppo di attivisti anonimi attacca la residenza edimburghese di Fred Goodwin, il superbanchiere responsabile del crac della Royal Bank of Scotland, che prima di lasciare dietro di sé una montagna di macerie se n'é andato in pensione con un bonus da 16,9 milioni di sterline. In Francia, in pieno giorno, un centinaio di impiegati della 3M Santè, a rischio di licenziamento, prendono in ostaggio l'amministratore delegato Luc Rousselet. La stessa cosa, 10 giorni fa, era successa al ceo della Sony francese, Serge Foucher, anche lui sequestrato dagli operai della fabbrica di Pontonx-sur-l'Adour. Appena un po' meglio era andata a Louis Forzy, direttore della Continental: fischiato e preso a lanci d'uova dai 1.120 addetti dell'impianto di Claroix.

Chiamatelo come volete. Il "capitalism disaster" di Naomi Klein. Il "turbo-capitalismo" di Robert Reich. L'"economia canaglia" di Loretta Napoleoni. Ma questo rischia di essere l'effetto più dirompente del virus incubato dall'Occidente: un potenziale e colossale ritorno del conflitto sociale. Nella frattura del circuito della rappresentanza, che vede il cittadino globale sempre più isolato e scollegato dall'élite politica, folle di moderni "proletari" scelgono altrove i loro capri espiatori. Privati dei risparmi, impoveriti nei redditi e derubati di certezze, individuano nei manager, ricchi, apolidi e irresponsabili, il simbolo del male. Sono loro i "predoni". Sono loro le "mosche del capitale", raccontate a suo tempo da Paolo Volponi, che vanno cacciate o schiacciate.

Promotori e sostenitori delle nuove "ronde anti-manager" non hanno tutti i torti. Ma quello che sta accadendo è inquietante. "Bank Bosses Are Criminals", pare sia il motto dei "giustizieri" che si stanno coalizzando in Nord Europa. Uno slogan sinistro, che riecheggia quello degli ultras degli stadi di tutte le latitudini: "All Cops Are Bastards". L'Italia, per ora, sembra immune. A meno di non voler considerare alla stessa stregua il blitz a colpi di letame compiuto dai centri sociali al "Cambio", il ristorante della Torino-bene. Ma che succede se la nuova "lotta di classe" dilaga e si espande ovunque? Un mese fa l'Economist ha fatto un'inchiesta, inquietante: nel mondo c'è un enorme "ceto medio globale", a spanne due miliardi e mezzo di persone, che in questi decenni di globalizzazione si è arricchito quanto basta per uscire dalla povertà, e per acquisire uno status sociale e una condizione materiale da neo-borghesia.

La "tempesta perfetta" rischia di ricacciare questo gigantesco pezzo di umanità sulle sponde desolate del sotto-sviluppo. L'Economist ripescava Marx, e ricordava che "la borghesia ha sempre giocato un ruolo fortemente rivoluzionario" nella Storia. Di fronte al crollo del benessere economico e delle aspirazioni sociali ha supportato i governi nazifascisti nell'Europa degli Anni 30 e le giunte militari nel Sud America degli Anni 80. Ha manifestato pacificamente per ottenere il diritto di voto nella Gran Bretagna del 19esimo secolo e ha ottenuto la democrazia nell'America Latina degli Anni 90.

Cosa accadrebbe, se questa massa di popolo conquistato al benessere ripiombasse, in poco tempo, nell'abisso della quasi-miseria? L'Economist non dava una risposta, ma si limitava a porre la domanda. Allargato su scala planetaria, ed esteso ai giganti del Terzo Millennio come Cina, India, Russia e Brasile, il nuovo "conflitto di classe" non è più solo un problema di difesa della democrazia economica. Diventa una questione di tenuta della democrazia in quanto tale. Questa rischia di essere la vera posta in gioco. Non solo per l'Occidente, ma per il mondo intero.
m.giannini@repubblica.it

(26 marzo 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI C'è giustizia in Parlamento
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2009, 11:26:55 pm
IL COMMENTO

C'è giustizia in Parlamento

di MASSIMO GIANNINI


C'E' un giudice a Montecitorio. La doppia, clamorosa bocciatura delle norme sulle ronde e sul tempo di permanenza degli immigrati nei Cpt è un'ottima notizia. In primo luogo, è una novità che fa ben sperare per la civiltà giuridica del Paese. Pure in questi tempi di crisi del multiculturalismo e di drammatica escalation dei flussi migratori, non esiste altra democrazia europea che abbia introdotto leggi non da stato emergenziale, ma da stato criminogeno. Le ronde anticlandestini sono questo e non altro. E non è un caso che fossero state bocciate dal Consiglio superiore della magistratura perché incostituzionali e dal sindacato di polizia perché ingestibili. L'allungamento a 180 giorni della permanenza dell'immigrato nei centri di smistamento è persino peggio: una misura sostanzialmente carceraria, stabilità da un'autorità amministrativa, in assenza di reato e di garanzia giurisdizionale.

La natura quasi eversiva di queste misure sta nella "furia" di Maroni che tuona: "Ora dovremo liberare 1038 clandestini". Dice proprio così, il ministro degli Interni: "Liberare". È la conferma implicita che per lui e per il Carroccio, i Cpt sono e devono essere galere. Il fatto che queste torsioni della dottrina del diritto e queste violazioni dell'habeas corpus siano state respinte dal Parlamento è un segno di tenuta culturale, che nonostante tutto getta una luce meno sinistra sull'Italia ai tempi di Berlusconi. La piaga della clandestinità, con tutti i suoi risvolti drammatici in termini di convivenza civile e ordine pubblico va affrontata e gestita senza inefficaci moralismi ma senza demagogici ideologismi.

In secondo luogo, la doppia bocciatura dei provvedimenti fortemente voluti dalla Lega, è una novità che fa ben sperare per la qualità politica del centrodestra. Il ritiro della prima norma e l'affondamento in aula della seconda, dimostrano che nemmeno nella destra berlusconiana, populista e plebiscitaria, c'è spazio solo per il pensiero unico "elaborato" fra il Cavaliere e il Senatur nel chiuso delle cene di Arcore. Il partito moderato di massa, se esiste davvero, non nasce pronta cassa sulla ruota esclusiva Forza Italia/Lega. Il partito degli italiani, se esiste davvero, non è ancora e forse non sarà mai il partito dei padani, xenofobi e spaventati. E' chiaro che il patto d'acciaio con Bossi è e resta strategico per Berlusconi, ma quello che è accaduto ieri alla Camera dimostra che, intorno alla leadership attualmente minoritaria, ma radicalmente alternativa di Gianfranco Fini esiste un nocciolo duro, da destra costituzionale e nazionale, non riducibile alla categoria gregaria dell'intendenza di De Gaulle, che sempre "seguirà" gli ordini del capo.

Quel nocciolo duro ha dimostrato di esistere già al congresso del Pdl, quando il presidente della Camera ha illustrato a una folla in mera adorazione del sovrano il manifesto di un partito conservatore e riformatore moderno, imperniato intorno ai diritti degli individui, alla tutela delle istituzioni e alla difesa dello stato laico, in totale antitesi rispetto al partito personale, confessionale e a-costituzionale incarnato dal Cavaliere.

Quel nocciolo duro ha dato una prova ulteriore della sua possibilità di crescere con la raccolta delle 101 firme, proprio contro la Lega e proprio sul decreto sicurezza, avvenuta nelle scorse settimane. Un'iniziativa che sembrava estemporanea, e per alcuni versi velleitaria, e che ora si dimostra invece opportuna e lungimirante.

Non sappiamo dove porterà, questa "leadership duale" che Fini sta cercando di consolidare nella metà campo del centrodestra. Quel che è certo, a questo punto, è che il presidente della Camera ha fugato un sospetto, che suo malgrado aleggiava su di lui. Quello di rappresentare, nonostante le sue positive intenzioni e oggettive riflessioni da statista, un vacuo "grillo parlante" nel centrodestra. Fini nel Pdl di oggi come Follini nella Cdl di ieri: votato alle guerre alate della testimonianza, ma confinato nelle terre desolate dell'irrilevanza. Quasi un "utile idiota", sfruttato dal Cavaliere per rappresentare l'immagine, falsa e artefatta, di un pluralismo formale che serviva solo a coprire, dietro una sterile cortina di dissenso, l'assolutismo sostanziale imperante nel partito del Popolo delle libertà.

Le cose, evidentemente, non stanno così. Come sempre, in politica chi ha più filo da tessere tesserà. Ma intanto accontentiamoci dell'evidenza. Quei 17 franchi tiratori, presenti e resistenti nei banchi di un Pdl che si pretende militarizzato, dimostrano che un'altra destra è possibile. Di questi tempi non è poco.

(9 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Un'altra legge ad personam...
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2009, 08:55:37 am
ECONOMIA     

Perché è stato alzato al 20% il tetto all'acquisto di azioni proprie

La norma è passata all'interno del decreto-incentivi approvato prima di Pasqua

Anche Parlamento e Consob nello schema "blinda-Mediaset"

Berlusconi: "Ho già parlato della difesa delle aziende italiane con Cardia"

di MASSIMO GIANNINI

 
SEPOLTA dalle tragiche macerie del terremoto d'Abruzzo, un'altra legge ad personam, o per meglio dire ad aziendam, ha incassato silenziosamente il timbro del Parlamento.

E' una norma che nasce all'ombra del conflitto d'interessi di Silvio Berlusconi: capo del governo e padrone di un impero mediatico. Tradisce una visione proprietaria del libero mercato: la regola generale al servizio di un'esigenza particolare. Sancisce una posizione gregaria delle autorità indipendenti: il "vigilante", debitamente sollecitato, obbedisce al "vigilato".

Mercoledì scorso il Senato ha approvato in via definitiva il cosiddetto decreto incentivi. Un pacchetto-omnibus nel quale c'è di tutto: dal raddoppio degli incentivi per l'auto ai bonus per gli elettrodomestici. Nel gigantesco garbuglio sono stati infilati un paio di articoli che prevedono "strumenti di difesa del controllo azionario delle società da manovre speculative", e introducono misure volte a prevenire "eventi di scalate ostili in una fase di mercato caratterizzato da corsi azionari molto al di sotto della media degli ultimi anni".

Nobile intenzione. Il legislatore, in piena crisi finanziaria, si preoccupa dei troppi "avvoltoi" stranieri che svolazzano sulla Borsa italiana. Vuole difendere almeno le spoglie dei pochi, grandi "campioni nazionali" rimasti su piazza: Eni ed Enel, Fiat e Telecom, Intesa e Unicredit. Con tre disposizioni specifiche. La prima prevede l'innalzamento dal 10 al 20% della quota di azioni proprie che ogni società può acquistare e detenere in portafoglio. La seconda prevede l'incremento fino al 5% annuo delle partecipazioni consentite a chi già possiede tra il 30 e il 50% di una Spa. La terza introduce la possibilità per la Consob di ridurre dal 2 all'1% la soglia valida ai fini dell'obbligo di comunicare alla Vigilanza l'avvenuto acquisto di un pacchetto azionario.

Non c'è male, per un governo che si professa liberale, anche se non più liberista. E nemmeno per un centrodestra che, fregandosene allegramente della cultura dell'Opa e della contendibilità delle aziende, ha già rimesso pesantemente in discussione la passivity rule, cioè quel complesso di regole volte a limitare le iniziative di contrasto consentite a una società su cui pende un'Offerta pubblica d'acquisto. In tempi di ferro, come dice Tremonti, ci si difende con tutti i mezzi. Ma il problema, nel caso di specie, non è solo questo: dietro la nuova crociata per salvare "l'italianità" si nasconde un interesse di bottega, molto più spicciolo: difendere Mediaset. Vediamo perché.

I titoli del Biscione, come la maggior parte del listino, soffrono da mesi e mesi un crollo verticale di valore. Al 31 dicembre 2007 un'azione Mediaset valeva 9,3 euro. Un anno dopo, a fine 2008, ne valeva 3,9. Attualmente staziona intorno ai 3,5 euro, con una capitalizzazione di circa 4,2 miliardi. Poco più di un terzo di due anni fa. Già a luglio dell'anno scorso Piersilvio Berlusconi denunciava: "Dall'inizio dell'anno abbiamo subito una perdita di valore del 41%". Anche il Cavaliere, ovviamente, è preoccupato.

L'8 ottobre 2008, in un'ormai leggendaria conferenza stampa, arringa le masse: "Abbiate fiducia, comprate azioni Eni, Enel e Mediaset". Nulla cambia, com'è ovvio, e un mese dopo il premier incurante delle polemiche insiste: "Le azioni di una società non possono mai valere meno di 20 volte gli utili prodotti". Tecnicamente non ha tutti i torti. Politicamente la sua posizione è indifendibile. Ma queste, per un "uomo del fare", sono questioni da legulei bizantini. Così, di fronte al progressivo tracollo della Borsa che nessuno riesce a fermare, il presidente del Consiglio e il suo inner circle usano tutte le armi a disposizione.

All'inizio del 2009 scattano i primi contatti riservati tra Gianni Letta e Lamberto Cardia, presidente della Consob. Il tema è: cosa si può fare per sostenere i corsi azionari e per evitare che qualche raider si faccia venire idee strane? In meno di un mese scatta una manovra di geometrica potenza. Ai primi di marzo, secondo un'indiscrezione raccolta a Piazza Affari, da Mediaset arriva agli uffici Consob una richiesta di parere sui limiti all'acquisto di azioni proprie. Il 12 marzo, in un'intervista al settimanale di famiglia, Panorama, Cardia fa il primo passo: "Serve una spinta in più per ritrovare la fiducia e ridare fiato alla Borsa - dice il presidente della Consob - il governo ha già fatto molto, però nella situazione attuale si può andare oltre... Si potrebbe, per un periodo prefissato e in tempi di crisi, dare la facoltà alle società quotate di comprare azioni proprie non più fino al 10 ma fino al 20%. Questo potrebbe servire a contrastare la volatilità e a rafforzare la presa sul capitale. Naturalmente tutte queste scelte spettano alla politica, governo e Parlamento. I miei sono solo contributi di pensiero".

Ben detto. Ma questo "contributo di pensiero" è esattamente il segnale che aspettano in casa Berlusconi. Nel giro di una settimana succedono due cose, per niente casuali. Il 17 marzo il cda Mediaset approva il bilancio 2008 ed esamina i primi tre mesi del 2009, che riflettono la crisi, tra una caduta del 12% dei ricavi pubblicitari a gennaio e un taglio dei dividendi, per la prima volta dopo sette anni, da 0,43 a 0,38 euro per azione. Nel comunicato finale, il Biscione comincia a mettere fieno in cascina e precisa che alla prossima assemblea sarà proposta la facoltà di "acquisire fino a un massimo di 118.122.756 azioni proprie, pari al 10% dell'attuale capitale sociale, in una o più volte, fino all'approvazione del bilancio 2009". Il 18 marzo due parlamentari del Pdl, Marco Milanese ed Enzo Raisi, presentano un emendamento al decreto incentivi, che prevede esattamente l'innalzamento dal 10 al 20% della quota di azioni proprie acquistabili da una singola azienda, l'incremento dei tetti per la cosiddetta Opa totalitaria e la riduzione dal 2 all'1% della soglia al di sopra della quale scatta l'obbligo di comunicazione. Ecco la norma ad aziendam.

Il blitzkrieg è scattato. Ha solo bisogno di una cornice presentabile sul piano etico e sostenibile sul piano politico. Alla prima esigenza provvede ancora Cardia, che il 19 marzo, in una prolusione alla Scuola Ufficiali carabinieri di Roma, chiude il cerchio: "E' di ieri la notizia della presentazione di un emendamento al decreto incentivi all'esame della Camera, che accoglie alcune proposte formulate dal presidente della Consob a titolo personale per sostenere le società quotate in un momento nel quale la grave depressione delle quotazioni potrebbe facilitare manovre speculative o ostili. Chi lavora in istituzioni pubbliche deve essere orgoglioso di lavorare al servizio della collettività...".

Alla seconda esigenza provvede lo stesso Berlusconi: il 31 marzo, in una dichiarazione a Radiocor, afferma pubblicamente che il governo punta ad aumentare il tetto per il possesso delle azioni proprie delle società quotate. E dichiara con assoluto candore di averne "parlato con il presidente della Consob", che si è detto "d'accordo su questa direzione". Nessuno lo nota, neanche i giornali specializzati. Ma è la smoking gun dell'ennesimo caso di conflitto di interessi.

Il resto è cronaca di questi ultimi giorni, con il Parlamento che approva definitivamente la norma ad aziendam. Nel silenzio assordante dei benpensanti. Si segnala una sola eccezione. Salvatore Bragantini, ex commissario Consob, in un commento nelle pagine interne del Corriere della Sera del 3 aprile scorso, critica giustamente il "decreto protezionista" corretto dagli emendamenti del Pdl, e si chiede: "Sarebbe interessante capire quale società potrà essere la vittima destinataria delle proposte". Ora lo sappiamo. Come temevamo, è la società del capo del governo.

(15 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La strada da Torino a Detroit
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 12:47:41 pm
ECONOMIA      L'ANALISI

La strada da Torino a Detroit

di MASSIMO GIANNINI


Se è vero che la Fiat è un secolo di storia italiana, oggi il Lingotto scrive una bella pagina di quella storia. Fallito nel 2005 il primo "sogno americano" di Gianni Agnelli con la General Motors, quattro anni dopo tocca a Sergio Marchionne coronare il secondo con la Chrysler. L'accordo con la casa di Detroit ha un grande valore industriale per il gruppo torinese e un forte impatto simbolico per il Paese. L'amministratore delegato della Fiat parla di "momento storico".

Il presidente americano Obama parla di "un futuro luminoso". Al di là dell'enfasi retorica, hanno ragione entrambi. Ma con qualche "caveat" che, proprio in queste ore di comprensibile soddisfazione, è utile sottolineare.

Dal punto di vista aziendale, questo successo insegna l'importanza del lavoro duro, dal primo dei manager all'ultimo degli operai, che sempre sta dietro e determina i destini di un'impresa. Insegna la centralità della manifattura, la passione e la fatica di chi, dietro una scrivania o alla catena di montaggio, partecipa alla vera "creazione di valore". Che non è il profitto (quello arriva a valle del ciclo, se tutto funziona come deve) ma è il prodotto (che sta a monte di tutto, se ognuno lavora come sa). Qui, al di là di tutte le dietrologie, sta il segreto del "modello Marchionne". Dopo l'ubriacatura finanziaria degli anni '90, a lui si deve il merito di aver riportato la Fiat a fare al meglio quello che l'ha resa, appunto, un pezzo di storia italiana: l'automobile. Nient'altro che l'automobile. Così la Fiat torna ad essere "il ritratto di famiglia di noi italiani". Gliene va dato atto.

Ma dobbiamo sapere che questo accordo è solo l'inizio della corsa, e non ancora il traguardo finale. L'innesto della tecnologia di Torino con le strutture produttive di Detroit consente alla Fiat di candidarsi al ruolo di player mondiale, tra i 5 o 6 che resteranno in piedi di qui al prossimi 2013, secondo la profezia dello stesso Marchionne. Lo sbarco sulle highways e nelle metropoli Usa dello "stile Italia", incarnato da modelli seducenti come la 500 e sportivi come l'Alfa Romeo, porta il nuovo colosso che nascerà a una "massa critica" di circa 4 milioni di auto prodotte. Tante, ma non ancora sufficienti per superare la soglia dei 6 milioni, considerata necessaria per reggere l'urto della competizione globale. Una successiva integrazione con la tedesca Opel sarebbe il coronamento di un'operazione perfetta, e finalmente completa. Ma questa è un altro capitolo della storia, ancora tutto da scrivere.

Dal punto di vista nazionale, questo successo insegna che la piccola Italia, con tutte le sue anomalie, le sue rigidità e i suoi ritardi, è ancora capace di esprimere le sue "eccellenze", almeno nei pochi settori rimasti in piedi dopo decenni di politiche economiche dissennate e di politiche industriali scellerate. Sembra passato un secolo da quel terribile 2002, quando la Fiat affondava nel mare di un debito lordo pari a 30 miliardi di euro, e sui mercati veniva considerata già "tecnicamente fallita". E sembra passato un millennio da quella nera domenica di ottobre, quando la dolente carovana di Lancia Thesis con dentro i manager di Torino capitanati da un disorientato Paolo Fresco e da uno sconfortato Galateri imboccavano il viale alberato della villa di Arcore, e si presentavano col cappello in mano a Silvio Berlusconi, a chiedere il salvataggio del governo. Il Cavaliere li accolse con lo stesso, infastidito sussiego del notabile che riceve i suoi portaborse. Li maltrattò, gli promise aiuti solo a patto che l'intero vertice si facesse da parte. Perché - così disse - "ho io un po' di idee, per rilanciare la Fiat".

Il successo del Lingotto in terra americana, oggi, sana quella ferita. E sia pure con molti anni di distanza, risarcisce la più importante azienda privata italiana da quell'insopportabile umiliazione. Non che la Fiat non avesse di che farsi perdonare. Gli errori strategici non sono mancati. I favori politici meno che mai. Ora, dopo aver molto ricevuto in termini di sussidi diretti e indiretti, il Lingotto restituisce credibilità a se stesso, e prestigio al Paese. Non possiamo che rallegrarcene.

Ma dobbiamo sapere che quella credibilità e quel prestigio sono frutto solo della forza di poche grandi industrie del Primo Capitalismo (come la Fiat, appunto) e del sacrificio di migliaia di piccole e medie imprese del Quarto Capitalismo. Sono queste che ogni giorno si vanno a cercare all'estero qualche metro in più di quota di mercato. Supplendo, con la sola "arma" dell'innovazione dei propri prodotti o dei propri processi, alle inefficienze dello Stato, alle deficienze delle infrastrutture, alle assenze della politica. Ora il presidente del Consiglio si dichiara giustamente "orgoglioso" dell'accordo Fiat-Chrysler. Ma mentre sale anche lui sul carro dei vincitori, dovrebbe essere consapevole che questa è l'affermazione di un'impresa, non la vittoria di un Sistema-Paese. Anche questo è un altro capitolo di storia, ancora tutta da scrivere.

Dal punto di vista globale, infine, questo successo insegna che il mondo, di fronte a una crisi eccezionale, deve cercare solo risposte eccezionali. L'accordo Fiat-Chrysler ne è un formidabile concentrato. Nasce una nuova società che, oltre al Lingotto con il 20%, avrà nel suo capitale il Tesoro Usa con una quota del 23% e i sindacati americani e canadesi dell'auto con quote del 55%. Chi avrebbe mai potuto immaginare che la patria dell'ortodossia liberista degli "spiriti animali" si sarebbe convertita all'eresia del modello renano e della cogestione sindacale? E chi avrebbe mai potuto immaginare che una grande industria privata come la Fiat avrebbe accettato di convivere con un socio pubblico ingombrante come Tim Geithner? Non solo: i sindacati, dopo una lotta durissima, hanno dovuto scegliere tra l'ideologia e la realtà. Ma chi avrebbe immaginato che migliaia di lavoratori, per salvare l'auto, avrebbero accettato pesanti tagli nel costo del lavoro, forti limiti agli straordinari (pagati solo dopo 40 ore settimanali) e la rinuncia a festività come i lunedì di Pasqua dei prossimi due anni? E ancora: le quattro principali banche con cui Chrysler è indebitata, cioè Jp Morgan, Goldman Sachs, Morgan Stanley e Citigroup, hanno dovuto scegliere tra il rigore e il buon senso. Ma chi avrebbe mai immaginato che avrebbero accettato di ridimensionare da 6,8 a 2 miliardi di dollari i loro crediti da riscuotere?

L'insieme di queste "singolarità" dà la misura delle incognite che ancora incombono su questa operazione. Ma c'è poco da fare: questo è il frutto amaro della crisi. Obama l'ha capito per primo, con grande pragmatismo. Gliene va dato atto. E anche da questo punto di vista l'accordo Fiat-Chrysler può diventare un paradigma dei tempi che viviamo. Per uscire dalla tempesta perfetta non c'è più una soluzione precostituita, non c'è più un modello prestabilito. Il turbocapitalismo contro il neo-statalismo. Tutto si mescola, tutto cambia segno e senso. Bisogna mettersi in marcia, e tentare tutte le strade. Quella che va da Torino a Detroit può portare lontano.
m.giannini@repubblica.it

(1 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Vita virtuale e crisi reale
Inserito da: Admin - Maggio 01, 2009, 02:40:24 pm
Massimo Giannini


Vita virtuale e crisi reale
 


Chi in questi giorni, folgorato sulla via di Damasco, ha visto improvvisamente la "fine dell'apocalisse", è purtroppo servito. Le due grandi locomotive del mondo, Stati Uniti e Germania, deragliano nell'abisso della recessione. In America il Prodotto interno lordo crolla di schianto: meno 6,1 per cento nel primo trimestre 2009, rispetto a un'attesa del meno 4,7%.

Tre trimestri consecutivi di caduta della ricchezza nazionale non si vedevano dal 1974, anni di shock petroliferi e di "economia di guerra". Due trimestri consecutivi in cui la somma del decremento del Pil raggiunge il 12,9% non si vedevano da sessant'anni. Cede tutto: dagli investimenti all'export.

In Germania, per molti versi, va persino peggio: il Pil del 2009 è stimato dalla Merkel a meno 6%, rispetto al meno 2,25 dell'ultima previsione governativa. La peggiore performance tra i Paesi industrializzati, se si eccettua il Giappone. Cede tutto, anche qui: dalle esportazioni, che a febbraio scendono del 23,1%, alla disoccupazione, che nel 2010 raggiungerà il picco dei 4,62 milioni di unità.

Chi si ostina a vedere "l'uscita dal tunnel", in Italia, soffre dunque di miopia economica. Francesco Daveri, su Lavoce.info, segnala che a dispetto di una declamata ripresa del clima di fiducia tra gli imprenditori, almeno secondo l'indagine Isae, l'andamento della capacità produttiva nel primo trimestre 2009 evidenzia un'ulteriore riduzione nell'utilizzo degli impianti tra le imprese manifatturiere.

Si chiede Daveri: da cosa nasce, allora, questo ritrovato "clima di fiducia"? Molto probabilmente dalle dissimulazioni della "vita virtuale", cioè dalla scomparsa del termine "crisi" dalle prime pagine dei quotidiani. Temo che abbia ragione. Per superare la recessione non basta farla sbianchettare dai titoli di giornali e Tg. Nella "vita reale" c'è chi ne soffre le conseguenze ogni giorno, sulla propria pelle, e prima e poi ne chiederà conto a chi governa. Per questo la "mistica della ripresa" è anche miopia politica.

(30 aprile 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Leoni per Agnelli
Inserito da: Admin - Maggio 05, 2009, 11:32:18 pm
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Leoni per Agnelli


Massimo Giannini


Preferisci essere una zampa del leone o la coda di un topolino?
Detta brutalmente, questa è l'incognita che il gruppo Fiat si trova di fronte, nel complesso risiko che dovrebbe portare il Lingotto al centro di una grande alleanza proprietaria e finanziaria che incrocia Chrysler, con GM Europa e Opel, o in alternativa con Peugeot-Citroen e Bmw.

E' chiaro a tutti che la famiglia Agnelli, con le sue sole gambe, non può reggere l'urto di una sfida globale di queste proporzioni. Anche per la situazione debitoria in cui si trova il gruppo, sulla quale in questi giorni di legittimo orgoglio "neo-colonialista" si è preferito non insistere più di tanto. Ma è un fatto che, di qui ai prossimi mesi, al Lingotto serviranno cospicue iniezioni di capitale fresco. Solo nelle attività industriali, il gruppo torinese mostra un indebitamento di oltre 7 miliardi di euro, ai quali se ne sommano altri 16 per le attività finanziarie. Le banche azioniste, Unicredit e Intesa, hanno già dichiarato di essere pronte a fare la loro parte, se e quando ce ne sarà bisogno.

Ma è evidente che anche l'impegno rinnovato e rafforzato dei soci creditizi non basterà. Servirà molto altro, e molto di più. La posta in gioco, indipendentemente da come andrà a finire la "campagna di Germania" avviata in questi giorni da Marchionne, riguarda il futuro assetto di governance azionaria che sarà disegnato intorno al Lingotto. E quindi, sostanzialmente, il modello di capitalismo finanziario che nascerà dalla definitiva internazionalizzazione del gruppo. E' altrettanto chiaro a tutti, nonostante la presa tuttora esercitata dagli Agnelli sulla Fiat attraverso Exor, che questo impianto familiare (o familistico) non può resistere all'evoluzione dei tempi. Anche John Elkann si dovrà dunque rassegnare all'evidenza, e si dovrà convincere della necessità di aprire i forzieri di Torino, e di rimettere in gioco quote azionarie e risorse finanziarie insieme ad altri partner globali, non certo e non solo italiani. Questa è la sfida. Questo è lo scambio, con tutto il rispetto. Leoni per Agnelli.

(5 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI I trucchi del "decreto abracadabra" ricostruzione diluita ...
Inserito da: Admin - Maggio 08, 2009, 11:19:06 pm
IL RETROSCENA.

Il contributo statale effettivo per ogni famiglia non sarà di 150 mila euro, ma di un terzo

Fondi "virtuali" e stanziamenti basati su previsioni di incassi crescenti delle lotterie

I trucchi del "decreto abracadabra" ricostruzione diluita in 23 anni

di MASSIMO GIANNINI


 Impegni solenni, progetti altisonanti. Garantiti dalle solide certezze del presidente del Consiglio. Ma se scorri il testo del provvedimento, ti accorgi che lì dentro di veramente solido c'è poco e niente.

Tutto balla, in quello che è già stato ribattezzato il "Decreto Abracadabra". Le cifre, innanzitutto. Dopo il Consiglio dei ministri straordinario del 23 aprile, Berlusconi e Tremonti avevano annunciato uno stanziamento di 8 miliardi per la ricostruzione dell'Abruzzo: 1,5 per le spese correnti e 6,5 in conto capitale. A leggere il decreto 39, si scopre che lo stanziamento è molto inferiore, 5,8 miliardi, ed è spalmato tra il 2009 e il 2032. Di questi fondi, 1,152 miliardi sarebbero disponibili quest'anno, 539 milioni nel 2010, 331 nel 2011, 468 nel 2012, e via decrescendo, con pochi spiccioli, per i prossimi 23 anni. Da dove arrivano queste soldi? Il governo ha spiegato poco. Il premier, ancora una volta, ha rivendicato il merito di "non aver messo le mani nelle tasche degli italiani". Il ministro dell'Economia si è fregiato di aver reperito le risorse "senza aumentare le accise su benzina e sigarette, senza aumenti di tasse, ma spostando i fondi da una voce all'altra del bilancio".

Il "Decreto Abracadabra" non aiuta a capire. Il capitolo "Disposizioni di carattere fiscale e di copertura finanziaria" dice ancora meno. Una prima, inquietante cosa certa (come recita l'articolo 12, intitolato "Norme di carattere fiscale in materia di giochi") è che la ricostruzione in Abruzzo sarà davvero un terno al lotto: 500 milioni di fondi dovranno arrivare, entro 60 giorni dal varo del decreto, dall'indizione di "nuove lotterie ad estrazione istantanea", "ulteriori modalità di gioco del Lotto", nuove forme di "scommesse a distanza a quota fissa". E così via, giocando sulla pelle dei terremotati. Un "gioco" che non piace nemmeno agli esperti del Servizio Studi del Senato: "La previsione di una crescita del volume di entrate per l'anno in corso identica (500 milioni di euro) a quella prevista a regime per gli anni successivi - si legge nella relazione tecnica al decreto - potrebbe risultare in qualche modo problematica".

Una seconda, inquietante cosa certa (come recita l'articolo 14, intitolato "Ulteriori disposizioni finanziarie") è che altre risorse, tra i 2 e i 4 miliardi di qui al 2013, dovranno essere attinte al Fas, il Fondo per le aree sottoutilizzate, che dalla Finanziaria in poi è diventato un vero Pozzo di San Patrizio, dal quale il governo pompa denaro per ogni emergenza, senza che si capisca più qual è la sua vera dotazione strutturale.
E questo è tutto. Per il resto, la copertura finanziaria disposta dal decreto è affidata a fonti generiche e fondi imprecisati: dai soldi dell'Istituto per la promozione industriale (trasferiti alla Protezione civile per "garantire l'acquisto da parte delle famiglie di mobili ad uso civile, di elettrodomestici ad alta efficienza energetica, nonché di apparecchi televisivi e computer") al trasferimento agli enti locali dei mutui concessi dalla Cassa depositi e prestiti.

A completare il gioco di prestigio contabile, non poteva mancare il solito, audace colpo a effetto, caro ai governi di questi ultimi anni: altri fondi (lo dice enfaticamente il comma 4 dell'articolo 14) potranno essere reperiti grazie alle "maggiori entrate derivanti dalla lotta all'evasione fiscale, anche internazionale, derivanti da futuri provvedimenti legislativi". Insomma, entrate scritte sull'acqua. A futura memoria. E a sicura amnesia.

Ma non è solo l'erraticità dei numeri, che spaventa e preoccupa nel "Pacchetto Ricostruzione". A parte gli interventi d'emergenza, ci sono altri due fronti aperti e dolenti per le popolazioni locali. Un fronte riguarda l'edificazione delle case provvisorie ("a durevole utilizzazione", secondo la stravagante formula del decreto) che dovrebbero garantire un tetto ad almeno 13 mila famiglie, pari a un totale di 73 mila senza tetto attualmente accampati nelle tendopoli. I fondi previsti per questi alloggi (nessuno ancora sa se di lamiera, di legno o muratura) ammonterebbero a circa 700 milioni. Ma 400 risultano spendibili quest'anno, 300 l'anno prossimo.

Questo, a dispetto del giuramento solenne rinnovato dal Cavaliere a "Porta a Porta" di due giorni fa, fa pensare che l'impegno di una "casetta" a tutti gli sfollati entro ottobre, o comunque prima del gelo invernale, andrà inevaso. Quasi la metà di loro (secondo il timing implicito nella ripartizione biennale dei fondi) avrà un tetto non prima della primavera del prossimo anno.

Un altro fronte, persino più allarmante, riguarda la ricostruzione delle case distrutte. Il governo ha annunciato "un contributo pubblico fino a 150 mila euro (80 mila per la ristrutturazione di immobili già esistenti), a condizione che le opere siano realizzate nel rispetto della normativa antisismica".

Basterà presentare le fatture relative all'opera da realizzare, e a tutto il resto penserà Fintecna, società pubblica controllata dal Tesoro, che regolerà i rapporti con le banche. Detta così sembra facilissima. Il problema è che quei 150 mila euro nel decreto non ci sono affatto. Risultano solo dalle schede tecniche che accompagnano il provvedimento. E dunque, sul piano legislativo, ancora non esistono. Non basta. Sul totale dei 150 mila euro, il contributo statale effettivo sarà pari solo a 50 mila euro. Altri 50 mila saranno concessi sotto forma di credito d'imposta (dunque sarà un risparmio su somme da versare in futuro, non una somma incassata oggi da chi ne ha bisogno) e altri 50 mila saranno erogati attraverso un mutuo agevolato, sempre a carico della famiglia che deve ricostruire, che dunque potrà farlo solo se ha già risparmi pre-esistenti. Se questo è lo schema, al contrario di quanto è accaduto per i terremoti dell'Umbria e del Friuli, i terremotati d'Abruzzo non avranno nessuna nuova casa ricostruita con contributo a fondo perduto. Anche perché nelle schede tecniche del decreto quei 150 mila euro sono intesi come "limite massimo" dell'erogazione. Ciò significa che lo Stato declina l'impegno a finanziare la copertura al 100% del valore dell'appartamento da riedificare.

Nel "Decreto Abracadabra", per ora, niente è ciò che appare. Man mano che si squarcia la cortina fumogena della propaganda, se ne cominciano ad accorgere non solo i "soliti comunisti-sfascisti" dell'opposizione come Pierluigi Bersani (che accusa l'esecutivo di trattare gli aquilani come "terremotati di serie B"), ma anche amministratori locali come Stefania Pezzopane, o perfino presidenti di Confindustria come Emma Marcegaglia, che l'altro ieri a L'Aquila ha ripetuto "qui servono soldi veri". C'è un obbligo morale, di verità e di responsabilità, al quale il governo non può sfuggire. Lo deve agli abruzzesi che soffrono, e a tutti gli italiani che giudicano. L'epicentro di una tragedia umana non può essere solo il palcoscenico di una commedia politica.

(7 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI I numeri e la metafisica
Inserito da: Admin - Maggio 11, 2009, 04:38:36 pm
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I numeri e la metafisica

Massimo Giannini
 

La statistica dei numeri dell'Istat continua a non volersi piegare alla metafisica dei "noumeni" di Tremonti. La produzione industriale di marzo crolla ancora, 23,8 per cento su base annua, e chiude il trimestre più nero dal 1991 ad oggi. Se come si dice da giorni "abbiamo toccato il fondo" della crisi, con tutta evidenza siamo ancora lontani dall'aver imboccato la via della risalita. Semmai, purtroppo, abbiamo cominciato a scavare.

Dalle prime ricognizioni congiunturali di maggio emergerebbero timide tracce di assestamento. Nelle 45 mila industrie meccaniche e strumentali del Nord sembrano stabilizzarsi gli ordinativi dell'export e il ricorso alla Cassa integrazione, esplosa ad aprile del 400 per cento. Su questa fragile base, si diffonde l'attesa per un secondo trimestre in grigio, e poi su un terzo trimestre addirittura roseo, di "robusta ripresa". Magari fosse vero, e magari non si trattasse del solito gioco delle "fulfilling prophecies", le profezie che si autoavverano.

Nel frattempo, a dispetto della ventata di ottimismo forzoso che pervade la politica e l'informazione, le aspettative restano tutt'altro sconfortanti. Nell'ultima edizione del suo "Diario mensile della crisi" il Censis avverte che per il 68,3 per cento degli italiani "non è affatto vero che ormai abbiamo toccato il fondo, ma anzi il peggio deve ancora arrivare". Il 47,6 per cento degli intervistati dichiara di aver registrato ripercussioni negative dalla crisi, il 40 per cento di aver subito perdite nei propri investimenti e il 30 per cento di aver patito una riduzione del reddito disponibile. Se la recessione economica non si trasforma in secessione politica, e se il conflitto sociale non deflagra, tutto si deve ancora una volta alle virtù stoiche delle aziende del Quarto Capitalismo, all'economia sommersa e al Welfare familiare che supplisce a quello statuale. Così è, per adesso. Il resto è solo propaganda di regime. Tutte "chiacchiere e distintivo", come dice Al Capone a processo, negli "Intoccabili" di Brian De Palma.

(11 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Le misteriose regole di Tremonti
Inserito da: Admin - Maggio 15, 2009, 12:00:38 am
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Massimo Giannini

Le misteriose regole di Tremonti
 

VILLA Madama come la baita di Lorenzago. Un gruppo di "saggi" riuniti da Giulio Tremonti. Tre anni fa, sulle Dolomiti, per riscrivere una riforma elettorale poi passata alla storia come la "porcata" di Calderoli. Tre giorni fa, a Roma, per riscrivere le Dodici Tavole del "Global Standard", il nuovo sistema di regole economiche e principi etico-giuridici che dovrebbero rendere più trasparenti e più efficienti i mercati finanziari.

Ottima intenzione, e giusta intuizione, quella del ministro dell'Economia: non si dà vera riforma dei mercati, nell'era della globalizzazione, se non si individua un nuovo "corpus" legale di norme comune e di criteri condivisi a livello internazionale, ai quali tutti gli operatori si devono attenere. Fior di economisti, a partire da Luigi Spaventa, hanno segnalato in tempi non sospetti l'esigenza di marciare a passo spedito verso il cosiddetto "Legal Standard" dal quale far nascere un nuovo ordine mondiale.

Ma destano stupore e inquietudine il merito e il metodo. Nel merito, nessuno ha ancora capito quali siano i fantomatici "dodici punti" dei quali si è discusso a Villa Madama martedì scorso. Sul tema, non solo a Via XX Settembre, ma anche tra i giuristi e gli esperti che hanno partecipato regna un riserbo anomalo e, francamente, incomprensibile. Nel metodo, nessuno ha ancora capito come questa inziativa tremontiana si inquadri nel contesto di ciò che stanno facendo gli altri Paesi coinvolti, di ciò che stanno elaborando gli organismi internazionali e di ciò che il governo italiano proporrà all'imminente G8 finanziario.

Si sa che il ministro dell'Economia ha coinvolto nella stesura del suo progetto l'Ocse, il che va benissimo. Ma non si capisce per quale ragione non abbia chiamato a partecipare ai lavori i rappresentanti del Fondo Monetario Internazionale e del Financial Stability Board. Forse perché il primo mostra di non gradire le fughe in avanti del Belpaese, e il secondo è presieduto da Mario Draghi, nemico giurato di Giulio il Terribile nonostante i tentativi di dimostrare un'impossibile armonia tra Tesoro e Banca d'Italia?

Sta di fatto che il "Global Standard" tremontiano resta un "oggetto misterioso". Secondo i "rumors", è misterioso persino per Palazzo Chigi, che all'Aquila dovrà confrontarsi con i Grandi senza sapere nemmeno qual è l'oggetto della discussione. Confidiamo nel ministro. Ma temiamo un altro "porcellum".

(14 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Noemi e quella cena a Villa Madama con il Cavaliere e gli ...
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2009, 10:25:41 am
Le testimonianze degli invitati ad una serata ufficiale organizzata dalla presidenza del Consiglio lo scorso novembre

Noemi e quella cena a Villa Madama con il Cavaliere e gli imprenditori

Al tavolo di Berlusconi, insieme a Santo Versace e Ferragamo, era ospitata una bella ragazza che lui ha presentato così: "Si chiama Noemi Letizia e sta facendo uno stage"

di MASSIMO GIANNINI

 
Il presidente del Consiglio continua a non fornire risposte alle dieci domande che Giuseppe D'Avanzo gli ha rivolto su "Repubblica", una settimana fa. Berlusconi continua a opporre l'invettiva, o il silenzio. Negando, o fingendo di non vedere, i palesi risvolti pubblici (e quindi politici) di una vicenda solo all'apparenza privata.

Così, nell'indifferenza costante dei media italiani ma nell'attenzione crescente di quelli stranieri, continuano a risultare inevase le cruciali questioni sollevate dalla moglie del presidente Veronica Lario nel colloquio con Dario Cresto-Dina, le numerose contraddizioni nelle quali è incappato con la vicenda delle candidature alle europee e con il caso della giovane Noemi e della sua partecipazione alla festa di Casoria, raccontata su questo giornale da Conchita Sannino.

La storia si condisce ora di un nuovo capitolo, che ripropone e rafforza le ricostruzioni dissonanti fornite da Berlusconi fino ad oggi. Dopo approfondite verifiche condotte da "Repubblica" presso diverse fonti dirette, risulta quanto segue. La sera del 19 novembre 2008 il presidente del Consiglio, nella splendida cornice romana di Villa Madama, ha ricevuto i più bei nomi dell'imprenditoria del Paese, per una cena ufficiale tra il governo e le grandi firme del Made in Italy. Almeno una sessantina gli invitati, che il premier ha intrattenuto insieme a diversi ministri, da Letta a Tremonti, da Bondi a Fitto. Al suo tavolo da otto, al centro del salone, insieme a stilisti di spicco come Santo Versace e la moglie, Leonardo Ferragamo e la sorella Giovanna, Paolo Zegna e Laudomia Pucci, il Cavaliere ospitava "una splendida ragazza", secondo il racconto di chi c'era. Capelli castano chiari, vestito in lamè. Molto giovane, molto avvenente, sconosciuta a tutti. Berlusconi, secondo la testimonianza di un industriale che ha partecipato all'evento, l'ha presentata ai commensali come "Noemi Letizia, figlia di carissimi amici di Napoli. Sta facendo uno stage - ha aggiunto il premier - ed è qui per conoscere i grandi protagonisti del mondo della moda".

La ragazza ha parlato poco, e ascoltato molto. A un certo punto, secondo la ricostruzione di almeno tre fonti diverse invitate alla cena, ha fatto un rapido giro del salone, mentre l'orchestra suonava musiche americane e francesi. E non è passata inosservata. Uno dei commensali, seduto ad un altro tavolo a fianco all'allora segretario generale della presidenza del Consiglio Mauro Masi, ha chiesto lumi. "Chi è quella ragazza?". La risposta è stata la seguente: "È una cara amica napoletana del presidente. Non era previsto che venisse, ma lui l'ha voluta a tutti i costi, e per questo è stato addirittura necessario rivedere il "placement" del tavolo uno...". Cioè la distribuzione dei posti al tavolo nel quale era seduto il premier. A fine cena, secondo il ricordo dei presenti, sarebbe stata vista allontanarsi su un'auto blu, al seguito dell'Audi A8 nera del premier.

Berlusconi, come ha affermato in diverse interviste, ha dichiarato di non aver mai conosciuto personalmente la ragazza di Casoria, e di averla incontrata un paio di volte, sempre al seguito dei suoi familiari. "Ho avuto occasione di conoscerla tramite i suoi genitori. Questo è tutto", ha detto ai microfoni di "France 2" il 6 maggio. "Sono amico del padre. Punto e basta", ha aggiunto nell'intervista a "La Stampa" il 4 maggio. Con tutta evidenza, la ricostruzione di quanto accaduto quella sera di novembre sembra quindi aprire un'altra faglia nella linea difensiva costruita dal Cavaliere intorno all'intera vicenda. Come Repubblica ha accertato, il premier ha incontrato Noemi - sua ospite a tavola senza genitori - almeno in una circostanza.

Alla luce di tutto questo, ci permettiamo di rilanciare al presidente del Consiglio due delle dieci domande che D'Avanzo gli ha già rivolto. E cioè: "Quando ha avuto modo di conoscere Noemi Letizia?". E "quante volte ha avuto modo di incontrare Noemi Letizia e dove?". E dopo la scoperta che Noemi l'ha accompagnato da sola quel 19 novembre a Villa Madama, mentre a "France 2" il Cavaliere aveva detto di non averla mai vista da sola, potremmo aggiungere anche un altro interrogativo: perché ha mentito agli italiani (e stavolta persino ai francesi)?

m. gianninirepubblica. it

(21 maggio 2009)


Titolo: MASSIMO GIANNINI E l'imprenditore applaude
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2009, 11:53:39 am
E l'imprenditore applaude

di MASSIMO GIANNINI


Il microfono di un'associazione economica trasfigurato nel megafono di un comizio politico. Un importante appuntamento istituzionale svilito a "pronunciamento" sommario. Contro i giudici, "estremisti di sinistra" e "vera patologia della nostra democrazia". Contro il Parlamento, organo "pletorico, inutile e controproducente". Anche a questa torsione "rivoluzionaria" ci è toccato assistere, nei giorni più cupi e livorosi della deriva vagamente caudillista di Silvio Berlusconi. Il presidente del Consiglio si è presentato agli imprenditori non per spiegare quello che lui può fare per risolvere i loro problemi: contrastare la recessione, rilanciare la domanda, finanziare gli investimenti. Ma per annunciare quello che magistrati e parlamentari dovrebbero fare per risolvere i suoi problemi: obbedire, tacere, sparire.
"Non ci fermeremo fino a quando non avremo diviso l'ordine dei giudicanti dall'ordine degli accusatori", annuncia il Cavaliere. "Alla Camera si sta tutto il giorno senza far niente, con le mani nella scatola del voto, a obbedire agli ordini del capogruppo", aggiunge.

Ed è deprimente, oltre al fatto in sé, che di fronte a queste iraconde tirate populiste sia costretto a intervenire il Quirinale, per ricordare che sul Lodo Alfano l'unico "dominus" è la Consulta, e si trovino a protestare solo il sindacato delle toghe e il presidente della Camera Fini. La platea degli industriali, viceversa, non reagisce, non obietta. Non prende le distanze da un "collega" che, in base a una sentenza di primo grado, è stato giudicato colpevole per aver corrotto un teste in processi per falso in bilancio, fondi neri, evasione fiscale. Comportamenti che chiunque viva in azienda non può non biasimare, perché negano il mercato e alterano la concorrenza.
Anzi, di fronte a tutto questo accade l'impensabile: invece di mostrare insofferenza verso un primo ministro che urla la sua violenta requisitoria in un Auditorium invece di riferire in Parlamento come la Costituzione gli imporrebbe, proprio quella platea si scioglie in applausi. Metà complici, metà quiescenti. Così, in quell'abbraccio finale solo lievemente imbarazzato con Emma Marcegaglia, il premier vede realizzata la più estrema e innaturale delle metamorfosi: anche la Confindustria è trasformata in una "provincia" dell'Impero delle Libertà. E anche la sua leader, in base alla collaudata e malintesa idea di "galanteria" dell'Imperatore, può essere annoverata scherzosamente (ma scandalosamente) nella già folta schiera delle "veline".

Ed è poi questo, al fondo, l'altro "scandalo" di questa assemblea annuale. L'"Anschluss" berlusconiano della Confindustria, che la dice lunga sull'etica della responsabilità dell'establishment e il civismo della cosiddetta "borghesia produttiva", avviene malgrado una relazione della Marcegaglia non proprio tenera nei confronti del governo. Nella fotografia nitida e niente affatto edulcorata della crisi economica vissuta dall'Italia, che nessuna pennellata di vacuo ottimismo di regime può offuscare. Nell'indicazione dei tanti punti di debolezza del Sistema-Paese, che i piani faraonici annunciati e riannunciati da questo o quel ministro non possono eliminare. Nella denuncia delle tante liberalizzazioni scomparse dall'agenda, che nessuna promessa pre-elettorale può far ricomparire. Nel riconoscimento della "coesione sociale" e del ruolo della Cgil, che troppi fermenti ideologici tardo-craxiani hanno disconosciuto attraverso la pratica dissennata degli accordi separati. Persino nell'esaltazione della "società multietnica come valore", che nessun vaneggiamento xenofobo neo-leghista può cancellare, per chi facendo impresa al Nord si trova ogni giorno fianco a fianco, in fabbrica, con i lavoratori extra-comunitari.

Certo, la Marcegaglia è troppo generosa sulla strumentazione di sussidio ai disoccupati messa in campo dall'esecutivo, e non dice che 2 lavoratori su 5, nel nostro sistema di ammortizzatori sociali, resta tuttora senza garanzie. E troppo clemente sullo stato dei conti pubblici, riconoscendo a Tremonti una "barra del timone dritta" proprio mentre il Paese sta gravemente perdendo la rotta sul deficit, il debito pubblico e l'avanzo primario.
E fin troppo entusiasta del "coraggio" di Brunetta, di cui per ora c'è più traccia sulla carta intestata del dicastero che non nell'efficienza della Pubblica Amministrazione. Ma in quell'appello finale, rivolto direttamente al presidente del Consiglio, ci sarebbe anche una teorica sfida: "Lei che ha un mandato forte e un consenso straordinario, li usi per fare le vere riforme di cui questo Paese ha urgente bisogno". Non li usi invece per sfasciare le istituzioni, per scardinare i poteri dello Stato, per blindare la sua avventura politica in una dimensione neanche più "post", ma ormai, temiamo, quasi "extra" democratica. Sarebbe stato bello se la sfida della Marcegaglia avesse abbracciato anche questa seconda parte di ragionamento. Purtoppo si è fermata alla prima parte. E anche questo, purtroppo, è un prezzo pagato all'"annessione" berlusconiana.
(m. giannini@repubblica.it)

(22 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La terapia della verità
Inserito da: Admin - Maggio 30, 2009, 12:04:42 pm
ECONOMIA      COMMENTI

La terapia della verità

di MASSIMO GIANNINI


SERVE l'asciutto neorealismo post-moderno di Mario Draghi, per rompere il finto orizzonte di cartapesta sul quale Silvio Berlusconi proietta il suo personale Truman Show, a beneficio di un "pubblico" che si vuole ormai trasformato in "popolo". Dopo la Confindustria di Emma Marcegaglia, tocca ora al governatore della Banca d'Italia il compito di raccontare qualche amara verità a un'opinione pubblica sedata dal prozac della psico-politica governativa.

La prima verità è che l'Italia è un Paese in crisi profonda. Quest'anno il Pil crollerà del 5%. Solo nel semestre ottobre-marzo la caduta è stata pari al 7%. La famosa "ripresa", sbandierata da Palazzo Grazioli, non esiste in nessun luogo. E persino i "recenti segnali di affievolimento" della recessione, secondo Draghi, esistono solo nei "sondaggi d'opinione".

La seconda verità è che tanti, troppi italiani stanno male. Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% della Ue. La flessione della domanda e dei consumi nasce da un cedimento del reddito e dell'occupazione che si acuirà nei prossimi mesi. Due quinti delle imprese con oltre 20 addetti licenzieranno personale. Due milioni di lavoratori temporanei vedranno scadere il loro contratto entro la fine dell'anno.

La terza verità è che la "coperta" del nostro Welfare, con buona pace dei ministri Sacconi e Brunetta che la considerano la migliore del mondo, è corta e piena di buchi. Oltre 1 milione e mezzo di lavoratori, se licenziati, non hanno diritto ad alcun sostegno, e circa 800 mila lavoratori possono contare su un'indennità che non raggiunge i 500 euro al mese. Serve "una riforma organica e rigorosa" degli ammortizzatori sociali, e "una misura di sostegno al reddito per i casi non coperti". Non i pannicelli caldi della Cassa integrazione in deroga, o le pezze a colori dei fondi Fas.

La quarta verità è che anche la straordinaria virtù delle imprese del Quarto Capitalismo rischia di non reggere l'urto delle ristrutturazioni. Nelle prospettive sugli investimenti delle imprese manifatturiere permane "un forte pessimismo" per tutto il 2009. E tra le 500 mila piccole aziende con meno di 20 addetti, che danno lavoro a oltre 2 milioni di persone, è spesso "a rischio la stessa sopravvivenza". Purtroppo una Fiat che vince in America, o una Tod's che sbarca in Fifth Avenue, non bastano a fare primavera.

La quinta verità è che una politica economica attendista e rinunciataria ci sta regalando un doppio maleficio: nessuna crescita dell'economia reale, ma nessun risanamento dei conti pubblici. Il governo fa poco per arginare la crisi, ma deficit, debito e spesa primaria corrente continuano a lievitare ugualmente a ritmi vertiginosi. Non è solo l'eredità immane del passato, ma è anche il paradosso italiano del presente. Per questo servono riforme strutturali immediate e "prospettiche", che ci permettano di rafforzare le manovre anti-cicliche oggi in cambio di un sicuro risanamento di bilancio domani. Dalle pensioni alla pubblica amministrazione, dalla scuola alle infrastrutture. C'è l'imbarazzo della scelta, se solo il governo passasse dalla rappresentazione all'azione.

La sesta verità è che il sommerso, eterna risorsa dell'Italietta furba e irresponsbile, non ci tirerà mai più fuori dal gorgo. L'economia irregolare che pesa per il 15% della ricchezza nazionale è un'anomalia insopportabile anche per un Paese di poeti, di santi e di evasori come il nostro. L'occultamento di una parte così alta di basi imponibili accresce ulteriormente l'onere di chi è ligio al dovere, riduce la competitività delle imprese, accresce le iniquità e "disarticola il tessuto sociale". E anche qui, il governo non fa quel che deve. Non è un caso che Draghi segnali il collasso delle entrate tributarie. Un gettito Iva che diminuisce dell'1,5%, anche quando i consumi crescono del 2,3%, vuol dire una cosa sola: l'area dell'evasione fiscale si sta allargando.

Sta tutto qui, nel divario tra verità e finzione, l'abisso analitico e "terapeutico" che separa il governo e il governatore. Per Berlusconi la crisi è un "dato psicologico", virtuale e "percepito". Per curarla, quindi, basta una tambureggiante psico-terapia collettiva, impartita attraverso il verbo suadente del premier o il titolo compiacente di un tg, per attivare nel cervello del cittadino- consumatore- imprenditore-risparmiatore le endorfine di un "positivismo ad ogni costo".

Per Bankitalia (come già per Confindustria) la crisi è invece un "fatto economico", reale e vissuto. Per curarla, dunque, servono riforme vere, qui ed ora, che incidano sull'esistenza quotidiana delle persone, delle famiglie, delle imprese. Usa lo straordinario consenso che hai per cambiare e modernizzare questo Paese, era stata la sfida lanciata al Cavaliere dalla Marcegaglia. Draghi, con parole più sfumate, dice esattamente la stessa cosa. È significativo che a convergere su questa "piattaforma" riformista, contrapposta al "format" populista, stavolta ci siano anche i sindacati.

Sarà anche vero - come sostiene Giulio Tremonti in un'irrituale intervista "a orologeria" uscita ieri sul Sole 24 Ore, guarda caso proprio nel giorno delle Considerazioni finali - che la Banca d'Italia è solo "un'autorità tecnica", che la vera e unica "sovranità appartiene al popolo" e che "la responsabilità politica è del governo che ne risponde". Ma resta il fatto che Berlusconi sembra essere rimasto il solo a non capire che il puro galleggiamento, per questo Paese, è inutile. Non ci sarà nessuna quiete, dopo la "tempesta perfetta" che ha travolto noi, e che prima o poi rischia di travolgere anche lui.

(30 maggio 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIANNINI Il presidente del Consiglio parla di ammortizzatori sociali inesistenti
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2009, 05:29:20 pm
L'ANALISI.

Il presidente del Consiglio parla di ammortizzatori sociali inesistenti.

Ecco le cifre, vere, della Banca d'Italia

Welfare, le bugie del governo senza tutele 2 milioni di lavoratori


di MASSIMO GIANNINI

 NELL'archetipo berlusconiano, il "principio della realtà immaginata" è il cuore della politica. La propaganda non lascia spazio alla verità e alla responsabilità. Neanche su una frontiera dolorosa, come la vita agra dei disoccupati e dei precari.

Tutto si gioca sempre e soltanto sulla manipolazione semantica del reale e nella rimozione psicologica dei fatti. Nella "realtà immaginata" dal Cavaliere, dunque, l'Italia è il Paese che "resiste meglio di tutti gli altri alla crisi". E' la patria dell'equità sociale, dove un magnifico Welfare "copre tutti quelli che ne hanno bisogno" e dove un governo magnanimo "non lascia indietro nessuno".

Da almeno due giorni Silvio Berlusconi va ripetendo queste clamorose bugie dai microfoni del servizio pubblico radiotelevisivo. Aveva cominciato due sere fa nel solito salotto di Bruno Vespa, smerciando agli italiani le "meraviglie" del nostro sistema di ammortizzatori sociali, debitamente rimpinguati dal centrodestra, al punto di garantire "a tutti, ma proprio a tutti", una degna protezione.

Ha continuato ieri mattina nel felpato studio di "Radio anch'io", smentendo il governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, "colpevole" di aver sostenuto l'esatto contrario solo sette giorni fa. "La sua informazione sui precari - lo ha accusato - non corrisponde alle cose che emergono dalla nostra conoscenza della società italiana". Un concetto un po' oscuro nella forma, ma chiarissimo nella sostanza: non credete alla realtà empirica descritta da Draghi, europessimista e antitaliano, ma credete alla "realtà immaginata" che vi racconto io, superottimista e salvatore della Patria.

Solo una settimana fa il premier, compiaciuto, aveva definito "berlusconiane" le "Considerazioni finali" del governatore. Se le aveva lette, mentiva allora. Se non le ha lette, sta mentendo adesso. Basta ricostruire i fatti, per svelare la frottola scandalosa pronunciata sulla pelle dei veri "invisibili" (i reietti del lavoro) e per far cadere ancora una volta la maschera circense indossata dal Cavaliere (qui, come sul Casoria-gate o sul dopo-terremoto).

A "Porta a porta" Berlusconi ha dichiarato: "Oggi come mai i cittadini pensano che lo Stato è vicino. Non ho notizia di qualcuno che dica "abbiamo fame"... Abbiamo, ed è già operativo, accorciato le pratiche per la cassa integrazione, e tutti coloro che perdono il lavoro hanno il sostegno dello Stato. Copriamo fino all'80% dell'ultimo stipendio, ma la gente che segue anche dei corsi può arrivare quasi al 100% dell'ultimo stipendio... I "co. co. pro." possono avere una percentuale rispetto a quello che hanno introitato rispetto all'anno precedente... Ne ho parlato con il ministro Sacconi, ed è tutto già operativo".

Delle due l'una. O il presidente del Consiglio non sa di cosa parla. O specula politicamente sulla vita della povera gente. E non lo dicono i pericolosi "bolscevichi" del Pd. Lo ha detto, appunto, il governatore di Bankitalia: "Il nostro tasso di povertà relativa è molto superiore alla media di Eurolandia: 20%, contro il 16% dei nostri partner. Il nostro sistema di protezione sociale rimane frammentato. Lavoratori identici ricevono trattamenti diversi solo perché operano in un'impresa artigiana invece che in una più grande. Si stima che 1,6 milioni di lavoratori dipendenti e parasubordinati non abbiano diritto ad alcun sostegno in caso di licenziamento. Tra i lavoratori a tempo pieno del settore privato oltre 800 mila, l'8% dei potenziali beneficiari, hanno diritto a un'indennità inferiore ai 500 euro al mese... La Cassa integrazione ordinaria è stata diffusamente usata... la sua copertura potenziale è tuttavia limitata - interessa un terzo dell'occupazione dipendente privata - e fornisce al lavoratore un'indennità massima inferiore, in un mese, alla metà della retribuzione media dell'industria... Per oltre 2 milioni di lavoratori temporanei il contratto giunge a termine nel corso di quest'anno. Più del 40% è nei servizi privati, quasi il 20 nel settore pubblico. Il 38% è nel Mezzogiorno".

Così stanno le cose nel Paese reale, fuori dal mondo virtuale immaginato da Berlusconi. Perché non è poi così difficile stabilire chi stia mentendo, tra un premier che alla vigilia del voto europeo chiede al "suo" popolo di rinnovare e rafforzare il plebiscito, e un'istituzione neutrale e autorevole come la Banca d'Italia che non chiede niente a nessuno ma esige solo ascolto e rispetto.

Per averne conferma basta interrogare un po' più a fondo il ministro del Welfare. Chi ha ragione, tra Berlusconi e Draghi? "A modo loro - è la sorprendente risposta di Maurizio Sacconi - possono avere detto tutti e due una cosa vera. Noi abbiamo esteso a tutti i lavoratori subordinati, "potenzialmente", quella protezione del reddito che oggi, in assenza di queste misure straordinarie, sarebbe limitata solo a una parte dei lavoratori dipendenti: a quelli delle industrie sopra i 15 dipendenti, a una piccola parte del terziario. E questa operazione, da 32 milioni di euro nel biennio 2009-2010, "potenzialmente" copre tutti i lavoratori subordinati, anche quelli con contratti a termine, apprendisti o lavoratori interinali...".

Il problema è capire cosa significhi quel "potenzialmente", ripetuto due volte dal ministro. "Si tratta di vedere se il lavoratore ha maturato i requisiti di accesso - è la sua risposta - non si può accedere ai sussidi avendo lavorato solo un giorno. Da sempre, con unanime consenso delle forze politiche e sociali, il sussidio dev'essere responsabilmente gestito sulla base di un periodo già lavorato. Non a caso noi non proteggiamo un giovane in attesa della prima occupazione. Dobbiamo dargli servizi, opportunità di apprendimento, di congiunzione tra la scuola e lavoro, non certo un salario garantito...". E dunque, per quanti lavoratori la coperta del nostro Welfare sarà inevitabilmente corta, tanto da lasciarli del tutto scoperti? "E' impossibile dirlo", conclude Sacconi.

Detto altrimenti: nell'irrealtà berlusconiana tutti sono "potenzialmente" coperti. Nel realtà italiana molti sono "concretamente" scoperti. Quanti siano gli uni e gli altri, in ogni caso, il governo non lo sa. Sacconi, che è persona onesta, ha almeno il coraggio di riconoscerlo. Il Cavaliere, cui manca il pregio minimo della "dissimulazione onesta", spergiura il suo "tutti", e la chiude lì. Lo dice Lui, dunque va creduto a prescindere.

Sarebbe stato bello se, nello studio di "Porta a porta" o in quello di "Radio anch'io", qualcuno avesse sollevato qualche obiezione al presidente del Consiglio, e gli avesse fatto notare l'inconsistenza dei suoi seducenti "annunci" e l'incongruenza delle sue sedicenti "verità". Ma ancora una volta, in quelle "dependance" mass-mediatiche di Palazzo Grazioli è risuonato solo il Verbo del Cavaliere. L'"irresponsabilità delle parole", secondo Max Weber, coniugata all'"inverificabilità degli eventi", secondo Karl Popper.
m. gianninirepubblica. it


(6 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il plebiscito mancato
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2009, 11:00:13 am
IL COMMENTO
Il plebiscito mancato

di MASSIMO GIANNINI


"VINCERE", era l'imperativo categorico che Silvio Berlusconi aveva imposto a se stesso e alla sua coalizione, in un voto che per lui contava "più per l'Italia che per l'Europa". "Vincere", nascondendo sotto una montagna di preferenze i vizi privati (le veline, le minorenni, le feste di compleanno o di Capodanno) e i pubblici tabù (la sentenza Mills, i voli di Stato, le critiche della stampa estera). Ebbene, forse il "Conducator" ha vinto, ma di sicuro il Pdl non ha stravinto. E il suo rivale Dario Franceschini ha perso, ma di sicuro il Pd non ha straperso.

Se lo spoglio notturno delle schede confermerà le prime proiezioni, il premier si aggiudica queste elezioni europee, ma senza riuscire nel clamoroso "sfondamento" che aveva sognato. Questa è la vera, grande sorpresa di questo voto. A dispetto del feroce trionfalismo del Cavaliere e del truce benaltrismo dei suoi giornali, forse "la ricreazione non è ancora finita". Forse sull'immagine del "pagliaccio sciovinista" (come l'ha definito con un eccesso di sprezzo il Times) il caso Noemi ha pesato eccome. Forse sul profilo del suo esecutivo i problemi dettati dall'impoverimento nelle condizioni delle famiglie e dall'imbarbarimento dei rapporti tra alleati (non solo con il leghismo padano di Bossi ma anche con quello siciliano di Lombardo) hanno pesato eccome.

Per tracciare un bilancio definitivo della nuova geografia politica del voto occorrerà aspettare il risultato delle amministrative che si conoscerà solo oggi. Ma qualche riflessione generale è già possibile. Il Cavaliere incassa tutt'al più una stentata conferma del Plebiscito ottenuto un anno fa. Ha trasformato anche questo voto europeo in un referendum sulla sua persona. Ha affrontato la campagna elettorale in condizioni difficilissime, tra scandali politici, forzature istituzionali e disastri economici. L'"ordalia" su Berlusconi, nel Paese narcotizzato dalla propaganda e impaurito dalla crisi, sembra non aver funzionato come doveva.

Per capire perché, bisogna partire dal dato delle politiche 2008. Il Pdl partiva dal 37,4% del 13 aprile. In un anno e mezzo, con una recessione devastante e un riformismo inconcludente, il "partito del Presidente" è accreditato dalle prime proiezioni Rai di un 35%: 2,4 punti in meno delle politiche. Allo stato attuale, resta lontano anni luce dal pirotecnico 45% cui il presidente del Consiglio aveva più volte aspirato. Insieme alla Lega, non arriva affatto allo storico Rubicone di ogni contesa elettorale repubblicana: il 50% dei voti. Il centrodestra, in altre parole, mantiene più o meno le sue posizioni. Anzi, perde perfino qualcosa: Pdl e Lega, insieme, facevano il 45,7% alle politiche, mentre ora si fermerebbero al 44,6%. La distanza tra Pdl e Pd, che alle politiche era di 4,2 punti, si allarga, ma non diventa abissale come i leader della maggioranza auspicavano. Non solo. Se i dati definitivi fossero quelli delle prime proiezioni, persino il derby interno al centrodestra finirebbe male per il premier. Il Carroccio è in crescita, dall'8,3 delle politiche al 9,6% delle europee. Avanza in tutto il Nord. A sua volta, come il Popolo delle Libertà nel resto d'Italia, forse non sfonda tempestosamente gli argini del Po. Ma il Senatur guadagna quanto gli basta, soprattutto in Veneto e forse anche in Lombardia, per battere cassa in una delle prossime cene di Arcore, e per rilanciare la "Questione Settentrionale" a un Pdl che si caratterizza sempre di più come partito merdionale.

Il centrosinistra registra una prevedibile sconfitta, ma evita la temuta disfatta. Il Pd partiva dal 33,2% delle politiche, e arretra al 26,8% secondo le prime proiezioni. È uno smottamento grave, oggettivo. Ma non è una Caporetto, se si pensa che i sondaggi dell'autunno, quando Veltroni gettò la spugna, davano i democratici al 22%. Franceschini non può esultare. Ma può non disperare. Il congresso di ottobre, in queste condizioni, non è ancora un allegro battesimo, ma non è più una cerimonia funebre. Qualcosa si può ancora costruire, tra i calcinacci e non tra le macerie. Se a questo risultato si aggiunge il bottino accumulato da Di Pietro, che veleggia al 7,9% rispetto al 4,4 delle politiche, si ha la sensazione che l'opposizione sia ancora in campo. Pd e Idv, che nel 2008 avevano cumulato un 37,6%, oggi si attesterebbero al 35,6%. Anche in questo caso, 2 punti in meno rispetto alle politiche.

Il calo dell'affluenza alle urne è vistoso: almeno 6 punti in più rispetto alle ultime europee. Se i dati della notte saranno confermati, è chiaro che la "sindrome dell'abbandono" ha colpito non solo gli elettori dell'opposizione (come temevano i leader del Pd) ma anche gli elettori della maggioranza (evidentemente disgustati dal Casoria-gate, che qualche effetto deve pure averlo avuto in queste scelte di non voto). La radicalizzazione dello scontro elettorale, stavolta, ha penalizzato il centrodestra in misura più che proporzionale rispetto al centrosinistra. Certo, si è tradotta anche in un'ulteriore polarizzazione del voto. Ancora una volta, dal panorama politico spariscono le ali estreme: nessuno, né a destra né a sinistra, raggiunge il quorum. E ci sarebbe da ragionare a lungo, in questo caso, sul "voto utile" e sulla pulsione minoritaria dei "duri e puri" che, per non rinunciare alla testimonianza, rinunciano alla maggioranza.

Ancora una volta l'elettorato non premia le ambizioni "terzaforziste" di Casini: l'Udc, secondo le proiezioni, guadagnerebbe appena lo 0,8% sulle politiche. Poco, per chi spera di ricostruire un centro che condizioni il gioco politico con la strategia andreottiana dei due forni.

Se questo fosse davvero il panorama politico che esce dalle urne, i contraccolpi per il governo, anche se non devastanti, si faranno sentire. Le riforme, buone o cattive, si allontaneranno definitivamente. La competizione interna all'alleanza crescerà, insieme alla fibrillazione politica e all'inazione pratica. L'Italia si conferma spaccata a metà. Si ripropone la frattura tra un Nord-Sud in mano al centrodestra e un Centro in mano al centrosinistra. Ma la profezia di Tremonti si avvera solo in parte: è vero che "questo resta un Paese fondamentalmente di centrodestra", ma è anche vero che il centrosinistra non è ancora condannato a diventare solo "una Lega dell'Appennino". Il Muro di Arcore resta in piedi. Ma le crepe non mancano. Un'altra Italia, forse, è ancora possibile.

(8 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Guerra tra i leader, rispunta il centro-sinistra col trattino
Inserito da: Admin - Giugno 10, 2009, 03:35:44 pm
Guerra tra i leader, rispunta il centro-sinistra col trattino

L'ex premier: "Tutti mi attaccano, ma io sono in campo. Come Aiace"

E D'Alema affila le armi "Questo partito va ricostruito"

di MASSIMO GIANNINI

 
La tregua. Hanno parlato di tregua. "Almeno fino ai ballottaggi non facciamoci male", è la linea di Dario Franceschini. Ma se dal voto europeo esce una crepa nel Pdl, il voto amministrativo tradisce la frana del Pd. Dunque, altro che tregua. È già calata la notte dei lunghi coltelli.

Le tante, troppe anime perse del partito, senza dirselo esplicitamente, affilano le lame. Tra ex Ds ed ex Margherita divampa il fuoco amico: schermaglie dialettiche, che preparano battaglie politiche. Pierluigi Bersani osserva "per carità, ci siamo salvati, ma 'mo non raccontiamoci la balla che le cose vanno bene...". Telefona a un insoddisfatto D'Alema, che rimanda ogni valutazione pubblica al dopo 21 giugno, e stende i quattro punti programmatici per riancorare a sinistra il partito al congresso di ottobre. Enrico Letta aggiunge "abbiamo evitato il disastro, ma certo non possiamo brindare". Si consulta con un insofferente Rutelli, che convoca i suoi "coraggiosi" per il 3 luglio a Roma, e lancia subito un segnale di fumo all'Udc di Casini. Nel frattempo, il redivivo Walter Veltroni si prepara a "dire la sua" tra qualche giorno, mentre il semprevivo Romano Prodi non aspetta e la dice subito: "Ora è urgente un grande dibattito programmatico e ideologico, che fino ad oggi è mancato".

E la chiamano tregua. In realtà il gruppo dirigente del Pd è più diviso che mai, e non ha un'exit strategy condivisa. La ventata d'aria nuova incarnata da Debora Serracchiani non basta a convincersi che serve una svolta, un'idea, una scommessa. La nomenklatura è confusa, e indecisa a tutto. "Attenti, così scorrerà del sangue...". A sfoderare le lame, suo malgrado, è proprio Massimo D'Alema. Finora ha taciuto. E vuole tacere fino ai ballottaggi. Ma il risultato delle elezioni non lo conforta. "Stavolta, almeno, evitiamo di fare l'errore dell'altra volta, e per favore, non diciamo che abbiamo vinto...". Il partito, secondo lui, non ha un profilo politico. E paga questo deficit, nelle urne.
C'è di più. Secondo lui, il Pd paga anche il progressivo smarrimento della sua identità "di sinistra". "In campagna elettorale - confidava qualche giorno fa - la nostra gente non faceva altro che chiedermi: ma dove sono i nostri? Perché dobbiamo votare tutti candidati della ex sinistra democristiana?". Per questo il congresso di ottobre dovrà essere un momento di verità, un confronto a viso aperto, dal quale dovranno uscire una linea, un programma, un leader. Senza accordi sottobanco, senza soluzioni pre-confezionate.
Il problema è che il Pd rischia di presentarsi a quell'appuntamento nel caos più totale. Per questo, D'Alema ha una tentazione segreta. Scendere in campo in prima persona. Giocare lui, in campo aperto, la partita. E magari candidarsi neanche alla presidenza (come gli è già accaduto ai tempi dei Ds). Ma direttamente alla segreteria. Un azzardo, che sembra fuori dalla logica e fuori dalla storia.

Lui stesso ne è, in buona parte, consapevole. L'ha spiegati ai suoi, in queste lunghe settimane di campagna elettorale, i dubbi che lo tormentano. Almeno due. Il primo è che, dopo averlo già affossato una volta, non può silurare di nuovo Bersani, cui ha dato via libera appena un paio di mesi fa. Il secondo è che per storia e carattere si è ormai fatto tanti, troppi nemici: "Io lo so, nel partito, e non solo nel gruppo dirigente, c'è chi non mi ama. Sono uno che divide, anche se ho passato la vita a cercare di costruire l'unità...".

Ma poi, qua e là, la tentazione riemerge. Ci sono segnali inequivocabili. La sua campagna elettorale è stata massacrante come nessun'altra, nella sua carriera politica. Otto, dieci comizi al giorno. Battendo ogni angolo d'Italia, dalla Puglia al Veneto. Con un'attenzione al centro Italia, alle ex zone rosse. In un solo giorno, per esempio, Montefalco, Perugia, Foligno, Terni, Livorno, Cecina, Grosseto. In un solo weekend, Bagnaia, Marina di Camerota, Battipaglia, Avellino. Perché questo tour de force, in solitaria? Con tutta evidenza, D'Alema ha trasformato la campagna elettorale in un suo sondaggio personale, per capire quanto consenso riscuote ancora tra quello che fu il "popolo della sinistra". In questo senso, il test lo ha confortato.

Piazze piene. "A Piombino - raccontava qualche giorno fa - dopo un comizio un operaio mi ha preso per la giacca, e a brutto muso mi ha urlato: Massimo, 'sto partito l'è un casino, stavolta se ti tiri indietro te ci tiriamo indietro tutti...". A Orvieto mi ha illustrato invece la metafora di Telamonio Aiace. A domanda diretta: a ottobre si candida leader del Pd? Lui ha risposto vago, allusivo, col solito ghigno: "Mah... Tutti mi attaccano, tutti mi accusano di qualcosa, ma io sono in campo. Io sono come quel personaggio minore dell'Iliade, Aiace Telamonio. Ha presente? Il cugino di Achille, quello che combatteva un passo dietro agli eroi. Ma guarda caso, era quello che gli achei chiamavano sempre, all'ultimo momento, quando tutto era perduto e c'era da salvare le navi bruciate dai troiani...".

Ma le urne del centrosinistra si riempirebbero mai, con il ritorno in pista di D'Alema-Telamonio, posto che qualche acheo abbia davvero l'ardire di richiamarlo a difendere le navi del Pd? Anche lui riconosce l'azzardo. Ma c'è uno schema, dietro quell'azzardo, che un minimo di logica, sia pure negativa, ce l'ha tutta. Un Pd con l'impronta dalemiana sconta, per il Partito democratico, il peggiore degli scenari. Cioè la diaspora dei centristi, la fuoriuscita di una costola ex democristiana dal Pd: Letta, Rutelli, Fioroni, Follini e tutti gli altri teodem in circolazione. A quel punto, si produrrebbe un chiarimento definitivo, e una "divisione del lavoro" tra le due forze. Il Partito democratico, in questo schema, prenderebbe atto di essere diventato quella Lega degli Appennini" vagheggiata da Tremonti: cioè una replica geopolitica riformista del vecchio Pci, che presiederebbe l'area sinistra in chiave socialdemocratica, e punterebbe a riassorbire ampi strati di elettorato della sinistra radicale di Vendola e di Rifondazione.

La nuova formazione centrista, invece, dovrebbe mettere in piedi una "Cosa Bianca", con l'obiettivo di trovare un accordo con l'Udc, per impedire che Casini sia risucchiato, prima o poi inevitabilmente, nel nuovo "abbraccio mortale" con il Cavaliere. In questo modo, rinascerebbe il centro-sinistra con il trattino. Non più l'Unione prodiana, ma qualcosa di ancora più largo, che riaprirebbe i giochi politici e potrebbe tornare a contendere la maggioranza al centrodestra.
Pura fantapolitica? È probabile. Ma anche di questo si parla, nel tintinnar di sciabole che prelude all'ennesima, sanguinosa resa dei conti del Pd. "Sfasciare il Pd per salvare il centrosinistra", è la formula paradossale riassunta da Follini. Ma le incognite sono infinite. D'Alema ci pensa. Franceschini è preoccupato. Veltroni medita. Prodi incombe. Fassino aspira. Rutelli scalpita. Viene in mente Arthur Koestler, in "Schiuma della terra": "Passeri cinguettano sui fili telegrafici, mentre il filo trasmette telegrammi con l'ordine di uccidere tutti i passeri".

(10 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il premier e i consigli per gli acquisti
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2009, 11:40:28 am
IL COMMENTO

Il premier e i consigli per gli acquisti

di MASSIMO GIANNINI


"Non date pubblicità ai media che cantano ogni giorno la canzone del pessimismo". Questa, dunque, è la "dottrina Berlusconi" sul libero mercato. Questi sono i "consigli per gli acquisti" che l'Imprenditore d'Italia impartisce ai suoi "colleghi". L'uomo che sognava di essere la Thatcher, che si celebrava come "l'unico alfiere dell'economia liberale" nel '94 e come "il vero missionario della tv commerciale in Europa" nel '96, oggi concepisce così i rapporti tra produttori, clienti ed utenti. Non un contratto. Neanche un baratto. Piuttosto un ricatto.

Le parole pronunciate dal presidente del Consiglio dal palco confindustriale di Santa Margherita Ligure sono un ulteriore, drammatico esempio dei tanti "virus letali" che si stanno inoculando nelle vene di questo Paese. è un problema gigantesco, che chiama in causa sia chi produce quei virus (il presidente del Consiglio) sia chi li subisce (l'establishment politico-economico).
L'infezione promana direttamente dal capo del governo, dalla sua visione del potere, dalla concezione tecnicamente "totalitaria" delle sue funzioni. Proprio lui, che dovrebbe essere il primo a conoscere e difendere le ragioni del mercato, le umilia e le distrugge in nome di un interesse politico superiore: il suo. Il ragionamento fatto ai giovani industriali è agghiacciante: "Bisognerebbe non avere ogni giorno una sinistra e dei media che cantano la canzone del pessimismo. Anche voi dovreste fare di più: non dovreste dare pubblicità a chi adotta questi comportamenti". Nell'ottica distorta del Cavaliere, la pubblicità non è più uno strumento da impiegare liberamente nella competizione economica: non si distribuisce più in base all'utilità del mezzo, all'efficacia del messaggio e alla profittabilità dell'investimento. Diventa invece un'arma da usare selettivamente nella battaglia politica: si distribuisce, a prescindere dall'efficacia del messaggio e dalla profittabilità dell'investimento, solo in base alla "fedeltà" del mezzo. Il presidente del Consiglio chiede agli imprenditori una sostanziale alterazione delle regole del mercato, con l'unico scopo di punire chi non è d'accordo con la politica del suo governo.

Il paradosso è che a sostenere questa tesi sia il capo del governo, che è al tempo stesso proprietario di Mediaset (e dunque di una delle maggiori concessionarie italiane) e azionista (attraverso il Tesoro) delle principali aziende pubbliche o semi-pubbliche del Paese. Come si regoleranno i dirigenti di Publitalia, nel distribuire le campagne pubblicitarie sulle radio e le televisioni? E come si regoleranno i manager di Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, nel distribuire le loro campagne pubblicitarie sui quotidiani e i settimanali? Sarà interessante verificarlo, di qui ai prossimi mesi.

L'infezione inquina progressivamente il corpo della società italiana, delle classi dirigenti, delle istituzioni di garanzia. Una parola sugli imprenditori, innanzi tutto. Ancora una volta, bisogna constatare con rammarico che quando il Cavaliere ha lanciato il suo ennesimo anatema, dai giovani e dagli "anziani" di Confindustria non solo non si sono levate proteste, ma viceversa sono arrivati addirittura gli applausi. Eppure, per chi fa impresa e combatte ogni giorno sui fronti più esposti della concorrenza, le aberrazioni berlusconiane non dovrebbero trovare diritto di cittadinanza, in un convegno della più importante associazione della cosiddetta "borghesia produttiva".

Se esistesse davvero, una classe dirigente responsabile e consapevole del suo ruolo dovrebbe reagire, cacciando il mercante dal tempio. Invece tace, o addirittura condivide. E non solo nei saloni di Santa Margherita Ligure. Poche ore più tardi, nella notte di Portofino, il Cavaliere ha cenato con due alti esponenti del gotha confindustriale. Marco Tronchetti Provera (presidente di Pirelli ed ex azionista di riferimento di Telecom) e Roberto Poli (presidente dell'Eni) erano al suo fianco, mentre il premier smentiva la smentita dei suoi uffici di Palazzo Chigi, e confermava che con quell'intemerata sulla pubblicità ce l'aveva proprio con i giornali "nemici", e in particolare con "Repubblica".
Ebbene, anche in quella occasione nessun distinguo, nessuna presa di distanza da parte di chi dovrebbe preferire le leggi mercatiste di Schumpeter a quelle caudilliste di Berlusconi.

Ma una parola va spesa anche sulle cosiddette Autorità amministrative indipendenti, chiamate a tutelare la concorrenza, e sulla cosiddetta libera stampa, chiamata a difendere il diritto all'informazione. Solo in un Paese in cui si stanno pericolosamente snaturando i meccanismi di "check and balance" può accadere che di fronte a certe nefandezze ideologiche non ci siano organi di vigilanza capaci di fare semplicemente il proprio dovere. L'Antitrust non ha nulla da dire, sulla pretesa berlusconiana di riscrivere le regole del mercato pubblicitario con criteri di pura convenienza politica? E il giornale edito dalla Confindustria non ha nulla da dire, sul tentativo berlusconiano di condizionare le scelte commerciali dei suoi azionisti?
Domina il silenzio-assenso, nell'Italia berlusconizzata. Tutto si accetta, tutto si tollera. Anche un mercato schiaffeggiato dalla mano pesante del Cavaliere, invece che regolato dalla mano invisibile di Adam Smith.

(m.giannini @ repubblica.it)

(15 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'Antitrust e i liberisti alle vongole
Inserito da: Admin - Giugno 16, 2009, 11:28:34 pm
L'Antitrust e i liberisti alle vongole

Massimo Giannini


Gli italiani di oggi sembrano i francesi raccontati da De Gaulle mezzo secolo fa: vorrebbero ciascuno un privilegio, perché questo è il loro modo di amare l'uguaglianza. Quindi ha fatto bene il presidente dell'Antitrust, Antonio Catricalà, a puntare il dito contro tutti coloro che, per difendere ciascuno il proprio privilegio, stanno soffocando e uccidendo il libero mercato.

Le liberalizzazioni si sono fermate. Non solo. Il Parlamento e la maggioranza di centrodestra, invece di sciogliere i lacci e i lacciuoli che imbrigliano l'economia, ne stanno stringendo altri, sempre più asfissianti. Le modifiche alle lenzuolate di Bersani sono un'offesa alla cultura della concorrenza. Nei contratti di assicurazione si reintroducono norme restrittive, e quindi si obbligano gli utenti a sottostare ai ricatti delle compagnie. Nel settore sanitario si infliggono colpi mortali alle para-farmacie, e quindi alla possibilità di comprare una gran quantità di medicinali a prezzi infinitamente più bassi. Nel rapporto con le grandi aziende di servizio si limita il ricorso alla class action, e quindi si priva la categoria collettiva del consumatore di un fondamentale strumento di tutela. Questo sta accadendo, nell'Italia governata dai "liberisti alle vongole".

Il garante del mercato e della concorrenza inchioda il Parlamento alle sue responsabilità. Ma purtroppo anche quella di Catricalà ha tutta l'aria di una "predica inutile". Nessuno lo ascolterà. E soprattutto, nessuno si preoccuperà delle critiche, a tratti un po' troppo ellittiche e generaliste, di quella che dovrebbe essere una "autorità amministrativa indipendente". Prendiamo il capitolo del conflitto di interessi, cui il garante dedica l'ultima parte della sua relazione. È vero che la legge vigente è un pannicello caldo, costruita con il solo obiettivo di non disturbare il manovratore, cioè il presidente del Consiglio in carica. Ed è altrettanto vero che le norme attuali non consegnano all'Authority "armi" per poter disincentivare o impedire, nella dinamica dei rapporti politico-economici, decisioni che alterino il corretto funzionamento del mercato. Ma è altrettanto vero che in molti casi una "censura" ufficiale, anche se non traducibile in un atto formale, avrebbe una sua forza oggettiva.

Un esempio su tutti: l'invito di Berlusconi agli imprenditori a non dare pubblicità ai giornali che a suo dire "remano contro" il governo. Prendiamo atto che Catricalà non può aprire un'istruttoria, su queste aberrazioni del premier. Ma nessuno può impedirgli di stigmatizzarle pubblicamente, se le ritiene lesive della concorrenza. Almeno questo dovrebbe essere permesso, e forse doveroso. Viene in mente lo Stieg Larsson di "Uomini che odiano le donne": l'innocenza non esiste, esistono solo diversi gradi di responsabilità.
m.giannini @ repubblica. it

(16 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La tregua, i fatti
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2009, 11:08:15 am
IL COMMENTO

La tregua, i fatti


di MASSIMO GIANNINI

È PERFETTAMENTE comprensibile la preoccupazione che traspare dalle parole di Giorgio Napolitano. Alla vigilia del G8 a L'Aquila, l'Italia si presenta nelle condizioni peggiori. Gravemente vulnerata dalle vicende pubbliche che riguardano Berlusconi, e che non a caso da due mesi riempiono i giornali di tutto il mondo. È naturale che l'istituzione più autorevole e rappresentativa, la Presidenza della Repubblica, esprima la sua inquietudine. La stessa degli italiani che hanno a cuore l'immagine e l'interesse della nazione. Ma il monito del Quirinale non può e non deve essere trasformato in ciò che non è e non voleva essere: cioè un invito ai mass media a non occuparsi più di ciò che disturba il governo.

In questi due mesi non sono mancate le "polemiche", alimentate dal Cavaliere che ha straparlato di "piano eversivo" contro di lui, e che ancora ieri si è permesso di dire che ""Repubblica" e i giornali si inventano le cose". Ma in questi due mesi sono emersi soprattutto i "fatti". Ciò che avviene di notte a Villa Certosa o a Palazzo Grazioli, dove transitano veline, escort e "ospiti sbagliati". Ciò che accade di giorno alla procura di Bari, dove si indaga su tangenti, droga, prostituzione. Ciò che succede di sera nell'abitazione di qualche irresponsabile giudice costituzionale, che pur dovendosi pronunciare sul Lodo Alfano riceve a cena il premier e il suo Guardasigilli. Queste non sono polemiche. Questi sono fatti. E dove esistono i fatti c'è il giornalismo, che non può e non deve mai conoscere "tregua".

(30 giugno 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI I compagni di merende
Inserito da: Admin - Luglio 03, 2009, 10:11:43 am
IL COMMENTO

I compagni di merende

di MASSIMO GIANNINI


ABBASSARE i toni, chiede il presidente della Corte Francesco Amirante. Come se la cena fra due giudici costituzionali, il capo del governo e il suo guardasigilli fosse una questione di fair play privato e di bon ton istituzionale, e non invece uno scandalo e una vergogna morale. Cos'altro deve accadere, perché si percepisca l'abisso etico-politico in cui il berlusconismo ha precipitato questo paese, riproducendo per partenogenesi le forme di un conflitto di interessi sempre più endemico, pervasivo, totalizzante?

Cos'altro deve accadere, perché si comprenda l'imbarbarimento giuridico-normativo in cui il berlusconismo ha trascinato lo Stato di diritto, trasformandone i "servitori" irreprensibili in co-autori irresponsabili delle sue leggi ad personam?
Le parole dei due giudici coinvolti nel caso si commentano da sole. A colpire, nell'eloquio di Luigi Mazzella e di Paolo Maria Napolitano, non è solo la corriva complicità di chi detta per lettera un "caro Silvio, siamo oggetto di barbarie", né la banale volgarità di chi obietta "a casa mia invito chi voglio". Un frasario da "compagni di merende", più che da principi del foro, che nessuna frequentazione presente o passata (per rapporti privati di amicizia o relazioni pubbliche d'ufficio) potrebbe oggi giustificare. Ma quello che inquieta e indigna è la condivisione di un format ideologico caro al presidente del Consiglio, che rovescia sugli avversari la sua visione illiberale e autoritaria del potere. "Un nuovo totalitarismo" che "malauguratamente dovesse privarci delle nostre libertà personali": ne scrive Mazzella, e sembra di sentire l'ennesimo comizio assurdamente resistenziale del Cavaliere. "Siamo vittime di un tentativo di intimidazione": ne sragiona Napolitano, e pare di ascoltare l'ennesima giaculatoria falsamente vittimistica del Caimano.

Nessuno riuscirà a far fare un passo indietro a questi due "uomini di legge", che della legge fanno strame, in nome della legge. È un gioco di parole, ma proprio questo è il vero cortocircuito che impedisce e impedirà qualunque intervento su due giudici che hanno ineluttabilmente violato tutti i codici deontologici, anche se nessun codice penale. Ha formalmente ragione il Capo dello Stato, a spiegare attraverso i suoi uffici che un provvedimento del Quirinale, in un caso come questo, "non ha fondamento perché interferirebbe nella sfera di insindacabilità della Corte". Costituzione alla mano, è assolutamente vero. Come, Costituzione alla mano, è assolutamente vero che i giudici della Consulta appartengono a una sfera diversa rispetto a quelli ordinari. Diversi i criteri di nomina e di elezione, differenti le regole di carriera, che li esclude dal cursus dei concorsi e dalla disciplina del Csm. Proprio in quanto rappresentanti di un organo di rilevanza costituzionale che deve decidere spesso su questioni che riguardano altri poteri dello Stato, non subiscono gli stessi limiti cui sono esposti gli altri "contropoteri".

Ma si potrebbe dire che proprio lo "status" speciale di questi giudici, per la cruciale importanza delle questioni di principio sulle quali sono chiamati a decidere e sui quali poggia l'intero Stato di diritto, li espone ad un "self restraint" infinitamente maggiore, e non indiscutibilmente minore, rispetto a quello cui devono sentirsi sottoposti un gip, un gup, un pm o un magistrato di corte d'appello. L'inalienabile principio della "terzietà", per loro, dovrebbe valere immensamente di più di quanto non valga per un giudice civile, che per esempio, come prevede l'articolo 51 del codice di procedura, è obbligato all'istituto dell'astensione "se ha un interesse nella causa o in altra vertente su identica questione di diritto", e soprattutto "se egli stesso o la moglie è parente... o è commensale abituale di una delle parti o di alcuno dei difensori". Perché un pretore deve astenersi da una causa se ha pranzato più volte con il denunciante nella stessa controversia, e Mazzella e Napolitano potranno allegramente decidere della legittimità costituzionale del lodo Alfano, pur avendo cenato infinite volte con il vero, unico beneficiario di quello scudo processuale che lo mette al sicuro da una probabile condanna penale? Basta il fatto che il primo sia obbligato al passo indietro da un articolo testuale del codice, e i secondi possono sottrarsi all'obbligo solo perché non c'è una norma espressa che glielo imponga? Eppure questo succede, e questo succederà quando il 6 ottobre cominceranno le udienze della Consulta su quella scellerata legge salva-premier. Con buona pace di tutti. A partire dallo stesso Cavaliere. Ha tuonato per anni contro la Corte, "covo di comunisti" e architrave del "pentagono rosso" che domina l'Italia bolscevica, e oggi ne capta la benevolenza attraverso un'intollerabile forma di diplomazia conviviale. Ha insultato il giudice Gandus definendola "toga eversiva" e ha tentato di ricusarla solo perché, avendo partecipato a qualche iniziativa di Magistratura democratica contro qualcuna delle sedicenti "riforme della giustizia" del Polo, sarebbe stata incapace della necessaria obiettività di giudizio nel decidere su di lui al processo Mills. E ora difende a spada tratta due "toghe corrive" perché, pur avendo più volte condiviso con lui la tavola in questi mesi di serena bisboccia, in autunno avranno sicuramente la necessaria obiettività di giudizio nel decidere sulla costituzionalità di una legge che lo riguarda in prima persona.

Invocare il ripristino della "sacralità" degli organi di garanzia, come fa Di Pietro, è purtroppo una pia illusione. In questa perpetua eresia italiana i mercanti presidiano il tempio. E non si vede più chi li possa cacciare.

(3 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Quanto costa fare cassa
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2009, 09:29:18 am
ECONOMIA      IL COMMENTO

Quanto costa fare cassa

di MASSIMO GIANNINI


Come l'eroe di Stevenson, Giulio Tremonti vive due esistenze parallele. Di giorno il Dottor Jekill annuncia "mai più condoni" e scrive le 12 tavole della legge morale che deve dominare la finanza planetaria. Di notte Mister Hyde prepara uno scudo che consente agli evasori di rimpatriare capitali con un gigantesco salvacondotto tributario, penale e amministrativo.

Qual è il vero volto del ministro dell'Economia? E qual è la valutazione etico-politica che questo governo dà dell'infedeltà fiscale dei suoi governati? Alla vigilia del varo delle norme sul rientro dei capitali esportati e detenuti all'estero la confusione regna sovrana e ogni dubbio è legittimo. C'è una sola, incontrovertibile certezza. Le bozze in circolazione. Ultima tra tutte quella anticipata ieri da Repubblica, sono uno scandaloso insulto allo Stato di diritto, alla civiltà giuridica e all'equità sociale.

Le smentite di Via XX Settembre e Palazzo Chigi, per un verso confortano, per l'altro inquietano. Non basta negare l'esistenza di un testo "apocrifo", senza dire una sola parola chiara su cosa prevede l'originale. È noto da mesi che lo scudo fiscale al quale sta lavorando il governo contempla una forma, più o meno esplicita, di condono tombale. Per una ragione molto semplice: senza la cosiddetta "esclusione di punibilità" per gli illeciti tributari (come l'omessa dichiarazione o la dichiarazione fraudolenta) e per i reati penali (come il falso in bilancio o la bancarotta fraudolenta) l'operazione di rientro dei capitali esportati illegalmente rischia di rivelarsi un flop. Il bilancio pubblico piange: nei primi quattro mesi dell'anno le entrate tributarie sono crollate del 3,8%, pari a 4,3 miliardi di euro in meno rispetto al primo quadrimestre del 2008. Servono soldi, per contenere un deficit sempre più fuori controllo. I primi due scudi fiscali varati dal governo della Cdl nel triennio 2001-2003 sono un caso di scuola. Già allora non fu prevista alcuna forma di regolarizzazione fiscale. L'aliquota applicata ai capitali da far riemergere fu un obolo poco più che simbolico: il 2,5%. Risultato: rientrarono 43,2 miliardi di capitali, 29,8 furono regolarizzati ma rimasero all'estero e nelle casse dell'Erario finirono poco più di 2 miliardi.

Ora, da quanto e trapelato in questi mesi, il governo ha obiettivi più ambiziosi. Si punta a un gettito potenziale di 5 miliardi, attraverso un marginale aumento delle aliquote (tra il 5 e il 7,5%). Ma per ottenere il bottino non basta l'inasprimento della fiche di rientro. Questo governo (che ha già smantellato norme anti-evasione come la tenuta dell'elenco clienti-fornitori e la tracciabilità dei pagamenti) deve garantire agli evasori anche un nuovo "premio di rischio". Se fai rientrare i capitali non solo non ti punisco perché li hai nascosti, ma ti premio mettendoti al riparo dai pericoli di futuri accertamenti con una sanatoria pregressa estesa non solo alle persone fisiche, ma anche a quelle giuridiche. Questo è lo schema, al di là delle smentite di rito. E qui sta l'ennesima "legge porcata", per usare il linguaggio ruvido ma efficace di Antonio Di Pietro. In questi anni altri paesi, dal Belgio all'Irlanda, hanno varato i loro scudi fiscali. Ma in Germania il governo tedesco ha fissato un'aliquota del 25%. E in Gran Bretagna il governo inglese ha obbligato i contribuenti che riportavano in patria i capitali a rendere nota al fisco la propria identità, esponendosi all'alea dei controlli. Il governo italiano non ha lo stesso coraggio. Fa l'esatto opposto. Con la faccia feroce finge di minacciare gli evasori, con la faccia tosta gli perdona tutti i peccati. Questo, per usare una vecchia formula cara al ministro dalla doppia identità, si chiama "Stato criminogeno".

(13 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Corri che ti passa (ma in Italia no)
Inserito da: Admin - Luglio 15, 2009, 10:23:05 am
Corri che ti passa (ma in Italia no)
 
Massimo Giannini


Corri che ti passa, consiglia il "Wall Street Journal" a chi sente i morsi della crisi, e soprattutto a chi ha perso il lavoro. Ma per gli italiani è un po' più difficile. Provateci voi, a correre con un fardello di quasi 30 mila euro sulle spalle. Perché a tanto ammonta il debito che ciascun cittadino del Belpaese, suo malgrado, contrae e si porta appresso dalla culla alla bara.

Secondo gli ultimi dati della Banca d'Italia, a maggio il debito pubblico ha raggiunto quota 1.752 miliardi e 188 milioni di euro. Di mese in mese, si macinano nuovi record negativi, che riportano i conti pubblici verso il baratro dei primi anni '90 quando sfiorammo, allegramente inconsapevoli, la bancarotta argentina.

Per un debito che esplode, ci sono le entrate che implodono: anche a maggio l'ennesima contrazione del 3,2 per cento, il che vuol dire che sono andati in fumo, da un anno all'altro, oltre 5 miliardi di euro.

Crisi economica, certamente. Calo dei gettiti derivante dalla contrazione delle attività produttive, senz'altro. Ma anche, ormai è chiaro, aumento dell'evasione fiscale, incentivata da una dissennata politica del doppio binario: bastone minacciato (attraverso improbabili Global Legal Standard e inverificabili chiusure ai paradisi tributari) e carota assicurata (attraverso scudi che nascondono condoni e semplificazioni che si traducono in esenzioni).

E in queste condizioni noi dovremmo correre? Può funzionare in America, forse. Il "Wall Street Journal", appunto, ha fatto una curiosa inchiesta. Mettendo in parallelo i risultati delle grandi maratone internazionali e gli andamenti dell'economia, ha scoperto che nelle fasi di crisi più acuta, come quella che stiamo vivendo e che è iniziata nel 2008, le performance degli atleti sono state assai migliori che in passato. La tesi è che il disoccupato ha più tempo per allenarsi, e in qualche caso è anche meno stressato del corridore che lavora e deve difendere quotidianamente il posto dalle minacce della recessione.

La tesi è suggestiva, ma per noi tutt'altro che consolatoria. Con questi drastici peggioramenti nei saldi della finanza pubblica e con questi chiari di luna sulla congiuntura, che promette un settembre nero per molte imprese a corto di ordini e di liquidità, la corsa non è una risorsa. Serve un premier che ricominci a occuparsi del governo del Paese, più che dell'organizzazione delle sue nottate. Serve un ministro che ricominci a occuparsi più dell'economia, e un po' meno della filosofia. "Qualcuno con cui correre" era il titolo di un bellissimo libro di David Grossman di qualche anno fa. Non vorremmmo scoprirci ad essere una moltitudine, nell'autunno caldo che verrà.

(14 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Le "escort" e la crociata antievasione
Inserito da: Admin - Luglio 20, 2009, 03:17:41 pm
Le "escort" e la crociata antievasione

Massimo Giannini



Se l'è chiesto perfino l'Economist: ma le escort invitate a Palazzo Grazioli dall'"utilizzatore finale" Berlusconi, e regolarmente retribuite per i loro "servizi" dall'"organizzatore serale" Tarantini, hanno pagato le tasse oppure no? L'interrogativo sembra stupido, ma non lo è affatto. Nel loro piccolo, come hanno notato due fior di economiste su Lavoce.info (Silvia Giannini e Maria Cecilia Guerra) "anche questi sono problemi, di non poco conto, di moralità pubblica". Soprattutto nel momento in cui il capo del governo e i suoi ministri si lanciano in campagne poco credibili contro l'evasione fiscale.

Dunque Patrizia d'Addario e Barbara Montereale, tra le altre, hanno spiegato ai giornali e ai magistrati di Bari che la "tariffa" per una serata in compagnia del premier ammontava a 1.000 euro, che diventavano 2.000 se la "prestazione" si protraeva per l'intera nottata. Ora - scrivono Giannini e Guerra "se le ragazze hanno partita Iva, avrebbero dovuto rilasciare regolare fattura e addebitare all'acquirente l'Iva del 20%. Dovrebbero poi dichiarare nella denuncia Irpef il reddito così percepito. Se invece il provento fosse stato corrisposto a fronte di prestazioni occasionali (o attività illecite come la prostituzione) l'Iva non sarebbe dovuta, ma il reddito andrebbe comunque dichiarato nella categoria "redditi diversi" ai fini Irpef".

Che farà la Guardia di Finanza, che sta indagando sul caso? Andrà a verificare se a Villa Certosa o nell'adiacente residenza sarda di "Gianpi" è rimasta traccia di qualche fattura? Verificherà l'avvenuto versamento delle imposte nell'Irpef, ed eventualmente inoltrerà le cartelle esattoriali alle escort inadempienti? Sarebbe utile saperlo. In nome e per conto di quei poveri cristi di italiani a reddito fisso che pagano le tasse in busta paga fino all'ultimo centesimo. Contro gli evasori non basta fare la "faccia feroce". Bisogna picchiare duro. Anche quando l'evasione non si nasconde nella "caverna di Ali Babà" (come dice Giulio Tremonti) ma nel salone di casa del presidente del Consiglio.

m.giannini@repubblica.it

(20 luglio 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Corrado Passera: le banche stanno facendo il loro dovere
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2009, 11:07:52 pm
ECONOMIA     

L'intervista all'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo

Corrado Passera: le banche stanno facendo il loro dovere

"Italia ferma, serve una scossa o sarà la democrazia a logorarsi"

di MASSIMO GIANNINI


ROMA - "Sarà un settembre difficile". Corrado Passera frena gli entusiasmi governativi. "Si stanno accumulando gli effetti di una recessione lunga e i prossimi mesi saranno inevitabilmente assai critici", dice l'amministratore delegato di Intesa Sanpaolo. "Alcuni micro-segnali danno qualche speranza, a partire dagli indici di fiducia. Mi aspetto miglioramenti nella seconda parte dell'anno".

Dottor Passera, ma secondo lei quando usciremo dalla "tempesta perfetta"?
"Nessuno lo sa con certezza. Ma una cosa è sicura: la crisi colpirà in modi molto diversi i vari strati della società italiana. Ci sono le famiglie che hanno visto crescere il loro potere d'acquisto grazie alla stabilità dei redditi e al calo dell'inflazione, altre che hanno perso parzialmente o totalmente la fonte di reddito. Ci sono imprese che si stanno rafforzando, altre mantengono buone posizioni ma soffrono finanziariamente, altre ancora non ce la fanno proprio. E qui sta la parte più difficile del nostro lavoro di banchieri. La responsabilità di saper discernere le diverse categorie e fare il massimo possibile per stare vicini a tutte le aziende che possono attraversare la crisi".

Voi banchieri siete nel mirino. Tremonti cita Brecht: perché rapinare una banca, quando si può più facilmente fondarla...
"Certe banche in giro per il mondo si sono meritate giudizi molto duri. Se fosse però un giudizio rivolto alle banche italiane sarebbe sbagliato e ingeneroso sulla base dei fatti".

D'accordo, ma perché persino Draghi vi striglia, dicendo "è troppo facile fare i banchieri, quando le cose vanno bene"?
"I richiami di Draghi sono sempre equilibrati: assicurare supporto all'economia e tutelare la solidità dei nostri bilanci. Fare credito è la nostra ragion d'essere e fonte insostituibile di ricavi per noi. La grande crisi deriva dall'aver fatto, soprattutto negli Usa, cattivo credito, credito senza ritorno".

Allora Confindustria e Bankitalia hanno torto?
"Senta, Intesa Sanpaolo ha firmato il 3 luglio con Confindustria un grande accordo a favore delle Pmi, che prevede tra l'altro la moratoria sulle rate in scadenza e il finanziamento degli insoluti. Quanto a Bankitalia, l'invito ad avere più coraggio lo raccogliamo in pieno. Ma mi faccia dire che, almeno per la nostra banca, abbiamo la coscienza a posto. Abbiamo affidamenti in essere per 500 miliardi al sistema Italia, quasi un terzo del Pil. Anche nei progetti più difficili non ci siamo mai tirati indietro se c'era anche solo una possibilità di rilancio. Facciamo la nostra parte, e continueremo a farla".

Ma perché, nonostante i Tremonti bond, persiste la crisi di liquidità e le imprese soffrono di asfissia finanziaria?
"Per alcune aziende la liquidità è un grave problema e non sempre si può compensare con credito la mancanza di risultati e di patrimonio. Un'altra forte fonte di tensione finanziaria è l'ormai cronico ritardo dei pagamenti da parte sia dei privati che del pubblico: almeno 100 miliardi di indebitamento delle Pmi derivano da questo fenomeno. Spesso il credito non è il problema. Le dò due dati: quasi il 70% dei nostri 500 miliardi di linee di credito sono alle imprese: di questi i due terzi sono destinati alle Pmi. Oggi circa 61 miliardi di questi affidamenti deliberati non sono utilizzati. Attenzione quindi alle diagnosi affrettate perché ne possono derivare terapie sbagliate".

Secondo lei i soldi ci sono ma le imprese non li vogliono?
"Parliamoci chiaro: se le fatture da scontare diminuiscono o la sostituzione del tornio viene rimandata, il credito non può che ridursi. Oggi produzione, fatturato interno, export e investimenti sono tutti in drammatico calo: malgrado ciò il credito complessivo alle aziende, grandi e piccole, tiene ancora. Quelle che crescono vistosamente sono purtroppo le sofferenze e le perdite su questi crediti".

Ma allora che mi dice della situazione di Risanamento? Perché avete dato così tanti soldi a Zunino, sapendo che nuotava in pessime acque? Siamo ai figli e figliastri?
"Quando l'azienda ci farà le sue proposte le valuteremo: quello che è certo è che i suoi attivi sono superiori ai suoi debiti e sono di grande qualità. In questi anni abbiamo finanziato progetti di grande valenza per Milano e speriamo che possano essere portati in fondo".

Non può negare che sulle commissioni di massimo scoperto la vostra posizione è indifendibile.
"Non è facile gestire la tenaglia dei margini bancari ai minimi e delle perdite su crediti ai massimi. Siamo stati tra i primi ad appoggiare il superamento della Commissione di massimo scoperto con forme di remunerazione più trasparenti. Ma il numero di rapporti che non coprono più i costi della raccolta, del rischio, del capitale e operativi sta diventando preoccupante. E concordiamo con Confindustria che è sempre pericoloso regolare i rapporti tra privati per via legislativa".

A proposito, come va con i famigerati prefetti-controllori?
"Quando se ne parlò a suo tempo io dissi subito: cosa c'entrano i prefetti? Ora c'è una legge. Da parte nostra, quindi, massima collaborazione. Ci fa piacere che, per quanto ci riguarda, fino ad ora siano arrivati ai Prefetti mediamente meno di mezza segnalazione a provincia".

Altro nervo scoperto, i bonus miliardari per voi manager. Come li giustifica, in un mondo che tira la cinghia?
"Guardi, ci sono state vergogne così vergognose, in giro per il mondo, che ho trovato del tutto ovvia la reazione emotiva delle opinioni pubbliche. Anche questo è stato un sintomo del fallimento di un certo capitalismo di matrice anglosassone. Detto questo, non si può far finire tutto e tutti nello stesso calderone. Resto convinto che legare parte della remunerazione dei manager ai risultati è del tutto opportuno. È questione di parametri e di quantità: 300.000, 3 milioni, o 300 milioni di euro non sono la stessa cosa. In Italia non mi pare ci siano stati abusi clamorosi. E del resto le banche italiane si sono rivelate tra le più solide e le meglio gestite al mondo".

Tremonti sostiene che contro la crisi non si poteva fare di più. Marcegaglia e Draghi dicono che le riforme strutturali andrebbero fatte subito. Lei come la vede?
"Ciò che è stato fatto finora è nella direzione corretta. Il fondo di garanzia per le piccole imprese, le iniziative della Cdp, la premialità fiscale per le imprese che investono o che patrimonializzano. Ma perché queste misure, giuste in sé, abbiano effetto è necessario che le risorse messe a disposizione concretamente siano di portata adeguata. Di fronte a una recessione così grave serve davvero qualcosa di più. Serve uno shock positivo, che abbia effetto nel breve periodo, ma che al contempo modernizzi il Paese e lo metta strutturalmente in condizione di crescere molto più di prima".

E quale sarebbe questo shock positivo?
"L'Italia ha ritardi infrastrutturali gravissimi, dalle autostrade ai porti, dai termovalorizzatori ai rigassificatori, dalla banda larga alle energie rinnovabili, dalle scuole agli ospedali e ai musei. Accelerare in tutti questi campi potrebbe contribuire a creare lo shock positivo. Ci sono tantissimi lavori già finanziati, o co-finanziabili dai privati, che non partono solo per insopportabili lungaggini burocratiche. Abbiamo appena dato il via ai lavori della Brebemi, dopo 10 anni di fatiche malgrado i fondi fossero disponibili. La stessa cosa vale per mille altre opere, grandi e piccole, che possono diventare motori di crescita e occupazione".

Facile a dirsi: ma dove troviamo i soldi?
"E' ovviamente la parte difficile, ma non stiamo parlando di cifre che cambiano il profilo del nostro debito pubblico. Molte risorse ci sono già, e vanno solo scongelate o meglio utilizzate. Molte altre si possono trovare, se c'è la volontà politica. C'è un patrimonio pubblico ancora immenso da valorizzare. C'è una spesa corrente sulla quale si può risparmiare ancora molto. E soprattutto c'è un livello vergognoso di evasione fiscale: combattiamola, e usiamo un pezzetto del ricavato per modernizzare il Paese e per creare sviluppo".

Belle parole. Intanto variamo uno scudo fiscale che in realtà è un condono tombale.
"Senta, tutti i condoni sono diseducativi. Alcuni, negli ultimi anni, sono stati molto riprovevoli. Ma in questa situazione di crisi si può ragionare su un meccanismo di rimpatrio dei capitali, purché preveda una misura corretta di prelievo e non contribuisca a coprire reati gravi".

Non ha l'impressione che si stia perdendo una grande occasione? Un governo con una maggioranza bulgara, che vivacchia invece di cambiare la faccia del Paese.
"Dobbiamo tutti fare di più. Se la recessione continua, per evitare il peggio. Se la recessione finisce, per crescere quanto e più degli altri. Dobbiamo innalzare strutturalmente il nostro potenziale di crescita. Il successo di lungo periodo di un Paese corre su quattro ruote che devono muoversi all'unisono. La coesione sociale, in gran parte legata al Welfare che noi europei abbiamo, vivaddio, e va solo riformato; la competitività delle imprese che abbiamo in quantità come dimostrano le nostre esportazioni; l'efficienza del Sistema-Paese, che invece oggi è un grave vincolo. E poi il dinamismo della società che, a sua volta, viene da fattori che ci vedono in fondo a tutte le classifiche: mobilità, meritocrazia, capacità decisionale. Qui c'è il nostro problema maggiore che logora non solo l'economia ma, nel tempo, anche la democrazia".

Il suo sembra un manifesto politico. Dica la verità: si prepara o no alla "discesa in campo"?
"Di questa storia si parla da almeno 10 anni. Poi la realtà fa sempre giustizia di tutte le chiacchiere. E la realtà è che anche questa volta faccio un lavoro complicato, ma che mi da sempre un'enorme soddisfazione. Non ho nessuna voglia di smettere".

(24 luglio 2009)

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI "Quella norma viola il Trattato Ue"
Inserito da: Admin - Agosto 02, 2009, 02:59:06 pm
ECONOMIA     

Francoforte pronta alla battaglia legale.

Se arriva il nuovo tributo, il ricorso alla Corte di Giustizia

Il no della Banca centrale europea

"Quella norma viola il Trattato Ue"

di MASSIMO GIANNINI


"L'oro alla Patria", grida Giulio Tremonti nel malcelato tentativo di allungare le mani sulle riserve auree della Banca d'Italia. "Giù le mani da quell'oro", rispondono all'unisono le autorità monetarie da Via Nazionale e dall'Eurotower di Francoforte. Il conflitto tra il governo italiano e l'Eurosistema delle banche centrali, invece di sciogliersi nel buon senso politico, continua a covare sotto le ceneri dell'irresponsabilità istituzionale.

Berlusconi ha deciso di andare avanti comunque, nonostante i paletti del Quirinale e i veti della Bce. Nel pasticciaccio brutto del decreto anticrisi, l'articolo 14 che introduce l'imposta sulle plusvalenze sull'oro non industriale di società ed enti è un capolavoro di ambiguità e ipocrisia. Il comma 4 prevede che la tassa una tantum sulle disponibilità in oro della Banca d'Italia, per un gettito fissato in 300 milioni di euro, possa essere applicato solo "previo parere non ostativo della Banca centrale europea" e comunque attraverso un decreto non regolamentare del ministero dell'Economia, "su conforme parere della Banca d'Italia". Il premier, con tanto di comunicato ufficiale accluso al decreto, spiega che la norma non si presta così a fraintendimenti: garantisce in ogni caso l'indipendenza istituzionale e finanziaria della Banca centrale.

Messo in questi termini, il caso sembrerebbe risolto. In realtà le cose non stanno così. Banca d'Italia e Bce assistono silenti ma attonite alle mosse del governo. Che senso ha introdurre una Golden Tax inattiva, vincolandone l'applicazione a "un parere non ostativo" che la Bce ha già negato, e a un "conforme parere" che la Banca d'Italia non emetterà mai? Questa, oggi, è la replica che si raccoglie presso le autorità monetarie. La Banca centrale europea ha già formulato ben due pareri, sul tema della tassazione delle plusvalenze sulle riserve auree, che non lasciano margini di dubbio. Il 24 luglio l'Eurotower ha scritto chiaro e tondo che quella forma di imposizione, tanto più se concepita come una tantum, viola l'indipendenza finanziaria e istituzionale della Banca d'Italia. Non solo: nella misura in cui prefigura un gettito con effetto retroattivo, su una plusvalenza non realizzata, da Banca d'Italia a Tesoro, configura una forma di finanziamento monetario al settore pubblico che è palesemente incompatibile con il Trattato di Maastricht. Dunque, è la linea dell'Eurosistema delle banche centrali, non ha senso scrivere una legge in cui si subordina il via libera a questa forma di imposizione fiscale a un "parere non ostativo della Bce", perché a invalidare alla radice una misura del genere non è un verdetto specifico di un'istituzione europea, ma una "grundnorm" del diritto costituzionale comunitario.

Per questo, adesso, tra Eurotower e Palazzo Koch si registra un preoccupato stupore per la scelta fatta da Berlusconi e Tremonti. Bce e Banca d'Italia non hanno nulla da aggiungere a quanto già non sia stato scritto negli atti ufficiali diffusi fino ad oggi. Non ci sono altri pareri da esprimere, perché quelli già espressi dicono tutto. La Golden Tax è illegittima, punto e basta. Se poi il governo italiano, per ragioni di strategia interna o di tattica comunitaria, deciderà di andare avanti lo stesso con la tassazione, se ne assumerà fino in fondo la responsabilità, e si metterà in moto la fisiologica dialettica istituzionale di "check and balance". Sul piano interno, il presidente della Repubblica Napolitano valuterà nelle prossime ore se il nuovo decreto anticrisi, così formulato e corredato dal comunicato di Palazzo Chigi, risponde ai requisiti di legittimità richiesti dalla Costituzione italiana. Sul piano comunitario, pare evidente e scontato che la Bce non esiterà a far ricorso alla Corte di Giustizia del Lussemburgo, ai sensi dell'articolo 230 del Trattato europeo.

La domanda che rimbalza tra Roma e Francoforte è la seguente: a chi giova, questa sfida agli equilibri istituzionali, in un momento di crisi economico-finanziaria ancora così acuta? E perché accentuare le tensioni, quando sul piatto della bilancia ci sono solo 300 milioni di gettito? Tremonti, con la consueta logica del bastone e carota, alterna minacce populiste e aperture riformiste. Da un lato dice "quell'oro è del popolo, non di Via Nazionale" (e qui, per inciso, si potrebbe chiosare: se è del popolo, e lo vuoi colpire con una nuova imposta, stai facendo pagare più tasse agli italiani, contraddicendo uno dei dogmi della tua ideologia politico-economica).

Dall'altro aggiunge "se ci saranno spazi per attivare la norma sull'oro senza forzature, c'è la possibilità di raccogliere fondi contro la crisi anche da lì". Dunque, ancora una volta, qual è il vero volto del ministro dell'Economia? Quello che intima o quello che dialoga? E un modestissimo "tesoretto" da 300 milioni di euro vale uno scontro istituzionale di portata globale? A Palazzo Koch e all'Eurotower si fa fatica a capire. C'è una possibile spiegazione nazionale. E' probabile che Tremonti abbia voluto tenere ancora carica la pistola della Golden Tax sulla tempia del governatore per non abbassare la guardia nel duello sotterraneo e strisciante, che lo induce a vedere in Mario Draghi un potenziale competitore politico, più che un naturale interlocutore economico. Ma c'è anche una possibile spiegazione sovra-nazionale. E' probabile che Tremonti voglia ritagliarsi il ruolo di capofila di un fronte inter-governativo europeo che, in nome del popolo che vota, punti a sottrarre legittimità (e quindi sovranità) alle tecnocrazie di Bruxelles e di Francoforte.

In questo scenario il governo italiano, con la sua norma sull'oro, inattiva ma attivabile, cercherebbe prima o poi di aprire una falla, nella quale si potrebbero inserire anche le altre cancellerie. Con l'obiettivo di rimettere in discussione il primato delle banche centrali, e in prospettiva gli equilibri stessi del Trattato Ue. Con il Cavaliere potrebbe essere schierato su questa linea Sarkozy, forse Zapatero e qualche altro primo ministro dell'Europa centro-orientale. Non la Merkel, visto che in Germania un analogo tentativo di rimettere in gioco le riserve auree è stato respinto senza appello dalla Bundesbank. Ma in ogni caso, se questa fosse la scommessa di Roma, sarebbe comunque ad altissimo rischio. Come già accadde nella legislatura 2001-2006, gli italiani tornerebbero a riproporsi alla comunità internazionale con la consueta, squalificante immagine di sempre: i soliti furbi. E in ogni caso, si dovrebbe passare comunque per uno strappo istituzionale con la Bce, e per un contenzioso costituzionale con la Corte di Giustizia.

Quello che ci si chiede, e non solo lungo l'asse Roma-Francoforte, è molto semplice. Se l'Italia va avanti sulla Golden Tax, rischia una procedura d'infrazione alla Ue e una condanna a Lussemburgo. Un presidente del Consiglio come Berlusconi, già così screditato dalle sue avventure personali, può far pagare al suo Paese anche il "supplemento" di un danno politico così devastante?

m. gianninirepubblica. it

(2 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La disfatta di Francoforte
Inserito da: Admin - Agosto 07, 2009, 11:39:21 am
ECONOMIA     IL COMMENTO

La disfatta di Francoforte

di MASSIMO GIANNINI


L'autolesionistica battaglia persa sull'oro, per puro e insensato "arditismo" finanziario, è un paradigma del logorante declino politico cui l'esecutivo e la maggioranza di centrodestra si stanno condannando. Il "non expedit" della Bce sulla tassazione delle riserve auree della Banca d'Italia è qualcosa di più dell'inevitabile mannaia calata sulle velleitarie forzature del nostro ministro dell'Economia. Rappresenta, plasticamente e simbolicamente, l'inappellabile bocciatura di un metodo di governo fondato sullo strappo delle regole, più che sulla produzione di riforme. Sul salto nel cerchio di fuoco, più che sulla soluzione dei problemi. Sulla rappresentazione propagandistica, più che sull'azione pratica.

È stata una mossa allo stesso tempo arrogante e disperata. Che senso aveva inserire a tutti i costi in un decreto, già di per sé discutibile per forma e per contenuto, una norma palesemente contraria al Trattato Europeo, e quindi naturalmente illegittima anche rispetto alla Costituzione italiana? Che senso aveva esporre il Paese al giudizio negativo di un'importante istituzione comunitaria, che aveva già formalmente espresso in due diverse occasioni la sua netta opposizione giuridica rispetto alla famigerata Golden Tax? Nessun senso. Né economico: 300 milioni di gettito, per un Paese con un debito pubblico di 1.700 miliardi di euro, sono una goccia nel mare.
Né diplomatico: la speranza di portarsi dietro qualche altra cancelleria, su una crociata ideologica che minaccia l'autonomia delle banche centrali in un'Europa tuttora tedesco-centrica, è una pia illusione.
Eppure Berlusconi e Tremonti hanno voluto marciare lo stesso, contro il buon senso di Giorgio Napolitano e il dissenso di Jean Claude Trichet. In nome del "presidenzialismo di fatto" che il premier ha ormai introiettato nella sua inimitabile epopea leaderistica, dove non c'è posto per gli altri poteri repubblicani, per le istituzioni di controllo, per gli organi di garanzia. In nome del "populismo di comando" che il suo mago dei numeri ha ormai incarnato nella lotta ai tecnocrati e ai banchieri, dove non solo i Profumo e i Passera ma anche i Mario Draghi vengono implicitamente additati ai cittadini come "nemici pubblici".

Questa cronaca di una sconfitta annunciata la dice lunga sulle reali condizioni del Cavaliere e del suo Pdl. Forte dei suoi consensi bulgari, si era illuso di gestire il Paese come una sua televisione, e di comandare il governo come un consiglio di amministrazione. Ora l'asprezza della crisi economica e lo squilibrio dei conti pubblici, insieme alle sue disavventure personali e alle sue avventure sessuali, gli presentano il conto. Con tutta evidenza, Berlusconi sta perdendo il controllo della sua maggioranza. È un animale ferito, piagato dalla scandaleide pubblico-privata che non lo molla e che la stampa internazionale gli ricorda ormai tutti i giorni. E come la muta dei cani nella caccia, i suoi stessi alleati sembrano sentire l'odore di quel sangue. E lo tormentano, lo braccano, lo assediano. La Lega di Bossi e Calderoli, che al Nord detiene tuttora la "golden share" della coalizione, ormai ne inventa "una al giorno", per dirla con le parole del Secolo d'Italia. I "clientes" Lombardo e Micciché, che al Sud battono cassa in vista della sfida sul federalismo, paiono solo momentaneamente placati dall'assegno di 4 miliardi staccato dal Cipe una settimana fa. Ma ormai i rubinetti si sono aperti: oggi reclamano i siciliani, domani toccherà ai pugliesi, dopodomani ai calabresi e poi ancora a chissà quali altri cacicchi locali.
Tremonti ha capito l'antifona. E gioca a suo modo la guerra di potere che si scatena alle spalle del premier. Profilandosi come un leader a tutto tondo, capace di elaborare pensiero oltre che di gestire denaro. Di parlare ai popoli, in Italia e in Europa, contro tutte le nomenklature, autoreferenziali e irresponsabili. Chiudendo i cordoni della borsa ai ministri rivali, ma aprendo le porte dei "board" ai suoi uomini: alla Cassa Depositi e Prestiti, alla futura Cassa per il Mezzogiorno, alla prossima Banca per il Sud. Poco importa se, in questo conflitto sotterraneo, si perde qualche battaglia, come è successo sulla Golden Tax. L'importante è aver piazzato un'altra "bandierina" ideologica e demagogica, nel grande risiko del centrodestra in lenta decomposizione. Ormai, per chi ragiona già in una logica post-berlusconiana, quello che conta è vincere la guerra finale. Anche questo ci dice, la "disfatta di Francoforte". Durerà ancora, chissà quanto. Ma il dopo Berlusconi, forse, è già cominciato.

(7 agosto 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI "E ADESSO NIENTE SARA' PIU' COME PRIMA..."
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2009, 07:45:02 pm
dal sito di "Repubblica"

di MASSIMO GIANNINI


"E ADESSO NIENTE SARA' PIU' COME PRIMA...". Non è un anatema. Piuttosto è una presa d'atto, dura ma netta, quella che si raccoglie Oltre Tevere in queste ore difficili e amare. Se è vero che Dino Boffo è "l'ultima vittima di Berlusconi", come scrive persino il New York Times, è chiaro che questa vicenda apre una doppia, profonda ferita. Sul corpo della Chiesa, già attraversato da divisioni latenti. E nel rapporto tra Santa Sede e governo, già destabilizzato da incomprensioni crescenti.

Per la Chiesa, il doloroso sacrificio di Boffo nasconde la frattura che si è aperta tra Segreteria di Stato e Conferenza Episcopale. Per rendersene conto basta ricostruire le tappe che hanno portato alla drammatica uscita di scena del direttore di Avvenire. Venerdì scorso si consuma il primo atto, con l'operazione di killeraggio del Giornale e il conseguente annullamento della Cena della Perdonanza tra Bertone e Berlusconi. Un colpo a freddo, che nelle alte gerarchie nessuno si aspettava, ma che innesca reazioni differenti. Nel fine settimana Boffo comincia a meditare sull'ipotesi delle dimissioni. L'idea prende materialmente corpo lunedì mattina, quando sul Corriere della Sera esce un'intervista al direttore dell'Osservatore Romano. Una sortita altrettanto inaspettata, quella di Gian Maria Vian, che giudica "imprudente ed esagerato" un certo modo di fare giornalismo dell'Avvenire e conclude con un sibillino "noi non ci occupiamo di polemiche politiche contingenti".

Per l'intera mattinata Boffo aspetta una correzione di tiro della Segreteria di Stato. Ma non arriva nulla. Oltre Tevere si racconta di una telefonata di Bagnasco: "Scusate, ma quell'intervista è cosa vostra?", avrebbe chiesto a Bertone. "Non lo è - sarebbe stata la risposta - e ci siamo anche lamentati con Vian, che ha impropriamente parlato in prima persona plurale". Ma questo è tutto. Dalla Segreteria di Stato non esce nulla di pubblico. Così, lunedì pomeriggio Boffo va personalmente da Bagnasco, e gli consegna la sua lettera di dimissioni. Mentre il direttore parla con il cardinale, arriva la telefonata di Ratzinger, che chiede: "Il dottor Boffo come sta? Mi raccomando, deve andare avanti...". Il presidente della Cei riferisce a Boffo, che di fronte al Papa non può certo tirarsi indietro.

Martedì mattina lo scenario in parte cambia. Repubblica dà la notizia: solidarietà del Pontefice a Boffo. Solo a quel punto, molte ore dopo, il direttore della Sala Stampa Vaticana padre Lombardi annuncia che Bertone ha effettivamente telefonato al direttore di Avvenire, per offrirgli il suo sostegno. Ma sono passati ben cinque giorni dal siluro di Feltri, prima che la Segreteria di Stato muovesse un passo ufficiale. Intanto Boffo è rimasto sulla graticola. E nel frattempo persino monsignor Fisichella, nel silenzio della Curia, contesta apertamente il quotidiano per le critiche al governo sull'immigrazione.

Mercoledì Feltri torna all'attacco, e sostiene che la "nota informativa" che getta fango sulla vita privata di Boffo è una velina uscita dal Vaticano. Padre Lombardi smentisce. E aggiunge l'ultima novità: papa Ratzinger ha chiamato il cardinal Bagnasco, per avere notizie "sulla situazione in atto". Ma dalla Segreteria di Stato ancora silenzio. Così si arriva al colpo di scena di ieri: dopo una settimana di fuoco incrociato, il direttore di Avvenire getta la spugna e se ne va.

Ma perché all'offensiva volgare e violenta del Giornale la Santa Sede ha fatto scudo in modo così discontinuo e frammentato? "Qui - secondo la ricostruzione che si raccoglie negli ambienti della Cei - si apre la frattura con l'episcopato". Il cardinal Bertone, due anni fa, aveva lanciato la candidatura di Bagnasco alla Conferenza episcopale con una convinzione, che la realtà dei fatti ha presto svilito in pia illusione: trasformare la conferenza dei vescovi in una "cinghia di trasmissione" della Santa Sede, dopo la stagione troppo lunga dell'autoreferenzialità ruiniana. Il tentativo è fallito, ben prima che scoppiasse il caso Avvenire e che scattasse l'imboscata mediatica ordita dal Cavaliere e dai suoi giornali ai danni del direttore.

"Lo stesso Bertone lo ha riconosciuto - raccontano Oltre Tevere - quando qualche settimana fa si è lasciato scappare che la nomina di Bagnasco è stato il suo errore più grave. E certe cose, in questi palazzi, si vengono a sapere molto presto...". Secondo questa stessa ricostruzione, il caso Boffo precipita proprio in questa faglia, che divide Bertone da Bagnasco. E in questa faglia si inserisce anche l'ultima, clamorosa indiscrezione di queste ore: cioè quello che Oltre Tevere qualcuno definisce "il Piano Esterno". Contrariamente a quello che si pensa - raccontano - "il Segretario di Stato non vuole una Cei schierata con Berlusconi, che considera ormai già fuori dai giochi. Il vero progetto che sta a cuore alla Santa Sede riguarda la nuova aggregazione di centro, che ora avrebbe Pierferdinando Casini come perno politico, e che in futuro vedrebbe Luca di Montezemolo come punto di riferimento finale".

A questo "Piano Esterno" si starebbe lavorando da tempo, tra Segreteria di Stato e una piccola, ristretta cerchia di intellettuali esterni, laici e cattolici, che orbitano intorno al Vaticano e allo stesso direttore dell'Osservatore Vian. Vera o falsa che sia, questa ipotesi spiega molto di quello che è accaduto e può ancora accadere. Bertone - sostengono ambienti vicini alla Cei - potrebbe aver gestito il caso Boffo proprio in questa logica: usare l'aggressione al direttore di Avvenire prima per rimettere in riga l'episcopato, e poi per assestare il colpo finale contro il presidente del Consiglio, aprendo le porte del paradiso alla Cosa Bianca di Casini e Montezemolo. Di qui, fino a ieri, la difesa intermittente e quasi forzata a Boffo. Di qui, da domani in poi, la rottura definitiva e irrimediabile con Berlusconi. "Niente sarà più come prima", appunto. Vale per la Chiesa di Roma, ma vale anche per il Cavaliere di Arcore.

m.giannini@repubblica.it
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Gli ordini di guerra
Inserito da: Admin - Settembre 09, 2009, 11:31:53 am
ECONOMIA
 
IL COMMENTO

Gli ordini di guerra

di MASSIMO GIANNINI


Non è una novità. Silvio Berlusconi ha una visione imperiale della leadership, e una gestione militare del Partito delle Libertà. Ma quella a cui stiamo assistendo è un'ulteriore, drammatica evoluzione-involuzione del suo sistema di potere. Stiamo rapidamente passando dal classico "berlusconismo di lotta e di governo" a un vero e proprio "berlusconismo di guerra".

Il caso di Gianfranco Fini è l'ultimo paradigma di questa trasformazione. Prima lo fa impiombare dai suoi sicari, attraverso il giornale di famiglia. Poi, molte ore dopo il delitto, finge di prendere le distanze e chiede alla vittima di "fare squadra". Pensa così di convincere a "rientrare nei ranghi" (come da "consiglio non richiesto" di Vittorio Feltri) tutti quelli che non ci stanno. E di chiudere quella che Alessandro Campi definisce "la fase due del grande gioco al massacro" che si è aperta con i cattolici diffidenti, con la stampa dissidente e ora con l'alleato recalcitrante. Ma Fini resiste, almeno per ora. E rende visibile quello che il Cavaliere vuole occultare: i problemi politici esistono, ed è paradossale che il premier cerchi di negarli.

Cosa nasconde, lo scontro tra Berlusconi e Fini? In prospettiva c'è la partita sulla successione ereditaria del Pdl: il presidente della Camera ha qualche chance di vincerla. Ma qui ed ora c'è la battaglia sul profilo identitario della destra: e questa, con tutta evidenza, il presidente della Camera l'ha già persa. Non lo testimoniano solo l'assordante silenzio di molti esponenti della maggioranza o l'imbarazzante difesa d'ufficio di pochi luogotenenti dell'ex An, di fronte al killeraggio compiuto dal "Giornale". Prima ancora di questo, che pure conta, lo dice l'atto di nascita del nuovo centrodestra, che germoglia da quella "rivoluzione del predellino" che un Berlusconi esaltato ha imposto plebiscitariamente e che un Fini disperato ha subito passivamente. Lo urla il congresso fondativo del "partito unico", che vede un Berlusconi nei panni del federatore assoluto e un Fini nel ruolo del moderatore riluttante.

È lì che il presidente della Camera, nel definire "compiuta" la missione della costituzionalizzazione della destra ex-fascista finiana, ne traccia un profilo moderno e post-ideologico, già allora inconciliabile e antitetico con quello della destra populista berlusconiana. Una destra delle idee, che ruota intorno a tre perni valoriali: dignità della persona (e quindi tutela dei diritti, a prescindere dal colore della pelle), difesa delle istituzioni (quindi rispetto e bilanciamento dei poteri), laicità dello Stato (quindi libertà religiosa ma primato delle leggi). In questa piattaforma programmatica, a volerla vedere, c'era già la negazione del berlusconismo. E c'era già tutto ciò che l'impasto politico-culturale del forzaleghismo dominante non sarà e non potrà mai essere. Aveva un bel dire, allora, il presidente della Camera, che si entrava nel Pdl "con la schiena dritta". Come poteva, la sua idea di destra laica, istituzionale e repubblicana, convivere con la destra atea-devota, para-rivoluzionaria e a-repubblicana incarnata da Berlusconi e Bossi?

Infatti non può. Salvo cessare di esistere, prima ancora di aver messo radici in un gruppo dirigente, e forse anche in un corpo elettorale, che sembrano rifiutarla a priori, presi come sono nell'ossequiosa contemplazione delle virtù taumaturgiche del solito uomo solo al comando. E così, oggi, i pochi custodi del pensiero finiano, rimasti soli nella trincea del "Secolo" e di "Farefuturo", hanno un bel recriminare, contro "un partito becero, nevrastenico e con la bava alla bocca, che abbia contro gli avversari e adesso anche contro gli alleati, con un furore non giustificato dai fatti", o contro il disegno "di soffocare o delegittimare ogni pensiero critico nei confronti del Cavaliere, di costruirgli intorno una cintura di sicurezza, di creare un nuovo ordine a partire dal caos generalizzato". Ed hanno un bel rimpiangere, le Flavia Perina e i Luciano Lanna, "una destra non ideologica, sobria e meritocratica, colta e risorgimentale, elegante e rigorosa, laica e non bacchettona, libertaria e attenta ai diritti, diffidente della società di massa e dell'antipolitica", o una grande forza plurale "che parli la lingua di Cameron e Sarkozy", "un grande partito dei moderati" ispirato ai "grandi numi tutelari della destra italiana nelle sue molte anime - da Gentile a Evola, da Prezzolini a Spirito, da Volpe a Martinelli - che sia lo sviluppo coerente ma non meccanico di questi ultimi quindici anni di storia".

Questa battaglia delle idee, Fini e lo sparuto drappello dei suoi intellettuali d'area, purtroppo l'hanno già perduta. Le appassionate prolusioni sul ruolo del Parlamento e sull'unità nazionale, le ottime intenzioni sulla civiltà dell'accoglienza per gli immigrati e sul testamento biologico, purtroppo non cambiano l'agenda del governo, non ne attenuano i furori ideologici, non ne minacciano la tenuta politica. Un'"altra destra" era possibile. Forse lo sarà, domani. Ma di sicuro non lo è oggi, nella fase cruciale del "berlusconismo da combattimento". Oggi il Pdl è proprio quella "casermetta in cui qualcuno comanda" e di cui lo stesso presidente della Camera si è lamentato una settimana fa a Mirabello, quando ha riaperto le ostilità con il Cavaliere e ha quasi anticipato ciò che gli sarebbe accaduto solo poche ore più tardi: "In Italia ormai non si tenta di demolire un'idea, ma colui che di quell'idea è portatore. Si va dritti al killeraggio delle persone... ". Dopo Boffo, è toccato a lui. E, per usare la formula di Stalin con i papi, quante "divisioni" ha Fini, per arginare questa deriva tecnicamente totalitaria e far vivere la sua idea di un'"altra destra" possibile in questa Italia berlusconizzata? Poche, a giudicare da ciò che si vede nel Palazzo e si sente al di fuori. Così, l'ex leader di An deve accontentarsi, ma anche preoccuparsi, del suo paradosso: essere apprezzato, e anche applaudito, solo dal centrosinistra. E per di più, proprio per questo, essere accusato dal suo centrodestra di essere un cinico opportunista, che si ingrazia i favori del nemico solo per puntare dritto al Quirinale.

La politica è una sapiente miscela di convinzione e di convenienza, gli ha ricordato qualche mese fa Angelo Panebianco. Se hai solo convenienze, sei un trasformista di professione. Se hai solo convinzioni, sei condannato alle prediche inutili. Il "buon politico" deve avere convinzioni precise, ma anche strategie che gli consentano di acquisire consensi, appoggi, voti. Nel caso di Fini, secondo Panebianco, si individua la convinzione ma non si capisce quale sia la convenienza. Come dire: Fini predica bene, ma a quale parte del Paese intende parlare? Quella domanda, finora, non ha ancora una risposta chiara. E questo, per il presidente della Camera e per il suo ruolo all'interno della maggioranza, è effettivamente un problema. Panebianco concludeva con una previsione fallimentare, intorno al progetto finiano, secondo un assunto non meno cinico del cinismo che in molti rimproverano alla terza carica dello Stato: "politica e testimonianza morale sono incompatibili".
L'unica speranza è che, non adesso ma in un qualche futuro post-berlusconiano che prima o poi dovrà pur esserci, la "testimonianza morale" dell'ex capo di An, oggi palesemente minoritaria, possa tornare utile a far nascere una destra italiana finalmente compiuta, moderata ma moderna, conservatrice ma riformista. In una parola: una destra europea, che Berlusconi non rappresenta e non potrà mai rappresentare.

(9 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La prova del danno
Inserito da: Admin - Settembre 12, 2009, 11:22:13 am
La prova del danno


di MASSIMO GIANNINI


Silvio Berlusconi, con l'incredibile show della Maddalena, è incappato nel primo, serio incidente internazionale del suo "premierato da combattimento". L'evocazione dei fantasmi che lo ossessionano -le escort, le inchieste giornalistiche e le indagini giudiziarie- gli costa la "sanzione" politica di un governo europeo.

Quella mezz'ora di soliloquio forsennato durante la conferenza stampa con il premier spagnolo - fuori da tutti gli schemi, le regole, le convenzioni, il buon senso e il decoro istituzionale - segna un punto di svolta non solo nel già deteriorato discorso pubblico italiano. Ma anche sul piano più delicato delle relazioni diplomatiche internazionali. Di fronte alle intemerate del Cavaliere - tra "il fascino della conquista" e le prestazioni sessuali mai pagate, tra l'autoelogio sul più grande statista degli ultimi 150 anni e l'attacco frontale non più solo a Repubblica e all'Unità ma stavolta anche al Pais - l'attonito Zapatero ha taciuto.

Ha taciuto nel durante, e ha taciuto anche nelle ore successive. È evidente che quel silenzio imbarazzato, soprattutto al cospetto di una minaccia inaudita nei confronti di un grande giornale spagnolo, ha destato indignazione e malumore anche a Madrid.

Questo spiega perché, il giorno dopo, il primo ministro spagnolo ha sentito il bisogno di tornare sul caso, anche per ragioni di convenienza interna: "coprirsi" dalle critiche della sua opinione pubblica, della sua comunità politica e di tutta la libera stampa del suo Paese. Ma le parole di Zapatero, ponderate e pesate fino alla virgola e pronunciate davanti al "collega" francese Sarkozy, gravano come macigni sulla coscienza (o sull'incoscienza) del premier italiano. Proviamo a rileggerle: "Se mantengo il silenzio è per un segno di rispetto e di cortesia istituzionale che mi impone una certa prudenza. Tutti conoscono la mia opinione sull'uguaglianza tra uomo e donna, ma tra governi abbiamo buone relazioni, abbiamo progetti comuni. Sono incontri istituzionali e dunque io rispetto sempre questi incontri e il ruolo che dobbiamo mantenere",

L'esegesi del testo è inequivoca. Zapatero, implicitamente, opera una distinzione netta nella valutazione su Berlusconi come capo di governo e sul Paese che il Cavaliere rappresenta. Ciò che pensa il premier spagnolo su quello italiano è chiarissimo: "Tutti conoscono la mia opinione sull'uguaglianza tra uomo e donna". Come dire: la sexual addiction del nostro presidente del Consiglio, e le logiche di scambio politico che la regolano, sono esecrabili e intollerabili. Ma Zapatero preferisce non parlarne pubblicamente, come preferisce non commentare gli anatemi contro il Pais, solo perché - in virtù di quella "scissione" nel giudizio - rispetta l'Italia che è partner della Spagna, come degli altri Paesi europei, in diversi "progetti comuni".

Il filo di questo ragionamento porta irrimediabilmente a una doppia, semplicissima conclusione, che conferma ciò che Repubblica sostiene da tempo. Primo: il premier è ormai drammaticamente "vulnerabile", e sistematicamente esposto al rischio di queste performance, poiché dovunque vada e con chiunque si incontri, anche oltre confine, inciampa in domande ineludibili (ancorché prive di risposte credibili) sui suoi scandali pubblico-privati. Secondo: per continuare a rispettare l'immagine del nostro Paese, le altre cancellerie d'Europa si sentono doverosamente e responsabilmente obbligate a differenziarla da quella dell'uomo che lo governa. È la prova che Berlusconi è ormai palesemente un "danno" per l'Italia. All'estero lo hanno capito quasi tutti. Prima o poi, probabilmente, lo capiranno anche gli italiani.

(12 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'alleanza trasversale che lavora al dopo-Silvio
Inserito da: Admin - Settembre 17, 2009, 04:55:31 pm
Un "governo di salvezza nazionale", alternativa per il 2013 o per l'emergenza

La Bonino si sbilancia: "Le probabilità che Berlusconi cada sono al 50%"

L'alleanza trasversale che lavora al dopo-Silvio

di MASSIMO GIANNINI


C'E' chi sostiene che il dopo-Berlusconi abbia già un nome. Si chiamerebbe "governo di salvezza nazionale". Ci lavorano in parecchi, nell'ombra e a cielo aperto. Per offrire al Paese un'alternativa nel 2013, nel caso in cui questo governo riuscisse miracolosamente a superare le colonne d'Ercole del Lodo Alfano, delle elezioni regionali, dei nuovi guai giudiziari e dei vecchi vizi personali del premier. Oppure per tenersi pronti all'emergenza immediata, nel caso in cui la legislatura incappasse in un traumatico incidente di percorso. Ieri, per i corridoi di Palazzo Madama, Emma Bonino si sbilanciava con un collega: "Le possibilità che per qualche ragione il governo cada, a questo punto, sono al 50%...". Alte, com'è evidente. Per questo, tra maggioranza e opposizione capita di sentire personaggi autorevoli che dicono "bisogna creare un campo più vasto di forze", capaci di reggere l'urto di una crisi e di "mettere in sicurezza il Paese".

Chi c'è dietro questo disegno? Per capirlo, basta seguire la "catena" degli attacchi forsennati che il Cavaliere sta menando in queste ore. Nel centrodestra il primo "anello" è Gianfranco Fini. Il presidente della Camera è in costante movimento. Indicativo l'incontro di ieri sera con Rutelli, insieme a lui destinatario dell'offerta di Casini, lanciata agli stati generali dell'Udc di domenica scorsa, a "sapersi prendere per mano nella diversità e guardare al futuro del Paese".

Chi gli ha parlato, in questi giorni, lo descrive più determinato che mai a combattere la battaglia politica contro il premier, e quella giudiziaria contro il suo "Giornale". "Stavolta Gianfranco non arretrerà...", ripete da giorni l'amico e ministro Andrea Ronchi. Se rispondesse solo al suo istinto, dopo il killeraggio di Feltri se ne sarebbe già andato via dal Pdl. Ma capisce che, come la vecchia talpa, è ancora in quel campo che deve "ben scavare". E sta scavando. Ciascuno dei temi sui quali affonda il colpo è un potenziale destabilizzante, che mette in mora il Cavaliere e in sofferenza la Lega. "Il Secolo" lo spalleggia. "Farefuturo" non cede di un millimetro sui temi sensibili. Anche la lettera dei "50 riservisti" è servita allo scopo. Ha confermato che Fini è minoritario, dentro il Pdl. Ma ha dimostrato che è in campo, e che al momento opportuno le sue "divisioni" degli ex di An le possiede, e le può schierare.

Poi c'è Giulio Tremonti. Il ministro dell'Economia, fino a qualche tempo fa, era il "genio dei numeri". Ora, per il Cavaliere, è già diventato il "difficile genio". Una sfumatura, ma da il segno di un distacco, o quanto meno di un sospetto. Tremonti non fa nulla di visibile, per alimentarlo. Ma continua a scontentare tutti i colleghi ministri che battono cassa al Tesoro, e soprattutto accumula nuovo potere, attraverso le nomine pubbliche. Intanto accresce progressivamente la sua "caratura". E i suoi "vezzi cattedratici - come dice Giuliano Ferrara - non fanno ombra al suo rango politico sempre più alto". In questi mesi ha curato a fondo i rapporti con la Chiesa. E non ha mai smesso di dialogare con una parte dell'opposizione. L'intervista di due giorni fa al "Corriere della Sera" è indicativa: il ministro fa il "pacificatore", apre a Fini e propone una "tregua" non solo e non tanto al Pdl, ma al Pd "che uscirà dal congresso", offrendogli "un ruolo preminente" da "interlocutore responsabile".

E qui sta il terzo anello di questa catena. È Massimo D'Alema. Da anni viene additato (anche nel centrosinistra) come potenziale "inciucista". Ma da giorni l'ex ministro degli Esteri è a sua volta sotto il fuoco incrociato di "Libero" e del "Giornale", per i suoi incontri in barca con Tarantini. E l'altroieri sera, a "Porta a Porta", il Cavaliere è tornato a sparargli contro, con una violenza che non si ricordava da tempo. "Un vecchio comunista, che usa espressioni da vero stalinista". Un'uscita quasi a freddo. Che non si spiega se non in nome del "solito sospetto" complottista. Ma al di là delle ossessioni berlusconiane, è vero che D'Alema è tornato a tessere la sua tela. Non solo nel suo partito, con l'obiettivo di far vincere Bersani. Ma anche con l'intenzione di giocare la partita in "campo avverso".

Con Fini il rapporto è sempre più stretto. Due giorni fa si sono parlati a lungo, perfino della comune querela contro il "Giornale". Intanto "Italianieuropei" e "Farefuturo" preparano un grande convegno sull'immigrazione, in una città leghista come Asolo. Con Tremonti il rapporto non si è mai interrotto. Associato proprio dal ministro all'Aspen Institute come "membro autorevole", D'Alema ha parlato ieri sera, con lo stesso Tremonti, Sacconi, monsignor Ravasi e Riccardi, in una tavola rotonda a porte chiuse sul tema "Dalla verità al dono: il bene comune". Intanto i due preparano un grande convegno sul Mezzogiorno, nel quale discuteranno di quella "questione meridionale che oggi è più mai questione nazionale".

Il quarto anello si chiama Pierferdinando Casini. Il leader dell'Udc sta lottando per non farsi risucchiare dal Pdl, come vorrebbe la logica inesorabile del potere. La riscoperta della vena rivoluzionaria delle camice verdi di Bossi lo aiuta, come dimostra la risposta "dura e pura" che i centristi hanno dato domenica a Chianciano. Ma Casini ha bisogno di sponde. Il Pd gliela offre. Nella versione di D'Alema, sul solito schema del "centro-sinistra col trattino". I due ne parlano quasi quotidianamente. "Casini - continua a ripetere da tempo il Lider Maximo - è interessato a trovare una soluzione comune per la fuoriuscita dal berlusconismo, e nel lungo periodo è pronto a un accordo strategico se gli offriamo una riforma elettorale sul modello proporzionale alla tedesca".

Queste sarebbero le forze in campo per l'ipotetica "alternativa". Ma è un'alternativa credibile? Le incognite sono tante. La prima, ed è gigantesca, si chiama proprio Silvio Berlusconi. È stato legittimamente eletto dagli italiani. Conserva un indice di fiducia elevato. Chi e che cosa dovrebbe farlo cadere non è ancora chiaro. Certo, appare sempre più debole, irascibile, vulnerabile. La decisione della Consulta sul Lodo Alfano può essere esiziale, benché Feltri abbia scritto che se ne può approvare un altro in un amen. Ma perché dovrebbe uscire di scena, se il processo Mills pur ripartendo finirebbe quasi certamente con l'ennesima prescrizione?

La seconda incognita si chiama Giorgio Napolitano. Che farebbe il Capo dello Stato, se il Cavaliere volesse usare l'arma, potenziata dall'esplosivo leghista, delle elezioni anticipate? Chi gli ha parlato, in questi giorni, racconta di un presidente della Repubblica molto più preoccupato dei danni che il premier può fare qui ed ora, tra la "strategia della tensione" e l'uso dei dossier, l'avvelenamento dei pozzi della politica e il totale "sgoverno" del Paese. Come ha ammesso qualche giorno fa un commensale che sedeva con il presidente a cena, al Quirinale, "la lenta agonia del berlusconismo potrebbe assumere forme non lineari".

Ad ogni modo, se per qualche motivo Berlusconi cadesse, il "governo di salvezza nazionale" sarebbe un governo politico, non tecnico. Dunque no a ipotesi alla Mario Draghi, semmai un incarico proprio a Fini, terza carica dello Stato. C'è persino chi sostiene che sarebbe già scritto un programma: riforma del sistema politico, con abbattimento del numero di parlamentari, consiglieri regionali e comunali; riforma del Welfare, con radicale riforma dei contratti di lavoro sul modello Ichino-Boeri; riforma della spesa pubblica, con massicci tagli e dirottamento di risorse verso la scuola, la ricerca e l'innovazione.

Sembra fantapolitica. Forse lo è. Ma anche di questi scenari, sia pure costruiti a tavolino, si discute in questi giorni. Il Cavaliere lo sa. Anche per questo è nervoso, e a tratti furioso. Raccontano che D'Alema lo abbia detto a Fini, qualche giorno fa: "Il tuo premier, ormai, non è più nelle condizioni, politiche e psicologiche, per negoziare alcunché...". Ma se questo è vero, c'è da essere ancora più allarmati sui destini del Paese.

(17 settembre 2009)
DA repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Cei, la svolta dell'autonomia tramonta il feeling con Silvio
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2009, 08:33:01 am
RETROSCENA.

La scelta dei vescovi, via alla fase dell'equidistanza tra i poli

Bagnasco ha respinto la "logica mercantile" del governo sui temi etici

Cei, la svolta dell'autonomia tramonta il feeling con Silvio


di MASSIMO GIANNINI


La Chiesa "di base" tira un sospiro di sollievo. "È fallito il tentativo di mettere le mani sulla Cei", si dice negli ambienti dell'episcopato. Nel circuito ecclesiastico, come anche nel circo politico, c'era grande attesa per la relazione che il cardinal Bagnasco avrebbe tenuto al Consiglio permanente della Cei. Dopo il caso Boffo, la prima uscita ufficiale del porporato che guida i presuli italiani. La prima occasione formale per misurare quanto quello strappo sul direttore di "Avvenire" avesse allontanato le due sponde del Tevere (nei rapporti tra Vaticano e governo) e avesse "normalizzato" le gerarchie interne alla Chiesa (nei rapporti tra Segreteria di Stato e Cei). Le parole di Bagnasco, secondo la lettura che se ne dà tra i vescovi, non lasciano margini di dubbio. In quel "la Chiesa non si fa coartare né intimidire" c'è già tutto.

1) Sul piano delle relazioni con la politica, come si ripete Oltre Tevere, c'è la conferma che la Chiesa "considera finito il riconoscimento istintivo, pregiudiziale, nei confronti del centrodestra". Non si possono interpretare diversamente i giudizi del capo dei vescovi sul caso Boffo: "Un passaggio amaro", come l'ha definito Bagnasco, un "attacco" la cui gravità "non può non essere ancora una volta stigmatizzata". E dunque la conferma di quanto si era capito subito, all'indomani dell'operazione di killeraggio compiuta contro il direttore di "Avvenire" attraverso i "sicari" del "Giornale": "Niente sarà più come prima".
È esattamente così. E non solo la Cei non arretra, nelle sue critiche alla condotta morale di Silvio Berlusconi e all'azione politica del suo governo. Semmai rilancia.
Il messaggio al Cavaliere, e al suo stile di vita non propriamente "cristiano", è netto: "Occorre che chiunque accetta di assumere un mandato politico sia consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell'onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda". Il segnale al centrodestra, e alle sue pretese di trattare con la Chiesa sui temi etici come si negozierebbe con Murdoch sulle tv, è inequivoco: la Chiesa intende dare il suo contributo "in tutta trasparenza, e fuori da ogni logica mercantile".
In questo riferimento esplicito alla "logica mercantile" sta tutta la distanza che, oggi, separa il berlusconismo dalla comunità dei vescovi e dei rappresentanti di Cristo nel territorio e nelle parrocchie. La tentazione del "collateralismo", se mai c'è stata all'inizio della legislatura, è ora archiviata. "L'episcopato italiano - e questa è la novità nient'affatto scontata della relazione di Bagnasco, secondo l'esegesi di un presule vicino al cardinale di Pontevico - vuole finalmente recuperare una posizione "terza"...". Nel solco del ruinismo, che nella sua forte autoreferenzialità aveva comunque costruito un "patrimonio" culturale e pastorale non automaticamente spendibile al mercato dei "due forni" della politica bipolare. E anche a costo di alimentare indirettamente gli appetiti "terzisti" di Casini e del Grande Centro, che fanno vedere al Cavaliere i fantasmi del complotto e della destabilizzazione.

2) Sul piano dei relazioni gerarchiche interne alla Santa Sede, le parole di Bagnasco confermano quanto era già emerso all'indomani della "caduta" di Boffo. "Il braccio di ferro tra la Segreteria di Stato e la Cei su chi debba reggere le posizioni della Chiesa di fronte alla politica italiana - come sostengono fonti vaticane - si è fatto più aspro". Ma anche qui c'è un fatto nuovo: l'arcivescovo metropolita di Genova, assurto al soglio di Ruini con la "longa manus" di Tarcisio Bertone imposta sulla fronte, se n'è ormai affrancato del tutto. Questo prelato mite nato nel bresciano - si osserva Oltre Tevere - "ha tenuto e sta tenendo dritta la barra del timone della Cei". Non si è fatto imporre "lo schema di comodo" che gli aveva cucito addosso il segretario di Stato Vaticano. E ha rivendicato "la piena autonomia dei vescovi italiani". Anche nella dialettica, a volte conflittuale, con i partiti nazionali.

Una rivendicazione che affonda nel terreno della fede vissuta, più che della politica praticata. Come si sostiene in ambienti vicini all'Istituto Toniolo, "i vescovi italiani sono davvero in sofferenza: chi, nella Chiesa di Roma, parla più di Vangelo?". Una posizione "ancillare" rispetto al Pdl ha nuociuto non poco. Per questo urge "un riposizionamento". Quanto Bagnasco si sia spinto lontano, su questa linea di orgogliosa autonomizzazione dell'episcopato, lo testimoniano almeno un paio di retroscena.
Il primo: venerdì scorso, come da prassi vaticana, il cardinale si è recato a Castel Gandolfo, per illustrare a Papa Ratzinger i contenuti del discorso. Qualche ora dopo la Segreteria di Stato ha fatto sapere alla Cei che avrebbe "molto gradito la cortesia" di poter prendere a sua volta "visione anticipata" della relazione. Bagnasco ha risposto picche. E Bertone ha potuto leggere quel testo solo ieri, quando è stato reso pubblico.

Il secondo retroscena. Nel suo "blog" Sandro Magister, vaticanista dell'Espresso, ha raccontato che dietro l'articolo uscito sabato sul "Giornale" e firmato Diana Alfieri - che difendeva "la giustezza della campagna di Feltri contro "l'idoneità morale" di Boffo" e accusava la Cei di aver messo "con ciò a repentaglio l'immagine della Chiesa agli occhi dei suoi stessi fedeli"" - si nasconderebbe in realtà Giovanni Maria Vian. La vera notizia, in questo caso, non è tanto il fatto che (secondo questa ricostruzione) il direttore dell'"Osservatore Romano", già protagonista di un severo attacco alla Cei e a Boffo in un'intervista al "Corsera", abbia firmato sotto pseudonimo un'altra violenta "requisitoria" contro Bagnasco e l'ex direttore di "Avvenire". Quanto il fatto che negli ambienti ecclesiastici vicini allo stesso quotidiano della Cei questa ricostruzione sia considerata "veritiera".

È il segno di quanto ormai siano compromessi i rapporti tra Segreteria di Stato e Conferenza episcopale. E di quanto Bagnasco intenda sottrarsi in via definitiva al "non expedit" imposto da Bertone. Per questo, oggi, ci sono presuli che si sentono più sollevati: "È fallito il tentativo di imporre le mani sulla Cei, e cade l'operazione di Bertone: mettere il cappello in testa ai vescovi italiani, come ai tempi di Giovanni Benelli...". Bagnasco tiene. Questa è la novità. E non è da poco, per gli attuali equilibri della Chiesa di Roma e i potenziali squilibri nella politica italiana.

(22 settembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La notte della Repubblica
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2009, 12:12:01 pm
IL COMMENTO

La notte della Repubblica

di MASSIMO GIANNINI


 SAPPIAMO bene che la notte della Repubblica berlusconiana è appena agli inizi. E sappiamo altrettanto bene che, con il Cavaliere, a scommettere sul peggio non si sbaglia mai. Ma vorremmo rassicurare il presidente del Consiglio: non c'è bisogno di aspettare il prossimo strappo costituzionale, o la prossima intemperanza verbale, per vedere "di che pasta è fatto", come minaccia lui stesso. L'avevamo capito da un pezzo.

Abbiamo avuto una prima conferma due sere fa, subito dopo la sentenza che ha bocciato il Lodo Alfano, con le accuse infamanti contro Giorgio Napolitano. Poi una seconda conferma ieri sera, con il farneticante documento del Pdl che rilancia le accuse incongruenti contro la Consulta. A lasciare basiti non è solo la violenza politicamente distruttiva degli attacchi contro tutti gli organi di garanzia: presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, giudici ordinari. Ma è anche e soprattutto la valenza tecnicamente "eversiva" del ragionamento con il quale il premier #purtroppo sempre insieme ai docili maggiorenti del suo partito# sta delegittimando, in un colpo solo, le tre più alte magistrature della Repubblica. Di fronte a tanta irresponsabilità, conforta il comunicato col quale i presidenti di Camera e Senato hanno fatto quadrato intorno al Quirinale. Ma questo atto dovuto (voluto fermamente da Fini e a quanto si racconta subito passivamente da Schifani) non basta a ridimensionare la portata di uno scontro istituzionale inaudito e pericoloso.

Le parole che Berlusconi ha pronunciato l'altro ieri, prima in strada poi in diretta televisiva, andranno studiate a fondo. Servono a comprendere la vera essenza del moderno populismo plebiscitario che, in nome di un suffragio universale trasformato in ordalia personale, snatura lo Stato di diritto perché uccide, allo stesso tempo, sia lo Stato che il diritto. La prima affermazione del Cavaliere è la solita invettiva anti-comunista. "Napolitano, voi sapete da che parte sta... Poi abbiamo giudici della Corte costituzionale eletti da tre Capi di Stato della sinistra che fanno della Corte non un organo di garanzia ma un organo politico". Ma quando, poco più tardi, il presidente della Repubblica replica che lui "sta dalla parte della Costituzione", scatta l'escalation del premier: "Non mi interessa quello che dice Napolitano. Io mi sento preso in giro e non mi interessa, chiuso".

Quel "preso in giro" non può passare inascoltato. Infatti più tardi (nel confortevole salotto di Porta a Porta, dove il beato cerimoniere Bruno Vespa non si degna neanche di difendere Rosy Bindi dagli insulti da trivio del premier e di un inqualificabile Castelli) il Cavaliere rincara la dose dei veleni. "Su Napolitano ho detto quello che penso: non ho nulla da modificare sulle mie dichiarazioni che potrebbero essere anche più esplicite e più dirette". Un'allusione tanto vaga quanto pesante. E poi: "Il presidente della Repubblica aveva garantito con la sua firma che la legge sarebbe stata approvata dalla Consulta, posta la sua nota influenza sui giudici di sinistra della Corte". Vespa, ossequioso, tace. Parla il leader dell'Udc Casini, per fortuna: "È un'accusa inaccettabile nei riguardi di Napolitano". Ma il premier non arretra. Anzi, porta il colpo finale: "Non accuso il capo dello Stato, prendo atto di una situazione in cui c'erano certi suoi comportamenti e sappiamo tutti quali relazioni intercorrano tra i capi dello Stato e i membri della Consulta. Sono da anni in politica, so quali siano i rapporti che intercorrono".

Con questa micidiale miscela di allusioni e intimidazioni (indegnamente condita dalla ridicola accusa del Pdl alla Consulta per aver "sviato l'azione legislativa del Parlamento") si celebra la negazione della democrazia liberale. Non si scherza sulla pelle delle istituzioni repubblicane. Se Berlusconi è a conoscenza di trattative politiche avvenute sottobanco tra i palazzi del potere intorno al Lodo Alfano, ha il dovere di denunciarle con chiarezza, raccontando fatti e facendo nomi e cognomi davanti al Parlamento e al Paese. Ma poiché, con tutta evidenza, non ha in mano nulla se non il suo disperato furore ideologico, allora ha il dovere di tacere, e soprattutto di chiedere scusa. Ma non lo farà. Le sue parole dissennate tradiscono la sua visione "originale" e del tutto illiberale del costituzionalismo democratico.

Nello schema del Cavaliere, Napolitano (o perché aveva promulgato a suo tempo lo scudo salva-processi per il premier o perché gli aveva "promesso" riservatamente non si sa cosa) avrebbe dovuto fare ciò che la Costituzione gli vieta: interferire nella decisione dei giudici della Consulta, convincendoli a dare via libera al Lodo Alfano. Avrebbe dovuto, lui sì, chiedere ai giudici una "sentenza politica", che violasse apertamente la legge con l'unico obiettivo di proteggere il "sereno svolgimento" della legislatura. In questa logica, aberrante, non esiste la "leale collaborazione" tra istituzioni, ma il banale "collaborazionismo" tra complici. Non esistono il "nomos", le regole, la divisione dei poteri e il "check and balance". Esistono l'anomia, l'arbitrio, la potestà illimitata del leader consacrato per sempre dall'investitura popolare. Non esistono organi di garanzia sovrani e indipendenti, che decidono autonomamente, ciascuno nel proprio ambito e secondo i principi sanciti dalla Carta fondamentale. Esistono solo semplici emanazioni del potere esecutivo, che condiziona le altre istituzioni e comanda, in un meccanismo di pura cinghia di trasmissione, il legislativo e il giudiziario.

Quali altre estreme forzature del quadro politico-istituzionale dobbiamo attenderci, nei prossimi giorni e nei prossimi mesi? Quale piano inclinato sta prendendo, questa anomala democrazia italiana dove l'"autoritas" del Principe rivendica il primato indiscusso sulla "potestas" delle istituzioni? Già si evocano nuove riforme della giustizia da usare come una clava contro i magistrati, e magari come ennesimo trucco "ad personam" per fermare qualche processo. Viene in mente Ehud Olmert che, sospettato per corruzione, si dimette dicendo: "Sono orgoglioso di aver guidato un Paese in cui anche un primo ministro può essere indagato come un semplice cittadino". Ma l'Italia non è Israele. Il coraggio dei giudici della Consulta, la tenuta del presidente della Repubblica, la tenacia del presidente della Camera, rappresentano una speranza. Ma non nascondiamocelo: il Potere, quando non vuole riconoscere che la democrazia è limite, fa anche un po' paura.
m.giannini@repubblica.it

© Riproduzione riservata (9 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'insostenibile debolezza
Inserito da: Admin - Ottobre 11, 2009, 10:49:05 pm
L'insostenibile debolezza


da Massimo Giannini



"Deficit as usual", dice Giulio Tremonti. Ma di veramente "usual", stavolta, c'è solo la debolezza italiana. "Debolezza strutturale", come la definisce la Commissione Ue. E dunque debolezza insostenibile. Nell'avvio della procedura europea contro il nostro Paese non c'è tanto il "deficit eccessivo". Questo è davvero un male comune, nel Vecchio Continente: 20 paesi su 27 sono lontani da un indebitamento delle pubbliche amministrazioni pari al 3% del Pil. Una volta tanto, "todos caballeros". Dunque tutti colpevoli, nessun colpevole.

Ma fermare il giudizio a questo livello di "lettura" delle iniziative di Bruxelles sarebbe riduttivo e troppo comodo. E infatti, non a caso, il ministro dell'Economia si ferma qui. E si bea del fatto che, per la prima volta da molto tempo, il deficit italiano cresce meno della media Ue.

Su questo aspetto, puramente "quantitativo", non gli si può dare torto. È vero che Francia e Germania hanno deficit in fortissima espansione. Ma intanto quei Paesi hanno impegnato risorse molto più ingenti, a carico del bilancio pubblico, per fronteggiare la crisi. E poi, soprattutto, pesa a nostro svantaggio una differenza "qualitativa". L'Italia - anche a causa del limitato impatto delle sue manovre anticicliche pari ad appena lo 0,3% del Pil - cresce e crescerà molto meno degli altri Paesi fondatori. E qui sta l'insostenibile debolezza italiana. Se e quando la ripresa internazionale partirà - e sarà una ripresa fragile e incerta per tutti - Francia e Germania torneranno a correre come e più di prima. Mentre l'Italia, se va bene, tornerà a passeggiare agli stessi ritmi blandi di dieci anni fa.

Il governo Berlusconi ha detto più volte che, in questi mesi di tsunami planetario, non era tempo di pensare a riforme strutturali. Gli squilibri del Welfare State, le distorsioni della spesa corrente, le iniquità del mercato del lavoro: tutto può attendere, come il Paradiso di Warren Beatty. Ma almeno adesso che l'onda anomala della crisi comincia a ritirarsi, è il momento di sgombrare le macerie e ricostruire le fondamenta di una crescita economica sana, solida e durevole. Il vero motto berlusconian-tremontiano, più che "deficit", sembra "stand by as usual". Ma così non ci resta che aspettare, inermi, il prossimo disastro.

(7 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI "IL peggio deve ancora accadere"
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2009, 09:25:05 am
IL COMMENTO

Il potere liberale

di MASSIMO GIANNINI


"IL peggio deve ancora accadere". L'aveva scritto il direttore di questo giornale, solo cinque giorni fa. Mai profezia è stata più centrata. Il peggio sta accadendo.
Il presidente del Consiglio chiama alla "ribellione" le forze produttive contro "un giornale che getta discredito non solo su di me, ma sui nostri prodotti, sulle nostre imprese, sul made in Italy". Anche se stavolta Berlusconi non lo cita per nome, quel giornale è naturalmente Repubblica. Un capo di governo che invita gli imprenditori a "ribellarsi" contro un quotidiano, "colpevole" solo di rivolgergli dieci domande alle quali non è in grado di rispondere, non si era ancora visto in nessun Paese dell'Occidente.

È una deriva populista, e peggiorista, che non ha più limiti. Ma benché aberrante, c'è coerenza in questo delirio. Prima arringa gli industriali: rifiutate la pubblicità a questo giornale. Poi accusa il Corsera: sarebbe addirittura "anti-berlusconiano". Ora attacca di nuovo Repubblica: è "anti-italiana". Viene fuori, incontenibile, la natura illiberale e anti-istituzionale del Cavaliere. Non tollera le critiche della stampa, non accetta le regole della Costituzione. Da uomo politico nega lo Stato, da imprenditore nega il mercato.

L'"editto di Monza" lo conclude con una battuta che tradisce la dimensione tecnicamente totalitaria del suo "premierato di comando": "Alla democrazia ghe pensi mi". Lo dice. Lo pensa. Ecco perché siamo preoccupati per il futuro di questo Paese.

© Riproduzione riservata (13 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Governo al bivio senza via d'uscita
Inserito da: Admin - Ottobre 24, 2009, 06:18:16 pm
IL COMMENTO

Governo al bivio senza via d'uscita


di MASSIMO GIANNINI

Silvio Berlusconi ha inventato una "tormenta di neve", per giustificare il suo mancato rientro da Mosca ed evitare la resa dei conti con il suo ministro dell'Economia. Giulio Tremonti ha evocato una "coltre di nebbia", per descrivere la condizione di confusione politica in cui versa il suo presidente del Consiglio. Che sia neve, o che sia nebbia, questo governo naviga a vista. Ed è una tragedia per il Paese, solo un anno e mezzo dopo il trionfo elettorale del 13 aprile 2008.

Il nuovo "caso Tremonti" riprecipita l'Italia nello stesso psicodramma del 2004. Secondo governo Berlusconi. Anche allora, di fronte a una crisi assai meno grave, c'era una parte di centrodestra che reclamava "una gestione collegiale" della politica economica", e soprattutto "una significativa inversione di rotta dell'azione dell'esecutivo". Anche allora, di fronte alle grida uguali e contrarie dei ceti deboli e delle categorie produttive, c'era un pezzo di maggioranza che invocava allo stesso tempo "tagli all'Irpef per le famiglie" e "sgravi Irap per le imprese". Cinque anni fa a stringere nella tenaglia il ministro dell'Economia (e a picconare l'asse di ferro Berlusconi-Bossi) erano gli alleati minori del cosiddetto "sub-governo", Fini e Follini. La fine della storia è nota: dopo tre mesi di un'estenuante lotta di potere, Tremonti gettò la spugna e si dimise, lasciando la poltrona a Domenico Siniscalco.

Oggi sono cambiati alcuni protagonisti, ma il senso degli avvenimenti è lo stesso. C'è un governo che, a parte i rifiuti a Napoli e l'avvio della ricostruzione a L'Aquila, giace inerte di fronte alla più grave recessione del dopoguerra. Un governo che non ha fatto nulla per le famiglie, e quasi nulla per le imprese. In questi venti mesi di galleggiamento, ci ha raccontato un alibi e una favola. Il primo: non possiamo far molto, il rigore dei conti pubblici ci impedisce grandi manovre. La seconda: reagiamo meglio alla crisi, e ne usciremo più forti di altri. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Non abbiamo risanato i conti (il deficit viaggia a quota 5%, il debito oltre quota 115% del Pil). Il nostro tasso di crescita è sotto zero, di gran lunga uno dei peggiori d'Europa.

Tremonti, per ragioni di equilibrio contabile ma anche politico, si è limitato al "surplace". Ai colleghi di governo non ha concesso quasi nulla, fermando l'assalto alla diligenza dei ministri di spesa. Ma non ha concesso quasi nulla ai cittadini contribuenti, riducendo al minimo il sostegno all'economia. Spiccioli ai poveri (social card). Mancette ai disoccupati (cassa integrazione in deroga). Così non si va lontano. L'economia reale agonizza. Il consenso sociale si vaporizza. L'ha capito Berlusconi, e l'ha capito anche il resto della coalizione. Serve una svolta. Il premier, sempre più ammaccato sul piano personale e delegittimato sul piano internazionale, sa che solo così questo governo può sopravvivere a se stesso. Ha di fronte a lui una doppia opportunità. Ci sono le elezioni regionali di primavera, che nelle condizioni date valgono come elezioni politiche per il Paese, e come referendum ad personam per il Cavaliere. C'è un nuovo "tesoretto" da spartire, che arriverà sotto forma di introiti dello scudo fiscale: 5 miliardi, forse di più.

L'assedio a Tremonti nasce da qui. Per quanto riguarda il palazzo, da qui nascono i documenti della Pdl, autentici o apocrifi che siano, in cui si parla di "scelte fin qui fatte insufficienti" e si invoca (come nel 2004) un abbattimento delle aliquote Irpef e della tassazione sulle imprese. Da qui nasce la contro-manovra dell'economista ex An Mario Baldassarri, che giudica quella tremontiana "una politica inerziale", che produce una "ripresa lenta", un recupero di crescita del Pil solo nel 2016 e un ritorno ai consumi del 2007 solo nel 2012. Per quanto riguarda il Paese, da qui nascono le pressioni di Confindustria, il malessere del Profondo Nord, la Vandea delle "partite Iva senza rappresentanza", la riemersione carsica della "Questione Settentrionale" che, per essere risolta, chiede non solo di essere riconosciuta come tale, ma anche di essere "risarcita" sul fronte fiscale.
Istanze giuste. Richieste legittime. Ma qui si annida, oggi, il pericolo più grande. Berlusconi e i nemici di Tremonti dentro il governo fanno due più due: ci sono le elezioni, c'è un tesoretto. Quale occasione migliore per un po' di "panem et circenes"? E dunque, via con le sparate demagogiche. Aboliamo l'Irap. Torniamo a due aliquote secche di Irpef. La prima ipotesi costa 37 miliardi. La seconda ne costa 85. Il ministro dell'Economia sarà pure troppo avaro, ma questi ordini di grandezza sarebbero proibitivi anche per le finanze pubbliche di Barack Obama. Figuriamoci per quelle della povera Italia. Tremonti resiste, per questo. Ma non solo per questo.

C'è un palese risvolto politico, in questa faida interna al centrodestra. Il ministro dell'Economia ragiona ormai su uno scenario post-berlusconiano, e si tiene pronto per una partita di potere che, dall'oggi al domani, potrebbe riaprirsi a un pezzo di Pdl dissidente, al Pd, all'Udc. Solo così si spiega la sua metamorfosi iper-statalista e il suo radicalismo neo-marxista. Ma in questa traversata in mare aperto si è bruciato tanti, forse troppi vascelli alle spalle. In molti, oggi, chiedono la sua testa (come nel 2004). Nel governo non ha più sponde. Persino Fini ha preso le distanze. Ma gli resta la Lega: "Noi lo difendiamo", annuncia Bossi. Questo conta: il Senatur conserva tuttora la "golden share" di questa maggioranza. Ecco perché Tremonti, un giorno si e l'altro pure, può difendersi minacciando sistematicamente le dimissioni. Ma quanto può durare, questo tira e molla? E un governo come questo può permettersi il lusso di perdere il superministro dell'Economia, senza perdere se stesso in Italia e senza perdere la faccia in Europa?

Dunque, oggi ci troviamo di fronte a questo bivio, agghiacciante, tra due disastri. Se in questo conflitto Tremonti vince, il Paese non distrugge il bilancio dello Stato ma continua a vivacchiare nell'accidia, in attesa di agganciare la chimera di una ripresa mondiale fragile e stentata. Se Tremonti perde, ci pioveranno addosso spot elettorali pirotecnici e annunci fiscali propagandistici. Irpef, Irap, e chi più ne ha più ne metta. Se fossero veri, l'Italia andrebbe in bancarotta domattina.

Poiché saranno falsi, l'Italia sarà presa in giro (come nel 2004). Così, ancora una volta, la storia si ripete. Fu già una farsa allora. Figuriamoci oggi.

© Riproduzione riservata (24 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Fininvest, Eni e la scoperta dell’acqua calda
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2009, 11:14:07 pm
Fininvest, Eni e la scoperta dell’acqua calda

MASSIMO GIANNINI


Scopriamo l’acqua calda. L’Italia è la patria dei conflitti di interesse. Ne è portatore «insano» il capo del governo, felicemente collocato all’incrocio tra poteri privati e concessioni pubbliche. Ne sono portatori «sani» alcuni dei più grandi azionisti del Salotto Buono della Galassia del Nord, al riparo dalle commistioni con la politica ma nel gorgo degli intrecci della finanza. Nei Palazzi nessuno protesta o reclama. Nei mercati nessuno si scandalizza o si indigna. Così va l’Italia. Eppure, in questi ultimi giorni, è accaduto un fatto che non può non destare qualche stupore, e perché no, anche qualche sospetto.
Venerdì scorso, presso la Corte di appello di Milano, è stato depositato ufficialmente il ricorso del gruppo Fininvest contro la sentenza del Tribunale di Milano che il 3 ottobre ha inflitto alla stessa holding della famiglia Berlusconi l’obbligo di versare alla Cir di De Benedetti 750 milioni di euro, a titolo di risarcimento danni per il Lodo Mondadori. Fin qui nulla di nuovo. L’atto di appello era annunciato, e dunque scontato. Quello che colpisce è che la stessa Fininvest ha presentato, insieme al ricorso, due documenti. Un parere sulla stima del danno derivante dall’immediata esecuzione della sentenza di primo grado, e una relazione di consulenza tecnica sulla determinazione del danno riconosciuto alla Cir. Ebbene, quest’ultimo atto reca, in calce, la firma del «professor Roberto Poli» e quella del «professor Paolo Colombo».
Avete capito bene. Non si tratta di due casi di omonimia. Il primo è presidente dell’Eni. Il secondo è consigliere di amministrazione del medesimo «cane a sei zampe». Detto più chiaramente: nel ricorso sul Lodo Mondadori i consulenti tecnici della Fininvest, la cassaforte finanziaria della famiglia del presidente del Consiglio, siedono ai vertici del più grande gruppo industriale ed energetico del Paese, del quale per altro il governo (attraverso il Tesoro) è il maggiore azionista con il 20,3% del capitale. Nulla di illecito, per carità. È la solita acqua calda. Ma possiamo almeno dire che ha un brutto colore e un pessimo sapore?

m.giannini@repubblica.it

da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI D'Alema: Grato al governo ma con il premier non farò inciuci.
Inserito da: Admin - Ottobre 31, 2009, 10:58:49 am
Dalla Lega a Fini passando per l'Udc molti consensi sul nome dell'ex presidente del Consiglio

Telefonata "di sondaggio" del cancelliere austriaco al capo del governo

D'Alema: "Grato al governo per l'appoggio ma con il premier non farò inciuci"


di MASSIMO GIANNINI


"BASTA, basta, basta. Voglio uscire dal pollaio italiano...". Lo ripete da quell'11 ottobre all'Hotel Marriott, quando si incarognì il duello tra Bersani e Franceschini per la guida del Pd. Pierluigi parlò "da leader", Dario fece "un comiziaccio". Massimo D'Alema si infuriò: "Se vincono loro mi tocca fondare un altro partito, per salvare la sinistra italiana. Ma sono sicuro, vinciamo noi. E dopo nessuna resa dei conti: faccio un passo indietro. Mi piacerebbe un incarico internazionale...". Ora sembra finalmente arrivata, la grande occasione dell'eterno Lider Maximo, che sta sempre lì anche quando perde e decide tutto anche quando non comanda.

La candidatura a "Mister Pesc", il ministro degli Esteri dell'Unione, non è ancora formalizzata. In Europa la battaglia, soprattutto tra i Paesi fondatori, è ancora lunga e difficile. Ma da Roma arrivano segnali positivi. Berlusconi non ha posto veti. Anzi, Palazzo Chigi si dichiara pronto a sostenere l'eventuale candidatura italiana. Tanto basta, per l'ex premier ed ex titolare della Farnesina ai tempi del governo Prodi, per giocarsi la partita. Una partita dura, ai limiti del proibitivo: l'Italia è ininfluente e screditata nella comunità internazionale. Ma se per qualche fortunata combinazione del destino finisse bene, sarebbe un ottimo risultato per il Paese.

D'Alema tesse la sua ragnatela da tempo, con i suoi referenti nel Partito socialista europeo. "Pochi giorni fa", diceva ieri sera, ricostruendo con il suo staff le tappe delle trattative in corso, "c'è stato un primo accordo tra i capi di governo popolari e socialisti, da Zapatero alla Merkel, da Brown a Sarkozy: ai primi toccherà il presidente, ai secondi il ministro degli Esteri d'Europa. A quel punto il Pse ha incaricato un "terzetto", formato da Zapatero, Rassmussen e Werner Faymann, di formare una rosa di nomi per "Mister Pesc", e negoziarla con i popolari. Io sono in quella rosa, e questo è un primo passo, solo un primo passo...".

È il primo passo, perché il secondo non tocca all'Europa, ma all'Italia. I socialisti francesi e quelli tedeschi hanno chiesto a D'Alema: "Ma se noi ti designiamo, poi il tuo governo ti sostiene oppure no? Perché se ti scarica, allora è inutile che ti mettiamo nella rosa...". L'ex ministro, sul punto, ha alzato le mani. "Capisco il problema: Barroso viene nominato con l'appoggio del governo socialista, è chiaro. Io non so che cosa ha in testa Berlusconi. Una cosa è certa: io non gli chiedo niente. È lui che deve valutare se un italiano, seduto su quella poltrona, è una cosa buona per il nostro Paese oppure no". Il "terzetto" ha capito. E a quel punto si è mosso in autonomia.

Il cancelliere austriaco, ieri, ha telefonato personalmente a Berlusconi e Frattini, per sondare "in via preliminare" gli umori del governo italiano. E ha trovato una disponibilità inaspettata. Così è nata la nota di Palazzo Chigi in cui si dice che "il governo valuterà con serietà e responsabilità le candidature capaci di assicurare all'Italia un incarico di così alto prestigio". Così è nata la replica di D'Alema, che si dichiara "grato al governo italiano" per questa disponibilità.

Ma questo, ancora, è solo il secondo passo. Ora manca il terzo, quello decisivo. Il sostegno di Roma non basta. E anche questo D'Alema lo sa bene. "Adesso si apre il confronto tra i partner", raccontava ai suoi collaboratori ieri sera, "e lì la strada per me è tutta in salita...". Gli inglesi sono rimasti bruciati sulla presidenza per Blair, e ora cercano una compensazione su "Mister Pesc" con Miliband. Al tempo stesso i francesi sono sparati sul loro candidato, Hubert Vedrine, che è già stato ministro degli Esteri. Poi ci sono i tedeschi, con l'altro ex ministro, Frank Walter Steinmeier. "Insomma", ragionava D'Alema, "io rischio di essere il classico vaso di coccio...". E questo rischio, ovviamente, cresce nella misura in cui non c'è un sostegno convinto da parte del governo di Roma.

In attesa di capirlo meglio, D'Alema incassa intanto il "mancato veto", che nelle condizioni date è già qualcosa. La posta in gioco è alta, più che per il Lider Maximo, per l'Italia. In questi giorni è stato il presidente della Camera, Gianfranco Fini, a spiegarlo in tutti i modi al Cavaliere e a Gianni Letta, dopo aver parlato a lungo proprio con D'Alema, durante il convegno di Asolo sull'immigrazione: "Caro Silvio, metti da parte le logiche politiche: questa nomina conta per il Paese".

Forse il premier si è convinto. Ma come sempre (Bicamerale docet) quando in ballo ci sono Berlusconi e D'Alema si moltiplicano, inevitabili, i soliti sospetti. Quale "inciucio" c'è dietro, stavolta? Il dubbio alligna a destra, dove un ministro leghista come Calderoli lo alimenta: "Ora, finalmente, sarà possibile fumare il calumet della pace, e fare insieme le riforme che servono al Paese". Ma lavora come un tarlo anche a sinistra, dove un pezzo di Pd (Franceschini in testa) lo va ripetendo da due mesi: "Se vince Bersani, la grande tregua sarà cosa fatta. E la nomina di D'Alema a Mister Pesc sarà il suggello del nuovo patto...".

Adesso che il patto si profila, e secondo molti sa un'altra volta di "crostata", i malpensanti lavorano di fantasia, e cercano di immaginare su quale terreno sia avvenuto, o avverrà, lo "scambio" tra Silvio e Massimo. Fini lo ha predetto a D'Alema, sempre nei colloqui riservati di Asolo: "Capisco che aspiri a quell'incarico internazionale, ma sai meglio di me che, se Berlusconi te lo offrirà, un minuto dopo ti chiederà una contropartita. E tu, di nuovo, sai meglio di me che quella contropartita si chiama riforma della giustizia...". D'Alema era preparato, e non ci ha pensato un attimo: "E tu sai meglio di me, caro Gianfranco, che se il Cavaliere mi facesse un discorso del genere io non potrei che rispondergli un no grosso come una casa...".

Nonostante questo, nel Pd fa scuola la trita massima andreottiana: a pensar male... con tutto quel che segue. Anche su questo D'Alema sembra preparato: "Capisco tutto: la battaglia congressuale, lo scontro sulle primarie, tutto quello che volete. Ma io con Berlusconi non ho fatto e non farò mai nessun inciucio. Di "Mister Pesc" non gli ho mai parlato e non gli parlerò mai. Una nomina italiana a ministro degli Esteri d'Europa è una questione di grande interesse nazionale, non un pastrocchio da piccolo interesse di bottega. Se qualche imbecille non lo capisce, peggio per lui".
m. giannini@repubblica. it

© Riproduzione riservata (31 ottobre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La strategia della conservazione
Inserito da: Admin - Novembre 03, 2009, 06:32:28 pm
La strategia della conservazione


di MASSIMO GIANNINI

L'Unione europea rivede al rialzo le stime di crescita. Moody's non corregge al ribasso la valutazione sul rating. Per l'Italia due notizie discrete non ne fanno ancora una buona. Nel 2009 il Pil segnerà un meno 4,7% (non più meno 5) e il giudizio sulla "qualità" del nostro debito pubblico resiste a quota "AA2". Di questi tempi bisogna accontentarsi di poco. Ma di qui a ripetere che "la ripresa è cominciata", come ha fatto il presidente del Consiglio una settimana fa, ce ne corre.

La politica economica "inerziale" del governo continua a non garantirci, contemporaneamente, né sviluppo economico né risanamento contabile. Il tasso di crescita resta negativo, e con buona pace delle frottole raccontate in tv dal viceministro Roberto Castelli i nostri maggiori partner internazionali vanno meglio di noi. Il deficit pubblico resta esponenziale, e con buona pace del ministro Giulio Tremonti chiuderemo l'anno sfondando il tetto degli 87 miliardi, cioè 32 miliardi in più rispetto al 2008. Dunque, torna il solito, epocale dubbio leninista: che fare?

Mi permetto di dubitare delle "magnifiche sorti e progressive" affidate agli "apparatciki" di sub-governo che andranno a formare il famoso "Comitato per la politica economica del Popolo delle libertà". Con lo stesso Tremonti, il suo braccio destro Marco Milanese, il triumvirato dei coordinatori del partito La Russa-Verdini-Gasparri e i due capi dei gruppi parlamentari. Cosa apsettarsi, da un simile "mostro" di nomenklatura politica, rispolverato direttamente da qualche vecchio armadio della Prima Repubblica? Poco o nulla. Se non il consueto e sterile braccio di ferro tra "rigoristi" e "sviluppisti", e la rituale resistenza del Tesoro di fronte agli assalti alla diligenza già programmati dall'intramontabile "partito della spesa pubblica". Il massimo che potrà venir fuori sarà un taglio marginale dell'Irap, come invocano un po' di ministri dissidenti e come pretende la Confindustria. Una modesta prebenda alle imprese, così "risarcite" dal piccolo obolo che gli è richiesto dallo scudo fiscale. Tutti gli altri, famiglie in testa, possono aspettare.

Ma è proprio in questa minimalista "strategia della conservazione" si annida il pericolo maggiore. Il governo, bloccato dal suo immobilismo, sceglie di non scegliere. Aspetta. E ripone tutte le sue speranze nel solito "stellone italiano": la ripresa che verrà. Questa è la scommessa berlusconiana. Tragicamente miope, perché questa ripresa, se mai verrà, sarà molto debole e poco durevole. All'orizzonte si profila una nuova, enorme bolla finanziaria che il premier non vede, o finge di non vedere. Ne parla diffusamente Nouriel Roubini, uno dei pochi economisti che in questi anni di buio pesto hanno previsto quasi tutto. La alimentano ogni giorno i fiumi di liquidità in cerca di nuovi sbocchi, ancora una volta rischiosissimi) e le politiche di tasso zero, di espansione e di acquisto su larga scala di strumenti di debito a lungo termine seguite dalla Federal Reserve. La nutrono la voluta debolezza del dollaro e la crescente forza nella quotazione delle materie prime. Quando la bolla planetaria esploderà, che ne sarà del risibile "terno al lotto" giocato dalla "piccola Italia"?

(3 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Lo stato d'eccezione della nostra democrazia
Inserito da: Admin - Novembre 11, 2009, 10:14:20 am
IL COMMENTO /

Giustizia, il "lodo" Berlusconi-Fini è l'ennesima, scandalosa legge che copre gli interessi di una singola persona, un patto scellerato e indecente

Lo stato d'eccezione della nostra democrazia

di MASSIMO GIANNINI


ORA ce la racconteranno come una grande riforma "erga omnes", che tutela l'interesse di tutti i cittadini. Un compromesso sofferto e importante, che difende lo "stato di diritto" finora vulnerato da una magistratura politicizzata e inefficiente. E invece il "lodo" Berlusconi-Fini sulla giustizia è l'ennesima e scandalosa legge su misura, che copre gli interessi di una singola persona. Un patto scellerato e indecente, che conferma lo "stato di eccezione" in cui è precipitata la nostra democrazia.

I due leader erano arrivati a questo faccia a faccia in condizioni molto diverse.

Il presidente del Consiglio, scoperto dalla bocciatura del Lodo Alfano, era agito dalla necessità di risolvere ancora una volta per via legislativa le sue passate pendenze di natura giudiziaria, e di salvarsi anche dai rischi futuri. Obiettivo irrinunciabile, per non perdere il governo. Il presidente della Camera, schiacciato dalla formidabile pressione mediatica e politica della macchina da guerra berlusconiana, aveva l'opportunità di uscire dall'angolo nel quale lo stava relegando il Pdl, e di salvare anche il suo profilo istituzionale. Obiettivo raggiungibile, per non perdere la faccia. L'accordo raggiunto, anche se umilia il dettato costituzionale e distorce l'ordinamento giuridico, soddisfa le esigenze del capo del governo e della terza carica dello Stato.

Il disegno di legge che sarà presentato nei prossimi giorni (e qui sta il salvacondotto del premier e del suo avvocato Ghedini) conterrà la riforma del processo, che diventerà "breve". Non potrà durare più di sei anni, cioè due anni per ciascun grado di giudizio. Formalmente, una giusta risposta all'insopportabile lunghezza dei processi italiani, che durano mediamente sette anni e mezzo nel civile e 10 anni nel penale. Sostanzialmente, un colpo di spugna su due processi che vedono coinvolto il Cavaliere: il processo Mediaset per frode fiscale sui diritti televisivi (che con le nuove norme decade a fine novembre) e il processo Mills per corruzione in atti giudiziari (che a "riforma" approvata decade nel marzo 2010).
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Ma nello stesso disegno di legge (e qui sta la via di fuga di Fini e del suo avvocato Bongiorno) non ci saranno le norme sulla prescrizione breve, che lo stesso Berlusconi avrebbe voluto inserire nel testo e Fini gli ha chiesto di espungere per non incappare nel no di Giorgio Napolitano. Questa norma, che ridurrebbe di un terzo la prescrizione dei reati la cui pena edittale è inferiore ai 10 anni, non si può proprio infilare in una "riforma", per quanto sedicente o bugiarda possa essere. Renderebbe ancora più estesa, e dunque insostenibile, la già colossale amnistia che si realizzerà con la modifica del "processo breve".

L'opinione pubblica non la capirebbe. E il Quirinale, ammesso che possa considerare costituzionalmente legittima l'abbreviazione del processo, sicuramente non firmerebbe anche l'abbreviazione della prescrizione. Meglio soprassedere, per ora. Questo è lo schema. Questo è lo "scambio". Che riproduce del resto un metodo già collaudato nelle passate legislature: Berlusconi chiede 1000, sapendo che si potrà accontentare di 100. Gli alleati glielo concedono, facendo finta di avergli tolto 900. È così. È sempre stato così. Almeno quando in gioco ci sono le due questioni cruciali, sulle quali il Cavaliere non ha mai ceduto e mai cederà: gli affari e la giustizia.

Certo, a Berlusconi avrebbe fatto più comodo portare a casa l'intero pacchetto. Il "processo breve" porta all'estinzione del processo stesso, e quindi copre il premier sul passato. La "prescrizione breve" porterebbe alla decadenza del reato, e quindi lo coprirebbe anche su eventuali inchieste future. Ma per ora gli conviene accontentarsi. Nulla vieta, magari durante il dibattito parlamentare sul ddl, di ripresentare la norma sulla prescrizione breve con un bell'emendamento intestandolo al solito, apposito peone della maggioranza (come insegna l'esperienza delle precedenti leggi-vergogna varate o tentate del premier, dalla Cirielli alla Nitto Palma, dalla Cirami alla Pittelli). Oppure, perché no, nulla vieta di tradurre subito in legge quello che ormai possiamo chiamare il "Lodo Minzolini", cioè la reintroduzione dell'immunità parlamentare, avventurosamente ma forse non casualmente suggerita dal (o al) direttore del Tg1 in un editoriale televisivo di due sere fa.

Eccolo, il "paesaggio" di questo drammatico autunno italiano. Ancora una volta, in questo Paese si straccia il contratto sociale e costituzionale, che ci vuole tutti uguali davanti alla legge. Si sospende l'applicazione dello stato di diritto, che ci vuole tutti ugualmente sottoposti alle sue regole. In nome della "volontà di potenza" di un singolo, e di un'idea plebiscitaria e populista della sua fonte di legittimazione: sono stato scelto dagli elettori, dunque i cittadini vogliono che io governi. O in nome della "ragion politica" di un sistema: non c'è altro premier all'infuori di me, dunque io e solo io devo governare.

Questo c'è, oggi, sul piatto della bilancia della nostra democrazia. Lo "stato di eccezione", appunto. Quello descritto da Carl Schmitt. Che è simbolo dell'autoritarismo poiché sempre lo "decide il sovrano". Che si presenta "come la forma legale di ciò che non può avere forma legale". Che è "la risposta immediata del potere ai conflitti interni più estremi". Che costituisce un "punto di squilibrio fra diritto pubblico e fatto politico", poiché precipita la democrazia in una "terra di nessuno".

Se questa è la portata della sfida, occorre che il Pd si mostri all'altezza di saperla raccogliere. Di fronte a questa nuova distorsione della civiltà repubblicana non basta rifugiarsi nella routinaria ripetizione di uno slogan generale al punto da risultare quasi generico. Sì a riforme della giustizia, no a norme salva-processi, sostiene Pierluigi Bersani. Sarebbe ora che il centrosinistra cominciasse a spiegare qual è, se esiste, la "sua" riforma della giustizia. Ma nel far questo, dovrebbe anche spiegare all'opinione pubblica, con tutta la forza responsabile di cui è capace, che quella di Berlusconi non è una riforma fatta per i cittadini, ma solo un'altra emanazione della sua "auctoritas", che ormai sovrasta ed assorbe la "potestas" dello Stato e del Parlamento.

La partita vera, a questo punto, è più alta e più impegnativa. Si può continuare a tollerare uno "stato di eccezione" sistematicamente decretato da Berlusconi? E il Pd vuol giocare fino in fondo questa partita, mobilitando su di essa la sua gente e sensibilizzando su di essa tutti gli elettori? Scrive Giorgio Agamben che quando "auctoritas" e "potestas" coincidono in una sola persona, e lo stato di eccezione in cui essi si legano diventa la regola, allora "il sistema giuridico-politico diventa una macchina letale". Il Paese sarebbe ancora in tempo per fermarla, se solo se ne rendesse conto.

© Riproduzione riservata (11 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La minaccia di fine impero
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2009, 10:08:45 am
L'EDITORIALE

La minaccia di fine impero

di MASSIMO GIANNINI


In una "normale" democrazia, bipolare e liberale, le parole di Renato Schifani suonerebbero come un'ovvietà. La maggioranza degli eletti è garante del patto programmatico sottoscritto con gli elettori attraverso il voto. Se quella garanzia salta, la parola torna al popolo sovrano. Nell'autocrazia berlusconiana, plebiscitaria e illiberale, questi concetti elementari diventano un'enormità.

Probabilmente è ancora presto per considerare il discorso del presidente del Senato come un "certificato di morte" del governo. Più verosimilmente quel testo riflette un male incurabile di questo centrodestra, ma non ancora la sua crisi finale. Va catalogato sotto la voce "minacce". Minacce alle istituzioni "nemiche": il capo dello Stato non si illuda, in caso di caduta di questo governo, di ripercorrere le orme di Scalfaro e di evitare le elezioni anticipate cercando altre maggioranze. Minacce alle istituzioni "amiche": Gianfranco Fini non si illuda, la sua idea di una destra laica, istituzionale, repubblicana, cioè "alta" e "altra" rispetto a quella da bassa macelleria costituzionale incarnata dal Cavaliere, non avrà diritto di cittadinanza fuori dal berlusconismo. Minacce alle opposizioni "interne": tutti coloro che, dentro la coalizione, sono tentati di seguire il presidente della Camera sui paletti alla legge-vergogna del processo breve, sulla bioetica, sull'immigrazione, magari anche sulla sfiducia a Cosentino, non avranno più un posto dove sedersi in Parlamento, in una quarta legislatura berlusconiana. Minacce alle opposizioni "esterne": il Pd non coltivi ambizioni neo-proporzionaliste, in uno schieramento che aggreghi tutti, dall'Udc all'Idv, perché in una nuova campagna elettorale il premier asfalterebbe qualunque "Comitato di liberazione nazionale".

C'è tutto questo, nel monito che il Cavaliere ha lanciato per interposto Schifani. Ma sarebbe altrettanto sbagliato non leggere, in quelle parole, anche qualcosa di più serio e più grave. Per due ragioni. La prima ragione è tattica. Il ricatto delle elezioni anticipate, da tempo ventilato nei corridoi e adesso gridato dalla seconda carica dello Stato, rischia di non essere "un'arma fine di mondo", ma "una freccia spuntata". Intanto perché, a dispetto delle sue certezze ufficiali, il premier non è più così sicuro di vincere le elezioni. E poi perché, in caso di scioglimento anticipato delle Camere, svanirebbe per lui qualunque possibilità di costruirsi l'ennesimo "scudo" legislativo contro i processi Mills e diritti tv Mediaset. E lui di quella "protezione" ha un bisogno vitale. Anche a costo di far ingoiare al Parlamento un'altra dose di "ghedinate". Anche a costo di far riesplodere un conflitto istituzionale con il Quirinale e con la Consulta.

La seconda ragione è strategica. Se dopo appena venti mesi dal clamoroso trionfo del 13 aprile 2008 questa maggioranza è chiamata ogni giorno ad interrogarsi sulla sua sopravvivenza e ad esorcizzare lo spettro delle elezioni anticipate, vuol dire che un destino sta per compiersi. Nell'avvertimento del presidente del Senato di oggi si sente un'eco sinistra di quello che lanciò l'allora presidente della Camera nell'autunno del 2007. All'epoca Fausto Bertinotti definì Prodi, capo del governo unionista, "il più grande poeta morente", rubando la celebre definizione che Ennio Flaiano usò per Cardarelli. Per il Berlusconi attuale vale la stessa immagine. Anche il Cavaliere, ormai, appare come "il più grande poeta morente". Da mesi ha smesso di governare l'Italia. Da settimane mena solo fendenti contro alleati e avversari. Da giorni non riesce più neanche a parlare al Paese.

Sabato scorso il suo esegeta più fine, Giuliano Ferrara, si chiedeva sul Foglio: "L'avvenire del berlusconismo è forse alle nostre spalle?". La risposta è sì. Assisteremo ad altre scosse. Magari vedremo altri "predellini". Ma il Cavaliere, ormai, potrà solo sopravvivere a se stesso.

© Riproduzione riservata (18 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: GIANNINI Ciampi: Basta leggi ad personam Berlusconi delegittima le istituzioni
Inserito da: Admin - Novembre 23, 2009, 10:38:09 am
L'ex presidente: "Io non uso aderire ad appelli, ma condivido quello di Saviano"

Preoccupato per la salute della nostra democrazia: "Manipolazione delle regole"

Ciampi: "Basta leggi ad personam Berlusconi delegittima le istituzioni"

di MASSIMO GIANNINI


«Viviamo un tempo triste. Negli anni finali della mia vita, non immaginavo davvero di dover assistere ad un simile imbarbarimento dell'azione politica, ad una aggressione così brutale e sistematica delle istituzioni e dei valori nei quali ho creduto...». La prima cosa che colpisce, nelle parole di Carlo Azeglio Ciampi, è l'amarezza. Un'amarezza profonda, sul destino dell´Italia e sulle condizioni della nostra democrazia.

E mai come in questa occasione l'ex capo dello Stato, da vero "padre nobile" della Repubblica, lancia il suo atto d'accusa contro chi è responsabile di questo "imbarbarimento" e di questa "aggressione": Silvio Berlusconi, il suo governo e la sua maggioranza, che stanno abbattendo a "colpi di piccone" i principi sui quali si regge la Costituzione, cioè "la nostra Bibbia civile".

"Vede - ragiona Ciampi - la mia amarezza deriva dalla constatazione ormai quotidiana di quanto sta accadendo sulla giustizia, ma non solo sulla giustizia. È in corso un vero e proprio degrado dei valori collettivi, si percepisce un senso di continua manipolazione delle regole, una perdita inesorabile di quelli che sono i punti cardinali del nostro vivere civile". Vale per tutto: non solo i rapporti tra politica e magistratura. Le relazioni tra potere esecutivo e Parlamento, tra governo e presidenza della Repubblica, tra premier e organi di garanzia, a partire dalla Corte costituzionale. L'intero sistema istituzionale, secondo Ciampi, è esposto ad un'opera di progressiva "destrutturazione". "Qui non è più una questione di battaglia politica, che può essere anche aspra, come è naturale in ogni democrazia. Qui si destabilizzano i riferimenti più solidi dell'edificio democratico, cioè le istituzioni, e si umiliano i valori che le istituzioni rappresentano. Questa è la mia amara riflessione...".

Ciampi, forse per la prima volta, parla senza mezzi termini del Cavaliere, e di ciò che ha rappresentato e rappresenta in questo "paesaggio in decomposizione". "Mi ricordo un bel libro di Marc Lazar, uscito un paio d'anni fa, nel quale io e Berlusconi venivamo raccontati come gli estremi di un pendolo: da una parte Ciampi, l'uomo che difende le istituzioni, e dall'altra parte Berlusconi, l'uomo che delegittima le istituzioni. Mai come oggi mi sento di dire che questa immagine riassume alla perfezione quello che penso. Io ho vissuto tutta la mia vita nelle istituzioni e per le istituzioni, che sono il cuore della democrazia. E non dimentico la lezioni di Vincenzo Cuoco sulla Rivoluzione napoletana del 1797: alla felicità dei popoli sono più necessari gli ordini che gli uomini, le istituzioni oltrepassano i limiti delle generazioni. Ma poi, a rendere vitali le istituzioni, occorrono gli uomini, le loro passioni civili, i loro ideali di democrazia. Ed io, oggi, è proprio questo che vedo mancare in chi ci governa...".

L'ultimo capitolo di questa nefasta "riscrittura" della nostra Costituzione formale e materiale riguarda ovviamente la giustizia, il Lodo Alfano e ora anche il disegno di legge sul processo breve con il quale il premier, per azzerare i due processi che lo riguardano, fa terra bruciata dell'intera amministrazione giudiziaria corrente. Anche su questo la condanna di Ciampi è senza appello: "Le riforme si fanno per i cittadini, non per i singoli. L'ho sempre pensato, ed oggi ne sono più che mai convinto: basta con le leggi ad personam, che non risolvono i problemi della gente e non aiutano il Paese a migliorare". Fa di più, l'ex presidente della Repubblica. E si spinge a riflettere su ciò che potrà accadere, se e quando questa nuova legge-vergogna sarà approvata: "Io non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale. Ma il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va non si firma. E non si deve usare come argomento che giustifica sempre e comunque la promulgazione che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta la prima volta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura: la Costituzione prevede espressamente questa prerogativa presidenziale. La si usi: è un modo per lanciare un segnale forte, a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all'opinione pubblica". Ciampi non nomina Napolitano, ma fa un riferimento implicito a Francesco Saverio Borrelli: "Credo che per chi ha a cuore le istituzioni, oggi, l'unica regola da rispettare sia quella del "quantum potes": fai ciò che puoi. Detto altrimenti: resisti".

Lui stesso, nel suo settennato sul Colle, ha resistito più volte alle spallate del Cavaliere. Dalla legge Gasparri per le tv alla riforma dell'ordinamento giudiziario di Castelli: "È vero, ma ho fatto solo il mio dovere. C'è solo una cosa, della quale mi rammarico ancora oggi: il mio unico messaggio alle Camere, quello sul pluralismo del sistema radiotelevisivo e dell'informazione. Allora era un tema cruciale, per la qualità della nostra democrazia. Il Parlamento non lo raccolse, e da allora non si è fatto niente. Oggi, e basta guardare la televisione per rendersene conto, quel tema è ancora più grave. Una vera e propria emergenza".

Ma in tanto buio, secondo Ciampi c'è anche qualche spiraglio di luce. Per esempio l'appello lanciato su "Repubblica" da Roberto Saviano, che chiede al premier di ritirare la legge sull'abbreviazione dei processi, la "norma del privilegio". "Io - commenta il presidente emerito della Repubblica - per il ruolo che ho ricoperto non uso firmare appelli. Ma condivido dalla prima all'ultima riga quello di Saviano. Risponde a uno dei principi che mi hanno guidato per tutta la vita. E il fatto che abbia ottenuto così tante adesioni rappresenta una speranza, soprattutto per i giovani. È il vecchio motto dei fratelli Rosselli: non mollare. Loro pagarono con la vita la fedeltà a questo principio. Qui ed ora, in Italia, non c'è in gioco la vita delle persone. Ma ci sono i valori per i quali abbiamo combattuto e nei quali abbiamo creduto. In ballo c'è la buona democrazia: credetemi, è abbastanza per non mollare".

© Riproduzione riservata (23 novembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'abisso della Repubblica
Inserito da: Admin - Dicembre 12, 2009, 03:34:42 pm
IL COMMENTO

L'abisso della Repubblica

di MASSIMO GIANNINI

Trenta metri, per coprire la distanza che separa la Sala della Protomoteca dalla Lancia blindata che aspetta il capo dello Stato per riportarlo al Quirinale. Ma in quei trenta metri, che Giorgio Napolitano e Gianni Letta percorrono insieme parlando del berlusconiano "editto di Bonn", si apre l'abisso della Repubblica.

Dottor Letta, come mai? Cosa sta succedendo?", chiede il Capo dello Stato, commentando il violento attacco alle istituzioni pronunciato dal premier al congresso del Ppe. "Presidente, da parte di Berlusconi non c'è nessun attacco nei suoi confronti, ci mancherebbe. Il suo è stato uno sfogo, e si può capire: si sente accerchiato, assediato dalle inchieste giudiziarie, braccato dagli avversari politici e dai giornali. Ha reagito, in modo duro. Ma non c'è nessuna intenzione di sfasciare le istituzioni...". E questo è tutto. Di più il sottosegretario alla presidenza del Consiglio non sa e non può dire.

Dunque neanche il "dottor Letta", l'uomo del dialogo, è in grado di spiegare a Napolitano qual è il demone che agita il Cavaliere, e fino a che punto voglia spingersi in questo suo dissennato "conflitto istituzionale permanente". Neanche il tenace tessitore di mille accordi riusciti o falliti (vedi patto della crostata) riesce a rispondere alla domanda cruciale che il Capo dello Stato gli ha rivolto, e continua a rivolgersi in queste ore di preoccupata, amareggiata riflessione sul Colle: cos'ha in testa, Berlusconi? Cosa spera di ottenere, da questo scontro sistematico con il Quirinale, la Consulta, la magistratura, il Parlamento, l'opposizione, la carta stampata? Qual è lo sbocco di questa guerra "eversiva", condotta nel cuore delle istituzioni e combattuta dall'esecutivo, contro il giudiziario e il legislativo? Letta non ha una risposta. E per questo Napolitano, oggi, non da altro fuoco alle polveri. Dopo la durissima "censura" dell'altro ieri, il presidente non raccoglie l'ennesima provocazione di Berlusconi, che da Bruxelles lo invita espressamente a preoccuparsi non delle sue mattane, ma piuttosto "dell'uso politico della giustizia", che è "il contrario della democrazia".

Il Capo dello Stato si limita a ribadire un appello, già troppe volte respinto: "Basta con le contrapposizioni esasperate".

Un esorcismo, o poco più. Napolitano è il primo a sapere che questa linea, che i costituzionalisti classici chiamerebbero da "magistratura d'influenza", con il Cavaliere non serve più. E probabilmente è il primo a sapere che anche la "moral suasion", che ha operato dai tempi di Einaudi, è ormai inutilizzabile: può funzionare quando c'è "leale collaborazione" tra le istituzioni, e quando c'è "piena condivisione" dei valori costituzionali. Ma tutto questo, nel turbine del "berlusconismo da combattimento", non esiste più. Il circuito repubblicano, se mai ha funzionato in questa legislatura, è andato irrimediabilmente in "corto".

A farlo saltare per sempre è stata la bocciatura del Lodo Alfano da parte della Corte costituzionale. Quella sì, una "bomba atomica", per usare una metafora cara al presidente della Camera. Da quel momento, il premier ha ritirato fuori il suo peggiore armamentario culturale e temperamentale, rafforzato dalla solita visione plebiscitaria e populista del potere: spallate al sistema e frustate alle elite, teorema dell'anticomunismo e teoria del complotto.

"Bisogna capirlo...", è il mantra di Letta. E Napolitano l'ha capito allora, anche se non l'ha giustificato: quella pronuncia della Consulta, a caldo, poteva anche spiegare la "reazione violenta" che in effetti ci fu. Fu dopo quel terribile 7 ottobre che il premier sparò per la prima volta ad alzo zero sul presidente della Repubblica, "che si sa da che parte sta", e sui giudici della Corte "tutti in mano alla sinistra". Ma il dubbio che rimbalza sul Colle, adesso, è il seguente: che senso ha riportare l'orologio della politica indietro di due mesi e mezzo, e riaprire il fuoco con la stessa violenza, tanto più in un alto consesso internazionale come il Partito popolare europeo, e al cospetto di capi di governo del prestigio di Angela Merkel. Anche questo dubbio è tornato in ballo, nel breve colloquio con Letta. Condito da una postilla: possibile che il premier, in questi due mesi e mezzo, sulla giustizia non sia stato in grado di elaborare una "strategia minima", diversa da quella dello scontro frontale? Una riforma del sistema giudiziario è cosa buona e giusta, nell'interesse dei cittadini e dello Stato. Ma qui, di riforma, non c'è traccia. A meno che non si voglia considerare tale, e Napolitano non lo fa, l'inaccettabile "processo breve" o l'ingestibile "legittimo impedimento allargato".

"Chi svolge attività politica non solo ha il diritto di difendersi e di esigere garanzie quando sia chiamato personalmente in causa... Ha però il dovere di non abbandonarsi a forme di contestazione sommaria e generalizzata dell'operato della magistratura, e deve liberarsi dalla tendenza a considerare la politica in quanto tale, o la politica di una parte, bersaglio di un complotto della magistratura". In queste ore difficili, il presidente della Repubblica invita a rileggere l'intervento che pronunciò il 14 febbraio 2008, nella seduta plenaria del Consiglio superiore della magistratura, quando parlò dell'opportunità di una riforma della giustizia, ma fissò paletti molto precisi alla politica, chiamata a costruire il terreno propizio al cambiamento, senza logiche punitive o, peggio ancora, ritorsive. "Prediche inutili", purtroppo, se ascoltate in questi giorni di straordinaria "macelleria costituzionale".

Ma Napolitano, anche se il Cavaliere ha ricominciato a "sparare sul quartier generale", non intende arretrare dalla sua trincea del Piave. Per fortuna, con lui regge l'urto anche Gianfranco Fini che da terza carica dello Stato (più che da co-fondatore del Pdl) continua a fronteggiare l'offensiva scomposta del Cavaliere. Anche di fronte all'omertoso silenzio di Renato Schifani, che ha svilito il Senato a banale propaggine di Palazzo Grazioli. Anche di fronte allo scandaloso editoriale di Augusto Minzolini, che ha ridotto il Tg1 a volgare Agenzia Stefani di Palazzo Chigi.

Resta la domanda, sospesa e irrisolta: cos'ha in mente Berlusconi? Se davvero punta a far saltare il tavolo, e a portare il Paese alle elezioni anticipate, deve sapere che al Quirinale non c'è un "notaio" pronto ad eseguire i suoi lasciti. Intanto dovrebbe spiegare agli italiani perché si dovrebbe tornare a votare, compito tutt'altro che agevole anche per un "venditore" come lui. E poi Napolitano rimanda alle sue parole del 27 novembre: "Nulla può abbattere un governo che abbia la fiducia della maggioranza del Parlamento, in quanto poggi sulla coesione della coalizione che ha ottenuto il consenso dei cittadini-elettori". Tocca al Capo dello Stato verificare se quella fiducia è venuta meno, se esistono maggioranze alternative o se non resta altra via che lo scioglimento delle Camere. Questo prevede la nostra Costituzione, l'unica "bibbia civile" riconosciuta dalla Repubblica italiana. Almeno fino a quando Berlusconi non sarà riuscito a sfasciare anche quella.

© Riproduzione riservata (12 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Richiamo alla democrazia
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2009, 04:07:46 pm
IL COMMENTO

Richiamo alla democrazia

di MASSIMO GIANNINI


QUANDO la violenza fisica deflagra e corrompe la contesa politica, non c'è spazio per rimpallarsi la responsabilità delle colpe e rinfacciarsi la contabilità degli errori. Di fronte al dramma di Berlusconi sanguinante e sofferente in Piazza Duomo, viene in mente la celebre frase che John Kennedy disse di fronte alla tragedia del Muro di Berlino: siamo tutti italiani.
A ricordarcelo, con le parole più semplici ma più efficaci, è il capo dello Stato.

Ancora una volta, a dispetto di chi lo ha descritto come uomo "di parte", Giorgio Napolitano si conferma davvero il "presidente di tutti". Dobbiamo alla sua saggezza un messaggio che politici e cittadini farebbero bene a scolpire nella mente, in questi giorni difficili. Basta con l'esasperazione della lotta politica, non si alimentino le tensioni, ognuno misuri le parole dovunque si parli: nelle piazze, nei congressi di partito e in tv. Ciascuno faccia la sua parte: non ha senso, adesso, che gli uni accusino gli altri per il clima che si creato. Sembrano banalità. Lo sarebbero, in una democrazia bipolare risolta e compiuta. Non lo sono in Italia, purtroppo, dove da anni viviamo immersi nell'eterna transizione e sommersi dalla tenace contrapposizione tra una metastorica "pregiudiziale anticomunista" e una stoica "resistenza antiberlusconiana".

Alla prima categoria appartengono tutti coloro che nella maggioranza, invece di apprezzare il gesto di Bersani in visita al San Raffaele, si avventurano già nella caccia rancorosa ai "mandanti morali" e nella ricerca livorosa dei "cattivi maestri". Non solo a sinistra (da Di Pietro a Rosy Bindi) ma persino a destra (da Fini a Casini). Come se qualcuno, per terrorismo involontario, avesse "armato" con le sue parole o le sue critiche a Berlusconi la mano impazzita di Massimo Tartaglia. Come se quella maledetta statuina del Duomo scagliata sul volto del premier fosse la prosecuzione del dissenso politico con altri mezzi. Non pare così, per fortuna. Quell'aggressione, per quanto gravissima e ingiustificabile, resta fino a prova contraria il gesto folle di un povero disgraziato. Questo non attenua l'allarme.

Per quanto squilibrato, quell'uomo ha respirato il "clima d'odio" che opprime il Paese. Per questo è prezioso l'appello bipartisan del presidente della Repubblica ad abbassare i toni, per evitare che l'Italia ricada nella spirale di violenza che ha già conosciuto e pagato negli anni di piombo. Ma mai come oggi le reazioni vanno commisurate alle azioni.

Alla seconda categoria appartengono tutti coloro che nell'opposizione, invece di limitarsi a condannare senza appello e senza distinguo quel gesto di insopportabile violenza contro il premier, si avventurano nell'esegesi psicologica del "movente" ("Berlusconi istiga", dice il leader dell'Idv) o peggio ancora si lanciano nell'apoteosi politica del "gesto".
Questo è senz'altro l'effetto più vergognoso e intollerabile dell'aggressione di Piazza Duomo: la "comunità" che in rete condivide irresponsabilmente lo slogan "13 dicembre festa nazionale", o che si riunisce gioiosamente su Facebook nel gruppo "Tartaglia Santo subito", non suscita soltanto l'inevitabile "sdegno". Fa letteralmente schifo. Non consuma soltanto la strage delle idee: celebra la morte della politica. Fa da amplificatore, stavolta non solo nel Palazzo ma nel Paese, di quell'aria mefitica che intossica il discorso pubblico.
E genera riflessi condizionati, uguali e contrari. Con la stessa rapidità con la quale nascono i gruppi che riecheggiano il sito "Uccidiamo Berlusconi", proliferano siti contrapposti che vaneggiano "Uccidiamo a sprangate Antonio Di Pietro". Questi non sono errori. Sono orrori. Qui non ci sono "compagni" o "camerati" che sbagliano. Qui ci sono imbecilli che scherzano col fuoco.

Le parole sono pietre. A volte diventano persino pallottole. Per questo Napolitano dice giustamente "dobbiamo essere tutti allarmati". E aggiunge "quando dico tutti intendo tutti gli italiani che credono nella democrazia e hanno a cuore che venga garantita la pacifica convivenza civile". Ma proprio la ferma consapevolezza di questo allarme, e la ferrea nettezza con la quale si denuncia e si rifiuta il germe criminogeno della violenza fisica e verbale, non devono e non possono diventare un alibi per cancellare il dovere della critica e il diritto al dissenso. La politica vive di questo. Si alimenta di questa capacità di discernere tra la barbarie terroristica e la valutazione politica. Ha ragione, una volta tanto, Fabrizio Cicchitto: a proposito dei siti che inneggiano all'uccisione di Di Pietro, l'esponente del Pdl ha detto "va condannato senza se e senza ma anche chi ha scritto quelle cose. Non so chi è stato e con quali motivazioni, ma cose del genere non vanno ne scritte né pensate. Ciò evidentemente non ha nulla a che vedere con il giudizio politico che do di Di Pietro, che è totalmente negativo da ogni punto di vista".

Ci sembra un principio sacrosanto. Ma deve valere sempre, e deve valere per tutti. Non solo per un leader dell'opposizione, ma anche e a maggior ragione per il capo del governo.
 
Proprio perché "siamo tutti italiani", oggi siamo solidali con lui. Ma la solidarietà umana e istituzionale non coincide con la sensibilità politica e culturale.
Noi, come tutti gli italiani ricordati dal Capo dello Stato "che credono nella democrazia", vorremmo poter continuare ad esercitare il nostro spirito critico.

Liberamente, nel rispetto delle persone e dei ruoli. Ma senza essere accusati, per questo, di "terrorismo".

m.giannini@repubblica.it

© Riproduzione riservata (15 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Due lezioni dallo Scudo
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2009, 04:42:29 pm
Due lezioni dallo Scudo

Massimo Giannini


Uno Scudo da cinque punti di Pil. Si capisce l'esultanza di Giulio Tremonti, per il clamoroso successo della manovra di "rientro dei capitali dall'estero". Se è vero che frutterà tra gli 80 e i 100 miliardi di euro in soli tre mesi (contro i 78 miliardi accumulati nei tre anni 2001/2003) il ministro del Tesoro ha ragione a compiacersi. E il Consiglio dei ministri ha ragione di riaprire, con una sorta di "Scudo quattro", i termini per consentire un ulteriore rimpatrio di fondi detenuti oltre frontiera almeno fino ad aprile 2010. Ma da questa criticabile operazione si può trarre qualche utile lezione.

La prima lezione. Gli italiani, purtroppo, sono un popolo di formidabili evasori fiscali. Un flusso di denaro così imponente, stabilmente trasferito nei conti bancari dei paradisi fiscali e dei Paesi offshore, non ha forse analoghi riscontri tra i nostri partner europei. Questo è il frutto del vero "compromesso storico" della Prima Repubblica, quando il consenso elettorale alle forze dell'allora maggioranza invariabile (mono o pentapartitica) e la penosa condizione dei servizi pubblici del Paese si scambiava con l'assoluta tolleranza nei confronti di chi non paga le tasse e l'incondizionata munificenza nei confronti di chi compra i Bot. Ma è anche il frutto delle politiche recenti del centrodestra. Quale effetto si crea, quando si introducono norme che, invece di rafforzare il contrasto all'evasione, sembrano indebolirlo in modo clamoroso (come nel caso della tracciabilità dei pagamenti o dell'eliminazione dell'obbligo di tenuta dell'elenco clienti e fornitori)?

La seconda lezione. Proprio nella chiave della riemersione del gettito sommerso, una gestione più severa dello strumento dello Scudo fiscale sarebbe stata decisiva. Sia dal punto di vista tecnico: un'aliquota ben più pesante del simbolico 5% sul totale dei capitali rimpatriati e il versamento pieno di tutte le imposte dovute su quelle stesse somme (come avviene nel tanto declamato "modello inglese") avrebbero portato molto più denaro nelle casse dello Stato. Sia dal punto di vista civico: uno Scudo così congegnato, più tosto e dunque più equo, non avrebbe trasmesso all'opinione pubblica l'inaccettabile messaggio secondo cui, ancora una volta, si premiano i furbi a danno degli onesti.

Qui è il punto debole della soddisfazione tremontiana. Il successo dello Scudo, a suo giudizio, "vuol dire che c'è fiducia verso l'Italia e il governo. Si diceva che i capitali votano con le gambe: prima votavano uscendo, ora rientrando". Il punto non è questo: solo uno sciocco, per quanto disonesto, si sarebbe lasciato sfuggire un'occasione così ghiotta per riportare a casa praticamente gratis un bel po' di soldi, in tempi di vacche magrissime come quelli che stiamo vivendo. E qui c'è un altro punto discutibile del compiacimento del ministro: lo Scudo, secondo lui, è "una colossale manovra di potenziamento della nostra economia". Ci permettiamo di dubitare, purtroppo. Vorremmo essere informati su quanti dei capitali illeciti tornati in Italia sono e saranno reinvestiti nelle imprese, nelle attività professionali, negli investimenti produttivi, e quanti invece rifluiranno nella rendita, mobiliare o immobiliare. Purtroppo non lo sapremo mai. Il vero "motore" di questo Scudo è l'anonimato. Tu, cittadino, hai evaso. Io, Stato, non voglio neanche sapere chi sei. Paga un obolo, e amici come prima.

(17 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Patto scellerato e pessimismo del Colle
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2009, 04:22:19 pm
IL COMMENTO

Patto scellerato e pessimismo del Colle

di MASSIMO GIANNINI


Come Benedetto Croce, che nel '48 invocava il suo celebre "Veni, creator spiritus" sull'assemblea convocata per scrivere la tavola delle leggi della Repubblica, così Giorgio Napolitano oggi sembra rievocare il ritorno di un impossibile "spirito costituente". Ma nelle parole del capo dello Stato c'è in realtà l'eco nostalgica per un tempo che non ritornerà.

È necessario auspicare che dall'aggressione al premier in Piazza Duomo possa nascere un "ripensamento collettivo". È giusto richiamare ancora una volta le forze politiche al senso di responsabilità e al "massimo di condivisione e di continuità nel tempo" che la gravità della fase economica e sociale richiederebbero. È doveroso appellarsi alle aspettative di quell'Italia sana che lavora e fatica, e all'esigenza di non lacerare quel "tessuto unitario" così solido e vitale.

È scontato, infine, rinnovare l'invito a fermare "la spirale di una crescente drammatizzazione delle tensioni tra le parti politiche e tra le istituzioni". Ma cosa può germogliare da tanta speranza, nel discorso pubblico italiano? Al di là della retorica sul "dialogo" e della polemica sull'"inciucio", maggioranza e opposizione parlano linguaggi incompatibili e alludono a scenari inconciliabili. Il presidente della Repubblica, da politico idealista ma realista, è il primo a rendersene conto, se si costringe ad ammettere che per le grandi riforme, economiche e politiche, non si vede "un clima propizio nella nostra vita pubblica". La ragione è più semplice di quello che la propaganda dominante vorrebbe far credere. Per il centrodestra, nella versione bellica di Berlusconi e a dispetto della sua fresca ispirazione "ghandiana", la parola "riforme" è una fantomatica esigenza collettiva che serve per vestire di qualche dignità una drammatica urgenza privata.

Questo è l'assioma intorno al quale il presidente del Consiglio dispiega la sua geometrica potenza: una legge ad personam, che salvandolo dai processi pendenti, trasformi lo stato di diritto in "stato di eccezione". Tutto il resto, dall'elezione diretta del premier al Senato federale, viene dopo. Sono semplici corollari, utili alla sua biografia personale o alla sua geografia coalizionale. Se non c'è lo scudo processuale a breve per il suo capo, a prescindere dal tempo lungo delle modifiche per via costituzionale del Lodo Alfano e dell'immunità parlamentare, il Pdl non può concepire altre riforme di struttura. Per il centrosinistra, nella versione pragmatica di Bersani e a dispetto della controversa esegesi dell'intenzione dalemiana, si tratta di scegliere, molto semplicemente, se accedere o meno al "patto scellerato": fidarsi del Cavaliere, ingoiando la diciassettesima legge-vergogna per tentare uno sbocco all'eterna transizione italiana.

Per ora il Pd sembra resistere al canto delle sirene berlusconiane. Dice no allo scambio nelle camere oscure, e opportunamente rilancia una sua agenda di riforme politiche, istituzionali e sociali nelle Camere parlamentari. E fa bene: le riforme appartengono al patrimonio genetico e culturale della sinistra italiana. Sono il suo dna storico e politico. Non bisogna aver paura di avere coraggio, come diceva Aldo Moro negli anni di confronto più serrato con Enrico Berlinguer. Napolitano tutte queste cose le sa, anche se non può dirle in chiaro. Ma da questa consapevolezza nasce il suo attuale pessimismo della ragione. Che lo costringe a tamponare per l'ennesima volta le forzature costituzionali di Berlusconi e le storture politiche della sua maggioranza. La farsa di un "governo che non può governare", e che invece in questi due anni, con la clava di ben 47 decreti legge, "ha esercitato intensamente i suoi poteri e non ha trovato alcun impedimento" finendo con l'umiliare il Parlamento. La leggenda di una giustizia che non funziona solo perché abitata da toghe rosse e pm politicizzati, mentre il giusto processo riformato nell'articolo 111 della Costituzione esigerebbe ben altri interventi a beneficio dei cittadini. Nel rispetto dell'"intangibile principio di autonomia e indipendenza della magistratura", ma anche di quel "senso del limite" che dovrebbe caratterizzare sempre i magistrati, chiamati a non esorbitare mai dai propri compiti e a non sentirsi mai investiti di "missioni improprie" (come forse è accaduto ad esempio in qualche passaggio del parere rilasciato dal Csm sul processo breve).

Poi il romanzo del "presidenzialismo di fatto" e della sedicente "costituzione materiale" che ormai sopravanzerebbe la Costituzione formale: Napolitano, su questo, è stato netto come mai era stato, ripescando "l'illusione ottica" denunciata a suo tempo da Leopoldo Elia in quelli che scambiano "per mutamento costituzionale ogni modificazione del sistema politico", e aggiornandola con un esplicito riferimento alla modificazione della legge elettorale. E infine l'opera buffa del"complotto", tante volte messa in scena dal presidente del Consiglio e mai come stavolta sconfessata senza pietà dal presidente della Repubblica. Non c'è complotto possibile, di fronte a un governo che ha una maggioranza schiacciante. E persino di fronte alla tanto esecrata Costituzione, che per Berlusconi è un "ferrovecchio sovietico", mentre è il presidio più forte per le regole democratiche e per le istituzioni repubblicane.

Quale può essere il terreno per "riforme condivise", in questo abisso di sensibilità politica e di cultura costituzionale? Oggi non c'è risposta. O meglio, ce ne sarebbe una sola, da non confondere con il conservatorismo costituzionale. Nel suo discorso alle alte cariche Napolitano vi accenna, quando parla di una "visione costituzionale" che dovrebbe accomunarci tutti e di un "gioco politico democratico" che andrebbe ancorato alla stabilità delle istituzioni.

Nel suo "Intorno alla legge" Gustavo Zagrebelski è più esplicito, quando scrive di "volontà di Costituzione o il nulla". La Costituzione come "pactum societatis", presupposto per una convivenza civile, pacifica e costruttiva.

Se manca questo presupposto, si precipita nella kantiana "repubblica dei diavoli". La Costituzione diventa campo di battaglia e di sopraffazione. Non è forse questa la deriva italiana di questi ultimi anni?

© Riproduzione riservata (22 dicembre 2009)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La dottrina del Quirinale
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2010, 11:51:05 am
La dottrina del Quirinale

di MASSIMO GIANNINI


Come ogni Capodanno il "cuore d'Italia", da Palermo ad Aosta, batte all'unisono con quello del presidente della Repubblica. Gli auguri di Giorgio Napolitano alla nazione rassicurano un'opinione pubblica esasperata e stimolano una classe politica esagitata. Il messaggio è vagamente ecumenico, il plauso unanimemente bipartisan. Ma senza alcuna pretesa di rovinare lo strano "presepe italiano" di fine 2009 (in cui si contempla la proditoria anomalia di una statuetta del Duomo di Milano e in cui si celebra l'assolutoria epifania del Partito dell'Amore) bisogna riconoscere che nel vigoroso "Inno alla serenità" pronunciato dal Capo dello Stato ci sono chiavi meno scontate e note più acuminate di quello che appaiono. La "Dottrina Napolitano" si incardina intorno a una premessa e a una promessa. La premessa riguarda le questioni economiche e sociali. L'Italia, dopo mesi "molto agitati", ha un drammatico bisogno di essere governata.

Di fronte alla gravità di una crisi che pagheremo a caro prezzo sul piano dei costi economici (pesante caduta della produzione e dei consumi) e dei costi sociali (crollo dell'occupazione e aumento della povertà e delle disuguaglianze) il Paese ha reagito più con la forza delle sue braccia che non con la leva delle riforme. Il risultato nega l'assunto del presidente del Consiglio: nessuno sarà lasciato indietro. Non è vero. Chi è più forte ce la fa: imprese che hanno ristrutturato e lavoratori a tempo indeterminato con garanzie consolidate. Chi è più debole non ce la può fare: "invisibili" del ceto produttivo (micro-imprese senza rappresentanza e professionisti senza mercato) e soprattutto "invisibili" del mondo del lavoro (giovani precari con tutele deboli o inesistenti). Questa è la vera emergenza nazionale, che finora il governo ha affrontato con un approccio minimalista. Il Capo dello Stato ripropone invariato il monito che lanciò inutilmente il 31 dicembre del 2008: da questo abisso può riemergere un Paese più forte e più giusto. Se a distanza di un anno quel discorso resta "interamente aperto", vuol dire che chi doveva adoperarsi per trasformare la difficoltà in opportunità non l'ha fatto. Ci sono riforme "non più rinviabili". Non regge più l'alibi biblico del Qoelet (c'è un tempo per seminare, un tempo per raccogliere). La riforma degli ammortizzatori sociali e quella del fisco vanno fatte qui ed ora. Il governo le metta in campo, e la smetta di parlar d'altro.

La promessa riguarda le questioni politiche e istituzionali. Se rispetterà i tre valori intorno ai quali si cementa il civismo repubblicano (solidarietà, coesione sociale, unità nazionale) Berlusconi non troverà mai in Napolitano un ostacolo. Anche in questo campo ci sono riforme che "non possono essere tenute in sospeso" o bloccate dalle "opposte pregiudiziali". Ma anche qui il presidente della Repubblica rilancia la palla al governo. Le riforme istituzionali e la riforma della giustizia sono necessarie. La Costituzione può essere rivista nella sua seconda parte, secondo le procedure dell'articolo 138. Tutto si può fare, ma a tre precise e inderogabili condizioni. La prima, sui processi: le riforme siano "ispirate solo all'interesse generale", cioè all'esclusivo "servizio dei cittadini". Questo esclude che si possano riproporre leggi ad personam ispirate solo a un interesse particolare, e cioè al servizio di un cittadino (il premier). La seconda, sulla forma di governo: le riforme abbiano un "radicato ancoraggio" a quegli equilibri fondamentali tra potere esecutivo, potere legislativo e organi di garanzia sui quali poggia un sano sistema democraztico. Questo esclude presidenzialismi o premierati senza un corrispondente rafforzamento delle Camere e dei cosiddetti "poteri neutri". La terza, sul metodo: le riforme esigono la ricerca della "condivisione più larga possibile", nel solco della mozione approvata dal Senato il mese scorso. Questo esclude ogni forma di "patto scellerato", e ricolloca il confronto nell'unico luogo aperto, legittimo e titolato ad ospitarlo, cioè il Parlamento.

La "Dottrina Napolitano" fa piazza pulita di alibi e dubbi, inciuci ed equivoci. Il suo riformismo costituzionale smonta il sintagma dei teorici di ritorno di una sedicente "rivoluzione liberale" che, nella versione periana, vedono la storica malattia italiana nell'idea stessa di un compromesso sulle regole. Il suo spirito costituente spezza il paradigma "hobbesiano" che, nella visione berlusconiana, lega l'esistenza stessa del diritto al principio di sovranità. Dove l'origine dell'ordine politico risiede solo nel riconoscimento collettivo del sovrano, dove la sovranità è il presupposto necessario per l'esistenza dell'ordine politico e dove perciò l'unico diritto possibile è il diritto posto dal sovrano (Maurizio Fioravanti, in "Fine del diritto", Il Mulino).

"Io non desisterò", promette il presidente della Repubblica agli italiani, all'alba di questo insondabile 2010. Noi lo ringraziamo per questo. E siamo con lui.

© Riproduzione riservata (2 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il ministro pronto al confronto con il Pd: serietà e rigore
Inserito da: Admin - Gennaio 10, 2010, 03:54:24 pm
RETROSCENA

Il ministro pronto al confronto con il Pd: serietà e rigore

I tempi del "meno tasse per tutti" sono finiti: "Questa è una partita enorme"

"Con Berlusconi accordo al 100%"

Tremonti prepara la Grande Riforma

Il Tesoro cauto: un annuncio sbagliato potrebbe creare difficoltà al nostro debito pubblico

di MASSIMO GIANNINI


 ROMA - Mi riconosco al 100% nelle parole del Primo ministro...". Anche Giulio Tremonti, come Silvio Berlusconi, su gode l'ultimo week-end prima della "campagna d'inverno" del governo e delle elezioni regionali di primavera. E anche il ministro dell'Economia è convinto che il 2010 sarà l'anno delle riforme". Proprio a partire dalla riforma fiscale. Ci sta lavorando, come gli ha chiesto il Cavaliere nel pranzo a Arcore. Ma a due precise condizioni: serietà e rigore.

Tremonti non fornisce dettagli. A chi gli parla, in queste ore, il ministro non rilascia anticipazioni ufficiali. Si limita a una considerazione, che tuttavia ha una rilevante portata politica: condivide in pieno i contenuti dell'intervista che Berlusconi ha rilasciato ieri a Repubblica. Dunque, stavolta non ci sono scontri né bracci di ferro: la riforma fiscale sarà ai primi posti nell'agenda dei prossimi mesi di governo. Ma sarà una "riforma complessiva": sulla scia del Libro Bianco presentato dallo stesso Tremonti nel '94, non riguarderà solo l'imposta sui redditi ma l'intero sistema fiscale, che in prospettiva dovrà ruotare intorno a non più di otto tributi. E la parola chiave, dal punto di vista del ministro dell'Economia, sembra essere proprio questa: "in prospettiva". Una riforma di portata così ampia, che a regime porterebbe all'introduzione di due sole aliquote Irpef al 23 e al 33 per cento, non si improvvisa né si introduce dall'oggi al domani. Servirà piuttosto un percorso a tappe, che attraverso misure di sgravi graduali e di semplificazioni progressive, e secondo un antico "pallino" di Tremonti, dovrà trasformare il Fisco in "amico" dei cittadini e in "socio positivo" delle imprese.

"La riforma fiscale è una cosa seria", è il mantra che Tremonti si ripete da tempo. Stavolta non si può svilire in una raffica di misure estemporanee, e meno che mai in un fuoco d'artificio pre-elettorale, in vista delle prossime regionali. Per questo il ministro dell'Economia, quando ieri ha letto su alcuni giornali i retroscena che raccontano di una possibile una tantum di riduzione fiscale usata per l'appunto come spot propagandistico da spendere alla vigilia delle elezioni di primavera ha immediatamente contattato Paolo Bonaiuti, per "dettargli" la dichiarazione che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha poi diffuso alle agenzie. Dunque, è la linea del ministro, non ci saranno una tantum, non ci saranno mance fiscali un giorno prima del voto. Ci sarà invece "una riforma vera, seria e di lungo periodo" che, in tempi ragionevoli e nel rigoroso rispetto degli equilibri di bilancio, porti finalmente l'Italia all'approdo di un sistema tributario più equo, più efficiente e più moderno.

È una sfida difficilissima. Ma superata la fase più acuta della crisi globale, anche per il nostro Paese è arrivato il momento di raccoglierla. Se non ora, quando? Tremonti è il primo a saperlo. Per questo, a costo di essere accusato di "conservatorismo" economico o di "minimalismo" fiscale, in tutti questi mesi non solo ha rifiutato di allargare i cordoni della borsa e ha respinto gli assalti alla diligenza, ma in molti casi ha addirittura inasprito i tagli alla spesa dei ministeri, facendo infuriare i suoi colleghi di governo. Una scelta opinabile, ma non incomprensibile. L'Italia non è la Grecia o l'Islanda, ma sul mercato interno e internazionale il Tesoro si gioca l'osso del collo per piazzare in media un miliardo e mezzo di titoli di Stato al giorno. Quest'anno, tra Bot e Btp, dovranno essere collocati 480 miliardi di euro: una cifra da far tremare i polsi. Intanto, come ha ricordato lo stesso Berlusconi a Repubblica, tutto questo per l'Erario si traduce in una "tassa" fissa pari a oltre 8 miliardi di interessi passivi: tanti, per un bilancio pubblico gravato da un debito che viaggia a grandi passi verso il 120 per cento del Pil. E poi, in queste condizioni basta sbagliare un annuncio di politica economica, o tarare male una misura di sgravio fiscale, per far fallire un'asta. Con tutte le incognite del caso, dalla bocciatura delle agenzie di rating fino al "rischio-default" del Paese.

Per questo Tremonti vuole la riforma fiscale, ci sta lavorando, ma al tempo stesso fa di tutto per sottrarsi alla logica suicida della propaganda pre-elettorale. Condivide la road map del presidente del Consiglio. Ma non vuole cedere dalla linea del rigore contabile, né allentare gli impegni assunti con l'Unione europea. Il 2009 dovrebbe chiudere con un deficit al 5,2% del Pil: un dato "per fortuna migliore delle previsioni", come ripete in questi giorni il ministro, ma pur sempre elevato. E tale da indurre alla massima prudenza nell'azionare la leva delle tasse. Quella fiscale è una riforma potenzialmente costosissima. Basti pensare che sul piano del gettito un accorpamento delle aliquote Irpef, in più o in meno, può valere fino a due punti di Prodotto interno lordo. E poi, a meno che non si adotti il modello improvviso della "flat tax", bisognerà comunque trovare il modo di garantire la progressività dell'imposta. E anche questo costa.

Dunque, sì a una Grande Riforma del fisco su base triennale, ma no ai micro-tagli d'imposta varati per decreto. Su questa impostazione, il ministro dell'Economia è pronto ad andare in Parlamento nei prossimi mesi, a cercare un terreno di confronto finalmente bipartisan con l'opposizione. Ne ha parlato con Bersani, e prima ancora anche con il presidente della Repubblica Napolitano, che non a caso nel suo messaggio di fine d'anno ha indicato la riforma fiscale come "priorità", ma inquadrandola in un "progetto d'insieme", che porti a semplificare il sistema e soprattutto ad alleggerire il carico fiscale, prima di tutto sulle famiglie e sul lavoro dipendente. È quello che, senza fretta e senza demagogia, ha in testa Tremonti: "La riforma fiscale è una partita di enorme rilievo politico, sociale, filosofico, culturale", dice. Questa volta non si può bluffare: il governo la deve giocare con serietà e responsabilità. In quindici anni, sul fisco, il Cavaliere ha seminato solo false promesse. "Meno tasse per tutti" fu uno dei cardini del famoso "contratto con gli italiani" del 2001. Una colossale fregatura, che non si può ripetere.
 
© Riproduzione riservata (10 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il tempo della disuguaglianza
Inserito da: Admin - Gennaio 11, 2010, 06:10:26 pm
Massimo Giannini


Il tempo della disuguaglianza


La crisi non è uguale per tutti. Tito Boeri, economista della Voce.info ha scritto un libro per dimostrarlo. Ora arrivano nuovi dati dell'Istat, sul terribile 2009, a confermare quanto già temevamo. Il crollo del potere d'acquisto delle famiglie italiane, nel periodo ottobre 2008-settembre 2009, è più che proporzionale rispetto all'andamento del tasso di inflazione. È il segno che i numeri ufficiali non dicono tutta la verità sulle condizioni reali del Paese. La recessione, come è già accaduto in altre fasi storiche, colpisce in modo trasversale ma agisce in modo selettivo. Ma la costante, passato presente e futura, è che con le crisi economiche si accrescono ulteriormente le disuguaglianze dei redditi. Nel periodo 1991-1992 questi divari aumentarono in Italia del 5 per cento, e la povertà crebbe del 4 per cento. Nel periodo 2008-2009 l'economia finanziaria, industriale e domestica ha subìto un trauma molto più profondo e complesso rispetto a quindici anni fa. E dunque, per effetto della crisi, più estese e potenzialmente incolmabili saranno le distanze tra le varie fasce sociali e le diverse categorie di reddito.

Il governo Berlusconi porta la responsabilità di non aver voluto riconoscere per tempo questo dramma, e dunque di non averlo voluto affrontare con il necessario coraggio politico. Si è colpevolmente baloccato nella fantasiosa convinzione che il Belpaese ne sarebbe uscito meglio di altri, e che il nostro sistema di Welfare e di ammortizzatori sociali era il migliore del mondo. Ora sappiamo che non è così. E anche l'esecutivo, forse, se ne rende conto. Per questo Tremonti rilancia la riforma fiscale. E fa bene a farlo. I dati dell'Istat confermano quanto ci sia bisogno, in questa scellerata nazione, di un po' di cara, vecchia, keynesiana redistribuzione del reddito. Ma proprio per questo, quando si parla di rimettere mano alle aliquote Irpef secondo i dettami del Libro Bianco del '94, servirebbe un'estrema cautela.

Come dimostrano le simulazioni della Cgia di Mestre, il sistema delle due sole aliquote (23 e 33 per cento) rischia di ampliare ulteriormente la forbice il piano basso e quello alto della piramide sociale. Se con la nuova "curva" impositiva una famiglia con un figlio a carico e due redditi per un totale di 21.500 euro risparmia solo 520 euro l'anno, mentre la stessa famiglia senza figlio a carico risparmia la bellezza di 2.320 euro, vuol dire che non siamo sulla buona strada. Meno tasse per tutti è un principio sacrosanto. Ma lo è ancora di più quello della progressività dell'imposta, sancito anche dalla Costituzione. L'Italia ha un tragico problema che riguarda i salari del lavoro dipendente, falcidiati dal carico fiscale e contributivo. È lì che deve agire la riforma fiscale, come ha detto il presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine d'anno. Ed è lì che deve muoversi il governo di centrodestra. Anche se non è quello il suo bacino politico-elettorale, quello dovrebbe essere il suo dovere etico-morale.

(11 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'eterno ritorno
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2010, 05:16:26 pm
IL COMMENTO

L'eterno ritorno

di MASSIMO GIANNINI


La "fase due" del governo, che contemplava la "rivoluzione fiscale" e le "grandi riforme nell'interesse del Paese", corre sullo stesso binario dal quale si è mossa la terza legislatura berlusconiana. All'indomani del trionfo del 13 aprile 2008 il primo atto dell'esecutivo fu il Lodo Alfano. Oggi, venti mesi dopo, il primo atto della "ripartenza" è un decreto legge che sospende i processi del presidente del Consiglio. Nella parabola del Cavaliere non esiste un nuovo inizio, ma solo un eterno ritorno. Oggi, il Consiglio dei ministri dovrebbe approvare quella che, ad un parziale e sommarissimo esame, appare come l'ennesima "ghedinata", benché concepita molto meglio delle precedenti.

Il provvedimento ha una tortuosa discendenza giuridica. Congelerà i procedimenti penali nei quali il pm abbia chiesto e ottenuto, durante il dibattimento, "contestazioni suppletive" a carico dell'imputato (Berlusconi rientra nella fattispecie, avendone subite sia nel processo Mills che in quello sui diritti tv Mediaset). La norma "sospensiva", studiata come sempre dagli avvocati-parlamentari del premier, si renderebbe necessaria per consentire allo stesso imputato, sottoposto ai nuovi addebiti, di scegliere il rito abbreviato (che in base al codice attuale gli sarebbe permesso solo nella fase precedente, cioè nell'udienza preliminare). Il tutto, sulla base di un principio di "parità" di trattamento del cittadino di fronte alla legge fissato dalla Corte costituzionale in una sentenza pubblicata giusto il 14 dicembre scorso, passata inosservata ma foriera di effetti "straordinari" (nel senso letterale, cioè "non ordinari").

È sulla base di questa sentenza, infatti, che Berlusconi può sperare in un via libera al decreto da parte del presidente della Repubblica. Volendo seguire le sue false promesse di riconciliazione disseminate in queste ultime settimane, verrebbe da chiedere al premier perché non ha anticipato a Giorgio Napolitano l'intenzione di presentare questo provvedimento nel suo incontro al Quirinale di due sere fa. Oppure, volendo seguire le sue eversive minacce di strumentalizzazione formulate in questi ultimi mesi, si potrebbe chiedere al premier perché oggi gli torna utile la pronuncia di quel "covo di comunisti" rinchiusi nel palazzo della Consulta, e se anche quella costituzionale, stavolta, si possa definire "giustizia a orologeria". Ma mettiamo da parte la correttezza istituzionale e la coerenza personale, che è materia indisponibile nel presidente del Consiglio.

Mai come in questo caso, di fronte ad una vicenda così delicata, ci rimettiamo alla saggezza del Capo dello Stato. Al suo ruolo di custode delle regole e di garante delle istituzioni. Sta a lui valutare se una misura "straordinaria" come questa (sia pure finalizzata a colmare una lacuna dell'ordinamento vigente già rilevata dalla Consulta) possieda effettivamente i requisiti di "necessità e urgenza" richiesti dalla Costituzione. Sta a lui giudicare se una sospensione dei processi, che consenta all'imputato di esercitare anche in fase dibattimentale il diritto al rito abbreviato, si possa raggiungere anche attraverso la semplice "fisiologia" della procedura penale (cioè le decisioni dei singoli giudici, attraverso le istanze di remissione), oppure attraverso il ricorso alla legislazione ordinaria (cioè le decisioni del Parlamento, attraverso un disegno di legge).

Ma di questo provvedimento, nel frattempo, possiamo denunciare senz'altro la rovinosa conseguenza politica. Ancora una volta, il Paese e il Parlamento sono paralizzati dalla permanente ossessione giudiziaria del presidente del Consiglio. Le istituzioni sono ostaggio della sua costante emergenza processuale. In questo clima (come dimostra il surreale annuncio sulle tasse e su due sole aliquote Irpef) per il governo non esiste un'altra "agenda". Non esistono altre "priorità". Soprattutto, non esistono "riforme". Com'è logico e giusto, di fronte all'ennesima forzatura del Cavaliere il Pd chiude tutte le porte al confronto. Anche quelle poche che erano state aperte, con troppa fretta e troppa approssimazione.
Bersani, legittimamente, aveva detto: discutiamo di tutto, a patto che il premier rinunci alle leggi "ad personam". È successo l'esatto contrario, ed ora l'opposizione annuncia l'ostruzionismo, com'è suo dovere in una democrazia degna di questo nome. Così finisce il gigantesco equivoco del "dialogo", che in realtà era solo una colossale trappola. Così svaniscono i propositi gandhiani del premier. A prenderla sullo scherzo, torna in mente un vecchio film di Massimo Troisi: pensavo fosse amore, invece era un calesse. Ma nell'Italia berlusconiana, ormai, non c'è proprio niente da ridere.

© Riproduzione riservata (13 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il cimitero del diritto
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2010, 06:10:55 pm
IL COMMENTO

Il cimitero del diritto

di MASSIMO GIANNINI


Con un tocco di comicità involontaria, il presidente del Consiglio dice l'indicibile: non si presenta nelle aule dei processi Mills e diritti tv Mediatrade perché il tribunale di Milano è "un plotone di esecuzione". Ma nello stesso giorno in cui si lascia andare all'ennesimo attacco contro la magistratura, lui stesso trasforma le aule del Parlamento nella "camera a gas" del diritto. Non c'è altro modo per definire il via libera del Senato alla riforma del cosiddetto "processo breve". Oggi si celebra la morte della giurisdizione, violata e uccisa in nome di tutti, ma per salvare la vita di uno solo. Un'altra legge ad personam, la ventesima in quindici anni, che fingendo di stabilire termini rigorosi per l'avvio e la conclusione dei processi, e nel rispetto apparente del riformato articolo 111 della Costituzione, ha come unico scopo quello di considerare automaticamente "estinti" i due processi che vedono ancora coinvolto Silvio Berlusconi. La micidiale "norma transitoria" stabilisce che i limiti temporali ridotti riguardano tutti quei processi in corso "per reati coperti dall'indulto e puniti con pena pecuniara o detentiva inferiore ai 10 anni". In questi casi, con la nuova legge il giudice dichiara il "non doversi procedere per estinzione" del processo se sono decorsi 2 anni da quando il pm ha avviato l'azione penale e se non è stato definito ancora il primo grado di giudizio.

È qui l'ennesima "ghedinata". Il cavillo inventato dai Dottor Stranamore del diritto che assistono Silvio Berlusconi, e che hanno ritagliato a misura per lui l'ultima norma-vestitino, grazie alla quale gli ultimi due processi che ancora lo riguardano finiranno sepolti nel cimitero della giustizia. Può tuonare quanto vuole, il premier, contro l'opposizione che sale sulle barricate e l'intero corpo delle toghe civili e penali che rilancia il suo allarme. Può ripetere all'infinito, con l'impudenza di Don Rodrigo, che questa "non è una legge ad personam". Lo smentisce, per paradosso, uno dei suoi "bravi" più truci e fedeli. Maurizio Gasparri afferma sicuro: "La legge non cancellerà la giustizia, e infatti riguarderà solo l'1 per cento dei processi". È la prova regina che serviva, per dimostrare che siamo ancora una volta allo "stato di eccezione" decretato nell'interesse esclusivo del premier. Delle due l'una. O c'è un'esigenza pubblica di abbreviare i processi che riguarda tutti i cittadini, e allora è necessario che la nuova legge incida su tutte le cause pendenti. Oppure c'è un'urgenza privata che riguarda solo un cittadino, e allora è sufficiente che la nuova legge incida solo sui suoi e su pochi altri processi. "L'1 per cento", secondo Gasparri. È questa la posta in gioco della pretesa "riformatrice" del centrodestra. È in nome di questa che si fa scempio delle regole costituzionali, a partire dal principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Poco importa se, in quell'1 per cento, con la nuova legge si farà strage di processi enormi come Cirio-Parmalat, Antonveneta-Bnl ed Eni Power. La sola cosa che importa è che, con quell'1 per cento, muoiano i due processi pendenti del Cavaliere. È un brutto giorno per la nostra democrazia, che si indebolisce ogni giorno di più. Ma è anche una bella lezione per il Pd, che si illude di "trattare" sulle riforme con Berlusconi. Se nel campo di battaglia della giustizia c'è davvero un "plotone di esecuzione", non lo comandano certo le "toghe rosse" del Tribunale di Milano, ma semmai le "anime nere" del Partito delle Libertà.

m.giannini@repubblica.it

© Riproduzione riservata (20 gennaio 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Geronzi verso le Generali il potere economico si blinda
Inserito da: Admin - Febbraio 01, 2010, 10:32:28 am
LO SCENARIO

Geronzi verso le Generali il potere economico si blinda

di MASSIMO GIANNINI


Nel capitalismo italiano c'è una "bomba" innescata. Se esplodesse rivoluzionerebbe in modo profondo, anche se gattopardesco, la fisionomia del potere economico del Paese. Nella prossima primavera Cesare Geronzi potrebbe diventare presidente delle Generali. Con la soddisfazione dei "soliti noti" del Salotto Buono, che possono continuare a dormire sonni tranquilli al riparo dei patti di sindacato e a dispetto dei conflitti di interesse. E con la benedizione di Silvio Berlusconi, che può contare su un riassetto dell'establishment per lui tutt'altro che sfavorevole. Se n'era parlato più volte, dopo l'estate. Poi l'ipotesi era stata accantonata. Ora è invece tornata d'attualità, nei palazzi che contano a Roma e a Milano. Anche se, con ogni probabilità, i diretti interessati la smentiranno. Il momento è propizio. L'opinione pubblica è distratta. Da una parte le faide sulle regionali e lo scontro sulla giustizia. Dall'altra la grottesca "corrida spagnola" su Telecom, che adesso il governo di centrodestra sta per vendere sottobanco a Telefonica, dopo aver costruito nel 2008 una campagna elettorale populista e sciovinista per salvare l'Alitalia "tricolore".

Nel frattempo, le "casematte" della finanza si riorganizzano. Per consolidare gli assetti azionari, e tenere lontani gli outsider. Per conservare gli organigrammi, e garantire le catene di comando.
Geronzi, dunque, si prepara all'"arrocco" perfetto. La prima mossa, nella grande scacchiera del credito, fu la "variante di Luneburg": nel maggio 2007 lascia Roma e se ne va a Milano. "Sacrifica" il suo pezzo più pregiato, Capitalia (creatura plasmata attraverso la fusione da Prima Repubblica tra Cassa di Risparmio, Banco di Roma e Banco di Santo Spirito) per approdare a Mediobanca. Ascende al trono che fu del Grande Vecchio del capitalismo italiano, Enrico Cuccia, e apre la partita a nuovi scenari, nuove combinazioni. Ora potrebbe scattare la seconda mossa. Per salvare se stesso, e per blindare gli equilibri di un sistema finanziario sempre più cristallizzato, sarebbe pronto a fare un altro salto. Lasciare Milano, e andarsene a Trieste. Al vertice della più grande compagnia d'assicurazione italiana, una delle "prede" più ambite per la finanza internazionale.

Tutto ruota intorno ai suoi problemi giudiziari. L'attuale presidente di Mediobanca è stato prosciolto per il crac Federconsorzi. È stato assolto in appello per il crac Italcase, dopo esser stato condannato in primo grado. È indagato per usura aggravata e concorso in bancarotta fraudolenta per il crac Parmalat-Ciappazzi, e il processo in corso a Parma è molto insidioso. È stato rinviato a giudizio per estorsione e bancarotta societaria per il filone Eurolat, e il processo è stato trasferito a Roma. È indagato per frode nel crac Cirio. La sua posizione di banchiere, che presuppone precisi requisiti di onorabilità, diventerebbe insostenibile se qualcuno dei procedimenti in corso dovesse portare ad un'altra condanna. La legge bancaria non perdona, secondo la declinazione severa del governatore della Banca d'Italia Draghi. Nelle assicurazioni la legislazione è più lasca. Per questo Geronzi, smentendo tutto in pubblico, da mesi in privato si tiene aperta la porta delle Generali. Nella compagnia del Leone Alato il presidente attuale è Antoine Bernheim, un signore di 83 anni suonati che viene dalla Banque Lazard del mitico Andrè Meyer. Non proprio un ragazzino, anche se in teoria dovrebbe restare in carica anche il prossimo anno. Ma nessuno gli ha assicurato la riconferma, come ha detto lui stesso ai primi di settembre. Qualche amico, oltrefrontiera, gli ha dato una mano. L'11 settembre Emilio Botin, presidente del Banco Santander azionista di Generali con lo 0,3%, ha azzardato: "Per me Bernheim è un presidente fantastico". Il 18 settembre Vincent Bollorè, azionista di Mediobanca, ha ribadito "Antoine è un ottimo presidente".

Ma i grandi azionisti italiani, quelli che decidono sul serio, hanno taciuto tutti. E ora, da Trieste, una fonte qualificata conferma: "Il destino di Bernheim è segnato". All'assemblea di primavera, suo malgrado, l'ottuagenario Bernheim se ne andrà in pensione. "Antoine si metta l'anima in pace  -  dicono fonti vicine alla compagnia - quel posto è di Geronzi". Questo avrebbe deciso il patron di Mediobanca, insieme agli amici del Salotto Buono. Così il primo eviterebbe contraccolpi di natura giudiziaria, e i secondi preverrebbero fastidi di origine finanziaria. Ma come in ogni partita a scacchi, una mossa ne innesca molte altre. L'intreccio azionario della vecchia Galassia del Nord è micidiale. È impossibile muovere una pedina senza che l'intera scacchiera si metta in movimento. E così, se Geronzi andasse in Generali, lascerebbe sguarnita la poltrona di Mediobanca. E Piazzetta Cuccia è il cuore del sistema, la cassaforte dov'è racchiuso quel tanto o poco che ancora conta in Italia.

Mediobanca, con una quota del 14,75%, è il primo azionista di Generali. Con un 14,2% di capitale è anche primo azionista nel patto di sindacato Rcs Mediagroup (con la Fiat, la Pirelli, le stesse Generali, Intesa San Paolo, Fonsai, Italmobiliare e Dorint) e insieme a Generali controlla Telecom, con un 11,6% detenuto nella holding Telco. A sua volta Generali, con un 2% controllato direttamente e un altro 2% attraverso le partecipate, è uno dei soci forti del patto di sindacato Mediobanca. È secondo azionista di Banca Intesa con oltre il 5%, dopo la Compagnia di San Paolo e insieme ai francesi di Credit Agricole, e partecipa al patto di sindacato di Pirelli con il 4,4%, insieme alla stessa Mediobanca, alla stessa Intesa San Paolo e alla Fonsai di Ligresti.
Un groviglio spaventoso, dove i controllati controllano i controllanti, e ovviamente viceversa. Per questo, per un Geronzi che traslocasse a Trieste, ci sarebbe bisogno di un presidio sicuro a Milano. E qui, secondo fonti finanziarie milanesi, entrerebbe in partita Marco Tronchetti Provera, attuale vice di Geronzi insieme a Dieter Rampl (in quota Unicredit). Nel rito geronziano toccherebbe a lui il passaggio da presidente della Pirelli (controllata da Mediobanca-Generali e a sua volta azionista di Mediobanca) a presidente di Piazzetta Cuccia. "Per l'establishment sarebbe la scelta più sicura  -  dice un banchiere  -  perché arrivando da una Pirelli non proprio in salute garantirebbe tutti i soci forti della Galassia e rimetterebbe in gioco lui dopo i guai di Telecom". Sarebbe un doppio salto mortale. Oltre tutto, a quanto si sa, per niente gradito a Draghi. Ma bastano i dubbi di Via Nazionale a bloccare questi numeri da circo? Lo show-down, oltre tutto, non si fermerebbe qui. Geronzi, stavolta secondo fonti romane, benché traslocato a Trieste nel più ricco e prestigioso "satellite" della Galassia, vorrebbe continuare ad esserne il centro. Per questo starebbe orchestrando un'operazione ancora più ambiziosa, ancorché macchinosa. Mediobanca annacquerebbe la sua quota in Generali, per far posto nel patto di sindacato ai francesi di Axa (secondo colosso assicurativo europeo) ai quali cederebbe una parte delle sue azioni (ora pari al 2%) anche Francesco Gaetano Caltagirone. Così Geronzi sarebbe più forte e più autonomo. C'è chi dice addirittura al punto di portare in dote alle Generali un maxi-accordo con gli americani di Aig. Ma ci sarebbe una contropartita anche per Caltagirone: per ricambiare il favore fatto ad Axa, i francesi di Suez-Gdf toglierebbero il disturbo da Acea (a sua volta partecipata da Generali con l'1,9%) lasciando definitivamente campo libero nel settore delle acque al costruttore romano, tuttora tra i più "liquidi" in circolazione. Non può essere un caso se, proprio in questi giorni, il sindaco di Roma Alemanno, smentendo clamorosamente quello che aveva giurato un anno fa, ha annunciato l'intenzione del Comune di cedere la quota del 20% detenuta in Acea a "imprenditori legati al territorio". E chi altri, se non Caltagirone, il suocero di Pierferdinando Casini che alle regionali del Lazio venderà il suo pane, guarda caso, al forno della Pdl per sostenere Renata Polverini?

Così si chiuderebbe la partita. Il Sistema sarebbe al sicuro. È a dir poco "barocco". Può esistere solo in un Paese come l'Italia. Tende a preservare se stesso. Ma è un sistema che conviene a molti. A chi ne fa parte (come imprenditore) e a chi se ne serve (come politico). Per questo Berlusconi avallerebbe l'intera operazione di Geronzi su Generali e Mediobanca attraverso Gianni Letta, che in questi mesi non ha mai interrotto i contatti con "l'amico Cesare". Senza considerare che il Cavaliere, in Piazzetta Cuccia, ha ormai un peso fortissimo: è nel patto di sindacato con un 1% intestato direttamente a Fininvest (che per questo un anno fa ha potuto piazzare in cda la sua "presidentessa" Marina, primogenita di Silvio) e un 3,3% controllato attraverso la Mediolanum di Ennio Doris.

Nel blocco di potere politico-economico-finanziario che si cementa nel triangolo Roma-Milano-Trieste tutto si tiene. Completato l'"arrocco", Geronzi e le sue pedine, dietro la regia interessata di Palazzo Grazioli, finirebbero per avere in mano un "caveau" nel quale sono custoditi, nell'ordine, uno dei più grandi giganti assicurativi d'Europa (Generali), la prima merchant bank italiana (Mediobanca), una delle prime due banche commerciali del Paese (Intesa San Paolo), la rete delle telecomunicazioni e il broadband (via Telecom e Pirelli), uno dei primi due giornali nazionali (il Corriere della Sera), le costruzioni (gruppo Ligresti), i servizi idrici ed energetici (Acea). Sarà per questo che chi sembra coltivare progetti alternativi alla Galassia (Luca di Montezemolo) o chi per scelta ne è sempre più ai margini (Alessandro Profumo) viene visto come una "minaccia". E sarà per questo che chi coltiva progetti per il dopo-Berlusconi, come Giulio Tremonti, sta mettendo in piedi un blocco di contro-potere misto, metà pubblico e metà privato, che spazia dalle banche locali alla futura Banca del Sud, dalla Cassa depositi e prestiti alle Poste, dalla Consip alla moltiplicazione delle Spa di Stato nella Difesa e nella Protezione Civile. Ma sarà molto difficile scalfire l'acciaio col quale l'establishment del Grande Nord protegge se stesso e sorregge l'"ordine politico costituito". Alla faccia delle "élite che complottano" contro il Cavaliere, e dei "Poteri Forti che congiurano" contro il governo.

© Riproduzione riservata (01 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI I falsi cadornisti di Palazzo Chigi
Inserito da: Admin - Febbraio 02, 2010, 02:27:23 pm
L'ANALISI

I falsi cadornisti di Palazzo Chigi

di MASSIMO GIANNINI


UNA POLITICA industriale cervellotica e schizofrenica. Non c'è altro modo per giudicare le non-scelte del governo sugli asset stretegici del Paese. Due anni fa, in piena campagna per le elezioni politiche, Berlusconi costruì una sua dissennata linea del Piave per difendere Alitalia dall'assalto dei francesi. Oggi, alla confusa vigilia delle elezioni regionali, il premier sbaracca la sua disastrata linea Maginot per regalare Telecom agli spagnoli.

Non sarà certo "Repubblica" a gridare allo scandalo perché un altro pezzo importante del nostro Sistema-Paese finisce in mani straniere. Certo non si può gioire per questo. Ma già due anni fa considerammo strumentale e anti-storica la difesa sciovinista dell'"italianità" della compagnia di bandiera, e sbagliata perché più incerta e costosa la nascita della "Fenice", la famosa cordata tricolore di Colaninno&soci. Se l'opzione autarchica era di per sé discutibile allora nel trasporto aereo, lo è altrettanto oggi nelle telecomunicazioni. Ma nell'affare Telecom-Telefonica, come giustamente anticipava Paolo Gentiloni su "Affari & Finanza" di ieri, ci sono buchi neri clamorosi.

Il primo buco nero è politico. Se il centrodestra considera l'italianità delle aziende un valore in sé, allora deve farlo valere sempre e non a corrente alternata. Ma ci rendiamo conto che è impossibile esigere coerenza da chi ha costruito la sua intera biografia personale sulle bugie. Tuttavia qui una domanda è d'obbligo: che ruolo avrà Mediaset? C'è qualche nuovo interesse in conflitto, tra la decisione sul destino di un "bene pubblico" come le tlc e la posizione del presidente del Consiglio-proprietario di un impero radiotelevisivo privato? Non sarebbe la prima volta. Ma sarebbe gravissimo se per qualche ragione segreta o per qualche via traversa anche "l'azienda di famiglia" partecipasse alla festa di matrimonio, magari anche solo attraverso partite di scambio lucrate in terra spagnola.

Il secondo buco nero è finanziario. Come si celebreranno le nozze non è affatto chiaro. Telecom è controlata da Telco, la holding che possiede il 22,5% del capitale, suddiviso in quote paritetiche tra Telefonica e i soci italiani (Mediobanca, Generali e Intesa Sanpaolo). Il resto è polverizzato tra migliaia di piccoli azionisti. Qui le domande sono tante. Come avverrà la fusione? Con un'Offerta pubblica di acquisto e scambio? A quali prezzi e con quali valori di concambio? E come saranno tutelate le minoranze? Sarà importante capirlo, per avere la certezza di chi ha vinto la partita (sicuramente Carlos Alierta) e chi potrebbe perderla più di altri (i risparmiatori in Borsa).
Il terzo buco nero è economico.

Nelle condizioni attuali Telecom non può reggere. Ha debiti per 35.185 milioni di euro, deve ridurre il suo perimetro operativo (vedi vicenda Argentina), è costretta a dimezzare gli investimenti. Quando fu privatizzata valeva il triplo di Telefonica: oggi è il contrario. Ma Telecom ha in pancia una risorsa straordinaria: la rete, sulla quale non transitano più solo i telefoni, ma Internet, la banda stretta, quella larga e in prospettiva anche quella ultra-larga. Cioè tutto ciò che serve a modernizzare e a connettere un Paese. La rete è un monopolio naturale, e come sostiene Franco Bernabè non può essere scorporata dall'azienda, senza decretarne l'"eutanasia" industriale.

Qui la domande sono due. Che ne sarà della rete? Chi la controllerà e con quali risorse? Secondo le indiscrezioni, il governo punta a ottenere dagli spagnoli garanzie attraverso clausole e patti para-sociali. Sarebbe bene conoscerli. Già quando nacque Telco agli spagnoli furono imposte ben 28 condizioni. Se ne potranno aggiungere altre 28, o magari 128. Ma alla fine quello che importa sapere non è solo chi sarà il vero "padrone" della rete, ma come potrà farla fruttare, potenziandola e portandola ovunque c'è bisogno.
Speriamo che Berlusconi, Scajola e Romani colmino presto questi buchi neri. Quello che difficilmente riusciranno a dimostrare è che il Paese sta facendo l'affare del secolo. È vero, da questa fusione può nascere il più grande player delle telecomunicazioni globali. Ma l'Italia, ancora una volta, arriva all'altare sconfitta. Per l'insipienza dei politici, molto più che dei manager, è costretta ad arrendersi a un "matrimonio riparatore". La stessa cosa, temiamo, succederà molto presto all'Alitalia con Air France. Ma è questo che piace, evidentemente, ai falsi "cadornisti" di Palazzo Chigi.
m.gianninirepubblica.it
 

© Riproduzione riservata (02 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: GIANNINI La Bce lancia un appello ai governi: A Bruxelles serve un segnale forte
Inserito da: Admin - Febbraio 10, 2010, 12:18:47 pm
L'ANALISI.

Per Bini Smaghi il vero nodo della crisi è politico la moneta unica resiste e l'effetto domino non ci sarà

La Bce lancia un appello ai governi "A Bruxelles serve un segnale forte"

di MASSIMO GIANNINI


"LA crisi peggiore da quando esiste l'euro è anche la prova che l'euro resiste alla crisi...". Con un gioco di parole Lorenzo Bini Smaghi prova a girare in positivo il monito di Joaquin Almunia.

Il membro italiano della Banca centrale europea, dal grattacielo dell'Eurotower, trasmette un messaggio preoccupato, ma non un allarme da "economia di guerra". Nel fortino assediato di Eurolandia sta succedendo di tutto. Il Financial Times evoca una gigantesca ondata speculativa in avvicinamento sulla moneta unica: hedge funds e traders scommettono al ribasso sul collasso debitorio dell'eurozona con posizioni a breve per quasi 8 miliardi di dollari. La Grecia annaspa paurosamente, sommersa da un deficit che supera il 10% del Pil, e per allentare le tensioni sui cambi il governo Papandreu annuncia il pannicello caldo di un aumento di due anni (da 61 a 63) dell'età pensionabile. La Spagna soffre pericolosamente, e per convincere i mercati che Madrid non rischia un default il governo Zapatero spedisce il suo ministro delle Finanze Elena Salgado nella City di Londra, mentre il suo delegato Manuel Campa grida al complotto: "Niente di quello che sta accadendo nel mondo, compresi certi editoriali di giornali stranieri, è casuale e innocente...". Gli spread, per i Paesi del Club Med, sono incandescenti: nei titoli di Stato i differenziali sul bund tedesco fotografano la Grecia a una distanza di 350 punti base e la Spagna a 95, mentre nei "credit default swaps" la Grecia è a quota 390, il Portogallo a 230, la Spagna a 160.

Alla Bce c'è preoccupazione. Non solo per il bradisismo attuale dei mercati, ma anche per l'andamento generale dell'economia: "Le prospettive di ripresa congiunturale del 2010 sembrano meno rosee di come apparivano qualche mese fa...", avverte Bini Smaghi. Ma nelle stesse ore in cui Wolfgang Munchau rievoca il crac del '92, quando l'attacco concentrico della speculazione sulla sterlina e sulla lira mise in ginocchio il Sistema monetario europeo, a Francoforte si ripete come un esorcismo che proprio per questa ragione, se oggi non ci fosse lo scudo dell'euro, il disastro sarebbe molto peggiore di quello di 17 anni fa. "Questa  -  dicono all'Eurotower  -  è una lezione da trarre dalla crisi: siamo di fronte al primo, difficile test sulla tenuta dell'euro, ma l'euro sta dimostrando di poter reggere l'urto". Detto questo, nessuno sottovaluta le criticità che ci sono, e sono tante. Ma mai come oggi, si dice a Francoforte, occorrono nervi saldi e "capacità di cogliere le differenze". La traduzione è semplice: i banchieri centrali al momento non vedono agitarsi per il mondo il fantasma dell'"effetto-domino", ma vedono aggirarsi per l'Eurozona un vero grande malato, che è la Grecia. Un Paese "con un deficit al 12,7% del Pil, che si è permesso il lusso di raddoppiare gli stipendi nel pubblico impiego". La Spagna ha un deficit altrettanto alto, "ma per esempio ha un debito inferiore al 50% del Pil". La stessa Irlanda, nonostante i disastri bancari, "ha preso il toro per le corna e ha varato interventi severi che i mercati hanno registrato positivamente". Ma ad Atene la situazione è molto più grave. Soprattutto per la debolezza politica del governo, che non sembra in grado di imporre al Paese le cure draconiane di cui avrebbe bisogno.

Questo, soprattutto, spaventa la Bce, dove si ripropone l'antico e irrisolto peccato originale di Eurolandia: un'area che può contare sull'unità monetaria ma non sulla sovranità politica. Uno strano pezzo di mondo in cui, come sostiene l'economista della Goldman Sachs Thomas Stolper, un insieme di stati nazionali battono la stessa moneta ma non praticano la stessa disciplina fiscale. Anche in questo momento di acuta fibrillazione monetaria e finanziaria, ripete Bini Smaghi, "il nodo è interamente politico". E non serve invocare la "congiura mercatista", come fanno in alcune capitali europee. "Speculazione sì, cospirazione no", ammonisce opportunamente Miguel Jiménez sul Pais. Accusare i mercati, per la politica, è solo una via di fuga dalla propria "mission". Può sembrare il solito mantra autoassolutorio caro a tutte le tecnocrazie, culturalmente apolidi e politicamente irresponsabili. Ma anche stavolta ha un oggettivo fondo di verità.

Per questo, da Francoforte, si guarda con grande attesa al meeting europeo di domani, a Bruxelles. "Lo scorso anno, dal vertice convocato da Sarkozy sulle banche, arrivò un segnale forte da parte dei governi, che servì a placare i mercati in una fase di grande difficoltà per le crisi creditizie. Dal summit di giovedì ci aspettiamo un esito analogo". I segnali sembrano propizi. Il vertice sarà un battesimo di fuoco per la leadership del neo-presidente europeo Van Rompuy. La Commissione non esclude una forma di aiuto alla Grecia. La stessa Germania, sempre restia a lanciare ciambelle di salvataggio ai paesi lassisti, apre spiragli sugli aiuti bilaterali. Anche la Francia appare possibilista alla vigilia dell'arrivo a Parigi del premier greco, che oggi sarà ospite all'Eliseo. Sul tema dei "bailouts" la Bce è invece molto cauta: si tratta di capire di che aiuti si tratta, e quali vincoli si impongono a chi li riceve. Non si può dare a un Paese l'impressione che si possa derogare ai vincoli di bilancio nella convinzione che altrove esista sempre un pagatore di ultima istanza. Ma soprattutto quello che non si deve fare è chiedere il "soccorso esterno" all'Fmi. Se alla prima difficoltà della moneta unica si fa ricorso al sostegno di un'istituzione esterna all'eurozona si lancia un messaggio politico rovinoso.

In un paesaggio globale così inquietante, per puro paradosso, la piccola Italia sembra quasi un'oasi di pace. Il differenziale dei Btp sul Bund tedesco si è mantenuto intorno agli 86 punti base: poca roba rispetto alla forbice che tormenta i "Pigs". Finora il Tesoro non ha avuto difficoltà a gestire il collocamento dei suoi titoli, e non si prevedono rischi per l'asta di Bot annuali da 7 miliardi in programma per oggi. Bini Smaghi traccia un quadro tutto sommato rassicurante: "Il debito resta molto alto, ma il deficit si mantiene entro livelli accettabili. Certo, le riforme strutturali sono più che mai urgenti e ancora non si vedono, ma in un ciclo di grande turbolenza come questo anche l'eccesso di prudenza può sembrare una virtù...". Di qui a vantarsene come fa Berlusconi, tuttavia, ce ne corre. Nel Belpaese gli italiani cantano "meno male che Silvio c'è". A Francoforte non si uniscono al coro: ripetono "meno male che l'euro c'è".

© Riproduzione riservata (10 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'illusione dell'onnipotenza
Inserito da: Admin - Febbraio 15, 2010, 04:56:00 pm
L'ANALISI

L'illusione dell'onnipotenza

di MASSIMO GIANNINI


Prima accecato dai suoi deliri di onnipotenza e poi tradito dalla sua stessa tracotanza, il governissimo Berlusconi-Bertolaso prepara un'indecorosa ritirata. L'insano progetto della Protezione civile Spa, con ogni probabilità, non si farà più. Lo lasciano intendere le flautate ma imbarazzate parole di Gianni Letta. Lo confermano quelle meno paludate di Paolo Bonaiuti. Il decreto legge 90/2008 che trasforma la struttura pubblica creata per fronteggiare le grandi emergenze in una società per azioni di natura privatistica sarà riscritto radicalmente alla Camera. In subordine, sarà approvato a Montecitorio, ma poi sarà abbandonato su un binario morto al Senato.

Nel turbine di uno scandalo nello scandalo (il disossamento di un pezzo dello Stato, nel cuore di una Tangentopoli di appalti truccati, costi gonfiati e favori sessuali prestati) arriva finalmente una buona notizia. Il Leviatano delle Spa pubbliche non nascerà. Il nuovo "mostro" che privatizza le istituzioni, con il finto pretesto delle emergenze e la pratica incontrollata delle ordinanze, muore prima ancora di essere nato. Merito della denuncia di questo giornale, che per primo ha acceso i riflettori sul  tentativo del governo, neanche troppo strisciante, di sospendere ancora una volta le garanzie costituzionali e le procedure legali, per trasformare il Paese in un gigantesco "cantiere" autonomo che lavora in deroga permanente a tutte le regole e le normative vigenti. Merito della reazione determinata di una parte delle opposizioni, che ha dato battaglia in Parlamento. Merito dell'indignazione spontanea di tanti cittadini, a partire dagli oltre 30 mila che in un solo giorno hanno aderito all'appello di "Repubblica", per confermare che c'è almeno un pezzo d'Italia pronta, in nome del senso civico e del dissenso democratico, a resistere alle forzature populiste e autoritarie del potere berlusconiano.

Ora il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio ha un bel dire che nel centrodestra nessuno pensava di "trasformare la Protezione civile in una spa", e che si voleva dotare l'organismo finora guidato da Bertolaso di "uno strumento ulteriore, aggiuntivo". Il centrodestra, in realtà, aveva in mente esattamente questo: un modello di amministrazione della cosa pubblica, gestita da mani fidate per conto di Palazzo Chigi. Il piano prevedeva prima la nascita della Protezione civile Spa, con budget iniziale stimato in 1 miliardo 607 milioni. Poi, per partenogenesi, anche la Difesa Servizi Spa, con un portafoglio di opere calcolabile in 3-5 miliardi. E così via. In un regime di palese sospensione dei controlli ordinari. E in un quadro di palese violazione della sentenza numero 466 della Consulta, che nel '93 stabilì l'imprescindibilità costituzionale del controllo della magistratura contabile su tutti gli atti di una Spa nella quale il potere pubblico detenga la maggioranza.

Questo disegno (ancora una volta tecnicamente "eversivo", nel solco di quella "rivoluzione istituzionale" propria del berlusconismo) si infrange nella rete micidiale del malaffare che lo stesso sistema tende a riprodurre. Una colossale ragnatela di inchieste vere e di complotti inventati, di intercettazioni e di pedinamenti, di autentiche satrapie e di false fisioterapie. Sembra di leggere "L'incanto del lotto 49". Con una sola, decisiva differenza. Nell'irrealtà virtuale raccontata da Thomas Pynchon erano i cittadini ad aver creato, con il "Trystero", un sistema di comunicazione che ingannava il governo. Nella realtà fattuale costruita da Berlusconi è il governo ad aver creato un sistema di gestione che danneggia la democrazia. Ma almeno stavolta non ha funzionato. Qualcuno li ha sorpresi con le mani nella gelatina.

m.giannini@repubblica.it

© Riproduzione riservata (15 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Mediobanca, Geronzi accelera la successione
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2010, 09:13:22 am
LO SCENARIO

Mediobanca, Geronzi accelera la successione

di MASSIMO GIANNINI


Tra Roma, L'Aquila e Firenze piccole "mosche del capitale" ronzano sulla gelatina della Protezione civile. Intanto, a Nord, i pezzi grossi del capitalismo si riorganizzano. Nel silenzio discreto dei salotti buoni, l'establishment continua a lavorare alla sua blindatura. Al centro dei giochi, ancora una volta, Cesare Geronzi.

Ieri, a Milano, è stata una vorticosa giornata di incontri. Il presidente di Mediobanca ha ricevuto il ceo del Montepaschi Siena Giuseppe Mussari, appena designato al vertice Abi. Poi ha visto Diego Della Valle, patron del gruppo Tod's, membro del patto di sindacato di Piazzetta Cuccia e consigliere delle Generali. Subito dopo, nel suo ufficio è entrato il costruttore romano Pierluigi Toti, patron della Lamaro e titolare di un 5% della controllata Rcs. Nelle stesse ore, in attesa del faccia a faccia tra lo stesso Geronzi e Giovanni Bazoli (annunciato ieri da Repubblica e poi rinviato) il direttore generale di Mediobanca Renato Pagliaro (che è anche consigliere di Telecom) ha varcato la soglia di Cà de Sass, per un incontro con il ceo di Intesa Corrado Passera.

Che sta succedendo? Le partite in corso sono due. La prima riguarda Telecom, ed è la più complicata viste le difficoltà tecniche sorte intorno alla già decisa fusione con Telefonica, soprattutto a proposito del destino della rete che, se scorporata, ridurrebbe il gruppo italiano a una mezza scatola vuota e renderebbe meno conveniente l'operazione per gli spagnoli. La seconda partita riguarda il futuro prossimo della Galassia del Nord, cioè del centro di potere che ruota sull'asse Mediobanca-Generali, crocevia delle partecipazioni (incrociate e non) tra i maggiori gruppi industrial-finanziari del Paese: da Intesa a Rcs, da Telecom a Unicredit, da Fiat a Pirelli, da Fininvest a Ligresti. Su questo fronte, in queste ore si va consolidando il progettato "arrocco" di Geronzi. Il banchiere di Marino è sempre più in difficoltà per le sue vicende giudiziarie: mercoledì scorso l'ex direttore finanziario di Parmalat Fausto Tonna ha dichiarato in tribunale che il gruppo di Collecchio subì forti pressioni dalla Banca di Roma e dallo stesso Geronzi per acquistare Eurolat dalla Cirio di Sergio Cragnotti. A questo punto il suo trasloco a Trieste, sulla plancia di comando delle Generali, viene dato quasi per sicuro. Il tentativo dell'83enne Antoine Bernheim di resistere ancora per un anno è fallito. Persino Francesco Gaetano Caltagirone, sabato scorso, gli ha dato un "benservito" pubblico. È il segnale che l'operazione Geronzi è partita. In questa chiave vanno letti gli incontri di ieri a Piazzetta Cuccia: il sempiterno Cesarone della finanza nazionale ha avviato la sua "campagna elettorale" con i soci di Mediobanca.

Ma mentre per Geronzi alla guida delle Generali non ci dovrebbero essere problemi, qualche problema c'è per la "subordinata" che i Poteri Forti avevano in mente: Marco Tronchetti Provera presidente di Mediobanca. Su questo ulteriore giro di poltrone c'è più di un intoppo. Il primo intoppo si chiama Alessandro Profumo: il ceo delegato di Unicredit, socio principale con l'8,7% del capitale, ha detto a Milano Finanza sabato scorso che se ci fossero cambiamenti in Piazzetta Cuccia "non staremmo certo a guardare e faremmo valere il nostro ruolo di azionisti". Il secondo intoppo si chiama Mario Draghi: il governatore di Bankitalia non vede con favore il moltiplicarsi dei conflitti di interesse che si produrrebbe con il passaggio del controllato Tronchetti al vertice del controllante Mediobanca. Il terzo intoppo si chiama proprio Tronchetti: interrogato sul tema e fiutata l'aria non proprio favorevole per lui, dice lapidario "sto bene in Pirelli, altre ipotesi non esistono". Così Geronzi, che come dice un'autorevole fonte milanese "non può trasferirsi in Generali e poi prendere ordini da chi lo sostituirà in Mediobanca", avrebbe già preparato un "piano B". Il suo candidato per la poltrona che fu di Cuccia e di Maranghi sarebbe proprio Pagliaro, suo attuale direttore generale a fianco all'amministratore delegato Alberto Nagel nella complessa governance dell'istituto.

Ma anche questa candidatura non è così agevole da far ingoiare a tutti i soci del patto, e più in generale ad un sedicente Gotha finanziario abituato a considerare Mediobanca una "istituzione", che dunque richiede al suo vertice (con tutto il rispetto dovuto a Pagliaro) una figura "di più alto profilo". Così, secondo i rumors, i dubbi del "rito ambrosiamo" sarebbero superati dalle certezze del "rito romano". Se Pagliaro non superasse l'esame dei Poteri Forti, l'alternativa sussurrata in un orecchio allo stesso Geronzi dal suo storico padrino politico Gianni Letta sarebbe Lamberto Cardia. L'attuale presidente della Consob è amico intimo del Gran Ciambellano del berlusconismo. Scade nella prossima primavera, e stavolta gli sarà impossibile farsi allungare ulteriormente il mandato. Sarebbe perfetto, per presunta autorevolezza e per sicura tempistica, per un passaggio a Mediobanca. Chi meglio dell'ex controllore della Borsa italiana, per guidare un gigantesco ircocervo che riassume su di sé il controllo di mezzo listino azionario del Paese?

Un'operazione del genere suggellerebbe quella marcia del potere romano sulle roccaforti del Nord della quale si parla da settimane. Ma come sempre, quando si palesa un'avanzata capitolina del già onnipotente Gianni Letta si innesca subito una resistenza uguale e contraria nella truppa padana del governo. Giulio Tremonti, infatti, sta cercando un posto per Vittorio Grilli, stanco di guerra alla direzione generale del Tesoro. Gli aveva promesso la poltrona di governatore di Bankitalia, in caso di vittoria di Draghi nella corsa per la Bce. Ma non appena l'ipotesi è trapelata Lorenzo Bini Smaghi, membro del board della Banca centrale europea, ha fatto sapere che, semmai SuperMario raggiungesse l'ambita méta a Francoforte, il soglio di Via Nazionale spetterebbe a lui per ovvie ragioni: dal consiglio Bce, per statuto, non ci si può dimettere se non in presenza di un altro e più alto incarico istituzionale. Per questo, al Divo Giulio di Via XX Settembre sarebbe venuta in mente la suggestione: "dirottare" Grilli su Mediobanca. Il che, per questo capace grand commis dello Stato, sarebbe un fior di dirottamento.

Le manovre sono in pieno corso. Non è ancora certo quale sarà l'esito di questa guerra di posizione. Ma qui, nel campo di Agramante dell'anomalia italiana, si sta consumando l'ultimo, grande scontro di potere che mescola interessi economici e rendite politiche. Comunque vada a finire, sembra chiaro l'"utilizzatore finale": Silvio Berlusconi.

© Riproduzione riservata (17 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il partito mai nato
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2010, 03:01:21 pm
Nello scandalo della protezione civile è racchiusa la parabola del Pdl una felice e astuta intuizione del capo che ne riflette tutti i limiti

Il partito mai nato

di MASSIMO GIANNINI


NELLA massa gelatinosa dello scandalo sulla Protezione civile è racchiusa la parabola di un partito mai nato.
Invischiato tra le logiche politiche di governo e le pratiche affaristiche del sottogoverno, il Pdl si disvela per quello che era ed è rimasto fin dal giorno della famosa "Rivoluzione del predellino": una felice ed astuta intuizione del Capo, che ne riflette tutti i limiti culturali e ne amplifica tutti i vizi individuali. L'ennesima proiezione avventuristica del solito "partito personale", dalla quale non si è mai generato un vero "personale di partito".

Questo dicono i veleni spurgati dalla ferita aperta nel cuore del potere berlusconiano, che macchiano per la prima volta la camicia bianca immacolata di Gianni Letta. Questo dimostrano le vipere uscite improvvisamente dal nido scoperchiato dalle inchieste delle procure, che si mordono tra loro contendendosi quello che Giuliano Ferrara sul Foglio chiama "l'osso della successione". Questo conferma l'ultimo scontro durissimo tra il premier e Fini, sulla lettura della nuova Tangentopoli, sulla natura delle inchieste giudiziarie in corso, sulla fattura delle cosiddette "liste pulite".

Due anni fa la fusione "a caldo" tra Forza Italia e Alleanza Nazionale fu la cosa giusta da fare. Ma il modo in cui è stata prima concepita e poi gestita testimoniano il sostanziale fallimento al quale stiamo assistendo. In quel pomeriggio freddo di Piazza San Babila, a Milano, Berlusconi si è "annesso" un Fini alle corde, alla vigilia del voto del 13 aprile 2008. L'operazione è riuscita perfettamente dal punto di vista elettorale. Il Partito del Popolo delle Libertà, blindato dal rituale patto di sangue con la Lega di Bossi, ottenne allora un successo clamoroso, con una maggioranza parlamentare senza precedenti nella storia repubblicana. Si disse allora, giustamente, che il Cavaliere aveva compiuto il suo capolavoro. Dopo quasi quindici anni vissuti pericolosamente, tra populismo mediatico e autoritarismo politico, era finalmente riuscito a cementare un blocco sociale largamente maggioritario nel Paese: una nuova destra. Non ancora risolta. Non del tutto europea.

Ma il dado era tratto, e il cantiere ormai aperto. L'originario "partito di plastica" lasciava il campo a un "partito di ferro", articolato negli organigrammi e radicato nei territori. L'anchorman di Arcore non aveva più solo un suo pubblico, aveva finalmente un suo popolo. Su tutto questo, dopo aver fatto Forza Italia, avrebbe dovuto fare i "suoi" italiani. Moderati e conservatori, ma nel cambiamento. Su tutto questo, in altre parole, avrebbe dovuto costruire un nuovo progetto politico, culturale, identitario. Per poi farlo vivere attraverso l'azione di governo e la comunicazione dei ministri, la formazione dei gruppi dirigenti e la selezione degli apparati locali, l'integrazione tra i ceti sociali e l'interazione con le opinioni pubbliche.

Tutto questo, da quel lontano 18 novembre 2007, è clamorosamente mancato. Aveva ed ha ragione Gianfranco Fini, che già allora e poi al congresso fondativo del Pdl avvertì: non basta uscire dalla casa del padre per dire "abbiamo fatto un partito". A quel partito occorreva ed occorre dare una struttura, un'organizzazione e poi una missione. In una parola: a quel partito bisognava e bisogna dare "un'anima". Se tutto questo manca, un partito muore. Oppure, come nel caso del Popolo delle Libertà, nasce all'anagrafe, ma non alla politica, e meno che mai alla società. O meglio: può anche nascere, può persino sopravvivere, ma a tenerlo in vita non è un disegno unitario, non sono valori comuni e ideali condivisi. È invece nella fase statica la pura giustapposizione degli interessi, e nella fase dinamica la strenua difesa dei medesimi. Ma niente più di questo.

Infatti, oggi, è proprio questo nulla ad essere rivelato tangibilmente, nelle pieghe politiche che hanno mandato in crisi, stavolta sì per via giudiziaria, il governissimo Berlusconi-Bertolaso. E in questo nulla, che sembra preludere o sottintendere quello che i giornali di famiglia chiamano un più o meno strutturale "difetto di conduzione che risale al Principe", deflagrano le guerre intestine, il fuoco amico, le veline al curaro "di chiara fabbricazione interna". Esplodono i conflitti tra sub-potentati nazionali e cacicchi locali, tra potenziali "delfini" e sedicenti "successori". Dalle politiche fiscali alle candidature regionali, dalle nomine nell'establishment alle Spa pubbliche: non c'è fronte aperto, dopo la pubblicazione dei materiali d'indagine delle procure di Firenze o di Roma, sul quale non impazzi la lotta fratricida.

È il tutti contro tutti: Fini contro Berlusconi, Tremonti contro Letta, Ghedini contro Verdini, Cicchitto contro Fitto, Cosentino contro Bocchino. E via a scendere, per li rami di un'improbabile albero "dinastico". Qualcosa di più complesso della semplice "degenerazione cortigiana". E di meno nobile dell'antica dialettica interna ad un vero partito di massa come la Dc, dove i leader si scannavano, ma alla fine trovavano una sintesi, più o meno compromissoria, all'insegna di una constituency visibile, ancorché discutibile: lo statalismo assistenziale, il solidarismo cattolico, l'economia sociale di mercato all'italiana, il proporzionalismo clientelare.

Nel Pdl questi ingredienti sono mancati e mancano in radice. C'è un'altra idea della destra, laica e costituzionale, incarnata dal presidente della Camera. Ma le istanze del "co-fondatore" non hanno diritto di cittadinanza, o sono palesemente ininfluenti perché largamente minoritarie. Per il resto c'è l'anchilosi delle politiche e la paralisi delle culture. Questo centrodestra non offre agli italiani un'idea di Paese possibile. Dal Welfare alle tasse, dalla recessione alle istituzioni, non è in grado di proporre riforme, e meno che mai di attuarle. Tutto si gioca e si consuma nel perimetro asfittico, intermittente e inconcludente del vitalismo leaderistico di Berlusconi, che ormai da tempo regna ma non governa. Mentre, sotto di lui, la corte si dilania.

Da questo punto di vista, lo scandalo della Protezione Civile apre uno squarcio ulteriore, e ancora più inquietante, sul futuro che ci aspetta. Quello che ha innescato, in termini politici, è un'illuminante epifania su ciò che potrebbe accadere (o forse accadrà) nel dopo-Berlusconi. Una scissione atomica, dove le "particelle", piccole o grandi che siano, rischieranno di disperdersi nel caos entropico. Per cui - salvo soluzioni "imperiali" e di matrice cesarista, assurde ma coerenti con la biografia dell'uomo, tipo la figlia Marina - la vera domanda da farsi domani non è tanto "chi", ma "che cosa" succederà a Berlusconi. Quanto all'oggi, non resta che constatare l'insostenibile "acedia del potere berlusconiano" (ancora Il Foglio). Il vero "amalgama mal riuscito" sembra il Pdl, persino più che il Pd.

© Riproduzione riservata (23 febbraio 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Vincitori e vinti della banda larga
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2010, 12:01:25 pm
L'analisi.

In alto mare le manovre di Geronzi nella galassia Mediobanca.

E il terremoto dell'indagine affossa la fusione con Telefonica: il gruppo spagnolo frena davanti ai guai giudiziari di Telecom

Vincitori e vinti della banda larga

di MASSIMO GIANNINI


Lo scandalo dei furbetti del telefonino, come quello dei furbetti del quartierino del 2005, avrà effetti pesanti sul sistema economico e sugli assetti di potere. Il terremoto giudiziario ha un epicentro visibile nelle telecomunicazioni, ma i danni collaterali si abbatteranno sull'industria, la finanza, la politica, incidendo su alcune partite strategiche nelle più importanti aziende del Paese.

Quali sono le "vittime" finali dell'inchiesta che, tra il carosello delle frodi, la girandola delle fatture false e il riciclaggio del denaro sporco ad opera del nuovo operatore criminal-telefonico già ribattezzato "'Ndranghetel", ha disvelato un'altra, inguardabile faccia del capitalismo italiano?

L'effetto principale dell'operazione Telefoni Puliti riguarda il futuro prossimo delle telecomunicazioni. E qui a subire un contraccolpo è l'asse Berlusconi-Letta-Geronzi. Fino a pochi giorni fa il destino di Telecom Italia sembrava segnato. Gravato da 35 miliardi di debiti, con un ebitda in calo costante, ricavi da telefonia fissa e mobile in progressivo deterioramento, margini di espansione sui mercati esteri ridotti quasi a zero, il non più glorioso marchio delle tlc italiane era avviato verso un matrimonio forzoso con Telefonica. Per due motivi.

Il primo motivo, più opinabile, era industrial-finanziario. Da mesi gli azionisti italiani del gruppo riuniti insieme agli spagnoli nella holding Telco (cioè Mediobanca, Intesa e Generali) chiedevano all'amministratore delegato Franco Bernabè un piano industriale "di sviluppo". La risposta era sempre stata la stessa: "Dove volete che vada Telecom, che nelle condizioni date ha proprio nell'ingombrantissimo socio estero Telefonica uno dei principali fattori di freno alla crescita del business (vedi Sudamerica)"?

Delle due l'una: o il patto con gli spagnoli si rescinde, ma gli azionisti tricolori devono mettere in conto di perderci una barca di soldi, o si arriva all'integrazione totale, e allora si convola a nozze, lasciando il comando industriale agli spagnoli e il controllo della rete a una newco a prevalenza italiana. Mediobanca propendeva decisamente per la soluzione spagnola. Intesa era più cauta: ancora domenica scorsa una fonte vicina a Cà de Sass ripeteva: "Si farà di tutto per evitare una svendita. C'è chi la vorrebbe, ma prima di arrivarci si possono tentare ancora molte strade...". Alle Generali parevano invece rassegnati alla fusione: "Non c'è entusiasmo, ma non c'è alternativa...", sosteneva una settimana fa una fonte vicina alla compagnia triestina.

Il secondo motivo, più cogente, era politico-affaristico. La fusione con gli spagnoli la voleva fortemente Berlusconi. "Non ci occupiamo di queste cose, siamo un governo liberale", aveva detto il 4 febbraio scorso: in realtà, nonostante queste grottesche rassicurazioni, il premier ha lavorato sodo per assecondarla. Già nel luglio 2008 aveva ricevuto il ceo di Telefonica Cesar Alierta, portato ad Arcore grazie alla mediazione di Alejandro Agag, genero di Aznar. Insieme avevano concordato un percorso a tappe, che in due anni avrebbe portato Telecom nelle braccia degli spagnoli, con una ricca contropartita per il presidente del Consiglio. Nel settembre successivo Alierta era venuto a Roma, per mettere a punto i dettagli con il Cavaliere e Letta a Palazzo Chigi, e poi con Cesare Geronzi nella sede romana di Mediobanca, in piazza di Spagna.

Si trattava solo di chiudere il cerchio con Zapatero, nei mesi successivi. Cosa che era avvenuta nella seconda metà del 2009. Prima al vertice italo-spagnolo della Maddalena, il 10 settembre 2009. Poi alla fine dell'anno: il 15 dicembre Zapatero aveva telefonato a Berlusconi, per augurargli pronta guarigione dopo l'aggressione di Piazza Duomo, e il premier aveva approfittato per annunciargli la visita a Madrid del figlio Piersilvio. Così il 17 dicembre il secondogenito del premier, insieme all'inseparabile Fedele Confalonieri, erano stati ricevuti alla Moncloa, per pattuire la famosa "contropartita": il governo italiano dava via libera agli spagnoli su Telecom, e il governo spagnolo dava via libera al Cavaliere sulle tv spagnole.

Per 1 miliardo di euro Mediaset avrebbe comprato dal gruppo editoriale Prisa, sfiancato dai debiti, la controllata Tv Cuatro, più il 22% della tv satellitare Digital Plus (partecipata, guarda caso, proprio con Telefonica titolare del 21%). Così, insieme a Telecinco (controllata con il 50,1%) il Biscione diventava il primo gruppo europeo nella televisione commerciale. L'annuncio ufficiale è arrivato infatti il giorno dopo l'incontro alla Moncloa, poi suggellato da un'intervista di Piersilvio al Corriere della Sera, il 21 dicembre: "In questa operazione la politica non c'entra nulla, ma certo la Spagna si è dimostrata molto moderna...", aveva detto il figlio del Cavaliere. Tutto sembrava fatto. Ai primi di febbraio Palazzo Chigi manifestava l'intenzione di concludere l'accordo con Telefonica, che Repubblica registrava in anteprima.

Ma a questo punto, dopo la scoperta della "madre di tutte le truffe", la fusione finisce in frigorifero. Come sostiene un autorevole esponente dell'establishment del Nord, "solo un illuso può pensare che Telefonica faccia un'Ops su un gruppo oggetto di indagini così pesanti, costretto addirittura a rinviare la presentazione del bilancio". Risultato: le telecomunicazioni italiane resteranno ancora a lungo in un limbo indefinito, mentre i valori di Borsa continuano a svaporare.

L'effetto secondario dell'inchiesta romana riguarda gli assetti futuri della Galassia del Nord e dei suoi satelliti. Ed anche in questo caso a subire un contraccolpo è di nuovo la filiera Berlusconi-Letta-Geronzi. Per altri due motivi. Il primo motivo riguarda l'organigramma di Piazzetta Cuccia. Lo scandalo telefonico può diventare una pietra tombale definitiva sulle ambizioni di Marco Tronchetti Provera. Il patron della Pirelli, anche se ha smentito l'ipotesi, era in corsa per salire sul trono di Mediobanca, secondo i piani originari di Geronzi, prossimo al trasloco alle Generali. Ma anche l'inchiesta su Sparkle, che parte dal 2003 e si aggiunge a quella sullo spionaggio fatta esplodere da Tavaroli e Cipriani, chiama in causa proprio gli anni della gestione Tronchetti dentro Telecom.

Quell'inciso dell'ordinanza del gip di Roma pesa come un macigno: "C'è con evidenza solare il problema della responsabilità dei dirigenti della capogruppo Telecom: c'è stata totale omissione di controllo oppure piena consapevolezza". A questo punto la "pazza idea" di Cesarone, per la sua successione, non è più percorribile. Dovrà insistere con le alternative: Lamberto Cardia o Vittorio Grilli. Con piena soddisfazione di Alessandro Profumo, pronto a dare battaglia su Mediobanca.

Il secondo motivo riguarda di nuovo Telecom Italia: per le ragioni che abbiamo visto, Geronzi ha ingaggiato da mesi un braccio di ferro sotterraneo con Bernabè. Lo considera troppo ostinato nella strategia dello "stand alone" e troppo pignolo su certe partecipazioni (proprio il caso Sparkle, che Bernabè aveva messo tra le prossime dismissioni necessarie per il gruppo, è una di queste). Ecco perché, secondo i ben informati, l'erede di Cuccia auspicava da tempo un ribaltone ai vertici Telecom: via Bernabè, testardo nella difesa della Telecom attuale, e al suo posto Stefano Parisi, pronto ad aprire la porta agli spagnoli. Anche in questo caso, un avvicendamento studiato con la benedizione del Cavaliere e del suo scudiero Letta, che apprezzano da sempre Parisi, già uomo della presidenza del Consiglio a capo dei dipartimenti Affari economici prima, editoria poi.

Ora, per uno strano scherzo del destino, anche l'amministratore delegato di Fastweb, insieme a Scaglia e Ruggiero, è finito nel tritacarne dell'inchiesta sui furbetti del telefonino. Da indagato, è vero, che oltre tutto si dichiara "parte lesa". Ma anche in questo caso le sue aspirazioni, e quelle di chi lo sosteneva nella sua corsa, risultano momentaneamente vanificate. Con parziale soddisfazione di Bernabè, che a questo punto può riprendere fiato nella sua guerriglia interna all'azienda. E di Corrado Passera, che in Telco è il più convinto sostenitore di un "piano B" per Telecom, analogo a quello che Intesa costruì per Alitalia. Ma fino a quando reggeranno, tra queste macerie, le telecomunicazioni italiane? Aspettavamo da tanto tempo la "banda larga". Ma non era quella scoperta dalla Procura di Roma.

m.giannini@repubblica.it
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il vuoto al potere
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2010, 11:07:31 am
IL COMMENTO

Il vuoto al potere

DI MASSIMO GIANNINI

LA DEMOCRAZIA è in pericolo, tuonano le corti berlusconiane di fronte alla bocciatura dei listini di Roberto Formigoni e di Renata Polverini decretata dalle Corti d'appello di Milano e di Roma. Certo, una tornata decisiva di consultazioni regionali dalla quale mancasse l'insegna del partito di maggioranza relativa in Lombardia e nel Lazio sarebbe un test elettorale assai incompleto e incomprensibile. Ma nell'attesa che i tribunali amministrativi dicano l'ultima parola sui ricorsi presentati dal Pdl, e al di là delle complicate valutazioni giuridiche del caso, una considerazione politica si può e si deve trarre.

In base a quanto si è visto in questi mesi e in questi giorni, ad essere in pericolo non è la vita della democrazia, ma piuttosto la sopravvivenza del Pdl. Cos'altro è questa farsesca tragicommedia delle liste, taroccate o presentate fuori tempo massimo, se non la plastica dimostrazione di un partito che sta morendo in culla? Cos'altro dicono le convulsioni e i veleni interni al mistico Popolo delle libertà, se non il dilettantismo e l'avventurismo di un esperimento identitario che non ha funzionato perché in realtà (come avevamo scritto su questo giornale la settimana scorsa) un centrodestra italiano moderato e moderno non è mai nato, né dal punto di vista politico né dal punto di vista culturale?

Secondo la bugiarda vulgata berlusconiana, dagli anni Novanta in poi i "comunisti" hanno usato le toghe "rosse" per liquidare la vecchia Cdl per via giudiziaria: pm invasati, pool milanesi esagitati, e così via sragionando. Adesso gli stessi "comunisti" starebbero usando le toghe "grigie" per liquidare il nuovo Pdl per via amministrativa: discreti magistrati di Corte d'appello, anonimi giudici di Tar, e via sproloquiando. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Quello che il Cavaliere non dice, e i suoi scudieri non ammettono, è che questa volta non reggono il teorema dell'opposizione barricadera e dei pubblici ministeri torquemadisti né la teoria del "nemico esterno".

Stavolta, molto più semplicemente, questo centrodestra si sta auto-liquidando per via politica. Questa è la pura e semplice verità, disvelata in modo quasi grottesco dal patetico autodafé politico in cui sono involontariamente incappati Formigoni e Polverini. La crisi è tutta interna al Pdl, e nemmeno il collante puramente ideologico del berlusconismo di guerra sembra più reggere. Dal trionfale successo del 13 aprile 2008 in poi, archiviata in troppa fretta la sorprendente parentesi da "federatore" della destra e da "uomo di Stato" dei primi due mesi, il premier si è illuso di poter affrontare e risolvere l'intera legislatura sull'onda del suo autoritarismo populista e plebiscitario. Lui è il "messaggio", tutto il resto non conta niente. L'intera proiezione del governo si esaurisce nell'esibizione della forza e nella manipolazione della propaganda. L'intendenza seguirà, come diceva il generale De Gaulle. Ma questa è la gigantesca, miope illusione, che oggi si infrange e va in frantumi per una banale questione di firme e di timbri. Se non c'è la politica, oltre i decreti urgenti, le ordinanze in deroga e i sondaggi confidenti, l'intendenza non segue affatto. Semmai si auto-tutela, quando addirittura non si auto-distrugge, come dimostrano i sospetti e i veleni che si consumano nella Capitale sulle candidature, tra le correnti  forziste e i luogotenenti finiani.

E senza una solida struttura politica basta una risibile stortura burocratica per smascherare un bluff, per capire che il partito di plastica non è diventato di ferro, e insomma per accorgersi che il re è nudo. Su questo limite genetico dovrebbe riflettere il premier. Su questo deficit originario dovrebbero interrogarsi i suoi accoliti, invece di attaccare e delegittimare l'unico che l'ha capito fin dal primo giorno, cioè il presidente della Camera Gianfranco Fini. Rischia di essere tardi, adesso. Come diceva ieri un ministro, "ormai siamo al capolinea, il Pdl così non regge più e presto ognuno di noi tornerà a fare il mestiere che faceva prima...". Come dire: l'amalgama Forza Italia-An rischia di sciogliersi per sempre. E serve a poco urlare contro i sedicenti "furbi" che vorrebbero alterare il risultato delle elezioni (come fa il ministro per la Semplificazione) o invocare improbabili "prove di forza" (come fa la candidata del Lazio). I "furbi" di Calderoli non esistono: sono fantasmi evocati per confondere e intorbidare le acque. E la "piazza" della Polverini è a dir poco surreale: contro chi marcia, stavolta, il vasto Popolo delle libertà? Contro il Tar del Lazio? Viene da sorridere, solo a pronunciare lo slogan. Senza contare, da ultimo, che i giudici amministrativi applicano, come sempre, solo le regole. E quelle sì, assicurano la vita della democrazia.

Ma questo resta un arcano troppo complesso da far capire a Silvio Berlusconi. Fin dalla sua epica "discesa in campo", il Cavaliere concepisce la democrazia come pura estensione della sua signoria.
(m.giannini@repubblica.it)

© Riproduzione riservata (04 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI "E' il massacro delle istituzioni ora proteggiamo il Quirinale"
Inserito da: Admin - Marzo 09, 2010, 08:10:55 am
L'amarezza del presidente emerito della Repubblica Ciampi

"Aberrante episodio di torsione del sistema democratico"

"E' il massacro delle istituzioni ora proteggiamo il Quirinale"

di MASSIMO GIANNINI


ROMA - Benvenuti nella Repubblica del Male Minore. Cos'altro si può dire di un Paese che ormai, per assecondare i disegni plebiscitari di chi lo governa, è costretto ogni giorno ad un nuovo strappo delle regole della civiltà politica e giuridica, nella falsa e autoassolutoria convinzione di aver evitato un Male Maggiore? Carlo Azeglio Ciampi non trova altre formule: "La strage delle illusioni, il massacro delle istituzioni...". Ancora una volta, l'ex presidente della Repubblica parla con profonda amarezza di quello che accade nel Palazzo. Dopo il Lodo Alfano, il processo breve, lo scudo fiscale, il legittimo impedimento, il decreto salva-liste è solo l'ultimo, "aberrante episodio di torsione del nostro sistema democratico". Il "pasticciaccio di Palazzo Chigi" non è andato giù all'ex capo dello Stato, che considera il rimedio adottato (cioè il provvedimento urgente varato venerdì scorso) ad alto rischio di illegittimità costituzionale. E la clamorosa sentenza pronunciata ieri sera dal Tar del Lazio, che respinge il ricorso per la riammissione della lista del Pdl nel Lazio, non arriva a caso: "È la conferma che con quel decreto il governo fa ciò che la Costituzione gli vieta, cioè interviene su una materia di competenza delle Regioni. Speriamo solo che a questo punto non accadano ulteriori complicazioni...", dice.

Dopo il ricorso già avanzato da diverse giunte regionali, potrebbe persino accadere che, ad elezioni già svolte, anche la Consulta giudichi quel decreto illegittimo, con un verdetto definitivo e a quel punto davvero insindacabile. Questo preoccupa Ciampi: "Il risultato, in teoria, sarebbe l'invalidazione dell'intero risultato elettorale. Il rischio c'è, purtroppo. C'è solo da augurarsi che il peggio non accada, perché a quel punto il Paese precipiterebbe in un caos che non oso immaginare...". Il presidente emerito non lo dice in esplicito, ma dal suo ragionamento si evince che qualche dubbio lui l'avrebbe avuto, sulla percorribilità giuridica e politica di un decreto solo apparentemente "interpretativo", ma in realtà effettivamente "innovativo" della legislazione elettorale.

Ora si pone un interrogativo inquietante: questo disastro si poteva evitare? E se sì, chi aveva il potere di evitarlo? Detto più brutalmente: Giorgio Napolitano poteva non autorizzare la presentazione del decreto legge del governo? Ciampi vuole evitare conflitti con il suo successore, al quale lo lega un rapporto di affetto e di stima: "Non mi piace mai giudicare per periodi ipotetici dell'irrealtà. Allo stesso tempo, trovo sbagliato dire adesso "io avrei fatto, io avrei detto...". Ognuno decide secondo le proprie sensibilità e secondo le necessità dettate dal momento. Napolitano ha deciso così. Ora, quel che è fatto è fatto. Lo ripeto: a questo punto è stata imboccata una strada, e speriamo solo che ci porti a un risultato positivo...". Ma in questa occasione non si può negare che il Quirinale sia dovuto passare per la cruna di un ago particolarmente stretta, e che secondo molti ne sia uscito non proprio al meglio. In rete e sui blog imperversano le critiche: Scalfaro e Ciampi, si legge, non avrebbero mai messo la firma su questo "scempio". Al predecessore di Napolitano questo gioco non piace: "Queste sono cose dette un po' a sproposito". Come non gli piacciono le rischieste di impeachment che piovono sull'inquilino del Colle dall'Idv: "Ma che senso ha, adesso, sparare sul quartier generale? Al punto in cui siamo, è nell'interesse di tutti non alimentare la polemica sul Quirinale, e semmai adoperarsi per proteggere ancora di più la massima istituzione del Paese...".

Premesso questo, Ciampi non si nega una netta censura politica di quanto è accaduto: "Io credo che la soluzione migliore sarebbe stata quella di rinviare la data delle elezioni. Ma per fare questo sarebbe stata necessaria una volontà politica che, palesemente, nella maggioranza è mancata. Ma soprattutto io credo che sarebbe stato necessario, prima di tutto, che il governo riconoscesse pubblicamente, di fronte al Paese e al Parlamento, di aver commesso un grave errore. Sarebbe stato necessario che se ne assumesse la responsabilità, chiedendo scusa agli elettori e agli eletti. Da qui si doveva partire: a quel punto, ne sono sicuro, tutti avrebbero lavorato per risolvere il problema, e l'opposizione avrebbe dato la sua disponibilità a un accordo. Bisognava battersi a tutti i costi per questa soluzione della crisi, e inchiodare a questo percorso chi l'aveva causata. Ma purtroppo la maggioranza, ancora una volta, ha deciso di fuggire dalle sue responsabilità, e di forzare la mano". I risultati sono sotto gli occhi di tutti: "Di nuovo, assistiamo sgomenti al graduale svuotamento delle istituzioni, all'integrale oblio dei valori, al totale svilimento delle regole: questo è il male oscuro e profondo che sta corrodendo l'Italia".

Su questo piano inclinato, dove si fermeranno lo scivolamento civico e lo smottamento repubblicano? "Vede  -  osserva Ciampi  -  proprio poco fa stavo rileggendo il De senectute di Cicerone: ci sarebbe bisogno di quella saggezza, di quell'amore per la civiltà, di quell'attenzione al bene pubblico. E invece, se guardiamo alle azioni compiute e ai valori professati da chi ci governa vediamo prevalere l'esatto opposto". Aggressione agli organi istituzionali, difesa degli interessi personali: l'essenza del berlusconismo  -  secondo l'ex capo dello Stato - "è in re ipsa, cioè sta nelle cose che dice e che fa il presiedente del Consiglio: basta osservare e ascoltare, per rendersi conto di dove sta andando questo Paese". Già qualche mese fa Ciampi aveva rievocato, proprio su questo giornale, l'antico principio della Rivoluzione napoletana di Vincenzo Cuoco sulla felicità dei popoli "ai quali sono più necessari gli ordini che gli uomini", e poi il vecchio motto caro ai fratelli Rosselli, "non mollare", poi rideclinato da Francesco Saverio Borrelli nel celebre "resistere, resistere, resistere".

Oggi l'ex presidente torna su queste "urgenze morali", per ribadire che servono ancora tanti "atti di coraggio", se vogliamo difendere la nostra democrazia e la nostra Costituzione. "I miei sono lì, sono le firme che non ho voluto apporrre su alcune leggi che mi furono presentate durante il settennato, e che successivamente mi sono state rinfacciate in Parlamento, come se si fosse trattato di atti "sediziosi", o decisioni "di parte". E invece erano ispirati solo ai principi del vivere civile in cui ho sempre creduto, e che riposano sulla sintesi virtuosa dei valori e delle istituzioni". Tra i 2001 e il 2006 Ciampi non potè rinviare alle Camere tutte le leggi-vergogna del secondo governo Berlusconi, perché in alcune di esse mancava il vizio della "palese incostituzionalità" che solo può giustificare il diniego di firma da parte del capo dello Stato. Ma dalla riforma Gasparri sul sistema radiotelevisivo alla riforma Castelli sull'ordinamento giudiziario, Ciampi pronunciò alcuni "no" pesantissimi.

Nonostante questo, anche a lui tocca oggi constatare che quella forma di "pedagogia repubblicana", necessaria ma non sufficiente, è servita a poco o a nulla. "Cosa vuole che le dica? Purtroppo questo è il drammatico paesaggio italiano, né bello né facile. E questo è anche il mio più grande rimpianto di vecchio: sulla soglia dei 90 anni, mi accorgo con amarezza che questa non è l'Italia che vagheggiavo a 20 anni. Allora ci svegliavamo la mattina convinti che, comunque fossero andate le cose, avremmo fatto un passo avanti. Oggi ci alziamo la mattina, e ogni giorno ci accorgiamo di aver fatto un altro passo indietro. E' molto triste, per me che sono un nonuagenario. Ma chi è più giovane di me non deve perdersi d'animo, e soprattutto non deve smettere di lottare". Sabato prossimo Ciampi non andrà in piazza, per sfilare in corteo contro il "pasticciaccio" di Berlusconi: "Non ho mai aderito a manifestazioni, e comunque le gambe non mi reggerebbero...", dice. Ma chissà: magari con vent'anni di meno ci sarebbe andato anche lui.

m.giannini@repubblica.it

© Riproduzione riservata (09 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il potere irresponsabile
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2010, 09:02:38 am
L'EDITORIALE

Il potere irresponsabile

di MASSIMO GIANNINI

Dall'abuso al "sopruso". Dalle regole violate alle "violenze subite". La vera "lezione" che il presidente del Consiglio ha impartito all'Italia democratica (e non certo alla inesistente "sinistra sovietica") è stata esattamente questa: l'ennesima, rancorosa manipolazione dei fatti, seguita dalla solita, clamorosa inversione dei ruoli. Del disastroso pastrocchio combinato sulle liste elettorali non sono "colpevoli" i dilettanti allo sbaraglio del Pdl che hanno presentato fuori tempo massimo documenti taroccati e incompleti, ma i radicali tafferuglisti e i giudici comunisti che li hanno ostacolati.

Del pericoloso pasticciaccio deflagrato sul decreto legge di sanatoria non deve rispondere il governo che l'ha varato, ma i legulei "formalisti" del Tar che l'hanno ignorato, i parrucconi costituzionalisti che l'hanno bocciato e i bugiardi giornalisti che l'hanno criticato. Ancora una volta, come succede dal 1994 ad oggi, lo "statista" Berlusconi evita accuratamente di assumersi le sue responsabilità di fronte al Paese. La sua conferenza stampa riassume ed amplifica la strategia della manipolazione politica e semantica sulla quale si fonda l'intero fenomeno berlusconiano: schismogenesi (provocazione del nemico) e mitopoiesi (idealizzazione di sé).

Non solo il premier non chiede scusa agli elettori per le cose che ha fatto, ma accusa gli avversari per cose che non hanno fatto. Così, nel rituale gioco di specchi in cui l'apparenza si sostituisce alla realtà e la ragione si sovrappone ai torti, il Cavaliere celebra di nuovo la sua magica metamorfosi: il vero carnefice si trasforma nella finta vittima, il persecutore autoritario si tramuta nel perseguitato legalitario. L'importante è mischiare le carte, e confondere l'opinione pubblica. Nella logica berlusconiana lo Stato di diritto è un inutile intralcio: molto meglio lo stato di confusione.

Declinata in termini pratici, la sortita del premier è un indice di oggettiva difficoltà. Stavolta alla sua comprovata "arte della contraffazione" manca un elemento essenziale: l'inverificabilità degli eventi, teorizzata a suo tempo da Karl Popper. Nel caos delle liste, per sventura del Cavaliere, gli eventi sono verificabili. A dispetto delle nove, puntigliose cartelle con le quali ha ricostruito la sua originalissima "versione dei fatti" (che ovviamente scagiona gli eroici "militi azzurri" e naturalmente condanna la "gazzarra radicale") stanno due documenti ufficiali. Le motivazioni con le quali il Tribunale amministrativo regionale ha rigettato il ricorso del
Pdl nel Lazio, e i verbali redatti dai Carabinieri del Comando di Roma. Basta leggerli, per conoscere la verità.

Non è vero che i responsabili del partito di maggioranza hanno depositato la documentazione "entro le ore 12 del 27 febbraio 2010". Non solo la famosa "scatola rossa" con le firme è stata "riscontrata" solo alle ore 18 e 30. Ma all'interno di quel vero e proprio "pacco", come scrive il Tar, "non erano presenti i documenti necessari prescritti dalla legge". Né "l'atto principale della dichiarazione di presentazione della lista provinciale dei candidati del Pdl, né la dichiarazione di accettazione della candidatura da parte di ciascun candidato, né la dichiarazione di collegamento della lista provinciale con una delle liste regionali, né la copia di un'analoga dichiarazione resa dai delegati alla presentazione della lista regionale, né i certificati elettorali dei candidati, né il modello del contrassegno della lista provinciale, né l'indicazione di due delegati autorizzati a designare i rappresentanti della lista...".

E così via, una manchevolezza dietro l'altra. "Formalismo giudiziario"? "Giurisdizionalismo che prevale sulla democrazia", come gridava il Foglio qualche giorno fa? Può darsi. Ma queste sono le regole. E la democrazia vive di regole. Si possono non rispettare, ma poi se ne pagano le conseguenze. Quello che certamente non si può fare (e che invece il premier ha fatto) è negare, contro l'evidenza, la propria negligenza. Peggio ancora, gridare a propria volta alla "violazione della legge", alla "penalizzazione ingiusta", addirittura al "sopruso violento". E infine puntare il dito contro soggetti terzi, che avrebbero impedito il regolare espletamento di un diritto democratico: se il j'accuse ai radicali fosse fondato, il premier dovrebbe come minimo sporgere una denuncia penale contro i presunti "sabotatori". I presupposti, se l'accusa fosse vera, ci sarebbero tutti. Perché non lo fa? Forse perché sta mentendo: è il minimo che si possa pensare.

Letta in chiave politica, la sceneggiata di Via dell'Umiltà è un segnale di oggettiva debolezza. La reazione livida del presidente del Consiglio contro il free-lance che fa domande scomode, sommata all'aggressione fisica di cui si è reso protagonista il ministro La Russa, tradiscono un evidente stato di tensione. Il presidente del Consiglio si muove su un terreno non suo. La battaglia campale combattuta sulle regole non gli appartiene, la campagna elettorale giocata sulle carte bollate non gli si addice. Tra il malcelato nervosismo scaricato contro il cronista "villano e spettinato" e il malmostoso vittimismo riversato contro la "sinistra antidemocratica", lui stesso deve ammettere che "i cittadini sono stanchi" di queste diatribe. È un altro modo per riconoscere in pubblico ciò che ammette in privato: i sondaggi vanno male. Spera nel controricorso al Consiglio di Stato, ma annuncia comunque che il Pdl è pronto fin d'ora a "gettare il cuore oltre l'ostacolo", e a tuffarsi armi e bagagli nella contesa sulle regionali. Di più: con un annuncio da capo fazione, più che da capo di governo, chiama il suo popolo in piazza per il prossimo 20 marzo. In questi slanci estremi e prossimi all'arditismo, tipici dell'uomo di Arcore che non sa essere uomo di Stato, si coglie il tentativo di rispondere all'appello formulato a più voci sulla stampa "cognata": quello di lasciar perdere i cavilli della procedura e di rimettersi in sella ai cavalli della politica.

È una scelta obbligata, ma gravemente tardiva. Comunque vada il voto del 28 marzo, il presidente del Consiglio che abbiamo visto ieri non appare più in grado (posto che lo sia mai stato) di riprendere il cammino delle riforme necessarie, e di riportare il Paese su un sentiero di crescita economica, di equità fiscale e di modernizzazione sociale. L'intera politica berlusconiana, ormai, si distribuisce e si esaurisce in pochi, nevrili sussulti emergenziali: esibizioni strumentali su urgenze di scala nazionale (i rifiuti, il terremoto) e forzature parlamentari su esigenze di tipo personale (processo breve, legittimo impedimento). Per il resto, da mesi l'azione di governo è svilita, svuotata e votata alla pura sopravvivenza. Immaginare altri tre anni così, per un Paese sfibrato come l'Italia, fa venire i brividi. Ha detto bene Bersani, due giorni fa, all'assemblea dei radicali: Berlusconi è ancora troppo forte per essere finito, ma è ormai troppo sfinito per essere forte. Giustissimo. Ci vorrebbe un'alternativa seria e credibile a questa rovinosa legislatura di galleggiamento. Toccherebbe al Pd costruirla, se solo ne fosse capace.
 

© Riproduzione riservata (11 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: M. GIANNINI. Lavoro, il no di Napolitano alla legge anti articolo 18
Inserito da: Admin - Marzo 15, 2010, 09:28:24 am
Il Quirinale studia il testo ma l'orientamento è di rinviarlo alle Camere

Non convince l'accordo raggiunto fra governo, Confindustria, Uil e Cisl

Lavoro, il no di Napolitano alla legge anti articolo 18

di MASSIMO GIANNINI


"PERTINI non avrebbe firmato", c'era scritto su una decina di magliette fuori ordinanza, esibite sabato scorso, alla manifestazione viola sulle regole. Di fronte a questi sia pure isolati episodi di "fuoco amico", si può immaginare lo stato d'animo di Giorgio Napolitano. Non solo irritazione, ma anche indignazione. Proprio nelle stesse ore, infatti, il presidente della Repubblica sta meditando seriamente di rinviare alle Camere una delle ultime leggi volute dal governo. Si tratta del famigerato ddl 1167-B, quello che introduce la possibilità preventiva di ricorrere all'arbitro, invece che al giudice, in caso di controversie di lavoro.

In quel testo, approvato definitivamente dal Senato la scorsa settimana, c'è una norma che rischia di cambiare radicalmente il profilo del nostro diritto del lavoro, e il suo sistema di garanzie. Dall'articolo 31 in poi c'è scritto che le controversie tra il datore di lavoro e il suo dipendente potranno essere risolte anche da un arbitro, in alternativa al giudice. In sostanza, modificando l'articolo 412 del codice di procedura civile, si prevedono due possibilità alternative per la risoluzione dei conflitti: o la via giudiziale oppure quella arbitrale. L'innovazione principale è che già al momento della firma del contratto di assunzione, anche in deroga ai contratti collettivi, al lavoratore potrebbe essere proposto (con la cosiddetta clausola compromissoria) che in caso di contrasto futuro con l'azienda le parti si affideranno a un arbitro, e non a un giudice. Ebbene questa legge, che il Capo dello Stato ha già visionato sommariamente, suscita in lui forti perplessità. La sta esaminando insieme al "nucleo di valutazione" del Colle, formato da Salvatore Sechi, Donato Marra e Loris D'Ambrosio. Non ha ancora preso una decisione definitiva. Ma, allo stato attuale, sembra intenzionato a non firmare la legge. E a rinviarla al Parlamento con messaggio motivato, per una nuova deliberazione. Secondo i poteri che gli assegna l'articolo 74 della Costituzione e che può attivare anche per provvedimenti non necessariamente inficiati da "vizi palesi" di legittimità costituzionale.

La norma è stata già contestata dalla Cgil. Guglielmo Epifani la considera uno strumento che aggira le tutele previste dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. "Quel testo - osserva - viola chiaramente la Costituzione, e noi siamo pronti a fare ricorso alla Consulta". Non a caso la Cgil ha posto anche questa "aggressione ai diritti dei lavoratori" al centro del suo sciopero di venerdì scorso. Il ragionamento di Epifani è semplice: l'arbitrato è un istituto assai meno garantista per il lavoratore, rispetto alla tutela giurisdizionale assicurata da un magistrato della Repubblica. Oltretutto, se l'opzione per la via arbitrale gli viene prospettata all'atto dell'assunzione, tanto più in una fase di drammatica crisi occupazionale, il lavoratore rischia di essere esposto ad un "ricatto" implicito, che lo coglie nel momento della sua massima debolezza negoziale.
Per questo la Cgil va avanti con il suo appello già firmato da giuslavoristi come Luciano Gallino, Umberto Romagnoli, Massimo Paci, Tiziano Treu e giuristi come Massimo Luciani e Andrea Proto Pisani. E per questo, proprio lunedì della scorsa settimana una delegazione della sinistra guidata da Paolo Ferrero è salita al Quirinale, per chiedere al presidente della Repubblica di respingere l'ennesimo "schiaffo" ai diritti costituzionali. Napolitano ha preso immediatamente a cuore la questione. Forse anche per queste ragioni il ministro del Welfare Sacconi si è affrettato a gettare acqua sul fuoco: "Il diritto sostanziale del lavoro, incluso l'articolo 18 dello Statuto, non è stato minimamente toccato". Per prevenire possibili censure di costituzionalità al provvedimento, e per "disarmare" l'offensiva di Epifani, il governo giovedì scorso ha anche raggiunto un "avviso comune" con gli altri sindacati, Cisl e Uil, e con la Confindustria: "Le parti - si legge nella dichiarazione congiunta - riconoscono l'utilità dell'arbitrato, scelto liberamente e in modo consapevole, in quanto strumento idoneo a garantire una soluzione tempestiva delle controversie in materia di lavoro a favore delle effettività, delle tutele e della certezza del diritto... e si impegnano a definire con tempestività un accordo interconfederale, escludendo che il ricorso delle parti alle clausole compromissorie poste al momento dell'assunzione possa riguardare le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro".
Il governo, insomma, ha cercato di giocare d'anticipo. Ma quanto vale un accordo "restrittivo" tra le categorie produttive (e neanche tutte), rispetto a una norma di legge che in linea teorica non pregiudica comunque il ricorso all'arbitrato, in aggiramento dell'articolo 18 e all'atto dell'assunzione? Questo è il dubbio, sul quale si sta esercitando il Colle nell'esame del testo della legge. Un dubbio che è largamente suffragato dai pareri di giuristi e dai costituzionalisti. Come Mario Dogliani, professore emerito di diritto costituzionale all'Università di Torino: "La legge presenta rischi evidentissimi. Se il lavoratore, al momento dell'assunzione, sceglie le modalità con cui il trattamento di fine rapporto verrà effettuato, è chiaro che la tutela legislativa viene svuotata. Il rapporto di lavoro è tutelato, in Italia, dalla legge in primis, quindi dalla legge di fronte a un giudice. Con le nuove norme si può escludere questo tipo di tutela. Mentre il giudice è un soggetto garantito dalla legge, l'arbitro applica principi di giustizia indipendentemente da ciò che stabilisce la legge".
O come Luigi Ferrajoli, docente di teoria generale del diritto all'Università Roma Tre: "Ci sono almeno due profili di incostituzionalità. Il primo è la violazione dell'articolo 24, che stabilisce "tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi". Si tratta di un diritto fondamentale, inalienabile e indisponibile, che la nuova legge viola palesemente, portando un colpo non solo all'articolo 18 ma all'intero diritto del lavoro. Il secondo profilo di incostituzionalità è contenuto nell'articolo 32 della legge, che vincola il giudice a un mero controllo formale sul "presupposto di legittimità" delle clausole generali e dei provvedimenti dei datori di lavoro, escludendone "il sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro". Anche qui c'è una forte riduzione degli spazi della giurisdizione e quindi del diritto dei lavoratori alla tutela giudiziaria. È una chiara violazione, oltre che dell'articolo 24 della Costituzione, anche dell'articolo 101, secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge". O ancora come Piergiovanni Alleva, docente di diritto del lavoro all'Università Politecnico delle Marche: "Certamente questa legge non è costituzionale". O infine come Tiziano Treu: "Nel settore privato un arbitrato senza regole affidate al singolo è contrario ai principi costituzionali di tutela del lavoro, connessi agli articoli 1, 4 e 35 della Costituzione. Nel settore pubblico l'arbitrato libero viola l'articolo 97 della Costituzione, perché l'arbitro potrebbe decidere addirittura su assunzioni e promozioni, al di fuori delle regole del concorso pubblico".
Insomma, nel dossier allo studio del Quirinale le opinioni critiche dei giuristi sono tante, e tutte ben argomentate. E non manca, ovviamente, anche un'antologia della giurisprudenza costituzionale. Per esempio una sentenza della Consulta, la 232 del 6-10 giugno 1994: "Come in più occasioni stabilito da questa Corte (da ultimo sentenze n.206 e n. 49 del 1994) l'istituto dell'arbitrato non è costituzionalmente illegittimo, nel nostro ordinamento, esclusivamente nell'ipotesi in cui ad esso si ricorra per concorde volontà delle parti... In tutti gli altri casi... ci si pone in contrasto con l'articolo 102 primo comma della Costituzione, con connesso pregiudizio del diritto di difesa di cui all'articolo 24 della stessa Costituzione". Appunto: nel caso della legge appena approvata il problema è il seguente: se è vero che al momento dell'assunzione il consenso congiunto delle parti sulla via arbitrale ci sarebbe (ancorché condizionato dalla posizione di oggettiva debolezza del lavoratore) è legittimo trasformarlo in un'ipoteca sulle scelte future, precludendo per sempre al lavoratore la via giurisdizionale?
Questi sono i quesiti che potrebbero spingere Napolitano a decidere un rinvio della legge. Sul tema del lavoro, e della difesa dei lavoratori, il Capo dello Stato ha fatto sentire più volte la sua voce: "C'è ragione di essere seriamente preoccupati per l'occupazione, per le condizioni di chi lavora e di chi cerca lavoro... Mi sento perciò vicino ai lavoratori che temono per la loro sorte... così come ai giovani precari che vedono con allarme avvicinarsi la scadenza dei loro contratti, temendo di restare senza tutela. Parti sociali, governo e Parlamento dovranno farsi carico di questa drammatica urgenza, con misure efficaci ispirate a equità e solidarietà... Dalla crisi deve, e può uscire un'Italia più giusta... ". Il presidente l'aveva detto nel messaggio di auguri agli italiani, alla fine dello scorso anno. Il rovello giuridico e politico che lo tormenta, oggi, è proprio questo: la nuova legge sull'arbitrato rientra nelle "misure efficaci ispirate a equità e solidarietà" che lui stesso aveva auspicato? Ed è da norme come quella che può venir fuori "un'Italia più giusta"?. Questione di ore, e lo capiremo. Ma allo stato attuale il presidente una risposta sembra se la sia già data. E quella risposta è no.


m.giannini@repubblica.it

© Riproduzione riservata (15 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI In mattinata la nota del Colle. Ecco la risposta di Repubblica
Inserito da: Admin - Marzo 16, 2010, 08:49:24 am
Il Quirinale studia il testo ma l'orientamento è di rinviarlo alle Camere

Non convince l'accordo raggiunto fra governo, Confindustria, Uil e Cisl

Lavoro, il no di Napolitano alla legge anti articolo 18

In mattinata la nota del Colle. Ecco la risposta di Repubblica

di MASSIMO GIANNINI


"PERTINI non avrebbe firmato", c'era scritto su una decina di magliette fuori ordinanza, esibite sabato scorso, alla manifestazione viola sulle regole. Di fronte a questi sia pure isolati episodi di "fuoco amico", si può immaginare lo stato d'animo di Giorgio Napolitano. Non solo irritazione, ma anche indignazione. Proprio nelle stesse ore, infatti, il presidente della Repubblica sta meditando seriamente di rinviare alle Camere una delle ultime leggi volute dal governo. Si tratta del famigerato ddl 1167-B, quello che introduce la possibilità preventiva di ricorrere all'arbitro, invece che al giudice, in caso di controversie di lavoro.

In quel testo, approvato definitivamente dal Senato la scorsa settimana, c'è una norma che rischia di cambiare radicalmente il profilo del nostro diritto del lavoro, e il suo sistema di garanzie. Dall'articolo 31 in poi c'è scritto che le controversie tra il datore di lavoro e il suo dipendente potranno essere risolte anche da un arbitro, in alternativa al giudice. In sostanza, modificando l'articolo 412 del codice di procedura civile, si prevedono due possibilità alternative per la risoluzione dei conflitti: o la via giudiziale oppure quella arbitrale. L'innovazione principale è che già al momento della firma del contratto di assunzione, anche in deroga ai contratti collettivi, al lavoratore potrebbe essere proposto (con la cosiddetta clausola compromissoria) che in caso di contrasto futuro con l'azienda le parti si affideranno a un arbitro, e non a un giudice. Ebbene questa legge, che il Capo dello Stato ha già visionato sommariamente, suscita in lui forti perplessità. La sta esaminando insieme al "nucleo di valutazione" del Colle, formato da Salvatore Sechi, Donato Marra e Loris D'Ambrosio. Non ha ancora preso una decisione definitiva. Ma, allo stato attuale, sembra intenzionato a non firmare la legge. E a rinviarla al Parlamento con messaggio motivato, per una nuova deliberazione. Secondo i poteri che gli assegna l'articolo 74 della Costituzione e che può attivare anche per provvedimenti non necessariamente inficiati da "vizi palesi" di legittimità costituzionale.

La norma è stata già contestata dalla Cgil. Guglielmo Epifani la considera uno strumento che aggira le tutele previste dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. "Quel testo - osserva - viola chiaramente la Costituzione, e noi siamo pronti a fare ricorso alla Consulta". Non a caso la Cgil ha posto anche questa "aggressione ai diritti dei lavoratori" al centro del suo sciopero di venerdì scorso. Il ragionamento di Epifani è semplice: l'arbitrato è un istituto assai meno garantista per il lavoratore, rispetto alla tutela giurisdizionale assicurata da un magistrato della Repubblica. Oltretutto, se l'opzione per la via arbitrale gli viene prospettata all'atto dell'assunzione, tanto più in una fase di drammatica crisi occupazionale, il lavoratore rischia di essere esposto ad un "ricatto" implicito, che lo coglie nel momento della sua massima debolezza negoziale.
Per questo la Cgil va avanti con il suo appello già firmato da giuslavoristi come Luciano Gallino, Umberto Romagnoli, Massimo Paci, Tiziano Treu e giuristi come Massimo Luciani e Andrea Proto Pisani. E per questo, proprio lunedì della scorsa settimana una delegazione della sinistra guidata da Paolo Ferrero è salita al Quirinale, per chiedere al presidente della Repubblica di respingere l'ennesimo "schiaffo" ai diritti costituzionali.

Napolitano ha preso immediatamente a cuore la questione. Forse anche per queste ragioni il ministro del Welfare Sacconi si è affrettato a gettare acqua sul fuoco: "Il diritto sostanziale del lavoro, incluso l'articolo 18 dello Statuto, non è stato minimamente toccato". Per prevenire possibili censure di costituzionalità al provvedimento, e per "disarmare" l'offensiva di Epifani, il governo giovedì scorso ha anche raggiunto un "avviso comune" con gli altri sindacati, Cisl e Uil, e con la Confindustria: "Le parti - si legge nella dichiarazione congiunta - riconoscono l'utilità dell'arbitrato, scelto liberamente e in modo consapevole, in quanto strumento idoneo a garantire una soluzione tempestiva delle controversie in materia di lavoro a favore delle effettività, delle tutele e della certezza del diritto... e si impegnano a definire con tempestività un accordo interconfederale, escludendo che il ricorso delle parti alle clausole compromissorie poste al momento dell'assunzione possa riguardare le controversie relative alla risoluzione del rapporto di lavoro".

Il governo, insomma, ha cercato di giocare d'anticipo. Ma quanto vale un accordo "restrittivo" tra le categorie produttive (e neanche tutte), rispetto a una norma di legge che in linea teorica non pregiudica comunque il ricorso all'arbitrato, in aggiramento dell'articolo 18 e all'atto dell'assunzione? Questo è il dubbio, sul quale si sta esercitando il Colle nell'esame del testo della legge. Un dubbio che è largamente suffragato dai pareri di giuristi e dai costituzionalisti. Come Mario Dogliani, professore emerito di diritto costituzionale all'Università di Torino: "La legge presenta rischi evidentissimi. Se il lavoratore, al momento dell'assunzione, sceglie le modalità con cui il trattamento di fine rapporto verrà effettuato, è chiaro che la tutela legislativa viene svuotata. Il rapporto di lavoro è tutelato, in Italia, dalla legge in primis, quindi dalla legge di fronte a un giudice. Con le nuove norme si può escludere questo tipo di tutela. Mentre il giudice è un soggetto garantito dalla legge, l'arbitro applica principi di giustizia indipendentemente da ciò che stabilisce la legge".

O come Luigi Ferrajoli, docente di teoria generale del diritto all'Università Roma Tre: "Ci sono almeno due profili di incostituzionalità. Il primo è la violazione dell'articolo 24, che stabilisce "tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi". Si tratta di un diritto fondamentale, inalienabile e indisponibile, che la nuova legge viola palesemente, portando un colpo non solo all'articolo 18 ma all'intero diritto del lavoro. Il secondo profilo di incostituzionalità è contenuto nell'articolo 32 della legge, che vincola il giudice a un mero controllo formale sul "presupposto di legittimità" delle clausole generali e dei provvedimenti dei datori di lavoro, escludendone "il sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro". Anche qui c'è una forte riduzione degli spazi della giurisdizione e quindi del diritto dei lavoratori alla tutela giudiziaria. È una chiara violazione, oltre che dell'articolo 24 della Costituzione, anche dell'articolo 101, secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge". O ancora come Piergiovanni Alleva, docente di diritto del lavoro all'Università Politecnico delle Marche: "Certamente questa legge non è costituzionale". O infine come Tiziano Treu: "Nel settore privato un arbitrato senza regole affidate al singolo è contrario ai principi costituzionali di tutela del lavoro, connessi agli articoli 1, 4 e 35 della Costituzione. Nel settore pubblico l'arbitrato libero viola l'articolo 97 della Costituzione, perché l'arbitro potrebbe decidere addirittura su assunzioni e promozioni, al di fuori delle regole del concorso pubblico".

Insomma, nel dossier allo studio del Quirinale le opinioni critiche dei giuristi sono tante, e tutte ben argomentate. E non manca, ovviamente, anche un'antologia della giurisprudenza costituzionale. Per esempio una sentenza della Consulta, la 232 del 6-10 giugno 1994: "Come in più occasioni stabilito da questa Corte (da ultimo sentenze n.206 e n. 49 del 1994) l'istituto dell'arbitrato non è costituzionalmente illegittimo, nel nostro ordinamento, esclusivamente nell'ipotesi in cui ad esso si ricorra per concorde volontà delle parti... In tutti gli altri casi... ci si pone in contrasto con l'articolo 102 primo comma della Costituzione, con connesso pregiudizio del diritto di difesa di cui all'articolo 24 della stessa Costituzione". Appunto: nel caso della legge appena approvata il problema è il seguente: se è vero che al momento dell'assunzione il consenso congiunto delle parti sulla via arbitrale ci sarebbe (ancorché condizionato dalla posizione di oggettiva debolezza del lavoratore) è legittimo trasformarlo in un'ipoteca sulle scelte future, precludendo per sempre al lavoratore la via giurisdizionale?

Questi sono i quesiti che potrebbero spingere Napolitano a decidere un rinvio della legge. Sul tema del lavoro, e della difesa dei lavoratori, il Capo dello Stato ha fatto sentire più volte la sua voce: "C'è ragione di essere seriamente preoccupati per l'occupazione, per le condizioni di chi lavora e di chi cerca lavoro... Mi sento perciò vicino ai lavoratori che temono per la loro sorte... così come ai giovani precari che vedono con allarme avvicinarsi la scadenza dei loro contratti, temendo di restare senza tutela. Parti sociali, governo e Parlamento dovranno farsi carico di questa drammatica urgenza, con misure efficaci ispirate a equità e solidarietà... Dalla crisi deve, e può uscire un'Italia più giusta... ". Il presidente l'aveva detto nel messaggio di auguri agli italiani, alla fine dello scorso anno. Il rovello giuridico e politico che lo tormenta, oggi, è proprio questo: la nuova legge sull'arbitrato rientra nelle "misure efficaci ispirate a equità e solidarietà" che lui stesso aveva auspicato? Ed è da norme come quella che può venir fuori "un'Italia più giusta"?. Questione di ore, e lo capiremo. Ma allo stato attuale il presidente una risposta sembra se la sia già data. E quella risposta è no.


La nota del Quirinale. Questa mattina intorno alle 11, il Quirinale ha diffuso il seguente comunicato: ""E' priva di fondamento l'indiscrezione di stampa secondo la quale il Presidente della Repubblica avrebbe già assunto un orientamento a proposito della promulgazione del disegno di legge 1167-B approvato dal Parlamento".

"Il Capo dello Stato, nel rigoroso esercizio delle sue prerogative costituzionali, esamina il merito di questo come di ogni altro provvedimento legislativo con scrupolosa attenzione e nei tempi dovuti; e respinge ogni condizionamento che si tenda a esercitare nei suoi confronti anche attraverso scoop giornalistici".


La risposta di Massimo Giannini.  Dopo aver letto la nota del Quirinale, in cui si definiscono "false indiscrezioni" le notizie riportate nel mio articolo odierno sui dubbi del presidente Napolitano in merito alla legge che "aggira" l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, mi premono due rispettose ma doverose precisazioni.

1) La forte contrarietà del Capo dello Stato al testo che era all'esame del Senato mi è stata riferita personalmente da una fonte autorevole, che aveva parlato con il presidente della questione all'inizio della scorsa settimana.

2) Dopo i necessari approfondimenti politici e giuridici sul tema, prima di completare la stesura del mio articolo e di metterlo in pagina, ieri sera alle 20,30 ho verificato quanto stavo scrivendo con un'altra fonte, questa volta del Quirinale, e dunque ufficiale e diretta, che mi ha illustrato al telefono gli orientamenti del Colle in materia.
Dunque, con tutto il massimo rispetto per la più importante e autorevole istituzione del Paese: nessuna "falsità", e soprattuto nessuna "pressione". Come sempre, solo giornalismo.

© Riproduzione riservata (15 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il cinismo assoluto
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2010, 04:09:02 pm
IL COMMENTO

Il cinismo assoluto

di MASSIMO GIANNINI


CON un incredibile "blitzkrieg" di prima serata, effettuato come sempre in un format televisivo sicuro perché posto al riparo dalle domande vere e dunque pericolose, il presidente del Consiglio ha varcato l'ennesimo confine. La sua "intervista" al Tg2 è in realtà il livoroso comizio di un capo-popolo che, in nome del plebiscito tributatogli dagli italiani e in forza del suo potere assoluto sacro e inviolabile, è ormai pronto a tutto. Anche a stravolgere quel che resta di un equilibrio istituzionale che lui stesso ha sistematicamente "picconato" nel corso del suo avventuroso Ventennio.

Perché questo ha fatto, ieri sera, Silvio Berlusconi. Per spacciarsi ancora una volta come una "vittima innocente" di fronte all'opinione pubblica, e per rilanciare le sue farneticanti accuse alle procure "scese in campo" contro di lui "dettando i modi e i tempi della campagna elettorale", il premier non ha esitato a piegare a suo uso e consumo le parole misurate del Capo dello Stato. Altro che "tirare la giacchetta" al presidente della Repubblica: Berlusconi gli ha letteralmente strappato di dosso l'abito di "garante sopra le parti" che la Costituzione gli assegna.

Quell'"abito" riluceva sufficientemente chiaro, nel comunicato che Giorgio Napolitano aveva diffuso ieri mattina, per arginare le polemiche sempre più tossiche intorno all'inchiesta della Procura di Trani. Al Csm, di cui è presidente, il Capo dello Stato ricorda che non si deve mai "pronunciare preventivamente sullo svolgimento delle inchieste" perché, "come recita lo stesso regolamento del Csm, quest'ultimo può prendere in esame "le relazioni conclusive delle inchieste amministrative eseguite dall'Ispettorato generale presso il ministero della Giustizia". Ma al governo ricorda come le ispezioni del ministero non possono "interferire nell'attività di indagine di qualsiasi Procura, esistendo nell'ordinamento i rimedi opportuni nei confronti di eventuali violazioni compiute dai magistrati titolari dei procedimenti". Ma fa di più, il Quirinale: precisa che è stata "corretta" la decisione presa dal Comitato di presidenza del Csm di affidare alla VI Commissione la richiesta "sottoscritta da gran parte dei membri del Consiglio per l'apertura di una pratica inerente l'ispezione" disposta dal ministro della Giustizia presso la Procura di Trani. La conclusione del presidente è inequivoca: "È altamente auspicabile che in un periodo di particolari tensioni politiche qual è quello della campagna per le elezioni regionali, si evitino drammatizzazioni e contrapposizioni, come sempre fuorvianti sul piano istituzionale".

Invece di dar prova di quell'equilibrio istituzionale e di quel senso di responsabilità politica invocati proprio da Napolitano, Berlusconi fa l'esatto opposto. Invece di rispettare finalmente le regole del gioco democratico, fa saltare per l'ennesima volta il tavolo. Invece di prendere atto della netta presa di posizione della più alta carica dello Stato, ne strumentalizza e ne distorce radicalmente il messaggio. Il comunicato di Napolitano, declinato secondo il verbo palesemente capzioso e tecnicamente sedizioso del Cavaliere, diventa una pubblica "sconfessione" dell'iniziativa del Csm. E dunque "l'ennesima dimostrazione di un uso intollerabile della giustizia per fini di lotta politica contro di noi".

In questi anni Berlusconi ci ha abituato a tutto. Nella discesa agli inferi della "Repubblica del Male Minore" ce ne ha fatte vedere di tutti i colori. Ma ad un simile abisso di irresponsabilità e di cinismo, probabilmente, non ci aveva ancora precipitato. E invece a questo, ormai, siamo arrivati. All'abuso di potere elevato a metodo di governo. Non c'è altro modo, per definire un'"esegesi" così clamorosamente falsa, e dunque costituzionalmente eversiva, delle dichiarazioni e delle funzioni del presidente della Repubblica. E non è tutto. In questa disperata escalation autoritaria del premier l'abuso si somma ad abuso.

Non c'è solo l'inaccettabile "abuso politico" su Napolitano, nella performance mediatica di ieri sera. C'è anche altro. Molto altro. Il presidente del Consiglio parlava in playback. L'audio ufficiale riproponeva la narrazione artificiale di sempre, che amplifica l'irrealtà dei "fattoidi": il solito "partito dell'amore" che sconfiggerà "il partito dell'odio", i soliti "miracoli fatti all'Aquila e in Abruzzo", i soliti "successi ottenuti in questi due anni di lavoro straordinario" rispetto ai "disastrosi fallimenti" della solita sinistra sovietica e sanguinaria e ai pericolosi intendimenti delle solite toghe politicizzate e assatanate. In realtà, la vera voce che ci sembrava di ascoltare, e che riflette la realtà dei fatti, è quella delle intercettazioni telefoniche agli atti della procura di Trani. Quella che grida "io ho parlato con il direttore Masi" intimandogli la chiusura dei talk show politici "perché non c'è nessuna televisione europea in cui ci sono questi pollai e allora perché noi dobbiamo avere queste fabbriche di fango e di odio". Quella che urla all'orecchio di Giancarlo Innocenzi "quello che adesso bisogna concertare è che l'azione vostra sia da stimolo alla Rai per dire "chiudiamo tutto".

Cos'altro è tutto questo, prima e al di là di ogni implicazione di carattere penale, se non un manifesto abuso di potere? In quale altra democrazia liberale del mondo il presidente del Consiglio (leader di un partito che si definisce prima Casa, poi Popolo "della libertà") può permettersi di trattare come un suo maggiordomo il commissario di un'Autorità amministrativa che per legge dovrebbe essere "indipendente"? In quale altro Zimbabwe del mondo il capo di un governo (già proprietario di un impero mediatico privato) può permettersi di trattare come un suo dipendente il direttore generale del servizio pubblico radiotelevisivo? I tanti, pensosi liberali alle vongole dell'Italia terzista si ostinano a dire che queste sono domande risibili. Ripetono che l'Italia è una magnifica democrazia, perché "è bastato un Tar a fermare il presunto golpe sulle liste" e perché in fondo, di tutti gli "strappi" tentati da Berlusconi, quasi nessuno gli riesce.

Questa sì, è una favola. Le regole sono ormai carta straccia. A pochi giorni dal voto per le regionali, i talk show politici sono stati silenziati, e sugli schermi va in onda, gigantesca e solitaria, l'effigie e la parola del Capo. Qualcuno si è accorto che ieri sera, mentre il premier ammoniva le masse dagli schermi del Tg2, vicino al tricolore e alla bandiera dell'Unione Europea campeggiava il simbolo elettorale del Pdl con lo slogan "Berlusconi presidente"? L'ultimo abuso, dopo quello commesso contro Napolitano. E altri ne verranno. Per nostra sventura, e con buona pace dei teorici del "Male Minore".

© Riproduzione riservata (18 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il referendum del Cavaliere
Inserito da: Admin - Marzo 30, 2010, 11:06:48 am
IL COMMENTO

Il referendum del Cavaliere

di MASSIMO GIANNINI


NON servono i tortuosi giri di parole in uso nella Prima Repubblica. Appannato dagli scandali privati, ossessionato dai guai giudiziari, logorato da due anni di non-governo del Paese, Silvio Berlusconi è riuscito in qualche modo a vincere anche queste regionali. Lo ha fatto nell'unico modo che conosce, dall'epifanica "discesa in campo" del '94: trasformando la contesa elettorale in un altro, esiziale "referendum" sulla sua persona. Lo aveva detto lui stesso, alla vigilia di un test di medio-termine al quale si avvicinava con una ragionevole preoccupazione: "Il voto regionale è politico". Ha avuto ragione lui.

Non ha certo ripetuto il plebiscito del 13 aprile 2008, di cui anzi ha dilapidato tanta parte dei consensi. Il suo partito ha perso centinaia di migliaia di voti, sfiorando il 27% nelle regioni in cui si è votato: 4,5 punti in meno rispetto alle regionali del 2005, e addirittura 7 punti in meno rispetto alle politiche 2008. Quasi un tracollo, per il "partito del predellino", l'"amalgama mal riuscito" nel quale il co-fondatore Gianfranco Fini sopravvive con crescente imbarazzo. Ma pur con tutto il travaglio mediatico di questi ultimi due mesi, e con l'evidente affanno politico di questi due anni, il Cavaliere ha comunque vinto il referendum. Suo malgrado, verrebbe da dire.

Grazie alla Lega ha blindato il Nord, espugnando il Piemonte e spopolando in Veneto. Nonostante il malaffare e il Cosentino-gate ha fatto il pieno anche al Sud, strappando con margini bulgari la Campania e la Calabria. E a dispetto del basso profilo della Polverini e dell'assenza del simbolo alla provincia di Roma, ha conquistato anche il Centro, battendo nel Lazio un avversario di caratura nazionale come Emma Bonino. Al centrosinistra restano le briciole. A settentrione il piccolo presidio della Liguria di Burlando, nel Mezzogiorno la sorprendente enclave della Puglia di Vendola, e in mezzo il solito insediamento appenninico del vecchio Pci, dall'Emilia alla Toscana, dall'Umbria alle Marche.

Questo voto si può leggere in molti modi diversi. Si può decrittare in termini di milioni di cittadini "amministrati" da ciascuno dei due schieramenti. Oppure secondo la valenza "strategica" e politica delle singole regioni in cui hanno vinto l'uno o l'altro dei due poli. Oppure, ancora, in base alle "bandierine" piantate su ognuna delle 13 regioni in cui si è votato. Da qualunque punto di vista lo si osservi, il voto ci consegna un'Italia che vede la maggior parte dei cittadini governati anche a livello locale dal centrodestra, che è sbilanciata a vantaggio del centrodestra in tutte le principali macro-regioni, e che anche in termini di "bandierine" piantate sul territorio fotografa un centrodestra in forte recupero, dall'11 a 2 da cui si partiva al 7 a 6 a cui si è arrivati.

Per il governo è un risultato che va al di là di tutte le aspettative. Berlusconi ha pagato un tributo altissimo all'astensionismo, che si è avvicinato ai livelli francesi. Almeno un milione e mezzo di italiani non si è turato il naso dentro l'urna, ma ha preferito andarsene a respirare altrove. È un segnale chiaro di insoddisfazione verso la maggioranza. Ma lo è allo stesso modo anche per l'opposizione, che non ha beneficiato di alcun travaso di flussi elettorali, ma viceversa ha pagato a suo volta un dazio pesante al non voto. Ora si discuterà a lungo su questo crollo oggettivo dell'affluenza, sulle inevitabili riflessioni alle quali sarà chiamato l'intero ceto politico verboso, rissoso e inconcludente, sulla ricorrente pulsione antipolitica che ha nutrito il successo delle derive grilliste ed estremiste.

Ma per il centrodestra e per l'intero Paese il dato politico più clamoroso non è questo. È invece il trionfo della Lega, che ha compiuto la sua ennesima metamorfosi. Con la sorprendente vittoria piemontese il Carroccio ha sfondato un'immaginaria "linea del Ticino", ridisegnando il paesaggio politico della nazione. In Lombardia non c'è stato il "sorpasso", ma il "pareggio" dei voti con il Pdl ha un valore enorme, se si pensa che alle regionali del 2005 i lumbard avevano meno della metà dei voti dell'allora Cdl. Se a questo successo si sommano il trionfo di Zaia in Veneto e quello di Cota in Piemonte, e poi la pervasiva e costante "infiltrazione" lungo il confine tosco-emiliano, l'esito è inequivocabile.

Un centrodestra a trazione leghista quasi integrale ha messo in cassaforte tutto il Nord. Quello più dinamico e più capace di coiniugare localismo culturale e globalismo economico. Di fronte a questo risultato così netto il pur prezioso "avamposto" conservato dal centrosinistra in Liguria è davvero poca cosa. Da ieri è nata davvero la "Padania", che non è più un'astrazione ideologica partorita dalla mente fertile del Senatur, ma è già una formazione geografica scolpita nel perimetro delle regioni più ricche e produttive del Paese, e dunque una realizzazione politica perseguita e infine perfezionata da una classe dirigente totalmente immersa e integrata nel territorio.

Una nuova generazione di dirigenti leghisti ha cambiato l'abito politico di un partito che è sempre meno di lotta e sempre più di governo. La camicia verde si indossa ormai sotto la grisaglia grigia: nelle cerimonie pagane tra le valli alpine come nei consigli d'amministrazione delle fondazioni bancarie. In pochi anni siamo passati dall'illusione di una Lega "costola della sinistra" al paradosso di un Pdl "costola della Lega". Tutto questo, a dispetto delle dichiarazioni rassicuranti di Bossi, non potrà non avere effetti sull'equilibrio interno alla maggioranza, dalla richiesta di nuovi ministeri nell'eventuale rimpasto alla pretesa di candidare un leghista alle prossime comunali di Milano. Ma gli effetti riguarderanno forse l'intero sistema politico. Chi ne vuole una prova, legga le parole di Zaia: "Con questi risultati il bipolarismo è finito".

Per il centrosinistra, in chiave speculare, il dato politico più doloroso riguarda non solo la perdita del Piemonte al Nord, ma anche la bruciante sconfitta al foto-finish nel Lazio. Erano considerate da tutti le regioni chiave di questa tornata, e il Pd le ha cedute tutte e due. È una realtà su cui di dovrà ragionare a fondo. Soprattutto nel Lazio, dove alla candidatura della Bonino il centrosinistra è arrivato con un percorso a dir poco avventuroso, e il Pd si è acconciato più per necessità che per convinzione. Ha pagato anche questo, nell'urna, oltre all'anatema dei vescovi che, a tre giorni dalle elezioni, deve aver giocato un ruolo ancora una volta cruciale per le scelte di molti moderati, evidentemente non ancora "cattolici adulti". E poi c'è lo schianto in due roccaforti del Sud, la Calabria e soprattutto la Campania, dove non è bastato candidare uno "sceriffo" come De Luca per cancellare troppi anni di sfrontato strapotere del vicerè Bassolino.

Ora il Pd cerca nelle pieghe del voto qualche motivo di conforto. E in parte, legittimamente, lo trova. Il risultato dei "democrats" a livello nazionale non è disprezzabile: nel voto di lista oscilla tra il 26 e il 28%, insidia il primato al Pdl, e se segna una caduta forte rispetto al 34,1% delle politiche del 2008 riflette una flessione di appena un punto rispetto alle europee del 2009. Ma il "partito riformista di massa", se pure tiene, non fa breccia nel cuore degli elettori che vogliono resistere al berlusconismo. Lo prova l'astensionismo, che ha eroso i consensi del Pd anche nei luoghi in cui il risultato non era in discussione (Emilia, Marche e Umbria) dove Errani, Spacca e Marini hanno vinto con percentuali molto più basse rispetto alle precedenti tornate elettorali.

Ma lo prova, oltre alla performance di Di Pietro, anche l'exploit delle liste di Grillo, dove si sono presentate come in Emilia e in Lombardia. Un'emorragia grave, che la radicalizzazione della linea politica voluta da Bersani negli ultimi giorni di campagna elettorale non è bastata ad arginare. Non solo. Anche dove ha vinto, come in Puglia o in Liguria, il Pd deve ringraziare soprattutto l'Udc, che nonostante un risultato nell'insieme negativo per le ambizioni terzaforziste di Casini ha comunque drenato voti preziosi al centrodestra con le candidature di disturbo della Poli Bortone e di Biasotti. Per Bersani, e per la sua leadership, si impone un ripensamento profondo delle strategie: sia sul profilo del partito, sia sul fronte delle alleanze.

Ci sarà tempo per il regolamento dei conti, nel centrodestra come nel centrosinistra. Ma quello che importa, adesso, è capire come sarà riempito l'abisso che separa il Paese dalla fine di questa turbinosa legislatura. "Questo voto non cambierà nulla per il governo", aveva annunciato Berlusconi. Più che una previsione, una maledizione. Vengono i brividi, a immaginare altri tre anni come i due che sono appena trascorsi. C'è da sperare che la vittoria della Lega sia foriera di qualche novità positiva. È stato Bossi a dire che dopo il voto occorrerà ritessere il filo del dialogo tra i poli, tranciato di netto dalle intemerate del Cavaliere. Ed è stato Bossi a dire che adesso è lui "l'arbitro delle riforme". L'Italia, insomma, è nelle mani del Senatur. Il futuro prossimo del Paese dipende da un capo che, fino a qualche anno fa, predicava la secessione, urinava sul Tricolore e imprecava contro Roma Ladrona. Oggi rappresenta invece il nuovo "fattore di stabilità" di questo centrodestra, scosso dalle spallate destabilizzanti e dalle sfuriate eversive del Cavaliere. Persino questo estremo paradosso, ci riserva il lento e carsico declino della leadership berlusconiana.

m.giannini@repubblica.it
 
© Riproduzione riservata (30 marzo 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La lezione del colle
Inserito da: Admin - Aprile 01, 2010, 02:59:11 pm
L'EDITORIALE -

Con il suo primo rinvio alle Camere di un testo di legge il capo dello Stato scrive una bella pagina e insegna sia nel merito che nel metodo

La lezione del colle

di MASSIMO GIANNINI


Con il rinvio alle Camere della legge che aggira l'applicazione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori il capo dello Stato scrive una bella pagina nella storia della democrazia italiana. In questo atto di Giorgio Napolitano (che Repubblica aveva anticipato il 15 marzo scorso) c'è una grande lezione, sul merito e sul metodo. Una lezione che va al di là di tutte le polemiche, le forzature e le strumentalizzazioni con le quali troppo spesso, in questo sciagurato Paese, si accompagnano le scelte e le parole del Quirinale. La lezione sul merito è fortissima. Basta leggere il "titolo", per capire che in quel provvedimento c'è qualcosa che non va: "Deleghe al governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione degli enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l'impiego, di incentivi per l'occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro".
Un guazzabuglio di norme astruse e incoerenti, nato con 9 articoli e 39 commi, poi gonfiato a dismisura fino a 50 articoli e 140 commi "riferiti alle materie più disparate", come recita testualmente il messaggio con il quale il presidente lo ha rinviato al Parlamento. "Ho già avuto altre volte occasione di sottolineare gli effetti negativi di questo modo di legiferare sulla conoscibilità e comprensibilità delle disposizioni, sulla organicità del sistema normativo e quindi sulla certezza del diritto", osserva il capo dello Stato, nel chiedere alle Camere di rimodellare quel Frankenstein giuridico che gli è piovuto sul tavolo.

Ma il vero aspetto irricevibile di quel "mostro" normativo (come avevamo scritto ampiamente su questo giornale) riguarda l'articolo 31, che introduce l'arbitrato come forma di composizione delle controversie di lavoro alternative al ricorso al giudice, e per questa via, di fatto, consente al datore di lavoro l'aggiramento dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Napolitano non boccia in assoluto l'istituto dell'arbitrato, che merita di essere valutato "con spirito aperto". Ma esige che queste formule di conciliazione "siano pienamente coerenti con i principi di volontarietà dell'arbitrato e della necessità di assicurare una adeguata tutela del contraente debole", come prevede una consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale. Ebbene, l'articolo 31 della legge non risponde affatto a questa esigenza, e per ragioni che vanno persino al di là dell'implicita "disapplicazione" dell'articolo 18 che comporterebbe. La norma voluta dal governo prevede la possibilità di ricorrere all'arbitro non solo al momento in cui insorga una controversia, ma anche al momento della stipulazione del contratto di lavoro, con un'apposita clausola compromissoria. Questo, per Napolitano, non è accettabile poiché "la fase della costituzione del rapporto è il momento nel quale massima è la condizione di debolezza della parte che offre la prestazione di lavoro". Non solo. Il capo dello Stato giudica non accettabile anche il ricorso all'arbitrato "secondo equità", cioè "in deroga alle disposizioni di legge", senza precise specificazioni sui cosiddetti "diritti indisponibili", anche "al di là di quelli costituzionalmente garantiti". Per finire, il capo dello Stato respinge anche le norme che riguardano il personale imbarcato su navigli militari, che non prevedono tutele adeguate nell'ipotesi di incidenti causati dal contatto con l'amianto.

Dunque, con questo rinvio alle Camere deciso dal Quirinale hanno vinto i molti giuristi che, nelle settimane scorse, avevano evidenziato l'incostituzionalità della legge. Ha vinto la Cgil di Guglielmo Epifani, che si era mobilitata contro il provvedimento, annunciando un ricorso alla Consulta. E sul fronte opposto ha perso il governo che non ha voluto ascoltare, e insieme la Cisl e la Uil che con troppa solerzia, insieme alla Confindustria, si sono affrettate a sottoscrivere un "avviso comune", nella miope e pretenziosa convinzione che l'ennesimo "accordo separato" potesse supplire alle manchevolezze di una legge. Ha perso il ministro Sacconi, che con troppa arrogante sicumera aveva annunciato che la legge non sarebbe mai cambiata perché era perfetta così. E con lui hanno perso tutti quelli che, usando a sproposito e senza vergogna il nome del povero Marco Biagi, continuano a manipolare a proprio uso e consumo le sue idee, brandendole come arma ideologica nella battaglia sui diritti del lavoro. Volendo, tra i perdenti ci sarebbero da aggiungere anche quegli house-organ della destra che, il giorno dopo l'anticipazione di "Repubblica" sulle intenzioni del capo dello Stato, inocularono le loro solite dosi di veleno nel dibattito pubblico. "Perfino il Quirinale è stufo delle bufale di Repubblica", "Le balle di Repubblica irritano Napolitano": erano i titoli del Giornale e di Libero del 16 marzo. Episodi che suggerirebbero una riflessione più profonda, sullo stato dell'informazione in questo Paese. Ma nel caso specifico non vale la pena: da tempo, in alcune redazioni non si fa più giornalismo, ma solo squadrismo.

La lezione sul metodo è chiarissima. Per la prima volta dall'inizio del suo settennato, il presidente usa i poteri che gli conferisce l'articolo 74 della Costituzione. Rifiuta la promulgazione di una legge, e con messaggio motivato chiede alle Camere una nuova deliberazione, che tenga conto dei suoi rilievi al testo. Siamo dunque all'interno della pura e semplice fisiologia costituzionale, cioè della più naturale e ortodossa dinamica dei rapporti istituzionali. Il governo presenta una legge, il Parlamento la approva, il capo dello Stato solleva dubbi, ravvisa antinomie, e la rinvia chiedendone una revisione. Sarebbe la "normalità", in un Paese normale. Ma in Italia lo è molto meno. Per due ragioni. La prima ragione: a causa delle continue spallate che l'esecutivo assesta a tutti gli altri poteri (il legislativo e il giudiziario, per non parlare delle più alte magistrature dello Stato, dalla Consulta alla stessa presidenza della Repubblica) anche l'usuale esercizio delle prerogative del capo dello Stato viene decrittato, di volta in volta, o come uno "schiaffo", o come un "cedimento" ai voleri del capo del governo. Non è così, e meno che mai in questa circostanza. La seconda ragione: proprio per evitare questa perversa e fuorviante "ermeneutica" politica degli atti presidenziali, da alcuni anni, e in particolare con il settennato di Carlo Azeglio Ciampi, il Colle aveva rilanciato un'altra formula, molto cara a Luigi Einaudi. La cosiddetta "moral suasion", cioè quel meccanismo di gestione e consultazione "preventiva" sulle leggi volute dal governo, rispetto alle quali la presidenza della Repubblica dà consigli e suggerimenti in corso d'opera, prima o durante il dibattito parlamentare. L'obiettivo della "moral suasion" è chiaramente quello di far sì che al Colle, ad approvazione avvenuta, arrivi un testo sicuramente già "compatibile", sul piano della legittimità costituzionale e dell'opportunità politica, e dunque immediatamente promulgabile.

Ebbene questo meccanismo, per poter funzionare e dare frutti, poggia su fondamenta precise: la "leale collaborazione tra le istituzioni". Non si può dire che sia stata e sia questa, la cifra dei rapporti che Berlusconi ha intessuto con gli inquilini del Quirinale. Sia pure con toni e sfumature diverse, da Scalfaro a Ciampi, fino a Napolitano, gli attacchi e i conflitti innescati dal Cavaliere sono stati quasi all'ordine del giorno. Dunque, in questo "no" deciso dal capo dello Stato si potrebbe anche leggere, in traluce, una svolta rispetto al più recente passato. Quasi un ritorno, dalla consuetudine costituzionale, alla Costituzione formale. Cioè dal tentativo non scritto di "co-gestione" ex ante implicito nella "moral suasion", al dispositivo sancito dall'articolo 74 con la formula ex post del rinvio alle Camere. Se così fosse il capo dello Stato, restringendo apparentemente quella che Giuliano Amato definiva "la fisarmonica dei poteri presidenziali", in realtà tornerebbe ad ampliarli fino alla loro massima estensione. Perché questo è il diniego di promulgazione di una legge e la richiesta di una nuova deliberazione: un potere al quale il capo dello Stato può ricorrere non solo per motivi di manifesta incostituzionalità o mancanza di copertura finanziaria, ma anche per ragioni di opportunità politica o coerenza giuridica.

Qui sta la lezione sul metodo di Napolitano. Con questa sua scelta, forse, si chiude una stagione. E ne comincia un'altra, non meno densa di incognite, ma probabilmente caratterizzata da una dialettica istituzionale più chiara. Teoricamente meno serrata, ma potenzialmente perfino più traumatica. Ed è giusto così. Sul cammino impervio delle riforme non possono esserci zone grigie. Tocca al governo assumersi fino in fondo tutte le sue responsabilità.

m.gianninirepubblica.it
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Consenso senza politica
Inserito da: Admin - Aprile 16, 2010, 09:08:27 am
IL COMMENTO

Consenso senza politica

di MASSIMO GIANNINI


Sembra un paradosso, eppure sta accadendo. A poco più di un anno dalla sua fondazione, e a poco meno di un mese da un complicato successo elettorale sbandierato come un trionfo dell'Armata Invincibile, il Partito del Popolo della Libertà vive la sua crisi più acuta, e forse addirittura irreversibile. È ancora presto per trarre conclusioni politiche definitive dal vertice di ieri tra il presidente del Consiglio e il presidente della Camera. Da una parte, Berlusconi è uomo dalle infinite risorse. In tutti i sensi.

Soprattutto nelle condizioni più critiche, sfodera il meglio (e spesso anche il peggio) di sé. È un negoziatore a tutto campo: tra minacce mediatiche a mezzo stampa o tv e campagne acquisti a suon di poltrone o prebende, si è quasi sempre dimostrato capace di "regolare" da par suo i conflitti interni ed esterni alla sua maggioranza. Dall'altra parte, Fini è comunque uomo della destra italiana, e sbaglia o si illude chi lo sospetta in transito verso un "altrove" che, per adesso e fino a prova contraria, esiste solo nella fantasia di qualche sognatore.

Ma nel teso faccia a faccia tra i due sembra essersi consumato qualcosa di molto più profondo di un semplice strappo tattico. Siamo al confine di una vera e propria rottura politica. O forse, salvo sorprese, quel confine è stato già valicato. Si capirà meglio nelle prossime ore. Ma intanto quello che è già chiaro è il "cambio di fase", per la maggioranza e dunque per il governo. Il confronto-scontro tra il fondatore e il co-fondatore del Pdl sancisce ciò che era evidente fin dalla nascita della loro "creatura". Una visione inconciliabile della politica: populista e plebiscitaria per Berlusconi, pluralista e legalitaria per Fini. Un'idea incompatibile della destra: radicale e tecnicamente sediziosa per Berlusconi, laica e costituzionalmente repubblicana per Fini. Questa irriducibile distanza tra i due, emersa con assoluta chiarezza al congresso fondativo del partito, non si è mai colmata in questi lunghi mesi di "coabitazione".

Anzi, si è estesa fino al limite più estremo. E non poteva che essere così. Dalle regionali, al di là della propaganda di regime, è uscita una coalizione totalmente squilibrata, nella quale il Pdl perde oltre due milioni di voti mentre la Lega ne ha persi "solo" 177 mila ma ha blindato il Nord. Bossi è passato immediatamente all'incasso: si è intestato la vittoria, ha preso in mano il timone delle riforme, ha prenotato la premiership per il 2013 ed ha annunciato la conquista delle banche del Nord. In pochi giorni, il Senatur ha spostato sul Carroccio l'intero asse dell'alleanza. Per Fini, che prima delle elezioni aveva ripetuto al Cavaliere "stai attento a non trasformare il Pdl in una fotocopia della Lega", questo non poteva essere accettabile. Per ragioni politiche: lui è il co-fondatore, e vuole legittimamente pesare nelle scelte del partito di maggioranza. Per ragioni identitarie: lui è la destra nazionale, e non può tollerare che le sue radici vengano divelte tra la secessione nordista dei padani agguerriti la leghizzazione sudista dei forzitalioti pentiti. E per ragioni istituzionali: lui è la terza carica dello Stato, può svolgere un ruolo prezioso per il premier sul cammino delle riforme, e non può invece ritrovarsi fuori dal tavolo della trattativa, scalzato da un Calderoli che senza avvertire nessuno sale al Quirinale con una sua bozza di nuova Costituzione.

Era chiaro che questa corda, tesa fino al suo massimo, doveva prima o poi rompersi. Ora ci siamo. Fini è pronto a creare il suo gruppo parlamentare. Meno di un nuovo partito, ma molto più che una fondazione o una corrente. Se Berlusconi non riuscisse a ritrovare l'accordo con il suo alleato, e se l'autonomizzazione finiana andasse in porto, il Pdl sarebbe un'altra cosa, anche rispetto all'"amalgama mal riuscito" che abbiamo conosciuto finora. Nel centrodestra berlusconiano non ha mai avuto diritto di cittadinanza una concezione "altra", rispetto a quella autoritaria e cesarista del Cavaliere. Ora questa "alterità", per la prima volta, trova un luogo fisico, e politico, nel quale esprimersi. Con quali effetti destabilizzanti, per la maggioranza e per il governo, è facile immaginare. Anche al di là della portata numerica della "divisione" finiana in Parlamento.

Questo è il paesaggio italiano di metà legislatura. Questo è il travagliato "mid-term" berlusconiano, quello di un sovrano che regna ma non governa. Si verifica quanto avevamo più volte previsto: il grande "partito di massa dei moderati" non è mai nato. Quel progetto, per stare in piedi, aveva bisogno di una politica. E Berlusconi una vera politica non l'ha mai costruita. Ha assemblato schegge di partito, tenendole insieme con il cemento degli interessi. Questo è il risultato. Altro che "la nave va", secondo il vecchio adagio di Craxi. Altro che tre anni di navigazione con il vento in poppa, libero dalle tempeste elettorali e sulla rotta delle grandi riforme istituzionali, come i berluscones avevano gridato con bugiarda prosopopea dopo le regionali del 28 marzo. Oggi, a meno di tre settimane da quel posticcio trionfo, persino il presidente del Senato Schifani, da sempre più realista del re, deve avvertire la corte che "quando una maggioranza si divide non resta che tornare alle urne". Magari non si arriverà alle elezioni anticipate. Ma la "corazzata" di Berlusconi fa acqua da tutte le parti, e naviga a vista in mezzo agli scogli. Ha il consenso, ma non ha più una politica. Solo un Pd irresoluto e irresponsabile poteva pensare di offrirgli una sponda sulle riforme, rimettendo persino in discussione l'obbligatorietà dell'azione penale. Non si capisce cosa ci sia di così "dolce" a naufragare in questo mare.

m.giannini@repubblica.it

© Riproduzione riservata (16 aprile 2010)
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Legge ad corporationem
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2010, 07:41:59 am
Legge ad corporationem

di Massimo Giannini

Angelino Alfano è ministro operoso e fantasioso. I suoi "Lodi" passeranno alla storia di questa legislatura. Il dinamico Guardasigilli non ha inventato solo il Lodo per proteggere il Cavalier Berlusconi dai processi penali che lo inseguono da oltre quindici anni.
Ora sta progettando anche un Lodo per proteggere gli ordini professionali dalla crisi economica che li deprime da almeno due anni. L'intenzione è lodevole: di riforma organica delle professioni si discute, inutilmente, da trent'anni. Ma la concezione è discutibile: la proposta che circola, più che a tutelare queste categorie dalla recessione, sembra finalizzata ad escluderle dalla concorrenza.

Avvocati e notai, ingegneri e architetti, commercialisti e consulenti del lavoro: quello degli ordini professionali è un universo economico importante, almeno 2 milioni di addetti, che produce il 12,5% del Pil. Le richieste vanno ascoltate, le difficoltà vanno affrontate.
Ma c'è una cosa che non si può e non si deve fare: confondere la riforma complessiva con l'autodifesa corporativa. E invece è esattamente quello che Alfano farà, disponendo la reintroduzione delle tariffe minime. L'abolizione di questo vincolo, che soffoca il mercato e penalizza soprattutto i giovani, era stata quattro anni fa una delle principali conquiste della "lenzuolata" di Bersani.

Non a caso, adesso, proprio questo è il cuore della battaglia dei professionisti, che chiedono a gran voce il ripristino di quello strumento di selezione degli accessi e di conservazione dello status quo. Il centrodestra, anche in questo caso, conferma la visione protezionista delle sue politiche. E il ministro Alfano, anche in questo caso, conferma la sua inguaribile propensione per le norme tagliate a misura di pochi beneficiari. Il vero obiettivo della riforma è "l'Ordine dei cittadini", ha scritto in un aulico intervento sul Sole 24 Ore.

Niente di più falso. Siamo invece alle solite. Leggi ad personam, nel caso del presidente del Consiglio. Leggi ad corporationem, nel caso dei professionisti. Alla faccia del Popolo delle Libertà.

m. giannini@repubblica. it

(19 aprile 2010)


Titolo: MASSIMO GIANNINI La stagione della diaspora
Inserito da: Admin - Aprile 21, 2010, 03:21:59 pm
IL COMMENTO

La stagione della diaspora

di MASSIMO GIANNINI

LA diaspora finiana si è dunque compiuta. Non è una rottura che prelude a una scissione, ma neanche un'abiura che prepara una capitolazione. La nascita formale di una componente di minoranza guidata da Gianfranco Fini dentro il Pdl rappresenta comunque una svolta politica importante. Segna la fine del Popolo della Libertà come lo abbiamo conosciuto finora.

Lo "spirito del Predellino", nell'ottica del co-fondatore, non c'è più. Il partito personale si trasforma in un partito (quasi) normale.

Nella logica finiana, questa svolta sancisce l'avvio di un lunghissimo e complicatissimo processo di autonomizzazione. Personale, nei confronti dell'uomo che lo ha sdoganato nel lontano 1993. Politico, nei confronti di un centrodestra ormai a esclusiva trazione forzaleghista. Bisogna dare atto al presidente della Camera di non aver ceduto, e di aver difeso con coerenza la sua posizione, difficile e a tratti quasi insostenibile. Dentro un Pdl forgiato nel freddo di Piazza San Babila dall'"unico fondatore" (Berlusconi) e poi modellato nel fuoco della vandea nordista sui bisogni dell'"unico alleato" (Bossi), per Fini non era semplice far valere e far vivere un'idea radicalmente diversa. Un altro modo di intendere la politica in nome del bene comune. Di rappresentare la cultura di una moderna destra europea. Di convivere dentro un partito autenticamente libero, plurale, democratico.

Con la sua "corrente del Presidente", almeno Fini ci prova. Citando Ezra Pound, cioè rischiando l'osso del collo in nome di quell'"idea diversa". Qui ed ora l'operazione appare quasi temeraria. A giustificare la diaspora manca una vera pietra d'inciampo politico. Manca un "casus belli" chiaro, riconosciuto e riconoscibile (a meno di voler considerare tale, e così non è, la presenza di una poltrona in più nell'organigramma o la mancanza di una politica per il Sud). I suoi ex colonnelli, nella stragrande maggioranza, non lo seguono. E forse i suoi elettori, nella stragrande maggioranza, non lo capiscono.

Ma quella di Fini non è e non può essere una guerra lampo. Sarà piuttosto una guerra di logoramento. Come annunciano nei corridoi i cinquanta "fedelissimi" del presidente, si consumerà nei rapporti istituzionali, nelle aule parlamentari, negli organismi del partito. E questo la dice lunga su cosa sta diventando il glorioso Partito del popolo della Libertà. E su cosa diventeranno i prossimi tre anni di legislatura. Altro che le verdi vallate delle riforme. Piuttosto il Vietnam delle imboscate.

Nella logica berlusconiana, tutto questo è sufficiente per comprendere la portata "eversiva" della metamorfosi in atto. Il battesimo di una "corrente del Presidente" dentro il Pdl, nella visione cesarista del premier, è intollerabile perché incomprensibile. Lo scriveva ieri "Il Foglio" di Giuliano Ferrara (che sa di cosa parla) citando il commento di Wellington, capo di governo di Sua Maestà britannica, alla fine della sua prima riunione del gabinetto: "Non capisco. Ho dato un ordine, e tutti si sono messi a discutere". Questo deve essere lo stato d'animo del Cavaliere, di fronte alle "discussioni" alle quali vuole inchiodarlo il co-fondatore. Lui ha dato e dà i suoi ordini: che bisogno c'è di discutere?

E infatti Berlusconi non vuole discutere. Né con Fini, né con chiunque altro. Il solo interlocutore con il quale accetta il dialogo alla pari è e continuerà ad essere il Senatur, che gli porta in dote la Padania ormai nata. Per questo non farà sconti al presidente della Camera. Ignorerà le sue richieste e le sue proteste. E continuerà a indicargli il ritorno alla "casa del padre" (la vecchia Alleanza nazionale) se della nuova casa non condivide le regole e le gerarchie. Ma è proprio per questo che la diaspora che si è aperta nella coalizione, anche se non sfocerà in una scissione, non potrà mai finire. La "coabitazione" si tradurrà in un equilibrio destabilizzante. La maggioranza sarà costretta a una mediazione estenuante. Il governo sarà condannato a un galleggiamento paralizzante. I danni per il Paese saranno incalcolabili.

Fini sta chiedendo a Berlusconi di non essere più Berlusconi. Questa è la sfida impossibile del co-fondatore. Sta proponendo al fondatore del Pdl di fare il "segretario", mentre lui è sicuro di esserne il "proprietario". Il presidente della Camera affronta questa battaglia quasi a mani nude: ha molte idee, ma pochi soldati. La sua vera arma è l'anagrafe. Ma non è detto che gli basti, contro quello che i giornali di famiglia ormai definiscono "Cav. Il Sung".

(21 aprile 2010) © Riproduzione riservata
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Spiegare o dimettersi
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2010, 06:31:10 pm
IL COMMENTO

Spiegare o dimettersi

di MASSIMO GIANNINI

Non è una buona notizia per la democrazia sapere che un ministro della Repubblica è finito nell'inchiesta sulla "cricca" del G8 all'Aquila. Per questo, da garantisti, ci auguriamo che il coinvolgimento di Claudio Scajola in quella brutta storia di corruzione e malaffare si risolva in una "bolla di sapone", come si è affrettato a scommettere il premier. Ma gli elementi a carico del ministro sembrano pesanti: secondo i pm, ci sono le prove testimoniali che Scajola avrebbe usato gli assegni circolari messi a disposizione da Anemone (non si sa a che titolo) per comprare un appartamento a due passi dal Colosseo.

Profili giudiziari a parte, c'è un obbligo di chiarezza al quale un servitore dello Stato non può sottrarsi. Se il ministro si ritiene vittima di "un'intimidazione", non può limitarsi a parlare di "attacco inspiegabile": ha il dovere di spiegare se la compravendita immobiliare che lo riguarda è vera o è falsa. Se è convinto che dietro ci sia un misterioso "disegno preordinato", non può limitarsi a evocare "oscuri manovratori": ha il dovere di spiegare ciò che sa di questo "complotto" e chi sono i "complottisti". Ma se invece non è in grado di fornire al Paese queste spiegazioni, Scajola ha invece un altro dovere: dimettersi. Si chiama etica della responsabilità, ed è l'essenza della ragion politica.
m. gianninirepubblica. it
 

(30 aprile 2010) © Riproduzione riservata
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il rischio dell'Europa
Inserito da: Admin - Maggio 06, 2010, 11:58:18 pm
Il rischio dell'Europa

Massimo Giannini

A forza di evocarla e di usarla come metafora di questa crisi finanziaria, la vera tragedia greca si è infine compiuta. Tre morti negli scontri di piazza di ieri, tre vittime innocenti, impiegati di un istituto di credito assalito dai black bloc che protestavano contro l’ Europa che impone sacrifici, lacrime, sudore e sangue. È un destino fatale che l’attacco contro una banca, luogo simbolo della tecnocrazia finanziaria, sia avvenuta nell’agora di Atene, da sempre per l’ Occidente luogo simbolo della democrazia politica. È la rivolta dei popoli contro le élite, il difficile rapporto, o spesso l’ irriducibile conflitto, tra le decisioni di pochi e le opinioni di molti.

La tragedia greca, da questo punto di vista, è molto di più di un problema di tenuta dell’Unione monetaria europea. Certo, il tema di come si convive in un consesso internazionale che, per condividere la stessa valuta, deve anche condividere le stesse politiche fiscali, rimane in tutta la sua portata. Così come resta in tutta la sua gravità il rischio che questa nuova "crisi periferica" si trasformi nel collasso di un sistema, e cioè che la bancarotta della Grecia trascini nell’ abisso, attraverso il temuto contagio di cui parla da tempo l’ economista Nouriel Roubini, Paesi come la Spagna, il Portogallo, l’ Italia e, in una prospettiva di medio termine, persino la Gran Bretagna.

Sarebbe non solo la fine dell’ euro, ma la fine della stessa Europa come l’abbiamo conosciuta in mezzo secolo di storia. E sarebbe anche il probabile, nuovo crollo dell’ economia mondiale, poiché il default dei debiti sovrani e il crac di un sistema bancario come quello anglosassone avrebbe riflessi immediati, e devastanti, anche sull’ economia americana e su quella asiatica. La prova che il pericolo è alle porte sta in molti indizi che si affastellano, in queste ore convulse. Sta nelle reazioni pessime della Borsa giapponese e cinese alle notizie greche. Sta nella telefonata che Obama ha fatto alla Merkel a inizio settimana, per caldeggiare l’ impegno della Germania nel piano di aiuti alla Grecia. Sta nella lettera congiunta che la Cancelliera ha scritto alla Ue insieme a Sarkozy, per chiedere all'Unione di fare tutto ciò che è necessario "per salvare l’ euro": un segnale non solo di esplicita assunzione di responsabilità dell’ asse franco-tedesco, ma anche e soprattutto di implicito allarme sul possibile tracollo dell’ Unione monetaria.

Ma sullo sfondo di queste fibrillazioni finanziarie e di queste consultazioni diplomatiche, nella drammatica temperie europea incarnata dal fuoco che uccide tre persone rinchiuse in una banca brucia ancora una volta, come già accadde alla vigilia della nascita dell’ euro, un problema più generale, e per molti versi più epocale: quello della sovranità dei governi e della legittimità delle democrazie.

(06 maggio 2010)

http://www.repubblica.it/rubriche/market-place/2010/05/06/news/la_tragedia_del_2010-3857486/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il rischio dell'Europa
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2010, 10:56:18 am
Il rischio dell'Europa

Massimo Giannini

A forza di evocarla e di usarla come metafora di questa crisi finanziaria, la vera tragedia greca si è infine compiuta. Tre morti negli scontri di piazza di ieri, tre vittime innocenti, impiegati di un istituto di credito assalito dai black bloc che protestavano contro l’ Europa che impone sacrifici, lacrime, sudore e sangue. È un destino fatale che l’attacco contro una banca, luogo simbolo della tecnocrazia finanziaria, sia avvenuta nell’agora di Atene, da sempre per l’ Occidente luogo simbolo della democrazia politica. È la rivolta dei popoli contro le élite, il difficile rapporto, o spesso l’ irriducibile conflitto, tra le decisioni di pochi e le opinioni di molti.

La tragedia greca, da questo punto di vista, è molto di più di un problema di tenuta dell’Unione monetaria europea. Certo, il tema di come si convive in un consesso internazionale che, per condividere la stessa valuta, deve anche condividere le stesse politiche fiscali, rimane in tutta la sua portata. Così come resta in tutta la sua gravità il rischio che questa nuova "crisi periferica" si trasformi nel collasso di un sistema, e cioè che la bancarotta della Grecia trascini nell’ abisso, attraverso il temuto contagio di cui parla da tempo l’ economista Nouriel Roubini, Paesi come la Spagna, il Portogallo, l’ Italia e, in una prospettiva di medio termine, persino la Gran Bretagna.

Sarebbe non solo la fine dell’ euro, ma la fine della stessa Europa come l’abbiamo conosciuta in mezzo secolo di storia. E sarebbe anche il probabile, nuovo crollo dell’ economia mondiale, poiché il default dei debiti sovrani e il crac di un sistema bancario come quello anglosassone avrebbe riflessi immediati, e devastanti, anche sull’ economia americana e su quella asiatica. La prova che il pericolo è alle porte sta in molti indizi che si affastellano, in queste ore convulse. Sta nelle reazioni pessime della Borsa giapponese e cinese alle notizie greche. Sta nella telefonata che Obama ha fatto alla Merkel a inizio settimana, per caldeggiare l’ impegno della Germania nel piano di aiuti alla Grecia. Sta nella lettera congiunta che la Cancelliera ha scritto alla Ue insieme a Sarkozy, per chiedere all'Unione di fare tutto ciò che è necessario "per salvare l’ euro": un segnale non solo di esplicita assunzione di responsabilità dell’ asse franco-tedesco, ma anche e soprattutto di implicito allarme sul possibile tracollo dell’ Unione monetaria.

Ma sullo sfondo di queste fibrillazioni finanziarie e di queste consultazioni diplomatiche, nella drammatica temperie europea incarnata dal fuoco che uccide tre persone rinchiuse in una banca brucia ancora una volta, come già accadde alla vigilia della nascita dell’ euro, un problema più generale, e per molti versi più epocale: quello della sovranità dei governi e della legittimità delle democrazie.

(06 maggio 2010)
L'indice della rubrica

http://www.repubblica.it/rubriche/market-place/2010/05/06/news/la_tragedia_del_2010-3857486/


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'iniquità irresponsabile
Inserito da: Admin - Maggio 27, 2010, 04:38:24 pm
IL COMMENTO

L'iniquità irresponsabile

di MASSIMO GIANNINI

"Più di così non si poteva fare", dice Berlusconi della manovra approvata dal governo "salvo intese", con una formula da vecchio pentapartito della Prima Repubblica. Almeno su questo il presidente del Consiglio ha ragione: 24 miliardi sono tanti, per un Paese che da una decina d'anni perde competitività e produttività e langue con un tasso di crescita dello 0,5%. Tuttavia meglio di così non solo si poteva, ma si doveva fare. Su questo il premier ha torto marcio.

Non sono in discussione la necessità politica e l'urgenza economica di questa legge finanziaria fuori stagione, fatta di "sacrifici duri" e varata in corsa "per evitare che l'Italia faccia la fine della Grecia", secondo la definizione-shock usata tre giorni fa da Gianni Letta. Sono invece in discussione altri due aspetti, non meno essenziali: l'irresponsabilità ideologica e l'iniquità sociale. L'irresponsabilità ideologica è iscritta nel codice genetico del berlusconismo, come forma di negazione della realtà e di manipolazione della verità. Questa "manovra epocale", o "tornante della storia" secondo la prosa enfatica di Tremonti, è precipitata sul Paese in un improvviso clima di "emergenza nazionale". Per più di due anni il premier ha raccontato che la crisi non c'è mai stata, o che comunque era già finita. In meno di due settimane si scopre invece che rischiamo la bancarotta. Un drammatico cambio di fase. Per gli italiani è un trauma psicologico, per il governo un cortocircuito politico. L'unico modo per uscirne sarebbe stata una grande operazione di onestà, e dunque una forte assunzione di responsabilità. Berlusconi, in sostanza, avrebbe dovuto presentarsi in tv e dire: signore e signori, i fatti mi hanno dato torto, ho sbagliato la mia analisi sulla crisi, me ne scuso e vi chiedo di fare, tutti insieme, un grande sforzo per salvare il nostro Paese e la moneta unica.

Questo sarebbe stato un "discorso sul bene comune", comprensibile e condivisibile. Esattamente quello che è mancato in queste ore, e che deve essersi perduto in questi giorni nell'aspro braccio di ferro tra il premier e il suo ministro del Tesoro. Ieri, in conferenza stampa, Berlusconi ha continuato a negare l'evidenza, segnando una "cesura" arbitraria tra la crisi finanziaria partita due anni fa in America con i mutui subprime, trasformatasi poi in crisi mondiale per le economie reali, e la crisi "speculativa" contro l'euro esplosa in queste ultime settimane. Ha scoperto oggi che "abbiamo un debito pubblico insostenibile per colpa dei governi della Sinistra" (dov'è stato lui dal '94 in poi, e perché dal 2001 al 2006 ha azzerato l'avanzo primario che Ciampi aveva faticosamente portato al 5% del Pil?). Ha scoperto oggi che "abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità", e per questo "dobbiamo ridurre la presenza dello Stato in economia". Una lettura auto-assolutoria, che finge di non vedere le connessioni di questo disastro globale, per occultare le omissioni del governo di fronte ad esso.

Tremonti, al contrario, non ha mai negato la crisi. Non ha mai nascosto le difficoltà della fase, anche se non ha brillato per originalità delle soluzioni. Davanti all'attacco speculativo contro i debiti sovrani dell'eurozona, e di fronte al perdurare di una recessione ostinata, il ministro è stato coerente. Ha impostato una manovra "pesante", che riduce in due anni il deficit a colpi di taglio alla spesa pubblica. E l'ha affidata al premier, perché se ne assumesse la responsabilità di fronte al Paese. Ma è esattamente questo che il Cavaliere non può accettare. Che tocchi a lui l'ingrato compito di associare la sua immagine alla parola "sacrifici". Che tocchi a lui farsi "commissariare" non da Tremonti ma dalla verità, cioè dall'interpretazione che Tremonti dà della crisi. Che tocchi a lui, in definitiva, fare quello che fanno tutti i governanti normali nelle normali democrazie occidentali: spiegare ai cittadini cosa succede, e "rendere conto" delle scelte che si fanno. Tutto questo cozza contro l'ideologia berlusconiana, nutrita di suggestioni narrative e di moduli assertivi che rifiutano a priori il principio di realtà e dunque non contemplano, neanche a posteriori, l'etica della responsabilità.

L'iniquità sociale di questa manovra discende dalla sua stessa irresponsabilità ideologica. È giusto tagliare la spesa pubblica corrente e improduttiva, che soprattutto i governi di centrodestra hanno fatto crescere in questi anni a ritmi superiori al 2% l'anno. Ma è evidente a tutti che mai come stavolta la stangata è squilibrata e "di classe". Pesa quasi per intero sulle spalle del pubblico impiego. Nessuno nega le sacche di inefficienza e i relativi "privilegi" che si annidano in questo settore: dall'impossibilità di essere licenziati o cassintegrati ai rinnovi contrattuali spesso superiori al tasso di inflazione programmata. Ma nessuno può negare che i livelli retributivi, nel settore pubblico, siano in assoluto già bassi e spesso bassissimi. Come si fa a chiedere il tributo più doloroso a quei 3 milioni e 600 mila dipendenti pubblici che guadagnano in media 1.200 euro al mese, senza chiedere nulla a chi ha redditi infinitamente superiori nel privato, nelle professioni, nelle imprese? E come si fa a non vedere che Germania, Frangia e Gran Bretagna hanno varato manovre ancora più severe, imponendo lacrime e sangue prima di tutto ai ceti più abbienti e alle banche?

Ma anche qui, in fondo, c'è una spiegazione ideologica che giustifica la scelta. Si parte dall'assunto forzaleghista che vuole i dipendenti fannulloni per definizione. E dunque, implicitamente, il governo gli propone uno scambio immorale: io ti rinnovo la tua "sinecura", ma in cambio ti congelo gli stipendi per tre anni. E qui si annida l'estremo paradosso di questa manovra che si profila come una vera e propria controriforma. Con la batosta sul pubblico impiego e la scure sugli enti locali, Berlusconi azzera in un colpo solo le uniche due riforme di cui poteva fregiarsi in questo primo biennio di governo: la riforma del pubblico impiego di Brunetta e la riforma federalista di Bossi. Il decretone di ieri le distrugge entrambe, almeno fino alla fine della legislatura.
Di buono, alla fine, resta la quantità dei tagli, non certo la qualità. Speriamo che basti a convincere i mercati che noi non siamo tra i "maiali" di Eurolandia. Ma di certo non basta a dire che il Paese "è in mani sicure". E meno che mai a pensare che "siamo tutti sulla stessa barca", come ha detto ieri il Cavaliere. In troppi, a partire dagli evasori fiscali che hanno scudato i capitali, non rischiano la pelle in mezzo alla tempesta perfetta. Se ne stanno sul molo, a godersi lo spettacolo.
m.giannini@repubblica.it

(27 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/05/27/news/commento_manovra-4363896/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Ciampi: "La notte del '93 con la paura del golpe"
Inserito da: Admin - Maggio 29, 2010, 12:43:55 pm
IL COLLOQUIO

Ciampi: "La notte del '93 con la paura del golpe"

Parla l'ex presidente della Repubblica: "Alle quattro di notte parlai con Scalfaro al Quirinale e gli dissi 'dobbiamo reagire'.

Grasso dice cose giuste"

di MASSIMO GIANNINI


ROMA - "Non c'è democrazia senza verità. Questo è il tempo della verità. Chi c'è dietro le stragi del '92 e '93? Chi c'è dietro le bombe contro il mio governo di allora? Il Paese ha il diritto di saperlo, per evitare che quella stagione si ripeta...". Dopo la denuncia di Piero Grasso 1, dopo l'appello di Walter Veltroni 2, ora anche Carlo Azeglio Ciampi chiede al governo e al presidente del Consiglio di rompere il muro del silenzio, di chiarire in Parlamento cosa accadde tra lo Stato e la mafia in uno dei passaggi più oscuri della nostra Repubblica.

L'ex presidente, a Santa Severa per un weekend di riposo, è rimasto molto colpito dalle parole del procuratore nazionale antimafia, amplificate dall'ex leader del Pd. E non si sottrae a una riflessione e, prima ancora, a un ricordo di quei terribili giorni di quasi vent'anni fa. "Proprio la scorsa settimana ho parlato a lungo con Veltroni, che è venuto a trovarmi, di quelle angosciose vicende. E ora mi ritrovo al 100 per cento nei contenuti dell'intervista che ha rilasciato a "Repubblica". Quelle domande inevase, quel bisogno di sapere e di capire, riflettono pienamente i miei pensieri. Tuttora noi non sappiamo nulla di quei tragici attentati. Chi armò la mano degli attentatori? Fu solo la mafia, o dietro Cosa Nostra si mossero anche pezzi deviati dell'apparato statale, anzi dell'anti-Stato annidato dentro e contro lo Stato, come dice Veltroni? E perché, soprattutto, partì questo attacco allo Stato? Tuttora io stesso non so capire... ".

Il ricordo di Ciampi è vivissimo. E il presidente emerito, all'epoca dei fatti presidente del Consiglio di un esecutivo di emergenza, che prese in mano un Paese sull'orlo del collasso politico (dopo Tangentopoli) e finanziario (dopo la maxi-svalutazione della lira) non esita ad azzardare l'ipotesi più inquietante: l'Italia, in quel frangente, rischiò il colpo di Stato, anche se è ignoto il profilo di chi ordì quella trama. "Il mio governo fu contrassegnato dalle bombe. Ricordo come fosse adesso quel 27 luglio, avevo appena terminato una giornata durissima che si era conclusa positivamente con lo sblocco della vertenza degli autotrasportatori. Ero tutto contento, e me ne andavo a Santa Severa per qualche ora di riposo. Arrivai a tarda sera, e a mezzanotte mi informarono della bomba a Milano. Chiamai subito Palazzo Chigi, per parlare con Andrea Manzella che era il mio segretario generale. Mentre parlavamo al telefono, udimmo un boato fortissimo, in diretta: era l'esplosione della bomba di San Giorgio al Velabro. Andrea mi disse "Carlo, non capisco cosa sta succedendo...", ma non fece in tempo a finire, perché cadde la linea. Io richiamai subito, ma non ci fu verso: le comunicazioni erano misteriosamente interrotte. Non esito a dirlo, oggi: ebbi paura che fossimo a un passo da un colpo di Stato. Lo pensai allora, e mi creda, lo penso ancora oggi... ".

Resta da capire per mano di chi. Su questo Ciampi allarga le braccia. "Non so dare risposte. So che allora corsi come un pazzo in macchina, e mi precipitai a Roma. Arrivai a Palazzo Chigi all'una e un quarto di notte, convocai un Consiglio supremo di difesa alle 3, perché ero convinto che lo Stato dovesse dare subito una risposta forte, immediata, visibile. Alle 4 parlai con Scalfaro al Quirinale, e gli dissi "presidente, dobbiamo reagire". Alle 8 del mattino riunii il Consiglio dei ministri, e subito dopo partii per Milano. Il golpe non ci fu, grazie a dio. Ma certo, su quella notte, sui giorni che la precedettero e la seguirono, resta un velo di mistero che è giunto il momento di squarciare, una volta per tutte". La certezza che esponeva ieri Veltroni è la stessa che ripete Ciampi: non furono solo stragi di mafia, ed anzi, sulla base delle inchieste si dovrebbe smettere di definirle così. Furono stragi di un "anti-Stato", ancora tutto da scoprire. E come Veltroni anche Ciampi aggiunge un dubbio: perché a un certo punto, poco dopo la nascita del suo governo, le stragi cominciano? E perché, a un certo punto, dopo gli eccidi di Falcone e Borsellino, le stragi finiscono? Perché la mafia comincia a mettere le bombe? Perché la mafia smette di mettere le bombe?

È lo scenario ipotizzato dal procuratore Grasso: gli attentati servirono forse a preparare il terreno alla nascita di una nuova "entità politica", che doveva irrompere sulla scena tra le macerie di Mani Pulite. Un "aggregato imprenditoriale e politico" che doveva conservare la situazione esistente. Quell'entità, quell'aggregato, secondo questo scenario, potrebbe essere Forza Italia. Nel momento in cui quel partito si prepara a nascere, e siamo al '94, Cosa Nostra interrompe la strategia stragista. E' uno scenario credibile? Ciampi non si avventura in supposizioni: "Non sta a me parlare di tutto questo. Parlano gli avvenimenti di quel periodo. Parlano i fatti di allora, che sono quelli richiamati da Grasso. Il procuratore antimafia dice la verità, e io condivido pienamente le sue parole".

Per questo, in nome di quella verità troppo a lungo negata, l'ex capo dello Stato oggi rilancia l'appello: è sacrosanto che chi sa parli. Ed è sacrosanto, come chiede Veltroni, che "Berlusconi e il governo non tacciano", perché la lotta alla mafia non è questione di parte, "ma è il tema bipartisan per eccellenza". Si apra dunque una sessione parlamentare, dedicata a far luce su quegli avvenimenti. Perché il clima che si respira oggi, a tratti, sembra pericolosamente rievocare quello del '92-'93. Ciampi stesso ne parlerà, in un libro autobiografico scritto insieme ad Arrigo Levi, che uscirà per "il Mulino" tra pochi giorni. "Lì è tutto scritto, ciò che accadde e ciò che penso. Così come lo riportai, ora per ora, sulle mie agende dell'epoca... ". Deve restare memoria, di tutto questo. Ma insieme alla memoria deve venir fuori anche la verità. "Perché senza verità - conclude l'ex presidente della Repubblica - non c'è democrazia".

(29 maggio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/05/29/news/notte-golpe-4418306/?ref=HRER2-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Dall'emergenza al pasticcio
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2010, 10:04:38 am
IL COMMENTO

Dall'emergenza  al pasticcio

di MASSIMO GIANNINI


"L'ITALIA è in mani sicure", aveva garantito il presidente del Consiglio martedì scorso, presentando la "madre di tutte le manovre" che avrebbe dovuto salvare il Paese e metterlo al riparo da un gigantesco attacco della speculazione. È passata quasi una settimana, e il pasticcio kafkiano che da allora si sta consumando intorno a questa "Finanziaria d'emergenza" dimostra che l'Italia è in mani pericolose. Vandalismo istituzionale, dilettantismo politico, avventurismo comunicazionale. C'è tutto il peggio possibile, nel cortocircuito innescato dal governo con il pacchetto-farsa da 24 miliardi che doveva scongiurare il rischio "di finire come la Grecia".

Tutto ciò che è accaduto e sta tuttora accadendo, tra il Quirinale, Palazzo Chigi e Via XX settembre, è un inedito assoluto e allucinante nella storia repubblicana. Non si era mai visto un decreto legge approvato "salvo intese" il martedì, che balla fino a venerdì tra misure che entrano nel testo la mattina e escono la sera, indiscrezioni su tagli di spesa che trovi scritte di giorno e scompaiono di notte: misure e tagli che incidono sulla carne viva di milioni di persone, perché riguardano i loro stipendi, le loro pensioni, le loro liquidazioni. Non si era mai visto un provvedimento "urgente" che viene inoltrato alla presidenza della Repubblica solo il sabato, accompagnato dall'ennesimo sbrego costituzionale inferto dal premier, che parla strumentalmente di un testo da lui non ancora firmato "in attesa del parere del Colle": anche l'ultimo degli studenti di giurisprudenza sa bene che i decreti legge arrivano con la firma obbligatoria del presidente del Consiglio al Capo dello Stato, chiamato in causa dalla Costituzione per esaminarli e controfirmarli. Non si era mai visto un articolato-monstre, ritenuto "vitale" per tranquillizzare i mercati, così ricco di forzature tecnico-giuridiche e di contraddizioni normativo-contenutistiche da costringere il presidente della Repubblica a prendersi l'intero weekend per formulare i suoi rilievi e le sue osservazioni: con il risultato paradossale che oggi, alla riapertura dei mercati, l'Italia si presenta senza la manovra in Gazzetta ufficiale, e dunque ancora esposta alle incognite di un possibile lunedì nero per la sua Borsa e per il suo debito sovrano.

Questo masochistico autodafè non si può certo addebitare a Giorgio Napolitano. Il Capo dello Stato ha fatto solo il suo dovere. Il testo che gli è arrivato sul tavolo lo ha costretto a interventi di metodo e di merito, sulle materie più disparate che il decreto coinvolgeva e coinvolge: dal condono edilizio alle retribuzioni dei magistrati. Per non parlare del grottesco "taglio delle province", fantasma di un'opera buffa che il governo ha demagogicamente propagandato, ma poi non ha avuto la coerenza di mandare effettivamente in onda. Restavano in campo rilievi su altre due materie costituzionalmente sensibili: le risorse pubbliche disponibili per l'istruzione e la ricerca, e la difesa di enti culturali importanti per la conservazione della memoria storica di questa Repubblica. Oggi si capirà se il recepimento di questi rilievi da parte del governo è stato sufficiente o meno a soddisfare le modifiche richieste dal Quirinale.

Le colpe, mai come in questa occasione, sono tutte interne al governo. Un governo che non ha saputo spiegare al Paese il perché di una manovra così improvvisa e pesante, varata in tre giorni, senza nessuna verifica preventiva sulle necessità politiche interne alla maggioranza e sulle compatibilità economiche interne al bilancio. Un governo che annaspa nel vuoto, precipitando nell'ormai palese frattura tra Giulio Tremonti da una parte e il resto dei ministri dall'altra, con un Berlusconi del tutto incapace di fare sintesi. A sua volta stinto e sbiadito in un caleidoscopio di immagini, dove appare di volta in volta ora come "commissario" del gabinetto di guerra, ora come "commissariato" dal superministro del Tesoro. Ormai non è più tempo di retroscena giornalistici, ipocritamente smentiti nelle conferenze stampa di regime. Ormai il conflitto è sulla scena, e i protagonisti lo combattono in campo aperto. Non più solo Berlusconi e Tremonti, ma persino il cardinalizio Letta e il quieto Bondi sono lì, a battagliare nel tutti contro tutti di queste ore. Il sottosegretario di Palazzo Chigi come unico referente nella trattativa con il Colle, dalla quale viene tagliato fuori proprio Tremonti. Il ministro della Cultura come inusuale capofila dell'ala forzista e finiana che non ne può più dello strapotere di quello che fu, fino a poche settimane fa, l'intoccabile "Giulietto dei miracoli".

Siamo davvero ai limiti della legalità costituzionale, e ben oltre quelli della decenza politica. E in questo spettacolo inverecondo offerto non solo all'opinione pubblica nazionale, ma all'intera comunità internazionale, si dilapida anche l'unica "qualità" riconoscibile di questa manovra, cioè la sua apparente "quantità".
Fino a martedì scorso avevamo il dubbio che i 24 miliardi previsti, per l'iniquità dei sacrifici, l'episodicità dei risparmi di spesa e l'aleatorietà dell'evasione recuperata, non bastassero a mettere l'Italia al sicuro. Ora ne abbiamo l'assoluta certezza.

Purtroppo, davanti a questa vergogna la Commissione europea e gli operatori di mercato avranno buon gioco a non fidarsi di un governo tanto confuso e diviso.

Parafrasando Mussolini, il Cavaliere si è lamentato perché "non ha potere". Con tutta evidenza, il problema dell'Italia è che invece il potere ce l'ha eccome, ma sa usarlo solo per interessi personali, mai per quelli nazionali.

m.gianninirepubblica.it

© Riproduzione riservata (31 maggio 2010)
http://www.repubblica.it/economia/2010/05/31/news/commento_giannini-4453146/?ref=HRER1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Evasione, processi e condoni la "favola" fiscale del premier
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2010, 04:28:42 pm
ANALISI

Evasione, processi e condoni la "favola" fiscale del premier

di MASSIMO GIANNINI

NELLA sua breve e "inappellabile" telefonata a Ballarò 1 dell'altro ieri, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha fornito agli italiani due importanti "notizie". La prima in risposta ad una osservazione effettivamente sollevata in studio da chi scrive. "È una menzogna che io abbia fornito qualunque forma di giustificazione morale ai fenomeni di evasione fiscale". La seconda replicando ad un'accusa che invece nessuno gli aveva mosso: "Non ho mai evaso le tasse, né io né le mie aziende".


Rispetto a queste affermazioni, e affidandosi esclusivamente ai fatti oggettivi della cronaca di questi anni, è utile ripercorrere tutto ciò che è realmente accaduto. Senza giudizi. Senza commenti. Ma attingendo semplicemente alle parole pronunciate dal premier, ai processi nei quali è stato ed è tuttora coinvolto, e ai condoni varati dai governi che ha presieduto.

LE PAROLE
1) Autunno del 2000: Berlusconi è il leader dell'opposizione. Il 15 ottobre è a Milano, e interviene alla festa di Alleanza Nazionale, partner di Forza Italia nella nascente Casa delle Libertà. Ai militanti dell'allora alleato di ferro Gianfranco Fini, il Cavaliere dice, testualmente: "Non ne può più neanche il mio dentista, che paga il 63% di tasse. Ma oltre il 50% è già una rapina... Non volete che non ci si ingegni? E' legittima difesa...".
2) Inverno 2004: Berlusconi è presidente del Consiglio, ha rivinto le elezioni per la seconda volta. In una conferenza stampa a Palazzo Chigi, risponde alla domanda di un cronista e dichiara, testualmente: "Le tasse sono giuste se arrivano al 33%, se vanno oltre il 50 allora è morale evaderle".
3) Autunno 2004: Berlusconi, sempre capo del governo, interviene alla cerimonia annuale della Guardia di Finanza e, dal palco, arringa così le Fiamme Gialle, impegnate nella lotta agli evasori: "Voi agite con grande equilibrio e rispetto dei cittadini, nei confronti di chi si vuole sottrarre a un obbligo che qualche volta si avverte come eccessivo. C'è una norma di diritto naturale che dice che se lo Stato ti chiede un terzo di quello che con tanta fatica hai guadagnato ti sembra una richiesta giusta e glielo dai in cambio dei servizi che lo Stato ti offre. Ma se lo Stato ti chiede di più, o molto di più, c'è una sopraffazione nei tuoi confronti: e allora ti ingegni per trovare sistemi elusivi che senti in sintonia con il tuo intimo sentimento di moralità, che non ti fanno sentire colpevole...".
4) Primavera 2008: Berlusconi è in piena campagna elettorale, dopo la caduta del governo Prodi. Il 2 aprile interviene all'assemblea annuale dell'Ance, l'Associazione nazionale dei costruttori. E afferma quanto segue: "Se lo Stato ti chiede un terzo di quanto guadagni, allora la tassazione ti appare una cosa giusta, ma se ti chiede il 50-60% ti sembra una cosa indebita e ti senti anche un po' giustificato a mettere in atto procedure di elusione e, a volte, anche di evasione. Noi abbiamo un'elusione fiscale record giustificata da aliquote troppo elevate...".
5) Autunno 2008: Berlusconi ha stravinto, per la terza volta, le elezioni. Il 4 ottobre, di nuovo in conferenza stampa a Palazzo Chigi (immortalato dalle telecamere dei tg delle tre reti Rai) sostiene: "Se io lavoro, faccio tanti sacrifici... Se lo Stato poi mi chiede il 33% di quello che ho guadagnato sento che è una richiesta corretta in cambio dei servizi che lo Stato mi da. Ma se mi chiede il 50% sento che è una richiesta scorretta e mi sento moralmente autorizzato ad evadere, per quanto posso, questa richiesta dello Stato...".

I PROCESSI
Insieme alle parole, ci sono gli atti che Berlusconi compie e ha compiuto in questi anni. Prima di tutto come privato cittadino e come imprenditore che guida un impero mediatico, industriale e finanziario. Un ruolo che lo ha esposto a numerosi processi, per comportamenti illeciti che configurano altrettante evasioni tributarie. Qui rilevano solo i principali procedimenti con ricadute fiscali, dunque, e non anche quelli per reati penali di altro genere (come ad esempio il processo per il Lodo Mondadori, per corruzione, o il processo Mills, per corruzione in atti giudiziari, anche questi per altro "risolti" grazie alle leggi ad personam varate nel frattempo dallo stesso governo Berlusconi, come il Lodo Alfano prima, il legittimo impedimento poi).
1) Tangenti alla Guardia di Finanza: Berlusconi è accusato di averne pagate per evitare controlli fiscali su quattro sue società, Mediolanum, Mondadori, Videotime e Telepiù. In primo grado viene condannato a 2 anni e 9 mesi. In appello i magistrati applicano le attenuanti generiche, e quindi scatta la prescrizione. Cioè l'imputato ha commesso il reato, ma per il giudice è scaduto il tempo utile alla condanna.
2) All Iberian 1: Berlusconi è accusato di aver pagato tangenti per 21 miliardi a Bettino Craxi. Viene condannato in primo grado a 2 anni e 4 mesi. In appello, ancora una volta, scatta la prescrizione.
3) All Iberian 2 e 3: in questi altri due filoni di questo processo Berlusconi è accusato di falso in bilancio, con costituzione di fondi neri per 1000 miliardi di vecchie lire, ed evasione delle relative imposte, attraverso quello che i periti tecnici della Kpmg e i pm di Milano definiscono il "Group B very discreet" della Fininvest, cioè il "presunto comparto estero riservato" della finanziaria del Cavaliere. Viene assolto perché "il reato non sussiste più": nel frattempo, alla fine del 2002, il suo governo ha approvato la legge che depenalizza il falso in bilancio e i reati societari.
4) Medusa Cinema: Berlusconi è accusato di illecito nell'acquisto della società cinematografica, per 10 miliardi non iscritti a bilancio. Condannato in primo grado a 1 anno e 4 mesi, viene assolto in appello, ancora una volta con la formula della prescrizione. Il reato c'è, ma i termini per la condanna sono scaduti.
5) Diritti televisivi Mediaset: Berlusconi è accusato dai pm di Milano per appropriazione indebita e frode fiscale per 13,3 milioni di euro. La procura ha chiesto il rinvio a giudizio, ma il processo è stato sospeso, prima per effetto del Lodo Alfano (dichiarato successivamente incostituzionale dalla Consulta), e ora per l'intervento della legge sul legittimo impedimento.

I CONDONI
C'è infine una sfera "pubblica", che riguarda le decisioni che il Cavaliere ha assunto come capo del governo, nella lotta contro gli evasori fiscali e nella "disciplina" di casi che, sotto questo profilo, hanno riguardato direttamente lui stesso o le sue aziende.
1) Nella primavera 1994 Berlusconi "scende in campo" e vince le sue prime elezioni. E' l'epifania della Seconda Repubblica. Per festeggiarla, il governo vara il suo primo condono fiscale: frutta ben 6,4 miliardi di euro. Forte di questo trionfo, lo stesso governo vara anche il suo primo condono edilizio, che porta nelle casse del fisco 2,5 miliardi. Seguiranno altre cinque sanatorie, nel corso delle successive legislature guidate dal Cavaliere: nel 2003 nuovo condono fiscale di Tremonti, per 19,3 miliardi, insieme il primo scudo fiscale per il rientro dei capitali all'estero da 2 miliardi, poi nel 2004 nuovo condono edilizio di Lunardi da 3,1 miliardi, e infine tra il 2009 e il 2010 l'ennesimo scudo fiscale, appena concluso, e con un rimpatrio di capitali previsto in oltre 100 miliardi di euro. L'infinita clemenza verso chi non paga le tasse, praticata in questi sedici anni, non è servita a stroncare il fenomeno dell'evasione, anzi l'ha alimentato.
2) Dei condoni hanno beneficiato milioni di italiani. Ma ha beneficiato anche il premier e il suo gruppo. Dopo la Finanziaria del '93 che introduce il secondo condono tombale, rispondendo ad un articolo di Repubblica che anticipava la sua intenzione di beneficiare della sanatoria, Berlusconi fa una promessa solenne durante la conferenza stampa di fine d'anno: "Vi assicuro che né io né le mie aziende usufruiremo del condono". Si scoprirà poi che Mediaset farà il condono per 197 milioni di tasse evase, versandone al fisco appena 35, e lo stesso farà il Cavaliere per i suoi redditi personali, risolvendo il suo contenzioso da 301 milioni di euro pagando all'Agenzia delle Entrate appena 1.800 euro.
3) Condono peri i coimputati: con decreto legge 143 del giugno 2003, presunta "interpretazione autentica" del condono di quell'anno, il governo infila tra i beneficiari anche coloro che "hanno concorso a commettere i reati", pur non avendo firmato dichiarazioni fraudolente. Ennesima formula ad personam: consente di salvare i 9 coimputati del premier nel processo per falso in bilancio.
4) Condono di Villa Certosa: Il tribunale di Tempio Pausania indaga da tempo sugli abusi edilizi commessi nella ristrutturazione della residenza sarda del premier. Con decreto del 6 maggio 2004 il governo attribuisce a Villa Certosa la qualifica di "sede alternativa di massima sicurezza per l'incolumità del presidente del Consiglio". Nel 2004, con la legge 208, il condono edilizio dell'anno precedente viene esteso anche alle cosiddette "zone protette". Villa Certosa, nel frattempo, lo è appunto diventata. La Idra, società che gestisce il patrimonio immobiliare del premier, presenta subito dieci richieste di condono, e chiude così il contenzioso con il fisco. Versamento finale nelle casse dell'Erario: 300 mila euro. E amici come prima.
m.giannini@repubblica.it

(03 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/03/news/favola_fiscale-4531285/?ref=HRER1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Un giorno di ordinaria eversione
Inserito da: Admin - Giugno 08, 2010, 11:41:45 pm
IL COMMENTO

Un giorno di ordinaria eversione

di MASSIMO GIANNINI
 

È il colpo di coda del Caimano. In una mattinata di "ordinaria eversione", Silvio Berlusconi è tornato in guerra con il mondo.
Nell'ufficio di presidenza del Pdl, trasformato per l'occorrenza nella "quarta camera parlamentare" (la terza essendo com'è noto il salotto televisivo di Bruno Vespa) il presidente del Consiglio ha dato fondo al suo peggior repertorio, sparando ad alzo zero contro tutto e contro tutti: istituzioni e mass-media, avversari dell'opposizione e alleati della maggioranza. Sulla legge-bavaglio per le intercettazioni ha lanciato il suo anatema: il testo che va all'esame del Senato, "ostacolato da toghe e giornalisti", è il punto di caduta finale per il centrodestra. Le modifiche apportate sono "definitive" (oltre che ancora una volta peggiorative), e alla Camera non saranno tollerati dissensi: dovrà approvarle così come sono.

Strana visione non solo dei rapporti interni al suo partito (dove Fini pretende pari dignità e rispetto) ma anche del funzionamento del bicameralismo (dove il governo non può ipotecare ciò che farà ciascuno dei due rami del Parlamento sovrano).

Sul servizio pubblico radiotelevisivo ha lanciato la sua "fatwa azzurra": a una Rai "così faziosa contro la maggioranza" non andrebbe rinnovato il contratto di servizio. Detto da un presidente del Consiglio non è male. Poi ci si stupisce, con falsa indignazione, se tanti italiani evadono il canone. Sugli scandali della Protezione Civile ha lanciato un consiglio: i tecnici non vadano più all'Aquila, dopo la "criminalizzazione" cui sono stati esposti dalle inchieste giudiziarie rischiano che "qualche mente fragile gli spari in testa". Anche questa, in bocca a un capo di governo, non è male. Poi si contesta, con pelosa ipocrisia, chi usa le parole come pallottole. L'ultimo affondo del Cavaliere, in pieno delirio di autocratico-populista, riguarda come sempre le fondamenta della democrazia secondo la dottrina berlusconiana: in Italia (è il suo mantra) la sovranità non è del governo, non è del popolo, ma è "in mano a Magistratura democratica e alla Consulta". Che dire? Non c'è più limite, né politico né psicologico, alla natura tecnicamente totalitaria e costituzionalmente rivoluzionaria di questo "potere". Questo premier incarna ormai l'anti-Stato, non più lo Stato.
 

(08 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/08/news/un_giorno_di_ordinaria_eversione-4667593/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI L’articolo 41 e l’applauso alla "fuffa"
Inserito da: Admin - Giugno 15, 2010, 11:30:26 pm
L’articolo 41 e l’applauso alla "fuffa"


MASSIMO GIANNINI

Di troppe regole si può morire. Ma anche di troppa fuffa. Non viene in mente altro, a riflettere sull’ultima trovata del ministro dell’Economia. Nell’occhio del ciclone per una legge finanziaria che Bankitalia considera insufficiente (tanto da ipotizzare fin d’ora una manovrabis in autunno) Tremonti ha trovato la via di fuga: la riforma costituzionale dell’articolo 41. Questo articolo della Carta («ferrovecchio cattocomunista» secondo Berlusconi) prevede: «L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».
Come non cogliere la portata «sovietica» di una norma del genere? Infatti Tremonti la coglie. Dopo aver predicato l’avvento del «colbertismo» e aver annunciato il fallimento del «mercatismo», il ministro riscopre il fascino della «rivoluzione liberale» e punta a riscrivere l’articolo 41 con la penna di Milton Friedman, all’insegna del principio «è possibile tutto ciò che non è proibito». Niente paura. Siamo all’ennesima «arma di distrazione di massa». Un ddl di revisione costituzionale richiede almeno un anno e mezzo di iter parlamentare. Nell’attesa, come risolviamo i problemi di migliaia di aziende falcidiate dalla crisi? Come fronteggiamo il dramma della perdita di competitività? Come arginiamo la strage di posti di lavoro in pieno corso?
Il governo non lo sa. E quindi inventa il solito diversivo. Basta consultare un giurista, per sapere che alla Consulta non esistono casi di «contenzioso costituzionale» causato dall’articolo 41, che dunque non ha mai limitato nulla, non ha mai conculcato nessuna libertà d’impresa, non ha mai soffocato nessun «animal spirit». Di fronte a tanta mistificazione la considerazione più amara non riguarda tanto il governo, che fa la solita propaganda. Piuttosto colpiscono il cinismo e l’opportunismo delle cosiddette elité (grandi imprese, grandi associazioni di categoria, grandi giornali): perché tanta solerzia gregaria, nell’applaudire la fuffa?

m.giannini@repubblica .it
http://www.repubblica.it/supplementi/af/2010/06/14/copertina/001fondente.html


Titolo: MASSIMO GIANNINI La forza della verità
Inserito da: Admin - Giugno 17, 2010, 06:25:25 pm
IL COMMENTO

La forza della verità

di MASSIMO GIANNINI

A VOLER interpretare i segni che promanano dal "corpo mistico del re" secondo i moderni canoni fisio-politici codificati dal berlusconismo, quella di ieri si può considerare una giornata di svolta. Oppresso dalla cappa di "tagli e bavagli" che il suo stesso governo ha imposto a se stesso e al Paese, il presidente del Consiglio è stato costretto suo malgrado ad annunciare una probabile marcia indietro 1 sui due fronti più esposti e rischiosi di questa fase della legislatura: la manovra economica e, soprattutto, il ddl sulle intercettazioni.

Non deve ingannare l'ennesimo "falso ideologico" sollevato dal premier per giustificare l'ultima, e forse la più intollerabile delle leggi-vergogna: "Siamo tutti spiati", ha ripetuto come un disco rotto, replicando un calcolo volutamente artefatto: "I telefoni controllati sono 150mila: considerando 50 persone per ogni telefono, vengono fuori così 7 milioni e mezzo di persone che possono essere ascoltate. Questa non è vera democrazia...". Le rituali menzogne, spacciate come verità sul mercato della paura, ma palesemente smentite dai dati dello stesso ministero della Giustizia. In Italia i "bersagli intercettati" sono in realtà 132.384, laddove per "bersaglio" si intende un singolo che dispone in media di 5,3 utenze telefoniche (tra telefono fisso, cellulare personale, cellulare aziendale e utenze di parenti). Dunque, se si dividono i 132.384 "bersagli" per 5,3 utenze viene fuori che le persone effettivamente intercettate sono 26 mila,  cioè lo 0,045% dell'intera popolazione nazionale. Altro che 7 milioni e mezzo.

Ma stavolta quello che conta sottolineare non è tanto l'ennesima menzogna di Berlusconi. Stavolta, nel suo intervento davanti alla sempre plaudente assemblea della Confcommercio, c'è qualcosa di nuovo e di diverso, che merita di essere sottolineato. C'era un tono di vaga rassegnazione, nelle parole con le quali Berlusconi ha esposto il complicato scenario che si profila nell'iter della legge-bavaglio: "Noi abbiamo preparato il provvedimento in quattro mesi, ma ora si parla di metterlo in calendario per il mese di settembre, poi bisognerà vedere se il Capo dello Stato lo firmerà e poi quando uscirà ai pm della sinistra non piacerà e si appelleranno alla Consulta che, secondo quanto mi dicono, lo boccerà...".

In questo "periodo ipotetico" non c'è solo la rappresentazione dei consueti svarioni di sintassi costituzionale: il Parlamento come un orpello inutile, la presidenza della Repubblica come un intralcio fastidioso, la magistratura e i giudici come nemici irriducibili. C'è anche il riconoscimento di un errore di grammatica politica: il centrodestra rischia di non reggere l'urto di un testo come quello sulle intercettazioni, contro il quale si concentrerà presto l'attenzione degli organi di garanzia della Repubblica, e nel frattempo si sta già concentrando un pericoloso fuoco incrociato: quello interno che cova dentro la maggioranza, e quello esterno che monta presso l'opinione pubblica. Dunque, meglio fare un passo indietro, e accogliere le richieste di modifica a un provvedimento che ormai persino gli organismi internazionali considerano una minaccia per le indagini giudiziarie e una lesione dei diritti dei cittadini. Le notizie fatte filtrare in serata da Palazzo Grazioli sembrano confermare questa disponibilità al confronto.

Vedremo nelle prossime ore se si tratta di una ritirata strategica, o invece solo di una mossa tattica. Quando mostra di arretrare, spesso il Cavaliere prepara una controffensiva, magari su terreni e con arsenali diversi. Ma in questo caso il sentiero è per lui oggettivamente assai stretto. Sulla manovra da 25 miliardi c'è il nervo scoperto di Bossi: è difficile reggere il nervosismo della Lega, che vive con crescente disagio la crociata dei governatori, a partire proprio dal lombardo Formigoni, contro "i tagli agli enti locali che uccidono il federalismo": la gente, compresa quella del Nord, comincia a sospettare che sia vero, e questo spiega le aperture del Senatur alle correzioni richieste dalle regioni.

Sulla legge-bavaglio la morsa intorno al premier è ancora più stretta. C'è la dottrina: è difficile non ascoltare gli allarmi sui vizi di legittimità sollevati da fior di costituzionalisti. Ci sono le istituzioni: è altrettanto difficile non immaginare che queste correnti di pensiero siano ignorate da Giorgio Napolitano (che sarà chiamato nelle prossime settimane a promulgare quel provvedimento) e dalla Consulta (che sarà chiamata nei mesi successivi a valutarne la costituzionalità). C'è Gianfranco Fini: è impossibile non vedere che la "corrente" del presidente della Camera, dentro il Pdl, si sta riorganizzando in vista del dibattito a Montecitorio e che, forte del ruolo istituzionale di Giulia Bongiorno, ha i numeri per impallinare quel testo almeno in Commissione giustizia, grazie anche all'opposizione (finalmente ferma e trasversale) sollevata dal Pd insieme a Udc e Idv.

E poi c'è l'opinione pubblica. Il successo della campagna di questo giornale sui post-it, la straordinaria partecipazione della rete e del popolo viola, le iniziative di protesta annunciate dalla Federazione nazionale della stampa: la diffusa mobilitazione di queste settimane dimostra che quella contro la legge-bavaglio non è solo una battaglia per la legalità, che pone un serio problema di coerenza ad un centrodestra tutto chiacchiere e distintivo, capace solo di predicare "legge e ordine" salvo poi  praticare la destrutturazione sistemica dei codici e della Costituzione. Ma conferma che questa è anche una battaglia per la libertà, che pone un problema ancora più gigantesco per la qualità della nostra democrazia, in cui il diritto dei giornali di informare e il diritto dei cittadini di essere informati non può essere disgiunto dal dovere di chi governa di "rendere conto" al popolo che non è chiamato solo a votare, ma anche a pensare.

Ecco perché questa legge, così com'è stata concepita, non può passare. La democrazia è limite. E con questo provvedimento quel limite è drammaticamente valicato. Tanti italiani lo hanno capito. E sarebbero ancora di più se tutti i giornali combattessero senza riserve e senza furbizie questa battaglia. In un testo pubblicato sull'"Encyclopedia Americana" un secolo fa Joseph Pulitzer scriveva: "Un'opinione pubblica bene informata è la nostra corte suprema. Perché ad essa ci si può sempre appellare contro le pubbliche ingiustizie, la corruzione, l'indifferenza popolare o gli errori del governo...". È la grande "lezione" di uno dei padri del giornalismo occidentale. C'è ancora tempo perché tutta la grande stampa, senza eccezioni, la spieghi anche a Silvio Berlusconi.

m.giannini@repubblica.it

(17 giugno 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/06/17/news/la_forza_della_verit-4910018/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'indecenza istituzionale
Inserito da: Admin - Luglio 01, 2010, 11:55:27 am
COMMENTO

L'indecenza istituzionale

di MASSIMO GIANNINI

I GIURISTI inglesi dell'800 sostenevano che ci sono solo due modi per governare una società: l'opinione pubblica e la spada. Con l'affondo sulla legge che limita le intercettazioni Silvio Berlusconi li sta pericolosamente sperimentando tutti e due. Impone il bavaglio ai mass-media, per evitare che i cittadini sappiano ciò che si muove dentro e intorno al potere politico. Dispone il blitz in Parlamento, per costringerlo a votare questa legge-vergogna prima della pausa estiva.

Quanto accaduto alla Camera la dice lunga sullo stato di esaltazione e insieme di confusione che anima la maggioranza e il suo leader. C'è un presidente del Consiglio che alterna episodici momenti di ragionevolezza e drammatici sprazzi di dissennatezza. Ieri sono andati in scena i secondi: il premier ha voluto a tutti i costi che la conferenza dei capigruppo di Montecitorio calendarizzasse per il 29 luglio la discussione in aula del testo sulle intercettazioni. E ci è riuscito. Con il risultato, paradossale, che il dibattito sulla legge-bavaglio finirà per intrecciarsi a quello sulla manovra economica. Con buona pace degli appelli del presidente della Repubblica, che aveva invocato senso di responsabilità e aveva chiesto ai partiti di dare la priorità assoluta alla manovra, l'unico tema che sta realmente a cuore agli italiani, e di lasciar perdere le questioni che hanno come unico effetto quello di avvelenare i pozzi del confronto parlamentare e del discorso pubblico. Una mossa pericolosa, dunque. Benzina sul fuoco, alla vigilia della manifestazione contro la legge-bavaglio organizzata oggi in diverse piazze d'Italia.

In questa mossa del premier c'è un profilo di indecenza istituzionale, già ampiamente dimostrata dalle continue provocazioni contro il Quirinale. E c'è un profilo di arroganza  politica, già ripetutamente esercitata attraverso i continui attacchi contro i nemici interni della maggioranza e quelli esterni dell'opposizione. Fa bene il Pd, insieme a tutte le forze che si oppongono a questo centrodestra, ad annunciare un Vietnam parlamentare, di fronte all'ennesima forzatura voluta dal capo del governo. Ma stavolta, occorre dirlo, ha fatto male il presidente della Camera ad accettare il diktat dei capigruppo della maggioranza, salvo poi far filtrare a giochi fatti la sua presa di distanza. "Una scelta irragionevole", l'ha definita Gianfranco Fini. Ma se davvero la considerava tale, avrebbe potuto e dovuto evitarla, invece che avallarla. A livello personale Fini incassa un vantaggio: smarcandosi dal Cavaliere nella forma lucra il massimo della rendita mediatica, dandogliela vinta nella sostanza non paga alcun prezzo politico. Ma a livello più generale il calcolo è ben diverso. Il giochino è a somma zero: stavolta non c'è stata alcuna "riduzione del danno" (che il co-fondatore del Pdl dice spesso di perseguire, per arginare i disastri imputabili al fondatore). Stavolta, in questa provocatoria accelerazione puntualmente benedetta da Bossi in nome del sacro federalismo, c'è solo il "danno". E rischiamo di pagarlo tutti.

C'è un profilo di tutela giurisdizionale delle indagini, irrinunciabili in qualunque Stato di diritto. Non c'è da aggiungere altro, rispetto a quanto hanno denunciato durante le audizioni in Commissione giustizia di Montecitorio non solo e non tanto dalle famigerate "toghe rosse" dell'Anm, quanto piuttosto dai magistrati in prima linea. Per esempio Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia: "Il disegno di legge, con le ultime modifiche, ha peggiorato la situazione per quanto riguarda la mafia e il terrorismo, con effetti devastanti sulle indagini... Le intercettazioni ambientali non si potranno più fare nei luoghi privati di dimora perché hanno bisogno, per essere autorizzate, della dimostrazione che in quel posto si sta commettendo un reato: agli inquirenti si chiede una 'prova diabolicà impossibile da fornire". Oppure Giovandomenico Lepore, procuratore capo di Napoli: "Le limitazioni alle intercettazioni danneggiano le indagini... Difficilmente, senza le intercettazioni, avremmo potuto capire come si svolgeva il traffico di droga che ci ha appena portato all'arresto di 28 persone nel quartiere San Giovanni a Teduccio". O ancora Rosario Cantelmo, procuratore aggiunto: "In 40 giorni di osservazione sono state documentate 870 azioni di spaccio. Tutto ciò non sarebbe stato possibile con la nuova legge". O infine Antonio Ingroia, procuratore antimafia a Palermo: "Le intercettazioni sono il principale strumento di indagine contro la criminalità mafiosa, economica e politica; oggi l'80% delle indagini si basa su questo strumento... Se il ddl passasse senza modifiche si tornerebbe indietro di 40 anni".

C'è un profilo di tutela costituzionale dei diritti, insopprimibili per qualunque democrazia. Lo sosteniano da settimane, anche attraverso la campagna dei post-it: la legge-bavaglio nega ai cittadini il diritto di essere informati. E l'informazione, in questo testo inemendabile, è violata in senso attivo e passivo: la legge-bavaglio nega ai mass media il diritto di informare. In nome di un'idea malintesa della privacy, e con il pretesto della difesa della riservatezza, il centrodestra opera un clamoroso sbilanciamento tra i diritti costituzionali meritevoli di tutela. Lo hanno detto e scritto i più autorevoli giuristi italiani, da Gustavo Zagrebelski a Valerio Onida. Ora lo ripete anche il Garante per la privacy Francesco Pizzetti, nella sua relazione annuale al Parlamento: "Nel ddl sulle intercettazioni si sposta oggettivamente il punto di equilibrio tra libertà di stampa e tutela della riservatezza, tutto a favore della riservatezza, e questo può giustificare che da molte parti si affermi che, così facendo, si pone in pericolo la libertà di stampa". È esattamente quello che pensiamo, al di là di tutte le risibili distorsioni ermeneutiche in cui si sono cimentati i cortigiani del Pdl. Ed è confortante che a ribadirlo sia il presidente di un'Authority, proprio nel momento in cui Berlusconi e il suo "cardinal Mazzarino" (l'immarcescibile Gianni Letta) usano queste istituzioni amministrative indipendenti come "succursali" governative in cui spartire e moltiplicare poltrone, a beneficio della solita "cricca" dei grand commis di regime.

Per tutte queste ragioni, la legge-bavaglio non può e non deve passare, nonostante i colpi di spada del presidente del Consiglio e i suoi dissennati appelli a scioperare contro i giornali. "Un giornalismo onesto e indipendente è la forza più possente che la civiltà moderna abbia sviluppato. Malgrado i suoi errori è indispensabile alla vita delle persone libere. Le frontiere del privilegio costituzionale della stampa sono tanto ampie quanto il pensiero umano...". Lo scrisse un secolo fa Alton Parker, giudice supremo della Corte d'Appello di New York. Un magistrato di enorme spessore, che contribuì a fare grande la democrazia americana. Una "toga" che Berlusconi, oggi, definirebbe senz'altro una "metastasi".

(01 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/01/news/l_indecenza_istituzionale-5293885/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Le metastasi del Potere
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2010, 10:06:19 am
L'ANALISI

Le metastasi del Potere

di MASSIMO GIANNINI

"La magistratura è un cancro da estirpare", sostiene da mesi il presidente del Consiglio, nella furia iconoclasta che lo spinge ad abbattere i simboli e le istituzioni repubblicane. Finge di non vedere la doppia metastasi che gli sta crescendo attorno, e che sta lentamente ma inesorabilmente divorando il suo governo. C'è una metastasi giudiziaria, che ormai mina alle fondamenta il sistema di potere che lui stesso ha costruito negli anni.

L'iscrizione di Dell'Utri e Cosentino nel registro degli indagati, per associazione a delinquere e violazione della legge Anselmi sulle società segrete, è per ora soltanto un'ipotesi investigativa. Ma è più che sufficiente a completare un quadro agghiacciante del rapporto tra politica e malaffare nell'epoca berlusconiana.

Le inchieste che si moltiplicano, da Milano a Roma, da Firenze a Napoli, da Perugia a Palermo, scoperchiano un verminaio che travolge a vario titolo gli uomini più "strategici" e più vicini al premier. Guido Bertolaso, ras della Protezione Civile, signore delle Emergenze e vicerè dei Grandi Eventi, finito nel tritacarne dell'inchiesta sul G8, che nel triangolo Balducci-Anemone-Fusi ha svelato un micidiale meccanismo di corruzione sistemica e di arricchimento personale. Claudio Scajola, feudatario ex democristiano e plenipotenziario del Nord-Ovest, dimesso da ministro per aver lucrato (a suo dire inconsapevolmente) un appartamento dalla stessa banda al lavoro tra La Maddalena e L'Aquila. Aldo Brancher, storico tenutario dei rapporti con la Lega, dimesso da ministro dopo aver tentato di approfittare della nomina per sottrarsi al processo che lo vede imputato per la vicenda Antonveneta-Bnl. Denis Verdini, potentissimo coordinatore del Pdl, invischiato in diversi filoni d'inchiesta: prima gli appalti del G8, adesso anche le cene organizzate con i compagni di merende per spartire gli affari, condizionare i giudici della Consulta chiamati a decidere sul lodo Alfano, fabbricare falsi dossier ai danni degli avversari dentro il Popolo delle Libertà. Nicola Cosentino, vicerè azzurro della Campania e accusato di concorso esterno in associazione camorristica, ora coinvolto anche nell'inchiesta sul killeraggio morale ai danni del presidente della Regione. Marcello dell'Utri, sovrano di Publitalia e delle Due Sicile, padre fondatore di Forza Italia e garante degli equilibri con Cosa Nostra (secondo la Corte d'Appello, sicuramente fino al 1993), a sua volta finito nell'inchiesta sull'eolico (insieme al governatore della Sardegna Ugo Cappellacci) in quanto ospite di casa Verdini per le cene con i magistrati alla Antonio Martone o i faccendieri alla Flavio Carboni.

Ci sarà tempo per verificare la fondatezza delle accuse formulate nei confronti dell'inner circle berlusconiano. Ma una cosa è già chiara, fin da ora. Quella che sta venendo fuori dal complesso panorama indiziario è molto più che una banalissima "cricca", che si riuniva per pagare qualche mazzetta e condividere qualche affaruccio di sotto-governo. Quello che si delinea è un vero e proprio "sistema di potere" a fini privatistici, che chiama in causa non qualche sparuta mela marcia, non qualche episodico mariuolo. Ma piuttosto, verrebbe da dire, "tutti gli uomini del presidente". E proprio per questo, quello che si delinea è un vero e proprio "metodo di governo" della cosa pubblica, nel quale politica e affari si mescolano nella violazione sistematica della legge e del mercato. Una fabbrica che genera illecito, attraverso la distribuzione di tangenti e lo scambio di favori. E che conserva potere, attraverso il controllo delle candidature a livello nazionale e locale e il pilotaggio delle nomine dei capi degli uffici giudiziari. Una fabbrica che produce fango, attraverso i dossier falsi (meglio se a sfondo sessuale) commissionati per distruggere avversari interni ed esterni, com'è capitato a suo tempo al direttore di "Avvenire" Dino Boffo, e come capita adesso al governatore della Campania Stefano Caldoro. E man mano che emergono nuovi, inquietanti spezzoni di queste inchieste, si capisce anche il perché Berlusconi abbia bisogno di un provvedimento come quello sulle intercettazioni, con il quale può anche cedere su alcuni punti che riguardano la procedibilità delle indagini, ma non su quelli che riguardano il diritto di cronaca. La legge-bavaglio serve esattamente a questo: non far conoscere agli italiani le malefatte di una "casta" che, come sostengono a ragione alcuni pm, somiglia sempre di più a un'associazione a delinquere.

Questa ragnatela di illegalità è sempre più diffusa, sempre più pervasiva. Non è incistata "nel" sistema. È "il" Sistema. E i suoi fili, con tutta evidenza, sono intrecciati in ciascuna delle varie indagini che le diverse procure stanno portando avanti. Il procuratore antimafia Pietro Grasso ha parlato di "favori tra reti criminali". Qualcuno ha evocato una nuova "Loggia P3", che agisce con pratiche non diverse, e altrettanto pericolose, della vecchia massoneria deviata di Licio Gelli. È una definizione convincente, al di là delle suggestioni giornalistiche. E comunque sufficiente a far pensare, a questo punto, che una "questione morale" esista davvero. E che interroghi direttamente il governo, e personalmente il presidente del Consiglio. Fino a quando può ignorare questa metastasi? Fino a quando può blindare e a difendere gli uomini che la incarnano? Fino a quando può illudersi che la cura sia l'ovvio passo indietro di un ministro impossibile come Brancher o quello di un modesto assessore regionale come Sica? Per questo la metastasi è ormai anche politica. Il Pdl è dilaniato da una faida violenta tra bande rivali. Il premier è accerchiato da ogni parte. Non solo Fini sulla giustizia e Tremonti sulla manovra. I Dell'Utri e i Cosentino, i Verdini e gli Scajola, gli si agitano intorno come spettri. Allegorie della sua ossessione giudiziaria, ma anche della sua concezione politica. In alto il Sovrano Assoluto, in basso il suo Popolo. In mezzo la sua Corte. Che ne mutua tutti i vizi, ne riproduce tutte le nefandezze. Così non può reggere. E non reggerà.

m.giannini@repubblica.it

(13 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/13/news/metastasi_potere-5548468/?ref=HRER1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Tremonti: "No a governi tecnici Ma c'è una questione morale"
Inserito da: Admin - Luglio 18, 2010, 10:56:42 am
L'INTERVISTA

Tremonti: "No a governi tecnici Ma c'è una questione morale"

Intervista al ministro dell'Economia. "Grazie alla manovra l´Italia è allineata all´Europa".

E la P3? "Una cassetta di mele marce. Nessuna alternativa a Berlusconi e nessun governo tecnico, l'Europa non approverebbe"

di MASSIMO GIANNINI


"Il governo Berlusconi è forte, e non esistono alternative credibili. Né governi tecnici, né larghe intese. Sono fuori dalla storia, e l'Europa non approverebbe". Giulio Tremonti non ha dubbi. A dispetto degli scandali della P3 e dei conflitti sulla manovra, vede un'Italia solida e coesa, e un governo in pieno "controllo", da qui alla fine della legislatura. Il ministro dell'Economia nega conflitti e dimissioni. "Mai minacciato nulla. Tutt'al più ho detto qualche volta "non firmo"".

Difende il Cavaliere su tutta la linea. Dalla P3, "al massimo una cassetta di mele marce", alle intercettazioni, "tutt'al più una legge-bavaglino". E sbarra la strada a qualunque ipotesi di governo tecnico alla Draghi, o di larghe intese senza Berlusconi. "Governo tecnico? Governo di unità nazionale? Sono figure che sembrano stagionalmente incastrarsi nella forma di una geometria variabile che ricorda un vecchio caleidoscopio. Avrei preferito proseguire il discorso che abbiamo iniziato come discorso sulla "democrazia dei contemporanei"...".

D'accordo, allora, partiamo pure dalla "democrazia dei contemporanei". Cosa intende dire?
"La democrazia dei contemporanei è diversa da quella "classica", e questa a sua volta era diversa dalla democrazia della agorà. E pure sempre è necessaria, la democrazia. Ed è ancora senza alternative - la democrazia - pur dentro la intensissima "mutatio rerum" che viviamo e vediamo. Intensa nel presente come mai nel passato, dalla tecnologia alla geografia. La scienza muta l'esistenza. La "medicina", la "ars longa" sempre più estende il suo campo, non più solo sulla conoscenza del corpo umano, ma essa stessa ormai capace di ricrearlo per parti. L'iPad muta le facoltà mentali, crea nuovi palinsesti, produce in un istante qualcosa di simile a quello che per farsi ci ha messo tre secoli, nel passaggio dal libro a stampa alla luce elettrica. Per suo conto, Google vale e conta strategicamente ormai come e forse più di uno Stato G7. E poi è cambiata di colpo la geografia economica e politica. Di colpo, perché i venti anni che passano dalla caduta del muro di Berlino ad oggi sono un tempo minimo, un tempo non sviluppato sull'asse della lunga durata tipica delle altre rivoluzioni della storia".

Dove porta questo ragionamento sul cambiamento della democrazia?
"Se cambia la geografia, la politica non può restare uguale. La politica come è stata finora è stata costruita sulla base territoriale chiusa tipica dello Stato-nazione, su confini impermeabili che concentravano nello Stato il monopolio della forza. E la politica era la forma di esercizio e di controllo della forza. La stessa democrazia era rapporto tra rappresentanza e potere. Ora non è più così. L'asse si sta inclinando, la rappresentanza cresce, il potere decresce, eroso e diluito dallo spazio globale. E la crisi radicalizza questa asimmetria. La crisi genera domande crescenti d'intervento. I popoli chiedono interventi sempre più forti, a governi sempre più deboli".

Giusto, basta guardare alla debolezza del governo Berlusconi...
"Non è così. Il mio ragionamento vale per tutti i governi. La formula di soluzione e reazione politica non può essere più solo nazionale, ma internazionale. Ed è questo il senso politico della "poliarchia" disegnata nell'enciclica "Caritas in veritate". È proprio questo quello che si sta facendo in Europa in questi mesi, in questi giorni, costruendo sopra gli Stati una nuova "architettura politica"".

Ministro, per favore, passiamo dalla filosofia alla cronaca di questi giorni. Parliamo delle difficoltà dell'Italia e del suo governo. Qui si parla di crisi, di elezioni anticipate, di governi di transizione...
"In Italia la formula di soluzione non può essere quella del governo tecnico. Per due ragioni. Primo, perché non c'è una "melior pars" fatta di ottimati, di tecnici, di illuminati, capaci di governare la complessità. Li vedo, certo, ma non li vedo capaci di governare. Secondo, perché un governo di questo tipo, non basato sul voto popolare, non avrebbe chance di prendere posto al tavolo dell'Europa".

Cioè? Lei sta dicendo che l'Europa avrebbe il potere di dire no a un governo tecnico in Italia?
"È così. E non solo perché l'Europa è costruita sul canone della democrazia, ma soprattutto perché l'Europa, avviata a prendere la forma di un comune destino politico, presuppone e chiede comunque una base di stabilità e di forza. Questa derivante solo dalla politica e dalla democrazia. Tipico il caso della Grecia: la fiducia europea è stata indirizzata verso il governo greco legittimamente eletto. La negatività, verso un ruolo esclusivo del Fondo monetario internazionale, era basata sulla diffidenza verso una formula che sarebbe stata più debole, proprio perché solo tecnica. La tecnica può essere solo complementare alla politica, e non sostitutiva".

Ma chi si potrebbe opporre, invece, a un governo politico di larghe intese, di cui parlano in molti, nel Pd e nell'Udc?
"La casistica delle larghe intese si presenta solo in due scenari. Dopo elezioni che evidenziano la bilaterale insufficienza delle forze in campo, o per effetto di un trauma. Francamente, nel presente dell'Italia non vedo un trauma tanto forte da spingere verso questa ipotesi di soluzione. Non un trauma "economico", non un trauma "esterno", non un trauma "giudiziario"".

Sull'economia, in realtà, il trauma lo abbiamo rischiato di brutto con l'attacco dei mercati, e forse continueremo a rischiarlo oggi e nei prossimi mesi. Non è così?
"Il trauma economico è stato ipotizzato subito, appena dopo la costituzione di questo governo, a fronte della crisi che arrivava. L'ipotesi non si è verificata. Era un'ipotesi basata tanto su di una insufficiente e solo parziale analisi della realtà, quanto sulla sottovalutazione della forza del governo. 2008, 2009, 2010. Siamo ormai verso il terzo autunno, e puntualmente per ogni autunno si prevedeva e ora si prevede la crisi. Una crisi esterna, causata dallo scatenarsi della speculazione finanziaria sul nostro debito pubblico. Una crisi interna, con la rottura dell'ordine e della coesione sociale. In questi anni la sinistra ha puntato sulla paura, come se questa fosse un'ideologia congiunturale sostitutiva. Non è stato così, non è così, non sarà così".

Ma è stato lei a dire che senza la manovra rischiamo la fine della Grecia...
"Appunto, senza la manovra. In realtà nel 2008 siamo partiti con la legge finanziaria triennale e siamo andati avanti sulla stessa linea. I numeri dell'Italia sono ormai allineati nella norma e nella media europea. Avrebbe potuto essere diverso, e non è stato. E questo è stato certo per la forza propria e sottovalutata dell'Italia. Ma anche, si vorrà ammettere, per la visione e per la forza nell'azione di governo".

Eppure, basta parlare con un po' di ambasciatori per sapere che i nostri partner occidentali temono per la tenuta politica del governo Berlusconi. Lo può negare?
"Sarebbe questo il secondo trauma, quello "esterno". Una volta si diceva "tintinnare di sciabole". Ora, in un'età più pacifica, si parla di "voci di Cancelleria". Francamente non mi pare che si tratti di dati rilevanti. Per due ragioni. Perché la crisi postula la stabilità come valore superiore. E poi perché non pare che tanti altri governi siano in condizioni di forza superiore a quella dell'Italia. Per essere chiari, in giro per l'Europa non vedo governi tanto forti e tanto determinati e determinanti. Ma, all'opposto, tutti impegnati nella gestione delle proprie crisi interne. Gestione che, in giro per l'Europa, non mi sembra più forte della nostra, ma spesso anche contraddittoria, incerta e contestata. In realtà, siamo tutti impegnati in Europa nella costruzione di una architettura nuova di comune e superiore interesse. Il ruolo dell'Italia nello scenario europeo è forte, richiesto e reputato. Il ruolo di Silvio Berlusconi è forte. E, nel mio piccolo, per esempio martedì sono invitato in Germania a Friburgo per la "Lezione europea". E non come professore di università, ma come ministro della Repubblica italiana".

Eppure la vostra maggioranza rischia ogni giorno l'implosione interna. Che mi dice delle inchieste, dei ministri che si dimettono, dello scandalo della P3?
"Per scelta politica, tendo sempre ad analisi di sistema. È certo che non si tratta solo di una mela marcia. C'è qualcosa di più. Forse, e anzi senza forse, è venuta fuori una cassetta di mele marce. Ma l'albero non è marcio, e il frutteto non è marcio. La combinazione perversa è tra le condotte personali e la crisi generale. La crisi postula la salita, e non la discesa nella scala dell'etica, e se vuole anche dell'estetica".

Quindi anche lei, come il premier, pensa che questi siano solo polveroni?
"La politica deve sempre distinguere tra ciò che è "reato" e ciò che è "peccato", e non confondere l'uno con l'altro. Ci può essere reato senza peccato, come ci può essere peccato senza reato. I dieci comandamenti sono una cosa, i codici una cosa diversa. Un discorso politico serio deve e può essere avviato anche in casa nostra su questo campo. Anzi è già iniziato, ma proprio per questo non può essere generalizzato e banalizzato".

Banalizzato? Qui ci sono pezzi di Stato e di governo che cercano di infiltrarsi e condizionare le decisioni della magistratura, in nome di "Cesare". Dove vede la banalità?
"Per banalità intendo la "banalità del male". E anche per questo non credo che puntare sulla valanga delle intercettazioni renda un buon servizio all'etica politica".

Le ultime intercettazioni ci hanno però permesso di svelare le trame intorno all'eolico, e alla nuova cupola ribattezzata appunto P3...
"Le ultime intercettazioni costituiscono una lettura interessante. Ne emerge un bestiario fatto di faccendieri sfaccendati, di "poteri" impotenti, se si guarda i risultati, di reati più "tentati" che "consumati". Più si affolla la scena, più tutto si confonde. E la presunta "tragedia" si fa commedia. Questo non vuol dire che non ci sia una questione morale...".

Meno male: riconosce che esiste una questione morale nel centrodestra?
"Ma quella morale è una questione generale. Questo è un Paese in cui molti "governi" locali si sono clonati e derivati in galassie societarie "parallele". Spesso più grandi dei governi stessi. E non sempre sotto il controllo democratico e giudiziario. Leggasi la monografia della Corte dei Conti. Mezza Italia è in dissesto sanitario. E questo riduce drammaticamente la "cifra" della morale pubblica. Troppo spesso i fondi pubblici sono una pipeline verso gli affari. Oggi l'affare degli affari è quello dell'eolico, almeno questo non inventato da noi. Vastissime aree del Paese sono deturpate da pale eoliche sorte all'improvviso, in un territorio che nei secoli passati non ha mai avuto i mulini a vento. E forse ci sarà una ragione. È in tutto questo che vedo la grande questione morale, questo è l'albero storto che va raddrizzato. E per farlo non vedo alternative al federalismo fiscale. L'unica, l'ultima forma per riportare nella trasparenza e nell'efficienza la cosa comune".

Nel frattempo, per nascondere tutto ai cittadini, il governo vara la legge-bavaglio. Lei è d'accordo anche con questo?
"La traccia possibile di una discussione seria su di un tema serio, come quello della dialettica tra il diritto alla privacy e il diritto all'informazione, si è persa in un labirinto. E solo ora forse può essere ritrovata. Più che di bavaglio, pare che si trattasse di un "bavaglino". Si è troppo confuso, e non certo solo da parte nostra, fra i mezzi e i fini".

Bavaglino, dice lei? E allora perché avete paralizzato per questo il Parlamento per ben due anni, a discutere di intercettazioni, invece di parlare dei problemi veri del paese?
"Al Parlamento è bastato un mese per fare la "manovra". Un'azione effettiva, la prima fatta in Europa e qui dall'Italia. Altrove siamo ancora allo stadio dei disegni, dei documenti, dei propositi, delle reazioni di piazza. Da noi non è stato così. E la "manovra" non è stata solo finanza, ma anche politica. Per la prima volta è riduzione del perimetro dello Stato, con l'effettivo azzeramento di trenta enti pubblici, dei costi del governo e della politica".

Ministro, a parte i tagli alle Regioni, nella manovra non c'è niente di strutturale...
"Nella manovra è stata fatta la riforma delle pensioni più seria d'Europa in questi anni e pari data c'è stata Pomigliano, con il lavoro che non esce ma torna in Italia e nel Mezzogiorno. E forse queste due, pensioni e Pomigliano, sono due P più importanti della P3. Con rispetto parlando, e con orgoglio parlando, l'azione del governo contro la criminalità organizzata ha un'intensità e un'efficacia finora non conosciute. E forse anche questo va messo sul piatto della giustizia".

Ma le Regioni? Perché i governatori protestano? Perché Formigoni dice che dovrà tagliare i servizi ai cittadini?
"Qui vale la dialettica tesi, antitesi, sintesi. Il processo politico ha funzionato subito con i Comuni e le Province, e si sta chiudendo ora anche con le Regioni. Come Comuni e Province, così le Regioni hanno infine fatto propria la nostra ipotesi di discuterne all'interno del federalismo fiscale tanto municipale quanto regionale. E alla fine il bilancio mi sembra positivo. Nell'insieme la manovra è stata fatta su una vastissima base di consenso sociale".

E la crescita? Anche su questo il piatto della manovra è miseramente vuoto. Può negarlo?
"Come le ho detto, i numeri italiani sono allineati alla media europea. Nella manovra, oltre alla stabilità finanziaria, c'è comunque una prima "cifra" dello sviluppo. Dalle reti di impresa alla drastica riduzione della burocrazia. Più in generale nel tempo presente non esiste lo sviluppo in un Paese solo, non si fa lo sviluppo con la Gazzetta ufficiale, soprattutto avendo il terzo debito pubblico del mondo. Del resto la ripresa in atto è portata più che dalle politiche economiche, dal cambio sul dollaro. E tuttavia certo molto deve esser fatto ancora. Dalla "battaglia per il diritto", troppe regole sono infatti un costo e un limite allo sviluppo, per arrivare alla ricerca, per cui dovrebbe essere fatto un maxi fondo d'investimento pubblico, alla combinazione tra la riforma degli istituti tecnici, cui devono concorrere anche le imprese, ed il contratto di apprendistato".

Bersani la invita da tempo ad andare in Parlamento, a discutere della crisi. Perché lei si rifiuta?
"La sequenza non può essere prima chi e poi cosa, e cioè prima si sceglie chi governa e poi si decide cosa si fa. Questa sequenza riflette un eccesso di odio antropomorfo. Prima si deve discutere sul cosa".

E dello scontro tra il premier e Fini cosa mi dice. Quello non è un pericolo, per la tenuta del Pdl?
"Anche questo tema rientra nell'idea antropomorfa della politica, che non mi appartiene".

Non può negare che l'altro scontro dentro la maggioranza riguarda lei e il presidente del Consiglio. È vero che venerdì scorso persino Gianni Letta l'ha rimproverata in Consiglio dei ministri?
"Oggi ci abbiamo riso sopra. Vedo un eccesso di confusione tra "personale" e "politico". Certo, in politica conta anche il personale, ma su troppi "scontri" ho letto troppo folklore...".

È vero o no che lei minaccia quasi ogni giorno le dimissioni?
"Non ho mai minacciato le dimissioni, ma spesso ho detto "non firmo". E alla fine il voto è sempre arrivato, positivo e convinto. Tutto quello che ho fatto, e forse anche un po' più della politica economica, l'ho fatto convinto di fare comunque quello che mi sembrava bene per il mio Paese. E non avrei potuto farlo senza Berlusconi e Bossi, o contro Berlusconi e Bossi. E sarà così anche nel prossimo autunno e oltre".

(18 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/18/news/tremonti_no_a_governi_tecnici-5654276/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Vince la libertà non la legalità
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2010, 10:14:04 am
IL COMMENTO

Vince la libertà non la legalità

di MASSIMO GIANNINI


"QUESTA legge non può passare, e non passerà", aveva scritto "Repubblica" all'inizio della battaglia sulle intercettazioni telefoniche.
Non era un ideologico "grido di battaglia" contro la legge-bavaglio voluta a tutti i costi da Silvio Berlusconi, che minaccia i diritti di libertà e i principi di legalità. Era invece una rischiosa ma convinta "scommessa" sulla forza della democrazia. La scommessa racchiudeva, da una parte, un atto di fiducia verso le istituzioni repubblicane, nonostante le continue aggressioni del presidente del Consiglio. Dall'altra, un investimento sull'opinione pubblica, nonostante le continue manipolazioni dell'agenzia Stefani berlusconiana.
È ancora presto per trarre conclusioni definitive: l'iconografia del Caimano ci ricorda che proprio nei momenti più drammatici il colpo di coda è sempre possibile. Ma allo stato degli atti, la giornata di ieri dice che almeno una parte di quella scommessa è stata vinta. Per ora Berlusconi incassa una sconfitta durissima, dentro la sua maggioranza e di fronte al Paese. Il governo, suo malgrado, è costretto a far suoi gli emendamenti sul diritto di cronaca. Se la Camera li voterà e li approverà, i diritti di libertà saranno salvi.

I giornali potranno continuare a fare il proprio dovere, cioè informare i cittadini su tutte le inchieste che svelano le trame del potere politico, economico e criminale. I cittadini potranno continuare ad esercitare un loro diritto, cioè essere informati di tutto ciò che le intercettazioni svelano sul malaffare della "casta". È una buona notizia. Sul piano della politica, conferma la tenuta dell'asse istituzionale tra il presidente della Repubblica e il presidente della Camera. Napolitano e Fini, in modi diversi e con ruoli diversi, sono riusciti a fermare il tentativo tecnicamente eversivo del premier di stravolgere un principio garantito dalla Costituzione all'articolo 21. Sul piano della democrazia, conferma che a volte anche il "berlusconismo da combattimento", quello più pericoloso perché tendenzialmente dispotico e irresponsabile, può essere fermato.

La modifica alla legge proposta dalla presidente della commissione Giustizia, la finiana Giulia Bongiorno, è convincente dal punto di vista culturale e procedurale. Cade la norma liberticida che vietava ai giornali di pubblicare qualunque intercettazione fino alla richiesta di rinvio a giudizio o all'inizio dell'udienza preliminare. Al suo posto, l'emendamento prevede la cosiddetta "udienza-stralcio", con la quale le parti (difesa ed accusa) decidono insieme davanti al giudice (durante le indagini preliminari e prima del dibattimento) quali siano le intercettazioni "rilevanti" (dunque pubbliche e pubblicabili) e quelle irrilevanti (dunque da secretare o da distruggere). Una norma di assoluto buon senso.

La stessa che aveva proposto su questo giornale Giuseppe D'Avanzo due anni fa, e che "Repubblica" da allora ha sempre rilanciato con forza, in editoriali, convegni e trasmissioni televisive. Scriveva D'Avanzo, nel suo commento intitolato "La via maestra per una riforma": "Occorre separare le conversazioni utili a formare la prova da quelle, non utili, relative alla vita privata degli indagati e delle persone estranee alle indagini, le cui conversazioni siano state raccolte per caso. Bisogna separare le prime dalle seconde dinanzi a un giudice alla presenza delle difese e, per impedire la divulgazione e la pubblicazione delle conversazioni non utili alle indagini, è necessario estendere a questa procedura il vincolo della segretezza, prevedendo sanzioni severe per i trasgressori...".

L'articolo uscì l'11 giugno del 2008. Un'epoca "non sospetta", per così dire. Che dimostra quanto sia strumentale l'ideologia propagandistica usata da Berlusconi per spiegare la necessità e l'urgenza di questa legge-bavaglio: la presunta "tutela della privacy".
E che dimostra quanto sia debole il pensiero di quegli intellettuali gregari che in queste settimane si sono affrettati a salire sul carro del premier, proprio in nome di un intangibile (e perciò insostenibile) "primato" della privacy. Di cui al premier (con tutta evidenza) non interessa nulla. E di cui "Repubblica", invece, si è fatta responsabilmente e concretamente carico da almeno due anni.
Ma se con questo emendamento cade almeno il "bavaglio", questa legge non rinuncia affatto a colpire il "bersaglio" che riguarda l'agibilità delle intercettazioni da parte della magistratura. Questa parte della "scommessa" appare tuttora irrimediabilmente persa. Se questa legge sarà approvata, pur con tutte le modifiche apportate anche su questo versante dai volonterosi finiani, i principi di legalità ne usciranno gravemente lesionati. Non basta aver prolungato le "proroghe" alle intercettazioni di 15 giorni in 15 giorni, dopo i 75 categoricamente fissati come limite da questo dissennato provvedimento: per i pm questo sarà un ulteriore intralcio alle indagini, e non solo di natura burocratica. Non basta aver parzialmente corretto l'abominio della "prova diabolica" richiesta per poter procedere alle intercettazioni ambientali, o aver ripristinato la procedibilità innescata dalle intercettazioni sui cosiddetti "reati spia".

Rimane l'impianto fortemente limitativo all'uso di questo prezioso strumento di investigazione e di raccolta delle prove, come confermano tutti i magistrati impegnati in prima linea persino nei reati contro le mafie, da Pietro Grasso ad Antonio Ingroia. Questa "danno", enorme per la sicurezza del Paese e incalcolabile per la difesa della legalità, è stato ridotto. Ma in misura tuttora intollerabile per uno Stato di diritto. E allora, cosa resta di questa pessima legge, se non l'insensata ma gravissima deformità che arreca al nostro sistema giuridico? Cosa resta se non l'innaturale ma profondissima torsione delle regole che sovrintendono alla prevenzione e alla persecuzione di tutte le forme di criminalità, organizzata e comune, politica ed economica? Questo sembra, tuttora, il prezzo da pagare alla "lucida follia" berlusconiana. Il premier, ieri, ha sostanzialmente dichiarato la "resa". Ha ammesso che questa legge, così emendata, non serve a niente: voleva impedire che "milioni di cittadini" venissero spiati, e "per colpa" delle modifiche imposte da Fini e ispirate da Napolitano non sarà così. "Gli italiani continueranno a non poter parlare al telefono", ha commentato il presidente del Consiglio, spacciando all'opinione pubblica l'ennesima menzogna.

Ma aggiungendo una chiosa che non può non preoccupare chiunque abbia a cuore il destino di questo Paese: se l'operazione legge-bavaglio non gli è riuscita e non gli riuscirà come lui avrebbe voluto, la colpa è di "quell'architettura costituzionale italiana basata sull'equilibrio tra i diversi poteri, che impedisce l'ammodernamento dell'Italia". Non è solo la grottesca auto-assoluzione di un leader ormai sprofondato nel regno dell'irrealtà, che maschera la sua difficoltà e la sua incapacità con il logoro e inservibile mantra del "non mi lasciano governare". Sembra anche la guerresca minaccia di un uomo disperato, perciò pronto a rovesciare tutti i tavoli. E pronto ad attaccare un principio essenziale, forgiato in quattro secoli di storia occidentale, dai padri pellegrini del Mayflower nel 1620 ai padri fondatori della Repubblica nel 1948: la divisione e il bilanciamento dei poteri. Il cuore di tutte le costituzioni, l'essenza di tutte le democrazie. Questa, qui e nei prossimi mesi, rischia di essere la vera  posta in gioco. È bene che gli italiani lo sappiano.

m.giannini@repubblica.it

(21 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/21/news/giannini_bavaglio-5719196/?ref=HRER1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il governo Berlusconi si accorge della FIAT...
Inserito da: Admin - Luglio 24, 2010, 05:44:44 pm
FIAT

Quel tavolo tardivo nella partita del Lingotto

Il governo Berlusconi, dopo due anni di silenzio, si accorge del 'problema Fiat'.

Ma ormai da mesi la metamorfosi dell'azienda avviene 'a scapito' dell'Italia e dei lavoratori italiani

di MASSIMO GIANNINI


Quel tavolo tardivo nella partita del Lingotto

DOPO due anni di colpevole silenzio, il governo Berlusconi si è infine accorto che in Italia esiste un "problema Fiat". Il presidente del Consiglio l'ha scoperto a modo suo, affermando un principio banale e formulando un auspicio irreale. "In una libera economia e in un libero Stato, un gruppo industriale è libero di collocare la produzione dove meglio crede, ma mi auguro che questo non accada a scapito dell'Italia e degli addetti italiani ai quali la Fiat offre lavoro". La banalità è nella ripetizione di un magnifico mantra liberale, che in Italia ha purtroppo scarso diritto di cittadinanza, visto il modello spurio in cui si mescolano capitalismo di relazione e affarismo politico, familismo amorale e finta "economia sociale di mercato".
L'irrealtà è nella sottovalutazione di un fatto già evidente a tutti: da mesi, ormai, la metamorfosi della Fiat avviene "a scapito" dell'Italia e dei lavoratori italiani. Una comprensione così tardiva di un fenomeno industriale e occupazionale tanto importante da la misura esatta dell'afasia politica di questo governo. E a negarla non basta la "convocazione" dell'azienda e dei sindacati, fissata dal ministro del Welfare mercoledì 28 luglio a Torino. È il solito "italian job", che fa chic e non impegna: quando hai un problema, basta aprire un "tavolo", e hai fatto la tua figura. Peccato che stavolta le cose non siano così facili. Per nessuno dei tre soggetti che vi si sederanno intorno.

Il primo soggetto è la Fiat. Non sarà facile per l'azienda. La sua strada è segnata. Per i prossimi due anni ha in cantiere solo la Nuova Giulietta e il nuovo motore TwinAir. Perde quote di mercato in Europa (dal 9,1 all'8,2%) e in Italia (dal 33,5 al 31%). È inutile continuare ad illudersi, a parlare a sproposito di "italianità", o addirittura di "torinesità", rievocando i bei tempi di Valletta e dell'Avvocato. Quello era, semplicemente, un altro mondo. La nuova "Fiat auto" è un gruppo multinazionale (ormai scorporato dalla vecchia "Fiat dell'industria") nel cui destino c'è con ogni probabilità l'ingresso di nuovi grandi partner globali e la fusione con la Chrysler. Ed è altrettanto inutile continuare a fare appello a John Elkann: il via libera allo "spin off" è una resa della famiglia Agnelli, che rinuncia a giocare in proprio la partita dell'auto.

A dispetto dei piani e delle promesse, l'Italia è un mercato, ma non necessariamente una produzione. Costa troppo, in tutti i sensi: manodopera, infrastrutture, fisco. E rende poco: numero di veicoli prodotti, utili per singola automobile, reti di vendita. In Italia la Fiat produce 650 mila vetture l'anno con 22 mila operai, in Polonia 600 mila con 6.100 operai, in Brasile 730 mila con 9.400 operai. Questi sono i numeri. E con questi numeri perché mai Sergio Marchionne, "l'Oracolo dell'auto" come lo definisce enfaticamente il "Financial Times", dovrebbe "morire" per Pomigliano o addirittura per Mirafiori? Preferisce andarsene a Kragujevac, e sfornare lì la nuova monovolume.
E a chi prova a dargli torto, può opporre a sua volta qualche numero: su un investimento di un miliardo di euro, 650 milioni li metteranno il governo serbo e la Bei, con in più un'esenzione fiscale di dieci anni e un contributo di 10 mila euro per ogni nuovo assunto, la cui paga base sarà di circa 400 euro. Perché, a queste condizioni, non dovrebbe andare in Serbia? Per una difesa dell'"interesse nazionale"? Marchionne è svizzero-canadese, ormai vive più a Auburn Hills che al Lingotto: l'unica cosa che conta è il posizionamento del gruppo nella sfida globale. Oppure per una "responsabilità sociale dell'impresa"? Marchionne non è Adriano Olivetti: oggi l'unica cosa che conta, secondo il gergo della modernità, è "creare valore" per gli azionisti.
Il secondo soggetto sono i sindacati. Non sarà facile non tanto per la Fiom, quanto piuttosto per la Cisl e la Uil, clamorosamente spiazzate dall'"editto serbo" dell'azienda. Bonanni e Angeletti si erano affrettati con solerzia politicamente gregaria a battezzare il "lodo Pomigliano" come un "accordo storico". Sul piatto dei 700 milioni di investimenti offerti dalla Fiat avevano sacrificato una quota non trascurabile di diritti reali dei lavoratori, nell'illusoria convinzione che quel "modello contrattuale" sarebbe stato unico e non ripetibile in nessun altro luogo di lavoro. Non hanno capito, o hanno finto di non capire, che Pomigliano è stata l'epifania di una nuova era delle relazioni industriali. E che una "eccezione", quando sono in gioco diritti costituzionali, non conferma la regola, la distrugge.

Non hanno capito, o hanno finto di non capire, che tra le parti tutto si può negoziare, orari e salari, ma non i diritti, appunto, trasformati in "merce fungibile" e scambiabile con la sopravvivenza dell'azienda. Non hanno capito, o hanno finto di non capire, che nel mondo globale della competizione tra diseguali il modello da difendere è il "contratto sociale" sottoscritto dall'Occidente, e non il dumping sociale imposto dai Paesi emergenti. Ora balbettano, disorientati dagli annunci e dalle scelte dell'azienda, che legittimamente difende i suoi interessi, nella convinzione di "dettare la linea sulla cultura del lavoro", come titolava l'"Herald Tribune" di ieri.

Il terzo soggetto è il governo. Il suo compito sarà ancora meno facile. Per affrontare insieme all'azienda e ai sindacati il "problema Fiat", con la ragionevole certezza di tirar fuori una soluzione, bisognerebbe avere qualcosa da mettere sul tavolo. In questo momento, come da due anni a questa parte, Berlusconi non ha nulla da offrire. Qui non si parla di incentivi e di rottamazioni, che sono solo il metadone somministrato a un malato assuefatto. Qui si parla di politiche industriali e fiscali. Si parla di investimenti sulla ricerca e sulla riqualificazione delle risorse umane. Si parla di reti di trasporto e di energia. Si parla di riforme contrattuali concertate e condivise. Si parla, in altri termini, di Sistema-Paese, cioè un tema sul quale questo governo non ha e non ha mai avuto nulla da dire né da proporre.
Il massimo che Berlusconi ha "inventato" in questi anni, sulla Fiat, sono state le battute imbarazzanti su Gianni Agnelli a Melfi ("è un mio mito, tengo la sua fotografia sul comodino") e le spacconate umilianti con Fresco e Galateri ad Arcore ("Datela a me, saprei io come risanare la Fiat"). Il massimo che i suoi ministri hanno inventato in queste settimane, su Pomigliano, è stata la celebrazione ideologica e irresponsabile di un "trionfo misero", consumato attraverso il regolamento di conti con la Cgil. Senza nessuna visione dell'interesse generale. Senza nessun progetto sul declino industriale.

C'è voluto il Capo dello Stato, per ricordare al premier che il ministero dello Sviluppo Economico è sede vacante da tre mesi, e la presidenza della Consob lo è da tre settimane. Quanto ci vorrà perché Berlusconi capisca che il futuro dell'industria dell'auto (come di tutto quel che resta della grande industria del Paese) è una enorme "questione nazionale"? Negli Stati Uniti dei destini di Gm, Ford e Chrysler si è occupato Obama in persona alla Casa Bianca. In Italia del destino della Fiat si occuperà Sacconi alla Regione Piemonte. Con tutto il rispetto, non è la stessa cosa.

(24 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/07/24/news/quel_tavolo_tardivo_nella_partita_del_lingotto-5789533/?ref=HREC1-2


Titolo: MASSIMO GIANNINI La fine del regime
Inserito da: Admin - Luglio 31, 2010, 05:13:27 pm
IL COMMENTO

La fine del regime

di MASSIMO GIANNINI


Un governo balneare, di fine regime. è tutto quello che resta della grande illusione berlusconiana. Prometteva di cambiare l'Italia e di durare per "almeno tre legislature". Dopo la rottura definitiva decretata ufficialmente da Fini, è quasi certo che il Berlusconi Terzo, nato due anni fa con la più schiacciante maggioranza parlamentare della storia repubblicana, non arriverà a concludere nemmeno la sua prima legislatura. Ma con la giornata di ieri non tramonta solo un'illusione di governo.

Muore anche l'illusione di una Nuova Destra, moderna ed europea, che in questo Paese, sotto le insegne del Cavaliere non ha e non avrà mai la possibilità di esistere. É in nome di questa Destra impossibile che Gianfranco Fini ha consumato il suo strappo. E stavolta è uno strappo vero e non più sanabile. Stavolta non siamo "alle comiche finali", come l'allora leader di An disse sprezzante tre anni fa di fronte alla Rivoluzione del Predellino, salvo poi salirci a sua volta per "co-fondare" (turandosi il naso) il Partito del Popolo delle Libertà. Stavolta Fini, reagendo alla "purga" berlusconiana del giorno prima, stila il certificato di morte definitiva di quel partito che ha contribuito a costruire, ma nel quale è sempre stato trattato, alternativamente, o da ospite, o da estraneo o da intruso.

In quella scarna ma esiziale cartella di testo letta dal presidente della Camera è riassunta davvero la "brutta pagina" di storia di questo centrodestra. Che non è stata scritta nell'epilogo di questi giorni, ma stava già tutta nel suo prologo di tre anni fa. Era tutto già chiaro, per chi avesse voluto capire, al congresso fondativo del Pdl. Già Fini tracciò la linea del Piave di un'"altra Destra", incompatibile con quella berlusconiana. Una destra costituzionale, repubblicana, laica. Non incostituzionale, populista, atea devota (come quella del Cavaliere). E nemmeno a-costituzionale, secessionista, pagana (come quella del Senatur). Già lì Fini osò l'inosabile, chiedendo a Berlusconi di non essere più Berlusconi: cioè di accettare il pluralismo delle idee e di rispettare la  diversità delle opinioni, di inseguire l'interesse collettivo e di valorizzare la democrazia parlamentare, di tutelare i diritti delle persone e di difendere le istituzioni. Già lì Fini comprese, sia pure senza dirlo, l'impraticabilità della scommessa: invitò la sua gente, che scioglieva da Alleanza Nazionale, a "non aver paura di lasciare la casa del padre", ma sapeva in cuor suo che la "nuova casa" sarebbe stata un misto tra un casino e una caserma, e che il "nuovo padre" sarebbe stato un misto tra un padrino e un padrone.

Così é stato, da allora. Questi due anni narrano la cronaca di un partito mai nato. Le due destre, contaminate da una terza destra di Bossi, non potevano convivere, ma solo confliggere. È quello che è accaduto, e che il documento di Fini fotografa fedelmente. Questo Pdl, persino più del Pd, è il vero "amalgama mal riuscito" della politica italiana. Il collasso avviene sulla legalità, che non a  caso (insieme alla "giustizia sociale" e all'"amor di patria") è la piattaforma identitaria che Fini rivendica e rilancia. E non a caso, proprio sulla legalità, il cofondatore porta l'attacco più duro al cuore del berlusconismo, quando dice "onoreremo il patto con milioni di elettori onesti, grati alla magistratura e alle forze dell'ordine, che non capiscono perché nel nostro partito il garantismo significhi troppo spesso pretesa di impunità".

Parole semplici e chiare, che negano alla radice una legislatura finora interamente vissuta dal premier all'insegna della "politica ad personam", dove l'interesse di un singolo o di una casta ha fatto premio su tutto il resto. Ma il divorzio poteva avvenire su altro. E in questi mesi ha più o meno incubato su tutti i fronti dell'azione di  governo: dall'immigrazione all'economia. Perché su tutto le differenze erano e sono rimaste irriducibili, com'era ovvio per il dna di due culture politiche incomparabili  e com'era stato plasticamente dimostrato nella  drammatica direzione del Pdl in cui i due leader (che ne sono portatori) hanno inscenato per la prima volta in pubblico uno scontro non solo ideologico, ma addirittura fisico. Era un patto con il Diavolo, quello di Fini. Non poteva reggere, e non ha retto. Non puoi credere che Berlusconi possa diventare De Gasperi, e nemmeno che possa scimmiottare Andreotti: cioè rassegnarsi ad essere il segretario di un vero partito di massa dei moderati e dei conservatori. Berlusconi é un capo, é il prototipo degli illiberali, e coltiva una visione proprietaria delle istituzioni e gregaria dei partiti. Fini lo scrive testualmente, nel suo documento, rivendicando la presidenza della Camera (che non é ovviamente nelle disponibilità del presidente del Consiglio, checché ne dica citando a sproposito un Pertini del '69) e contestando al Cavaliere la "logica aziendale" con la quale amministra la cosa pubblica (che non può obbligare la terza carica dello Stato a comportarsi come un "amministratore delegato").

"Cesarismo carismatico" è la formula che, riecheggiando impropriamente il "centralismo democratico" del vecchio Pci, riflette al meglio la natura del potere berlusconiano. Un ossimoro vagamente moroteo, che  dimostra l'evidenza di un fatto, a Fini e a tutti coloro che vogliono coglierla: dove c'è un Cesare non può esserci una democrazia. Questo, dunque, è l'abisso che oggi separa le due destre, e nel quale sprofonda per sempre non solo il Pdl, ma lo stesso governo che ne era l'emanazione diretta. Solo i patetici cantori di regime possono affermare che "ora il Pdl e il governo sono più forti di prima". Idiozie da Tg1, che non funzionano più nemmeno in Transatlantico.

Da ieri, con l'uscita dei finiani e la nascita del gruppo autonomo Futuro e Libertà, il Pdl ha cessato di esistere politicamente, e il governo ha cominciato  a sopravvivere pericolosamente. A dispetto della sofferta sicumera del premier, Fini ha argomenti e numeri per mettere alle corde questa maggioranza disgregata e disperata, ormai ad esclusiva trazione forzaleghista. Dalle intercettazioni al federalismo, dalla manovra alla fecondazione assistita, per l'autunno si profila un rovinoso e rischioso Vietnam parlamentare. Il sostegno apparente che la pattuglia del presidente della Camera promette all'esecutivo, condizionato ai singoli provvedimenti e al rispetto dell'interesse generale, vuol dire in realtà una sola cosa. Per Fini é iniziata la stagione delle mani libere. Non sappiamo dove lo porterà. Ma sappiamo che da oggi, specularmente, Berlusconi e il suo governo hanno le mani legate. C'è un solo modo, per sciogliere la corda. Dichiarare la resa. E affidarsi senza condizioni (meno che mai quelle assurde, come le elezioni anticipate) alle sole mani che contano in questo momento: quelle del presidente della Repubblica.
m.giannini@repubblica.it

(31 luglio 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/07/31/news/fine_regime-5967833/?ref=HRER1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Le anime morte
Inserito da: Admin - Agosto 05, 2010, 03:33:14 pm
IL COMMENTO

Le anime morte

di MASSIMO GIANNINI

È finita. Il vascello fantasma del governo Berlusconi (come lo aveva definito Ezio Mauro meno di un mese fa) naviga ormai alla deriva.
Senza un nocchiero, senza una rotta, senza una meta. Neanche più in balia di se stesso, ma piuttosto di una "Cosa" che non ha ancora un nome e un colore, ma che in Parlamento già esiste, e già cambia la geografia politica del Paese. Questo dice il voto della Camera sulla mozione di sfiducia contro il sottosegretario Caliendo: la maggioranza di centrodestra che aveva stravinto le elezioni due anni e mezzo fa non solo non esiste più politicamente, com'era ormai evidente già da qualche mese.

Ma ora ha cessato di esistere anche aritmeticamente. Quella che fu l'Invincibile Armata berlusconiana, amputata della componente finiana e ridimensionata nel perimetro forzaleghista, non ha più i numeri per governare.

Berlusconi può anche sdrammatizzare, accusando il presidente della Camera e ripetendo che il governo non si manda a casa per una questione che non riguarda il programma. Bossi può anche tirare a campare, dicendo "resistiamo" e ripetendo il rozzo esorcismo del "dito medio" alzato di fronte ai cronisti. Ma da ieri, in Parlamento, la somma dei voti delle opposizioni e dei gruppi di Futuro e Libertà, Udc, Api e Mpa è superiore alla somma dei voti di Pdl e Lega. E non di poco, visto che a Montecitorio, nello scrutinio sulla sfiducia al suo sottosegretario, il governo si è piantato a quota 299 contrari (dunque ben 17 voti sotto al quorum) contro i 304 tra favorevoli e astenuti.

Questo è il primo elemento di valutazione politica, più generale: il voto di ieri segna il destino della legislatura. Com'era chiaro fin dalla scorsa settimana, la rottura con Fini e con i finiani non era e non è solo l'alzata di capo di un leader in cerca di più potere e l'ammutinamento velleitario di un drappello di colonnelli in cerca di più visibilità. Era ed è invece da un lato la fine di una costruzione ideologica (il Pdl) totalmente imperniata intorno alla biografia e alla mitologia berlusconiana, e dall'altro lato l'inizio di una formazione politica (il gruppo FeL) fortemente impegnata nell'alternativa di una destra moderata e moderna, costituzionale e legalitaria, repubblicana ed europea. Tutto ciò che la destra berlusconiana non è mai stata e non sarà mai, immersa com'è nella venerazione acritica del Capo, nell'adorazione populistica delle sue gesta, nella difesa parossistica dei suoi affari.

È bastato che il presidente della Camera parlasse di una "questione morale" esplosa dentro il Popolo delle Libertà, che chiedesse una serie di doverosi passi indietro su posizioni eticamente indifendibili (da Brancher allo stesso Caliendo), che invocasse una forza conservatrice sì, ma nel solco delle famiglie del popolarismo occidentale, cioè autenticamente capace di incarnare gli interessi nazionali della collettività, e non più solo quelli personali di una casta. È bastato tutto questo, in pochi giorni, per allargare le colonne d'Ercole tra il vascello fantasma del Cavaliere e del Senatur e la leggera ma promettente imbarcazione di Fini. E soprattutto per allargare uno spazio politico assai vasto, nella solita "terra incognita" del centro. Da Fini a Casini, da Rutelli a Lombardo, e domani chissà, da Montezemolo ai pentiti della ex Margherita. Non sappiamo se e quanto questo spazio sia effettivamente agibile, in termini di consensi attuali e potenziali, nell'Italia di oggi. Anzi, tenderemmo a pensare che i margini, almeno sotto il profilo elettorale, siano piuttosto ristretti, visto che il Paese, in questi anni di pur tormentata transizione, ha dimostrato di aver acquisito comunque una consolidata cultura del bipolarismo.

Ma quello che sappiamo è che da ieri, almeno in Parlamento, questa Terza Forza esiste a tutti gli effetti. Agisce e reagisce al di fuori del perimetro segnato dal bipartitismo. Pensa in maniera convergente e pesa in misura determinante, su tutto ciò che passa al vaglio delle assemblee legislative. Qui sta il cambio di fase: da oggi, per Berlusconi e quindi per l'intera politica italiana, governare è ogni giorno la traversata di un oceano in tempesta. E ogni giorno puoi andare a fondo, se non tratti ma vuoi solo comandare, se non fai politica ma solo propaganda. Ecco perché, comunque vada, da oggi si può considerare esaurito anche questo ciclo berlusconiano. Il suo propulsore ne é stato, ancora una volta, il distruttore. La regressione autoritaria e la vocazione proprietaria del premier hanno finito per assorbire, fino ad esaurirla, l'intera spinta iniziale e inerziale di questa sedicente "Nuova Destra". Che ora, per paradosso, rischia di morire sotto i colpi di un ipotetico "Nuovo Centro". Saprà anche di Prima Repubblica, come ribadisce con spregio lo stesso Cavaliere, dimenticando che proprio al "Caf" di Craxi-Andreotti-Forlani deve tutte le sue fortune. E sarà anche "piccolo", come ripetono i suoi nemici dalla spaurita ridotta azzurro-verde. Ma ieri ha dimostrato di essere grande quanto basta per cambiare, qui ed ora, il corso della storia.

Ma c'è anche un secondo elemento di valutazione politica che va colto nel voto di ieri, e che riguarda il tema più specifico, ma non meno importante, della legalità. Il modo in cui il Pdl e la falange berlusconiana hanno continuato a difendere in aula e fuori dall'aula il sottosegretario Caliendo è semplicemente vergognoso. Solo un potere disperato e dissennato può esprimere un tale livello di inciviltà politica e di insensibilità istituzionale, facendo quadrato su un uomo di governo implicato in un'inchiesta in cui si parla di "reti criminali" che hanno come obiettivo quello di condizionare le scelte di giudici e magistrati su questioni "sensibili" per il presidente del Consiglio (sentenza della Consulta sul Lodo Alfano) o per alti esponenti della maggioranza (sentenze del Tar sulle liste elettorali in Lombardia). Solo un incauto replicante del premier come il Guardasigilli Alfano può spacciare l'opportunismo clanico per "garantismo giuridico", e ri-raccontare l'opera buffa della P3 come "un'invenzione di certi pm e di certa sinistra", e non invece come la tragica replica di un sistema di potere fondato sulla corruzione e sull'infiltrazione degli amici, sul ricatto e sulla distruzione dei nemici. E infine solo un voltagabbana irresponsabile come Cicchitto, invece di fare qualche onesto mea culpa individuale e collettivo, può attaccare in aula, e per l'ennesima volta, questo giornale e il suo editore. Ha parlato di "rito tribale che si rinnova una volta al mese", con il quale ogni volta si deve "immolare una persona al giustizialismo".
Responsabile di questa deriva sarebbero "Repubblica e Carlo De Benedetti, che ha ferocia ma non ha carisma personale".

Ad un politico squalificato come Cicchitto, transitato dalla nobile sinistra lombardiana all'assai meno nobile destra berlusconiana, non si dovrebbe mai rispondere. Ma poiché l'attacco è avvenuto in Parlamento, a questo "onorevole" vanno ricordate due cose. La prima è che "Repubblica", sullo scandalo dell'eolico, sul ruolo di Cesare e sul coinvolgimento di Caliendo, non ha costruito teoremi, ma si è limitata a pubblicare le intercettazioni pubbliche dell'inchiesta e a raccontare gli atti ufficiali delle procure. La seconda é che un qualche "deficit" di "carisma personale" lo ha avuto Cicchitto, visto che per acquisirne un po' lo andò ad elemosinare direttamente da Licio Gelli, con tanto di cerimonia di iniziazione e poi di tessera di iscrizione alla vecchia Loggia P2, in tutta evidenza "modello di riferimento" anche della giovane P3.

Ma in fondo, al punto in cui siamo arrivati e nel gorgo in cui sta affondando la maggioranza, questi sono aspetti ormai quasi marginali. Resta il dato politico, gravissimo, di un Paese a un passo dalla crisi, e di un governo che non si rassegna a prenderne atto. Senza politica, senza aritmetica. Vagano per lo Stige. "Anime morte", avrebbe detto Gogol. Ma in questa deriva l'Italia non può e non deve finire.
m.giannini@repubblica.it

(05 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/05/news/anime_morte-6077588/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Responsabilità e ricatti
Inserito da: Admin - Agosto 09, 2010, 10:14:38 am
IL COMMENTO

Responsabilità e ricatti

C'è una sola fabbrica che non chiude per ferie ma che invece produce la sua "merce" a ritmi serrati: è la berlusconiana "fabbrica del fango" che attraverso l'uso scellerato dei giornali di famiglia e l'abuso combinato di servizi e polizie sforna dossier avvelenati contro amici e nemici del presidente del Consiglio

di MASSIMO GIANNINI


NELLA torrida e torbida estate italiana, come purtroppo avevamo previsto, c'è dunque una sola fabbrica che non chiude per ferie, ma che invece produce la sua "merce" a ritmi sempre più serrati. È la berlusconiana "fabbrica del fango", che attraverso l'uso scellerato dei giornali di famiglia e l'abuso combinato di servizi e polizie sforna dossier avvelenati contro amici e nemici del presidente del Consiglio.

Da qualche giorno, com'era ovvio dopo la sacrilega rottura umana e politica con il padre-padrone del Pdl, il fango ha ricominciato a sommergere copiosamente Gianfranco Fini per la vicenda del famigerato appartamento di Montecarlo ereditato da Alleanza nazionale, rimesso sul mercato e poi finito nella disponibilità del cognato dello stesso presidente della Camera.

Nel metodo, diciamo subito che Fini ha compiuto un gesto di responsabilità, onorando il ruolo che ricopre e cercando di chiarire fin da subito tutti i punti della vicenda. Senza aspettare il corso dell'inchiesta della procura di Roma, senza urlare contro i giudici "comunisti" come fa quotidianamente il premier, ma anzi esprimendo la massima fiducia nel lavoro dei magistrati.

Fini dà prova di grande senso dello Stato. Equilibrio politico, rispetto del potere giudiziario, disponibilità a fare luce: così si comporta un uomo delle istituzioni, quando è in gioco l'onorabilità della sua carica e la trasparenza dei suoi comportamenti. Già qui si coglie l'abisso culturale e temperamentale che separa il presidente della Camera dal presidente del Consiglio, abituato a destabilizzare l'ordine giurisdizionale con i suoi furori ideologici e ad umiliare il potere legislativo con le sue leggi ad personam.

Nel merito della vicenda, le precisazioni riassunte da Fini in otto capitoli sembrano sufficienti a sgombrare quasi completamente il campo dagli equivoci e dai dubbi. Tranne che in un punto, che merita un approfondimento ulteriore. Dopo aver chiarito al punto quattro che nel 2008 Giancarlo Tulliani (fratello dell'attuale compagna del presidente della Camera, Elisabetta) lo aveva informato che "in base alle sue relazioni e alle sue conoscenze del settore immobiliare a Montecarlo, una società era interessata ad acquistare l'appartamento", Fini dichiara al punto sette che la vendita dell'appartamento è avvenuta il 15 ottobre 2008, e che lui non sa "assolutamente nulla" sulla "natura giuridica della società acquirente" né sui "successivi trasferimenti" dello stesso immobile. Solo "qualche tempo dopo" (conclude l'ex leader di An al punto otto) "ho appreso da Elisabetta Tulliani che il fratello Giancarlo aveva in locazione l'appartamento".

Ricapitolando. Alleanza nazionale riceve un lascito ereditario di diversi cespiti immobiliari. Uno di questi è a Montecarlo, stimato 450 milioni di vecchie lire e regolarmente iscritto nel bilancio del partito. È "fatiscente e non abitabile", come attestano le ispezioni fatte dal tesoriere del partito e dalla segretaria personale di Fini. Ma il luogo è di pregio, e qualche anno dopo (nel 2008) si profila un'offerta d'acquisto di cui Giancarlo Tulliani fa cenno a Fini. Poco dopo l'offerta si concretizza in 300 mila euro, più del valore stimato, spiega adesso il presidente della Camera. E così Fini, in quanto segretario di An, autorizza l'amministratore a vendere. Si tratta di un bene che appartiene a un partito, non sono in ballo soldi pubblici. E questa è una distinzione doverosa e fondamentale per inquadrare la vicenda.

Ma Fini, e qui è l'aspetto opinabile della sua ricostruzione dei fatti, non sa nulla, né di chi sia l'offerta iniziale di cui gli parla il cognato, né di quale sia la società che effettivamente poi compra l'appartamento, ne di chi ci andrà ad abitare nei mesi successivi, come proprietario o come locatario.

Quando si parla di case i politici non possono e non devono permettersi leggerezze, anche se avvengono nel rispetto della legge, come dimostra il caso D'Alema ai tempi della prima Affittopoli. Inoltre non sapere chi offre, chi compra e poi chi affitta una casa di Montecarlo, per il capo di un partito che la vende, genera un vago "effetto Scajola", capace di dichiararsi all'oscuro del chi e del perché gli sia stato pagato il famoso appartamento da un milione e 600 mila euro con vista Colosseo.

Ma nel caso di Fini e dell'appartamento venduto o affittato al cognato, a quanto pare, non si pone affatto un profilo penale. E non si può discutere nemmeno di un problema etico, ma tutt'al più "estetico". Sul piano formale, un segretario non é tenuto a sapere a chi il suo partito vende o da chi compra ognuno dei propri beni patrimoniali: c'è un amministratore che ha la delega per farlo. Sul piano sostanziale, il massimo che si può dire è che il presidente della Camera sia stato un po' naif, visto l'iniziale coinvolgimento nell'affare del fratello della sua compagna. Ma questo, al momento, sembra essere tutto.

Al contrario, resta in campo il tema vero che si agita sullo sfondo di questo presunto "scandalo" ossessivamente inscenato sugli house-organ del premier. Vale a dire la tecnica del dominio e il sistema di potere che sovrintendono a queste chirurgiche operazioni di killeraggio mediatico e politico. Dopo Veronica Lario per la denuncia sul "ciarpame politico" e Fassino-Consorte per la telefonata su Bnl, dopo Dino Boffo per le critiche sulle escort e il giudice Mesiano per la sentenza sul caso Mondadori, dopo Marrazzo per il video sui trans e Caldoro per il dossier sui gay, la fabbrica del fango sta "macinando" Fini.

L'ex alleato, diventato avversario, deve essere infangato, delegittimato, distrutto. Così si regolano i conti della politica, nell'era della truce decadenza berlusconiana. Così si zittiscono i critici o i dissidenti, nell'epoca tecnicamente totalitaria dell'orwelliano "Partito dell'Amore". Tra minacce, intimidazioni e ricatti, c'è solo da chiedersi chi sarà la prossima vittima da annientare, in questo folle gioco al massacro della democrazia.

(09 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/09/news/giannini_fini_berlusconi-6164448/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Macelleria istituzionale
Inserito da: Admin - Agosto 17, 2010, 09:24:24 pm
IL COMMENTO

Macelleria istituzionale

di MASSIMO GIANNINI
 
La macelleria politica e costituzionale del tardo-berlusconismo ha infine obbligato il Quirinale a compiere un atto irrituale ed estremo. Solo nell'Italia di oggi, destabilizzata dalle pulsioni tecnicamente eversive del capo del governo e avvelenata dalle operazioni di killeraggio mediatico dei suoi sicari, può accadere che un presidente della Repubblica debba scrivere in una nota ufficiale che chi nutre dubbi sul suo operato ha il "dovere" di chiederne l'impeachment. Come prevede la stessa Carta del 1948, che all'articolo 90 indica le modalità e le procedure della messa "in stato d'accusa" del Presidente, nei casi specifici di "alto tradimento" e di "attentato alla Costituzione".

A tanto, dunque, è stato costretto Giorgio Napolitano, per fermare "le gratuite insinuazioni e le indebite pressioni" che, nell'avvitarsi di una crisi sempre più drammatica del centrodestra, colpiscono da giorni la più alta carica dello Stato. Il suo comunicato dà la misura di quanto sia grave e pericoloso il conflitto istituzionale in atto. E solo una lettura ipocrita e riduttiva del monito lanciato dal Colle può ridimensionarne la genesi alla necessità di rispondere all'intervista che due giorni fa il vicecapogruppo del Pdl alla Camera ha rilasciato al "Giornale".

Maurizio Bianconi ha trattato Napolitano come un nemico, che "tradisce la Costituzione fingendo di rispettarla". L'ha accusato di "incoerenza gravissima", perché colpevole di dire "no al voto anticipato e sì alla ricerca di un governo tecnico". Parole inconsulte e irresponsabili, scagliate come pietre contro il massimo organo di garanzia della nazione. Ma chi ora definisce Bianconi un semplice "peone", o un "golpista da operetta", non rende un buon servizio alla verità. Non si può non vedere come questi vaneggiamenti riflettano un "sentire comune" che, nella disperata trincea del Popolo della Libertà, accomuna più o meno tutti gli esponenti dell'armata forzaleghista.

Da Alfano a Maroni, da Gasparri a Cicchitto: in queste settimane l'intera batteria dei luogotenenti del premier, sproloquiando di "ribaltoni" e di "congiure di palazzo", non fa altro che sfidare il Capo dello Stato, cercando di mettere in discussione il suo ruolo, di snaturare le sue prerogative, di condizionare le sue scelte. E non si può non vedere come queste urla riecheggino nel silenzio assordante e colpevole dello stesso presidente del Consiglio. Berlusconi tace, e dunque acconsente. Lasciando le ridicole precisazioni di prammatica ai Capezzone e ai Rotondi: tocca a loro riempire il tragico vuoto politico dell'agosto berlusconiano, replicando le intimidazioni ma rinnovando al presidente della Repubblica una "stima" e un "affetto" che suonano paurosamente vuoti, retorici e perciò falsi.

Siamo arrivati al limite estremo, alla rottura di tutti gli equilibri istituzionali. Dunque, quando Napolitano denuncia "interpretazioni arbitrarie" e "processi alle intenzioni", non è certo a Bianconi che si riferisce. Il Capo dello Stato parla a tutto il centrodestra, e rilancia la sfida al leader che ne incarna l'anima "rivoluzionaria" e ormai palesemente anti-statuale. In vista dell'ormai inevitabile showdown d'autunno, il comunicato del Colle suona quasi come una "chiamata finale", dalla quale si possono e si devono trarre alcune lezioni. La prima lezione: le istituzioni appartengono alla Repubblica, e non al Cavaliere, e dunque vivono nella reciproca autonomia e nel mutuo rispetto delle norme sancite dalla Costituzione.

La seconda lezione: la Costituzione è la casa di tutti gli italiani, e dunque non può essere piegata all'ermeneutica di parte o alla logica di partito. La Carta assegna prerogative precise e compiti tassativi al Capo dello Stato, che li esercita con la massima indipendenza e la massima responsabilità, nella normale dialettica tra i poteri e nella leale collaborazione tra gli organi di garanzia. Tutto questo vale sempre: nella fisiologia della vita politica, quando si tratta di promulgare o rinviare una legge al Parlamento, come nella patologia di una crisi, quando si tratta di sciogliere le Camere o di verificare se esistano maggioranze alternative. Questo dice la Costituzione, di cui il presidente della Repubblica è il custode e il garante.

Di qui la terza ed ultima lezione: quando rivendica le sue prerogative costituzionali, Napolitano tutela la Costituzione formale, che non può essere stravolta da una costituzione materiale introdotta surrettiziamente con la semplice iscrizione della parola "Berlusconi" su una scheda elettorale, come fosse la formula magica della modernità politica. Il premier farà bene a ricordarselo, in vista della battaglia di settembre. Per quanto svilita, la democrazia ha le sue regole. E le regole sono una garanzia per tutto il popolo italiano, non un appannaggio del solo Popolo delle Libertà.
m.giannini@repubblica.it

(17 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/17/news/macelleria_istituzionale-6327641/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI. Amato: "Eravamo amici".
Inserito da: Admin - Agosto 18, 2010, 11:21:26 am
L'INTERVISTA

Amato: "Mi disse che faceva il matto altrimenti sarebbe stato impeachment"

L'ex presidente del Consiglio: "Eravamo amici".

"Fu lui a portare gli ex comunisti al governo del Paese assumendosene la piena responsabilità"

di MASSIMO GIANNINI

ROMA - "Ora che Francesco non c'è più, posso dirlo: la sua è stata una storia assai complessa, nella quale la dimensione politica e pubblica è stata investita pesantemente dalle traversie personali e psicologiche...". In vacanza ad Ansedonia, Giuliano Amato ricorda così "l'amico Cossiga". "Ho cominciato con lui ai tempi in cui ero sottosegretario a Palazzo Chigi e Francesco era Capo dello Stato. Si è sviluppata da allora quella naturale liason istituzionale che si crea tra la presidenza del Consiglio e il Quirinale. Ho vissuto con lui proprio gli anni cruciali della sua trasformazione, da notaio a Picconatore".

Quanto ha pesato questa metamorfosi, nel giudizio politico che si può dare di Cossiga?
"Francesco ha vissuto una vita privata difficile, accompagnata da fase depressive sempre più accentuate. E questo ha inciso sui suoi comportamenti, sui suoi rapporti con gli altri ed anche sulle vicende politiche del Paese. Posso dirlo, ora che non c'è più: io sono stato uno dei suoi amici, nella vita. Eppure, in più occasioni, ha avuto reazioni irritate anche nei miei confronti. Ma più volte, dopo i suoi sfoghi pubblici, mi ha chiamato per dirmi: "caro Giuliano, ho detto su di te cattiverie che non meriti, ma quando ho questi momenti non riesco a controllarmi...". L'uomo era così. E certo, questo suo carattere spesso confliggeva con il suo ruolo di presidente della Repubblica".

Ricorda qualche momento in cui questo "conflitto" fu più aspro?
"Uno su tutti. Quanta fatica facemmo per evitare che definisse l'allora leader dei Ds "uno zombie". Era un linguaggio che non si addiceva a un capo dello Stato. Ma non c'era nulla da fare. E queste intemperanze gli costarono molto, anche in sede giudiziaria. Tuttavia, un'altra cosa va detta, oggi: in queste sue reazioni sproporzionate incise molto anche il modo in cui venne combattuto nella vita politica e istituzionale".

Sta dicendo che se Cossiga diventò il Picconatore, questo dipende anche dal modo in cui lo attaccarono i suoi avversari?
"E' così. Limitiamoci all'episodio dell'impeachment, che proprio non meritava. E' vero, le sue stravaganze offensive erano frequenti.
Ma mai, neanche in quell'infausta vicenda, si trasformarono in tradimenti della Costituzione. I suoi comportamenti istituzionali non giustificarono mai le aggressioni a cui fu sottoposto. Ci fu un vero e proprio attacco concentrico contro di lui. Ed io temetti un nuovo caso Leone".

Ma quel clima giustificava invece le sue "picconate"?
"Quanto meno le spiegava. Una sera mi disse: "Tu, caro Giuliano, ti domanderai se io penso davvero certe cose che dico. Ebbene, sappi che se non mi fossi comportato come una specie di pazzo, forse l'impeachment sarebbe scattato...". Una confessione che mi colpì molto. Mi suggerì l'immagine di una sorta di Enrico IV di Pirandello. Un'immagine tragica. E anche anomala, perché sempre sul crinale: da una parte una condizione psicologica difficile, ma dall'altra parte una grande lucidità e capacità di capire, prima di altri, come si muoveva
la politica intorno a lui...".

Anche su questo i giudizi su di lui sono molto controversi. Capì davvero che senza una radicale riforma politica e costituzionale la Prima Repubblica sarebbe crollata?
"Cossiga si mise a picconare un mondo che stava oggettivamente franando. Si potrà obiettare che quello era il suo mondo. Ma resta il fatto che lui lo capì, e lo denunciò alla sua maniera. E non fu la sua unica intuizione. Certo, nessuno immaginava che alla Terza Via di Aldo Moro si sarebbe arrivati nel modo tortuoso con il quale ci si arrivò nel '98, dopo la caduta del primo governo Prodi. Ma fu lui a voler portare gli ex comunisti al governo. E lo volle in un momento difficile per gli ex comunisti, costretti ad assumere la responsabilità di governare un paese che di lì a poco avrebbe dovuto decidere l'intervento militare nei Balcani. Sono convinto che vi fosse anche questa consapevolezza, nella scelta di Cossiga. Perché di scelta si trattò: altrimenti avremmo avuto il secondo governo Ciampi, e non il primo governo D'Alema".

Lei citava Moro. Altro passaggio cruciale: il rapimento, la linea della fermezza, l'assassinio. E la storia d'Italia che cambia radicalmente. Come giudica il Cossiga di quei giorni?
"Anche in quella vicenda Cossiga visse in una doppia e ancora una volta tragica dimensione. Da un lato doveva rappresentare lo Stato in prima linea, che non può cedere al ricatto dei brigatisti. Ma dall'altro lato doveva verificare se e in quali condizioni si potesse evitare che l'amico e maestro venisse ucciso. Visse insomma questo tragico sdoppiamento: ebbe il dovere di teorizzare la linea della fermezza, ma al tempo stesso andò febbrilmente in cerca di consiglieri, purtroppo non tutti giusti, che lo aiutassero a trovare uno spiraglio per salvare l'ostaggio. Tenere insieme questi due piani era e fu purtroppo impossibile. Proprio questo spiega perché poi si dimise: percepì la morte di Moro come una sua sconfitta personale, anche se per lo Stato della fermezza fu una drammatica vittoria".

E dell'ultimo Cossiga, quello dopo il Quirinale, cosa ricorda?
"Ritrovarsi a soli 60 anni ad essere già un ex capo dello Stato non fu certo facile. Sentiva di dover partecipare ancora alla vita politica del Paese. E ha trovato il modo di farlo. Sempre alla sua maniera. Intervenendo anche su temi che proprio non ti aspetti. Ma con una qualità rara, che è stata tutta sua ed è tuttora di pochi: quella di saper trarre succo politico anche da vicende che in mano ad altri sarebbero del tutto prive di sapore. E alla fine con un'altra qualità, che non ha mai perso e che oggi mi piace ricordare: quella di saper essere amico, pur continuando ad essere a volte così estremo nei giudizi".

Anche con lei questa amicizia non si è mai persa?
"Le racconto un ultimo aneddoto. Tre anni fa, appena diventato ministro degli Interni, ebbi con lui un piccolo disaccordo politico, e ad essere sincero non ricordo nemmeno su cosa. Immediatamente dettò un secco comunicato ufficiale alle agenzie, in cui annunciava che, nella sua veste di senatore a vita, non si sarebbe più avvalso dei servizi della "batteria" del Viminale, poiché era passata sotto le mie dipendenze. Il giorno dopo ci incontrammo per caso, davanti a un ascensore del Senato. Mi venne incontro, e mi abbracciò dicendo "Giuliano, amico mio, ti voglio bene...". Questo era Francesco Cossiga".

(18 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/18/news/amato_mi_disse_che_faceva_il_matto_altrimenti_sarebbe_stato_impeachment-6346275/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Falsa promessa di Berlusconi al Quirinale di nominare il ...
Inserito da: Admin - Agosto 31, 2010, 03:40:03 pm
IL CASO

Sviluppo economico, 4 mesi senza ministro mentre il Paese insegue la ripresa

Uno scandalo, dopo la falsa promessa di Berlusconi al Quirinale di nominare il responsabile in 7 giorni.

Un'altra poltrona è vuota: da oltre due mesi non viene scelto il presidente della Consob

di MASSIMO GIANNINI

C'È una vicenda esemplare che la politica, l'establishment e l'opinione pubblica continuano a sottovalutare. Fotografa la palude nella quale sta sprofondando il governo Berlusconi. Riflette l'irresponsabilità nella quale sta declinando il presidente del Consiglio. Questa vicenda si chiama ministero per lo Sviluppo Economico. Oggi sono 119 giorni. Sabato prossimo saranno 4 mesi esatti. Nell'anno più nero dell'industria italiana, nel cuore di una recessione di cui non si vede l'uscita, a tanto "ammonta" il vuoto di potere in quel dicastero, strategico per la tenuta del Sistema-Paese e per il sostegno delle imprese.

La sede è "vacante" da maggio. Da allora il premier esercita un'impalpabile e insostenibile "supplenza", in attesa di nominare il nuovo ministro. Attesa vana, consumata nel Palazzo tra annunci ambigui, tentativi grotteschi, promesse inevase. Attesa cara, pagata dall'Italia al prezzo di una crisi economica e occupazionale gravissima. Ci si chiede come sia possibile, in una grande democrazia industriale impegnata a fronteggiare la "tempesta perfetta" di questi ultimi due anni.

Eppure succede, nell´Italia berlusconiana di oggi, dove l´intera dimensione della politica economica si esaurisce nella tenda beduina di Gheddafi, nella pacca sulle spalle con Putin, nel verso del «cucù» ad Angela Merkel. Era il 4 maggio scorso, dunque, quando Claudio Scajola si dimise da ministro dello Sviluppo Economico in circostanze avventurose. Sui giornali rimbalzano da giorni i verbali delle procure, dai quali si evince senza ragionevoli dubbi che la «cricca» del G-8 - cioè quel micidiale sistema di potere imperniato intorno ad Anemone, Balducci e la Protezione Civile di Guido Bertolaso - ha pagato al ministro il prestigioso appartamento romano, vista Colosseo, nel quale risiede con la famiglia. In conferenza stampa, di fronte ai cronisti attoniti, l´autodifesa di Scajola è surreale: «Un ministro non può sospettare di abitare una casa pagata in parte da altri... Siccome considero la politica un´arte nobile, con la p maiuscola, per esercitarla bisogna avere le carte in regola e non avere sospetti... Mi devo difendere, e per difendermi non posso fare il ministro come ho fatto in questi due anni...». Quasi un caso di comicità involontaria. Il premier assume invece i toni gravi: «Scajola ha assunto una decisione sofferta e dolorosa, che conferma la sua sensibilità istituzionale e il suo senso dello Stato...». È un testacoda, nel quale il colpevole diventa vittima, il sospettato diventa colui che sospetta. La sera stessa Berlusconi va al Quirinale da Napolitano, e prende l´interim del dicastero. Rassicura il Capo dello Stato: «Presidente, dammi qualche giorno e tornerò da te con il nuovo ministro per il giuramento».

Mai promessa fu più bugiarda. Il presidente del Consiglio ci prova, ma a modo suo. Risultano agli atti almeno tre tentativi. Il primo è un sondaggio telefonico con Luca Cordero di Montezemolo, a metà maggio. Respinto al mittente: il presidente della Ferrari non lascia il suo team, e comunque ha ben altre ambizioni. Il secondo tentativo è di pochi giorni dopo. Il 27 maggio, all´assemblea annuale della Confindustria, il premier lancia un´«opa» su Emma Marcegaglia. Davanti ai duemila delegati confindustriali, sale sul palco e dice: «Volete voi che il nostro presidente di Confindustria affianchi il presidente del Consiglio al ministero dello Sviluppo Economico? Alzi la mano chi dice sì...». In una sala ammutolita, tra lo stupore e l´imbarazzo, cala il gelo. E il premier chiosa la sua gaffe: «Nessuno? Allora non potete lamentarvi di quei poveracci che sono al governo e che hanno ereditato un deficit pubblico che si è moltiplicato per otto...». Il terzo tentativo è di un mese dopo: a metà giugno, al termine di un incontro a Palazzo Chigi con le parti sociali, Gianni Letta «abborda» il leader della Cisl, Raffaele Bonanni: «Silvio mi chiede di dirti se saresti disposto a fare il ministro dello Sviluppo Economico...». La notizia non è il rifiuto di Bonanni. Quanto piuttosto la disinvoltura con la quale un importante incarico di governo, decisivo per gli assetti dell´economia, viene offerto indifferentemente a chiunque: un leader degli industriali o un dirigente sindacale.

Incassati i tre no, Berlusconi tira avanti come nulla fosse. Fa di peggio: non nomina un ministro necessario, ne nomina uno impossibile. Il 24 giugno porta al Quirinale non il successore di Scajola, ma Aldo Brancher, premiato «ad personam» all´Attuazione del federalismo, e nominato ministro solo per sfuggire a un processo penale, come nella migliore tradizione berlusconiana. Intanto crescono le tensioni sociali, e in parallelo le pressioni politiche. Dilagano le crisi della Glaxo, deflagrano le proteste dei minatori nel Sulcis, esplode il conflitto sulla Fiat di Pomigliano. In Parlamento piovono le interrogazioni parlamentari su un interim che, alla luce di quello che sta avvenendo nel Paese, sembra sempre più incomprensibile. Il 22 luglio i capigruppo dell´Idv al Senato, Donadi e Belisario, scrivono al presidente della Repubblica: «Intendiamo, con questa lettera aperta, portare alla Sua attenzione la nostra preoccupazione per questo delicatissimo dicastero, strategico per il rilancio dell´economia italiana...». L´iniziativa coglie nel segno. Il giorno dopo al Quirinale, durante la cerimonia del Ventaglio, Napolitano parla chiaro ai giornalisti, prima della pausa estiva: «L´istituzione governo non può ormai sottrarsi a decisioni dovute, come quella della nomina del titolare del ministero dello Sviluppo Economico e del presidente di un importante organo di sorveglianza come la Consob...». Nel frattempo, infatti, all´urgenza di sostituire Scajola si aggiunge quella di sostituire Lamberto Cardia, che il 28 giugno ha lasciato dopo 13 anni il vertice della Commissione di controllo sulle società e la Borsa. Altra posizione «apicale», che una grande nazione capitalista alle prese con fibrillazioni finanziarie e tracolli di mercato non dovrebbe permettersi di lasciare sguarnita.

L´appello del Capo dello Stato sembra raccolto. Lo stesso giorno, a Milano, al termine di un bilaterale con il presidente russo Putin, Berlusconi in conferenza stampa fa un annuncio impegnativo: «In questo periodo ho fatto qualche cambiamento importante nella struttura del ministero, ma ora posso annunciare che la prossima settimana procederemo alla nomina del nuovo ministro per lo Sviluppo Economico...». La notizia viene accolta da un sospiro di sollievo. Non solo sul Colle, ma anche in Parlamento e tra le parti sociali. Ma il sollievo svanisce presto. Il 4 agosto, nell´ultimo Consiglio dei ministri prima delle ferie, la nomina del nuovo ministro «non compare all´ordine del giorno». Il leader del Pd Bersani tuona: «È una vergogna». Fioccano nuove interrogazioni parlamentari. Trapela l´irritazione del Quirinale. Ma il premier tace. Non ha nulla da dire. Nella maggioranza parla solo Daniela Santanchè, con una frase memorabile: «Berlusconi all´interim sta facendo bene...». Da allora, più nulla. E adesso, alla ripresa di settembre, lo Sviluppo Economico rimane ancora «sede vacante».

Nel metodo, l´interim è un´anomalia per due ragioni. La prima ragione è che Berlusconi ci ha abituato a farne un uso smodato. Accadde il 5 gennaio 2002, quando lo assunse agli Esteri dopo le dimissioni di Renato Ruggiero in polemica sull´Europa. Accadde il 2 luglio 2004, quando lo assunse all´Economia dopo le dimissioni di Giulio Tremonti in seguito agli scontri con An e Udc. Accadde il 10 marzo 2006, quando lo assunse alla Sanità dopo le dimissioni di Francesco Storace travolto dal Laziogate. in totale, 471 giorni di interim in tre legislature. Troppi. La seconda ragione è che anche questo interim amplifica, ancora una volta, l´ennesimo conflitto di interessi di un presidente del Consiglio-proprietario di un impero mediatico che, nella sua veste di «ministro competente», deve decidere l´assegnazione delle frequenze televisive alle quali concorre anche Sky (principale concorrente di Mediaset sulla tv digitale) e deve firmare il contratto di servizio con la Rai (principale concorrente di Mediaset sulla tv generalista).

Nel merito, l´interim è un danno per il Paese. Mentre Berlusconi si occupa d´altro, la recessione non rallenta, semmai morde più a fondo nella carne viva degli italiani. Il premier-ministro non parla delle numerose crisi emerse, da Telecom alla Fiat di Pomigliano e Melfi. E non si occupa delle innumerevoli crisi sommerse. Secondo Movimprese, nel secondo trimestre di quest´anno (e dunque in piena coincidenza con l´interim) le aziende italiane che hanno portato i libri in tribunale per fallimento sono aumentate a 3.505, contro le 2.897 dello stesso periodo del 2009. E secondo un report diffuso dallo stesso dicastero dello Sviluppo Economico a metà agosto, i «tavoli» di crisi aziendale aperti presso il ministero, nei primi otto mesi dell´anno, sono passati da 100 a 170. Chi se ne occupa? «I posti di lavoro a rischio - si legge nel documento - sono circa 200 mila». Chi se ne fa carico? «Su 686 "Sistemi locali di lavoro" mappati a livello nazionale, 113 sono in "elevata crisi", 136 sono in "crisi medio-alta"». Chi li monitorizza? Sono domande senza risposta. L´unica cosa certa è che prima dell´estate (come «Repubblica» ha certificato) è cominciato un silenzioso smembramento del ministero. La manovra 2011 gli ha sottratto 900 milioni di fondi di dotazione. I fondi Ue e Fas sono stati trasferiti al ministro degli Affari regionali Raffaele Fitto. I circa 800 milioni di fondi per il turismo sono passati direttamente sotto la gestione di Michela Vittoria Brambilla. L´Istituto per la Promozione Industriale è stato soppresso. E il 24 giugno 150 imprenditori che avevano vinto il bando per le agevolazioni previste dal programma «Industria 2015» e non hanno visto un solo euro, hanno scritto una lettera al premier: «In queste condizioni è difficile realizzare gli obiettivi condivisi dal ministero».

Non hanno avuto né soldi né risposte. La poltrona dello Sviluppo Economico è mestamente vuota. Da 119 giorni. Quella della Consob lo è altrettanto, da 64 giorni. Ma non importa. «La nave va», avrebbe detto uno dei più famosi «maestri» del Cavaliere. Giusto pochi mesi prima di sfasciarsi sugli scogli.
 

(31 agosto 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/08/31/news/il_ministro_che_manca_da_119_giorni-6642685/?ref=HREC1-2


Titolo: MASSIMO GIANNINI Tremonti: L'emergenza è finita Patto con l'opposizione...
Inserito da: Admin - Settembre 04, 2010, 02:57:19 pm
L'INTERVISTA

Tremonti: "L'emergenza è finita Patto con l'opposizione per l'economia"

Il ministro dell'Economia lancia il nuovo Patto di stabilità e dice: "Non c'è bisogno di una Finanziaria vecchio stile o di una manovra correttiva".

Messaggio al Pd: "Lavoriamo insieme per rilanciare la competitività"

di MASSIMO GIANNINI


"QUESTO autunno avrebbe dovuto essere il terzo autunno atteso per il crollo dell'Italia. Non è così. Non sarà così. Non c'è bisogno di fare una Finanziaria "vecchio stile". Non c'è bisogno di fare una "manovra correttiva". I titoli di Stato finora sono stati collocati bene. Non ci sono elementi di rottura nelle strutture economiche, industriali e sociali del Paese. Non c'è dunque un'emergenza autunnale".

Giulio Tremonti si ripresenta così, alla ripresa di settembre. "Ma c'è bisogno di qualcosa di molto più impegnativo - aggiunge il ministro del Tesoro - e cioè re-ingegnerizzare il sistema economico italiano. Va fatto nel nostro interesse, va fatto perché lo chiede a tutti l'Europa". "Nessuna emergenza", è dunque la parola d'ordine. Almeno sull'economia. Perché dell'altra emergenza, quella politica, il ministro non vuole proprio parlare. "Alziamo e allarghiamo lo sguardo: quello che il ceto politico non vuol capire è che la nostra dimensione è l'Europa".

Ministro, partiamo proprio dall'Europa. Lunedì e martedì torna a riunirsi l'Ecofin. Che succederà a Bruxelles?

"Si dice che i popoli imparano la geografia con le guerre e capiscono l'economia con le crisi. È quello che sta succedendo in Europa. Lunedì e martedì a Bruxelles è convocato un Ecofin "straordinario", di nome e di fatto. Serve per scrivere il nuovo "Patto di Stabilità e di Crescita". Un atto che marcherà la fine delle politiche "national oriented", e con questo il principio di una vera e nuova politica economica europea comune, coordinata e collettiva, non più eclettica ed estemporanea, diversa stato per Stato. È logico: l'Europa è un continente, ha un'economia-mercato comune, ha una moneta comune, non può continuare con 27 diverse politiche economiche. Farlo era curioso prima della crisi, continuare è impossibile dopo la crisi. È suonato il gong sull'Europa: il passaggio "rivoluzionario", dal G7 al G20, drammaticamente evidenziato dalla crisi, ha segnato la fine di un'epoca. La fine della rendita coloniale europea: prima potevamo piazzare le nostre merci e i nostri titoli dove e come volevamo, adesso non possiamo più farlo".

Veniamo ai contenuti: come sarà il "nuovo" Patto?

"Ogni anno, da gennaio ad aprile, tutto ruoterà per tutti gli Stati intorno alla sessione di bilancio europea. Ed è così che cambieranno, e per tutti, le sedi e la forma della politica economica europea. Con la sessione di bilancio prenderà forma un "luogo" politico nuovo. Ogni Stato presenterà i suoi documenti, destinati ad essere discussi collettivamente da tutti gli altri Stati e coordinati dalla Commissione europea. In sintesi: una fondamentale devoluzione di potere, insieme "dal basso verso l'alto" e "dal diviso all'unito". La forma è economica, ma la sostanza è politica. Ed è ad altissima intensità politica. Nella forma è un passaggio procedurale, nella sostanza sarà un cambiamento costituzionale. Le linee fondamentali comuni su cui si svilupperà la politica europea sono marcate da due sigle: "SCP" e "NRP". "Stability and convergence program"e "National Reform Program". Le due politiche fondamentali della nuova Europa: stabilità delle finanze pubbliche, competitività del blocco continentale".

Tutto questo per l'Italia cosa significa? Abbiamo il terzo debito pubblico del mondo, e non accenna a diminuire.

"Il nostro Programma di Stabilità contiene la manovra di luglio ed è stato già approvato in Europa. Su questa base possiamo assumere che il nostro "SCP" è stato già impostato. Il problema che abbiamo è sull'altra politica, quella marcata dalla sigla "NRP". È su questa che dobbiamo e possiamo concentrarci. In una prospettiva temporale non istantanea, ma neppure lunghissima: da qui a gennaio-aprile del 2011".

Ma c'è chi continua a parlare di manovra aggiuntiva...

"Ipotesi lunare. Dopo la riforma della legge di bilancio e dopo la manovra di luglio, questo autunno la Finanziaria potrà e dovrà essere solo tabellare. E dunque molto diversa dalle vecchie Finanziarie. È piuttosto l'altra politica, non sulla stabilità ma sulla competitività, che va impostata. La stabilità è assolutamente necessaria, ma non è da sola sufficiente. Ed è appunto arrivato il tempo "europeo" per re-ingegnerizzare il nostro Paese in termini di competitività europea. Con una specifica preliminare: si possono seguire tutte le vie per lo sviluppo, tranne la via del deficit, che non causa sviluppo ma crisi".

Assumetevi una responsabilità. Se c'è un programma di riforme europee così vasto da portare avanti, coinvolgete tutte le forze in campo, invece di continuare a dividere le parti sociali e a demonizzare l'opposizione.

"Guardi, alla sessione di bilancio europea tutti i paesi dovranno essere presenti con un documento proiettato sul prossimo decennio. Twenty-Twenty, cioè 2010-2020. Il software politico con cui scrivere quel documento dovrà essere "europeo" e non nazionale, perché la competitività o è coerente con la struttura del blocco continentale o non è. Lo spirito politico con cui scrivere il documento non potrà essere "di parte", ma del Paese. Non scritto solo in base alla logica politica di un governo, ma ispirato da una visione medio-lunga sul bene comune del Paese. I governi possono passare - non è il caso del governo Berlusconi, che è un unicum - ma i Paesi no. In Italia questo vuol dire - e i documenti europei lo chiedono - un ruolo molto intenso del Parlamento, e di tutti gli altri soggetti e forze economiche e sociali del Paese. Fuori dalla lotta politica e fuori dalla dialettica di parte, idee e proposte certo dovranno essere alla fine sintetizzate, ma prima dovranno essere sul più vasto catalogo possibile e nel più ampio dibattito possibile. E in questo il ruolo dell'opposizione potrà e dovrà essere positivo e costruttivo".

La colpa è anche vostra, visto che da mesi governate a colpi di fiducia...

"La mia e la nostra speranza è che la nostra "NRP" sia un documento e rifletta una politica di alto livello. Possiamo e dobbiamo farcela, tutti insieme".

Ora ci spieghi le proposte concrete che il governo metterà in campo, proprio sul tema cruciale della competitività.

"Di tutto questo, nei mesi scorsi e anche ad agosto, ho discusso a lungo con il presidente del Consiglio, cui compete la responsabilità finale della firma del nuovo Patto di Stabilità. Sulla competitività abbiamo messo a fuoco alcuni punti essenziali. Indicativamente, per ora sono otto: la competizione con i giganti; il costo delle regole; il Sud; il nucleare; il rapporto capitale-lavoro; il fisco; il federalismo fiscale; il capitale umano, cioè ricerca scientifica e istruzione tecnica. Non so se qui riusciamo a parlare di tutti. Mi prenoto per la prossima puntata. Primo punto: nel mondo G-20 la competizione è tra "giganti". Nell'arcipelago Europa, destinato a farsi blocco continentale, il sistema economico italiano ha una criticità fondamentale: abbiamo imprese troppo piccole. La maggior parte del nostro Pil è fatto da aziende straordinarie, ma miniaturizzate, con un numero di addetti che va da 10 a 50. La Germania compete con i giganti da gigante, con dieci grandi "kombinat" industriali. È questa la ragione del suo straordinario successo sull'export: dare una commessa a una grande industria da parte di un grande Paese è del tutto naturale. Nello stesso settore industriale, dare commesse a mille imprese è enormemente più costoso: da gigante a nano non ti siedi neanche al tavolo per parlare di cifre...".

Giustissimo. Resta da capire perché il governo Berlusconi non fa qualcosa di concreto, invece di uscire dalle tende beduine dicendo "abbiamo ottenuto lavori per un punto di Pil"...

"Sulla diplomazia commerciale andiamo piuttosto bene. Per decreto non puoi fondere tra loro le piccole e medie imprese: lo spirito d'impresa italiano è molto individuale. Tutti i governi hanno offerto incentivi per la aggregazione. Ma non hanno funzionato abbastanza. E tuttavia: è appena partito il "mega-fondo" pubblico-privato per il sostegno delle piccole e medie imprese. Nella manovra ci sono gli strumenti e gli incentivi per le "reti" di imprese, e su questo è atteso l'impegno reale di Confindustria. È sull'estero che si deve ancora fare molto, concentrando il nostro sostegno all'export. Secondo punto: la competizione non è solo tra giganti, ma tra giganti diseguali. Abbiamo in Europa troppe regole. Le regole utili sono un investimento, le altre sono un costo di sistema che non possiamo più permetterci. L'Europa ha già iniziato a invertire il suo ciclo "giuridico": "stop regulation, less regulation, better regulation". L'Italia deve fare lo stesso. Da noi domina il "tutto è vietato tranne ciò che è graziosamente permesso dallo Stato". Deve essere l'opposto: "tutto è libero tranne ciò che è vietato dalla legge". Il divieto deve essere l'eccezione e non la regola. Una "rivoluzione liberale" da introdurre nella nostra Costituzione".

La riforma dell'articolo 41, ammesso che sia davvero quello il problema della competitività, cosa di cui dubito fortemente, l'ha già annunciata più volte. Perché non presentate il disegno di legge, una volta per tutte?

"Lo faremo. Ci stiamo lavorando a Palazzo Chigi. Non sottovaluti l'impatto di un cambiamento di questo tipo. Ma ci sono mille altre cose da fare sulle regole. Le opere pubbliche costano il doppio si fanno se va bene nel doppio del tempo, per via delle cosiddette "riserve" e delle "opere compensative". Porre un limite invalicabile a queste pratiche riporterà costi e tempi delle opere pubbliche a dimensioni economiche e temporali europee. Non solo: un'altra piccola "rivoluzione" può essere introdotta nel processo civile, altro enorme fattore di blocco dell'economia. Con la Finanziaria 2008 abbiamo introdotto il "processo telematico", superando le regole di un processo che ancora viaggiava su faldoni cartacei e sui "camminatori" per le notifiche. Non ha ancora funzionato. Un po' come avere una Ferrari e tenerla in garage o metterla in un ingorgo di traffico. Creare con incentivi una corsia agevolata per il processo telematico potrebbe essere una piccola-grande riforma".

Ministro, se è tutto qui quello che avete da offrire al Paese per la ripresa d'autunno c'è da preoccuparsi...

"Abbiamo altre leve da muovere. Punto terzo: il Sud. La questione meridionale non è la somma delle questioni regionali. È qualcosa di più e di diverso, è una questione nazionale su cui va fatta una politica nazionale e non più solo regionale. Una "regia" che concentri gli enormi fondi ancora disponibili su obiettivi strategici e fondamentali. L'Italia è ancora un Paese duale, ma non può e non deve diventare un paese diviso. Quarto punto: il nucleare. La mancanza del nucleare la paghiamo sul Pil: gli unici ad importare tutta l'energia. Quinto punto: il fisco: il cantiere della riforma fiscale l'avevamo aperto in gennaio, poi è venuta la Grecia. Adesso può essere riaperto...".

Questa è una notizia. Riaprite il cantiere della riforma fiscale? E per fare cosa?

"Allargare e semplificare la base imponibile, ridurre le aliquote, concentrare il "favor" fiscale su tre voci essenziali: famiglia, lavoro, ricerca".

Ma avete annunciato un'infinità di volte che ridurrete la pressione fiscale, che invece aumenta. Perché non mantenete la promessa?

"Con il terzo debito pubblico del mondo, e con uno Stato sociale grande e generoso, la pressione fiscale si può ridurre soprattutto aumentando il Pil e riducendo l'evasione. Oggettivamente lo stiamo facendo. Ci aiuterà il sesto punto del nostro piano, che è il federalismo fiscale, e che va avanti".

Il vero tema, che il governo finge di non vedere, è però quello del lavoro. Stiamo vivendo lo scontro sulla Fiat, da Melfi a Pomigliano. E stiamo vivendo soprattutto il dramma della disoccupazione giovanile, che in Italia non ha riscontri con il resto d'Europa.

"Il conflitto capitale-lavoro non c'è nella dimensione d'impresa dominante: con alcune decine di addetti. Si manifesta salendo di scala. A luglio, lavorando sulla manovra con Angeletti, Sacconi, Marcegaglia e Bonanni, usavamo la formula "contratti alla tedesca". Convinti allora, almeno io, che questo era il modello competitivo giusto. E con riserva di sviluppare in questa logica i contratti di produttività. Come ci racconta da un anno il governatore tedesco Axel Weber, lo straordinario successo della competitività tedesca si spiega così: la ricerca del miglior rapporto possibile tra capitale-lavoro, impresa per impresa".

Come può crescere un Paese che non finanzia la ricerca? Perché continuate a non fare nulla in questo campo?

"Su questo si deve fare oggettivamente molto di più. Sappiamo bene che servono i soldi. Pensi comunque che inventariando i fondi per il Sud sono venuti fuori circa 5 miliardi destinati alla ricerca, ma non utilizzati. L'istruzione tecnica è la grande assente nel nostro sistema educativo, che si è troppo allontanato dal mondo produttivo".

Tutto giusto, tutto avviato. Ma allora mi spiega perché il presidente della Repubblica due giorni fa ha denunciato l'assenza di una seria politica industriale in questo Paese? Cosa risponde a Napolitano?

"Più che di "politica industriale" forse si deve parlare di competitività, come ho cercato di spiegare finora. Competitività che non può essere disegnata in un Paese solo o da un governo solo, ma che deve essere disegnata attraverso un dibattito e raccogliendo contributi, i più ampi possibili, in funzione del nostro "NRP", cioè del paradigma europeo. C'è ancora tempo, ma non possiamo perdere tempo".

Perché da quattro mesi manca il ministro dello Sviluppo? Perché manca il presidente della Consob?

"Penso che saranno nominati presto. Ma per tornare al paradigma europeo della competitività, c'è bisogno di tutto e di tutti. Non di un singolo ministro, ma di tutto il governo. E non solo del governo, ma del Parlamento. E di tutte le forze sociali, economiche e ideali del Paese. Vede, troppe volte in questi mesi in Italia si è rappresentata l'Italia come "La torre di Babele" di Bruegel il Vecchio. Non è così. Io ne sono certo: l'Italia è stata, è e sarà diversa e migliore".

m.giannini@repubblica.it


(04 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/09/04/news/tremonti_l_emergenza_finita_patto_con_l_opposizione_per_l_economia-6747603/?ref=HREA-1



Titolo: MASSIMO GIANNINI Il manifesto di Fini per un'altra destra
Inserito da: Admin - Settembre 06, 2010, 05:51:13 pm
IL COMMENTO

Il manifesto di Fini per un'altra destra

di MASSIMO GIANNINI

Forse è davvero finita un'epoca, per l'anomala destra italiana nata dalle macerie del popolarismo democristiano e forgiata nel fuoco del populismo berlusconiano. Con il Manifesto di Mirabello, Gianfranco Fini varca un confine e politico, ed entra in una terra incognita sulla quale può costruire finalmente un'"altra destra". Compiutamente democratica e liberale, moderata e costituzionale. Nel solco delle grandi famiglie conservatrici europee.

Era enorme l'attesa per questo rientro in campo del presidente della Camera, dopo un agosto trascorso nella trincea di Ansedonia a patire in silenzio l'assalto del "Giornale". Quella di Fini, stavolta, è davvero una svolta radicale. Può ridisegnare geografie e geometrie della politica italiana. E può cambiare il corso della legislatura berlusconiana.   

Con un discorso di un'ora e mezzo, degno per toni e per temi di un congresso di fondazione e non certo di un raduno di corrente, Fini ha reciso per sempre le sfibrate e impalpabili radici che ancora lo tenevano unito a Berlusconi. Certo, le vicende personali hanno pesato.
La "macchina del fango" messa in moto a Montecarlo dai giornali-fratelli del presidente del Consiglio non può non aver influito sulla reazione durissima messa in scena a Mirabello dal presidente della Camera. Quei "Tg ridotti a fotocopie dei fogli d'ordine del Pdl", quelle "campagne paranoiche e patetiche", quegli "atti di lapidazione islamica" e quegli "atteggiamenti infami rivolti non a me, ma alla mia famiglia": era difficile, se non impossibile, che la rabbia finiana covata in queste settimane ed esplosa ieri dal palco non si traducesse solo in una inesorabile denuncia dell'aggressione subita, ma alla fine sfociasse anche nell'inevitabile rinuncia a proseguire la convivenza politica nel Pdl.

Ma insieme, e oltre alla rottura umana, pesa la rottura politica. Nell'elenco puntiglioso dei motivi che in questi due anni hanno portato al divorzio definitivo tra fondatore e co-fondatore non  c'è solo la rivendicazione del diritto al dissenso che dovrebbe costituire l'essenza di un vero "partito liberale di massa". C'è invece la piattaforma identitaria di una destra politica che non è più conciliabile, e forse non lo è mai stata, con quella berlusconiana. Dall'idea malintesa della "riforma della giustizia" fatta nell'interesse di un singolo e del garantismo come "impunità permanente", coltivata da chi al potere si sente forte e crede per ciò di essere "meno uguale" degli altri di fronte alla legge, al disprezzo per le istituzioni e gli organi di garanzia, esercitato da chi usa "il Parlamento come dependance dell'esecutivo". Dalla mancata difesa dei diritti degli "extracomunitari onesti", praticata da chi declina l'immigrazione come pura "guerra ai clandestini", alla mancata difesa dei veri valori dell'Occidente, svenduti per bieca "realpolitik" nella "genuflessione" di fronte a Gheddafi. Nell'aspra requisitoria finiana su ciò che è accaduto nel Pdl in questi mesi, non c'è conflittualità "congiunturale" che non nasconda anche un'evidente incompatibilità culturale.

E questo non vale soltanto per la "cifra" identitaria delle due anime che in questi mesi hanno faticosamente convissuto nel Pdl. Vale anche per l'azione di governo, che per Fini è stata deficitaria sotto tutti i punti di vista. Dai tagli lineari di spesa che hanno generato le "proteste sacrosante" delle forze dell'ordine e dei precari della scuola al ridicolo "ghe pensi mi" col quale si è creduto di riempire il vuoto al ministero dello Sviluppo. Dal federalismo inteso come "favore a Bossi" alle promesse tradite sul taglio delle province, sulle norme anti-corruzione, sugli aiuti alle famiglie. Il presidente della Camera non fa sconti, né al Berlusconi-leader né al Berlusconi-premier. E il dissenso, stavolta, è totale e radicale. Di metodo e di merito. Perché Fini ha finalmente il coraggio di dire quello che era ormai chiaro da almeno sei mesi. Da quando cioè, in quell'incredibile direzione del 22 aprile scorso, andò in onda in diretta su tutte le televisioni lo scontro "fisico" tra i due. E cioè che si sente ormai "altro" da questo Pdl, che il Cavaliere ha ridotto a "contorno del leader", a "coro di plaudenti" o a "popolo di sudditi". Ha fatto regredire a rozzo "partito del predellino", o a versione scadente di "Forza Italia allargata a qualche ex colonnello di An" pronto a servire qualunque generale.   

Dunque, quando il leader di Futuro e Libertà dice che "il Pdl è morto il 29 luglio", con quell'atto autoritario di marca "staliniana" con il quale il co-fondatore è stato estromesso, non si limita a chiudere per sempre la breve stagione del Popolo delle Libertà. Fa molto di più. Il suo non è solo l'epitaffio conclusivo di un vecchio ciclo. Ma è anche l'atto fondativo di un nuovo corso. Non c'è ancora l'annuncio ufficiale della nascita del partito, che deve dare forma e sostanza a quello che per ora continua ad essere solo un gruppo parlamentare. Ma c'è già il manifesto di principi e di valori sul quale il nuovo partito sarà edificato. Un partito rigorosamente di destra, questo è chiaro. Pronto a rivendicare il suo Pantheon e a risalire all'Msi di Giorgio Almirante, che Fini non esita a celebrare. Pronto a dimenticare in fretta le tappe di uno "sdoganamento" repubblicano che avremmo voluto assai più sofferto, assai più autocritico. Ma un partito di destra pronto a saldare definitivamente il conto con Berlusconi, e a saldare direttamente la "rivolta di Mirabello" del 2010 con la "svolta di Fiuggi" del 1995. Come se il Cavaliere - in questi quindici anni di "traghettamento" dell'ex Movimento sociale, dalle "fogne" di un tempo alle alte cariche istituzionali di oggi - fosse stato una parentesi. Più o meno felice. Ma ormai chiusa per sempre.

Il presidente della Camera ha cercato in tutti i modi di non vestire i panni del Bruto, capace di accoltellare Cesare in nome di chissà quale congiura di Palazzo. "Né ribaltoni, né cambi di campo", quindi. Ed è stato attento anche a non offrire alibi al Cavaliere, né sulla fine anticipata della legislatura (che sarebbe "un fallimento  per tutti noi") né sulla minaccia di elezioni anticipate (che è solo "avventurismo politico"). Non solo: il presidente della Camera ha offerto al premier un "patto di legislatura", per far fare a questo governo tutto quello che ha promesso in campagna elettorale e non è stato capace di garantire ai cittadini. Certo, in un quadro e in un equilibrio politico diverso, dove la maggioranza non poggia più su "un tavolo a due gambe di Berlusconi e Bossi", dove i parlamentari non sono in vendita "come i clienti della Standa" e dove le grandi riforme "in nome del bene comune si fanno anche coinvolgendo l'opposizione". Persino sulla giustizia il leader di F&L si è spinto a dare una sponda estrema al Cavaliere, non certo sul processo breve, ma su un provvedimento che ricalchi il Lodo Alfano e il legittimo impedimento, e gli garantisca "il diritto di governare" senza fare strage dei processi che interessano migliaia e migliaia di cittadini in attesa di giudizio.

Ma è chiaro che, al punto in cui siamo, queste offerte appaiono inutili. Improponibili per chi le formula, e irricevibili per chi le dovrebbe accogliere. Se è vero, come dice Fini, che il Pdl non c'è più, e che "non si rientra in una cosa che non c'è più", allora è ancora più vero che non c'è più neanche la maggioranza che ha vinto le elezioni il 13 aprile di due anni fa. Ancora una volta, la previsione più sensata l'aveva fatta quell'animale politico che risponde al nome di Bossi: "Fini romperà, e allora vedo grossi problemi per il governo: il Cavaliere sarà un premier dimezzato...". Il Senatur è stato fin troppo ottimista.

Più che dimezzato, stavolta il presidente del Consiglio sembra finito. Ha di fronte a se soltanto una strada: aprire la crisi, e azzardare la richiesta di elezioni anticipate, che non dipendono da lui ma dalle regole della Costituzione e dalle prerogative del Capo dello Stato.

E' un rischio mortale. Il "pifferaio di Arcore" ha smesso di ammaliare i finiani. E forse comincia a incantare un po' meno anche gli italiani.

(06 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/06/news/giannini-6790270/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La lezione del Presidente
Inserito da: Admin - Settembre 15, 2010, 05:58:04 pm
La lezione del Presidente

di MASSIMO GIANNINI

La democrazia rappresentativa intesa come premierato di comando. Il consenso popolare declinato come assenso populista. Il Parlamento svilito a gran bazar. Nella fase discendente del ciclo berlusconiano, tocca ancora una volta al Capo dello Stato l'esercizio di una "pedagogia repubblicana", senza la quale l'Italia di oggi rischierebbe una deriva sudamericana. A Salerno, dove nel '44 Palmiro Togliatti annunciò la sua "svolta" contro il fascismo, Giorgio Napolitano impartisce la sua "lezione" al berlusconismo. È prima di tutto una lezione di ordine politico. Non è vero che il ricorso al popolo è sempre "il sale della democrazia", come hanno ripetuto spesso in queste settimane il Cavaliere e i suoi scudieri. E non è vero che il ricorso al popolo "è il balsamo per ogni febbre". Il messaggio del presidente della Repubblica è chiarissimo. Ha una portata generale: in democrazia la sovranità appartiene certamente al popolo, che tuttavia la esercita nei modi e nelle forme previsti dalla Costituzione.
Ma ha anche una portata specifica: nelle condizioni attuali, non si può immaginare di risolvere un problema interno alla maggioranza ricorrendo alle urne. Sarebbe una farmacopea dissennata: se il centrodestra ha la febbre, è il centrodestra che deve curarsi, non le Camere che devono sciogliersi. Dunque, Berlusconi si dimentichi l'automatismo "crisi di governo-elezioni anticipate": il ricorso alle urne, oggi, non avrebbe alcun senso. In attesa dell'ordalia di fine settembre, e del voto sui cinque punti di rilancio programmatico, c'è una maggioranza che ha il dovere di riorganizzarsi, e c'è un governo che ha il dovere di governare. Il resto sono chiacchiere, alibi o diversivi.

Sembrano ovvietà. E lo sarebbero, in un Paese normale. Non lo sono affatto nell'Italia di oggi, dove il "contesto" riflette ed amplifica la sempre più gigantesca anomalia berlusconiana. Il presidente del Consiglio vive sospeso. Ha rotto con Gianfranco Fini. Non si fida di Giulio Tremonti. È ostaggio di Umberto Bossi. In questa inconsueta condizione di vuoto politico e di solitudine personale, alterna fragorose minacce e indecorose retromarce. Nei giorni pari, in privato, lascia trapelare la sua ferma volontà di arrivare alle elezioni anticipate. Nei giorni dispari, in pubblico, rilancia la sua ferrea certezza di poter arrivare in gloria alla fine della legislatura.

Nel frattempo, mentre il Dottor Stranamore studia per lui qualche altra "ghedinata" per ripararlo dai processi di Milano, il premier mette in scena un indecente mercato delle vacche, azzardando la più massiccia compravendita di parlamentari che la storia repubblicana ricordi. Con un doppio, paradossale effetto boomerang. Primo: l'operazione di sostituire il pilastro dei finiani con la stampella dei centristi muore in culla il giorno dopo la nascita: persino le anime vacue in transito perenne tra Pri, Udc e Mpa preferiscono non salire su un carro che appare ormai perdente.

Secondo: l'operazione tradisce la visione palesemente contraddittoria e volgarmente trasformista del berlusconismo. Dopo aver invocato il delitto di lesa maestà contro il presidente della Camera, reo di aver fondato il suo gruppo parlamentare di "Futuro e Libertà" che avrebbe modificato il perimetro della maggioranza e alterato la natura del Pdl, il premier inventa una manovra uguale e contraria, assecondando la nascita del gruppo parlamentare di "Responsabilità nazionale". Bisognerebbe spiegare agli italiani perché la seria diaspora della destra vicina a Fini è un "tradimento degli elettori", mentre l'improbabile armata Brancaleone riunita intorno a Nucara è un "rafforzamento della maggioranza".

In questo abisso di bassezze e di controsensi, quella di Napolitano è anche una lezione di ordine costituzionale. Dopo un'estate di spallate violente contro le istituzioni di garanzia, il Capo dello Stato è costretto a ricordare "la polemica allusiva e non sempre garbata" che la maggioranza ha sollevato nei suoi confronti, proprio a proposito delle elezioni anticipate. "Si è mostrato stupore per il fatto che il presidente della Repubblica non apparisse pronto, con la penna in mano, a firmare un decreto di scioglimento delle Camere...".

Con l'arma dell'ironia, Napolitano risponde agli attacchi del presidente del Consiglio e dei suoi luogotenenti, che da mesi tengono sotto assedio il Quirinale e sotto ricatto la Costituzione formale, in nome di un'inesistente "Costituzione materiale" forgiata dagli elettori attraverso l'indicazione del nome del candidato premier sulla scheda. Con l'arma della fermezza, Napolitano ripete che "la vita di un Paese democratico e delle sue istituzioni elettive, nelle quali si esprime la volontà popolare, deve essere ordinata secondo regole per potersi svolgere in modo fecondo".

Ma è proprio sulle regole che il berlusconismo svela ancora una volta i suoi limiti strutturali e i suoi deficit culturali. Il premier non conosce Saint Just, che alla vigilia del Termidoro scriveva "le istituzioni sono la garanzia della libertà pubblica, perché moralizzano il governo e lo Stato". Non sa nulla di Rousseau, che diceva "la forza non fa il diritto". Per il Cavaliere l'unico diritto possibile si chiama Berlusconi. E oggi non è più neanche una forza, ma semmai una debolezza. Per questo, e non è un paradosso, è ancora più pericolosa.
m.giannini@repubblica.it

(15 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/09/15/news/lezione_presidente-7088108/


Titolo: MASSIMO GIANNINI La vittoria dell'asse Berlusconi-Geronzi
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2010, 04:56:09 pm
L'ANALISI

La vittoria dell'asse Berlusconi-Geronzi

di MASSIMO GIANNINI

La battaglia contro Alessandro Profumo e la conquista di Unicredit è l'ultima, grande operazione del capitalismo di rito berlusconiano-geronziano. L'indecoroso "dimissionamento" dell'amministratore delegato e il clamoroso ribaltone al vertice della prima banca italiana non è solo la sconfitta di una certa idea del libero mercato, dove ognuno fa il suo mestiere: la politica detta le regole del sistema, i manager gestiscono le società creando valore per gli azionisti, e i soci incassano gli utili e i dividendi. In Italia non funziona così: nelle grandi casseforti dell'economia e della finanza, spesso blindate tra partecipazioni incestuose e relazioni pericolose, politici arrembanti e azionisti deferenti si alleano per far fuori i manager disobbedienti. Letta in questa chiave, la battaglia di Piazza Cordusio e la cacciata di Profumo lasciano sul campo due sicuri vincitori: Silvio Berlusconi e Cesare Geronzi. Il presidente del Consiglio ottiene una vittoria politica, in vista dell'appuntamento cruciale che, nella sua agenda, è fissato per il marzo 2011: le elezioni anticipate. Il presidente delle Generali strappa una vittoria finanziaria, in vista della mossa che, nella sua testa, chiuderà il "Risiko" dei Poteri Forti: la fusione Generali-Mediobanca.

Tra un appuntamento a Palazzo Chigi (dove dispone di un suo ufficio) e una colazione da Mario a via dè Fiori (dove pranza con gli ospiti di riguardo) lo spiega direttamente Luigi Bisignani, fiduciario di Gianni Letta e uomo di raccordo della filiera berlusconian-geronziana: "Voi continuate a mettermi in mezzo, ma con questi affari io non c'entro. Detto questo, mi pare che stiamo solo al primo passo: il prossimo sarà la grande fusione... ". La "grande fusione", appunto. Cioè il "merger" Mediobanca-Generali, di cui il Cavaliere di Arcore dichiara di non occuparsi e il Leone di Trieste giura di non sapere nulla. In realtà le cose stanno diversamente. E l'affondamento di Profumo è solo una tappa, in questo percorso di guerra. Unicredit è il primo azionista di Mediobanca, con l'8,6% del capitale. Qualunque operazione su Piazzetta Cuccia non si può fare, se non controlli il capo-azienda di Piazza Cordusio. Anche per questo è partito l'attacco a "Mister Arrogance". Ecco in che modo.

La partita politica. Come riassume un ministro che si è occupato in questi mesi della vicenda, "il destino di Profumo era segnato da un anno e mezzo, e lui era il primo a saperlo". In parte è così. L'amministratore delegato sapeva di avere ormai troppi nemici, dentro e fuori dalla banca. C'è chi sostiene addirittura che la sua fine sia stata decretata l'8 luglio, nella famosa cena a casa di Bruno Vespa, dove Berlusconi, seduto a fianco di Cesare Geronzi, avrebbe imposto al governatore della Banca d'Italia Draghi uno "scambio": io ti sostengo per la corsa alla Bce, tu non ti opponi al ribaltone in Unicredit. Ipotesi ardita. Forse fantasiosa. Sta di fatto che il ministro del Tesoro Tremonti, non invitato a quella cena, non ha gradito. E da quel momento, dopo aver bastonato per due anni le banche e i banchieri, ha curiosamente cominciato a difendere Profumo.

E sta di fatto che lo stesso Profumo, prima dell'estate, si è mosso con i libici, per cercare una sponda che gli desse manforte contro gli altri azionisti all'attacco, dalle Fondazioni delle Casse del Nord ai tedeschi dell'Allianz guidati dal presidente di Unicredit Dieter Rampl. Per questo all'inizio di agosto, alla vigilia della partenza per le ferie, lo stesso Profumo è andato in missione ad Arcore, a spiegare a Berlusconi il senso dell'ingresso dei libici nel capitale Unicredit. Dal suo punto di vista, i fondi sovrani del Colonnello Gheddafi dovevano essere il suo "cavaliere bianco". E invece si sono rivelati il "cavallo di Troia", che lo stesso Berlusconi, Bossi e Geronzi - attraverso Palenzona, Biasi e Rampl - hanno usato per sfondare le sue difese.

Il premier, in quell'occasione, ha dato ampie garanzie a Profumo: "Procedi pure con i libici". Ma è stata una pillola avvelenata. Nel frattempo il suo affarista di fiducia per l'area Sud del Mediterraneo, Tarak Ben Ammar, con la benedizione di Geronzi di cui è a sua volta amico personale, ha trattato direttamente con Gheddafi i termini del suo impegno in Unicredit. Un impegno che doveva servire da alibi, per lanciare l'offensiva contro Profumo, ancora una volta all'insegna (pretestuosa) della difesa dell'"italianità" dei campioni nazionali. Il segnale che l'operazione libica stava prendendo una piega diversa da quella immaginata dall'amministratore delegato è arrivato un mese dopo. Il 25 agosto, al meeting di Cl a Rimini, proprio Geronzi si è lasciato andare a una frase sibillina: "Fin dai tempi di Capitalia, i libici sono stati i migliori soci che io abbia mai avuto". È parsa una dichiarazione distensiva verso l'aumento progressivo della partecipazione dei fondi di Tripoli in Unicredit. E invece è stata solo un'altra pillola avvelenata contro Profumo.

Lo si è capito pochi giorni più tardi, quando il 30 agosto il Colonnello è sbarcato a Roma, accolto con tutti gli onori dal presidente del Consiglio e dalla plaudente "business community" italiana. Tra il faccia a faccia a Palazzo Chigi e la cena alla caserma Salvo D'Acquisto, Gheddafi e Berlusconi hanno parlato dell'affare Unicredit. Subito dopo, Geronzi si è recato a Palazzo Grazioli, è ha messo a punto insieme al Cavaliere il piano d'attacco a Profumo. Un piano in tre mosse. Prima mossa: allarme mediatico per la "scalata libica", lanciato ai primi di settembre dalla Lega, che ha costretto la Consob e la Banca d'Italia a chiedere chiarimenti a Profumo. Seconda mossa: attacco mediatico dalla Germania, con la "Suddeutsche Zeitung irritata per "l'arroganza" del ceo. Terza mossa: convocazione di un consiglio straordinario da parte dei "grandi azionisti", per ridiscutere l'operato del management. È esattamente quello che è accaduto in queste tre settimane, e che ha portato l'amministratore delegato alla resa finale.

La vittoria politica di Berlusconi si può riassumere così. In uno scenario che precipita palesemente verso le elezioni anticipate, il premier sistema la partita strategica di Unicredit, si libera di un manager troppo autonomo dal Palazzo, e in un colpo solo rinsalda il suo patto di ferro con Umberto Bossi, sigla una tregua con il governatore di Bankitalia Draghi, e ridimensiona le velleità politiche del suo ministro-antagonista Tremonti. Sembra fantascienza. Ma forse non lo è affatto. Lo prova, paradossalmente, la sobrietà con la quale lo stato maggiore del Carroccio festeggia le dimissioni di Profumo. Lo prova, allo stesso modo, la battaglia non proprio campale che Via Nazionale ha condotto per difendere la governance della prima banca italiana. Lo prova, infine, l'ultima battuta di Tarak, all'uscita della riunione del patto Mediobanca di ieri: "I libici irritati per quello che è successo a Unicredit? Non credo affatto...". Per molte ragioni, la sconfitta di "Mister Arrogance" ha accontentato diverse casematte del potere, politico ed economico.

La partita finanziaria. Se il premier su Unicredit ha giocato dunque la sua partita politica, Geronzi su Profumo ha giocato la sua partita finanziaria. E lo ha fatto con l'obiettivo raccontato da Bisignani. Espugnare la fortezza di Piazza Cordusio, per poi coronare il progetto che si porta dietro dalla scorsa primavera, da quando cioè ha traslocato dal vertice di Mediobanca alla presidenza delle Generali: fondere Piazzetta Cuccia con il Leone di Trieste. E così ridefinire una volta per tutte, a suo vantaggio, gli equilibri del capitalismo italiano. Da maggio scorso, a dispetto di una governance che formalmente assegna allo stesso Geronzi poche deleghe in Generali, lasciando a Mediobanca il controllo delle partecipazioni strategiche come Rcs, Telecom e le banche, il nuovo Cesare del capitalismo italiano ha ingaggiato una guerra senza quartiere con i due "alani" rimasti a Piazzetta Cuccia. Lo ripete lo stesso Bisignani, senza farne mistero: "Con Renato Pagliaro e Alberto Naghel gli scontri sono continui...".

Geronzi si sta smarcando sempre di più, dall'orbita Mediobanca. E lo fa non per lasciare all'Istituto che fu di Enrico Cuccia la sua piena autonomia, ma per raggiungere il risultato contrario: cioè tornare a comandare anche lì. Con l'operazione di "reverse merger" di cui si parla da tempo, e che "Repubblica" ha anticipato nella primavera scorsa, e che ora lo stesso Bisignani conferma. Un'operazione che, secondo fonti di mercato, coinvolgerebbe persino la Mediolanum, di cui il premier vuole disfarsi, perché non sa cosa farne, e che lo stesso Geronzi sarebbe pronto ad accollarsi, per rendergli l'ennesimo favore. Sembra fantascienza, anche questa. Domani fioccheranno smentite. Ma anche fino alla scorsa primavera il banchiere di Marino aveva smentito il suo progetto di trasferirsi in Generali. Sappiamo poi com'è andata a finire.

Al fondo, resta l'immagine di un capitalismo ancora una volta provinciale, asfittico, autoreferenziale, etero-diretto dalla politica. In questa ultima grande partita del potere italiano non ha perso Profumo, uno dei pochi grandi banchieri di caratura internazionale in questo sciagurato paese. Ha perso l'intera, sedicente "élite" della solita, piccola, Italietta.

(22 settembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/09/22/news/profumo_giannini-7301261/?ref=HRER1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Geronzi: non sono io il capo della Spectre il vero problema...
Inserito da: Admin - Settembre 23, 2010, 10:09:10 am
UNICREDIT

Geronzi: non sono io il capo della Spectre il vero problema è il potere delle Fondazioni

"Con Alessandro un buon rapporto. La Lega? Aprono bocca a vanvera". Con la politica non ho alcuna relazione pericolosa. Io sono un menestrello, dò consigli e suggerimenti. La fusione tra Mediobanca e le Generali? Non ci penso e non ci ho mai pensato

di MASSIMO GIANNINI


"Mi dispiace deluderla, ma non sono io il capo della Spectre...", giura Geronzi. Dal suo ufficio di Piazza Venezia a un passo dal Foro Romano, il Cesare del capitalismo  si sfila dalla "congiura" contro Profumo.

"Non ho niente contro Alessandro, e mi sono sempre adoperato per la stabilità del sistema finanziario". A sentire la ricostruzione del presidente delle Generali, nella battaglia su Unicredit non c'è stata nessuna vittoria dell'asse Berlusconi-Geronzi, nessun piano orchestrato dalla solita politica e dalla grande finanza per sconfiggere Profumo, prima attraverso il "cavallo di Troia" dei libici, poi con l'affondo coordinato tra le Fondazioni delle casse del Nord, il presidente di Unicredit Dieter Rampl e i soci tedeschi e italiani a lui vicini. "Vede, quando le cose sono semplici, a me non piace che siano raccontate come un romanzo. Meno che mai un romanzo di fantascienza". Per Geronzi è "fantascienza" l'incontro tra lui e il premier durante la visita romana di Gheddafi, volto a trasformare l'ingresso dei libici in Unicredit in un'arma per abbattere lo strapotere dell'amministratore delegato.

Questo è il primo punto che il numero uno del Leone di Trieste ci tiene a chiarire: il "ribaltone" a Piazza Cordusio non è stata una sua vendetta contro il "ceo": "Io non ho nulla contro Profumo, e non ho mai avuto nulla contro di lui. Mi citi un episodio, uno solo, nel quale ci saremmo scontrati... ". L'elenco è lungo: dalla
fuoriuscita dal capitale Rcs ai Tremonti Bond, dalla governance di Mediobanca al passaggio dello stesso Geronzi da Piazzetta Cuccia alle Generali. Ma anche in questo caso, il banchiere di Marino nega tutto: "Non è affatto vero che io e Alessandro abbiamo litigato su questi punti. E soprattutto è una leggenda che Profumo fosse contrario al mio passaggio alle Generali: in realtà lui, giustamente, si preoccupava solo del fatto che ci fosse una continuità aziendale in Mediobanca. Vuole sapere la verità su me e Profumo? La verità è che io, insieme a lui, ho fatto la più bella operazione del sistema bancario italiano di questi anni, e cioè la fusione tra Unicredit e Capitalia. Un'operazione straordinaria non solo per me e per lui, ma per il Paese. Allora creammo insieme la prima banca italiana per capitalizzazione, e lo facemmo con tanta concordia tra noi che chiudemmo l'operazione in quattordici giorni. Poi, certo, nella gestione quotidiana ci possono essere momenti in cui non si condivide qualcosa. Ma questo rientra nella fisiologia dei rapporti di lavoro, e non ha nulla a che vedere con il rancore, e meno che mai con la vendetta".

Il secondo punto che Geronzi ci tiene a precisare riguarda i suoi rapporti con la politica, e il ruolo che Palazzo Chigi ha giocato nella partita Unicredit. "Io non so dire che cosa abbia fatto Palazzo Chigi in questa vicenda. So però che io non ho avuto alcun contatto con il governo, per discutere dell'affare Unicredit. Lei potrà anche non crederci, perché spesso vengo rappresentato come il "braccio armato" dalla politica nel mondo della finanza, ma la verità è che io con la politica non ho alcuna "relazione pericolosa". Io sono un menestrello, rispetto a chi fa politica per professione... Do consigli e suggerimenti, e solo quando mi vengono richiesti". Non è questo il caso dell'operazione Unicredit, garantisce il presidente delle Generali: "Nessuno mi ha chiesto nulla, e io non ho suggerito nulla". Eppure i conti non tornano, se uno degli uomini considerati vicini allo stesso Geronzi, e cioè Luigi Bisignani, accredita l'ipotesi che la cacciata di Profumo sia solo la prima tappa di un percorso, rinsaldato sull'asse Berlusconi-Letta, che deve poi portare alla "grande fusione" Mediobanca-Generali. Su questo punto il banchiere di Marino taglia corto: "Forse c'è chi vuole accreditare giochi di potere e comportamenti non rituali nella gestione di istituzioni finanziarie importanti come le nostre. Ma io non faccio giochi, questo modo di operare non mi appartiene e non mi è mai appartenuto. La mia storia parla per me, dai tempi in cui lavoravo alla Banca d'Italia".

Prendendo per buona la versione del banchiere di Marino, resta allora da capire chi ha davvero voluto far fuori Profumo. Se l'ipotesi Berlusconi-Geronzi è "un romanzo di fantascienza", il "colpevole" non può essere il solito maggiordomo, come nei romanzi gialli di serie B. Sono stati i libici? "No, su questo concordo perfettamente con lei: la presunta scalata dei libici è stata solo un pretesto, un alibi, oltre tutto pessimo, perché confermo che nel caso di Capitalia i libici sono stati i migliori azionisti che io abbia mai avuto". Allora sono stati i tedeschi, tanto che ora Bossi, dopo aver agitato lo spauracchio di Gheddafi, lancia l'allarme sulla "calata degli unni" dalla Germania? "Non diciamo sciocchezze. Qui c'è chi apre bocca e da fuoco ai denti. Far serpeggiare adesso il rischio della scalata dei tedeschi con il solito slogan del "no pasaran", dopo aver gridato al pericolo dei libici, mi pare davvero un modo stravagante e propagandistico di "leggere" gli eventi. Non facciamoci prendere dalle dietrologie e dalle strumentalizzazioni... ".

Scartato Palazzo Chigi, escluso lo stesso Geronzi, sgomberato il campo dall'equivoco sui libici e sui tedeschi, chi rimane tra i possibili "congiurati"? Restano i "grandi azionisti" del Nord, cioè le Casse di Torino e di Verona dietro alle quali la Lega si è mossa e si muove eccome, a dispetto delle smentite di queste ultime ore. E qui il presidente delle Generali si fa più pensoso: "Mettiamola così. Io penso che tutto nasca dal grande processo di trasformazione delle casse di risparmio, e poi di creazione delle Fondazioni, avviato all'inizio degli anni '90. Quella riforma ha consentito indubbiamente il disboscamento di quella che allora Giuliano Amato definì giustamente la "foresta pietrificata" del credito. Ma col tempo quel processo di modernizzazione ha cambiato natura. E oggi le Fondazioni stanno riproducendo antiche formule del passato, e stanno ripercorrendo una strada che mi ricorda quella delle vecchie camere di commercio. Stiamo tornando a quel livello, e questo mi preoccupa molto, da cittadino prima di tutto. Perché vede, in nome di questo malinteso senso del "radicamento con il territorio", le Fondazioni rischiano di disgregare il sistema, mentre c'è bisogno di cementarlo... ". Eccoli, allora, i colpevoli della congiura contro Profumo: Palenzona e Biasi, le Fondazioni piemontesi e venete, debitamente ispirate dalle camice verdi.

Quando si parla della "politica che vuole allungare le mani sulle banche", insomma, secondo Geronzi non si fa riferimento ad un'intenzione generica del Palazzo. Ma è di questo che si sta parlando: della Lega, che usa le Fondazioni per costruire le sue roccaforti locali. "Unicredit è il primo esempio. Ce ne potrebbero essere altri. Non Banca Intesa, per fortuna, dove Bazoli ha gestito al meglio la fase critica e Guzzetti, che è uomo di grande qualità, è riuscito a coniugare al meglio la vocazione globale e la collocazione territoriale". Almeno un "colpevole", alla fine, è uscito fuori. Ma può essere solo il Carroccio, il pericolo per il sistema bancario? E può essere solo il Carroccio ad aver mobilitato tutti i consiglieri di Unicredit contro "Mister Arrogance"? Il banchiere di Marino ci crede: "Ma una cosa è certa. Non è così che si gestisce un problema all'interno di una delle più grandi banche d'Europa. Vede, Profumo era un uomo di carattere, e un temperamento molto forte. Ha gestito e superato momenti difficilissimi, perché nel 2008 e 2009 la crisi è stata durissima. Si può immaginare che qualche suo tratto non "arrogante", perché l'arroganza non c'entra, ma magari semplicemente "autoritario", può non essere piaciuto agli azionisti. Ma se anche fosse stato questo il problema, il modo in cui è stato affrontato e "risolto" è stato pessimo... ".

Dice di più, Geronzi: "Unicredit è una grande istituzione sovranazionale. Il modo in cui è stato affrontato il caso Profumo non è degno di una "banchetta" di provincia. Io non sono azionista di Unicredit. Ma da "banchiere di sistema" che si è sempre battuto per la stabilità, dico che in questi giorni è stata data ai mercati internazionali una pessima dimostrazione di ciò che è il sistema finanziario italiano. Il consiglio di amministrazione dell'altro ieri, con gente che entra e che esce e foglietti che volano da un tavolo all'altro, è uno spettacolo avvilente. In Francia e in Germania una cosa del genere non sarebbe mai accaduta. Mi chiedo perché debba accadere da noi. E da questo punto di vista sono convinto che, con questa vicenda, sia stata fatto un grave danno all'Italia. In un grande Paese, l'establishment non si comporta così...".

Su questo, davvero, non si può che essere d'accordo con Geronzi. Resta da capire a che punto è il progetto di fusione Mediobanca-Generali, che Bisignani descrive come il vero, grande sogno del banchiere di Marino: "Se scrive di nuovo che questo è il mio progetto mi offendo. Non ci penso, non ci ho mai pensato... ". L'obiezione finale è fin troppo facile: aveva smentito seccamente anche l'ipotesi di un suo trasloco da Piazzetta Cuccia al Leone Alato, che invece nella primavera scorsa è andato puntualmente in porto. "Quella è tutt'altra storia - conclude Geronzi - poiché decisi di accettare il trasferimento solo l'ultima settimana, e nel comitato nomine di Mediobanca decidemmo tutti assieme, all'unanimità. Io ho a cuore la stabilità. Mi si può dire che le Generali possono essere gestite meglio, in modo più dinamico o più redditizio. Accetto tutto. Ma non mi si può e non mi si potrà mai dire che un'istituzione che presiedo possa concorrere a sfasciare il sistema. In tutta la mia vita ho fatto esattamente l'opposto. E continuerò a farlo". Vedremo chi ha ragione. Appuntamento alla prossima primavera.

m.giannini@repubblica.it

(23 settembre 2010) © Riproduzione riservata


Titolo: MASSIMO GIANNINI Ma nell'agenda manca l'Italia
Inserito da: Admin - Ottobre 01, 2010, 09:50:42 am
IL COMMENTO

Ma nell'agenda manca l'Italia

di MASSIMO GIANNINI

Datemi il Lodo, e vi solleverò il mondo. Sarebbe il "titolo" migliore, per la due giorni parlamentare che è valsa al presidente del Consiglio la "fiducia avvelenata" con la quale dovrebbe governare fino al termine della legislatura. E a sentire le sue parole di ieri al Senato, sembra davvero che Silvio Berlusconi abbia in mano i destini dell'universo. Forse non ce ne siamo accorti. Ma ha salvato lui le banche americane dal disastro, convincendo Obama a varare il più grande piano di aiuti della storia americana (mentre tutti sanno che il Tarp nasce alla Casa Bianca dalla testa di Lawrence Summers).

Ha salvato lui la Russia, convincendo l'amico Putin a non attaccare la "nemica" Georgia (mentre tutti sanno che a Tbilisi nessuno conosce il Cavaliere). Ha salvato lui il mondo, convincendo Obama a firmare con Putin il trattato sulla riduzione degli arsenali atomici "prima del G8 dell'Aquila" (mentre tutti sanno che a firmare Start 2 è stato Medvedev il 7 aprile di quest'anno, cioè nove mesi dopo il vertice dei Grandi in Abruzzo). L'ultimo stadio del berlusconismo ci precipita dunque in una surreale "terza dimensione". Tra la meta-storia e la meta-politica. Tra la propaganda velleitaria del salto nel cerchio di fuoco staraciano, e la comicità involontaria del "Grande Dittatore" chapliniano.

Se in questo "tempo sospeso" il premier si fosse occupato anche dell'Italia, magari adesso staremmo tutti un po' meglio. E invece, a dispetto della tonitruante campagna mediatica di regime, stiamo molto peggio. Peggio nei tassi di crescita, che come si è finalmente accorta anche la leader della Confindustria Marcegaglia ci inchiodano stabilmente agli ultimi posti dell'Eurozona. Peggio nei salari, che come denuncia il segretario della Cgil Epifani ci fotografano storicamente agli ultimi posti dell'area Ocse. In questa lenta accelerazione del declino, l'unica certezza della fase è la strutturale latitanza del governo. L'ultimo provvedimento qualificante varato dall'esecutivo risale al 28 maggio scorso: la manovra economica da 25 miliardi. Da allora, a Palazzo Chigi e in Consiglio dei ministri, più nulla. Il governo è "sede vacante", come dimostra la vicenda di due istituzioni che aspettano da troppo tempo di tornare alla piena funzionalità gestionale e amministrativa.

Oggi ricorrono i 95 giorni di assenza del presidente della Consob. Da quando ha lasciato il suo incarico Lamberto Cardia, il 28 giugno scorso, il principale organo di vigilanza sul mercato finanziario e sulla Borsa è senza "testa". È vero che in questi tre mesi i tre commissari che provvisoriamente lo governano (Vittorio Conti, Luca Enriques e Michele Pezzinga) stanno facendo un lavoro egregio e infinitamente migliore di quello che la stessa Commissione ha svolto nei sette anni di gestione Cardia. Questo è un miracolo che ci conforta, ma che non può durare. In Piazza Affari accadono fatti di un qualche rilievo, tra le società quotate sta avvenendo di tutto, dal ribaltone su Unicredit ai movimenti su Premafin. Come si può accettare che l'unica poltrona che interessa alla maggioranza sia quella del quarto commissario (anche quello mancante), sulla quale si allungano ancora una volta i tentacoli della Lega di Bossi, attraverso la candidatura tutt'altro che eccelsa di Carlo Maria Pinardi? Come si può immaginare che un'autorità amministrativa così importante per il controllo dei mercati possa operare a "scartamento ridotto"? Si parla da settimane della probabile nomina dell'attuale viceministro dell'Economia, Giuseppe Vegas. Forse non è la migliore delle scelte possibili, vista la provenienza del candidato da un impegno governativo e da un partito politico (è stato senatore di Forza Italia). Ma potrebbe essere comunque accettabile. Cosa si aspetta a formalizzarla?

Ma oggi si "celebrano" soprattutto i 150 giorni di interim del presidente del Consiglio alla guida del dicastero dello Sviluppo Economico. Da cinque mesi esatti, la quinta potenza economica d'Europa non ha un ministro che si occupa stabilmente e strutturalmente della gestione dei fondi alle imprese. Dei 170 tavoli di crisi aziendali sparse per la penisola. Delle vertenze Fiat di Melfi e Pomigliano. Dei dissesti dell'Eutelia e degli esuberi Telecom. Dei disastri della Glaxo e della chimica in Sardegna. Una "vacatio" inconcepibile, in qualunque altra democrazia industriale, e invece "normale" nell'autocrazia berlusconiana. In compenso, il premier-ministro, in quanto competente "ad interim" anche sulla materia delle telecomunicazioni e del sistema radiotelevisivo, si occupa della distribuzione delle frequenze tv nel "triangolo delle Bermude" Rai-Mediaset-Sky, e del rinnovo del contratto di servizio con la stessa Rai. Un conflitto di interesse intollerabile, in qualunque altra democrazia occidentale, e invece "normale" nell'anomalia berlusconiana.

Da cinque mesi il premier prende in giro gli italiani, le parti sociali e le istituzioni. Al presidente della Repubblica aveva promesso la nomina del successore di Claudio Scajola "la prossima settimana": era il 28 giugno scorso, e da allora sono passati invano altri tre mesi. Non pago di aver snobbato irresponsabilmente l'invito di Giorgio Napolitano, Berlusconi ha bissato la presa in giro il 3 settembre. "La prossima settimana sottoporrò al capo dello Stato il nome di un nuovo ministro per lo Sviluppo Economico", ha scritto in un comunicato ufficiale. Quasi quattro settimane dopo, non c'è traccia del nuovo ministro. Il Quirinale aspetta. Gli industriali aspettano. I sindacati aspettano. Per "intrattenerli" ancora un po', l'altroieri alla Camera, nel suo discorso sulla fiducia il presidente del Consiglio si è lanciato in un'autodifesa appassionata non solo della sua missione di risolutore dei problemi planetari, ma anche del suo lavoro di ministro pro-tempore: "Allo Sviluppo Economico non c'è alcun vuoto di potere: ho lavorato ininterrottamente anche nel mese di agosto, esaminando i dossier di decine di crisi aziendali, intervenendo per la soluzione e firmando più di 300 decisioni per il ministero".

I risultati pratici di questo "lavoro ininterrotto" non si sono visti. L'unica cosa di cui non dubitiamo è che il premier abbia effettivamente esaminato "decine di dossier". Ma con tutta evidenza devono aver riguardato "altro", considerato ciò che nel frattempo ha sfornato la macchina del fango nella battaglia contro Gianfranco Fini. La Consob, il ministero per lo Sviluppo, l'economia italiana: tutto può aspettare. Il presidente del Consiglio ha ben altri impegni. Non possiamo pretendere che trovi anche il tempo per governare l'Italia.
m.giannini@repubblica.it

(01 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/01/news/agenda_italia-7602556/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Saldi di fine regime
Inserito da: Admin - Ottobre 05, 2010, 03:36:20 pm
IL COMMENTO

Saldi di fine regime

di MASSIMO GIANNINI

Dopo ben centocinquantatre giorni di colpevole latitanza e di irresponsabile iattanza, il presidente del Consiglio ha finalmente nominato il nuovo ministro dello Sviluppo Economico. Dovremmo essere compiaciuti, per la fine di un grave "vuoto di potere" che su questo giornale avevamo denunciato da tempo, indicandolo come vero paradigma di un ancora più grave "vuoto di politica" che ormai caratterizza lo stadio terminale del berlusconismo. E invece non c'è proprio nulla da festeggiare.

La scelta di Paolo Romani soddisfa la "meccanica" di governo: c'era una poltrona vuota, quella di Claudio Scajola, che ora viene nuovamente occupata. Ma offende l'etica: c'è un conflitto di interessi strutturale, quello di Silvio Berlusconi, che ora viene ulteriormente codificato. Romani, già viceministro, è infatti un perfetto ingranaggio della "macchina" Mediaset. È l'uomo che ha contribuito a scrivere la scandalosa legge Gasparri sulle tv. Ha fatto pressioni sulla Ue per negare a Sky la deroga sull'asta per il digitale terrestre. Ha tentato di sfilare la rete a Telecom, per consentire all'azienda del premier di prendersene un pezzo. Ha regalato alla stessa Mediaset il canale 58, per permettergli di sperimentare il digitale in alta definizione prima della gara. Ora che è stato promosso ministro, dovrà firmare il contratto di servizio della Rai, scaduto a fine 2009.

Immaginiamo con quanta equanime solerzia saprà valorizzare il servizio pubblico, e difenderlo dallo strapotere di quello privato. Il Cavaliere e i suoi scudieri brindano. "Vendono" la nomina di Romani come il segno che il governo è vivo, e va avanti. È vero il contrario. Siamo ai "saldi" di fine regime. Caligola ha incoronato il suo cavallo. Sistemerà gli ultimi affari. Poi l'Impero potrà finalmente cadere.
m.giannini@repubblica.it

(05 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/05/news/romani_giannini-7723624/?ref=HREC1-4


Titolo: MASSIMO GIANNINI Maggioranza in agonia
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2010, 10:54:40 pm
IL COMMENTO

Maggioranza in agonia

di MASSIMO GIANNINI


IL PROCESSO di "balcanizzazione" del centrodestra compie un ulteriore salto di qualità. In un solo giorno si moltiplicano gli strappi sul già logoro tessuto politico che dovrebbe tenere insieme il governo per l'intera legislatura. In Parlamento Schifani e Fini rompono sulla legge elettorale. A Palazzo Chigi i ministri rompono con Tremonti sulla finanza pubblica. Al Senato il Pdl rompe con se stesso sul Mezzogiorno. Tre indizi, stavolta, fanno una prova: questa maggioranza non regge più.

Eppure, proprio mentre agonizza, il "berlusconismo da combattimento" diventa più dannoso. Lo dimostra l'ultimo blitz sulla bugiarda "riforma della giustizia" in arrivo: una norma che prevede l'obbligo per la Consulta di deliberare con una maggioranza dei due terzi in tutti i casi in cui si giudichi l'incostituzionalità su una legge. Un'altra misura eversiva: limiterebbe drasticamente l'autonomia dei giudici e squilibrerebbe una volta di più il bilanciamento dei poteri. Un'altra norma ad personam: per il passato, avrebbe impedito la bocciatura del vecchio Lodo Schifani, e per il futuro potrebbe impedire la bocciatura del nuovo Lodo Alfano. C'è solo da sperare che, nella totale entropia della fase, salti anche questa ennesima manomissione dei principi repubblicani.

La rottura sul "Porcellum" è preoccupante. La bega procedurale non riflette più solo un dissenso politico, ma si traduce in un conflitto istituzionale. Il presidente del Senato "avoca" a sé il dibattito sulla nuova legge elettorale, con l'intenzione di frustrare le velleità riformatrici del presidente della Camera. Fini vorrebbe modificare a Montecitorio la "porcata" di Calderoli, per consentire agli italiani di tornare a votare con una legge elettorale più giusta, che tolga alle segreterie di partito il "potere" di nominare i propri parlamentari e restituisca ai cittadini il "diritto" di scegliere i propri rappresentanti. Schifani glielo impedisce, ancorando il confronto nelle sabbie mobili di Palazzo Madama, perché in ossequio ai voleri del Cavaliere preferisce che gli italiani votino con questa pessima legge elettorale. Il risultato, oltre alla spaccatura orizzontale tra Pdl e Fli, è una frattura verticale tra la seconda e la terza carica dello Stato.

La rottura sulla Legge di stabilità è devastante. I "tagli lineari" del ministro dell'Economia affondano non tanto sulla pelle sottile degli altri dicasteri, ma nella carne viva della società italiana. Scuola e università pagano il conto più salato della recessione. Ma è l'intero Sistema-Paese che, senza ossigeno, è a un passo dall'asfissia. Tremonti tiene sotto scacco il governo: in Europa è tornata la tensione sui debiti sovrani, e si teme la "seconda ondata" della tempesta perfetta. L'Italia è ad altissimo rischio: non ha un euro da spendere, e nei prossimi tre anni la Ue esigerà manovre per 9 punti di Pil. Ma la linea del rigore assoluto, se può premiare a Bruxelles, è ormai insostenibile a Roma. Non si governa dicendo solo "no". Neanche (o soprattutto) in tempi di crisi. Il "genio dei numeri" avrebbe dovuto costruire una exit strategy per lo sviluppo. Non l'ha fatto. E oggi è troppo tardi. La "speranza" non c'è più. È rimasta solo la "paura". Il governo non è più in grado di costruire consenso intorno a un progetto di crescita dell'economia e della società italiana.

La rottura sui crediti d'imposta al Sud è promettente. In Senato, ancora una volta, si è formato l'embrione di una maggioranza diversa, intorno ad un emendamento presentato dal gruppo "Io Sud", votato da finiani, Pd, Mpa e alcuni senatori del Pdl. Per il Cavaliere è una calamità. Per il Paese può essere un'opportunità. Fuori dal disperato perimetro berlusconiano, c'è forse una maggioranza alternativa. Per bloccare nuove leggi ad personam ed altri sabotaggi agli organi di garanzia. Per far passare una legge sul conflitto di interessi. Per cambiare la legge elettorale. E magari per sostenere, nel pieno rispetto della Costituzione, un governo che si dia proprio quell'unica missione, e poi riporti gli italiani alle urne. Non si vede altra via, per uscire da questa livorosa e pericolosa decomposizione del "corpo mistico" berlusconiano.
m.gianninirepubblica.it 1
 

(15 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/15/news/maggioranza_agonia-8069149/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il nuovo Lodo Alfano un Frankenstein costituzionale
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2010, 06:34:02 pm
IL COMMENTO

Il nuovo Lodo Alfano un Frankenstein costituzionale

di MASSIMO GIANNINI


Questa volta, dunque, non c'è bisogno di attendere una pronuncia della Consulta. Il nuovo Lodo Alfano voluto dal premier per proteggersi dai suoi processi, anche nella sua formula "rinforzata" di legge di revisione costituzionale, non è solo l'ennesima e intollerabile norma ad personam di questo quindicennio berlusconiano. È un Frankenstein giuridico, che mina alla base i principi su cui si regge la nostra Costituzione. Lo scrive nero su bianco il presidente della Repubblica che, della Carta del 1948, è il supremo "custode e garante".

Se Giorgio Napolitano ha avvertito l'urgenza di intervenire subito, a dibattito parlamentare ancora in corso, per indicare le sue "profonde perplessità" e la "palese irragionevolezza" del testo all'esame del Senato, vuol dire che il rischio di vedere stravolti gli equilibri repubblicani ha superato il livello di guardia. Proprio ieri avevamo segnalato su questo giornale i "dubbi" che inquietano il Capo dello Stato, per un provvedimento dagli effetti devastanti e imprevedibili: "Rischia di stravolgere la forma di governo parlamentare sancita dagli articoli 55-69, di alterare le prerogative del presidente della Repubblica fissate dagli articoli 87-91, di squilibrare i poteri del governo disciplinati dagli articoli 92-96".

Ora Napolitano esplicita e precisa questi "vizi" giuridici del disegno di legge, confermando che "incide sullo status complessivo del presidente della Repubblica", e ne riduce "l'indipendenza nell'esercizio delle sue funzioni". Il Quirinale concentra l'attenzione sull'emendamento che equipara il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio, ai fini della sospensione dei processi penali, sulla quale il Parlamento può votare in seduta comune e "a maggioranza semplice". Una norma contraria all'articolo 90 della Costituzione, secondo cui "il presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione", e in tali casi il presidente "è messo in stato d'accusa dal Parlamento in seduta comune e a maggioranza assoluta dei suoi membri".

"Degradando" il Capo dello Stato sullo stesso piano del Capo del governo, il nuovo Lodo Alfano trasforma il presidente della Repubblica da garante super partes della Carta costituzionale in ostaggio permanente della maggioranza parlamentare. Un problema che nei mesi scorsi era stato segnalato da diversi costituzionalisti, a partire da Stefano Ceccanti, e che il premier e i suoi Dottor Stranamore non hanno mai voluto affrontare e risolvere. Un problema che si rinviene in tutti gli altri punti critici della legge all'esame del Senato, compreso quello che esclude i ministri dalla sospensione dei processi, trasformando il presidente del Consiglio in un "primus super pares" ed "elevandolo", in questo caso, allo stesso rango del presidente della Repubblica.

Ma al di là dei singoli motivi "tecnici", quello che si evince dalla lettera di Napolitano è che questa pseudo-riforma, in un insensato e micidiale meccanismo di causa-effetto, produce come unico risultato l'assoluto disordine costituzionale. Con l'unico obiettivo di salvare il Cavaliere dalle sue solite ossessioni processuali, stravolge in modo irrimediabile tutti gli equilibri istituzionali. Ancora una volta il cesarismo carismatico, mondato dai suoi peccati e sacralizzato attraverso il lavacro dell'urna, pretende che la biografia collettiva della nazione si pieghi e si modelli sulla biografia personale di Silvio Berlusconi. Non più con l'uso della legge ordinaria, ma ormai addirittura attraverso l'abuso della Costituzione.

Diciamo subito che questo scempio da macelleria costituzionale, compiuto sulla carne viva del Paese, non può e non deve passare. Per quanto disperato e incattivito dal declino avventuroso e perciò pericoloso del suo leader, il centrodestra non può ignorare il monito di Napolitano. Se non al prezzo di aprire un conflitto tra i poteri dello Stato che non ha precedenti nella storia repubblicana. Una riflessione che vale per tutti. Non solo per Berlusconi, che farà bene a meditare sui rischi ai quali lo espone la sua irresponsabile "fuga presidenzialista". Ma anche per Fini, che farà bene a riconsiderare il via libera fin troppo arrendevole concesso al nuovo Lodo Alfano. "Sulla nostra democrazia grava un macigno", ha detto ieri il Cavaliere alla "Frankfurter Allgemeine Zeitung". Alludeva ai magistrati, ovviamente. Ma è chiaro a tutti che ormai il vero "macigno che grava sulla democrazia" è solo lui.
m.giannini@repubblica.it

(23 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/23/news/frankenstein_costituzionale-8349815/?ref=HREC1-2


Titolo: MASSIMO GIANNINI Tutti i dubbi del Quirinale
Inserito da: Admin - Ottobre 23, 2010, 06:35:26 pm
L'ANALISI / 2

Tutti i dubbi del Quirinale

di MASSIMO GIANNINI

Il nuovo Lodo Alfano pone "una grande questione costituzionale". Una questione che va addirittura al di là dei problemi posti dal principio di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, previsto dall'articolo 3 della Carta del 1948, e gravemente "vulnerato" dalla retroattività dello scudo giudiziario introdotto dall'emendamento Vizzini a beneficio del presidente del Consiglio.

Una questione che investe l'intero "impianto costituzionale". La pseudo-riforma voluta da Silvio Berlusconi per sfuggire ai suoi processi rischia di stravolgere la "forma di governo parlamentare", sancita dagli articoli 55-69. Di alterare le "prerogative del presidente della Repubblica", fissate dagli articoli 87-91. Di squilibrare i "poteri del governo", disciplinate dagli articoli 92-96. Chi in questi giorni difficili ha avuto occasione di parlare con Giorgio Napolitano, ha potuto toccare con mano la sua grande preoccupazione per questo strisciante sovvertimento del nostro "ordine costituzionale".

Sulla scrivania del Capo dello Stato c'è un dossier sul nuovo Lodo Alfano (allestito e aggiornato quotidianamente dai suoi collaboratori Donato Marra, Salvatore Sechi e Loris D'Ambrosio) in cui sono raccolti gli interventi e i contributi di giuristi e costituzionalisti. E l'attenzione del Quirinale si concentra soprattutto su questo secondo aspetto del disegno di legge che porta il nome del ministro della Giustizia. Gli "effetti costituzionali", prima ancora delle sue implicazioni processuali. Effetti potenzialmente dirompenti, in primo luogo sul piano ordinamentale, e in secondo luogo anche sul piano politico. Perché le nuove norme previste dal Lodo-bis, di fatto, avviano la trasformazione dell'Italia da "Repubblica parlamentare" a "Repubblica presidenziale", attraverso la tappa impropria e intermedia del "premierato elettivo".

Il passaggio cruciale (già segnalato dal Sole 24 Ore di domenica scorsa e descritto su questo giornale da Giuseppe D'Avanzo e Carlo Galli) è la "metamorfosi" del presidente del Consiglio implicita nella riforma costituzionale pretesa dal centrodestra. Con il nuovo Lodo il premier, in forza della legittimazione che gli deriva dall'investitura popolare sancita dall'indicazione del suo nome nella scheda elettorale, viene "elevato" di rango rispetto ai ministri del suo governo (nei cui confronti è "primus" non più "inter", ma "super pares") ed equiparato a tutti gli effetti al presidente della Repubblica. Si introduce così una forma spuria di "dualismo istituzionale" che non ha raffronti in nessun altra democrazia occidentale, e che altera l'intero meccanismo di formazione e di bilanciamento dei poteri.

Il primo Lodo Alfano, varato con legge ordinaria all'inizio della legislatura, prevedeva lo scudo processuale per le cinque "alte cariche" dello Stato: presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, presidenti delle due Camere, presidente della Consulta. La Corte costituzionale lo bocciò, con la sentenza 262 del 2009. E lo fece, sia pure riconoscendo l'interesse repubblicano al "sereno svolgimento" delle funzioni del presidente del Consiglio, stabilendo che lo stesso dovesse comunque restare sullo stesso piano dei suoi ministri, secondo l'interpretazione consolidata dell'articolo 92 della Costituzione: il presidente, organo monocratico nominato dal Capo dello Stato, non essendo definito "primo ministro" né "capo del governo" dalla carta, non è considerato in posizione di supremazia gerarchica o di "preminenza" nei confronti del Consiglio dei ministri. Inoltre, stabilì allora la Consulta, essendo il primo Lodo Alfano una legge ordinaria, non era in alcun modo "idonea a modificare la posizione costituzionale del presidente del Consiglio".

Uscì sconfitta, allora, la tesi opposta sostenuta in giudizio dall'ex avvocato difensore del premier, Gaetano Pecorella: il premier non è "sullo stesso piano dei ministri", poiché la Costituzione e le leggi "gli attribuiscono espressamente rilevantissimi poteri-doveri politici, di cui è il solo responsabile". E la conferma di queste "attribuzioni speciali" sarebbe proprio la legge elettorale vigente, che "collega l'apparentamento dei partiti politici a un soggetto che si candida espressamente per esercitare le funzioni del presidente del Consiglio".
Ora, nel secondo Lodo Alfano, questa volta di rango costituzionale secondo le procedure previste dall'articolo 138, il Pdl recupera e reintroduce nell'ordinamento proprio il "teorema Pecorella". L'esclusione dei ministri dalla copertura processuale, decisa dalla maggioranza il 29 settembre scorso, formalizza e costituzionalizza la "preminenza" del presidente del Consiglio, che lo rende "sovraordinato" rispetto ai suoi ministri (perché eletto dal popolo) e meritevole delle stesse "guarentigie" assegnate al Capo dello Stato (perché ugualmente "speciale" dal punto di vista costituzionale). Questa forzatura delle regole vigenti, bocciata dalla Consulta un anno fa perché tentata con la via semplice della legge ordinaria, diventa adesso possibile con la procedura rinforzata della legge di revisione costituzionale. Se il Lodo Alfano bis fosse approvato dalle Camere con la maggioranza dei due terzi, o se venisse approvato a maggioranza semplice ma poi ratificato dagli elettori con il referendum confermativo, il "delitto" sarebbe perfetto.

La Costituzione sarebbe stravolta, e non ci sarebbe nessuna Consulta e nessun altro organo di garanzia titolato a fermare il "colpevole". Ecco perché Napolitano osserva con una comprensibile inquietudine ciò che sta avvenendo al Senato. L'esito di questo ennesimo strappo berlusconiano è "imprevedibile", da tutti i punti di vista. Sul piano costituzionale, si profila l'avvento di un "premierato elettivo", che è molto più di una "coabitazione all'italiana" tra capo del governo e capo dello Stato. E' in realtà l'anticamera di un presidenzialismo anomalo, in cui convivono e fatalmente confliggono un presidente del Consiglio consacrato dal popolo e un presidente della Repubblica eletto dal Parlamento. E in cui fatalmente, presto o tardi, il primo sostituirà il secondo. O renderà comunque necessario un definitivo e a quel punto forzoso "consolidamento" dei due poteri in uno solo.

Nel frattempo, sul piano politico si profilano conseguenze altrettanto imprevedibili. La nuova "forma di governo" implicita nel Lodo bis, mai vista altrove, giustifica ulteriori preoccupazioni. Si pone un "caso di scuola". Se la pseudo-riforma fosse approvata anche solo dal primo ramo del Parlamento, e se si dovesse arrivare a una crisi di questa maggioranza nella prossima primavera (come qualcuno ipotizza anche dentro il Pdl) chi può escludere che il Cavaliere non userebbe proprio il principio del "premierato elettivo" implicito nel Lodo bis come una "clava" da brandire contro il Quirinale, per impedirgli di affidare l'incarico a chiunque non sia stato "votato dal popolo italiano", e per scongiurare così qualunque ipotesi di "governo tecnico"?

Eccola qui, "l'improvvida e affrettata riforma della Costituzione" denunciata su questo giornale da Carlo Galli, che dà corpo all'idea "erronea, semplificatoria, illusoria oltre che in stridente contrasto con la Costituzione, che il presidente del Consiglio sia eletto direttamente dal popolo". Ed eccolo qui, il "corollario" avvelenato di questa idea: che nella nostra Repubblica sia illegittimo qualunque governo diverso da quello guidato da chi ha ricevuto la sacra unzione operata dalla sola "divinità laica (il popolo sovrano) capace di trasformare qualitativamente l'eletto, e di conferirgli un carisma speciale".

Sembra fanta-politica. Ma non lo è affatto. Per questo, sul Colle si segue passo passo il "percorso del Lodo bis". Napolitano, per usare una formula ciampiana, è "silente ma tutt'altro che assente". La riforma lo chiama in causa direttamente, ma mai come nel caso di una legge di revisione costituzionale il presidente della Repubblica deve limitare il suo ruolo pubblico a quello di "notaio". Si spiega così il comunicato di tre giorni fa, con il quale il Quirinale ha ribadito per la seconda volta (come già aveva fatto il 7 luglio) la sua assoluta e rigorosa estraneità "alla discussione, nell'una e nell'altra Camera, di qualunque proposta di legge e di sue singole norme, specialmente ove si tratti di proposte di natura costituzionale o di iniziativa parlamentare".

Anche in questo caso, com'è ormai prassi consolidata nel settennato di Napoltano, nessuna intromissione e nessuna "moral suasion". Ma questa "neutralità" formale, ovviamente, non significa affatto conformità sostanziale. Al contrario. Sul Colle è in corso una "riflessione profonda" su ciò che sta accadendo a Palazzo Madama, e su ciò che accadrà nelle prossime settimane intorno al Lodo Alfano bis. L'auspicio del Capo dello Stato, in attesa di mettere a fuoco i modi e i tempi di un suo possibile intervento istituzionale sul tema, è che di questa riflessione si facciano carico tutti coloro che hanno a cuore i destini della Repubblica. Sarebbe paradossale se, nell'Italia troppo disincantata e assuefatta di oggi, funzionasse al contrario quello che ai tempi della Costituente, sulle macerie della dittatura fascista, fu definito "il complesso del tiranno".

(22 ottobre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/10/22/news/tutti_i_dubbi_del_quirinale-8318387/?ref=HREC1-2


Titolo: MASSIMO GIANNINI In fondo al pozzo
Inserito da: Admin - Novembre 05, 2010, 09:48:16 pm
IL COMMENTO

In fondo al pozzo

di MASSIMO GIANNINI


UN UOMO esausto, che annaspa in fondo al pozzo. Sommerso dagli scandali sessuali, che lo inseguono dovunque, e dai guai processuali, che lo tormentano comunque. Sfibrato dalla sindrome dell'inazione che uccide il suo governo, e dalla guerra di fazione che dilania la sua maggioranza. A dispetto del solito marketing politico, Silvio Berlusconi appare così alla Direzione del suo partito, che cerca di salutare l'improbabile rinascita del leader, mentre in realtà celebra l'inevitabile autunno del patriarca.

Quella di ieri, per il presidente del Consiglio, non è stata una fragorosa "chiamata alle armi", secondo il collaudato rito berlusconiano degli anni roventi. È stato l'esatto contrario: un sommesso "inno alla debolezza". Nella forma psicologica: il premier è apparso provato, a tratti dimesso, e alla fine addirittura commosso. Nella sostanza politica: il premier ha poco da dire, e nulla da dare. La risposta alle domande inquietanti del "Ruby-gate" è fiacca e del tutto implausibile (stavolta non solo il trito "complotto delle toghe rosse e dei comunisti", ma niente meno che "una vendetta della malavita"). Soprattutto, la replica alle questioni dirimenti poste da Gianfranco Fini è modesta e tutta difensiva (al punto da riproporgli persino l'ennesimo, a questo punto davvero impensabile "nuovo patto di legislatura" insieme alla Lega).

Dal fondo del pozzo, dunque, il Cavaliere chiede aiuto, e tende le mani. È il punto più basso, mai toccato finora, della curva del potere berlusconiano. Che implicitamente si offre all'ordalia dell'ex alleato e co-fondatore del Pdl, chiamato domenica prossima a Perugia ad una scelta difficile e forse esiziale. Mai come oggi, il futuro della legislatura è in mano ai futuristi di Fini. "Non romperà, perché ha paura delle elezioni", sostiene con la consueta sicumera padana Umberto Bossi. Ha totalmente ragione sulla paura delle elezioni, che nessuno vuole a parte il Carroccio. Ma ha parzialmente torto sull'impossibilità della "rottura" finiana. Di fronte a un esecutivo che non risolve i problemi del Paese, e a un presidente del Consiglio che affoga nei suoi problemi personali, il leader di Fli ha di fronte a sé tre opzioni: tendergli una mano, lasciare che anneghi da solo, o assestargli l'affondo definitivo.

La prima opzione è ormai esclusa, perché tardiva e impercorribile: poteva forse funzionare qualche settimana fa, se il Cavaliere avesse avuto la voglia di fermare i sicari dei suoi giornali lanciati nel massacro mediatico del presidente della Camera, e la forza di rilanciare un Progetto-Paese ben più concreto e ambizioso dei risibili "cinque punti" del programma, utili solo a lui medesimo (per la parte relativa alla giustizia) e al Senatur (per il capitolo legato al federalismo). Oggi non ha più senso, perché non c'è più tempo.

La terza ipotesi è la più ardita, perché "costosa" e imprevedibile: Fini dovrebbe dichiarare chiusi i giochi, e chiedere formalmente la crisi di governo, assumendosi tutta intera la responsabilità della rottura. Il co-fondatore dovrebbe certificare in esplicito la morte del berlusconismo, sciogliere per sempre il centrodestra nato con la rivoluzione del Predellino, candidarsi come leader alternativo del centrodestra che verrà, e nel frattempo negoziare con tutti gli oppositori del Cavaliere (dal Pd all'Udc, dall'Idv a Sinistra e Libertà). Per formare una nuova maggioranza, nell'ipotesi di prosecuzione della legislatura. O per sottoscrivere un nuovo patto elettorale, nell'ipotesi di scioglimento anticipato delle Camere. Detto altrimenti: Fini dovrebbe profilarsi come "candidato killer" di un governo di destra berlusconiana, non potendo ancora spendersi come "candidato premier" di un governo di destra europea.

Il "costo" politico dell'operazione sarebbe per lui molto alto: l'ex delfino di Almirante, ed ex leader di An, si troverebbe a sostenere un governo tecnico, o un cartello elettorale, non solo e non tanto insieme ai Bersani e i Franceschini, ma insieme ai Vendola e ai Bonelli. Tanto, per un leader che è nato e cresciuto nella destra missina, e che comunque sempre nella destra (sia pure costituzionale, repubblicana e post-berlusconiana) vuole e deve cercare i suoi consensi. Ma anche l'esito dell'operazione, al momento, sembra incerto: questa maggioranza alternativa, dal vago sapore di Cln, non pare ancora matura, proprio per oggettive difficoltà di osmosi identitaria. E dunque, nel momento in cui aprisse la crisi, Fini non sembra avere la certezza assoluta che una "alleanza repubblicana" possa presentarsi compatta al Quirinale, offrendo una solida alternativa al Capo dello Stato chiamato a decidere se sciogliere le Camere o dare il via libera ad un altro governo.

Resta la seconda ipotesi, al momento più pratica e quindi probabile. Fini lascerà che sia il Cavaliere ad annegarsi da solo, nel pozzo delle sue contraddizioni. A Perugia il leader futurista tirerà ancora la corda, senza ancora romperla del tutto. Dirà che così non si può più andare avanti, e che la vera destra italiana sarà quella finiana, e mai più quella berlusconiana. Lascerà intendere che sono maturi i tempi di un "appoggio esterno". Ma questa sarà solo la tappa intermedia, verso una "rupture" finale che il presidente della Camera vorrà a tutti i costi decretata sul campo dal presidente del Consiglio. Quando e su che cosa, si vedrà. C'è l'imbarazzo della scelta. La giustizia è il terreno più doloroso, almeno per il Cavaliere. Ma ora si aggiunge anche la manovra economica, che è il terreno più scivoloso per l'esecutivo. Le prime avvisaglie si vedono già. La Pdl alla Camera va sotto su un emendamento dell'Udc sui fondi Fas. Giulio Tremonti propone addirittura una pausa di riflessione per inserire nella Finanziaria un corpo di emendamenti che ricalchino e anticipino il decreto sullo sviluppo. Sono segnali inequivoci: prove di cedimento della maggioranza nel primo caso, tentativi di accomodamento del governo nel secondo.

È la strategia del logoramento. Quasi un "classico" della storia repubblicana di questo Paese. Ma anche questa può avere i suoi costi. Sicuramente li ha per l'Italia, che rischia di continuare ad essere sgovernata ancora per mesi, tra l'accidia rancorosa del premier e l'inedia disastrosa del Consiglio dei Ministri. Ma può averli anche per lo stesso Fini, che rischia di logorarsi insieme al Cavaliere, e di non approfittare neanche questa volta del suo momento di estrema, quasi irreversibile disperazione. Per questo, nel "sommario di decomposizione" della destra berlusconiana, il leader futurista non può non interrogarsi su un "titolo" di Primo Levi, antico ma attualissimo: se non ora, quando?

m.giannini@repubblica.it
 
(05 novembre 2010) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI E' arrivato il 25 aprile
Inserito da: Admin - Novembre 08, 2010, 05:04:13 pm
IL COMMENTO

E' arrivato il 25 aprile

di MASSIMO GIANNINI

Sembra impossibile, eppure il 25 aprile è arrivato davvero.
Gianfranco Fini chiude il sipario, su Berlusconi e sul berlusconismo. Scaduto il tempo delle segrete trame di palazzo, gli oscuri riti bizantini, i vecchi tatticismi da Prima Repubblica. Esaurito lo spazio per i giochi del cerino, le partite a scacchi, lo sfoglio dei tarocchi. Quello che va in scena non è più il solito "teatrino della politica" che il Cavaliere esecra abitualmente a parole, rappresentandolo quotidianamente nei fatti. È invece il dramma pubblico di una maggioranza che si dissolve.

L'ultimo atto, esibito sul palcoscenico delle tv, di un governo che muore. La cerimonia degli addii collettivi ad un partito mai nato.
Non sappiamo esattamente come e quando cadrà il Berlusconi IV. Stavolta sappiamo però che la fine è imminente. Questione di ore, tutt'al più di giorni. E il Paese si libererà anche di questa ennesima, fallita messinscena cesarista. Di questo ulteriore, disastroso esercizio di leaderismo populista. 

Dovrà ricredersi, chi da Perugia si aspettava un Fini ambiguo e attendista sul destino del governo, o prudente e possibilista sul futuro della maggioranza. Il presidente della Camera è stato netto e inequivoco, sul primo e sul secondo.

Il famoso "Patto di legislatura" che Berlusconi gli ha riproposto mercoledì scorso durante la direzione del Pdl è una cambiale in bianco che nessuno potrebbe firmare, perché ormai palesemente scaduta. Era stato lo stesso Fini a fare al premier un'analoga offerta, a Mirabello, in un estremo tentativo di ricucire uno strappo che già allora si intuiva non più ricomponibile. Anche questo risibile ping pong, adesso, è finito. Il leader di Futuro e Libertà chiede al premier di prenderne atto. Di salire al Quirinale per rassegnare le dimissioni, di riconoscere di fronte all'Italia che il governo non ce l'ha fatta e che ne serve un altro, con una nuova agenda, un nuovo programma e soprattutto con una maggioranza più ampia e allargata all'Udc. Pena il ritiro della delegazione del Fli dall'esecutivo.

Quello di Fini è stato, innanzi tutto, un atto di coraggio politico. Non era facile, per l'erede di Giorgio Almirante, consumare fino in fondo la rottura con l'alleato che, dal 1994, ha definitivamente sdoganato la destra post-missina nell'arco costituzionale, ha fatto entrare An nella stanza dei bottoni e il suo capo nell'ufficio di presidenza della Camera dei deputati. Non era scontato, per il co-fondatore del Pdl, decretarne unilateralmente la definitiva bancarotta politica, addebitandone tutta intera la responsabilità al fondatore. Era il 17 novembre di tre anni fa, a Piazza San Babila, quando il Cavaliere lanciava la Rivoluzione del Predellino. Non erano le "comiche finali", come le liquidò troppo frettolosamente lo stesso Fini. Era invece l'inizio di una "commedia politica" che lui stesso avrebbe contribuito a rappresentare nei molti mesi successivi, dentro il Partito del popolo delle Libertà.

Ma oggi è proprio questo progetto che è fallito, perché non è stato capace di dare anima e corpo alla "rivoluzione liberale" che aveva promesso, e perché ha esaurito la sua missione nel momento in cui ha costruito se stesso sull'illusione che l'intera destra italiana potesse riflettersi e riassumersi in Silvio Berlusconi, e che tutto il resto fosse un orpello ridondante, quando produceva condivisione, o un intralcio ingombrante, quando esprimeva dissenso. Fini lo ha capito e lo ha detto, facendo mea culpa. L'uomo è il messaggio: su questa scorciatoia falsamente carismatica e smaccatamente populista è fallito il Pdl.

E con il partito è fallito il governo. Non "governo del fare", piuttosto "governo del fare finta". Governo che "non ha più il polso del Paese", che galleggia sulle emergenze, che "vive alla giornata". Senza vedere, ma anzi spesso contribuendo a creare l'indebolimento dell'identità nazionale, la caduta della coesione sociale, il crollo di competitività dell'economia, la diffusione della cultura dell'arbitrio e dell'illegalità, il decadimento morale e la perdita di decoro delle istituzioni infangate dal Ruby-gate. Di nuovo: Fini lo ha capito e lo ha detto, denunciando lo scandalo pubblico che interroga e pregiudica la nostra democrazia. Raccontando agli italiani tutto quello che sta accadendo sotto i loro occhi, e che solo un sistema televisivo addomesticato dal regime finge di non vedere e si sforza di nascondere. E ha avuto la forza di dire basta.

Ma quello di Fini è stato anche un atto di posizionamento strategico. Il leader futurista sapeva di correre un rischio mortale.
Che il suo obiettivo di "staccare la spina" al governo, cioè, potesse esser letto come una banale manovra di palazzo. Una disinvolta forma di "intelligenza col nemico", per far fuori il "Tiranno" e sostituire il suo governo con una nuova e un po' spuria "macchina da guerra" guidata da molte, troppe mani: Fli e Pd, Udc e Idv, Mpa e Sinistra e Libertà. Una specie di "Cln", che desse effettivamente corso a un atteso 25 aprile, ma che avesse un respiro troppo corto e un orizzonte troppo confuso. Anche su questo, Fini ha mostrato coraggio, raccogliendo una sfida allo stesso tempo più circoscritta, ma più alta. La sfida è più circoscritta, perché il presidente della Camera ha tracciato con nettezza assoluta i confini di una forza politica, la sua, che nasce, cresce e si consolida rigorosamente nella metà campo del centrodestra. Certo, un centrodestra che si rifà al popolarismo europeo, e dunque costituzionale, repubblicano, laico. Ma pur sempre un centrodestra. Cioè una forza politica che rivendica i suoi valori fondativi, e che per questo non vuole essere né la zattera di tutti i naufraghi dell'indistinto anti-berlusconiano.

Ma la sfida è anche più alta. Quando ripete che Futuro e Libertà è una formazione che punta a raccogliere il consenso dei moderati italiani, confermando che la sua costituency politica è e resta la destra italiana e che a quel mondo vuole parlare e in quel mondo vuole prendere voti, Fini osa l'inosabile. Si candida ad esserne il leader. Dunque il prudente Gianfranco, sempre incline all'attacco e poi al ripiegamento, stavolta rompe gli ormeggi. E si lancia subito, qui ed ora, "oltre Berlusconi". È un passaggio cruciale. Che lo vedrà in mare aperto, forse a navigare insieme ai Bersani e ai Di Pietro contro il "vascello fantasma" del Cavaliere. Ma è e resta pur sempre un passaggio provvisorio. Affondata la nave berlusconiana, Fini riprenderà la sua rotta, che è quella di dare forma e sostanza a "un'altra destra" italiana, finalmente risolta e compiutamente europea. Apertamente anti-leghista e naturalmente post-berlusconiana. È importante che il leader futurista l'abbia chiarito. Per sgombrare il campo dagli equivoci, sul durante e sul dopo crisi di governo. Ci potrà essere un nuovo esecutivo, tecnico, istituzionale, di salute pubblica, sostenuto da una maggioranza eterogenea che vari una nuova legge elettorale e tenga salda la barra del timone dell'economia. Ma sarà molto più difficile che, in caso di voto anticipato e sotto le stesse insegne multi-partitiche, nasca un "cartello elettorale" che veda insieme Fini da una parte, e i Vendola, i Ferrero e i Bonelli dall'altra.

Vedremo ora come, quando e dove precipiterà la rottura. Il premier non può accettare l'ultimatum finiano, che lo inchioda ben al di là del "compitino dei cinque punti" richiesto in Parlamento agli "scolaretti" del centrodestra. Per questo ha già risposto picche.
Sia pure chiedendo, com'è logico e giusto, che l'eutanasia del governo si realizzi comunque in Parlamento. Andreottianamente parlando: Berlusconi non può più tirare a campare, può solo tirare le cuoia. Capiremo presto se dopo la crisi arriveranno altri governi o elezioni anticipate. Nel frattempo ci sarebbe da brindare a champagne, a questo 25 aprile imminente.

Ma c'è poco da festeggiare: il "conto" di questi rovinosi due anni e mezzo, purtroppo, li ha pagati e li pagherà l'Italia.

m.giannini@repubblica.it

(08 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/08/news/25_aprile-8866794/?ref=HREC1-3


Titolo: MASSIMO GIANNINI Le nomine fine regime
Inserito da: Admin - Novembre 20, 2010, 09:06:28 am
IL COMMENTO

Le nomine fine regime

di MASSIMO GIANNINI


Ci sono due possibili chiavi di lettura, per decrittare il pacchetto di nomine varato dal Consiglio dei ministri ai vertici di Consob, Antitrust e Authority per l'energia. Può essere un atto di fine regime. La spartizione finale di un potere al crepuscolo, che un esecutivo al capolinea consuma in un clima da ultimi giorni di Pompei, nel quale il crollo della casa dei gladiatori anticipa simbolicamente l'autodafé della casa del Cavaliere. Oppure può essere un atto di rifondazione dell'establishment: il nuovo inizio di una maggioranza che si credeva ormai in liquidazione, e che invece rilancia la ditta con la protervia e la sicurezza di aver "ricomprato" i numeri giusti al mercatino di Montecitorio, in vista dell'ordalia parlamentare del prossimo 14 dicembre. In tutti e due i casi, le scelte compiute dal governo sono pessime, per non dire indecenti. Nel merito e nel metodo.

C'è prima di tutto una questione di merito. Cominciamo dalla Consob. Era già di per sé uno scandalo che l'organo di vigilanza sulla Borsa e sui mercati finanziari fosse da quasi cinque mesi senza presidente (dopo la scadenza del mandato di Lamberto Cardia a fine giugno) e da nove mesi senza il quarto commissario (dopo le dimissioni di Paolo Di Benedetto a inizio marzo). Ora questa intollerabile "vacatio" viene finalmente colmata. Ma la toppa è quasi peggiore del buco. Il nuovo presidente Giuseppe Vegas, viceministro al dicastero dell'Economia con Tremonti, è persona seria e credibile. Ma ha vasta esperienza di finanza pubblica, e poca dimestichezza di finanza privata. E poi è stato pur sempre senatore di Forza Italia per ben due legislature e mezza, tra il 1996, il 2001 e il 2006. Lo definiscono un "tecnico", in realtà è a tutti gli effetti un "politico". E questa non è una buona cosa, per un'istituzione che dovrebbe esprimere il meglio della tecnocrazia di un Paese.

Il nuovo quarto commissario (che affiancherà Vittorio Conti, Luca Enriques e Michele Pezzinga) è Paolo Troiano. E qui la scelta è ancora peggiore. Consigliere di Stato, Troiano è stato nominato vicesegretario generale della presidenza del Consiglio nel corso della seconda legislatura berlusconiana 2001-2006. Già citato (suo malgrado) nelle intercettazioni telefoniche dell'inchiesta sullo scandalo napoletano e poi romano di Alfredo Romeo, il ras degli appalti, Troiano è salito agli onori delle cronache ai tempi della legge Gasparri sul sistema radio-televisivo, una delle tante "leggi-vergogna" e "ad aziendam", servita a blindare lo strapotere di Mediaset dentro lo schema del falso duopolio televisivo con la Rai. All'epoca, era il 2004, si disse che proprio Troiano fosse uno dei due grand commis che avevano scritto materialmente quella legge, in nome dell'allora ministro delle comunicazioni Maurizio Gasparri e per conto dell'allora premier Silvio Berlusconi.

Veniamo alle nomine nelle altre authority. All'Autorità per l'energia, liquidata la stagione felice di Alessandro Ortis che in questi anni l'ha gestita da solo con grande coraggio e con troppa autonomia, il governo trasferisce Antonio Catricalà, che lascia così l'Antitrust. Al suo posto, al vertice dell'organo di vigilanza sulla concorrenza e sui monopoli, assurge Antonio Pilati, attuale membro "anziano" della stessa Authority. Ma Pilati non è famoso per la tenacia con la quale in questi anni ha "marcato" i grandi trust, a beneficio dei consumatori e a vantaggio del libero mercato. È invece più noto per essere il secondo grand commis ad aver redatto di suo pugno, insieme al già citato Troiano, la Legge Gasparri. Ricapitolando: un politico ex forzista sulla poltrona della Consob, e due "apparatciki" promossi sul campo (alla stessa Consob e all'Antitrust) per meriti acquisiti nel core business del Cavaliere.

C'è poi una questione di metodo. Ancora una volta, dopo mesi di colpevole attesa nel riorganizzare e ridefinire gli organigrammi di istituzioni di garanzia decisive per il buon funzionamento di tutti i mercati, quello che prevale è il "Sistema-Letta". In tutte le grandi democrazie economiche, le autorità amministrative indipendenti sono preziosi custodi dei principi di uguaglianza delle regole e di bilanciamento dei poteri. Chi vi entra, per scelta di governi consapevoli, deve avere rigorosissimi requisiti di autorevolezza, professionalità, indipendenza. In Italia non funziona così. In questi gangli vitali per il controllo delle società quotate in Borsa, dei grandi gruppi industriali e dei colossi dell'elettricità e del gas, la scelta dei nomi viene fatta secondo il collaudato rito lettiano, cattolico, apostolico e romano. Il bacino degli "eletti" è sempre lo stesso: la nomenklatura che orbita intorno alle magistrature pubbliche capitoline (Tar, Consiglio di Stato, Corte di Cassazione, gabinetti ministeriali) sulle quali il sottosegretario di Palazzo Chigi esercita da sempre il suo dominio assoluto e incontrastato. È un sistema chiuso e autoreferenziale, che si riproduce per partenogenesi e che ormai si sposta dall'una all'altra istituzione con un meccanismo di "porte girevoli" (il caso Catricalà insegna). Un sistema che controlla poteri e apparati, e che talvolta purtroppo è anche finito al centro delle inchieste della magistratura, per il modo in cui può pilotare le sentenze e dirottare gli appalti.

Questo metodo è anti-democratico e pre-moderno. Non è degno di un Paese che si immagina ancora come la quinta potenza mondiale dell'Occidente. Un Paese che chiede regole, efficienza, competitività. E che sulle poltrone dei regolatori si ritrova ogni giorno a fare i conti con i cavalli scelti dall'ultimo Caligola di un impero comunque in declino.
m.giannini@repubblica.it
 

(19 novembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/11/19/news/nomine_fine_regime-9267484/


Titolo: MASSIMO GIANNINI La Spectre globale
Inserito da: Admin - Novembre 27, 2010, 05:53:49 pm
IL COMMENTO

La Spectre globale

di MASSIMO GIANNINI

La Spectre globale Franco Frattini, ministro degli Esteri

Complotto contro l'Italia. In un pirotecnico gioco di specchi, si potrebbe capovolgere così il titolo del magnifico romanzo di Philip Roth, dove la dura e rancorosa e America di Lindbergh si chiude in se stessa per non vedere i suoi guai, e addita il mondo come nemico. Oggi Silvio Berlusconi e il suo governo fanno la stessa cosa. Per non vedere quanto è già sotto gli occhi di tutti, dal disastro dei rifiuti al crollo di Pompei, dalle inchieste della magistratura su Finmeccanica ai file segreti di Wikileaks, il nostro Consiglio dei ministri si riunisce come fosse un gabinetto di guerra, e alla fine stila il suo comunicato farneticante, dove si rievoca una "Cosa" pericolosa e informe che somiglia tanto alla cara, vecchia congiura giudo-pluto-massonica. "C'è una strategia per colpire l'Italia e la sua immagine internazionale", scandisce il nostro ministro degli Esteri, ripreso in un comunicato ufficiale di Palazzo Chigi. 1

Una "strategia" nella quale si mescola tutto, per confondere tutti. La monnezza di Napoli e le macerie della Domus dei gladiatori, gli avvisi di garanzia sul caso Enav-Selex e le "rivelazioni imbarazzanti" sui rapporti Italia-Usa che il terribile e temibile Assange sta per diffondere in rete. Un'enormità, sul piano politico e diplomatico: il governo italiano spara in alto, e nel mucchio, senza dire chi, dove,
come, quando, perché. Poco più tardi, forse consapevole della sparata, lo stesso capo della Farnesina si corregge, con una prosa avventurosa: "Non c'è nessun complotto contro di noi, ma elementi preoccupanti che sono la combinazione di informazioni inesatte, di enfatizzazioni mediatiche, di fattori negativi per l'Italia". Salvo poi aggiungere, con involontaria comicità, che "non c'è un unico burattinaio, ma una combinazione il cui risultato è dannoso per la nostra immagine".

Riepilogando. C'è una strategia internazionale contro l'Italia e contro il suo governo. Magari nasce in America, va a sapere, e poi dilaga in Europa. E non c'è una sola "centrale", al lavoro contro il Belpaese. forse ce n'è più d'una. È grottesco che si possa anche solo immaginare uno scenario da Spectre globale, soprattutto se rapportato alla nostra sostanziale irrilevanza nello scenario internazionale. Possibile che il Cavaliere e i suoi accoliti non dubitino che di "centrale" anti-italiana non ce n'è proprio nessuna? Possibile che non abbiano il ragionevole dubbio che l'unica "centrale" che, in questo momento, sta arrecando veri danni all'immagine e alla credibilità dell'Italia è proprio l'istituzione che la governa? È colpa delle cancellerie europee se la Campania è invasa dai rifiuti come due anni fa? È colpa di Obama se l'inchiesta su Finmeccanica porta ad avvisi di garanzia che colpiscono al cuore la nostra industria della Difesa, strategica per il Paese?

È vero che ogni tramonto di un'illusione (è tale è il rovinoso declino del berlusconismo) contiene in sé elementi teatrali, oltre che tragici. Ma qui stiamo davvero esagerando. Manca solo l'attacco frontale alla Perfida Albione, da un balcone di Palazzo Grazioli. Poi la farsa sarà davvero completa.

(26 novembre 2010) © Riproduzione riservata
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Verso il voto anticipato
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2010, 05:25:30 pm
Verso il voto anticipato


MA dei finiani ci si può fidare? Che faranno il 14 dicembre, quando il Parlamento deciderà di staccare o meno la spina al governo Berlusconi? Da qualche giorno, sul fronte del centrosinistra, la domanda ricorrente è esattamente questa. Dopo uno sbandamento improvviso di Gianfranco Fini, che sembrava aver virato verso posizioni più concilianti nei confronti del Cavaliere, nelle ultime ore ha ripreso quota l'idea dei una mozione di sfiducia congiunta, tra Fli e Udc. Ma l'incertezza rimane. Il via libera al disegno di legge Gelmini sulla riforma dell'università, benché ampiamente annunciato dal presidente della Camera, ha lasciato sul campo parecchi dubbi, a proposito delle reali intenzioni dei futuristi, e sul "doppio registro" che stanno tenendo nei confronti del Pdl. Tutto questo rende molto più complicata qualunque riflessione sul "dopo". Non è affatto chiaro cosa possa accadere, nel momento in cui la crisi di governo sarà formalmente aperta. Non è affatto scontato che si possa arrivare a una nuova maggioranza, e dunque a un nuovo governo, qualunque sia il suo "codice genetico": tecnico, di transizione, di salute pubblica, di responsabilità nazionale.

Ma anche sul fronte del centrodestra le incognite sono altrettanto radicate. Nel partito di Fini e in quello di Casini, oltre che nelle frange di dissenso del Popolo delle Libertà, cresce una domanda uguale e contraria: ma del Pd ci si può fidare? Con il caos che regna dentro il partito di Bersani, dove D'Alema e Veltroni sembrano aver ritrovato un terreno comune almeno per mettere in "amministrazione controllata" il segretario e stoppare l'Opa di Nichi Vendola, si può immaginare di costruire un alternativa credibile al berlusconismo? Anche in questo caso, il dubbio è fondato e legittimo. Non è affatto chiaro chi, nel principale partito di opposizione, stia tessendo la tela delle alleanze possibili: o per costruire una nuova maggioranza ed evitare le elezioni anticipate (secondo lo schema di D'Alema e Veltroni) o per andare alle elezioni anticipate con una nuova "alleanza costituzionale" (secondo lo schema di Dario Franceschini). Chi comanda nel Pd? E' la domanda che si fanno da giorni Fini e Casini. E' la domanda che in queste ore si fa persino Giulio Tremonti, uno dei leader che nel Pdl potrebbe giocare un ruolo alternativo a Berlusconi, ove mai la Lega decidesse di sottrarsi all'abbraccio mortale con il Cavaliere.

In assenza di risposte plausibili, dall'una e dall'altra parte, crescono fisiologicamente le quotazioni del voto anticipato.
C'è un'ultima carta, che D'Alema sta tentando in solitaria, per scongiurare questo pericolo. Rilanciare al più presto, a beneficio di Casini e soprattutto di Fini, una road map per la riforma della legge elettorale. Si tratterebbe di fissare subito  due punti cardine, per modificare il Porcellum: drastico innalzamento della soglia al di sopra della quale scatta il premio di maggioranza, e ritorno al sistema delle preferenze per evitare un Parlamento di "nominati" e non di "eletti". Ma poi, e questa è la novità assoluta, si dovrebbe proporre un referendum popolare "di indirizzo", sulla forma di governo: i cittadini, cioè, dovrebbero scegliere tra la "repubblica parlamentare" (nel solco di quella che abbiamo ora ma rafforzata almeno per la parte che riguarda l'esecutivo) e la "repubblica presidenziale" (sul modello del semipresidenzialismo alla francese o con l'elezione diretta del capo dello Stato). Questo sbocco consentirebbe ai "contraenti" del patto di aderire a una riforma elettorale "aperta", che eviterebbe a ciascuno dei leader di dover rinnegare un pezzo del proprio passato e della propria linea. E' un tentativo estremo, quasi disperato, per cercare una piattaforma condivisa che eviti lo scioglimento anticipato delle Camere. Ma altre idee, in circolazione, non se ne vedono. E il 14 dicembre è maledettamente vicino.

m.giannini@repubblica.it
(01 dicembre 2010)

http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2010/12/01/news/ma_dei_finiani_ci_si_pu_fidare_-9711979/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Nel bunker di via XX Settembre Tremonti teme il "rischio euro"
Inserito da: Admin - Dicembre 01, 2010, 05:34:24 pm
L'ANALISI

Nel bunker di via XX Settembre Tremonti teme il "rischio euro"

E' scontro tra le cancellerie e la Banca centrale europea su come intervenire per evitare la catastrofe dell'Unione monetaria.

Secondo il ministro dell'Economia non esiste un allarme per l'Italia come Paese e non c'è bisogno di una manovra aggiuntiva

di MASSIMO GIANNINI


I GOVERNI d'Europa si affannano a ripetere che "la moneta unica non è a rischio". Ricordano i passeri di Arthur Koestler, che in "Schiuma della terra" cinguettano sui fili del telegrafo, mentre sugli stessi fili corre l'ordine di ucciderli. È il momento della verità, per le leadership politiche e le nomenklature tecnocratiche. A dispetto delle dichiarazioni rassicuranti di Angela Merkel e di Jean-Claude Trichet, i mercati finanziari hanno cominciato a giocare una partita più grande, che va oltre i debiti sovrani dei "Pigs". Oggi - come si ammette per la prima volta al ministero del Tesoro - non è in pericolo solo la tenuta dei singoli Paesi del "Club Med": "In gioco, ormai, c'è l'euro".

È la moneta unica che può saltare davvero, sotto i colpi di quella che viene impropriamente definita la "speculazione". La "fine dell'euro" è un evento politicamente insostenibile, ed anche tecnicamente ingovernabile (come ha spiegato su questo giornale Luigi Spaventa). Ma il dubbio che prima o poi l'Unione monetaria europea possa disgregarsi davvero non appare più così remoto. Il sospetto che convenga tornare alle valute nazionali, o ripiegare su due euro (uno per i Paesi forti del Nord, l'altro per i Paesi deboli del Sud) inizia a farsi strada. Per lo meno, nelle cancellerie ci si comincia a ragionare. Tra gli economisti se ne discute. Ma quello che più conta, è che i mercati sembrano crederci. E tanto basta a scatenare
l'eurodelirio di questi giorni.

Un eurodelirio che per la prima volta investe anche l'Italia. Se persino il Richelieu di Palazzo Chigi, Gianni Letta, si spinge a dire in pubblico che esiste "una preoccupazione forte" su un rischio di contagio "forse anche per l'Italia", vuol dire che il livello di guardia è stato raggiunto. La sortita del sottosegretario alla presidenza del Consiglio ha fatto infuriare Giulio Tremonti. Con chi lo incontra in queste ore, il ministro dell'Economia schiuma rabbia contro il braccio destro di Berlusconi: che ne sa di mercati internazionali, lui che è stato a malapena a Milano un paio di volte? Ma Tremonti sa che Letta, sull'effetto-domino, non ha per niente torto. Ci sono segnali inequivoci. Per quanto riguarda l'Italia, lo spread tra i Btp decennali e i bund tedeschi ha sforato quota 210 punti base. La stessa cosa è accaduta per i Cds, i contratti con i quali gli operatori si assicurano dal rischio di default di un Paese, schizzati a quota 263 punti. È il segno che i mercati, non fidandosi della tenuta italiana, chiedono un premio di rischio più alto per continuare a investire sui nostri titoli. Per quanto riguarda l'Europa, continua lo stillicidio sui Paesi "periferici" (Grecia, Irlanda e Portogallo). Ma l'attacco speculativo si estende anche alla Spagna. E da ieri addirittura al Belgio. "E se nel mirino finisce il Belgio - si sostiene a Via XX Settembre - il rischio non è più nazionale, ma diventa sistemico". La conferma, esplicita, è nella caduta dell'euro e nel crollo delle Borse.

Se questo è lo scenario, in lento e graduale disfacimento, bisogna capire se ci sono margini per salvare i singoli Paesi sotto attacco, e in prospettiva la moneta unica. E per capirlo, bisogna ascoltare ciò che si dice nelle due trincee dove si sta combattendo la partita. La prima trincea, per quanto riguarda l'Italia, è appunto il ministero del Tesoro. Tremonti è chiuso nel suo ufficio, muto come un pesce. Ma la sua versione dei fatti è la seguente. Domenica scorsa, all'Ecofin, l'Ue ha fatto quello che poteva per far partire il piano di salvataggio da 85 miliardi per l'Irlanda. Consapevole delle incognite presenti sui mercati, il ministro si è battuto per far discutere e approvare, prima del "bailout irlandese", la riforma del "meccanismo di salvataggio". L'European Stability Mechanism, che sostituirà quello temporaneo appena creato (l'Efsf) e che dal 2013 fornirà sostegno ai Paesi in difficoltà. È "un compromesso accettabile", per Tremonti: "Il meccanismo diventa permanente, e così si crea in nuce una sorta di Fondo monetario europeo...". Più di questo, per il ministro italiano, i governi in questo momento non potevano fare.

Consapevole dei limiti dell'Europa politica, Tremonti ha messo nel conto la reazione dei mercati, che infatti non hanno premiato l'accordo. E questo non può non preoccupare il ministro. Non la posizione italiana, che lui considera sotto controllo. Le tensioni sui nostri Btp riflettono le incognite generali e "di sistema", oltre che specifici "aspetti tecnici": siamo alle ultime aste, dicembre è da sempre un mese poco liquido. I timori sul nostro debito, a suo giudizio, sono esagerati: resta alto, ma il suo costo non è aumentato molto, e le dinamiche della finanza pubblica, a partire dal deficit, sono "sotto controllo". Per questo, a Via XX settembre non puoi parlare di manovra aggiuntiva da 45 miliardi, che la Ue potrebbe imporci dopo il Consiglio dei capi di governo del prossimo 16 dicembre. Tremonti giudica questa una "leggenda metropolitana". Intanto perché l'eventuale nuova disciplina del Patto di stabilità scatterebbe dal 2014. E poi perché in ogni caso, rispetto a un Trattato che non fissa numeri precisi ma parla di un rientro dal debito "in misura sufficiente", il nuovo Patto terrà comunque conto dei "fattori di sostenibilità complessiva" di ciascun Paese. E su questo, secondo il ministro, l'Italia è seconda solo alla Germania, tra "risparmio privato, solidità delle banche e pensioni già riformate".

Dunque, secondo Tremonti nessun caso Italia, nessuna manovra aggiuntiva. Neanche quella ipotizzata ieri dalla Ue e cifrata in 7 miliardi, che sarebbero necessari solo là dove il quadro previsivo fissato dal governo italiano, tra andamento del Pil e delle entrate fiscali, non fosse rispettato. Il ministro è convinto che lo sarà, perché il Prodotto lordo, ancorché fiacco, è in linea con le stime, e il recupero di evasione fiscale è già "in the bag", per usare una formula che gli è cara. E allora cosa rischiamo? A sentire Via XX Settembre, nulla come Paese, tutto come sistema. E come se ne esce? Tutto dipende dalla Bce: se farà come la Fed, e cioè comprerà titoli e riverserà liquidità sui mercati, la speculazione si placherà, e l'euro si potrà salvare. In caso contrario, si entra in una terra incognita, insidiosissima. E questa opinione, in base alle ricostruzioni che circolano al Tesoro, è condivisa anche dagli altri governi dell'Eurozona, a parte la Germania.

Ma le cose stanno realmente così? Per capirlo, bisogna spostarsi nell'altra trincea, cioè a Francoforte, per sentire la versione della Bce. Una versione che non coincide con quella delle cancellerie. Anche all'Eurotower le bocche sono cucite, compresa quella del membro italiano del board, Lorenzo Bini Smaghi, in vista del consiglio di domani. Ma la linea della banca centrale è già segnata: "Non saremo noi a togliere le castagne dal fuoco dei governi". Quello che sta avvenendo sui mercati, secondo gli uomini della Bce, ha una lettura opposta a quella che ne danno i governi. Il fatto che la speculazione stia colpendo i Paesi più deboli dell'area dimostra esattamente che non c'è un problema di "sistema" che riguarda tutti, ma un problema di "scarsa virtù finanziaria" che riguarda solo alcuni. "Guarda caso - dicono a Francoforte - i Paesi sotto attacco sono quelli che hanno problemi enormi sul fronte delle banche, come l'Irlanda, o quelli che non hanno fatto riforme vere, dalla Pubblica Amministrazione al mercato del lavoro, come la Spagna, e quelli che sommano, a queste mancate riforme, un alto tasso di instabilità politica, come l'Italia". Dunque, secondo la Bce, da questa palude in cui la moneta unica affonda si esce solo se i governi dei Pigs prendono coraggio, e cominciano a fare quello che devono: riforme vere.

Certo, in queste ore febbrili in cui molto è in gioco per l'Europa politica e monetaria, la Banca Centrale non si rifiuta di fare la sua parte. Ha cominciato a muoversi un po' come la Fed: pare infatti che ieri l'Eurotower abbia effettuato acquisti consistenti di titoli sul mercato secondario, soprattutto presso banche asiatiche. È un buon segnale di disponibilità. Che tuttavia non va equivocato: "Siamo pronti ad assumerci le nostre responsabilità - dicono a Francoforte - ma solo a condizione che i governi facciano altrettanto". Come è evidente, la logica è ribaltata rispetto a quella del governo italiano e degli altri governi. Che resistono, e invocano il "DDD problem", acronimo che sta per "Doomed Debtors Dilemma": più adotti politiche di rigore per contenere il deficit, più deprimi l'economia e il Pil, e così finisce per far lievitare ulteriormente il deficit.

Il conflitto tra queste due linee nasconde in realtà due "culture". Da un lato quella più pragmatica della maggior parte dei soci fondatori dell'Unione, dall'altra quella più ortodossa della Germania e dei suoi satelliti, di cui la Bce continua ad essere l'emanazione monetaria. Ma proprio nello scontro tra questi due schieramenti si annidano le insidie maggiori. Quanto potrà reggere la Germania, con una crescita impetuosa che sarà il triplo della media europea nei prossimi 5 anni, come confermano gli ultimi dati Ifo? Per ora non c'è risposta. E le parole ambigue, e spesso contraddittorie pronunciate in queste settimane dalla Merkel lasciano aperte tutte le ipotesi. Non tutte le sue uscite destabilizzanti si possono spiegare con la tornata elettorale del prossimo marzo nel Baden Wurttemberg, che spinge la Cancelliera a rassicurare i suoi elettori sul fatto che non saranno i contribuenti tedeschi a dover pagare le pensioni allegre degli spagnoli o i pingui salari pubblici degli italiani. C'è dell'altro. In prospettiva, proprio Berlino potrebbe diventare l'epicentro di un sisma monetario.

Per tutte queste ragioni, oggi, il peggio può essere dietro l'angolo. Purtroppo lo è per l'Italia, che nei prossimi giorni rischia di finire sulla graticola dei mercati. E lo è per l'euro, che nei prossimi mesi rischia di finire nel tritacarne della Storia. Di trasformarsi in incubo, dopo esser nato come sogno. Per tornare a Koestler, "nessuna morte è triste e definitiva come la morte di un illusione".
 

(01 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/12/01/news/nel_bunker_di_via_xx_settembre_tremonti_teme_il_rischio_euro-9707670/?ref=HREC1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Gli arditi del premier
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2010, 12:17:29 am
IL COMMENTO

Gli arditi del premier

di MASSIMO GIANNINI

MANCAVA ancora qualcosa, al processo di decomposizione del berlusconismo. L'irridente "me ne frego", che gli arditi del Pdl sbattono in faccia alle regole, alle istituzioni, alla Costituzione. Ebbene, grazie a Denis Verdini, pluri-inquisito coordinatore del Popolo della Libertà, è arrivato anche questo.

"Ce ne freghiamo", annuncia il plenipotenziario berlusconiano. Se ne fregano delle prerogative del Presidente della Repubblica, al quale la Carta del '48 assegna compiti precisi nella gestione della crisi di governo. Le conoscono, queste prerogative. I falangisti del Cavaliere sanno che la nostra, ancorché malridotta, è ancora una Repubblica parlamentare, dove le maggioranze nascono, muoiono e si modificano in Parlamento. Sanno che i parlamentari non hanno vincolo di mandato. Sanno che in presenza di una crisi di governo il capo dello Stato ha il dovere di verificare se esiste un'altra maggioranza. Sanno che in caso affermativo ha il dovere di affidare l'incarico di formare un nuovo governo a chi la rappresenta.

Sanno tutto questo. Ma appunto: se ne fregano. Perché per loro, come si conviene a un populismo tecnicamente totalitario, la "ragion politica" prevale sempre e comunque sulla ragion di Stato. Il leader incoronato dalla gente è sempre e comunque sovraordinato alle norme codificate dal diritto. Questo, fatti alla mano, è dal 1994 il dna politico-culturale del berlusconismo. E così, al grido di "no al ribaltone", le truppe del Cavaliere sono pronte a marciare
sul Colle, sfidando Giorgio Napolitano e stuprando la Costituzione, di cui il presidente della Repubblica è il supremo custode.

Questo è dunque lo spirito con il quale un premier in confusione e una maggioranza in liquidazione si accingono ad affrontare le due settimane di vita che ancora restano al governo, prima del voto del 14 dicembre. Questo è il "grido di battaglia", con il quale il Pdl si prepara a combattere la guerra che comincerà il giorno dopo quella drammatica ordalia. Sapevamo, a nostra volta, che l'ultimo atto della commedia umana e politica di Berlusconi sarebbe stato pericoloso e destabilizzante. Ma non immaginavamo che al vasto campionario di violenze verbali e di macellerie costituzionali ora si aggiungesse anche il "me ne frego".

Restano una certezza e una speranza. La certezza è che la massima istituzione del Paese, il Quirinale, è affidata alle mani salde e sagge di un uomo che saprà esattamente cosa fare, per il bene dell'Italia e degli italiani. La speranza è che alla fine anche la parabola del berlusconismo, più che in tragedia, degeneri in farsa. E che per i suoi fedelissimi, come ai tempi di Maccari e Flaiano, valga un altro slogan, assai meno impegnativo: o Roma, o Orte.
m.giannini@repubblica.it
 

(04 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/04/news/arditi_premier-9825007/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Scandalo in Parlamento
Inserito da: Admin - Dicembre 11, 2010, 06:29:37 pm
IL COMMENTO

Scandalo in Parlamento

di MASSIMO GIANNINI


Solo nel tragicomico fumetto di Berluscopoli la doverosa e persino tardiva apertura di un'inchiesta sullo scandalo del mercato dei voti può diventare "un'ingerenza gravissima della magistratura" sull'autonomia delle Camere. Solo nella grottesca manipolazione semantica dei fatti, quotidianamente praticata dai "volonterosi carnefici" del Cavaliere, il patto scellerato tra un parlamentare dell'Idv e tre "colleghi" del Pdl (che gli offrono di passare nelle file della maggioranza in cambio dell'estinzione del suo mutuo per la casa) può diventare esercizio di "una libera dialettica parlamentare".

A tanto ci ha ridotto, il collasso dell'etica pubblica di questi anni. Siamo ai "saldi di fine legislatura". Gli operosi apparatciki del presidente del Consiglio, per consentirgli di raggiungere la fatidica "quota 316" nella conta sulla fiducia di martedì prossimo a Montecitorio, offrono alle anime perse dell'altra sponda non più solo incarichi ministeriali e poltrone di sottogoverno, ma addirittura denaro sonante. Questo, oggi, è l'ulteriore "salto di qualità" nell'indecente compravendita in corso tra i deputati: i soldi. Questo, oggi, dichiarano senza pudore pseudo dipietristi come Antonio Razzi e finti democratici come Massimo Calearo.

Il primo, in un'intervista radiofonica su Radio 24 al programma "La zanzara" del 16 settembre: "Sono stato avvicinato da cinque, tre del Pdl. Le offerte più concrete che mi hanno fatto sono state la
ricandidatura e la rielezione sicura, ma questa volta in un collegio italiano. Ho comprato casa a Pescara, devo pagare ancora un mutuo da 150 mila euro. Io gli ho detto che avevo questo mutuo e loro: "Ma che problema c'è? Lo estinguiamo"...". Il secondo, in un'intervista al "Riformista" di martedì scorso: "Dai 350mila al mezzo milione di euro. E pensi che la quotazione, nei prossimi giorni, può ancora salire. Soprattutto al Senato. I prezzi, quelli per convincere un indeciso a votare la fiducia al governo, per adesso sono questi... Io sono un caso a parte... Sa cosa mi ha detto Berlusconi, quando ci siamo incontrati di recente: "Calearo, io non ho nulla da offrirle perché lei, come me, vive del suo"...".

Cos'altro sembra di scorgere, in tutto questo, se non un tentativo di corruzione (secondo l'articolo 319 del codice penale) che non ha nulla da spartire con il diritto del parlamentare di esercitare la propria funzione "senza vincolo di mandato" (secondo l'articolo 67 della Costituzione)? E di fronte a queste parole, che pesano come pietre e contengono a tutti gli effetti una possibile "notitia criminis", cos'altro deve fare una procura della Repubblica, se non aprire un'inchiesta e verificare la fondatezza delle gravissime dichiarazioni rese da questi deputati? Questo è lo scandalo. Un Parlamento, tempio sacro della democrazia rappresentativa, trasformato in un hard discount, luogo profano della politica mercificata.

Così si compie il capolavoro berlusconiano: prima la personalizzazione, poi l'"aziendalizzazione" della politica, che si riduce a una variante del marketing mentre le Camere si sviliscono in una "fabbrica" di voti. In questo orizzonte, tecnicamente a-morale e puramente economicista, tutto si può vendere e comprare. Una candidatura o un mutuo, una fiducia o una sfiducia. Perché nella logica del tycoon della televisione commerciale tutti gli uomini hanno un prezzo. Si tratta solo di individuare quello giusto, e al momento giusto.

Eppure, per i Cicchitto e i Verdini, i Bondi e gli Alfano, non è questo lo scandalo. Questa è, appunto, la "libera dialettica parlamentare". Questa è, appunto, la politica fatta di "sangue e merda", per usare una vecchia formula cara a Rino Formica ai tempi della Prima Repubblica. Non è la compravendita, che indigna questo centrodestra trasformato in appendice del cda Mediaset. Perché secondo le guardie azzurre del Cavaliere o non è vera: e dunque non c'è nulla da cercare tra le bancarelle del suk di Montecitorio. O si è sempre fatta, anche ai tempi del governo Prodi: e dunque "todos caballeros", tutti colpevoli, nessun colpevole, come da requisitoria parlamentare di Bettino Craxi all'epoca di Tangentopoli.

Il vero scandalo, per le truppe del Popolo della Libertà che si preparano alla battaglia di martedì prossimo, è ancora una volta la magistratura che indaga. Le toghe che turbano il "normale confronto" del Parlamento, alla vigilia di un voto decisivo per il futuro del governo. Anche questa, dunque, sarebbe giustizia a orologeria. Ci vuole una certa impudenza, per sostenere una tesi del genere. Proprio nel giorno in cui la Consulta annuncia il rinvio a gennaio della sentenza sulla costituzionalità del legittimo impedimento.

La verità è che questa penosa Votopoli è l'altra faccia, l'ultima, di un potere sempre più debole e disperato, e per questo sempre più temerario e velleitario. "Ora inizia il calciomercato...", dice Gianfranco Fini, commettendo un errore di metodo (perché è il presidente della Camera, e se sa qualcosa deve denunciarlo ai pm) e di merito (perché le trattative sono cominciate da un pezzo, e semmai il calciomercato sta per finire).

Tuttavia non sappiamo quanto abbia inciso la campagna acquisti del Cavaliere, proprio nelle file dei futuristi, molti dei quali si professano malpancisti. Non sappiamo quanto peseranno martedì prossimo gli anatemi del premier contro gli eventuali "traditori", che saranno "fuori per sempre dal centrodestra". Può anche darsi che l'aritmetica salvi il presidente del Consiglio. Ma se anche fosse, la politica lo ha già condannato. Non si governa un Paese instabile come l'Italia, con un paio di voti di maggioranza. Per quanto ben remunerati, restano comunque voti a perdere.

m.giannini@repubblica.it

(11 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/11/news/scandalo_parlamento-10063256/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La Bastiglia del Cavaliere
Inserito da: Admin - Dicembre 16, 2010, 03:44:26 pm
IL COMMENTO

La Bastiglia del Cavaliere

di MASSIMO GIANNINI

Sono bastate appena ventiquattrore, per capire quanto sia posticcio lo "straordinario trionfo" ottenuto l'altroieri da Silvio Berlusconi ai danni del suo nemico Gianfranco Fini. Appena ventiquattrore, per toccare con mano quanto sia fragile la Bastiglia forzaleghista nella quale il premier si trincera, fingendo di voler governare il Paese "fino alla fine della legislatura". Nel dolceamaro "day after" dell'ordalia del 14 dicembre, il presidente del Consiglio deve prendere atto che quella prova di forza (che pure c'è stata e che pure ha superato di strettissima misura) non solo non serve ad annientare l'opposizione disarticolata del centrosinistra, ma produce come reazione immediata la nascita di un'opposizione strutturata di centrodestra.

Il battesimo ufficiale del Terzo Polo tra Fli, Udc, Api e Mpa cambia profondamente il panorama politico di metà legislatura. È una risposta politica dell'area moderata anti-berlusconiana alla vittoria aritmetica della destra radicale berlusconiana. Ed è significativo che quella risposta arrivi immediatamente dopo che il Cavaliere ha riaperto il borsino della compravendita dei parlamentari, rivelando una transumanza collettiva di numerosi esponenti di Fli e annunciando un "porta a porta" individuale con singoli esponenti dell'Udc.

Lo slogan sul quale poggia la pubblicità ingannevole del premier, che per questa via si spaccia agli italiani come un "leader rafforzato", è "allargare la maggioranza". Obiettivo facile, a suo
dire, per chi ha appena sconfitto i traditori e per questo diventa una calamita che attrae i pentiti, invece di respingere i transfughi. La verità è esattamente l'opposto. L'allargamento della maggioranza, per il premier, non è il test della sua ritrovata forza, ma la prova della sua moltiplicata debolezza. Non è un atto di generosità, ma di necessità. Con tre voti di scarto, il governo Berlusconi-Scilipoti non va da nessuna parte. Per questo, e con la sola stampella della Lega, getta un ponte verso il centro.

Ma la novità è che il centro ha già mollato gli ormeggi. La nascita del Polo della Nazione è un altro effetto della vittoria di Pirro berlusconiana. Piuttosto che terremotare il campo di Futuro e Libertà, raccogliendo le macerie a suo vantaggio, Berlusconi ha spinto definitivamente Fini nella faglia in movimento del Nuovo Centro. Ha gettato cioè l'ex co-fondatore del Pdl nelle braccia di Casini, che insieme a Rutelli e Lombardo possono annunciare oggi la nascita di un coordinamento tra i parlamentari, domani il varo di un unico gruppo parlamentare, e magari dopodomani la formazione di una lista unitaria e più in là, chissà, di un vero e proprio partito.

Il PdN si configura dunque non come "costola", ma come alternativa assoluta al Pdl. E con questa prospettiva, non più teorica ma pratica, il Terzo Polo si blinda: la sua costituency parlamentare appare oggettivamente meno permeabile alle lusinghe del Cavaliere. In qualunque forma si materializzino: mutui o poltrone. Così muta la geo-politica del Paese, che assume un assetto tendenzialmente tripolare. Anche questo è un esito della battaglia di martedì scorso, oltre che della più generale deriva populista e tecnicamente eversiva del berlusconismo. Pessimo risultato, anche dal punto di vista del Cavaliere: da alfiere irriducibile del bipolarismo, diventa il maieuta involontario del tripolarismo.

Vuole allargare la maggioranza. Per ora è riuscito ad allargare l'opposizione. Dopo il 13 aprile 2008, alla Camera aveva "contro" 276 parlamentari. Ora ne ha contro 311. Questa è la dura realtà di una maggioranza che si pretende tuttora autosufficiente. Il PdN potrà anche sembrare l'ultimo "fortino degli sconfitti". Potrà anche apparire velleitario in un'Italia in cui, dalla virata maggioritaria indotta dai referendum dei primi anni '90, le terze forze non hanno mai goduto di particolari fortune. Potrà persino risultare nefasto, per chi ricorda la sciagurata politica andreottiana dei due forni all'epoca della Prima Repubblica. Ma resta il fatto che dietro ai sacchi di sabbia della trincea appena costruita, l'artiglieria terzopolista può fare danni incalcolabili, nei confronti di Berlusconi e di quel che resta della sua coalizione.

Li può fare a legislatura vigente. Molto più di quanto non dimostri la rigida ed eccezionale aritmetica del voto di fiducia dell'altroieri. Quel 314 a 311 a favore della maggioranza è infatti una situazione unica e irripetibile. Un esempio: nell'attuale perimetro Pdl-Lega ci sono almeno 30 parlamentari che sono anche ministri e sottosegretari, e che dunque sono spesso assenti dall'aula per impegni istituzionali e internazionali. Nella fisiologia dei lavori parlamentari, la maggioranza non sarà materialmente in grado di schierare stabilmente i suoi 314 effettivi alla Camera, e i suoi 162 al Senato. Per questo la neonata opposizione di centrodestra, insieme all'opposizione di centrosinistra, ha sulla carta i numeri sufficienti per mandare sotto il governo sulla mozione di sfiducia a Bondi o su quella per il pluralismo radiotelevisivo, sul disegno di legge Gelmini per l'università o sul decreto legge s per i rifiuti.

Ma il PdN può fare danni irreparabili anche nella prospettiva delle elezioni anticipate. Con l'attuale legge elettorale il Terzo Polo sarebbe ininfluente alla Camera, dove non potrebbe arrivare comunque primo rispetto al Pdl e al Pd, e dunque non potrebbe in alcun modo incassare il colossale premio di maggioranza garantito dal Porcellum. Ma sarebbe decisivo al Senato, dove il premio di maggioranza è su base regionale, dove non gioca il fattore "voto utile" e dove la soglia di sbarramento per i partiti coalizzati è solo del 3%. Dunque in questo caso, almeno a Palazzo Madama, il Terzo Polo sarebbe decisivo. Una lista unitaria Fini-Casini-Rutelli-Lombardo raggiungerebbe un risultato sicuro: farebbe perdere Berlusconi, che con la sola maggioranza alla Camera non potrebbe tornare al governo del Paese.

Non sappiamo quanto filo da tessere avrà la Cosa Bianca, che è forse ancora informe, ma che certo è già conforme all'idea di un "altro centrodestra". Una formazione davvero moderata e finalmente costituzionale, ormai avversaria conclamata della destra estremista di Berlusconi e Bossi, che può avere a cuore l'interesse nazionale, e non più quello di un singolo. E con la quale persino il Pd può dialogare senza pregiudizi, per provare almeno a riscrivere un modello di legge elettorale e un programma di messa in sicurezza dell'economia del Paese. Una cosa è certa: questo Cavaliere, con il suo "governo del Cepu", non può farcela.

m.giannini@repubblica.it

(16 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/16/news/bastiglia_cavaliere-10251123/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI E ora, il non-governo
Inserito da: Admin - Dicembre 18, 2010, 09:34:50 pm
E ora, il non-governo

Massimo GIANNINI

Berlusconi alla Camera fra Frattini e Tremonti
 
Con uno dei suoi colpi di coda, il Caimano ha salvato la pelle. Silvio Berlusconi ha vinto la sua partita personale contro Gianfranco Fini. La sfiducia non è passata. La campagna acquisiti ha funzionato, drenando dove doveva drenare. Nella pancia dolente di Futuro e Libertà, dove l’ala filo-berlusconiana si è rivelata più resistente di quanto si potesse immaginare. E nel ventre molle del centrosinistra, dove le "anime perse" del dipietrismo d’accatto hanno ceduto in fretta alle lusinghe del mutuo casa (vedi Domenico Scilipoti) e dove le "anime belle" del veltronismo d’antan hanno svelato in corsa il loro assoluto vuoto identitario (vedi Massimo Calearo)

Si può dire che sia una vittoria di Pirro. Si può dire che sia stata ottenuta con i metodi più cinici e abietti che la recente storia repubblicana ricordi. Ma resta pur sempre una vittoria. Non consente al Cavaliere di riprendere la rotta di governo con il vento nelle vele. Rimane anzi bloccato tra le secche, senza un orizzonte politico credibile, per sé e per quel che resta della sua maggioranza. Ma grazie ai voti di quei tre transfughi, il premier può restare al timone, e gestire la fase da una posizione di relativa forza, che gli consente di evitare le dimissioni, qui ed ora, di tirare a campare almeno fino a gennaio (in attesa di capire cosa deciderà la Consulta sulla legge per il legittimo impedimento) e di condizionare le prossime mosse del presidente
della Repubblica. Insomma, è una vittoria tattica, non una vittoria strategica.
 
Sotto questo profilo, ha qualche ragione Fini, quando sostiene che Berlusconi ha vinto sull’aritmetica, ma non sulla politica. Ma è una ragione che non consola il presidente della Camera, che esce sconfitto da questa battaglia mortale, perché in democrazia, almeno in certi momenti, l’aritmetica pesa quanto la politica. E questo è uno di quei momenti. Ora a Fini non resta che sperare di tenere serrati i già sfibrati ranghi futuristi, promettere un vero Vietnam al governo nei prossimi appuntamenti parlamentari, e nel frattempo acconciarsi da comprimario dentro un Terzo Polo dove dovrà condividere la leadership, verso l’alto con Casini, e verso il basso con Rutelli. Non proprio quello che Fini sognava, quando diceva "un’altra destra è possibile". Finchè c’è in campo il Caimano, un’"altra destra" vincente non c’è.

Cosa può fare il Cavaliere, con questa vittoria alle spalle? Una sola cosa: portare il Paese alle elezioni anticipate, guidando il processo e scegliendo il momento a lui più propizio per far saltare il tavolo. Bossi, che come sempre parla il linguaggio ruvido del disincanto e che sarà il vero "utilizzatore finale" dello scioglimento anticipato delle Camere, ha già tracciato il solco: si vota in primavera. E si tratta solo di capire che fine farà lo scudo processuale costruito dal premier per difendersi dai processi. È un successo, per un leader populista che ha dimostrato di non saper governare il Paese, ma di saper fare magnificamente bene le campagne elettorali. È un disastro per l’Italia, che ha davanti a sé alcuni mesi di totale "non governo", proprio nel momento in cui ci sarebbe più bisogno di un esecutivo capace di ridefinire l’agenda, avviare una politica riformatrice indirizzata alla crescita economica, alla redistribuzione fiscale, all’innovazione sociale e al sostegno dei redditi e degli investimenti.

Questa missione, che farebbe tremare i polsi a qualunque "Grosse Koalition" alla tedesca, è del tutto fuori dalla portata del "governo di minoranza" berlusconiano. A dispetto di quello che vagheggia lui stesso, e di quello che vaneggiano i suoi altoparlanti alla La Russa, che si spinge a dire "ora il governo è più forte di prima". Sparate da campagna elettorale, nella quale siamo ormai già precipitati. L’Italia non è la Gran Bretagna del dopoguerra, dove Winston Churchill teorizzava che un voto di maggioranza è solo "un voto in più del necessario per governare". Montecitorio non è Westminster. E non si vede proprio come questo governo, uscito vivo ma comunque malridotto dall’ordalia del 14 dicembre, possa fare adesso le grandi riforme che non ha fatto in questi due anni e mezzo. Se non ci è riuscito con oltre cento parlamentari di maggioranza, è impossibile che ci riesca con tre. Prodi insegna: Polidori e Siliquini, con tutta la buona volontà, non sono meglio di Rossi e Turigliatto.

(14 dicembre 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2010/12/14/news/e_ora_il_non-governo-10200308/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Donne sull'orlo di una crisi di nervi
Inserito da: Admin - Dicembre 22, 2010, 04:58:55 pm
Donne sull'orlo di una crisi di nervi

Massimo GIANNINI

Il caos delle Libertà sembra un film di Pedro Almodovar. Gli manca quel tocco leggero di "pietas" che il regista di Ciudad Real è riuscito a mettere nei suoi lavori più commoventi (da "Tutto su mia madre" a "Parla con lei"). Ma per il resto gli ingredienti ci sono tutti.

Prima l'affondo di Veronica Lario in Berlusconi, sul "ciarpame politico" delle veline candidate alle elezioni del 2008, "offerte come vergini al drago": una deriva che costrinse la moglie del premier a chiedere il divorzio. Poi la stagione delle minorenni e delle escort, tra Noemi Letizia, Patrizia D'Addario e Ruby Rubacuori, che espose il premier ai velenosi report riservati dell'Ambasciata americana e pubblicizzati da WikiLeaks: un "uomo debole e stanco", troppo impegnato nei "festini privati" per occuparsi della cosa pubblica.

Poi lo strappo di Mara Carfagna (dimissionaria da tutti gli incarichi previa denuncia della metamorfosi del Pdl da partito del popolo a "comitato d'affari"), ricomposto a fatica dal Cavaliere in cambio di un po' più di agibilità politica nella Campania di Cosentino. Poi la lite delle comari tra la stessa Carfagna (accusata di "flirtare" con il nemico futurista Italo Bocchino e immortalata con mms rubato a Montecitorio) e Alessandra Mussolini (debitamente ripagata con un sonoro "vajassa", l'epiteto più classico del basso partenopeo). Poi, ancora l'accusa di Barbara Lario in Berlusconi alla stessa Carfagna, "l'ultima che si deve lamentare", essendo transitata senza colpo ferire "dai Telegatti a ministra", Poi Rosy Mauro, che da vicepresidente del Senato incappa in un clamoroso "fallo di confusione", approvando di testa sua gli emendamenti al ddl Gelmini sull'Università senza farli votare da un emiciclo di Palazzo Madama, nel frattempo trasformato nel solito bivacco di manipoli. Infine, l'ultima rottura: molla anche Stefania Prestigiacomo, ministra dell'Ambiente che dice (anche lei) di "non riconoscersi più nel Partito del popolo delle Libertà". E annuncia (anche lei) il trasloco nel Gruppo Misto, che di questo passo, tra transfughi dell'una e dell'altra parte, diventerà il primo partito del Parlamento italiano.

"Donne sull'orlo di una crisi di nervi". È il minimo che si possa dire, della nutrita e colorita "quota rosa" che anima la vita politica, notturna e diurna, di questo centrodestra. Ma sarebbe un gioco fin troppo facile limitare l'analisi al problema (pur drammaticamente e statisticamente rilevante) della convivenza della componente femminile in un partito machista e sessista come quello berlusconiano. Qui c'è di più. La diaspora "di genere" che si è aperta dentro il Pdl è il sintomo più oggettivo e vistoso della dissoluzione finale di un ciclo politico. Le donne del Capo non obbediscono più, perché sentono che il Capo non comanda più. Il Cavaliere non è uscito da trionfatore, dall'ordalia parlamentare del 14 dicembre. È uscito da sopravvissuto. E non alla testa di un "governo di legislatura", ma alla coda di un "governo della non sfiducia". Un Andreotti qualsiasi, senza l'ambizione del disegno politico che, nel bene o nel male, resse per quasi un biennio quell'esperienza del 1976. Il "divorzio" della Prestigiacomo certifica questo decadimento progressivo, che ci accompagnerà almeno fino all'11 gennaio, quando cadrà l'unico appuntamento che sta davvero a cuore al presidente del Consiglio: la decisione della Consulta sul legittimo impedimento. Fino ad allora, sarà "caos calmo", per usare un'altra metafora cinematografica. Poi, a seconda di quello che decideranno gli ermellini della Corte costituzionale, può succedere di tutto. Chi non ricorda il finale del "Caimano" di Nanni Moretti, se lo vada a riguardare. È ancora cinema. Ma non lo è forse anche quello che stiamo vedendo ogni giorno?

m.giannini@repubblica.it

(22 dicembre 2010)
http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2010/12/22/news/donne_sull_orlo_di_una_crisi_di_nervi-10502765/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il delirio del potere
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2010, 06:37:52 pm
IL COMMENTO

Il delirio del potere

di MASSIMO GIANNINI

COME Charlie Chaplin con un gigantesco mappamondo tra le mani, Silvio Berlusconi contempla un orribile 2010 esaltando gli splendori del pianeta "pacificato" grazie alle sue virtuali capacità taumaturgiche, e non vede le reali miserie politiche ed economiche nelle quali sta precipitando il Paese che governa. Il presidente del Consiglio celebra il rito della conferenza stampa di fine d'anno tra la velleità ridondante del "Grande Dittatore" e la verbosità estenuante di Fidel Castro.

Il mondo gli deve tutto: lui ha "imposto a Obama e Medvedev la sigla del Trattato Start" sulle armi nucleari, lui "ha fermato i carri armati russi a 20 chilometri da Tbilisi", lui ha "suggerito a Gheddafi di dare una casa di proprietà di 25 metri quadrati a ogni libico", lui si occupa "da trent'anni di Medioriente, per sanare la ferita aperta tra israeliani e palestinesi".

Un delirio di onnipotenza imbarazzante. Che svanisce miseramente quando il Cavaliere è costretto suo malgrado a ripiegare lo sguardo sui disastri della povera Italia. Qui emerge un ricettario di impotenza inquietante. Il premier non ha una soluzione da offrire, per nessuno dei problemi che tormentano il Paese. Dalla governabilità politica alla crisi economica. Dal disagio sociale al divario inter-generazionale. Nell'eterna transizione italiana, Berlusconi non sa indicare alcun approdo. Sul piano dell'immagine, l'alluvionale "performance" di Villa Madama ci regala soprattutto questo: un leader non più
capace della "narrazione" che gli ha consentito di stravincere tre elezioni in quindici anni. Demiurgo con il sole in tasca, è ideale per cavalcare i tempi d'oro, ma del tutto inadatto a gestire i tempi di ferro. Parafrasando Ilvo Diamanti: l'uomo della Provvidenza non c'è più, l'uomo dell'Emergenza non c'è mai stato.

Sul piano politico, le quasi tre ore di vaniloquio berlusconiano ci consegnano un premier palesemente indebolito dalla vittoria di Pirro del 14 dicembre. Un premier costretto al puro galleggiamento, di qui all'inizio del 2011. In attesa del buon esito di un'improbabile, ulteriore tornata di affari al "mercatino di gennaio", come si conviene alla truce campagna-acquisti parlamentare avviata alla vigilia del voto sulla fiducia di due settimane fa. In attesa, soprattutto, della sentenza della Consulta sul legittimo impedimento, fissata per l'11 gennaio. Sarà quello il vero snodo della legislatura, perché al dunque, l'unica cosa che sta a cuore al Cavaliere è il suo destino processuale, dal quale non può scindere il suo destino politico. In questa quiete che prepara la tempesta, il Cavaliere navigherà a vista.

La sua lettura del quadro politico attuale e potenziale è un coacervo di contraddizioni. "Con tre voti di maggioranza si può governare", dichiara. Ma al tempo stesso proprio lui evoca i "governi di minoranza" che già guidano altre grandi democrazie, dalla Germania della Merkel all'America di Obama, passando per il Canada. È "ragionevole" aprire un tavolo con il Terzo Polo, annuncia. Ma poi quantifica in appena 325 la quota dei deputati raggiungibili di qui al prossimo mese: una Linea Maginot francamente modesta, e dunque destinata a franare comunque. Considera "irragionevole" il ritorno alle urne, ma poi torna lui stesso ad ipotizzare le elezioni anticipate, "se non dovessimo avere una maggioranza sufficiente in tutti e due i rami del Parlamento".

Tutto è il contrario di tutto. Con una sola certezza: l'orizzonte corto di questo governo e di questa maggioranza. Con un leader che mangia il panettone di Natale, ma non ha munizioni per fronteggiare il Generale Inverno che attanaglia il Paese. Al cronista che gli chiede conto dei dati ufficiali sui freschi record negativi italiani nella disoccupazione, nella competitività e nella pressione fiscale risponde solo "faccia un bagno di ottimismo". E alla domanda "ha in mente qualcosa di specifico" per fronteggiare queste emergenze, replica l'irreplicabile: "No, non ce l'ho". Testualmente. Detto dal capo di governo di un Paese con crescita zero e con i fucili puntati della speculazione internazionale, c'è da rabbrividire.

Come c'è da rabbrividire sul rilancio del "grande partito dei moderati". Al fondo, l'unico messaggio forte di questa kermesse berlusconiana di fine d'anno è l'ennesimo attacco devastante alla magistratura. Un ricatto ai pm, riuniti "in un'associazione per delinquere con finalità eversive": processatemi pure, poi ne risponderete in una commissione parlamentare d'inchiesta. E una minaccia ai giudici della Corte costituzionale, "organo non più di garanzia perché in mano alla sinistra": bocciate pure la legge sul legittimo impedimento, e la vostra sarà "una sentenza politica". Ineccepibile: è la versione berlusconiana della "leale collaborazione tra le istituzioni".
Ma qui, ancora una volta, sta la vera posta in gioco. Il ciclo politico berlusconiano si può chiudere com'era cominciato: con l'ossessione giudiziaria. La fuga dalla responsabilità penale, sanata per sempre dal suffragio popolare. Se l'11 gennaio la Consulta farà saltare questo nesso "sacrale" (e, nella visione tecnicamente totalitaria del premier, fondativo di un nuovo potere non tangibile e non imputabile) salterà il tavolo della politica. Berlusconi imboccherà la via delle elezioni anticipate, privilegiando l'interesse personale a dispetto dell'interesse nazionale. E non farà prigionieri, lanciandosi in una campagna elettorale feroce. Consumata nelle tv, nelle piazze e persino nelle aule di tribunale. È l'ultima scena del Caimano di Nanni Moretti. Speravamo fosse una finzione. Rischia di diventare una realtà.

m.giannini@repubblica. it

(24 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2010/12/24/news/commento_giannini-10557976/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il sistema Marchionne
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2010, 08:54:16 pm
IL COMMENTO

Il sistema Marchionne

di MASSIMO GIANNINI

Nel Paese degli opposti estremismi, il caso Fiat è diventato un paradigma della Modernità.
Sedicenti leader sindacali lo usano con poca prudenza: una clava da brandire contro i "padroni", rispolverando un conflitto di classe irripetibile e rievocando un clima di fascismo improponibile. Ma sedicenti pensatori liberali lo usano con poca conoscenza: una pietra angolare del riformismo, da lanciare contro tutti i conservatorismi.

Pomigliano e Mirafiori si impongono nel discorso pubblico come luoghi-simbolo di ogni cambiamento, non solo industriale.
Secondo questa chiave di lettura, conservatrici sono quelle migliaia di operai che non si adattano all'idea di veder ridotto il perimetro dei diritti e peggiorato il modo della produzione. Conservatrici sono quelle casamatte della sinistra sindacale che non si rassegnano alla dura legge del mercato globale. Conservatrici sono quelle trincee della sinistra politica che non scorgono nella trasformazione post-fordista della fabbrica l'opportunità di riscrivere il proprio decalogo di valori. Conservatrici sono persino quelle frange della rappresentanza confindustriale, con modelli di relazioni solide nel settore pubblico delle public utilities e collaudate nel settore privato delle piccole imprese, che non capiscono la chance irripetibile offerta dalle vertenze-pilota aperte dal Lingotto.

Chi non accetta la "dottrina Marchionne" è dalla parte sbagliata della Storia. Quasi a prescindere.
E così, per sconfiggere l'ideologia delle vecchie sacche di resistenza corporativa, si adotta un'ideologia uguale e contraria: quella delle nuove avanguardie della "modernizzazione progressiva". Questa impostazione del problema Fiat deflagra in modo potente, e patente, con l'ennesima firma separata prima sugli accordi per Mirafiori e ora sulla riapertura di Pomigliano. Pochi ragionano sui contenuti degli accordi. Molti si preoccupano di giudicare i torti della Fiom che ancora una volta si è sfilata dal tavolo. La si può raccontare come si vuole. Ma in questa vicenda ci sono due dati di fatto, oggettivi e incontrovertibili. Il primo dato: l'accordo di Pomigliano doveva essere un'eccezione non più ripetibile. Si è visto ora a Mirafiori che invece quell'eccezione, dal punto di vista della Fiat, deve diventare la regola. Chi ci sta bene, chi non ci sta è fuori da tutto, dalla rappresentanza e dunque dall'azienda. Il secondo dato: questo accordo è obiettivamente peggiorativo della condizione di lavoro degli operai e della funzione di diritto del sindacato. Si può anche sostenere che non c'erano alternative, e che firmare era la sola opzione consentita, per evitare che la Fiat smobilitasse. Tuttavia chi oggi parla di "svolta storica" abbia il buon senso di riconoscere che si è trattato di una firma su un accordo-capestro basato su un ricatto.
Legittimo, per un'impresa privata. Ma pur sempre ricatto.

Per questo c'è poco da brindare di fronte al passo compiuto dal nostro sistema di relazioni industriali verso la "terra incognita" indicata da Marchionne. Per questo fanno male i modernizzatori, che inneggiano agli accordi separati di Mirafiori e Pomigliano come se si trattasse degli accordi di San Valentino dell'84 (quelli sì, davvero storici) che troncarono il circolo vizioso del "salario variabile indipendente" e salvarono l'Italia dalla vera tassa occulta che falcidia gli stipendi, cioè l'inflazione. La verità è che in questa partita quasi tutti i giocatori usano carte false o fingono di avere carte che non possiedono.

Il giocatore che non ha carte da giocare è il governo.
Berlusconi non è Craxi, e Sacconi non è Visentini. Questo governo non è stato capace di mettere in campo uno straccio di proposta, né sulle misure per la competitività del sistema né sulla legge per la rappresentanza: ha saputo solo gettare benzina ideologica sul fuoco delle polemiche. Il giocatore che non ha carte da giocare è anche il Pd, che sa solo dividersi e non sa capire che l'unico metro per misurare il suo tasso di riformismo sta nel proporre un'agenda alternativa e innovativa per la crescita del Paese, un progetto per l'occupazione, per la produzione del reddito e per la sua redistribuzione. E sta nel riconoscere i diritti, uguali e universali, nel difenderli dove e quando serve, rinunciando a tutto il resto.

Il giocatore che usa carte false è il sindacato.
La Fiom ha le sue colpe, per non aver saputo accettare il confronto con solide controproposte e non aver voluto prendere di petto il drammatico problema dell'assenteismo nelle fabbriche. La Cgil ha le sue ambiguità, per non aver potuto ricondurre a unità la sua dialettica interna, ancora dominata da una logora "centralità metalmeccanica". Ma Cisl e Uil che si gridano "vittoria" spacciano carte false. Bonanni e Angeletti porteranno a lungo sulla coscienza una gestione gregaria dei rapporti con la politica e con la Fiat, e un accordo che per la prima volta riconosce il principio che chi non accetta i suoi contenuti non ha più diritto di rappresentanza sui luoghi di lavoro. C'è poco da festeggiare, quando peggiorano le condizioni di lavoro e si comprimono gli spazi del diritto, a meno che non ci si accontenti di monetizzare tutto questo con 30 euro lordi di aumento mensile.

Il giocatore che bluffa, infine, è Sergio Marchionne.
Ha il grande merito di aver salvato la Fiat quando il gruppo era a un passo dalla bancarotta, e di aver lanciato il gruppo da una proiezione domestica a una dimensione finalmente sovranazionale, grazie all'accordo con Chrysler. Ma ora il "ceo" col golfino e senza patria, l'inafferrabile manager italo-svizzero-canadese che vive "tra le nuvole" (come il George Clooney dell'omonimo film) in transito perenne tra il Lingotto e Auburn Hill, ha il dovere della chiarezza. Verso il Paese e verso i lavoratori. C'è una questione di merito. Nessuno ha ancora capito cosa ci sia nel piano-monstre Fabbrica Italia: quali e dove siano indirizzati i nuovi investimenti, quali e quanti siano i nuovi modelli di auto che il gruppo ha in programmazione, dove e come saranno prodotti. Nessuno ha ancora capito di cosa parla l'azienda quando esalta, giustamente, la via obbligata del recupero di produttività. Con le condizioni pessime nelle quali versa il Sistema-Paese, c'è davvero qualcuno pronto a credere che questa sfida gigantesca si vince riducendo le pause di 10 minuti al giorno, o aumentando gli straordinari di 80 ore l'anno? E' vero che in Germania e in Francia le pause sono già da tempo minori che in Italia. Ma solo un cieco può non vedere che Volkswagen e Renault hanno livelli di produttività giapponesi, macinano utili e aumentano quote di mercato grazie all'innovazione di prodotto e di processo, prima ancora che all'incremento dei tempi di produzione.

C'è poi una questione di metodo.
Dove porta questa volontà pervicace e quasi feroce di mettere fuori gioco la Cgil, con piattaforme divisive che servono solo a spaccare il fronte confederale? Dove porta questa necessità di disdettare il contratto dei meccanici e di uscire da Confindustria? Si dice che Marchionne punti a un modello di relazioni industriali all'americana, dove il parametro è Detroit e non più Torino. Probabilmente è così. Ma questo tradisce una volta di più i contenuti veri del Lodo Fiat-Chrysler. Non è la prima che ha comprato la seconda, com'è sembrato all'inizio. Ma in prospettiva sarà la seconda ad aver comprato la prima, nello schema classico del "reverse take-over".

Uno schema che non prevede compromessi.
Il modello è il capitalismo compassionevole degli Stati Uniti, non più il Welfare universale della Vecchia Europa. Se vi sta bene è così, altrimenti il Lingotto se ne va. Questa è la vera posta in palio del caso Fiat.

Alla faccia della Modernità.

m.gianninir@epubblica. it

(30 dicembre 2010) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2010/12/30/news/sistema_marchionne-10697942/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Generazione tradita
Inserito da: Admin - Gennaio 02, 2011, 06:48:20 pm
IL COMMENTO

Generazione tradita

di MASSIMO GIANNINI

Cani randagi nella notte scura, la vita no, non fa paura. Nelle parole di una vecchia canzone c'è la nuova fotografia di tanti giovani di oggi. Vagano irrequieti, a volte arrabbiati, quasi sempre sfiduciati. Abbaiano alla luna. Con un'aggravante: la vita, stavolta, fa davvero paura. Su questa sottile linea d'ombra, sul crinale sospeso tra protesta e proposta per una modesta "riforma" dell'Università, gli Invisibili tra i 18 e i 30 anni sembrano tornati al centro della scena pubblica.

A questa Generazione Tradita il presidente della Repubblica ha dedicato il suo messaggio di Capodanno. Parole non banali e non rituali, quelle di Giorgio Napolitano, che alla politica detta un'Agenda totalmente nuova e diversa. Che serva a restituire un'idea di futuro ai giovani, e quindi un progetto di crescita all'Italia intera. Che sia scritta fuori "dall'abituale frastuono e da ogni calcolo tattico". Ma proprio per questo, l'Agenda del Quirinale non ha chance per trasformarsi in un'Agenda di governo.

La diagnosi del Capo dello Stato è incontrovertibile. Il profondo malessere delle nuove generazioni. Il distacco abissale e allarmante tra la politica, le istituzioni e la società civile. La mancanza di opportunità di lavoro, senza le quali "la democrazia è in scacco". La disoccupazione che dilaga soprattutto tra i ragazzi e le donne, nella colpevole indifferenza dell'establishment, quando ci sarebbe l'urgenza di trasformarla invece "nell'assillo comune dell'intera nazione". Il dovere di estinguere
l'enorme cambiale del debito pubblico che nonni e padri hanno scaricato all'incasso di figli e nipoti, macchiandosi di una "colpa storica e morale". L'imperativo di tagliare il nodo delle disuguaglianze del reddito e della ricchezza, che hanno acuito "l'impoverimento di ceti operai e di ceti medi, specie nelle famiglie con più figli". La necessità che lo Stato dirotti risorse su scuola, formazione e cultura, razionalizzando la spesa corrente e rendendo "operante per tutti il dovere del pagamento delle imposte". L'opportunità che le imprese investano in ricerca e innovazione, perché "passa anche di qui l'indispensabile elevamento della produttività del lavoro". Sono dati di fatto drammatici. Interrogano la responsabilità delle classi dirigenti del Paese.

Ma chi raccoglierà concretamente la sfida, al di là degli encomi solenni e rigorosamente bipartisan che sempre accompagnano i moniti del presidente della Repubblica? Berlusconi, occupato a comprare qualche deputato in vista della ripresa dei lavori parlamentari e a minacciare qualche giudice della Consulta in vista della sentenza sul legittimo impedimento? Tremonti, impegnato a non far uscire un solo euro dal bilancio pubblico e a coltivare sogni para-leghisti da primo ministro in caso di collasso del berlusconismo? Marchionne, abituato a "volare alto" su queste miserie italiane e a misurare la produttività di un'azienda solo con il cronometro dei turni alla catena di montaggio? Oppure, sul fronte opposto. Fini e Casini, ingaggiati in un Terzo Polo che li costringe ad allearsi ma anche a marcarsi a vicenda? Bersani e Vendola, condannati a convivere e a confliggere, per impedirsi l'un l'altro di lanciare un'opa sull'intera sinistra? Bonanni e Angeletti, ormai consegnati mani e piedi a un "sindacalismo di maggioranza" dove conta solo la firma purchessia su un accordo, meglio se separato? La Camusso, obbligata prima o poi a una resa dei conti con la frangia interna del "pansindacalismo metalmeccanico"?

Nell'Italia politica di oggi, purtroppo, non si vedono le condizioni per raccogliere la lezione civile impartita da Napolitano. Anche il Capo dello Stato rischia di abbaiare alla luna.
Già a maggio il governatore della Banca d'Italia Draghi aveva avvisato: "I giovani sono le vere vittime di questa crisi". La disoccupazione nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni è pari al 24,7% a livello nazionale e al 35,2% nel Sud. Quasi il 60% dei disoccupati totali ha meno di 34 anni. Le assunzioni nel 2009 sono diminuite del 30%, mentre quelle andate in porto sono regolate quasi tutte da contratti temporanei. Ma intanto, come avverte Pierluigi Celli nel suo ultimo libro, il 90% dei licenziamenti degli ultimi due anni ha riguardato contratti a tempo determinato. Ciò significa che i giovani pagano due volte il costo della flessibilità: in entrata (hanno solo contratti a tempo) e in uscita (sono i primi a perdere il posto).

La pubblica istruzione non aiuta. Scuola e università, con o senza legge Gelmini, sono e continueranno ad essere come li descriveva Alberto Ronchey quasi trent'anni fa: parcheggi antropologici. I nostri laureati sotto i 30 anni hanno un tasso di occupazione inferiore del 20% alla media europea. Le retribuzioni medie, in ingresso, sono inferiori di oltre il 50%. Tutto questo è noto da anni. Eppure la politica non ha mosso un dito. Dobbiamo solo fare "un bel bagno di ottimismo", come ha proposto il Cavaliere nella sua indecente conferenza di fine d'anno. E invece ha di nuovo ragione Napolitano, quando lo avverte che "non possiamo consentirci il lusso di discorsi rassicuranti e di rappresentazioni convenzionali del nostro lieto vivere collettivo".

Non lo ascolteranno. Perché al dunque, a dispetto di una certa vulgata "liberale" terzista e a tratti fiancheggiatrice di questo centrodestra, sono loro, i governanti di oggi, i primi veri "conservatori". Sono loro che in due anni e mezzo non hanno cambiato di una virgola la "narrazione" fasulla intorno a questo Paese. I giovani scendono in piazza. Qualche delinquente indulge alla violenza, macchiando un intero movimento ed offrendo nuovi alibi al vecchio Potere. Ma non c'è un assedio al Palazzo d'Inverno, non c'è una piazza che urla e si oppone alle dure e indispensabili "cure" somministrate al Paese. Chi protesta, chi sta male, chi è inquieto, lo fa per la ragione contraria, e cioè perché da troppo tempo non si vede una sola riforma.
"Gli abbiamo intossicato il futuro", è l'autocritica dolente che Zygmunt Bauman ha formulato di fronte ai disagi dei giovani d'oggi. "Tornatevene a studiare, invece di tirare le molotov", è la critica sprezzante con cui li ha liquidati Berlusconi, pochi giorni prima che Napolitano li ricevesse sul Colle.

Tra queste due "visioni" c'è un abisso spaventoso. L'Italia ci sta precipitando dentro.

(02 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/02/news/generazione_tradita-10774162/?ref=HREC1-3


Titolo: MASSIMO GIANNINI Dal federalismo al deficit: Tesoro in trincea nel governo.
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2011, 03:25:59 pm
IL RETROSCENA

Tra politica ed euro-crac così è nato il "fantasma" Tremonti

Dal federalismo al deficit: Tesoro in trincea nel governo.

Per Berlusconi il ministro è diventato una nuova ossessione: teme che il "genio dei numeri" diventi il "capo dei congiurati"

di MASSIMO GIANNINI

La "cena degli ossi". Gli ultimatum di Bossi. Il complotto dei "rossi". Sono tanti gli spettri che turbano i sonni del presidente del Consiglio. L'ipotesi che la Consulta non dia via libera alla legge sul legittimo impedimento, riaprendo la caccia dei "pm al servizio dei comunisti", è tutt'altro che campata in aria. L'aut aut del leader della Lega, o il federalismo entro il 23 gennaio o si va al voto, è tutt'altro che uno scherzo. Ma sullo sfondo, c'è un altro spettro che lo inquieta di più perché, per sventura politica e congiuntura economica, li sintetizza tutti: è Tremonti.

Il "fantasma di Giulio" è la nuova ossessione del Cavaliere. La sua paura è che il "genio dei numeri" diventi il "capo dei congiurati", per sostituirlo a Palazzo Chigi. Ogni mossa del superministro viene letta dal premier come un tentativo di sabotare il suo governo e di affossare la sua leadership. Basta che Tremonti si attovagli con i vertici del Carroccio in Cadore. Basta che neghi risorse ad Alfano o alla Gelmini. Basta che dica "la crisi non è finita". Indizi che, messi insieme, fanno la prova: "Giulio vuole farmi fuori". Così, assediato dal fantasma di Tremonti, Berlusconi non vede il vero fantasma che si aggira sull'Europa: quello di una nuova tempesta finanziaria.

Ieri la presidenza del Consiglio è tornata a smentire dissidi con il Tesoro. Ma per avere la conferma che il dissidio c'è basta sfogliare "il Giornale" di famiglia. "Tutti gli incubi di Tremonti", era il titolo di apertura di ieri. Oltre all'allarme sull'andamento dell'economia rilanciato il giorno prima dal ministro a Parigi, ampio risalto all'inchiesta della Procura di Napoli su Marco Milanese, parlamentare Pdl e collaboratore di Tremonti a Via XX Settembre. Un segnale preciso. Non siamo ancora al trattamento-Boffo o alla terapia-Fini. Ma il piano inclinato, sul quale si sta posizionando la solita "macchina del fango", potrebbe sembrare lo stesso.

Quello che c'è da capire è perché, nella mente del premier, nasce e prende corpo il fantasma di Tremonti. E qui, appunto, si incrociano due "cromosomi". Il cromosoma X è la politica. E la politica dice chiaramente due cose. La prima: la maggioranza forzaleghista alla Camera e nelle commissioni non c'è più, e non basta l'integrazione di 10 parlamentari "comprati" a tenere in piedi la coalizione. La seconda: il Carroccio è disposto a tenere in piedi questa maggioranza solo se porta a casa il federalismo fiscale, e non basta l'approvazione dei decreti ma serve la loro effettiva attuazione. Questi, al dunque, sono stati i piatti forti della "cena degli ossi" di martedì scorso all'Hotel Ferrovia di Calalzo: Bossi, Calderoli e Tremonti hanno convenuto sul fatto che "senza una maggioranza organica, e non solo numerica, non si va da nessuna parte". Perché "fare il federalismo fiscale non vuol dire soltanto varare i decreti entro le prossime due settimane: poi bisogna gestire la loro realizzazione, e bisogna reggerli politicamente".

Proprio per questo, la preoccupazione condivisa del Senatur e del superministro è una maggioranza risicata ed episodica, che "il voto se lo deve conquistare tutti i giorni, perché governare è un sondaggio quotidiano". Proprio per questo, pur non volendo tradire il patto con Berlusconi, i due potrebbero essere comunque propensi ad "allargare gli orizzonti delle alleanze" (e dunque a sostenere un'altra maggioranza, senza ricorrere alle elezioni anticipate) se il premier non dovesse riuscire ad evitare la crisi. Bossi, mentre il Cavaliere tuona contro "i comunisti in cachemire", dichiara che lui con i "comunisti" ci dialoga, e sulla road map del federalismo si confronta ogni giorno col sindaco di Torino Chiamparino e col governatore dell'Emilia Errani. E Tremonti, mentre il Cavaliere lancia i suoi anatemi contro il Pd, parla con D'Alema e si prepara a intervenire il 20 gennaio al convegno sull'austerity di Enrico Berlinguer insieme a Nicola Zingaretti. È proprio questa "intelligenza col nemico" dell'asse padano che genera la sindrome da accerchiamento del Cavaliere.

Il cromosoma Y è l'economia. E l'economia dice essenzialmente due cose. La prima: la congiuntura va male in tutto il mondo, e l'Europa rischia una nuova crisi finanziaria. La seconda: l'Italia è nel mirino dei mercati, e non può permettersi un solo passo falso con i partner dell'Ue. E qui Tremonti è più che mai al centro dei "giochi". Ieri, a Parigi, ha detto chiaro quello che pensa da tempo: "La crisi è proteiforme, e appena crediamo di aver battuto il mostro, questo si ripresenta altrove". Il superministro non ha parlato a sproposito. I suoi interlocutori, a livello di Eurozona, sono stati espliciti: "Già dalla prossima settimana - dicono - sui mercati potrebbe partire un'ondata di attacchi speculativi contro i Paesi deboli di Eurolandia".

Le avvisaglie ci sono tutte. Dall'America Geithner parla di "rischio default" ed evoca un debito americano pari al 185% del Pil (400% se venisse calcolato secondo i nostri standard). In Germania, dopo il formidabile traino dovuto all'export tedesco dovuto al piano keynesiano di investimenti cinesi, la produzione industriale rallenta. In Irlanda, per la prima volta nella storia, i "credit default swaps" a 5 anni contro i rischi di insolvenza costano più di quelli argentini. In Belgio, che oggi conquisterà il record storico in Europa con 209 giorni senza governo, si addensano nubi pesantissime. In Portogallo la situazione precipita, e la Banca centrale svizzera si rifiuta di sottoscrivere bond di Lisbona. In Spagna si teme per il sistema creditizio, e si sussurra addirittura di "enormi problemi di liquidità" per una delle principali banche del Paese. Il sistema bancario franco-tedesco è esposto su Madrid per un trilione di euro. "E - come ripetevano l'altro ieri a Parigi gli interlocutori di Tremonti - se salta la Spagna salta l'euro, perché quel Paese non è tanto "too big to fail", ma "too big to save"...".

Questo è il panorama dell'eurozona, del quale Berlusconi non si occupa, ma del quale il superministro del Tesoro si preoccupa. Perché l'Italia, a dispetto dei "bagni di ottimismo" invocati dal Cavaliere, c'è dentro fino al collo. Ieri, in una giornata di tensione per tutti i Pigs, gli spread dei nostri titoli di Stato rispetto a quelli tedeschi sono tornati vicini a 200 punti base. "Finora l'Italia ha tenuto bene i suoi conti - è il ragionamento che i colleghi di Tremonti gli hanno ripetuto a Parigi - raggiungerete il 5% previsto nel rapporto deficit/Pil. Ma il fatto che nel 2010 abbiate "tenuto" non significa che adesso potete ricominciare a spendere: semmai che dovete fare ancora meglio quest'anno...".

Ecco perché Tremonti ripete "la crisi non è finita". Ecco perché respinge le pressioni del Cavaliere, che si lamenta della sua "rigidita da tecnico" e ora gli chiede la "flessibilità del politico" nell'uso delle risorse. Ma a queste richieste, visto l'inesorabile "vincolo esterno che ci lega", il superministro non può cedere. Non può cedere ad Alfano, che deve trovare i fondi per l'informatizzazione dei tribunali nel bilancio del ministero della Giustizia. Meno che mai può cedere alla Gelmini, che in un'intervista al "Sole 24 Ore" si illude di poter trasformare il decreto mille-proroghe "nell'appendice della vecchia Legge Finanziaria". Raccontano che in queste ore Tremonti, oltre al leggendario barattolo di pelati Cirio, si tenga sulla sua scrivania una frase di Quintino Sella: "Il bilancio dello Stato contiene vizi e virtù di un popolo". In questa fase rovente, il Tesoro tiene solo alle virtù, e non può cedere ai vizi degli "irresponsabili" che non sanno cosa stiamo rischiando e che, credendo di evitare la "bancarotta del governo" con una impossibile "fase due", finirebbero per causare la "bancarotta del Paese". Ma è proprio questa "linea del rigore", che per il superministro è un "impegno europeo inderogabile" e non una "astrazione numerologica", che alimenta la psicosi del complotto nel Cavaliere.

Dunque, il fantasma di Tremonti nasce così. Dalla combinazione di questi due elementi. "L'amico Giulio", per ruolo politico e per funzione governativa, presidia un crocevia fondamentale per i destini della legislatura. Da un lato c'è l'obiettivo del federalismo fiscale, che per la Lega può richiedere una piattaforma politica più larga di quella (sempre più esigua) ormai condivisa con il solo Pdl. Dall'altro lato c'è una possibile crisi finanziaria, che come hanno confermato al superministro gli "amici" a Parigi "condiziona e condizionerà la politica economica italiana" e impedirà a chiunque governi "di fare il furbo con qualunque forma di disimpegno contabile". Questo è lo scenario, problematico se non addirittura drammatico, dei prossimi quindici giorni. Più che per Tremonti, un incubo per Berlusconi.

(08 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/08/news/giannini_tremonti-10966863/?ref=HREC1-8


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il patto diseguale
Inserito da: Admin - Gennaio 15, 2011, 11:07:28 am
IL COMMENTO

Il patto diseguale

di MASSIMO GIANNINI

La vera sfida di Mirafiori comincia adesso. Sapremo solo a notte fonda l'esito del referendum . Ma quando il nuovo paradigma della modernità impone una riscrittura così radicale del patto tra Capitale e Lavoro, rifondandolo sullo scambio disuguale e asimmetrico tra un salario e il nulla, l'esito sembra scontato.

"Vinceranno i sì, anche se in molti avrebbero preferito votare no", era la previsione della vigilia. I primi voti scrutinati danno un risultato diverso, con i sì e i no in bilico intorno al 50%. Già questo sarebbe un risultato clamoroso, che potrebbe far saltare tutti gli scenari. Con la sua consueta, lapidaria schiettezza, l'amministratore delegato del Lingotto Sergio Marchionne aveva spiegato la sua linea: se prevalgono i sì andiamo avanti con l'investimento e diamo una scossa all'Italia, se prevalgono i no ce ne torniamo a festeggiare a Detroit e ce ne andiamo a fare auto in Canada. Una posizione "win-win": io vinco comunque. La realtà è assai più complessa. In attesa di capire l'esito della consultazione, qualcosa si può dire subito. Su due punti fondamentali: i contenuti dell'accordo e sulle prospettive che si aprono.

1) Sui contenuti dell'accordo. È diseguale lo scambio sui diritti (ammesso che su questo terreno, nonostante la dura legge della globalizzazione, qualcosa si possa e si debba scambiare nelle democrazie occidentali). Ma si potrebbe dire: hai ceduto sul diritto individuale allo sciopero, hai ceduto sul "mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d'azienda", hai ceduto sui "diritti di costituzione e di assemblea delle rappresentanze sindacali aziendali". Ma in cambio hai ottenuto la versione italiana della Mitbestimmung, cioè la co-gestione conquistata da decenni dai sindacati tedeschi della Ig-Metall, presenti nei consigli di sorveglianza della Volkswagen, oppure la partecipazione all'azionariato ottenuta dai sindacati americani dell'Uaw, presenti nei consigli di amministrazione con il 63% della Chrysler. E invece non è così.

È diseguale lo scambio sulle retribuzioni (ammesso che siano vere le cifre scritte dall'azienda sull'accordo separato). Si potrebbe dire: hai ceduto sulle pause ridotte, hai ceduto sui turni, hai ceduto sulle indennità di malattia. Ma in cambio hai ottenuto l'allineamento del tuo salario medio annuo (23 mila euro in Italia) a quello dei tuoi colleghi tedeschi (42 mila euro in Germania). E invece non è così. La tua pausa ridotta vale 18 centesimi l'ora, cioè un euro al giorno, cioè 32 due euro al mese, lordi e persino esclusi dal calcolo del Tfr. Il tuo straordinario possibile, 120 ore all'anno, è a discrezione dell'azienda, vale teoricamente 3.600 euro di aumento futuro, ma sconta una contraddizione attuale: l'accordo prevede "la cassa integrazione straordinaria, per crisi aziendale... per tutto il personale a partire dal 14 febbraio per la durata di un anno". Come potrai fare lo straordinario, se starai in Cig per tutto il 2011?

2) Sulle prospettive future. Resta il sospetto che fossero vere le affermazioni sfuggite a Marchionne a "Che tempo che fa", il 24 ottobre: "Senza l'Italia la Fiat potrebbe fare molto di più...". Produrre auto in Italia, per la Fiat, è un problema che neanche l'accordo su Mirafiori può risolvere. Al supermanager italo-svizzero-canadese, apolide e multipolare, il Belpaese non conviene. Per due ragioni di fondo.

Non c'è convenienza "politica". Lo dicono i fatti. Finora il salvataggio e il rilancio della Fiat sono avvenuti sulla base di uno schema collaudato con gli Stati: io costruisco, salvo o rilancio le fabbriche, tu mi paghi. È avvenuto in una prima fase in Italia, finché sono andati avanti gli ecoincentivi. È accaduto in Messico, dove il Lingotto ha ottenuto un prestito statale da 500 milioni per rifare l'impianto di Toluca. È accaduto in Serbia, dove per l'impianto di Kragujevic il gruppo incassa un contributo statale di 10 mila euro per ogni assunzione. È accaduto in America, dove l'operazione Chrysler è passata attraverso il "bailout" pubblico da 17 miliardi di dollari. E sta accadendo in tutti gli altri Paesi dove la Fiat vuole essere presente, dal Canada al Brasile, dall'Argentina alla Polonia.

Nel mondo i governi stanno spendendo soldi per salvare l'auto, e tra i principali stakeholder del settore ci sono proprio gli Stati. Obama ha speso 60 miliardi di dollari per le Chrysler, Ford e Gm. Sarkozy ha speso 7 miliardi per Psa-Renault. La Merkel ha speso 3 miliardi per la Opel. In Italia gli aiuti pubblici sono finiti nel 2004. Per la Fiat, dunque, lo Stato non è un interlocutore. E non lo è il governo, che non ha un euro da spendere e un "titolo" per intervenire. Ecco perché Marchionne può andarsene, se crede e quando crede, con la "benedizione" di Berlusconi, che in due anni (di cui quasi uno da ministro dello Sviluppo ad interim) non ha trovato il tempo per convocare almeno una riunione sul caso Fiat.

Non c'è convenienza economica. Lo dicono i numeri. La Fiat produce all'incirca 2,1 milioni di automobili l'anno. Circa 730 mila sono in Brasile, dove lavorano 9.100 dipendenti: ogni operaio sforna 77,6 automobili. Circa 600 mila in Polonia, dove lavorano 6.100 dipendenti: 100 auto per ogni operaio. In Italia 22.080 operai producono meno di 650 mila auto: 29,4 auto per dipendente. Il tasso medio di utilizzo degli impianti, da noi, oscilla tra il 30 e il 40%, con punte bassissime a Cassino (24%) e a Pomigliano (14%), contro una media dell'80% negli impianti dei costruttori franco-tedeschi. Su queste basi, in teoria, si fonderebbero gli accordi separati a Pomigliano e Mirafiori: bisogna lavorare di più, per schiodare l'Italia dallo scandaloso 118esimo posto (su 139) nella classifica Ocse sull'efficienza del lavoro.

Ma qui c'è il grande rebus e il grande limite della Dottrina Marchionne. Il grande rebus: riportare il coefficiente di utilizzo degli impianti a livelli competitivi è un impegno colossale: può bastare il "modello" di accordo sottoscritto da Fim, Uilm, Fismic e Ugl il 23 dicembre scorso? Nessuno, realisticamente, lo può credere. Non può bastare la rimodulazione dei turni su quattro diverse tipologie. Non può bastare la riduzione di 10 minuti delle pause giornaliere infra-turno. Non possono bastare le 120 ore annue di "lavoro straordinario produttivo". Non può bastare il disincentivo all'assenteismo basato sul mancato pagamento del primo giorno di malattia collegata a periodi pre o post festivi. Non può bastare nemmeno la "nuova metrica del lavoro" imposta dal famigerato metodo "Ergo-Uas", la scomposizione post-taylorista dell'ora di lavoro di ogni operaio in 100 mila unità di "tempo micronizzato" e la previsione pseudo-orwelliana di 350 operazioni effettuate dal singolo operaio in 72 secondi ciascuna.

Il problema della produttività non si risolve così, senza una strategia sull'innovazione di prodotto. Produrre di più per fare che cosa? Questo è il grande limite della Dottrina Marchionne. Se con un colpo di bacchetta magica il "ceo" riuscisse a far lavorare gli impianti italiani a ritmi di produttività tedeschi o americani, e se per magia ogni operaio di Mirafiori o di Pomigliano sfornasse 100 automobili all'anno come il "collega" serbo, la Fiat non saprebbe che farne. Le vetture prodotte in più resterebbero invendute nei piazzali. La Fiat non è in affanno perché la sua offerta, sul piano dei volumi, non riesce a soddisfare la domanda. Non è in affanno per ragioni di quantità, ma di qualità. È in difficoltà perché non ha nuovi modelli, soprattutto nella gamma alta e nel segmento a più elevato contenuto ecologico e tecnologico. E perché i modelli che ha soffrono sempre di più la concorrenza straniera. Nel 2010 il calo delle immatricolazioni Fiat (meno 16,7%) è il doppio della media del mercato (-9,2). E la quota di mercato si è ridotta al 30% (era 32,7 nel 2009).

Sulla carta, il rilancio di Mirafiori dovrebbe servire a colmare queste lacune. Con la produzione di "automobili e Suv di classe superiore per i marchi Jeep e Alfa Romeo". Con la possibilità di "produrre fino a più di mille auto al giorno per un totale di 250-280 mila vetture l'anno". Con l'investimento promesso che "supera il miliardo di euro, suddiviso tra Fiat e Chrysler". Questo è l'impegno del Lingotto, affidato al comunicato stampa accluso all'intesa e sottoscritto dai sindacati firmatari. Non c'è nulla, nel testo dell'accordo, che ne garantisca il rispetto. E non c'è nulla, nel misterioso piano "Fabbrica Italia" da 20 miliardi, che apra uno scenario industriale plausibile sui prossimi dieci anni. Si tratta allora di aggrapparsi disperatamente a quello che si ha, qui ed ora. E per il futuro, affidarsi a Marchionne. Una "scommessa" giocata su una "promessa". Il rischio è altissimo. Se fallisce, perdono tutti. Perdono i sindacati e la politica. Ma perde anche la Fiat. E perde anche Marchionne, anche se se ne torna a brindare a Detroit.
m.giannini@repubblica.it

(15 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/economia/2011/01/15/news/patto_diseguale-11242599/?ref=HRER3-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI E Bersani rilancia l'offerta al ministro dell'Economia
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2011, 05:38:24 pm
IL RETROSCENA

Svolta centrista e ribaltone Lega per Berlusconi l'incubo del 1994

Dopo il cambio di linea di Udc, Fli e Api sul federalismo il premier preoccupato ha voluto incontrare sia Tremonti che Calderoli.

E Bersani rilancia l'offerta al ministro dell'Economia

di MASSIMO GIANNINI


È IL GIORNO della tenaglia. Da una parte le istituzioni, dal Quirinale alla Chiesa, che attaccano Berlusconi sullo scandalo Ruby. Dall'altra le opposizioni, dal Pd al Terzo Polo, che lo assediano sul federalismo. Stretto in questa morsa, il Cavaliere cerca una disperata resistenza. Ma mentre sembra voler reggere a tutti i costi l'urto giudiziario dell'inchiesta della procura di Milano sul suo impeachment sessuale, per il premier potrebbe rivelarsi persino più difficile reggere l'urto politico di uno stop alla riforma federale. Al prezzo di un'ulteriore torsione del nostro sistema democratico e dell'ennesima distorsione della verità dei fatti, il presidente del Consiglio può tentare di respingere le accuse dei pm. Quello che non può fare, è impedire all'unico alleato che ancora lo sostiene, cioè Umberto Bossi, di staccare la spina al governo se dovessero saltare i due decreti delegati attuativi del federalismo, all'esame delle commissioni parlamentari.

È l'incubo del '94, che allora travolse il primo governo del Cavaliere, quando la Lega ruppe sulle pensioni, e spianò la strada al governo "tecnico" di Lamberto Dini, cioè al famoso "ribaltone". Ieri questo incubo ha ripreso corpo, quasi all'improvviso, quando l'Associazione nazionale dei Comuni italiani da una parte, il Polo della Nazione dall'altra, hanno annunciato il no al pacchetto federalista assemblato da Tremonti e Calderoli. Una mossa a sorpresa, che a Palazzo Chigi nessuno si aspettava. "Sembrava tutto a posto -
diceva nel pomeriggio un ministro - il testo era stato concordato punto per punto con l'Anci, e mercoledì sera erano arrivate persino sollecitazioni dal Colle ad approvare in fretta i decreti. Poi tutto è cambiato, e non capiamo ancora il perché...".
Ma in attesa di capire cosa stesse accadendo, la mossa congiunta dei sindaci e dei centristi ha fatto temere al premier che, proprio sul federalismo, si fosse rinsaldato l'asse che punta a farlo cadere subito, ad evitare le elezioni anticipate e a far nascere un altro governo, magari guidato proprio dal superministro dell'Economia, con l'ovvio sostegno del Carroccio. Uno scenario da 1994, appunto. Con Tremonti al posto di Dini. E con una nuova maggioranza sostenuta dalla Lega di Bossi, dal Terzo Polo di Fini e Casini, dal Pd di Bersani e persino dall'Idv di Di Pietro. Fanta-politica? Può darsi. Forse anche fanta-matematica, visto che stiamo parlando di un'equazione da almeno una decina di incognite. Ma la preoccupazione del Cavaliere è fortissima. Anche per questo, ieri sera, ha voluto incontrare a Palazzo Grazioli prima Tremonti, poi Calderoli. Per avere chiarimenti su quanto sta accadendo sul federalismo. E per avere ancora una volta garanzie sulla "fedeltà" del suo ministro. Come lo stesso "amico Giulio" ha spiegato a un Silvio sempre più diffidente, il federalismo ha ora due nodi.

Il primo nodo è di natura "tecnica". Lo ha sollevato l'Anci, ed è un nodo complesso, anche se forse non inestricabile. Lo ha illustrato Sergio Chiamparino, sindaco di Torino e presidente dell'Anci, al telefono con lo stesso Tremonti: "Caro Giulio, voi avete drasticamente peggiorato il testo. Noi non possiamo accettare che a regime la nuova aliquota dell'Imu sia determinata attraverso la Legge di Stabilità. Se le cose stanno così, per il 2011 almeno la quota Irpef e l'imposta di soggiorno devono restare di competenza dei Comuni, altrimenti noi non possiamo neanche chiudere i bilanci. E se c'è un tributo la cui aliquota è fissata anno per anno dal governo, noi saremo costretti ogni volta a venire a Roma con il cappello in mano. E questo per noi è inaccettabile". Per questo, come ha annunciato Calderoli e poi ha confermato Bossi, il governo concederà una proroga sui tempi di approvazione del decreto sul federalismo municipale. "Siamo pronti a venire incontro alle esigenze dei sindaci - è il ragionamento di Tremonti - e quanto meno sul piano della tempistica siamo d'accordo a concedere un margine per una riflessione ulteriore". Gli enti locali, per ora, incassano questa disponibilità: "Vedremo se ci ascolteranno - aggiunge Chiamparino - perché per noi la questione, benché tecnica, è dirimente. Se i decreti non cambiano, saltano i bilanci dei Comuni. Questo non è federalismo, è un suicidio".

Il secondo nodo è invece di natura politica. Ed appare più insidioso e ingarbugliato. Nasce dalla sterzata del Terzo Polo, che ha deciso di mettersi di traverso e di esprimere parere contrario, se non saranno recepite le modifiche richieste ai decreti. "Perché Casini e Fini hanno deciso all'improvviso di cavalcare il no al federalismo, insieme alle opposizioni?", si chiedeva ieri sera Berlusconi, nel vertice con Calderoli e Tremonti. "Dobbiamo ragionare sulle mosse del Terzo Polo, altro che crogiolarsi sull'appoggio della Terza Gamba", è l'opinione dei ministri. E la strategia dei centristi ha in effetti cambiato in pochi giorni il quadro politico: "Prima sono passati dal Patto di pacificazione alle elezioni anticipate. Ora dicono no al federalismo, radicalizzano lo scontro e si ricompattano almeno su questo con il Pd. Tutto questo come si spiega, se non con il tentativo di dividere Berlusconi da Bossi, e magari di profilare alla Lega un patto implicito sul dopo-Berlusconi?". Questa era la domanda che circolava ieri sera tra i ministri forzaleghisti.

Allo stato attuale, con questo scarto terzopolista e con il passaggio di Mario Baldassarri all'opposizione, la maggioranza rischia di non avere i numeri per far passare i decreti delegati in Commissione Bicamerale. Sicuramente non li ha in Commissione Bilancio. Questo, per Bossi, è un campanello d'allarme. E per questo il Senatur si dichiara disponibile a trattare, ma a questo punto non si può più precludere altre soluzioni. Ripete che "se salta il federalismo si va a votare". Ma può essere tentato di aprire una trattativa con l'opposizione. "Umberto sarà leale fino all'ultimo minuto con Berlusconi - ripete un ministro che lo conosce meglio di chiunque altro - ma se vede che il federalismo è a rischio ci mette un minuto ad allargare gli orizzonti. E poi, per lui, il fascino degli amministratori comunisti è sempre forte...".

Al di là delle battute sui "comunisti", quanto è realistica l'ipotesi che si apra un dialogo tra Lega da una parte, Pd e Terzo Polo dall'altra, e che il federalismo diventi la merce di scambio per chiudere una volta per tutte la stagione berlusconiana? La suggestione c'è. Ma c'è anche la preoccupazione. Sul versante del centro, almeno allo stato attuale, i finiani hanno giurato che non farebbero mai patti di maggioranza o cartelli elettorali con il Pd. La stessa cosa hanno assicurato i casiniani, che non reggono accordi con un'opposizione allargata a Vendola e Di Pietro. Sul versante della sinistra, il Pd non sa se fidarsi né della Lega, né del Terzo Polo. "Io - riflette il leader Pierluigi Bersani - sono pronto ad offrire a Bossi la garanzia che oggi il Cavaliere non è in grado di dargli, cioè l'attuazione del federalismo, ma al momento mi pare che i due siano legati da un patto di sangue praticamente inossidabile". La stessa cosa vale per Casini e Fini: "Gli ho fatto la mia proposta di Alleanza costituzionale, più di quella non so che possiamo fare. Ora sta a loro fare un passo concreto, e non limitarsi più agli anatemi contro il Cavaliere".

Lo stesso ragionamento lo fa il capogruppo Dario Franceschini: "La Lega, come anche il Terzo Polo, sa bene che noi siamo pronti a tutto, pur di mettere fuori gioco Berlusconi. La stessa cosa la sa anche Tremonti. Il problema è che sia al centro che a destra tutti ripetono che è finita e che così non si va avanti, ma tutti aspettano chissà quale intervento divino, che faccia accadere il miracolo. Invece il miracolo va costruito, non solo evocato...". E per adesso è proprio questo che manca. La costruzione del "miracolo". Ma una cosa è certa: se c'è un "cantiere" possibile, questo è proprio il federalismo.
m.giannini@repubblica.it

(21 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/01/21/news/incubi_cavaliere-11473773/?ref=HREC1-2


Titolo: MASSIMO GIANNINI Chi tocca i fili muore
Inserito da: Admin - Gennaio 24, 2011, 10:10:40 pm
Chi tocca i fili muore


Dopo un brevissimo periodo di tregua, le macchine del fango del presidente del Consiglio hanno ricominciato a fulminare chiunque si azzardi a criticare, a obiettare, a dissentire. Il caso più eclatante è quello di Emma Marcegaglia 1. Domenica sera, sulla poltrona di Fabio Fazio a "Che tempo che fa", il presidente di Confindustria si è limitata a certificare l'ovvio: "Da sei mesi a questa parte l'azione dell'esecutivo non è sufficiente". Un giudizio fin troppo generoso, persino paludato. L'ultimo provvedimento "qualificante" (ammesso che lo si voglia considerare tale) transitato per il Consiglio dei ministri, è stato la Legge di Stabilità. Data del varo: 28 maggio 2010. Da allora encefalogramma piatto. L'azione di governo non è stata "insufficiente", come sostiene la Marcegaglia. È stata nulla, se si esclude il frenetico ma inutile lavorio intorno ai decreti attuativi del federalismo, che ancora non hanno ottenuto il via libera dei comuni.

Ma al leader degli industriali verrebbe da chiedere: prima degli ultimi sei mesi cos'altro ha fatto di buono il governo Berlusconi? Siamo ancora fermi al giudizio positivo sulla tremontiana "tenuta dei conti pubblici"? La tenuta c'è stata. Ma accontentarsi è davvero ridicolo per una borghesia produttiva che vuole essere l'avanguardia della modernizzazione: dalla crisi del 2007 il mondo è cambiato, e noi abbiamo
avuto l'unico merito di restare fermi, mentre i governi di tutto il pianeta hanno costruito piani di emergenza e di rilancio dei quali non c'è traccia in questo Paese. Siamo ancora fermi ai "passi avanti" della legge Gelmini sull'università? Non prendiamoci in giro da soli: qui non c'entrano le violenze degli studenti o le resistenze dei professori, c'entra l'oggettiva pochezza di una "riforma" che non basterà affatto a riqualificare l'istruzione dei primi perché non rilancerà la formazione dei secondi. Siamo ancora fermi "all'estensione" della cassa integrazione in deroga? Non siamo patetici: questo è un Paese con un sistema di protezione sociale che lascia scoperto un terzo dei suoi "occupati", i più giovani, i più precari, e dunque i più deboli e i più esposti alle criticità del ciclo economico.

E allora? Che altro si può ricordare, delle straordinarie realizzazioni del "governo del fare" nel corso di questa legislatura? La detassazione al 10% degli straordinari, che avrebbe avuto un minimo di senso in una fase di boom economico ma che non ha alcuno in un momento di crisi, quando nessun lavoratore fa straordinari perché le aziende chiudono e licenziano? Eppure, nonostante questi pietosi silenzi confindustriali, è bastata un'osservazione minimamente perplessa della Marcegaglia per esporla all'attacco immediato delle bocche di fuoco del premier. "Il Giornale" la descrive come "la maestrina dalla penna rossa che parla per nascondere il suo fallimento". Lo stesso trattamento è riservato a Lucia Annunziata, "rea" di aver intervistato a "In mezz'ora" Emilio Fede, rivolgendogli domande circostanziate sul contenuto delle intercettazioni che lo vedono fervido "animatore" dei festini di Arcore e accurato "selezionatore" delle ragazze più gradite al padrone di casa. "Annunziata guardona radical chic", è allora l'insulto sparato in prima pagina dal giornale contro la ex presidente della Rai. E la stessa sorte tocca a Giovanni Floris, colpevole di condurre un talk-show "non allineato": "Ballarò inventa una finta escort", titola in apertura il quotidiano di famiglia, che manipola la notizia, attribuendo al programma di Raitre un'immagine fotografica pubblicata dal Daily Mail.

Le macchine del fango sono in moto, e "lavorano" a pieno regime. Si consumano nuove vendette contro lo scrittore Roberto Saviano. Si preannunciano nuove puntate sugli affari immobiliari di Gianfranco Fini. Si profila insomma una "seconda ondata" di discredito a mezzo stampa, contro chiunque non si esprima secondo il Pensiero Unico Berlusconiano. Chi è dentro è salvo, chi è fuori non ha scampo. Questo è il Pdl: un Popolo, nessuna Libertà.

(24 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2011/01/24/news/giannini-11591569/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La notte della repubblica
Inserito da: Admin - Gennaio 28, 2011, 11:30:43 am
IL COMMENTO

La notte della repubblica

di MASSIMO GIANNINI

Questa è la notte della Repubblica. La crisi del berlusconismo precipita il Paese nel "conflitto istituzionale permanente". Parlamento contro Procure. Presidente del Consiglio contro presidente della Camera. Palazzo Madama contro Montecitorio. Ministro degli Esteri contro terza carica dello Stato. Nessuna delle istituzioni repubblicane è ormai più al riparo.

In questa disperata guerra per la sopravvivenza dichiarata al resto del mondo, il Cavaliere è ormai pronto ad usare tutte le armi possibili. Bugie pubbliche e forzature politiche. Abusi di potere e dossier avvelenati. È la "strage delle regole". Tutto quello che avviene è ai margini o al di fuori del sistema delle norme codificate. Lo è lo spettacolo andato in onda alla Camera, dove la Giunta per le autorizzazioni a procedere ha deciso di rinviare a Milano gli atti dell'inchiesta su Ruby, stabilendo una singolare competenza: quella del Tribunale dei ministri che giudica nel "merito" delle accuse. Lo è lo spettacolo andato in onda al Senato, dove Franco Frattini si è trasformato per un quarto d'ora in un pubblico ministero, emettendo una sua singolare "sentenza": il governo ha la prova che inchioda Gianfranco Fini sulla famosa casa di Montecarlo.

La logica politica che c'è dietro queste mosse incrociate è chiarissima. Si tratta di stabilire una rocambolesca inversione di ruoli e di responsabilità, agli occhi di un'opinione pubblica sempre più "sgomenta", per usare
un termine condiviso da Giorgio Napolitano e Joseph Ratzinger. Non è il presidente del Consiglio che si deve dimettere per lo scandalo dei suoi "festini selvaggi" nella residenza di Arcore. È invece il presidente della Camera che si deve dimettere per lo scandalo della residenza monegasca svenduta sottobanco al cognato.
È una strategia collaudata: l'uso delle "armi di distrazione di massa", con le quali il premier e la sua "struttura delta" (fatta di manipolatori mediatici ed esecutori politici) cercano di destrutturare i fatti, confondere i piani, invertire le priorità. Sono pronti a tutto. Nel caso specifico, anche ad acquisire attraverso il ministero degli Esteri una presunta documentazione aggiuntiva proveniente dallo Stato offshore di Santa Lucia, che attesterebbe appunto l'effettiva titolarità dell'immobile di Montecarlo, di cui il vero proprietario sarebbe proprio Giancarlo Tulliani. Come e perché sono stati acquisiti i nuovi documenti? A che titolo la Farnesina li ha ottenuti, essendo aperta un'inchiesta giudiziaria della Procura di Roma ed essendo in questi casi prevista la "via normale" delle rogatorie?

Non c'è risposta a queste domande. Non sappiamo se abbia ragione l'avvocato di Fini, Giuseppe Consolo, che invece dice di avere la prova contraria. Non sappiamo se abbia ragione quell'esponente di Futuro e Libertà che ha denunciato Frattini per abuso d'ufficio. Non sappiamo se abbia ragione Italo Bocchino, che accusa Berlusconi di essere il mandante di questo ennesimo episodio di "dossieraggio". Sappiamo con certezza, e lo ripetiamo per l'ennesima volta, che il presidente della Camera avrebbe dovuto gestire in modo più chiaro questa vicenda, e che non potrebbe restare un minuto di più al suo posto là dove fosse effettivamente provata l'appartenenza di quella casa al fratello della sua compagna. Perché così gli impone l'etica pubblica di cui si dice portatore. E perché così ha promesso solennemente dal settembre 2010.

Ma sappiamo soprattutto un'altra cosa. In questo clima di guerra totale, il Paese non può reggere. Lo dice il Capo dello Stato: a chi gli ha parlato, in queste ore, Napolitano confessa la sua "grande preoccupazione" per questo "conflitto istituzionale permanente" che si è creato e che rischia di travolgere tutto. Proprio alla vigilia dell'inaugurazione dell'anno giudiziario, alla quale il presidente della Repubblica parteciperà oggi in silenzio ma con "profonda inquietudine", vista l'offensiva contro la magistratura lanciata dal premier, dalla sua maggioranza e dai suoi giornali.

Il sistema istituzionale è al collasso. Il sistema politico è allo sfascio. Berlusconi è la causa di questa progressiva disgregazione democratica, che culminerà addirittura in una manifestazione organizzata dal Pdl per il prossimo 13 febbraio alla quale parteciperà il premier in persona. Un capo del governo che scende in piazza per protestare contro un altro potere dello Stato. Una cosa mai vista.
 Per questo, prima che lo faccia il presidente della Camera, è molto più urgente che si dimetta il presidente del Consiglio. Poi accada quel che deve. Compreso il voto anticipato, se non c'è altra soluzione. Al punto in cui siamo, forse, le elezioni non sono più una minaccia, ma una necessità.

(28 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI La Lega democristiana
Inserito da: Admin - Febbraio 04, 2011, 06:07:11 pm
La Lega democristiana

di MASSIMO GIANNINI

"Federalismo o morte", grida da mesi Umberto Bossi, brandendo la spada di Alberto da Giussano. Ma adesso che il federalismo muore, il leader della Lega rincula, ripiega. E balbetta, come l'arcitaliano di Mino Maccari: "O Roma o Orte". Nel gorgo in cui sta affondando il Cavaliere, dunque, sembra risucchiato anche il Senatur. Non solo il Carroccio non rompe, dopo il "pareggio" in Parlamento sul decreto federalista. Ma prova a tirare a campare, al fianco di un premier sempre più disperato. E così, a sua volta, accetta il rischio di tirare le cuoia.

La giornata di ieri segna un altro passo verso il baratro. C'è un baratro nel quale precipitano le regole democratiche. Sulla drammatica scena del crepuscolo berlusconiano accade un'altra cosa mai vista. Un decreto, respinto da una Commissione bicamerale, viene riapprovato nella stessa formulazione dal Consiglio dei ministri. Il potere esecutivo, con un suo atto d'imperio, annulla il potere legislativo. Siamo all'ennesima "lesione" ordinamentale, voluta da un centrodestra che supplisce alla debolezza aritmetica con la scelleratezza politica. Davvero una "situazione senza precedenti", per usare le parole di Gianfranco Fini.
C'è un baratro che si avvicina per la maggioranza. Il "15 a 15" registrato nella "Bicameralina" è solo in apparenza un pareggio, ma in realtà è una sconfitta. È una sconfitta tecnica, perché quel testo, benché riscritto da Tremonti e Calderoli, non soddisfa né
le opposizioni né i sindaci. Dall'Imu alle addizionali Irpef, dalle tasse di scopo a quelle di soggiorno: la presunta "riforma federale" nasconde in realtà una stangata epocale. E nell'attesa messianica del secondo decreto, quello sul federalismo regionale, non si sa nulla del fondo di perequazione e dei costi standard delle prestazioni.

La sconfitta è anche politica. La maggioranza può anche considerare una rivincita il voto successivo dell'aula di Montecitorio sul rinvio alla procura di Milano degli atti relativi allo scandalo Ruby. Ma c'è poco da festeggiare. L'operazione di allargamento non ha prodotto risultati. Lo dice la matematica. Il 14 dicembre la fiducia al governo è passata con 314 voti. Il 19 gennaio la relazione di Alfano sulla giustizia è passata con 303 voti. Il 26 gennaio la mozione di sfiducia a Bondi è stata respinta con 314 voti. Ieri il no ai pm è passato con 315 voti. Nonostante la vergognosa compra-vendita tra lombardisti pentiti e futuristi delusi, la macchina da guerra Pdl-Lega non sfonda.
Con questi numeri non si governa. Si può superare per miracolo la prova di una fiducia, con un governo "militarizzato" e presente in aula con tutti i suoi effettivi. Ma basta un voto qualsiasi, per esempio sul decreto legge mille-proroghe presto all'esame di Montecitorio, e si perde. Si può galleggiare per qualche settimana o qualche mese. Ma con la certezza di andare a fondo, prima o poi. Il voto della Commissione bicamerale lo dimostra: la maggioranza forzaleghista non ha i numeri per far passare il decreto federalista. Se non al prezzo di un clamoroso colpo di mano, di un doloroso strappo ai principi della Costituzione e ai regolamenti parlamentari.

Ma c'è un baratro nel quale si sta ormai lasciando cadere soprattutto la Lega. Solo ieri notte Bossi usciva dal lungo vertice a Palazzo Grazioli rilanciando il suo grido di battaglia: se non passa il decreto sul federalismo si va a votare. È stato il "mantra" ripetuto ossessivamente, fin dal giorno della rottura di Futuro e Libertà. È stato il patto che ha legato le sorti del Senatur a quelle del Cavaliere: la partecipazione al governo in cambio dell'attuazione del federalismo. Non c'è il primo se non c'è il secondo: questo è il senso della strategia leghista di questi mesi. Ora questa strategia sembra sbiadita, confusa, tradita. Il federalismo non c'è, ma Bossi abbozza e dice "si va avanti".

In questo suo atteggiamento indulgente e "resistente" deve esserci sicuramente una profonda riconoscenza umana e personale nei confronti di Berlusconi. Ma persino la politica, alla fine, esige una sua coerenza. Il Carroccio sta pagando un costo sempre più alto, per puntellare un presidente del Consiglio sempre più debole. Lo certificano i sondaggi, che da tre settimane non fotografano più una Lega con il vento nelle vele. A parlare con i sindaci, ad ascoltare Radio Padania e a leggere la Padania, si percepisce uno smarrimento crescente. I militanti manifestano una forte insofferenza per gli scandali privati del Cavaliere. Ma avrebbero tollerato, di fronte alla contropartita pubblica del federalismo. Se adesso anche questa viene a mancare, al Carroccio non resta nulla da spartire in questa ennesima avventura a fianco del Sultano di Arcore.

Bossi, pur nel travaglio della malattia che lo colpito e fiaccato, non ha mai perso il profilo da combattente indomito e "rivoluzionario". Ha sempre incarnato il mito del capo di un movimento pre-politico, nato per il cambiamento e per l'affrancamento dal Palazzo. Da ieri quel profilo è intaccato, e quel mito violato. Il Senatur tratta e ritratta, subisce e patisce. Come un doroteo qualsiasi. Può accettare un simile snaturamento del suo partito, senza incassare neanche il dividendo pattuito e senza cominciare a guardare ad un orizzonte politico più ampio? Può sventolare ancora il suo logoro vessillo federalista, senza poterlo concretamente piantare in una Padania non più immaginaria, ma finalmente reale? Fino a che punto può seguirlo il suo "popolo", che sognava la terra promessa e si ritrova nella palude berlusconiana? Sono domande che un "animale politico" come lui non può eludere ancora a lungo. A meno che Bossi il Padano, per eterna fedeltà all'amico Silvio, non abbia deciso di "morire democristiano".

(04 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/02/04


Titolo: MASSIMO GIANNINI La struttura Delta
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2011, 10:29:52 pm
IL COMMENTO

La struttura Delta

di MASSIMO GIANNINI


Gli storici prendano nota. Ieri, per la prima volta, si è riunita in chiaro, alla luce del sole, la Struttura Delta.

Le "guardie armate" del presidente del Consiglio nella carta stampata e nella tv.

Giuliano Ferrara, direttore del Foglio, Alessandro Sallusti, direttore del Giornale, e Claudio Brachino, direttore di Videonews-Mediaset. Convocati direttamente da Silvio Berlusconi, non più nella magione privata di Arcore, a Villa San Martino. Ma nella sede governativa di Roma, a Palazzo Grazioli. Per mettere a fuoco lo "spin" comunicazionale, con il quale il Cavaliere cercherà di riscrivere ancora una volta a suo vantaggio il "palinsesto" politico-mediatico dell'intera nazione. E per mettere a punto la controffensiva violenta, con la quale cercherà di distruggere la magistratura, la libera stampa, l'opposizione parlamentare e sociale.

Dunque, la drammatica torsione democratica del berlusconismo declinante ci consegna l'ennesima, incredibile "epifania". Politica e giornalismo piegati insieme, nello stesso tempo e nello stesso modo, per sovvertire codici normativi e aziendali. Per propiziare atti "sediziosi" e inquinare fatti incontrovertibili. La Struttura Delta, come questo giornale l'aveva "battezzata" nel novembre 2007 mutuandola da Joseph Conrad, esiste da anni. È stata una delle prime intuizioni del premier-tycoon, che invece di risolvere il suo enorme conflitto di interessi, l'ha ingigantito e sfruttato fino in fondo per mettere in moto la più micidiale
e pericolosa macchina di fabbricazione del consenso mai concepita in una normale democrazia europea. Capo del governo (perciò sovrano delle tre reti pubbliche Rai) e insieme padrone delle tre grandi reti private Mediaset, Berlusconi ha capito subito che ciò di cui aveva sommamente bisogno, per gestire il consenso, era servirsi del suo "inner circle" manageriale, pubblicitario e giornalistico, per dettare l'agenda al Paese. Creare una "squadra", cioè, nella quale la più grande agenzia newsmaker della nazione, cioè il governo stesso, potesse dettare "i titoli" della giornata all'intero network televisivo-informativo italiano. Per cancellare quelli dannosi, per nascondere quelli scomodi, per enfatizzare quelli utili alla propaganda "di regime". Questa vergognosa versione italiana del Grande Fratello orwelliano l'abbiamo vista all'opera quattro anni fa, all'epoca del cosiddetto scandalo Rai-Set. Attraverso un'inchiesta sul fallimento della Hdc di Luigi Crespi, la Guardia di Finanza scoperchiò la "rete" inquietante di connivenze e complicità tra manager, dirigenti e giornalisti del servizio pubblico e dell'impero privato del premier (da Agostino Saccà a Deborah Bergamini) grazie alle quali si arrivò al punto di occultare, nei tg della sera e della notte, i risultati negativi di Forza Italia alle elezioni del 2006.

Da allora la Struttura Delta ha continuato a lavorare. Sempre a pieno regime. Basta vedere il Tg1 o il Tg5, per non parlare del Tg4 e dell'infinita varietà di programmi che le reti "ammiraglie" del servizio globale Rai-Set trasmettono nelle ore più impensate del giorno (Mattino 5, La vita in diretta, Pomeriggio sul 2). Ed ha anche affinato i suoi strumenti, in una spirale sempre più cinica e violenta che ha trasformato la macchina del consenso in macchina del fango. Incrociando sempre più spesso le televisioni e i giornali. Basta vedere il linciaggio al quale si sono dedicati i mass-media "di famiglia", dal Giornale a Panorama, contro chiunque abbia criticato il Cavaliere: da Dino Boffo a Gianfranco Fini. Anche un mese fa, il 17 gennaio per la precisione, la Struttura Delta si era riunita, in pieno scandalo Ruby. Dopo il consueto pranzo del lunedì ad Arcore con l'inseparabile Fedele Confalonieri e i figli Piersilvio, Marina e Luigi, il premier aveva convocato per un caffè l'intera squadra dei suoi "spin": l'onnipresente Mauro Crippa, direttore generale dell'informazione a Mediaset e primus inter pares della Struttura, l'immancabile Alfonso Signorini, direttore di Chi, ancora Sallusti, e poi il direttore di Panorama Giorgio Mulè e il direttore delle relazioni esterne di Fininvest Franco Currò.

I risultati di quel vertice "privato" sono stati almeno tre. L'intervista di Ruby alla trasmissione Kalispera su Canale 5, nella quale la ragazza marocchina ritratta tutto ciò che aveva detto nelle intercettazioni e nelle comunicazioni rese ai pm di Milano. La discesa in campo delle "ministre" a difesa del Cavaliere: la Gelmini a Porta a Porta, la Carfagna a Matrix e la Santanché ad Annozero. La valanga di videomessaggi autoassolutori e intimidatori dello stesso premier alla tv o ai Promotori della Libertà.

Ora, nella fase più disperata per il presidente del Consiglio, c'è un ulteriore salto di qualità. La Struttura Delta si riunisce direttamente nella capitale, a Palazzo Grazioli. In una inaccettabile sovrapposizione di ruoli e di funzioni, il capo del governo convoca i suoi referenti e i suoi dipendenti, portando ancora una volta alla ribalta, ma stavolta in campo aperto, il velenosissimo conflitto di interessi che intossica politica e informazione. Insieme, il premier e il suo anomalo "think tank" elaborano le offensive politiche e organizzano le offensive mediatiche. Il Pdl non esiste più (ammesso che sia mai esistito). Il partito, come filtro della rappresentanza democratica, è definitivamente scavalcato e surrogato dalla Struttura Delta. La "squadra degli spin" diventa un vero e proprio "gabinetto di guerra". Dove i giornalisti, dopo aver indossato la "mimetica" a Palazzo Grazioli, tornano in redazione a scrivere editoriali ispirati e a dettare cronache addomesticate.

Anche in questo caso, i risultati si vedono. Sono due, per adesso. Il primo: Giuliano Ferrara intervista Berlusconi sul Foglio, lo fa urlare contro "il golpe morale", gli fa dire che "il popolo è il mio giudice ultimo", e che quelle di Milano sono "inchieste farsesche, degne della Ddr". Giusto la sera prima, all'improvviso, la Rai aveva deciso di cambiare il palinsesto, per trasmettere sulla Rete Due Le vite degli altri, il film in cui Von Donnersmarck racconta le tragedie umane prodotte dai metodi spionistici della Stasi, la polizia segreta della Germania comunista di Honecker. Qualcuno può pensare che sia stato solo un caso? Il secondo: ancora Ferrara irrompe alle otto al Tg1 di Augusto Minzolini, parla per sei minuti filati (un tempo televisivo infinito) attacca "il gruppo Espresso di De Benedetti e dei professoroni del Palasharp, che vogliono abbattere il governo con metodi extraparlamentari", e spara a zero contro "il puritanesimo brutale che vuole tagliare la testa al re".

Cos'altro faranno il Giornale di Sallusti e le News Mediaset di Brachino lo scopriremo solo oggi e nei prossimi giorni. Cos'altro ha fatto e farà ancora la Struttura Delta, al riparo dall'ufficialità e dalle coincidenze che possiamo ricostruire solo ex post, forse non lo scopriremo mai. Ma intanto il nuovo "palinsesto", politico e giornalistico, è scritto. Nel cuore ferito dell'immenso conflitto di interessi berlusconiano, il "gabinetto di guerra" ha deciso di combattere la battaglia decisiva, forse l'ultima. Gli "assaltatori" sono all'opera. Contro la verità. Contro la responsabilità. Contro la dignità. E poi c'è ancora chi dice che questa non è una vera "emergenza democratica".

m.giannini@repubblica.it
 
(11 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/02/11/news


Titolo: MASSIMO GIANNINI Tremonti, l'uomo avvisato...
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2011, 02:46:24 pm
Tremonti, l'uomo avvisato...

di MASSIMO GIANNINI

L'azione parallela della Struttura Delta berlusconiana si sviluppa su due fronti. C'è una prima linea: l'offensiva violenta e visibile contro i nemici esterni, dalla magistratura alla libera stampa. C'è una seconda linea: l'attacco concentrico e meno visibile contro i nemici interni, dai pidiellini dissidenti ai ministri renitenti. Tra questi ultimi brilla Giulio Tremonti. Le sue colpe: non aver sostenuto con il necessario entusiasmo la "scossa all'economia" varata dal governo, non aver partecipato con l'opportuna solerzia alla difesa del capo-animatore dei festini di Arcore. Da allora è nel mirino del "gabinetto di guerra". "Il Giornale" di Sallusti: "Cresce l'insofferenza verso il ministro Tremonti che troppo spesso rema contro". "Il Foglio" di Ferrara: "Ministro Tremonti, parliamoci chiaro: se lei non crede alla frustata lo dica all'Italia e se ne assuma l'onere". "Il Tempo" di Sechi: "Il ministro Tremonti fa le prove da premier". E' la battaglia finale, e la Struttura Delta non fa prigionieri. Né tra gli avversari, né tra gli alleati. Giulio è avvisato.

m.gianninirepubblica.it


(13 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI La clava di Ferrara
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2011, 02:47:21 pm
La clava di Ferrara

di MASSIMO GIANNINI

LA FASE del "berlusconismo da combattimento", concordata due giorni fa a Palazzo Grazioli dalla Struttura Delta, passa per la penna e la clava di Giuliano Ferrara. Non pago di aver lanciato il primo affondo al Tg1 di giovedì sera, con sei minuti netti di telecomizio pro-Cavaliere, ieri sera il direttore del "Foglio" ha piazzato il secondo colpo sul Tg5. Nuova offensiva contro il "golpe puritano" dei nemici del premier: pubblici ministeri, libera stampa, "culturame" da Palasharp. Stavolta più concisa, poco meno di tre minuti. Ma ben impacchettata: tra un'intervista alla Santanché che tuona contro "gli inciuci dei palazzi di ingiustizia" e un servizio sul sit-in dei 200 pidiellini che inveiscono contro la "magistratura rossa" (dal quale sono debitamente censurate le proteste dei passanti che gridano "vergognatevi" ai manifestanti).

È chiaro lo "spin" diramato al network informativo-televisivo: sostenere la manifestazione organizzata per oggi dallo stesso Ferrara contro la giacobina "Repubblica della virtù che vuole abbattere Berlusconi". Silenziare, in parallelo, la manifestazione a difesa della dignità delle donne, organizzata per domani in 200 piazze d'Italia. Nessun Tg ne parla. Come esige il "gabinetto di guerra": l'ordine è stato eseguito.

m.gianninirepubblica.it

(12 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/rubriche


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il depistaggio fotografico
Inserito da: Admin - Febbraio 16, 2011, 04:54:14 pm
Il depistaggio fotografico

di MASSIMO GIANNINI

La Struttura Delta dosa con sapienza le due armi strategiche della sua propaganda. Hard-power e soft-power. Con il primo mette all'angolo il Quirinale. Con il secondo manipola l'immaginario collettivo. L'uso delle fotografie è essenziale allo scopo. Qui la filiera corre tra Alfonso Signorini (che veicola su Chi le immagini costruite "a discolpa" del Cavaliere, dal falso fidanzato di Noemi Letizia in poi) e Alessandro Sallusti (che compra le foto dell'amica di Noemi, Roberta Oronzo, sul capodanno 2008/2009 a Villa Certosa). Il Giornale le pubblica. Sabato Noemi e Roberta con il premier in un brindisi innocente. Domenica Roberta in jeans e maglione su un anonimo sofà a fiori rosa da mobilificio Rossetti. Lunedì istantanee di una banale tavolata (in sinergia con Pomeriggio 5, alias Claudio Brachino). Titolo: "I party del Cavaliere: ecco le foto che scandalizzano i guardoni". Ultimo "scoop": il dagherrotipo di un Vendola del '79 in un campo nudisti. Lo "spin" è: i festini selvaggi del premier non sono mai esistiti se non nella mente malata dei pm rossi, e comunque tutti hanno qualche scheletro nell'armadio. È la prima variante alla legge di Truman: se non puoi giustificare, mistifica.

(16 febbraio 2011) © Riproduzione riservata

da - repubblica.it/rubriche


Titolo: MASSIMO GIANNINI Le bolle mediatiche
Inserito da: Admin - Febbraio 17, 2011, 12:30:57 pm
Le bolle mediatiche


"Shock and awe". Come le teste di cuoio americane, le teste d'uovo berlusconiane si specializzano in operazioni-lampo che colpiscono l'attenzione pubblica, distogliendola da un tema o dirottandola su un altro. Ma al culmine del Rubygate, in tre casi la Struttura Delta ha mancato l'obiettivo. Primo caso: la misteriosa "fidanzata" di Berlusconi. Il 15 gennaio annuncio del premier ai Promotori delle Libertà, rilanciato dal network di famiglia Studio Aperto-Tg4: "Da quando mi sono separato ho avuto uno stabile rapporto d'affetto con una persona...". Per due giorni il toto-fidanzata impazza e oscura il bunga-bunga. Chi sarà la prescelta? Poi il tema si inabissa per palese "inesistenza del soggetto". Secondo caso: l'operazione "scossa all'economia", che deve rilanciare l'azione di governo. Dura un giorno, poi svanisce per "inconsistenza dell'oggetto". Terzo caso: l'allarme immigrati. Il Cavaliere fa un blitz a Lampedusa, per dimostrare che mentre i pm milanesi spiano nella sua camera da letto lui risolve l'emergenza umanitaria. Ma poi, per evitare domande sul processo, diserta persino la conferenza stampa. A forza di pompare, anche le bolle mediatiche scoppiano.

m.giannini@repubblica.it
 

(17 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Torna il "trattamento Mesiano"
Inserito da: Admin - Febbraio 20, 2011, 10:22:16 am
Torna il "trattamento Mesiano"

di MASSIMO GIANNINI

Pare che gli addetti alla Struttura Delta lo chiamino il "trattamento Mesiano", lo sventurato giudice della sentenza che ha condannato Fininvest a pagare 750 milioni alla Cir per l'affare Mondadori, spiato dalle telecamere di "Mattino 5" e sbeffeggiato per i suoi "calzini celesti". Capolavoro di giornalismo costato una sospensione a Claudio Brachino, direttore delle News Mediaset. Ora ci risiamo. I "killer politici" del Cavaliere cercano di screditare i magistrati del Rubygate. Hanno cominciato con la Boccassini, poi con le tre toghe selezionate dal Tribunale di Milano per formare il collegio. Titoli dei Tg Rai-Set e dei giornali di famiglia: "Curiosità: tre donne sono state scelte per giudicare Berlusconi su una vicenda che riguarda altre donne". Come dire: la corporazione è "di genere", lo condannerà per forza. Ora i "guastatori della Libertà" alzano il tiro. Libero di ieri: "Andava in piazza contro Silvio: ora lo giudicherà. Imparziale?". Articolo corrosivo contro Orsola De Cristofaro, che con Carmen D'Elia e Giulia Turri dovrà emettere la sentenza. La sua "colpa": una foto che la ritrae con un cartello su cui è scritto "Costituzione della Repubblica italiana". E' solo l'inizio. Da qui al 6 aprile la macchina del fango ne produrrà a tonnellate.
m.gianninirepubblica.it 1
 

(20 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI Atti sediziosi
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2011, 10:44:30 am
IL COMMENTO

Atti sediziosi

di MASSIMO GIANNINI


L'Italia precipita in una rovinosa "democrazia del conflitto". Come è evidente, si fronteggiano due forze. Da una parte c'è lo Stato, con le sue ragioni e le sue istituzioni. Il simbolo dello Stato, oggi più che mai, è Giorgio Napolitano. Dall'altra parte c'è l'Anti-Stato, con le sue distorsioni e le sue convulsioni. Il paradigma dell'Anti-Stato, ormai, è Silvio Berlusconi. Dall'esito di questa contesa dipenderà l'assetto futuro del nostro sistema politico e costituzionale. La giornata di ieri fotografa con drammatica evidenza questa contrapposizione irriducibile tra due modi diversi di vivere la cosa pubblica e di interpretare il proprio ruolo nella "polis". Il capo dello Stato, in un'intervista al settimanale tedesco Welt am Sonntag, tenta di ricucire il tessuto lacerato delle istituzioni.

Si fa interprete dell'esigenza di responsabilità che si richiede alla politica e del bisogno di normalità che chiede il Paese. Si fa ancora una volta custode della Costituzione. Non per conservarla staticamente, ma per farla agire dinamicamente nella naturale dialettica tra i poteri. Questo vuol dire Napolitano, quando parla dei processi del premier osservando che si svolgeranno "secondo giustizia": il nostro sistema giurisdizionale, incardinato coerentemente nel meccanismo della garanzia costituzionale, gli permetterà di difendersi davanti ai tribunali, di far valere le sue ragioni di fronte ai suoi giudici naturali. Si tratta solo di riconoscere la legittimità dell'ordinamento
giuridico e la validità dei suoi codici.

Si tratta solo di accettare l'irrinunciabilità di un principio che sta alla base della convivenza civile: la legge è uguale per tutti, tutti i cittadini sono uguali di fronte alla legge. In altre parole, si tratta solo di riconoscere lo Stato di diritto, di difenderlo come una missione, e non di subirlo come una maledizione.

Invece è proprio questo che Berlusconi ha fatto e continua a fare. Il capo del governo, nel suo ormai rituale messaggio domenicale ai promotori della libertà, fa l'esatto opposto di quello che ha fatto e continua a fare Napolitano. Allarga lo strappo istituzionale, esaspera lo scontro tra i poteri, rilancia le "riforme della giustizia" a una sola dimensione: non quella dei cittadini, che chiedono un sistema giurisdizionale più equo, più rapido e più efficiente, ma quella del premier, che esige una magistratura umiliata, delegittimata e subordinata alla politica. Spaccare il Csm, separare le carriere, stravolgere i criteri delle selezioni dei giudici della Consulta, reintrodurre l'immunità parlamentare come mezzo per assicurarsi l'impunità politica, rilanciare la legge  -  bavaglio per negare ai pm l'uso di un prezioso strumento investigativo come le intercettazioni e per negare all'opinione pubblica il diritto di essere informata su ciò che accade negli scantinati del potere. Tutto questo non è nobile "garantismo liberale", ma truce avventurismo politico. Non è alto "riformismo costituzionale", ma bassa macelleria ordinamentale. "Atti insensati", quelli della Procura milanese? Piuttosto sono "atti sediziosi" quelli del premier. Ed è penoso, per non dire scandaloso, che su alcuni di questi atti trovi una sponda anche nel centrosinistra, che non sa più distinguere tra le leggi varate nell'interesse di una persona e quelle varate nell'interesse della collettività.

Con queste premesse, lo Stato di diritto non si difende né si migliora: va invece abbattuto e destrutturato. Questa è oggi la posta in gioco. Questa è la portata della guerra tra il Presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio. Una guerra asimmetrica tra un capo del governo che l'ha dichiarata e la combatte ogni giorno, e un capo dello Stato che non l'ha mai voluta e ora tenta di disinnescarla. Ma in questa guerra, di qui al 6 aprile, il Cavaliere trascinerà ogni cosa. Trascinerà il governo, trasfigurato in una trincea dove l'unico motto di generali e luogotenenti è "credere, obbedire, combattere".

Trascinerà il Parlamento, trasformato nel "tribunale del popolo" che dovrà opporsi a qualunque costo al tribunale di Milano. Trascinerà il Paese, che non ha bisogno di "rivoluzioni" populiste né di pulsioni autoritarie, ma urgente necessità di una strategia per tornare a crescere, produrre ricchezza e occupazione, a offrire opportunità alle donne e futuro ai giovani. Questa è e sarà la guerra delle prossime settimane. Proprio per questo, in un momento così difficile, dobbiamo essere grati a Napolitano. Senza il suo Presidente, l'Italia sarebbe un'altra Repubblica. "Monocratica", non più democratica.

m.gianninirepubblica.it

(21 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: MASSIMO GIANNINI Obiettivo peones
Inserito da: Admin - Febbraio 23, 2011, 05:29:39 pm

Massimo GIANNINI

Obiettivo peones

"Se non sopporti il caldo, non stare in cucina". Era un vecchio consiglio di Truman, ripreso ossessivamente da Hillary Clinton durante la campagna per le primarie del 2008. Il senso è: il politico che non sa reggere l'urto delle campagne politico-mediatiche organizzate contro di lui dalle "macchine del fango" avversarie fa meglio a gettare la spugna. Gianfranco Fini non getterà la spugna, ovviamente. Ma è evidente che fa molta fatica a "sopportare il caldo". La Struttura Delta l'ha capito da tempo. Per questo, pur avendolo già sfiancato con l'assedio sulla casa di Montecarlo e poi sconfitto il 14 dicembre con il voto sulla fiducia al governo, Berlusconi e i suoi "assaltatori" continuano a bastonarlo senza sosta e senza pietà. Ma il presidente della Camera è un "falso obiettivo". Il massacro politico-mediatico in pieno corso non punta a distruggere lui e i suoi colonnelli, ma a terrorizzare i suoi peones. Al gabinetto di guerra interessa poco la conversione dei Ronchi o degli Urso. Interessa moltissimo, invece, l'acquisizione dei Siliquini e dei Rosso. Le "anime perse": con quelle si vince, alla lotteria della Camera.

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(22 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/rubriche


Titolo: MASSIMO GIANNINI Missione oltretevere
Inserito da: Admin - Febbraio 28, 2011, 03:31:53 pm
Missione oltretevere


"Quante divisioni ha la Chiesa?". Nella Struttura Delta, tra cui non mancano gli ex comunisti riconvertiti al credo berlusconiano, si ricordano bene la domanda cruciale di Stalin. Per un governo con nessuna politica, scarsa etica e modesta aritmetica, il recupero del sostegno Vaticano, in questo momento, è fondamentale. L'operazione è scattata nel weekend, con due mosse inequivoche. La prima: l'intervento del premier al congresso dei cristiano-riformisti, in cui si auto-condona le nottate selvagge del bunga bunga e annuncia la controffensiva da ateo-devoto, tra "politiche per la famiglia da varare entro la fine della legislatura", diniego assoluto alle adozioni per gay e single e anatema biblico contro la scuola pubblica. La seconda: ampia intervista al cardinale Bagnasco, presidente della Cei, sul "Giornale" di famiglia, in cui si affrontano i temi del momento, dal Rubygate alle intercettazioni. Ma senza una sola domanda imbarazzante e una sola risposta urticante: puro ecumenismo ecclesiastico, universale e dunque vaghissimo. Stile Don Abbondio, dall'una e dall'altra parte. Non è detto che l'operazione riesca. Ma l'obiettivo è dichiarato. Come scrive lo stesso "Giornale", il Cavaliere "tende una mano alla Chiesa", con un "assist netto a Oltretevere". Partita difficilissima, nella settimana di chiusura indagini per Nicole Minetti, Emilio Fede e Lele Mora.

m.giannini@repubblica.it

(28 febbraio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/rubriche/struttura-delta/2011/02/28/news/missione_oltretevere-12991500/?ref=HRER2-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il patto scellerato del Cavaliere
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2011, 03:25:02 pm
Il patto scellerato del Cavaliere


Braccato dai pubblici ministeri che lo inseguono in tre processi ed ora lo inchiodano a un imminente "rito immediato". Ricattato dalle veline-meteorine-coloradine che hanno animato le sue serate e ora battono cassa. Logorato da una maggioranza forzaleghista che non ha più numeri per galleggiare né idee per governare. Tenuto artificialmente in vita da un disperato drappello di "disponibili" che con poco senso del ridicolo si sono ribattezzati "responsabili". In queste condizioni precarie, che c'è di meglio dell'ennesimo, improbabile diversivo? È quello che ha appena inventato il presidente del Consiglio, con la proposta di un nuovo "piano bipartisan per la crescita" lanciato attraverso le colonne del Corriere della Sera.

Qui non c'entra il pregiudizio ideologico: cioè l'irriducibilità dell'antiberlusconismo militante, o l'indisponibilità a riconoscere che il Cavaliere è l'uomo che tanta parte dell'opposizione parlamentare, sociale o mediatica "ama odiare" (come ripete ossessivamente Giuliano Ferrara). Qui c'entra il giudizio politico: cioè l'assoluta vacuità della proposta, e la sua oggettiva inidoneità ad affrontare e risolvere i problemi strutturali del Paese.

Lasciamo da parte il tema dell'imposta patrimoniale, troppo complesso per essere liquidato con le solite fumisterie propagandistiche da padroncino brianzolo, "nobilitate" dalle lezioni della scuola di Chicago. Quello che il premier offre all'Italia e
al centrosinistra, fuori contesto e fuori tempo massimo, è l'ennesimo simulacro di un patto scellerato. Dice Berlusconi: noi liberalizziamo l'economia, modificando l'articolo 41 della Costituzione e rendendo finalmente "consentito tutto ciò che non è vietato". In cambio, i ceti produttivi fanno emergere "la ricchezza privata nascosta". Lo chiama "scambio virtuoso": da una parte "maggiore libertà e incentivo fiscale all'investimento", dall'altra parte "aumento della base impositiva" oggi occultata.

Dov'è la scelleratezza? In tutti e due i fattori dello scambio. Dal lato delle "libertà". Intanto questo governo di liberisti un tanto al chilo, da due anni e mezzo, ha fatto solo passi indietro sul tema delle liberalizzazioni, riducendo in brandelli la lenzuolata di Bersani della passata legislatura. E poi la riforma dell'articolo 41, ammesso che serva a qualcosa, è una riscrittura del dettato costituzionale. Esige un disegno di legge di revisione della Carta del '48, dunque una quadrupla lettura parlamentare e, in caso di approvazione senza il voto dei due terzi del Parlamento, un referendum confermativo. Tempi realistici di approvazione: non meno di un anno e mezzo. "Lungo periodo": di qui ad allora, come diceva Keynes, "saremo tutti morti". E ad ogni modo: da almeno sedici mesi il ministro Tremonti ha annunciato la riforma una decina di volte, un paio delle quali in consessi internazionali (come il G20 di Busan, in Corea del Sud). Se ci crede tanto, cosa aspetta a presentare il disegno di legge? Non è difficile: sono due righe di testo, forse anche meno. Perché non passa dalle parole ai fatti?

Dal lato della fiscalità. Che senso ha proporre a chi evade l'ennesimno scambio? Proprio oggi la Guardia di Finanza fa sapere che nel 2010 sono stati scoperti 8.850 evasori totali, e che il lavoro d'indagine ha fatto emergere la cifra record di 50 miliardi di redditi non dichiarati. Di fronte a questo oceano di illegalità non c'è proprio nulla da "scambiare". Visto che le Fiamme Gialle lo hanno scoperto, c'è solo da prosciugarlo, facendo pagare caro chi finora non ha pagato. Ma questo, con tutta evidenza, è un bel problema per Berlusconi e per la sua sfibrata maggioranza. Si tratterebbe di prendere di petto la constituency politico-elettorale del Pdl, invece di continuare a lisciargli il pelo. Il Cavaliere non l'ha mai fatto. Meno che mai può farlo oggi, mentre imbocca il suo viale del Tramonto. Il suo modello non è Milton Friedman. È Cetto La Qualunque.

m.giannini@repubblica.it
 

(31 gennaio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI L'ideologia dell'anti-stato
Inserito da: Admin - Marzo 01, 2011, 03:26:31 pm
IL COMMENTO

L'ideologia dell'anti-stato

di MASSIMO GIANNINI

Dichiarato ufficialmente "contumace" alla ripresa del processo Mediaset, il presidente del Consiglio si lancia nel suo Vietnam giudiziario con una dissennata dichiarazione di guerra. E seleziona con precisione chirurgica i suoi "nemici": il presidente della Repubblica e la Corte costituzionale. Sono loro, le due massime istituzioni di garanzia, che gli impediscono di governare. Se "non gli piacciono" le leggi varate dal Consiglio dei ministri, Giorgio Napolitano le rinvia alle Camere, gli "ermellini rossi" le respingono.

Si avvera dunque la facile profezia che avevamo formulato solo una settimana fa. Altro che senso dello Stato, altro che tregua istituzionale: Silvio Berlusconi si prepara a consumare quel che resta della legislatura all'insegna del conflitto permanente. C'è da chiedersi perché lo fa. C'è da chiedersi quale vantaggio possa trarre lui stesso, da un'aggressione sistematica che destabilizza gli equilibri costituzionali e avvelena le relazioni istituzionali. Le sue parole, da questo punto di vista, si prestano a un doppio livello di analisi possibile.

In primo luogo c'è la strategia politica. Risolto con una scandalosa compravendita il duello contro Gianfranco Fini, rinsaldata a suon di prebende un'esangue maggioranza aritmetica, neutralizzato momentaneamente l'assedio dell'opposizione parlamentare, il premier ha ora un bisogno disperato di trovare altri "contro-poteri" e di additarli all'opinione pubblica come ostacoli insormontabili sul cammino della "modernizzazione".
Sa che non potrà fare le "grandi riforme" promesse in campagna elettorale. Non potrà varare la storica "rivoluzione fiscale" che consentirà ai contribuenti di pagare meno tasse, perché non ha il coraggio di stanare l'evasione. Non potrà varare un serio pacchetto di "scossa" all'economia, perché non sa trovare le risorse necessarie. Non potrà varare un vero riordino della giustizia nell'interesse di tutti i cittadini, perché la sua unica ossessione è un "ordinamento ad personam" che consenta solo a lui di salvarsi dai suoi processi.

Il suo carniere è vuoto. E resterà vuoto di qui alla fine della legislatura, anticipata o naturale che sia. Per questo deve trovare un capro espiatorio, sul quale scaricare i suoi fallimenti e travestirli da "impedimenti". Il Quirinale e la Consulta sono due bersagli ottimali. Con il suo attacco frontale, il Cavaliere sta dicendo agli italiani: sappiate che se non sono riuscito a risolvere i vostri problemi la colpa non è mia, ma di chi ha demolito le mie leggi. Quello di Berlusconi è solo un gigantesco alibi, che nasconde una colossale bugia. Ma solo di questo, oggi, può vivere il suo sfibrato governo e la sua disastrata coalizione: alibi e bugie, su cui galleggiare fino al 2013, per poi tentare il grande salto sul Colle più alto. A dispetto degli scandali privati di cui è stato protagonista e dei disastri pubblici di cui è stato artefice.

In secondo luogo c'è la "filosofia" politica. E qui, purtroppo, il presidente del Consiglio non fa altro che confermare la natura tecnicamente eversiva del suo modo di intendere il governo e la dialettica tra i poteri, la Carta costituzionale e lo Stato di diritto. In una parola, la democrazia. È tecnicamente eversiva l'idea che il presidente della Repubblica o la Consulta possano rinviare o bocciare una legge "perché non gli piace": non lo sfiora nemmeno il dubbio che l'uno o l'altra, nel giudicare sulla legittimità di una norma, agiscano semplicemente in base alle prerogative fissate dalla Costituzione agli articoli 74, 87 e 134. È tecnicamente eversiva l'idea che in Parlamento "lavorano al massimo 50 persone, mentre tutti gli altri stanno lì a fare pettegolezzo": non lo sfiora nemmeno il sospetto che la trasfigurazione delle Camere in volgare "votificio" sia esattamente il risultato della torsione delle regole che lui stesso ha voluto e causato, con decreti omnibus piovuti sulle assemblee legislative e imposti a colpi di fiducia.

Ma qui sta davvero l'essenza del berlusconismo. Cioè quell'impasto deforme di plebiscitarismo e populismo, di violenza anti-politica e onnipotenza carismatica. Da questa miscela esplosiva, con tutta evidenza, nasce l'Anti-Stato che ormai il Cavaliere incarna, in tutte le sue forme più esasperate e conflittuali. In questa dimensione distruttiva, la stessa democrazia, con i suoi canoni e i suoi precetti, non è più il "luogo" nel quale ci si deve confrontare, ma diventa la "gabbia" dalla quale ci si deve liberare. Contro il popolo, in nome del popolo. "Dispotismo democratico", l'aveva definito Alexis de Tocqueville. Scriveva dall'America, due secoli fa. È una formula perfetta per l'Italia di oggi.

m.gianninirepubblica.it
 
(01 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI I vantaggi della confusione
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2011, 06:38:59 pm
I vantaggi della confusione

di MASSIMO GIANNINI

Gli esperti americani di "spin" li chiamano i "talking points". Sono quei messaggi specifici, fatti di poche ma precise parole, che il network deve ripetere a raffica, quando si tratta di difendere il capo o attaccare i nemici. I "talking points" sono pane quotidiano per la Struttura Delta. Anche nello scandalo-Ruby. Un esempio: i controinterrogatori che Ghedini e Longo hanno condotto tra il 28 gennaio e il 3 febbraio con Valentino Valentini, Paolo Bonaiuti e i ministri Galan e Frattini, per dimostrare la buona fede del premier sulla tesi della "nipote di Mubarak".

Alle domande sulla cena del 19 maggio 2010 a Villa Madama tra la delegazione italiana e quella egiziana, le risposte sono una fotocopia. Tutti concordano: Berlusconi, parlando di Ruby con Mubarak, "accennò che doveva trattarsi di una parente o comunque di una persona della cerchia del presidente". Affermazione assolutoria ma pericolosa, perché smentibile. La Struttura Delta lo sa. Per questo fa dire, a tutti gli interrogati, che il leader egiziano non capì, e che comunque "la conversazione fu molto confusa".

Meglio cautelarsi: all'epoca Mubarak era ancora un "raìs", e uno dei "migliori amici" di Silvio.
 

(04 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI Malati di mente
Inserito da: Admin - Marzo 06, 2011, 10:37:51 pm
Malati di  mente

di MASSIMO GIANNINI

Giovedì prossimo arriva la riforma della giustizia. E sarà "epocale", come annuncia il presidente del Consiglio. Ma più che aiutare i cittadini, servirà a bastonare i giudici. Il potere politico, in altri termini, attiva il potere legislativo per colpire il potere giudiziario. Questa, nei fatti, è la "ratio della riforma". Nelle chiacchiere, ancora una volta, l'imperativo categorico è uno solo: confondere l'opinione pubblica. Preparare il terreno, dal punto di vista informativo ed emotivo, non al giusto processo per gli imputati, ma alla giusta punizione per i magistrati. La Struttura Delta sta lavorando per questo. Da giorni il kombinat politico-mediatico del premier frulla nell'apposito network commenti, reportage e servizi sugli "orrori e gli errori delle toghe". Il "senso" l'aveva dato qualche tempo fa lo stesso Berlusconi: per fare i magistrati bisogna essere "malati di mente". Ora tv e giornali cognati eseguono. Titoli: "Fermiamo i magistrati matti", "Stanno usando il processo Mastella per affilare la ghigliottina per il premier". Seguono pagine di inchiesta, nell'ordine, sul "pm che ipnotizza il testimone", la toga al ristorante "che non paga il conto", la "giudice in pelliccia che chiede l'elemosina". Eccoli, finalmente, i veri guai della giustizia italiana.

(m.giannini@repubblica.it)

(06 marzo 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI Una legge ad castam
Inserito da: Admin - Marzo 11, 2011, 04:23:10 pm
IL COMMENTO

Una legge ad castam

di MASSIMO GIANNINI


LA giustizia italiana, per poter esser davvero utile ai cittadini, aveva bisogno di tutto. Ma non certo di questa "rivoluzione" celebrata con un evviva dal capo del governo. Quella approvata ieri a Palazzo Chigi non è una "riforma epocale", ma una "contro-riforma incostituzionale". Un manifesto ideologico, che riscrive tredici articoli della Carta del '48, stravolge i principi che hanno retto le istituzioni della Repubblica, ribalta gli equilibri che hanno garantito il bilanciamento tra i poteri dello Stato.

È vero. Almeno per il momento, nel pacchetto-giustizia licenziato ieri a Palazzo Chigi c'è una rottura significativa con il passato: non contiene norme "ad personam", con le quali il presidente del Consiglio si cuce addosso un salvacondotto personale. Ma non per questo è meno dirompente. Al contrario: questa è una riforma "ad castam", con la quale un'intera classe politica pretende di cucirsi addosso un salvacondotto collettivo. Lo dice lo stesso Berlusconi, una volta tanto sincero, nella conferenza stampa con la quale cerca di spiegare la "filosofia" di questo "punto di svolta", come l'ha chiamato: "Questo cambiamento, se fosse stato introdotto vent'anni fa, avrebbe evitato l'esondazione, l'invasione della magistratura nella politica e quelle situazioni che hanno portato nel corso della storia degli ultimi venti anni a cambiamenti di governo, a un annullamento della classe dirigente nel '93".

Questa, per ammissione del suo stesso ispiratore, è dunque la "ratio" della riforma. Un complesso di "regole" che avrebbero impedito ai giudici di Mani Pulite di scoprire Tangentopoli. Avrebbero impedito al pool di Milano, sia pure tra alcuni errori e qualche eccesso, di scoprire il malaffare endemico del ceto politico della Prima Repubblica. Avrebbero impedito alle procure di indagare allora sui reati commessi da Berlusconi-imprenditore, e oggi su quelli commessi anche da Berlusconi-premier. Avrebbero impedito ai pubblici ministeri di condurre inchieste "pericolose", da Cosentino a Cuffaro, da Verdini a Tedesco. Questo, a dispetto delle chiacchiere del premier che parla di "un testo organico che non è contro nessuno", è il vero impianto ideologico e psicologico della contro-riforma berlusconiana: una vendetta postuma nei confronti della magistratura.

Tutto, in questo presunto "testo organico", tradisce l'intenzione di una rivincita del potere politico (che viene sovra-ordinato e irrobustito) sul potere giudiziario (che viene ridimensionato e intimidito). L'esercizio obbligatorio dell'azione penale risulta fortemente limitato e ricondotto nell'alveo delle priorità stabilite dal governo (attraverso la legge ordinaria) e dal Guardasigilli (attraverso la sua relazione annuale alle Camere). Il Csm è smembrato e cessa di essere organo di "autogoverno" della magistratura, per diventare organo "sotto il controllo" del governo, attraverso la modifica della proporzione tra membri togati e membri eletti. La polizia giudiziaria è sostanzialmente sottratta al coordinamento delle procure e assegnata alle cure del ministero dell'Interno.

La politica riafferma così il suo "primato" sulla giurisdizione. Non c'è più "check and balance" tra i poteri dello Stato, non c'è più un sistema di garanzie reciproche, come dispone la Costituzione. C'è un potere che sovrasta l'altro. E questo è tutto. Allora, se questo è il senso dell'operazione, non serve che ci sia un altro "scudo processuale" nascosto tra articoli e commi della riforma, per considerarla comunque dannosa e pericolosa.

"Se non ora, quando?", chiede con vaga ironia Alfano, per giustificarne l'urgenza. Il ministro mente sapendo di mentire. Per essere politicamente sostenibile, una riforma costituzionale così vasta si presenta all'inizio della legislatura, discutendola con i magistrati e condividendola con l'opposizione. Non viene approvata in tutta fretta da un governo che cerca disperatamente di galleggiare per un altro anno e mezzo, illustrandola poche ore prima al Capo dello Stato e sbattendola in faccia alle toghe e al Parlamento. Per essere credibile, una riforma "di sistema" così devastante si prepara al riparo dalle contingenze processuali del presidente del Consiglio. Non viene lanciata nel fuoco della battaglia mortale che l'esecutivo sta conducendo contro il giudiziario.

C'è un problema "tecnico", da chiarire una volta per tutte. Nessuno difende "a priori" i magistrati: anche le toghe hanno sbagliato e sbagliano. E nessuno si sogna di difendere lo status quo: il nostro sistema giudiziario fa acqua da molte parti, in termini di efficienza, di rapidità e spesso anche di equità. Ma non è questa la riforma che serve agli italiani, costretti ad aspettare quasi cinque anni per avere una sentenza civile e oltre otto per avere una sentenza penale. In questo pacchetto non c'è nulla che renda più veloci e più "giusti" i processi. Non c'è l'intenzione di aiutare i cittadini. C'è solo la tentazione di punire i magistrati.

C'è un nodo politico, da sciogliere una volta per tutte. Nessuno crede al "ravvedimento" improvviso del Cavaliere. Con una mano offre all'opinione pubblica e al Parlamento un pacchetto-giustizia che, in apparenza, riguarda tutti e non più lui. Ma cosa nasconde nell'altra mano, nessuno lo sa né lo ha capito. Viene ricalendarizzata la legge sul processo breve, si continua a parlare di immunità parlamentare, si ventilano ipotesi di norme sulla prescrizione ridotta per gli incensurati. Su questa zona d'ombra, che si espande ai margini della "riforma epocale", va fatta luce e va chiesta chiarezza. Troppe volte il Cavaliere ci ha abituato ai suoi bluff, ai suoi blitz, ai suoi doppi e tripli giochi.

In questa chiave, davvero si fatica a comprendere il solito dibattito surreale che si sviluppa nell'opposizione, sospesa tra l'"arroccamento" e il "dialogo". Si dice, a sinistra: stavolta non possiamo non andare a vedere le carte. Che significa? Alcune carte, come abbiamo appena detto, sono ancora coperte, e su questo sarà bene sospendere il giudizio e vigilare. Ma altre carte le ha messe ieri sul tavolo il governo. L'opposizione (pre o post-bicameralista che sia) è in grado di dire con franchezza se questa è la riforma della giustizia che serve al Paese oppure no? Ed è in grado di dire se è sensato oppure no un confronto con la maggioranza su questo testo-monstre di revisione costituzionale, che richiederebbe comunque ben quattro letture parlamentari e poi un sicuro referendum confermativo?

Con un po' di buon senso, e un po' di onestà intellettuale, non è difficile rispondere a queste domande. La riforma "ad castam", inventata dal governo per far finta di governare, può anche vellicare qualche suggestione "bipartisan". Ma non vedrà mai la luce, perché questo centrodestra non ha più né il tempo né la forza per farla passare. E questo, in fondo, è il suo unico, ma grandissimo "pregio".

m.giannini@repubblica.it

(11 marzo 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il processo lunghissimo
Inserito da: Admin - Aprile 06, 2011, 04:39:22 pm
   
Polis

Il processo lunghissimo

Massimo GIANNINI


"Brigatismo giudiziario". "Ostruzionismo efferato".
Il linguaggio del presidente del Consiglio e dei suoi "bravi" assume toni ogni giorni più violenti e avvilenti. Nella guerra sulla giustizia la maggioranza non sente ragioni e non fa prigionieri. Ogni arma è lecita. Le leggi ad personam e i ricatti. Il conflitto di attribuzione e l’ intimidazione. Berlusconi agisce per ubbìe individuali, la sua maggioranza opera con schizofrenie ordinamentali. Il combinato disposto dei due fattori rende geneticamente non credibile qualunque ipotesi di "riforma della giustizia" formulata da questa destra, cesarista e populista. E non per una pregiudiziale ideologica, ma per un’evidenza fattuale.

L’ ultimo esempio è di queste ore.
E la dice lunga sugli infiniti e contraddittori "piani" sui quali la coalizione forzaleghista sta conducendo le sue "battaglie".
La Camera è militarizzata per il dibattito intorno al disegno di legge sul processo breve, anzi "europeo", come ora Berlusconi ha imposto di chiamarlo a tutti i suoi luogotenenti. Un provvedimento che contiene il famigerato accorciamento della prescrizione per gli incensurati, grazie al quale il premier si salverà nel processo Mills, estinto prima dell’ estate se il ddl sarà convertito in legge entro i termini previsti. Norme spacciate all’ opinione pubblica con la seguente motivazione: non è un Paese degno e moderno, quello nel quale un processo penale dura in media otto anni, e un processo civile quattro anni. L’ Europa ci chiede di essere più rapidi ed efficienti: per questo ci servono processi velocizzati e prescrizioni "accorciate". Motivazioni false, richiami strumentali alla Ue. Il processo breve, come conferma il Csm, è in realtà una vera e propria "amnistia", che nega la giustizia, non l’afferma. Ma tant’è: a giustificarlo, almeno sulla carta falsa usata dal Cavaliere, c’è il principio dell’ economia processuale.

Al Senato, in questi stessi giorni, i figuranti della Pdl si lanciano in un offensiva di segno completamente diverse. Meglio, diametralmente opposto. Se a Montecitorio la parola d’ ordine è "processo breve", a Palazzo Madama il grido di battaglia è "processo lungo". In commissione Giustizia il capogruppo pidiellino Franco Mugnai ha infatti presentato due emendamenti al testo sul giudizio abbreviato 1, con i quali si stabilisce il divieto di utilizzare le sentenze definitive come prova dei fatti in esse accertati e si afferma la facoltà della difesa di presentare liste infinite di testimoni, anche superflui, oltre che di far ripetere prove già assunte senza che il giudice possa impedirlo. In altri termini, con queste norme si sancisce il diritto delle difese, con tutte le tecniche possibili e immaginabili, di intralciare il corso del procedimento e di dilazionare quanto più possibile le sentenze. Appunto: processo lungo. Anzi lunghissimo. E non processo "europeo", ma processo "levantino". Qui non conta più l’ economia processuale, ma l’ ipertrofia procedurale.

Il cortocircuito logico è evidente. Il cinismo politico è patente. Il collasso etico è eclatante.

Eppure, agli italiani, vendono l’ intero "pacchetto" come "una riforma della giustizia epocale".

(06 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/rubriche/polis/2011/04/06/news/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Dal tramonto del "Cesarismo" al declino di Berlusconi
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2011, 12:10:37 pm

L'ANALISI

Dal tramonto del "Cesarismo" al declino di Berlusconi

Così è saltato un sistema di potere. Anche Tremonti in campo contro Geronzi.

Caltagirone si è mantenuto in una posizione mediana, ma poi ha dato il via libera a Nagel

di MASSIMO GIANNINI

L'impensabile è dunque accaduto.
Persino in un Paese bloccato come l'Italia. Il ribaltone al vertice delle Generali, senza enfasi, è davvero una "svolta epocale". Un "regime exchange": nel gergo della diplomazia internazionale, non c'è altra formula possibile per definire l'uscita di scena di Cesare Geronzi.

Un vero e proprio "cambio di regime".

Un "cambio di regime" che rispecchia la metamorfosi in corso negli assetti della finanza. Ma un "cambio di regime" che riflette anche il mutamento in atto negli equilibri della politica.

Sul piano politico, la fine del "geronzismo" coincide con il declino del berlusconismo. E non poteva essere altrimenti, vista la perfetta omogeneità e complementarità dei due fenomeni. Se è esistito e resiste un "cesarismo" politico, questo è rappresentato da Berlusconi.
Se è esistito e ora si estingue un "cesarismo" finanziario, questo è sempre stato rappresentato da Geronzi. L'uno aveva bisogno dell'altro, per radicarsi e perpetuarsi. E dunque, fatalmente, la caduta dell'uno indebolisce anche l'altro.

Lo sancì un editoriale del "Foglio" di due anni fa, quando il Cavaliere aveva da poco trionfato alle elezioni e Geronzi, allora presidente di Mediobanca, veniva consacrato come unico, grande "banchiere di sistema" e "snodo fondamentale", al crocevia tra politica ed economia, del sistema di potere berlusconiano. Lo aveva confermato una cena a casa di Bruno Vespa l'8 luglio 2010, quando il premier (insieme all'inseparabile Gianni Letta, gran sacerdote del rito geronziano) sedeva allo stesso tavolo con lo stesso banchiere di Marino e con il segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone.

Le dimissioni forzate di Geronzi sono un colpo mortale per quel sistema di potere, cattolico-apostolico-romano, che attraverso l'asse Geronzi-Letta ha blindato il Cavaliere. Facendolo finalmente entrare e poi rafforzandolo nel Salotto Buono del capitalismo italiano. Portandogli in dote un potere d'influenza, diretta o indiretta, sulle banche e le aziende strategiche rimaste nel Paese (da Mediobanca a Generali, da Ligresti a Pirelli, da Telecom a Rcs). Alimentandolo sotto il profilo lobbistico-mediatico (spesso con l'ausilio della "macchina del fango"), attraverso la rete collaudata della P4 di Luigi Bisignani e dei siti Internet più o meno "amici" (come Dagospia).

Tutto questo, oggi, viene spazzato via. Con il contributo decisivo di Giulio Tremonti, e questa è l'altra enorme novità politica: attraverso Geronzi, il ministro dell'Economia affonda la lama nel cuore del suo "carissimo nemico" Letta. Si crea così una rottura, proprio nell'ingranaggio vitale dell'apparato. Si produce una sconnessione, proprio dentro il circuito di potere che in questi anni ha garantito continuità al sistema. Dalla Cassa di risparmio alla Banca di Roma, dalla Banca di Roma a Capitalia, da Mediobanca alle Generali: nelle sue tante vite, Geronzi ha incarnato il "motore immobile", il punto di equilibrio. Quando c'era la Dc garantiva Andreotti. Quando è nata Forza Italia ha garantito Berlusconi. Sempre all'insegna della contiguità, e della continuità. Ora tutto questo non c'è più. E questo è già un enorme passo avanti, per il piccolo mondo antico del capitalismo italiano.

Sul piano della finanza, cioè degli assetti interni ai Poteri Forti e alle Generali, resta da capire come e perché il ribaltone sia stato possibile. E qui è stato fatale l'approccio che Geronzi ha sempre adottato, quando ha preso in mano le redini di un gruppo. Con l'unica "delega" che gli è sempre stata a cuore, cioè il telefono, il banchiere di Marino ha sempre segato il ramo sul quale sedevano i suoi manager. Lo fece con Pellegrino Capaldo, ai tempi della Cassa. Lo fece con Matteo Arpe, ai tempi di Capitalia. Lo fece con Alessandro Profumo, ai tempi di Unicredit. Lo ha fatto con Nagel e Pagliaro, ai tempi di Mediobanca. L'ha fatto con Giovanni Perissinotto, in questo anno vissuto pericolosamente alle Generali.

Lo scontro tra Geronzi e Perissinotto, in questi mesi, è stato molto più feroce di quanto non si immagini. È cominciato come un conflitto "locale" (il caso Kellner e l'affare Vtb), ma è diventata ben presto una guerra totale (il ruolo strategico e il futuro della compagnia). Presidente con l'unica delega sulla comunicazione, Geronzi ha cercato in tutti i modi di continuare a controllare le partecipazioni strategiche di Generali (da Mediobanca a Intesa a Rcs) e di far diventare anche il Leone Alato un "braccio armato" della politica economica del governo, ipotizzando di snaturare l'azienda più ricca d'Italia (con attivi per 470 miliardi di euro) in una "compagnia di sistema". Il suo alleato iniziale, in questa battaglia, è stato il finanziere bretone Vincent Bollorè, vicepresidente, col quale si dice condividesse il progetto segreto di una successiva fusione Generali-Axa.

Perissinotto, Ceo group con tutte le deleghe, ha resistito. E alla fine l'ha spuntata, forte del sostegno dei consiglieri d'amministrazione "di minoranza". Diego Della Valle su tutti, protagonista e capofila della lotta più strenua contro Geronzi. Ma poi Lorenzo Pelliccioli, i tre consiglieri espressione dei fondi, e alla fine anche i due consiglieri di Mediobanca e lo stesso Francesco Gaetano Caltagirone, vicepresidente vicario.

Il momento più drammatico dello scontro è avvenuto il 16 marzo, nel cda in cui Bollorè si è presentato chiedendo di sfiduciare Perissinotto: "Il Ceo se ne deve andare, per me il bilancio è falso". La seduta è stata interrotta tre volte. E per ben tre volte, chiuso in una stanza attigua a quella del consiglio, Bollorè è stato "arginato", e alla fine convinto a ripiegare su un'astensione da Nagel, da Pelliccioli e da Caltagirone. Geronzi ha tentato solo una timida mediazione, ma nulla di più. E quello è stato l'inizio della fine.

Il giorno dopo, 17 marzo, Perissinotto ha scritto a Geronzi una lettera di fuoco: "Non posso accettare che un vicepresidente dichiari che il bilancio è falso. Questo episodio lede il nome e l'immagine delle Generali. Su questo non transigo, nessuno si può permettere di dubitare dell'onestà mia e dei miei dirigenti". Già in quella missiva, il manager chiedeva al presidente un atto formale che risolvesse il caso Bollorè: da una presa di distanza pubblica alla richiesta di un passo indietro. Quell'"atto formale" non è mai arrivato. Il presidente, come Don Abbondio, ha cercato di troncare e sopire. Ma senza mai schierarsi apertamente a fianco del management, perché non ha mai rinunciato all'idea di una trasformazione genetica delle Generali.

Per prendere tempo, il banchiere di Marino ha cercato un ultimo compromesso con il Ceo, nel faccia a faccia del 24 marzo a Piazza Venezia. Un altro confronto-scontro burrascoso. Geronzi ha offerto la tregua: "Chiudiamo la polemica, facciamo un comunicato congiunto e lasciamo decantare le cose...". Perissinotto ha risposto picche. "No, è troppo tardi, lei ha destabilizzato la compagnia, ed io non mi fido più. Se vuole fare il capo-azienda lo dica chiaramente in consiglio, ma così non si può andare avanti". Quella sera stessa, Perissinotto è stato convocato a Via XX Settembre da Tremonti. È stata la mossa che ha cambiato definitivamente il corso della partita.

Il superministro dell'Economia ha preso in mano la pratica Generali. Ufficialmente, per ascoltare il resoconto di Perissinotto e formulargli un invito ecumenico: "Siate responsabili...". Ma sostanzialmente, per assestare la spallata finale al Tempio Sacro del potere di Letta.
In queste due settimane sono stati frequenti i contatti tra il ministro e Nagel, che dopo qualche incertezza iniziale ha avallato il contrattacco di Perissinotto. In una telefonata del 24 marzo l'ad di Mediobanca avrebbe addirittura caricato il Ceo delle Generali: "Spiega a Tremonti che Geronzi è un problema, e che Bollorè è un pericolo...". La risposta: "D'accordo, io lo faccio. Ma perché non lo fai anche tu?". E Nagel lo ha fatto. In queste due settimane anche Mediobanca ha cambiato strategia. Dall'attesa è passata all'attacco.

Alla fine della scorsa settimana, poi, si è mosso Caltagirone.
Il vicepresidente vicario si era mantenuto su una posizione mediana. Fortemente irritato dalle manovre di Geronzi: "Stavolta ha veramente esagerato". Ma anche perplesso su certe sfuriate di Della Valle: "Se lui è il "nuovo", non andiamo lontano". E anche su alcune scelte di Perissinotto: "Abbiamo saputo del nuovo assetto della governance in Telecom solo a cose fatte, e questa è un'anomalia...". Ma alla fine il costruttore romano si è convinto che così le Generali non potevano reggere. E ha dato via libera a Nagel.

Così si è chiuso il ciclo di Geronzi.
Con uno strappo che cambia radicalmente il panorama del potere italiano. Ma le prossime mosse saranno cruciali. Dalla scelta del nuovo presidente di Generali agli assetti di Mediobanca, dal ruolo di Unicredit su Fonsai-Ligresti alla difesa delle aziende strategiche come Parmalat o Edison. Il "sacrificio" di Geronzi non sarà stato inutile solo se consentirà al sistema industrial-finanziario di diventare più moderno, alle strutture proprietarie di diventare più aperte al mercato e ai manager di diventare più autonomi dalla politica. La "rupture" delle Generali segna la fine del vecchio capitalismo. Ma il nuovo è ancora tutto da costruire.

m.giannini@repubblica.it

(07 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/economia/2011/04/07


Titolo: MASSIMO GIANNINI Costituzione, Sud, casa e incentivi: promesse addio.
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2011, 12:19:58 pm
L'INCHIESTA

Il piano truffa del premier, così la scossa all'economia è diventata un bluff

Costituzione, Sud, casa e incentivi: promesse addio.

A due mesi esatti dal varo del tanto sbandierato pacchetto per la crescita, non uno degli impegni è stato avviato


di MASSIMO GIANNINI

ANNUNCIAVANO una "scossa", e invece è stata una truffa. Oggi, a due mesi esatti dal varo del famoso "Big bang della ripresa", i nudi fatti dimostrano che il pacchetto "scossa all'economia", approvato a Palazzo Chigi il 9 febbraio scorso, è stata una banale operazione di marketing politico, una volgare "televendita", un puro diversivo. L'Italia è ferma, e il governo è immobile. È un giudizio basato sull'evidenza, non un pregiudizio dettato dall'ideologia. E non lo inficia il grande attivismo di Giulio Tremonti, sulle nomine nelle public utilities, sul ribaltone alle Generali e ora sulla nascita del Fondo salva-imprese da 20 miliardi, che nascerà lunedì sulle fondamenta della Cassa depositi e prestiti e che (anche se il ministro lo nega) somiglia tanto all'Iri del Terzo Millennio.

Queste sono altre "partite": riguardano il potere dell'establishment, non la crescita del Paese. La partita della crescita la stiamo perdendo. Per la semplice ragione che il governo non la sta giocando. "Per tornare a crescere dobbiamo dare una forte scossa all'economia. Forse la più forte che ci sia mai stata". Era il 2 febbraio, e Silvio Berlusconi, in un'intervista al Tg1 delle otto rassicurava così gli italiani, fiaccati da una lunga crisi economica, da una crescita zero del Prodotto lordo, da una disoccupazione giovanile al 30%. Una settimana dopo, il 9 febbraio appunto, ecco l'atteso "elettroshock". Consiglio
dei ministri straordinario a Palazzo Chigi, per varare il pacchetto "scossa all'economia". In conferenza stampa, con la parata dei ministri al gran completo e un Tremonti silenzioso (e palesemente conscio dell'effetto-raggiro della messinscena) il presidente del Consiglio annunciava entusiasta: "Siamo a un punto di svolta. Con questa scossa rilanceremo l'economia. Siamo sicuri che ci saranno sviluppi positivi, con un impatto sul Pil dell'1,5%. L'obiettivo è raggiungere una crescita del 3%, e perché no, anche del 4% nel giro di 5 anni".
Un trionfo. Salutato con toni celebrativi dall'intero circuito mediatico berlusconiano. Quel mercoledì 9 febbraio, il governo dava il "colpo d'ala" e il premier usciva finalmente dall'angolo, dopo settimane di stillicidio giudiziario con il tribunale di Milano e di quasi suicidio politico dentro la maggioranza. La "scossa" per far ripartire l'economia ruotava intorno a quattro "stimoli". La riforma dell'articolo 41 della Costituzione, per recidere lacci e lacciuoli dello Stato regolatore. Il riordino degli incentivi alle imprese, per renderli veloci e selettivi. Un provvedimento sulla semplificazione, per snellire procedure e adempimenti. Il Piano Sud, rilanciato per la quinta volta in un anno e mezzo. Il Piano Casa, ripresentato per la terza volta dalla vittoria elettorale del 13 aprile 2008.

A sessanta giorni esatti dai proclami del premier, il pacchetto si è dissolto nel nulla. Non uno di quei cinque punti spacciati come "rivoluzionari" all'opinione pubblica si è tradotto in norma di legge. Non uno di quei "miracoli" venduti alle parti sociali si è tradotto in atti concreti. Non c'è nulla. Non solo di varato, ma neanche di discusso, alla Presidenza del Consiglio, nei ministeri competenti, in Parlamento, negli enti locali. Nulla. A dispetto delle emergenze degli italiani e delle urgenze delle imprese.

L'articolo 41 di Tremonti
"È permesso tutto ciò che non è espressamente vietato". Questo era il nuovo "dogma" liberal-liberista, con il quale il governo aveva presentato la riforma dell'articolo 41 di una Costituzione considerata "sovietica" dal premier. Tremonti l'aveva preannunciata da almeno un anno, indicandola come un formidabile propellente per lo spirito d'impresa. Il 9 febbraio il provvedimento viene annunciato dal Consiglio dei ministri. Cambiano tre articoli della Costituzione: non solo il 41 (sulla funzione sociale dell'impresa), ma anche il 97 (con l'introduzione del "merito" nella Pubblica Amministrazione) e il 118 (che si modifica attribuendo allo Stato e agli enti locali il compito di "garantire l'autonoma iniziativa dei cittadini sulla base del principio di sussidiarietà").

Il ministro del Tesoro, che dovrebbe gioire, in conferenza stampa glissa e se ne va quasi subito, per prendere il treno che lo porterà nel Mezzogiorno insieme a Bonanni e Angeletti, in quello che è stato subito ribattezzato come "il viaggio della speranza". Ma riporre speranze salvifiche nel nuovo articolo 41 è fallace. Intanto perché è una revisione costituzionale, che ai sensi dell'articolo 138 richiede quattro lettura parlamentari e un eventuale referendum confermativo. Poi perché in 63 anni le imprese italiane sono nate e cresciute libere anche senza questa "revisione", di cui si fa fatica a comprendere l'impatto. E infine perché quel testo (rubricato alla Camera come n. 4144) è già affondato nel mare degli oltre 120 ddl di riforma costituzionale depositati e mai esaminati neanche in commissione. Nonostante questo, durante la conferenza stampa del 9 febbraio il ministro del Welfare Sacconi non risparmia i soliti toni epici: "Questa è una riforma storica". Come tutto quello che da due anni questo governo annuncia. Ma non fa.

Gli incentivi alle imprese di Romani
Altro ingrediente forte della "scossa", il neo-ministro dello Sviluppo Paolo Romani lo descrive così: "Con questo provvedimento eliminiamo le norme esistenti e riordiniamo gli incentivi in tre categorie: 1) rendiamo più semplice l'accesso agli incentivi automatici; 2) lanciamo nuovi bandi per il finanziamento di programmi organici; 3) snelliamo le procedure negoziali per il finanziamento dei grandi progetti d'investimento". Il testo riscrive "la disciplina della programmazione negoziata e degli incentivi per lo sviluppo del territorio, degli interventi di reindustrializzazione delle aree di crisi, degli incentivi per la ricerca e l'innovazione, di competenza del ministero dello Sviluppo a norma dell'articolo 3 della legge 99 del 23 luglio 2009". Ma c'è un primo problema: come recita il comunicato di Palazzo Chigi del 9 febbraio, il Cdm quel testo non l'ha varato affatto, ma si è limitato ad approvare "lo schema, rinviando ad un apposito decreto legislativo" da esaminare in un successivo Consiglio. C'è un secondo problema: anche quel decreto legislativo non ha mai visto la luce, perché nel frattempo in Parlamento sono scaduti i tempi per esercitare la delega. Quindi si ripartirà da zero. Se mai si ripartirà.

La semplificazione di Calderoli
Il terzo movimento della "frustata" incide sul rapporto tra Stato e mercato. Lo spiega ai cronisti il ministro competente, il leghista Roberto Calderoli: "Si tratta di norme semplificatorie che riguardano campi diversi, contratti pubblici, riqualificazione urbana, immobili di interesse culturale, volte a conferire celerità e snellezza delle procedure". Ma già dalla lettura del comunicato ufficiale di Palazzo Chigi del 9 febbraio, si capisce che la propaganda sta correndo più veloce della realtà. Anche in questo caso, il Consiglio dei ministri non ha approvato nulla, ma "ha avviato l'esame di un pacchetto di norme", e successivamente "ha rinviato a un tavolo di concertazione tra i numerosi ministri interessati la stesura definitiva del provvedimento, che sarà successivamente approvato in una prossima seduta". Da allora, non è stato messo in piedi alcun "tavolo", non c'è stata alcuna "stesura definitiva", non è stata convocata nessuna "prossima seduta". Non basta: il 9 marzo, un mese dopo l'annuncio della "scossa", lo stesso Calderoli ferma clamorosamente le macchine: "Il provvedimento sulla semplificazione slitta a dopo Pasqua". La motivazione riflette il caos entropico e la debolezza politica della coalizione forzaleghista: "Serve prima riportare la maggioranza nelle commissioni, a partire dalla Bilancio". Dunque, anche sulla semplificazione nulla di fatto. Se ne riparlerà a maggio. Salvo ulteriori rinvii.

Il Piano Sud di Fitto
Che sia un probabile bluff si capisce già il mercoledì della "scossa". Il Piano Sud era stato presentato e rilanciato già quattro volte. Ma in conferenza stampa il ministro per le politiche regionali Raffaele Fitto annuncia che entro il primo marzo arriverà la delibera Cipe e dichiara: "Si conferma l'impianto di novembre 2010, ed entro il 30 aprile sarà avviato il pacchetto di provvedimenti di attuazione". Il primo marzo è passato, e la delibera Cipe non si è vista, Al 30 aprile mancano tre settimane, ma non si è mossa una foglia. Lo ha ammesso malvolentieri lo stesso ministro, rispondendo in Senato a un parlamentare dell'opposizione: "La situazione è abbastanza preoccupante per le quantità di risorse rispetto agli obiettivi del piano... Entro marzo, e comunque non oltre aprile, il governo completerà l'iter approvativo... Quanto al Cipe, è chiaro che il riferimento al primo marzo era per segnare un periodo entro il quale completare questa fase... ". Come dire: è una scadenza buttata lì a caso, ma non conta niente e non vincola nessuno. Infatti la scadenza è passata, e niente è accaduto.

Il Piano Casa del Cavaliere
È il progetto sul quale il presidente del Consiglio ha dovuto già innescare due imbarazzanti retromarce. Non pago, il 9 febbraio ci riprova. "Riparte il Piano Casa, in uno dei prossimi Consigli dei ministri vareremo un decreto legge per rimuovere tutti gli ostacoli burocratici". Due mesi dopo, nessun Consiglio dei ministri riunito sul tema, nessun decreto legge varato, nessun ostacolo burocratico rimosso. Il Piano Casa resta una delle peggiori truffe mediatiche di questi ultimi anni. Le Regioni che possono vanno avanti da sole, con misure parziali ed episodiche che aiutano qualche piccola ristrutturazione, ma non danno certo "carburante" alla ripresa. Finora tredici governatori (dal Lazio alla Lombardia, dall'Emilia al Piemonte) hanno varato Piani Casa locali. Da Palazzo Chigi tutto tace.

La parabola del "pacchetto scossa" è tutta qui. La più colossale operazione di propaganda politico-economica mai costruita da un governo nella storia repubblicana. La più inquietante "arma di distrazione di massa" mai concepita da una maggioranza occupata soltanto a risolvere i problemi giudiziari del premier. Solo una domanda, cruciale: di fronte a questi imbrogli evidenti e fraudolenti, l'establishment no ha nulla da dire? Dov'è la Confindustria, raggirata sugli incentivi e sulla sburocratizzazione? Dove sono Cisl e Uil, ingannate sul fisco e sul Mezzogiorno? In attesa di risposte, non resta che aspettare il 12 aprile: entro martedì prossimo, Tremonti dovrà consegnare alla Ue il nostro Piano Nazionale di Riforme. Sarà il momento della verità. A Roma puoi anche barare, a Bruxelles non te lo permettono.

m.giannini@repubblica.it

(09 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/economia/2011/04/09/


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'ultima difesa
Inserito da: Admin - Aprile 15, 2011, 04:33:54 pm
IL COMMENTO

L'ultima difesa

di MASSIMO GIANNINI

LA TRENTOTTESIMA legge ad personam appena varata dalla Camera è l'espediente giuridico per un imputato eccellente, ma anche il ricostituente politico per un centrodestra agonizzante. Rianimato dall'atto di forza imposto al Parlamento, il presidente del Consiglio può rilanciare la fase che gli è più congeniale: quella del berlusconismo "da combattimento".

Non basta il via libera sulla prescrizione breve che lo può salvare dal processo Mills, ottenuto da un'aula di Montecitorio militarizzata dai capigruppo forzaleghisti e svilita dalla compravendita dei "responsabili". Non basta il dissennato disegno di legge sul "processo lungo" che lo può proteggere dalle sentenze su Ruby, Mediaset e Mediatrade, e che nel frattempo i "volonterosi carnefici" del premier stanno portando avanti al Senato con sprezzo assoluto dell'armonia ordinamentale e dell'economia processuale. Non basta la falsa "riforma epocale della giustizia" che il Guardasigilli Alfano gli ha confezionato, per punire i magistrati, per ingannare l'opposizione politica e per distrarre l'opinione pubblica. Il premier annuncia già la prossima battaglia. Vuole anche la legge-bavaglio, cioè la norma che limita drasticamente l'uso delle intercettazioni.

Non c'è limite a questa offensiva di primavera che ci accompagnerà fino alle prossime elezioni amministrative, tra un Parlamento trasformato nella Fortezza Bastiani del deserto dei tartari e un Tribunale di Milano trasformato nel palcoscenico di un predellino permanente. Berlusconi combatte perché vuole durare. Per questo non fa prigionieri.

Il premier non ha più dalla sua la politica: il governo non esiste, su nessuno dei fronti caldi della fase. Si alternano solo confusione e improvvisazione, dall'emergenza dei profughi all'esigenza delle riforme, dalla politica estera alla politica economica. L'unica "missione" visibile è la stessa da ormai diciassette anni: salvare il soldato Silvio dai suoi guai giudiziari. Per questo il capo del governo non esita a portare l'attacco al cuore dello Stato, delle istituzioni di garanzia, dei giudici.

Ma il premier ha ancora dalla sua l'aritmetica: la maggioranza è inchiodata a quota 314, lo stesso numero con il quale riuscì a respingere la mozione di sfiducia contro il governo presentata dai futuristi finiani il 14 dicembre e quella contro l'ex ministro Bondi presentata dal Pd il 26 gennaio. La fatidica quota 330, più volte evocata, resta una chimera. La coalizione è sfibrata dalla sua inettitudine operativa e lacerata dalle cene di corrente. Ma resiste, nonostante tutto. Nella sua metà campo, conta sulla precettazione forzata di ministri e sottosegretari. Nel campo avverso, si giova della defezione segreta dei franchi tiratori.

"Forte" della sua inconsistenza politica e della sua sufficienza numerica, Berlusconi non si rassegna al suo declino. E va fino in fondo, nel suo disegno di destrutturazione del sistema e di costituzionalizzazione della sua anomalia. La prescrizione breve è solo l'ultimo dei tanti, salatissimi "prezzi" che fa pagare agli italiani, per proteggere se stesso. Ma su questa ennesima legge-vergogna, o "amnistia permanente" secondo la definizione delll'Anm, sono ora accesi i riflettori del Quirinale. Le parole che il presidente della Repubblica ha pronunciato ieri, da Praga, sono chiarissime: "Valuterò i termini di questa questione quando saremo vicini all'approvazione definitiva in Parlamento". In quel "valuterò" non c'è l'annuncio di un'iniziativa specifica e preventiva sul disegno di legge che ora passa all'esame del Senato: né una bocciatura anticipata, né una moral suasion riservata. Napolitano si limita ad avvisare governo e maggioranza che esaminerà con particolare attenzione i contenuti ordinamentali e i profili costituzionali del testo, come prevedono le prerogative che l'articolo 87 della Carta del '48 gli riserva in materia di promulgazione delle leggi.

Il capo dello Stato, prima di firmare quel provvedimento, valuterà a fondo i suoi effetti. Avrà un precedente giuridico importante, sul quale parametrare la legittimità dell'attuale prescrizione breve: la legge ex Cirielli varata nel 2005 dallo stesso governo Berlusconi, che ridusse i termini della prescrizione con effetti retroattivi su tutti i processi pendenti, compresi quelli in Cassazione. Altra norma ad personam: allora per il Cavaliere c'erano in ballo i processi "toghe sporche", Sme e Imi-Sir. Altra forzatura delle regole: allora vi si opposero prima il presidente della Repubblica Ciampi (che pretese correzioni al testo in corso d'opera) e poi la Corte costituzionale (che giudicò parzialmente illegittima la legge). Oggi il precedente della ex Cirielli (che ha molte analogie con il caso del ddl Paniz) potrebbe avere un peso assai rilevante, nelle valutazioni di Napolitano. Il Quirinale, opportunamente, ha smesso da tempo di usare lo strumento della moral suasion, che presuppone la "leale collaborazione" tra le istituzioni.

Nei prossimi giorni tutto è dunque possibile. Il capo dello Stato saprà decidere per il meglio, come ha sempre fatto in questi anni difficili di "coabitazione all'italiana" con Berlusconi. Napolitano saprà come difendere i principi dello Stato di diritto, di fronte ai colpi di quello che i suoi cantori si ostinano a chiamare, simpaticamente, "il giocoliere galante", per occultarne la spinta destabilizzante. Si può "giocare" con tutto, ma non con la Costituzione della Repubblica italiana.

m.giannini@repubblica.it

(15 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/04/15/news


Titolo: MASSIMO GIANNINI Paniz e la macchina del pongo
Inserito da: Admin - Aprile 24, 2011, 05:59:47 pm
Paniz e la macchina del pongo

Massimo GIANNINI

Sul campo minato della giustizia è in corso un'interessante evoluzione della strategia politico-mediatica berlusconiana. In prima linea c'è il premier, che porta avanti la sua azione di sfondamento, supportato da una truppa scelta di assaltatori sconosciuti ma risoluti (da Pini a Ceroni). E qui non ci sono spazi di mediazione: c'è solo l'attacco frontale, violento e sistematico, contro magistratura e istituzioni di garanzia. Ma nelle retrovie c'è una novità: l'ascesa di Maurizio Paniz, il parlamentare dell'emendamento sulla prescrizione breve.

Da qualche giorno, Paniz dilaga su giornali e talk-show. Volto risorgimentale, eloquio forbito, competenza indiscutibile, tono fermo ma pacato: Paniz è chiaramente il front-man scelto dalla Struttura Delta per spacciare agli italiani l'"altra faccia" del berlusconismo.

Quella più presentabile: seria, moderata, dialogante. Quella che non fa paura, ma rassicura. Ma al di là della forma, la sostanza non cambia. Paniz serve a confondere l'opinione pubblica, e a dimostrare, per interposta persona, che Berlusconi non insulta ma viene insultato, non perseguita ma viene perseguitato.

Il messaggio subliminale: i veri moderati siamo noi. Insomma, l'ennesima manipolazione. Anche Paniz è un ingranaggio della macchina. Stavolta del "pongo", non del fango. Ma il risultato finale è lo stesso.

m.gianninirepubblica.it 1

(23 aprile 2011) © Riproduzione riservata

da - repubblica.it/rubriche/struttura-delta/2011/04/23/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Tremonti avverte il Pdl "La crescita non si fa con il deficit"
Inserito da: Admin - Aprile 26, 2011, 05:37:45 pm
IL COLLOQUIO

Economia, Tremonti avverte il Pdl "La crescita non si fa con il deficit"

Il ministro: "Nessuno si faccia illusioni, il rigore non ha alternative".

Congiure? "Solo sciocchezze. Ho avuto l'appoggio di tutti i ministri".

Su Berlusconi: "Lui è il Pdl. Senza  l'uno non c'è l'altro. Silvio è insostituibile"

di MASSIMO GIANNINI


"MANOVRE, congiure, complotti? Sciocchezze. Qui si lavora, come sempre...". Nonostante i veleni che l'hanno preceduta, Giulio Tremonti racconta di aver passato una Pasqua "assolutamente tranquilla". Una Pasqua "di ordinario lavoro", appunto: "business, as usual", come diceva Churchill agli inglesi ai tempi delle grandi guerre. Il ministro dell'Economia sta preparando il Decreto Sviluppo, che sarà varato entro la prima metà di maggio. Considera "superati" gli attacchi del collega Galan 1, amplificati in prima pagina dal giornale della famiglia Berlusconi. "Mi creda, è stata un'iniziativa estemporanea, che non aveva nulla di strutturale ma molto di personale. Non l'ho mai letta come una "manovra" contro di me, autorizzata o addirittura ispirata dal presidente del Consiglio 2".

Tremonti giura di aver chiarito tutto con Berlusconi, nel lungo faccia a faccia di venerdì scorso. Si considera "soddisfatto" delle garanzie ottenute dal premier, e della dichiarazione ufficiale di "sostegno politico" che ha ricevuto da lui. "Soddisfatto" anche dello scudo protettivo che su di lui continua ad erigere la Lega dell'amico Bossi. "D'altra parte - aggiunge - mai come in questa occasione c'è stato l'appoggio degli altri ministri: per la prima volta, forse, si sono mobilitati per me...". C'è appena un filo di ironia, nelle parole del titolare del dicastero di Via XX Settembre, che tuttavia non si sente "in pericolo", come successe nel 2004, quando fu costretto alla resa dall'assedio di Fini e Follini, e dovette cedere la sua poltrona a Domenico Siniscalco. Stavolta non vede colleghi-congiurati pronti a colpirlo alle spalle, come successe due autunni fa con Brunetta e Scajola, che muovevano minacciosi contro di lui come la foresta di Birnan circonda Macbeth sulla collina di Dunsinane. E meno che mai vede "cospirazioni" anti-berlusconiane che lo riguardino o lo coinvolgono: ha sempre detto che "Berlusconi è il Pdl", e che "senza l'uno non c'è l'altro", e ripete ormai da cinque anni che "Silvio è insostituibile, e dunque il problema, quando si porrà, non è "chi", ma "cosa" lo sostituirà...".

Dunque il governo va avanti, sia pure "in un quadro difficile e indecifrabile", in cui ci sono continue fibrillazioni politiche e tensioni istituzionali. Ma proprio per questo il ministro del Tesoro si concentra sul suo "core business": l'economia. Sta limando il Decreto Sviluppo, che vedrà la luce entro la prima decade del mese prossimo e sarà illustrato informalmente alla riunione dell'Ecofin e dell'Eurogruppo il 16-17 maggio. Tremonti attribuisce una certa importanza al provvedimento, sia per ragioni legate al "coordinamento europeo degli interventi di politica economica", sia per ragioni di politica interna. Non sarà una "svolta epocale", come troppo spesso ripetono ministri poveri di idee ma ricchi di retorica. Ma conterrà misure simboliche "tutt'altro che irrilevanti", che anticipano in parte il "Programma Nazionale di Riforma" sul quale dovrà pronunciarsi la Commissione Ue nell'ambito del nuovo "Semestre Europeo". Cioè quello che Tremonti, rimandando alla lettura della sua "Premessa" al Documento di Economia e Finanza deliberato dal Consiglio dei ministri il 13 aprile 2011, definisce "il luogo comune per cominciare a organizzare, all'interno di un unico processo politico, indirizzi ed impegni condivisi e coordinati" tra gli Stati membri. Un passo decisivo, dopo quel "Patto per l'Euro" ratificato il 25 marzo dal Consiglio d'Europa dei capi di Stato e di governo, "che rappresenta un traguardo destinato a modificare radicalmente la struttura costituzionale europea".

Con il Decreto Sviluppo - anticipa il ministro - "cominciamo a ridurre l'oppressione fiscale sulle imprese". Si tratta soprattutto di misure di semplificazione, che riguardano gli adempimenti connessi agli studi di settore e, per le famiglie, l'eliminazione dell'obbligo di inoltrare ogni anno al fisco il quadro aggiornato dei familiari a carico, per poter beneficiare delle relative detrazioni. Poi ci saranno sgravi parziali per la ristrutturazione edilizia degli immobili, misure di agevolazione per la rinegoziazione dei mutui casa con le banche, un avvio di quella fiscalità di vantaggio per il Mezzogiorno (sulla quale pende tuttavia il giudizio della Commissione), e l'ennesimo rilancio del Piano Casa, con una formula - sostiene Tremonti - "che ci consentirà di superare le asimmetrie tra Stato e regioni: se queste non si adeguano, vale lo schema nazionale". Infine, ci sarà il sostegno alla ricerca: "Lavoriamo a un credito d'imposta del 90% per le imprese che commissionano ricerche o finanziano investimenti nelle università e negli istituti di ricerca: e questo bonus è davvero una grande innovazione, per un Paese come l'Italia".

Tutto questo non basterà certo a imprimere quella "scossa all'economia" troppe volte promessa e mai attuata. Non basterà a tacitare i rilievi della Banca d'Italia sulla crescita insufficiente, né ad esaudire le richieste di "svolta" che arrivano dalla Cgil di Susanna Camusso, né a far sentire meno "sola" la Confindustria di Emma Marcegaglia. Soprattutto sul fronte fiscale, "l'oppressione" continuerà a restare tale, finché non si passa dalla limitazione degli adempimenti alla riduzione delle aliquote. E finché questo non accade, anche nella maggioranza i maldipancia resteranno. Ed anzi aumenteranno, in vista delle elezioni amministrative che lo stesso Berlusconi ha già definito "un test nazionale", con il pensiero rivolto soprattutto alla sfida di Milano. Tremonti lo sa, ma avverte: "Noi sui conti pubblici non possiamo abbassare la guardia: abbiamo un sentiero di rientro, che ci deve portare al pareggio di bilancio nel 2014 e alla riduzione del debito pubblico. Da quello non si può uscire. Non esiste la fase due, senza la fase uno...". E di nuovo, anticipando i possibili assalti alla diligenza che ripartiranno nei prossimi giorni grazie al partito trasversale della spesa annidato nel governo e nella maggioranza, il ministro rinvia alla lettura della sua "premessa" al Def: "Lì c'è scritto tutto: basta leggere".

Basta leggere, per capire che "stabilità e solidità della finanza pubblica sono essenziali, tanto nel presente quanto nel tempo a venire", e che "non sono possibili sviluppo economico ed equilibrio democratico senza stabilità e solidità della finanza pubblica". "Non ci sono più spazi per ambiguità e per incertezze - ricorda Tremonti - la politica di rigore fiscale non è temporanea, non è conseguenza imposta da una congiuntura economica negativa, e non è nemmeno "imposta dall'Europa", ma è invece "la" politica necessaria e senza alternative per gli anni a venire". Dunque, è il messaggio finale, governo, Parlamento e parti sociali "devono evitare illusioni, supponendo una presunta alternativa tra rigore e crescita: la crescita non si fa più con i deficit pubblici". Quindi, i cordoni della borsa restano serrati. Entro il 2014 l'impegno irrinunciabile resta quello di raggiungere un sostanziale pareggio di bilancio, abbattendo il rapporto deficit/Pil dal 3,9% del 2011 allo 0,2% e perseguendo, nello stesso tempo, il "sistematico incremento del surplus primario" e la "progressiva riduzione del debito pubblico". Non solo: sul piano ordinamentale Tremonti conferma la volontà di "introdurre nella Costituzione il vincolo della disciplina di bilancio", per renderlo più precisamente e direttamente codificato "in conformità con le nuove regole di bilancio europee". Per questo, come prevede il Def, "sarà presentato e discusso in Parlamento un appropriato testo di riforma costituzionale".

Ribadita la linea del Piave del rigore, resta il nodo dello sviluppo. E qui il piatto piange. Tremonti rimanda al "Programma Nazionale di Riforma", che scommette su quelli che il ministro chiama "motori di sviluppo esterni all'area della spesa pubblica in deficit". Opere pubbliche, edilizia privata, istruzione e merito, Mezzogiorno e turismo il "contenitore" deborda, il contenuto latita. Soprattutto, al primo punto dell'agenda, resta la riforma fiscale, che per il ministro dell'Economia significa riduzione dello sterminato numero dei regimi fiscali di favore, spostamento dell'asse del prelievo dalle imposte dirette a quelle indirette, riduzione delle aliquote attraverso l'abbattimento della spesa pubblica e il recupero dell'evasione fiscale. Promesse fatte tante volte, a parole. Ma mai onorate, nei fatti. E anche questa volta non c'è troppo da illudersi. Tremonti è il primo a sapere che, al momento, non ci sono le condizioni economiche e politiche per ridurre le tasse. Lo ha detto più volte a Berlusconi. Glielo ha ripetuto anche nell'incontro di venerdì scorso a Palazzo Grazioli. "Una seria riforma, che riduca sensibilmente la pressione fiscale, non si fa in un mese, alla vigilia di un voto amministrativo: serve più tempo, e serve un respiro più lungo...". Ma proprio questo è il tema: quanto tempo ha Berlusconi? Quanto respiro ha il suo governo? Ha spacciato miracoli. Ormai "commercia" solo in miraggi.

(26 aprile 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/economia/2011/04/26/news/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Un'altra Italia
Inserito da: Admin - Maggio 17, 2011, 05:05:16 pm
L'EDITORIALE

Un'altra Italia

di MASSIMO GIANNINI


LA FAVOLA è finita. Il berlusconismo come narrazione epica e proiezione carismatica cade sotto i colpi della nuda verità. Non c'è più spazio per la menzogna sistematica, la propaganda populistica, la manipolazione mediatica. Questa volta il presidente del Consiglio non può brandire sondaggi posticci come armi di distrazione di massa. Questa volta c'è il voto di tredici milioni di italiani, a dimostrare che la sua parabola politica non è un "destino ineluttabile", e nemmeno una "biografia della nazione".

 È stato Berlusconi ad annunciare che questo appuntamento elettorale era molto più che una contesa locale. È stato lui stesso a definire il voto di Milano "un test nazionale", e a trasformare di nuovo (come ha sempre fatto dalla mitica discesa in campo del '94) la chiamata alle urne nell'ennesimo, titanico "referendum" sulla sua persona. Ebbene, la risposta degli elettori è inequivocabile. Il premier ha perso il suo referendum. E lo ha perso in modo clamoroso, subendo il colpo più devastante proprio nel cuore del suo sistema di potere. Nella città dove la favola era cominciata, e dove la destra forzaleghista ha costruito negli anni una roccaforte che pareva inespugnabile e un'egemonia che sembrava insuperabile.

Questo voto fotografa innanzi tutto una rovinosa sconfitta personale del premier. Berlusconi ha personalizzato l'intera campagna elettorale. Con una strategia chiara: killeraggio politico contro gli avversari nelle città, stato d'assedio permanente contro le istituzioni nel Paese. Mentre sparava parole come pallottole contro le toghe "cancro da estirpare" e contro il Quirinale "potere da ridimensionare", il Cavaliere è sceso in battaglia da capolista a Milano (mettendo la faccia e la firma persino sull'accusa vergognosa e violenta della Moratti contro Pisapia) ed è sceso in campo da tribuno a Napoli (rilanciando le sue colossali "ecoballe" sulla sciagura dei rifiuti, persino quella colpa dei "pm politicizzati"). La strategia non ha pagato. Di più, si è rivelata un suicidio, in entrambi i comuni sui quali il premier si è speso in prima persona.

Milano va al ballottaggio, per la prima volta dal '97, con Berlusconi che vede più che dimezzati i suoi voti di preferenza rispetto alle comunali del 2006, il candidato del centrosinistra che è in vantaggio, il Pd che diventa primo partito della città. E con Pisapia che, a dispetto della bugiarda imboscata morattiana sul suo passato di "amico dei terroristi", viene votato in massa come unico e autentico esponente dei "moderati" nel capoluogo lombardo. Un vero e proprio "miracolo a Milano". E al ballottaggio va anche Napoli, dove Lettieri non sfonda nonostante i disastri del Partito democratico dalle primarie in poi.

Ma questo voto fotografa anche una sconfitta politica della maggioranza. Questa volta non perde solo Berlusconi. Al contrario di quanto accadde alle politiche di tre anni fa, i voti in uscita dal Pdl non sono stati drenati dalla Lega, che a Milano cede quasi 5 punti sulle regionali del 2010 e poco più di 3 punti sulle politiche del 2008. La vagheggiata Padania, invece di rafforzarsi ed espandersi, sbiadisce e restringe i suoi confini. A Torino stravince Fassino, a Bologna  vince Merola, e capoluoghi importanti come Trieste e Savona, Varese e Pordenone, Rovigo e Novara, vanno al secondo turno. Il vento del Nord ha iniziato a cambiare direzione. E questo, per il Carroccio, è molto più che un campanello d'allarme.

Bossi non può dire, come aveva sussurrato prima del voto, "se la Moratti vince abbiamo vinto noi, se perde ha perso Berlusconi". Di fronte a questi dati, è l'intera alleanza forzaleghista che affonda. La Lega paga un prezzo altissimo alla sua metamorfosi, da partito di lotta a partito di governo. E paga un conto salatissimo a quel "vincolo di coalizione" che l'ha unita e la unisce al Pdl: ha sostenuto le campagne più odiose e onerose del Cavaliere, dalle norme ad personam alla guerra in Libia, e non ha ancora portato a casa il federalismo "realizzato". Quanto possono reggere le camicie verdi, ingabbiate dentro questo patto scellerato, e private dello spirito libero, rivoluzionario e pre-politico, grazie al quale hanno sfondato gli argini del Po dal 2001 in poi?

Ma questo voto fotografa anche la vittoria politica delle opposizioni. Di tutte le opposizioni. Il Pd esce dal voto con qualcosa in più del risultato che si aspettava. Bersani aveva detto: mi accontento di due vittorie piene (Torino e Bologna) e di due ballottaggi (Milano e Napoli). È andata esattamente così. Con un dato milanese che va al di là di tutte le aspettative: certo, almeno nel voto di lista dovuto più alla debolezza dell'avversario che alla forza dello sfidante. Ma un dato pur sempre sorprendente, che si accompagna ad una ripresa anche nelle altre città e province in cui si è votato. Con questi numeri, sarà difficile pretendere dal segretario una "verifica" sulla linea politica, come qualcuno aveva chiesto inopinatamente prima del voto. Con questi numeri, sarà opportuno che l'intero stato maggiore dei democratici coltivi il valore dell'unità e non più il rancore delle divisioni.

Il Terzo Polo di Casini e Fini, anche se ottiene un rendimento non esaltante dal punto di vista dei candidati, si consolida come ago della bilancia su scala nazionale. Esattamente quello a cui puntava: con il Centro, grande o piccolo che sia, bisogna scendere a patti, per vincere le elezioni. Anche se la diaspora all'interno di Futuro e Libertà non pare finita, e produrrà probabilmente altre dolorose rese dei conti.

Le altre forze a sinistra del Partito democratico crescono in modo significativo. Non solo l'Idv, con l'exploit di De Magistris a Napoli, ma anche Sinistra e Libertà di Vendola e i candidati "grillini" a Milano e soprattutto a Bologna. Qualche anima bella, soprattutto nel centrodestra sedicente "moderato", lamenterà ora il rischio di un preoccupante bradisismo elettorale verso le ali più radicali dell'opposizione. Ma che cosa c'è stato di più irriducibilmente estremista e tecnicamente eversiva, in questi mesi, se non la guerra totale condotta da Berlusconi contro tutti i suoi nemici?

E ad ogni modo, con questi risultati bisogna confrontarsi, prendendo atto che nel Paese un'ampia fetta di elettorato sente un bisogno di rappresentanza per una sinistra più solida e visibile, in quella metà del campo. In vista dei ballottaggi, questa vastissima area di opposizione è chiamata all'assunzione di una responsabilità forte, all'altezza del compito che gli elettori le hanno affidato. Si vedrà poi quali effetti potranno scaturire, a livello nazionale, da questa scomposizione e ricomposizione del fronte "anti-berlusconiano". Se cioè potrà esserci il rischio di riproporre sul mercato politico una copia sbiadita dell'improponibile Unione del 2006, o se potrà nascere su basi nuove e diverse quell'Alleanza costituzionale per la fuoriuscita dal berlusconismo, senza scorciatoie tattiche o contaminazioni ideologiche.

Ci sarà tempo per riflettere sul dato più generale di queste elezioni amministrative, che ci consegnano un Paese con un elettorato molto più saggio, più pragmatico e più fluido di come forse lo immaginavamo. Un elettorato che non affida cambiali in bianco a nessuno, nemmeno al Grande Imbonitore di Arcore. Che chiede fatti e non parole, soluzioni e non rappresentazioni. Un elettorato che non sembra affatto contento del bipartitismo imperfetto e improduttivo di questi anni e che, pur senza rinnegare le logiche del bipolarismo, guarda a orizzonti più ampi ed esige alleanze più larghe.

Ma intanto occorre prendere atto che quest'area di forte opposizione a Berlusconi esiste. Ed è vastissima. Forse è già maggioritaria, in questa Italia evidentemente non del tutto narcotizzata dal quasi Ventennio dell'anomalia berlusconiana. Un'Italia stanca di guerra, di tracotanze istituzionali e di prepotenze mediatiche, di abusi di potere e di leggi su misura. Un'Italia che non ne può più di un esecutivo indeciso a tutto e di un capo di Stato che incarna l'Anti-Stato. Anche la Lega non potrà non tenerne conto, nella fase che si apre di qui al termine della legislatura. Non si può più governare con l'Intifada azzurra di Berlusconi e con i Responsabili di Scilipoti. Il voto di ieri dimostra che questo Paese merita molto di più, e molto di meglio.

m.giannini@repubblica.it
 

(17 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/05/17/news/


Titolo: MASSIMO GIANNINI La menzogna del potere
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2011, 06:10:50 pm
IL COMMENTO

La menzogna del potere

di MASSIMO GIANNINI


Il potere mente. Per abitudine alla manipolazione e per istinto di conservazione. Non c'è bisogno di aver letto la prima Hannah Arendt, o l'ultimo Don De Lillo, per sapere che "lo Stato deve mentire", o che il governo tecnicamente totalitario "fabbrica la verità attraverso la menzogna sistematica". Ma nessun potente mente con la frequenza e l'impudenza di Silvio Berlusconi. Non pago di aver danneggiato il Paese che governa, in un drammatico e surreale "colloquio" elemosinato a Obama a margine di un vertice tra gli Otto Grandi del pianeta, il presidente del Consiglio torna sul luogo del delitto. E, dopo aver inopinatamente e irresponsabilmente denunciato al presidente americano la "dittatura dei giudici di sinistra", lo "perfeziona", raccontando la stessa delirante bugia agli altri leader del G8.

Abbiamo già detto quale enorme discredito rappresentino, in termini di immagine internazionale, le parole scagliate contro l'Italia dall'uomo che dovrebbe rappresentarla al meglio nel mondo. Abbiamo già detto quali enormi "costi" imponga allo Stato, in termini di credibilità istituzionale, questo vilipendio della democrazia e dei suoi organismi. Ma è necessario, ancora una volta, squarciare la cortina fumogena con la quale il premier manomette i fatti, e denunciare l'ennesima menzogna sulla quale costruisce il teorema della "persecuzione giudiziaria". A Deauville, in una conferenza stampa costruita come una disperata requisitoria contro tutto e contro tutti, Berlusconi
compie l'ultima metamorfosi: da comune inquisito si trasforma in Grande Inquisitore. Accusa le "toghe rosse", insulta "Repubblica" e i giornalisti, "colpevoli" di non indignarsi di fronte allo "scandalo delle 24 accuse che mi riguardano, tutte cadute nel nulla". "Vergognatevi", tuona furente il presidente del Consiglio, calato nella tragica maschera dostoevskiana dei Fratelli Karamazov. Dovrebbe vergognarsi lui, per aver violentato ancora una volta la verità.

 A sentire il Cavaliere e i suoi "bravi", i processi che lo riguardano cambiano secondo gli umori e le stagioni. L'altro ieri aveva parlato di "31 accuse". In passato si era definito "l'uomo più perseguitato dell'Occidente, con 106 processi tutti finiti con assoluzioni". La figlia Marina ha evocato "26 accuse cadute nel nulla". Paolo Bonaiuti ha rilanciato con "109 processi e nessuna condanna". In realtà, come ha ricordato più volte Giuseppe D'Avanzo su questo giornale, i processi affrontati dal premier sono 16. Quattro sono ancora in corso: processo Mills (corruzione in atti giudiziari), diritti tv Mediaset (frode fiscale), caso Mediatrade (appropriazione indebita) e scandalo Ruby (concussione e prostituzione minorile). Negli altri 12 processi, solo tre sono state le sentenze di assoluzione: in un caso con "formula piena" (Sme-Ariosto/1, per corruzione dei giudici di Roma), negli altri due con "formula dubitativa" (Fondi neri Medusa e Tangenti alla Guardia di Finanza).

Gli altri 9 processi si sono conclusi con assoluzione, ma solo grazie alle leggi ad personam, fatte approvare nel frattempo dai suoi governi. Nei processi All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2 il Cavaliere è assolto dalla legge che ha depenalizzato il falso in bilancio. Nei processi sull'iscrizione alla P2 e sui terreni di Macherio è assolto perché i reati sono estinti e le condanne cancellate dall'apposita amnistia.

 Nei rimanenti 5 processi (All Iberian/1, affare Lentini, bilanci Fininvest 1988/1992, fondi neri del consolidato Fininvest e Lodo Mondadori) il premier è assolto grazie alle "attenuanti generiche", che gli consentono di beneficiare della prescrizione (da lui stesso fatta dimezzare con la legge Cirielli) e che operano sempre nei confronti dell'imputato ritenuto comunque "responsabile del reato".

Questa è dunque la verità storica, sull'imputato Berlusconi. A dispetto delle "persecuzioni" che lamenta, e delle "assoluzioni" che rivendica. Bugiarde, le une e le altre. È penoso doverlo ricordare. Ma è anche doveroso, alla vigilia di un turno elettorale che può cambiare il corso di questa disastrosa legislatura. E può spazzare via, finalmente, i danni e gli inganni compiuti dal Grande Inquisitore di Arcore.

m. gianninirepubblica. it
 

(28 maggio 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/05/28/news/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Serve un altro premier se no si va al voto.
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2011, 02:54:29 pm
L'INTERVISTA

"Via Berlusconi e faremo la nostra parte per un nuovo governo di fine legislatura"

L'analisi di D'Alema dopo le elezioni amministrative.

"Serve un altro premier se no si va al voto. Senza l'opposizione non si fanno grandi riforme, e quella della giustizia sarebbe spazzata via dal referendum"

di MASSIMO GIANNINI

ROMA - "Il risultato delle amministrative segna una svolta nel Paese. A questo punto, o si è in grado di dar vita a un governo di fine legislatura capace di fare ciò che serve all'Italia, cioè una manovra economica equa e una riforma delle legge elettorale, o si va al voto anticipato. Nell'uno e nell'altro caso, la condizione necessaria è che Berlusconi si faccia da parte". Massimo D'Alema, presidente del Copasir, riassume così il nuovo quadro politico post-elettorale. "I risultati parlano chiaro - dice l'ex ministro degli Esteri del Pd - c'è un cambiamento profondo nel Paese, e soprattutto nel Nord. Si è rotto il nucleo fondamentale del patto Berlusconi-Bossi sul quale si è retta l'Italia in questi anni. È esattamente questo asse di governo che è entrato in crisi con il voto. La parte più moderna ed evoluta del Nord, soprattutto nelle aree urbane, ha voltato le spalle al Pdl e alla Lega. E questa sconfitta non nasce dal linguaggio della campagna elettorale, ma dal fallimento del governo. Dal tradimento dell'idea di una società più libera, meno oppressa dal fisco e dalla burocrazia, che è stata il cuore del messaggio berlusconian-leghista. Questa rottura cambia i rapporti di forza del Paese: il Pd è il primo partito nelle maggiori aree metropolitane. Da Roma in su, tutte le città-capoluogo sono governate da noi".

Secondo avversari e politologi non ha vinto il centrosinistra, ha perso il centrodestra.
"Vedo circolare questa "velina". Ma non ha alcun fondamento. L'opposizione ha vinto, e il maggior partito dell'opposizione, cioè il Pd, ha visto accresciuta la sua leadership. Abbiamo guadagnato molti consensi rispetto alle regionali, e non solo in percentuale. In 29 comuni e province dove il centrosinistra ha prevalso, i nostri candidati vincenti sono 24. A Milano siamo testa a testa con il Pdl, ma negli altri capoluoghi del Nord siamo primi ovunque. Di che parliamo?".

Se parlassimo di Napoli e del Mezzogiorno, dove ce le avete prese?
"Abbiamo perso voti a Napoli, in altre città del Mezzogiorno e soprattutto in Calabria, e questo è derivato da punti di crisi del nostro partito cui bisognerà mettere mano con energia. Ma non è vero che nel Sud vince la destra. E non tutto il Sud è uguale: a parte il record di Salerno, c'è la Puglia dove le cose sono andate bene. Il dato più impressionante nel Mezzogiorno è la frantumazione politica che riflette la crisi sociale. Nelle città medie i candidati ai consigli comunali erano centinaia, e le liste erano decine. Questa polverizzazione da il segno di una mancanza di prospettive, e dunque facilita l'avvento di nuovi capipopolo o il ritorno di vizi antichi e di vecchie consorterie. Questo deve preoccupare tutti".

La questione cruciale è: che succede adesso? Il governo regge?
"Ora siamo al paradosso. Il Paese ha espresso una grande urgenza di cambiamento. L'attuale maggioranza ha una base di consenso ridotta a un terzo degli italiani. Di fronte a un quadro così mutato, è allarmante l'idea di un governo che vuol resistere altri due anni, non si sa bene a fare cosa. Un governo doppiamente delegittimato. In Parlamento, dove c'è una maggioranza numerica raccogliticcia e nata da un mini-ribaltone dopo la rottura con Fini. E ora anche nel Paese, come dimostra il risultato delle amministrative. Ebbene, questi signori pensano di fare finta di nulla?".

Così pare. Il premier rilancia su tutti i fronti, dal governo al partito.
"È una scelta totalmente irresponsabile. Questo non è un momento di ordinaria amministrazione. Siamo di fronte a scelte molto serie e importanti, per esempio sulla finanza pubblica. O si è in grado di dar vita a un governo di fine legislatura, che possa fare qualcosa di utile per il Paese, o si toglie il disturbo e si va alle elezioni".

Berlusconi non ci pensa nemmeno, e risponde: è ora delle grandi riforme.
"È un rito stancante, sentirli rilanciare adesso l'"agenda delle riforme", le più velleitarie e improbabili, tra l'altro. La riforma fiscale? E con quali soldi? La riforma costituzionale della giustizia? Non riesco neanche a indignarmi: in queste condizioni una riforma del genere sarebbe spazzata via dai cittadini, al referendum confermativo. Sono solo perdite di tempo. E di tempo non ce n'è più. Se questi signori intendono restare lì, arroccati a Palazzo Chigi, devono parlare d'altro. Si assumano almeno la responsabilità di risanare i conti, con una manovra economica che sarà più dolorosa proprio per le favole che Tremonti ha raccontato in questi tre anni. Questo è il primo dovere che hanno. Altro che "agenda delle riforme". La vera agenda che serve all'Italia è un'altra".

E quale sarebbe?
"Manovra economica equa e capace di rilanciare lo sviluppo, riforma elettorale, e poi nuove elezioni. Indichino loro una persona che può realizzare quest'agenda in pochi mesi. Noi possiamo prenderci anche una quota di responsabilità".

Naturalmente a patto che Berlusconi si dimetta?
"Non c'è alcun dubbio. Le sue dimissioni sarebbero necessarie non solo nella prospettiva di andare a elezioni anticipate, ma persino se si volesse salvare il cammino della legislatura. Senza l'opposizione non si fanno grandi riforme. Noi siamo pronti a fare la nostra parte. Ma prima se ne deve andare Berlusconi. Chi ci ha detto addirittura che non ci laviamo, ora non può venirci a dire "facciamo qualcosa insieme per l'Italia"...".

Ma la risposta ai problemi dell'Italia la può dare un governo di emergenza nazionale?
"Mi interessa relativamente poco il tipo di governo. L'importante, insisto, è l'agenda, che richiede un certo grado di condivisione. Non saprei dire quale sia la formula di un nuovo governo che riapre il dialogo. L'unica cosa che so, è che Berlusconi non è la persona adatta".

Ma il centrosinistra è adatto, per governare l'Italia? Il voto non dimostra uno spostamento dell'asse politico verso la sinistra più radicale?
"È vero l'opposto. Le candidature di Pisapia e De Magistris hanno portato a stemperare le posizioni più estreme. In questa campagna elettorale abbiamo registrato un comune sentire e una comune assunzione di responsabilità. Trovo straordinario che a Macerata il candidato di Sel sia venuto a sostenere il candidato dell'Udc. Come trovo interessante che la maggior parte dei candidati del Terzo Polo abbiano votato Pisapia a Milano. Mentre i politologi dicono che non si possono mescolare Vendola e Casini, gli elettori dimostrano che li vogliono mescolare allegramente".

Ora c'è invece chi sostiene che è inutile inseguire il centro, secondo l'idea fissa di D'Alema, quando basta ricompattare la sinistra.
"L'obiezione è priva di fondamento. Abbiano vinto perché sostenevamo l'idea di una larga alleanza democratica. Il maggior partito di centrosinistra non sbatte le porte in faccia al partito moderati. Se fossimo andati a votare dicendo "a noi del voto dei moderati non ci frega nulla", non li avremmo convinti a votare i candidati del centrosinistra. E invece questo è accaduto, e il risultato ci ha premiato. Qui nasce un cortocircuito: il partito va con una proposta politica alle elezioni, le vince e da questo trae l'insegnamento che la proposta politica va cambiata. Stravagante, non trova?".

D'accordo. Ma ora dovete passare dalle formule ai programmi. E qui sarà dura. Non si rischia il caravanserraglio della vecchia Unione?
"Questo è ora il nostro compito: lavorare a un programma di ricostruzione del Paese. Ma dobbiamo mettere a punto anche norme di comportamento precise. Ci vuole un vincolo di disciplina che ciascuno deve accettare, in Parlamento e fuori. Nella Spd tedesca, quando un parlamentare non è d'accordo con il partito su una questione di coscienza o sulla politica estera, può esprimere il suo dissenso con una dichiarazione in aula, ma non con il voto. Dobbiamo pensare a qualcosa di simile, per offrire ai cittadini la garanzia di una vera e duratura stabilità di governo".

E di Bersani cosa mi dice? Il Pd si è finalmente convinto del suo segretario? Sarà lui il vostro candidato premier?
"Bersani esce molto rafforzato. Si è confermata la sua capacità di lavorare alla ricostruzione del partito. Lui è certamente il nostro candidato premier. E lo sosterremo anche nelle primarie. In tutti i paesi democratici il leader del maggior partito è il candidato alla guida del governo. Io penso che sarà così anche in Italia".

E dei referendum del 12-13 giugno cosa pensa?
"La spinta al cambiamento dovrà proseguire anche lì. Ci impegneremo con tutte le nostre forze per raggiungere l'obiettivo".

m.giannini@repubblica.it

(03 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/06/03/news/


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'analisi di D'Alema dopo le elezioni amministrative.
Inserito da: Admin - Giugno 06, 2011, 12:38:02 pm
L'INTERVISTA

"Via Berlusconi e faremo la nostra parte per un nuovo governo di fine legislatura"

L'analisi di D'Alema dopo le elezioni amministrative.

"Serve un altro premier se no si va al voto.

Senza l'opposizione non si fanno grandi riforme, e quella della giustizia sarebbe spazzata via dal referendum"

di MASSIMO GIANNINI

ROMA - "Il risultato delle amministrative segna una svolta nel Paese. A questo punto, o si è in grado di dar vita a un governo di fine legislatura capace di fare ciò che serve all'Italia, cioè una manovra economica equa e una riforma delle legge elettorale, o si va al voto anticipato. Nell'uno e nell'altro caso, la condizione necessaria è che Berlusconi si faccia da parte". Massimo D'Alema, presidente del Copasir, riassume così il nuovo quadro politico post-elettorale. "I risultati parlano chiaro - dice l'ex ministro degli Esteri del Pd - c'è un cambiamento profondo nel Paese, e soprattutto nel Nord. Si è rotto il nucleo fondamentale del patto Berlusconi-Bossi sul quale si è retta l'Italia in questi anni. È esattamente questo asse di governo che è entrato in crisi con il voto. La parte più moderna ed evoluta del Nord, soprattutto nelle aree urbane, ha voltato le spalle al Pdl e alla Lega. E questa sconfitta non nasce dal linguaggio della campagna elettorale, ma dal fallimento del governo. Dal tradimento dell'idea di una società più libera, meno oppressa dal fisco e dalla burocrazia, che è stata il cuore del messaggio berlusconian-leghista. Questa rottura cambia i rapporti di forza del Paese: il Pd è il primo partito nelle maggiori aree metropolitane. Da Roma in su, tutte le città-capoluogo sono governate da noi".

Secondo avversari e politologi non ha vinto il centrosinistra, ha perso il centrodestra.
"Vedo circolare questa "velina". Ma non ha alcun fondamento. L'opposizione ha vinto, e il maggior partito dell'opposizione, cioè il Pd, ha visto accresciuta la sua leadership. Abbiamo guadagnato molti consensi rispetto alle regionali, e non solo in percentuale. In 29 comuni e province dove il centrosinistra ha prevalso, i nostri candidati vincenti sono 24. A Milano siamo testa a testa con il Pdl, ma negli altri capoluoghi del Nord siamo primi ovunque. Di che parliamo?".

Se parlassimo di Napoli e del Mezzogiorno, dove ce le avete prese?
"Abbiamo perso voti a Napoli, in altre città del Mezzogiorno e soprattutto in Calabria, e questo è derivato da punti di crisi del nostro partito cui bisognerà mettere mano con energia. Ma non è vero che nel Sud vince la destra. E non tutto il Sud è uguale: a parte il record di Salerno, c'è la Puglia dove le cose sono andate bene. Il dato più impressionante nel Mezzogiorno è la frantumazione politica che riflette la crisi sociale. Nelle città medie i candidati ai consigli comunali erano centinaia, e le liste erano decine. Questa polverizzazione da il segno di una mancanza di prospettive, e dunque facilita l'avvento di nuovi capipopolo o il ritorno di vizi antichi e di vecchie consorterie. Questo deve preoccupare tutti".

La questione cruciale è: che succede adesso? Il governo regge?
"Ora siamo al paradosso. Il Paese ha espresso una grande urgenza di cambiamento. L'attuale maggioranza ha una base di consenso ridotta a un terzo degli italiani. Di fronte a un quadro così mutato, è allarmante l'idea di un governo che vuol resistere altri due anni, non si sa bene a fare cosa. Un governo doppiamente delegittimato. In Parlamento, dove c'è una maggioranza numerica raccogliticcia e nata da un mini-ribaltone dopo la rottura con Fini. E ora anche nel Paese, come dimostra il risultato delle amministrative. Ebbene, questi signori pensano di fare finta di nulla?".

Così pare. Il premier rilancia su tutti i fronti, dal governo al partito.
"È una scelta totalmente irresponsabile. Questo non è un momento di ordinaria amministrazione. Siamo di fronte a scelte molto serie e importanti, per esempio sulla finanza pubblica. O si è in grado di dar vita a un governo di fine legislatura, che possa fare qualcosa di utile per il Paese, o si toglie il disturbo e si va alle elezioni".

Berlusconi non ci pensa nemmeno, e risponde: è ora delle grandi riforme.
"È un rito stancante, sentirli rilanciare adesso l'"agenda delle riforme", le più velleitarie e improbabili, tra l'altro. La riforma fiscale? E con quali soldi? La riforma costituzionale della giustizia? Non riesco neanche a indignarmi: in queste condizioni una riforma del genere sarebbe spazzata via dai cittadini, al referendum confermativo. Sono solo perdite di tempo. E di tempo non ce n'è più. Se questi signori intendono restare lì, arroccati a Palazzo Chigi, devono parlare d'altro. Si assumano almeno la responsabilità di risanare i conti, con una manovra economica che sarà più dolorosa proprio per le favole che Tremonti ha raccontato in questi tre anni. Questo è il primo dovere che hanno. Altro che "agenda delle riforme". La vera agenda che serve all'Italia è un'altra".

E quale sarebbe?
"Manovra economica equa e capace di rilanciare lo sviluppo, riforma elettorale, e poi nuove elezioni. Indichino loro una persona che può realizzare quest'agenda in pochi mesi. Noi possiamo prenderci anche una quota di responsabilità".

Naturalmente a patto che Berlusconi si dimetta?
"Non c'è alcun dubbio. Le sue dimissioni sarebbero necessarie non solo nella prospettiva di andare a elezioni anticipate, ma persino se si volesse salvare il cammino della legislatura. Senza l'opposizione non si fanno grandi riforme. Noi siamo pronti a fare la nostra parte. Ma prima se ne deve andare Berlusconi. Chi ci ha detto addirittura che non ci laviamo, ora non può venirci a dire "facciamo qualcosa insieme per l'Italia"...".

Ma la risposta ai problemi dell'Italia la può dare un governo di emergenza nazionale?
"Mi interessa relativamente poco il tipo di governo. L'importante, insisto, è l'agenda, che richiede un certo grado di condivisione. Non saprei dire quale sia la formula di un nuovo governo che riapre il dialogo. L'unica cosa che so, è che Berlusconi non è la persona adatta".

Ma il centrosinistra è adatto, per governare l'Italia? Il voto non dimostra uno spostamento dell'asse politico verso la sinistra più radicale?
"È vero l'opposto. Le candidature di Pisapia e De Magistris hanno portato a stemperare le posizioni più estreme. In questa campagna elettorale abbiamo registrato un comune sentire e una comune assunzione di responsabilità. Trovo straordinario che a Macerata il candidato di Sel sia venuto a sostenere il candidato dell'Udc. Come trovo interessante che la maggior parte dei candidati del Terzo Polo abbiano votato Pisapia a Milano. Mentre i politologi dicono che non si possono mescolare Vendola e Casini, gli elettori dimostrano che li vogliono mescolare allegramente".

Ora c'è invece chi sostiene che è inutile inseguire il centro, secondo l'idea fissa di D'Alema, quando basta ricompattare la sinistra.
"L'obiezione è priva di fondamento. Abbiano vinto perché sostenevamo l'idea di una larga alleanza democratica. Il maggior partito di centrosinistra non sbatte le porte in faccia al partito moderati. Se fossimo andati a votare dicendo "a noi del voto dei moderati non ci frega nulla", non li avremmo convinti a votare i candidati del centrosinistra. E invece questo è accaduto, e il risultato ci ha premiato. Qui nasce un cortocircuito: il partito va con una proposta politica alle elezioni, le vince e da questo trae l'insegnamento che la proposta politica va cambiata. Stravagante, non trova?".

D'accordo. Ma ora dovete passare dalle formule ai programmi. E qui sarà dura. Non si rischia il caravanserraglio della vecchia Unione?
"Questo è ora il nostro compito: lavorare a un programma di ricostruzione del Paese. Ma dobbiamo mettere a punto anche norme di comportamento precise. Ci vuole un vincolo di disciplina che ciascuno deve accettare, in Parlamento e fuori. Nella Spd tedesca, quando un parlamentare non è d'accordo con il partito su una questione di coscienza o sulla politica estera, può esprimere il suo dissenso con una dichiarazione in aula, ma non con il voto. Dobbiamo pensare a qualcosa di simile, per offrire ai cittadini la garanzia di una vera e duratura stabilità di governo".

E di Bersani cosa mi dice? Il Pd si è finalmente convinto del suo segretario? Sarà lui il vostro candidato premier?
"Bersani esce molto rafforzato. Si è confermata la sua capacità di lavorare alla ricostruzione del partito. Lui è certamente il nostro candidato premier. E lo sosterremo anche nelle primarie. In tutti i paesi democratici il leader del maggior partito è il candidato alla guida del governo. Io penso che sarà così anche in Italia".

E dei referendum del 12-13 giugno cosa pensa?
"La spinta al cambiamento dovrà proseguire anche lì. Ci impegneremo con tutte le nostre forze per raggiungere l'obiettivo".

m.giannini@repubblica.it

(03 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/politica/2011/06/03/news/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Un plebiscito contro Silvio Berlusconi
Inserito da: Admin - Giugno 14, 2011, 06:20:14 pm
Un plebiscito contro

Un plebiscito contro Silvio Berlusconi

Massimo GIANNINI


Un vero plebiscito. Ma al contrario. Abituato a declinare ogni appuntamento elettorale come un'autocelebrazione personale e un continuo rinnovamento acritico ed epifanico del suo consenso, Silvio Berlusconi incassa un gigantesco plebiscito "contro", e non a favore della sua persona. Ventisette milioni di italiani sono andati alle urne per testimoniare la loro voglia di riprendersi la politica che per troppi anni avevano delegato al Cavaliere. In due settimane di mobilitazione pubblica la volontà del popolo sovrano ha fatto giustizia di tre anni di mistificazione. Dopo la disfatta devastante delle amministrative, la sconfitta pesante del referendum conferma che il presidente del Consiglio non è più in grado di leggere gli umori degli italiani e di reggere gli onori del governo. L'esito quantitativo della nuova consultazione (il quorum) e il suo risultato qualitativo (il responso sui quattro quesiti) riflettono il cambiamento profondo della geografia e della geometria politica della nazione. Nel Palazzo c'è una maggioranza numerica che sopravvive a se stessa e resiste alla sua stessa agonia. Nel Paese c'è un'opinione pubblica che gli ha voltato le spalle, nelle scelte di merito e di metodo, perché stanca di una "narrazione" posticcia e artefatta che non ha più alcun collegamento con la realtà e con i problemi della vita quotidiana di milioni e milioni di persone "normali".

La sanzione più nitida e clamorosa di questa rottura tra gli interessi privati del premier e l'interesse collettivo degli italiani sta nel responso a valanga nel quesito sul legittimo impedimento. Dopo tre anni di menzogne propagandistiche sulla "riforma della giustizia" (interpretata solo nella chiave della soluzione dei problemi giudiziari dell'uomo di Arcore) i cittadini hanno capito e hanno votato di conseguenza. Dicendo un no forte alla stagione delle leggi ad personam e un sì chiaro al principio costituzionale che esige tutti i cittadini uguali davanti alla legge. E' un esito non scontato, e forse il più sorprendente di questo appuntamento elettorale. Segna davvero la fine di un ciclo storico, che dura ormai da diciassette anni, e che ha visto il Cavaliere protagonista di un assedio violento alla magistratura, con l'unico obiettivo di difendersi dai suoi processi attraverso l'estinzione dei reati o la cancellazione delle pene per via legislativa. Il risultato referendario, anche sotto questo profilo, è una bella vittoria della democrazia, in tutti i suoi sensi e in tutte le sue forme.

Ma insieme a questa politica dell'aggressione, dall'accoppiata amministrative-referendum esce a pezzi anche quell'ideologia post-politica (secondo la felice definizione di Geminello Preterossi) sulla quale si è retta la destra italiana di questi anni. Progressiva demolizione di tutto ciò che è pubblico, sdoganamento del qualunquismo più becero, inaridimento delle radici della vita democratica, abdicazione delle istituzioni alla legge del più forte, criminalizzazione sistematica del dissenso. L'onda referendaria spazza via in un colpo solo questo armamentario culturale populista sul quale è stato costruito il patto Berlusconi-Bossi. Dietro la scena di cartapesta del Popolo della Libertà e della Padania liberata, dietro la demagogia degli spiriti animali del capitalismo e dei riti pagani nelle valli alpine e prealpine, dietro l'idea "rivoluzionaria" del cambiamento federalista e anti-statalista, l'asse Pdl-Lega non ha costruito niente. Niente miracoli, solo miraggi. Niente crescita, solo declino. Adesso è tardi, per qualunque contromossa e per qualunque recupero. Il Carroccio ha pagato fino in fondo il tributo alla lealtà personale del Senatur nei confronti del Cavaliere. Per le camicie verdi si tratta di riprendere il largo, di tornare in mare aperto e alla strategia delle mani libere. E' solo questione di tempo e di modo. Ma il destino della coalizione è segnato, chiuso com'è dal vincolo esterno dell'Europa sui conti pubblici e dal vincolo interno ormai rappresentato dalla crisi della leadership berlusconiana.
 
Il premier ha perso prima il referendum virtuale, con le amministrative che lui stesso aveva trasformato in una drammatica e ultimativa ordalia su se medesimo. Ora ha perso anche il referendum reale, con una scelta astensionista disperata e insensata che ha sancito l'irrimediabile scollamento tra lui e la sua gente. Cos'altro deve accadere, perché Berlusconi tragga le conseguenze di questo fallimento? L'Italia non merita di pagare altri danni, alla volontà di sopravvivenza di un governo che non esiste più e che si tiene ormai solo sulla stampella instabile e impresentabile dei "Responsabili" di Romano e Scilipoti. Fa fede l'immagine di Calderoli, che come sempre parla il linguaggio ruvido del disincanto. Due "sberle" non fanno un ko. Ma sicuramente lo preparano. Prima avverrà, e meglio sarà per tutti.
 
(13 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI Sotto il vulcano
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2011, 11:00:34 pm
IL COMMENTO

Sotto il vulcano

di MASSIMO GIANNINI

NON c'è bisogno di aspettare Pontida per capire che il destino di Berlusconi è segnato. Lo dice l'economia, prima ancora che la politica.
Lo segnalano gli analisti finanziari, prima ancora che i leghisti padani. Moody's che minaccia di rivedere al ribasso il rating dell'Italia fa giustizia di giorni e giorni di chiacchiere irresponsabili e di richieste inesigibili.

Altro che grande riforma fiscale, altro che scossa all'economia, altro che allargamento dei cordoni della borsa per rimediare alla doppia sberla delle amministrative e del referendum. La verifica reale non la faranno la prossima settimana gli "improponibili" o i "responsabili" di questa maggioranza in disarmo: hanno già cominciato a farla quei ragazzi "terribili" che ogni giorno, da dietro un computer, decidono le sorti dei Paesi e dei mercati. L'allegra brigata berlusconiana, cieca e sorda di fronte alla realtà, danza sotto il vulcano. L'Italia non può permettersi il lusso di ridurre le tasse o di aumentare la spesa. Il nostro bilancio pubblico non offre margini. Il nostro debito non diminuisce. La nostra crescita é pressoché inesistente. In queste condizioni, qualunque passo falso sarebbe fatale, ed esporrebbe il Paese al pericolo di un downgrading, e quindi di una deriva greca. Aumento immediato degli spread dei nostri titoli e del premio di rischio richiesto dai mercati per sottoscriverli, impennata del costo del debito, necessità di aumentare ancora di più le tasse per finanziare l'aumento dei tassi. È la spirale temuta da settimane da Giulio Tremonti, che il presidente del consiglio non ha voluto vedere né capire, illuso com'è di poter riconquistare gli italiani con l'ennesimo gioco di prestigio, e di poter "fregare" l'Europa con l'ennesima truffa contabile.

Ora il premier è servito. Il siluro armato da Moody's è un argomento decisivo, nelle mani del ministro dell'Economia. Conferma che la sua non è un'impuntatura tardiva o autolesionistica, ma una necessità oggettiva a difesa dell'interesse nazionale. Non possiamo tradire il patto di stabilità, non possiamo sciogliere il vincolo esterno che ci lega all'Europa. Non possiamo rinunciare all'impegno del pareggio di bilancio. Al contrario: se vogliamo evitare la bancarotta, dobbiamo accelerare sul sentiero del risanamento e del rigore finanziario, anticipando a prima dell'estate la manovra da 40 miliardi che ci chiede la Ue e che si aspettano i mercati. Non c'è altra via.
È finito il tempo delle televendite propagandistiche e delle scorciatoie demagogiche. Prima ancora dei druidi padani e del sacro rito pagano di Pontida, la fine della ricreazione la suona la campana di Moody's. È una novità devastante per il Cavaliere. Ma è anche una pessima notizia per l'Italia. Dopo tre anni di lassismo berlusconiano e di cadornismo tremontiano, ci ritroviamo ancora una volta nel girone infernale del Club Med di Eurolandia. Tornare alla crescita, ha invocato Mario Draghi il 31 maggio, nelle sue ultime considerazioni finali da governatore della Banca d'Italia. È già tanto se non ci cacceranno dall'euro, grazie a questo governo di nani e ballerine, di faccendieri e di apprendisti stregoni.

m.giannini@repubblica.it

(18 giugno 2011) © Riproduzione riservata
da - repubblica.it/economia/2011/06/18/news/commento_giannini-17862898/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La linea del Piave di Tremonti Subito la manovra da 40 miliardi
Inserito da: Admin - Giugno 27, 2011, 05:35:59 pm
IL RETROSCENA

La linea del Piave di Tremonti "Subito la manovra da 40 miliardi"

La mossa  del ministro dell'Economia dopo l'annuncio di Moody's.

Fiducia nell'asse con Bossi: "Vedrete, verrà rinsaldato".

Stasera vertice delicatissimo

di MASSIMO GIANNINI


"Anticipare la manovra". Se mai ci fosse stato ancora un dubbio, sospeso tra i pronunciamenti demagogici del Grande Imbonitore di Arcore e i riposizionamenti strategici del Gran Cerimoniere di Pontida, la sortita di Moody's l'ha spazzato via in un colpo. Giulio Tremonti, adesso, si sente più forte. E ha un'arma in più per difendersi dall'accerchiamento di Berlusconi e Bossi: rilanciare sulla linea del rigore.
E varare subito, prima dell'estate, la maxi-manovra da 40 miliardi, che dovrà portare l'Italia al pareggio di bilancio entro il 2014.
È l'unica risposta possibile, da offrire all'Europa e ai mercati, per tenere il Paese al riparo dalla "sindrome greca".

Chiuso in casa a Pavia, il ministro del Tesoro si prepara a una domenica di passione. Questa mattina, sul pratone di Pontida, c'è il raduno della Lega, che dovrà decidere le sorti del governo. Maroni e Calderoli alzano i toni, e coprono le pretese di Cisl e Uil, palesemente velleitarie perché colpevolmente tardive. Dopo aver ingoiato senza fiatare ogni tipo di rospo, in tre anni in cui i salari reali del privato sono crollati e gli stipendi del pubblico impiego sono stati congelati, Bonanni e Angeletti si ricordano che famiglie e lavoratori, precari e disoccupati, meritano adesso una "ricompensa" fiscale. Minacciano addirittura uno sciopero, dopo aver boicottato ogni genere di protesta organizzata dalla Cgil. I due ministri leghisti si accodano. Bossi tace. Parlerà solo lui, oggi, al popolo padano. E tutti aspettano di
capire se romperà con Berlusconi (evitando di seguirlo nella deriva sfascista) o se romperà con Tremonti (smettendo di seguirlo sulla linea rigorista). Il ministro è tranquillo: il suo "asse" con il Senatur oggi "verrà anzi rinsaldato". Perché un conto è dire "serve la riforma fiscale subito" (come gridano Maroni e Calderoli), un altro conto è dire "serve una riforma fiscale, ma non ci sono i soldi per farla" (come dirà Bossi).

Questa sera, in Lussemburgo, c'è poi il vertice europeo che dovrà decidere le sorti di Atene. Nuovi aiuti, ristrutturazione del debito, né gli uni né l'altra. Tremonti non fa previsioni: "Tutto è possibile, nulla è scontato". La preoccupazione è altissima. L'effetto domino è dietro l'angolo. Per questo la riunione di stasera è fondamentale, in vista della riapertura dei mercati di domani, e più ancora del Consiglio Europeo di giovedì prossimo, quando la questione greca sarà all'ordine del giorno del vertice dei capi di Stato e di governo, e si tratterà di stringere ancora di più i cordoni della borsa, con buona pace del Cavaliere che si era illuso di convincere Sarkozy a chiedere un allentamento dei vincoli delle leggi di stabilità dei paesi membri nei prossimi due anni. Scorciatoie che solo la disperazione irresponsabile di Berlusconi può considerare ancora possibili, in un'Eurozona tormentata dal dissesto dei debiti sovrani e perciò tornata al centro degli attacchi della speculazione internazionale.

Come uscire da questa congiuntura, che somma in un'algebra impossibile l'urgenza di un forte stimolo interno con la cogenza di un fortissimo vincolo esterno? Tremonti non ha dubbi. E tanto a Pontida, quanto a Lussemburgo, offre la stessa risposta, che rimanda alla Legge di Stabilità e al Piano Nazionale di Riforma: "La politica di rigore fiscale non è un'opzione, non è temporanea, non è conseguenza imposta da una congiuntura economica negativa, ma è invece "la" politica necessaria e senza alternative per gli anni a venire". La linea del governo non può cambiare: non c'è spazio per una riforma fiscale generale, né tanto meno per un calo immediato delle aliquote Irpef. L'Italia deve garantire in tutti i modi "il rispetto dei vincoli sull'indebitamento netto e sul rapporto debito/Pil". Dunque, ancora una volta, Tremonti non si sposta dalla sua linea del Piave: né manovre in deficit, né misure che ci allontanano dal pareggio di bilancio.

L'altolà di Moody's aiuta la resistenza del ministro dell'Economia. Tremonti si aspettava una mossa del genere. La considera "un riflesso generalizzato della crisi greca, più che una critica specifica alla tenuta dei conti italiani". E dunque "investe allo stesso modo tutti i paesi dell'Eurozona", sia pure con un'intensità diversa. "E' una fase critica e delicatissima per tutti". Ma non c'è dubbio che per Paesi come la Spagna e l'Italia (dopo la diffusione della crisi tra Irlanda, Grecia e Portogallo) lo sia ancora di più. L'avvertimento dell'agenzia di rating, secondo la lettura che se ne da a Via XX Settembre, nasce da qui. "La tensione sugli spread di questi giorni riguarda tutta la struttura dei titoli di Eurolandia, non certo solo quelli italiani".

L'Italia, da questo momento, torna ad essere un sorvegliato speciale. Ed è per questo che Tremonti, adesso, è più che mai irremovibile sulla disciplina di bilancio. E punta a lanciare un segnale ancora più netto di rigore. Il segnale è appunto "l'anticipo della manovra da 40 miliardi". Un altro schiaffo alla strategia berlusconiana, che voleva una "scossa" espansiva subito, fatta di sgravi fiscali massicci, e la "stangata" rinviata (semmai) all'autunno. Il ministro inverte l'ordine: prima dell'estate "l'impianto dell'intera manovra che dovrà portarci al pareggio di bilancio nel 2014 dovrà avere una struttura di legge". Dunque entro luglio conosceremo i contenuti della legge delega sulla riforma fiscale e i sacrifici necessari qui ed ora, e poi nell'arco dei prossimi due anni. Questione di giorni. Passata la verifica (sempre ammesso che passi) dalla settimana prossima Tremonti conta di portare i primi provvedimenti in Consiglio dei ministri, per arrivare alla discussione e al via libera del Parlamento prima della pausa di agosto.

Il solco è già tracciato, secondo il ministro dell'Economia. "E' il Piano Nazionale per la Riforma. Quello è il nostro "palinsesto".
Nelle prime cinque pagine c'è scritto cosa dobbiamo fare per arrivare al pareggio di bilancio. E a pagina 6 c'è scritto cosa dobbiamo fare per portare a regime una seria riforma fiscale e assistenziale, basata sulla progressività, sulla solidarietà, sulla semplicità. Tarata sulla riduzione del numero sterminato di regimi fiscali di favore, almeno 400, e sul modello tedesco, che non è quello dello Stato costruttivista, che predetermina a tavolino le detrazioni e le deduzioni. Questo è il documento che abbiamo firmato in Europa. Questo è il patto che dobbiamo onorare. Non ci sono alternative". Il messaggio al Cavaliere, ancora una volta, è più chiaro che mai. Resta un'ultima questione, che tuttavia è cruciale sul piano del giudizio politico. Se adesso anche l'Italia rischia la tragedia greca, come dimostra l'allarme di Moody's, allora è un'intera politica economica che in questi tre anni è clamorosamente fallita. E di questo tutti, nello sgangherato "dream team" berlusconiano, portano allo stesso modo la loro quota di responsabilità. Questo governo ha tamponato il deficit, ma ha fatto riesplodere il debito, e ha dilapidato il tesoretto dell'avanzo primario. Il Paese non ha conosciuto vero né rigore contabile, né meno che mai vera crescita economica. Accorgersene, oggi, è una colpa etica imperdonabile. E rimediare, ormai, è una scommessa politica non più credibile.

m.giannini@repubblica.it
 

(19 giugno 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI La sinistra senza coraggio
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2011, 09:42:59 am
L'OPINIONE

La sinistra senza coraggio

L'astensione del Pd alla Camera sulla soppressione delle province è stato un errore imperdonabile, che significa voltare le spalle al "movimento invisibile" che ha votato alle amministrative e ai referendum

di MASSIMO GIANNINI


IMMERSA nella nube di "cupio dissolvi" che troppo spesso la acceca, la sinistra ha perso una formidabile occasione. Astenersi alla Camera, nel dibattito sul disegno di legge costituzionale per la soppressione delle province, è stato un errore imperdonabile. È come se l'opposizione, dopo aver trovato un prorompente e promettente varco politico dentro la società italiana che ha votato alle amministrative e ai referendum, gli avesse improvvisamente e inopinatamente voltato le spalle.

Dilettantismo? Opportunismo? Masochismo? Forse tutte e tre le cose. Sta di fatto che la politica, come la vita, è attraversata da fasi. L'esito della doppia tornata elettorale di maggio e di giugno imponeva una scelta inequivoca, che rendesse manifesta la capacità della sinistra di saper "leggere" la fase, e di saperla cogliere con tempestività e mettere a frutto con intelligenza.

La fase suggerisce l'esistenza di un'opinione pubblica sempre più stanca delle menzogne di un governo mediocre e inaffidabile, e sempre più stufa delle inadempienze di una "Casta" ricca e irresponsabile. Il ddl sull'abolizione delle province era la prima opportunità utile, offerta soprattutto al Partito democratico, per dimostrare di saper stare "dentro la fase".

C'era in ballo una ragione tattica, innanzi tutto. Tra molti mal di
pancia, l'altroieri il Pdl e la Lega hanno votato contro il testo proposto dall'Idv, rinnegando l'ennesima promessa tradita della campagna elettorale del 2008. La soppressione delle province era nel programma di governo del centrodestra, che ora se la rimangia allegramente, non solo rinunciando a cancellare le province esistenti, ma creandone di nuove. Sbarrargli la strada con un voto compatto di tutte le opposizioni avrebbe significato una quasi certa vittoria parlamentare, una clamorosa sconfitta della resistibile armata forzaleghista e un palese disvelamento delle sue contraddizioni interne.

Ma c'era in ballo soprattutto una ragione strategica. Il "movimento invisibile" che attraversa il Paese (secondo la felice metafora di Ilvo Diamanti) invoca da tempo un sussulto di dignità dall'establishment. Un taglio credibile ai costi della politica (tanto più di fronte all'ennesima burla prevista sul tema dalla manovra anti-deficit da 40 miliardi) resta uno dei temi più sensibili per una quota crescente di opinione pubblica, che subisce con disagio una condizione sociale sempre più dura e insicura e reagisce con indignazione di fronte ai privilegi sempre più intollerabili delle classi dirigenti. Auto blu, aerei blu, stipendi blu, pensioni blu. Tutto è blu, nel meraviglioso mondo del Palazzo.

Gli italiani chiedono alla politica efficienza, produttività, equità. Le misure appena varate dal ministro del Tesoro non gli offrono nulla di tutto questo. L'abolizione delle province era invece il primo test, sia pure collocato su un piano parzialmente diverso, per dare una risposta a questa domanda degli italiani. Il Pd quella risposta gliel'ha negata. E non ha capito che cogliere un "attimo" come questo è il modo migliore per evitare che monti ancora l'onda dell'antipolitica. È il metodo più efficace per contenerla, senza lasciarsi travolgere e poi essere costretti a subirla e a inseguirla. Com'è successo tante volte alla sinistra, dai girotondi di Nanni Moretti ai raduni di Beppe Grillo.

Ai riformisti non si richiede l'agio di lasciarsi "etero-dirigere" dalle masse, rifiutando la fatica necessaria di provare invece a guidarle. Il voto favorevole alla soppressione delle province poteva essere motivato senza cedimenti al populismo e al qualunquismo, perché la buona politica non deve mai ridursi a un'alzata di mano o alla x su una scheda. Il Pd aveva strumenti per inquadrare quel voto in uno schema di riordino complessivo dell'architettura istituzionale, dove non si punta a picconare a casaccio un sistema di autonomie locali codificato dalla Costituzione. Quello che non doveva fare è trincerarsi dietro la difesa di questo sistema, per giustificare la sua codina astensione. Ed è invece esattamente quello che ha fatto. Legittimando così i peggiori sospetti di chi vede in questa mossa malsana l'intenzione malcelata e maldestra di salvare le solite guarentigie e le solite poltrone.

Le province italiane sono 110. Costano al contribuente circa 17 miliardi di euro, cioè quasi la metà dell'importo della stangata a orologeria di Tremonti. Le presidenze di provincia occupate dal Pd sono 40, contro le 36 del Pdl, le 13 della Lega, le 5 dell'Udc. Tutti tengono famiglia. Ma se la sinistra non ha la forza e il coraggio di dimostrare agli italiani che non tutti sono uguali, la partita dell'alternativa non comincia nemmeno. Siamo fermi a Nenni: le piazze si riempiono, ma le urne si risvuotano.

(07 luglio 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/07/07/news/la_sinistra_senza_coraggio-18777976/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI In campo anche Bankitalia: sì al piano triennale ma deve ...
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2011, 08:27:23 am
IL RETROSCENA

Tremonti: "Ai mercati segnale forte ok alla manovra in una settimana"

Il ministro scosso dalle inchieste: misure blindate non possiamo ammazzare il Paese.

In campo anche Bankitalia: sì al piano triennale ma deve essere rafforzato

di MASSIMO GIANNINI


ILLUDIAMOCI pure. Sforziamoci di credere che il vertice straordinario di questa mattina a Bruxelles tra le più alte cariche di Eurolandia (Von Rompuy, Barroso, Trichet e Juncker) non sia stato convocato per discutere del "caso Italia". Ma da venerdì sappiamo che l'allarme tricolore, in Europa, è ormai suonato. Sul piano internazionale, si tratta di capire se e come sarà possibile disinnescarlo. Sul piano nazionale, si tratta di evitare che il fallimento politico di un governo ormai impresentabile si trasformi nella bancarotta di un intero Paese. Non siamo alla soglia di un altro 1992, quando un'Italia schiantata dal peso del suo debito pubblico fu distrutta dalla speculazione.

Allora la lira uscì dallo Sme e fu pesantemente svalutata, e il governo Amato impose alla nazione una cura da quasi 100 mila miliardi di allora, con tanto di "scippo" notturno sui depositi bancari. Ma da allora ad oggi la differenza più rilevante riguarda solo l'esistenza dell'euro, che finora ci ha salvato da un collasso sistemico. Per il resto, il debito ha ricominciato a salire, Berlusconi è il premier più screditato dell'Unione e nella sentenza d'appello sul Lodo Mondadori, la Corte lo ha giudicato ufficialmente colpevole (ancorché prescritto) di aver costruito il suo impero televisivo-informativo comprando una sentenza attraverso una tangente di 400 milioni di lire pagata ad un giudice. E la sua maggioranza è un esercito in disfacimento, mascariato da un manipolo di ministri litigiosi e parlamentari
inquisiti. L'economia affonda: crescita zero, occupazione zero, competitività zero.

In questo quadro sconfortante, l'unica speranza di evitare il disastro, già dalla riapertura dei mercati di questa mattina, è affidata a una manovra da 40 miliardi che dovrebbe portarci al pareggio di bilancio entro il 2014. E' una manovra piena di buchi neri, affidata per buona parte a una legge delega sul fisco di cui non si conoscono i tempi e non si capiscono i contenuti. Ma sul piatto non c'è nient'altro. E allora tanto vale ingoiare questa minestra riscaldata e un po' rancida. Nella speranza che basti a placare la fame degli speculatori globali.

Chi ha davvero a cuore i destini del Paese è ben consapevole della drammaticità del momento. E si sta muovendo, per mettere in sicurezza l'impegno, sottoscritto con la Ue, di raggiungere il pareggio di bilancio nel prossimo triennio. Il "triangolo istituzionale" che opera, in momenti come questo, conta su due lati solidi. Il primo è il Quirinale. In queste ore il presidente Napolitano sta rafforzando la sua moral suasion, già avviata nei giorni scorsi, per richiamare tutti "al senso di responsabilità". Già venerdì scorso, nelle stesse ore in cui partiva sui mercati l'attacco ai titoli italiani, a Loveno di Menaggio sul Lago di Como, Napolitano aveva compreso i rischi che il Paese stava correndo dalle parole sussurrategli dal "collega" Christian Wulff, presidente della Repubblica federale tedesca: "Non dovete desistere dal rigore; quando ero presidente della Bassa Sassonia ho tartassato i miei elettori, che volevano inseguirmi con il forcone. Ma alla fine mi hanno ringraziato...".

All'Italia è richiesto lo stesso sacrificio. Per questo il presidente della Repubblica ha avviato un giro di consultazioni a tutto campo. "Maggioranza e opposizione devono concordare sulla necessità di conseguire l'obiettivo del pareggio di bilancio. Voglio che questo obiettivo non sia messo in discussione da nessuna parte politica...". Le risposte, per ora, sono confortanti. Bersani e Casini, con il "patto di Bologna", sono pronti a fare la loro parte. Di Pietro rafforza il suo nuovo profilo "moderato", dichiarandosi disponibile a collaborare.

Il secondo lato solido del triangolo è la Banca d'Italia. Chi parla in queste ore con gli uomini di Via Nazionale ne trae indicazioni preziose. Mario Draghi e il direttorio partono dalla premessa che quanto sta accadendo sui mercati ha un'origine nelle incertezze dei leader europei di fronte alla crisi della Grecia. Troppe esitazioni sulla gestione degli aiuti, troppe indecisioni sul coinvolgimento o meno dei privati intorno al "bailout" per Atene. Ma il governatore e la sua squadra non si nascondono che il problema specifico dell'Italia esiste eccome. La rissosità e l'instabilità della maggioranza sono un richiamo forte per la speculazione. In più, cominciano a venire al pettine i nodi della manovra. Il pareggio di bilancio è un "imperativo categorico", ed averlo riconfermato ha un significato forte. Ma ora, si dice a Palazzo Koch, la manovra andrà rivista e rimpolpata al più presto, e con misure credibili, che diano garanzie sulla reale consistenza degli interventi di risanamento. In caso contrario, sarà difficile resistere all'assalto delle "locuste". Venerdì scorso siamo andati a un passo dal baratro, e Via Nazionale ha dovuto muoversi per evitarlo. Ma che succederà nei prossimi giorni? Domani ci sarà un'asta dei Bot annuali da 6,7 miliardi. Giovedì sarà un test più importante, con un collocamento di Btp decennali e quinquennali. L'agenda del debito pubblico è impegnativa, e culminerà a settembre con tre aste di titoli a medio lungo termine, per importi superiori ai 20 miliardi. L'auspicio di Via Nazionale è che ci si arrivi con la manovra pluriennale approvata, e, se possibile, rinforzata dal punto di vista qualitativo.

Quello che rende improbabile la speranza, tuttavia, è la debolezza assoluta del terzo lato del triangolo: il governo. Il presidente del Consiglio, dopo il comunicato di venerdì scorso successivo al pranzo con il ministro del Tesoro, è di nuovo scomparso dalla scena. Ha evitato di intervenire telefonicamente ad una delle solite iniziative domenicali della sua maggioranza. E per certi versi è stato un bene: invece di rassicurare il Paese, avrebbe dato fuoco alle polveri, attaccando a testa bassa i giudici per la sentenza esemplare che lo certifica "corruttore" e lo obbliga a pagare 560 milioni alla Cir. Il suo non è dunque un gesto di responsabilità, ma solo il segno di una disperazione dalla quale non sa come uscire. Resta Giulio Tremonti, allora, a difendere la "sua" manovra. Assediato sulla stangata a orologeria, accusato di aver tenuto al suo fianco come collaboratore quel Marco Milanese di cui ogni giorno si scoprono nuovi malaffari, sospettato di aver abitato nella casa di quest'ultimo, con un affitto pagato non si sa a che titolo, Tremonti è amareggiato. Molto più di quanto non dicano le sue esternazioni pubbliche. "Non ho nulla da temere. Non sono mai stato sfiorato da uno schizzo di fango...". E anche sulla manovra da 40 miliardi si mostra fiducioso: "Chi ci chiede di fare di più, o di anticipare ad oggi le misure previste per il prossimo triennio, non ha capito nulla. Se lo facciamo ci suicidiamo: ammazziamo il Paese. La verità è un'altra. Ai mercati daremo un segnale forte. E sa qual è? Il fatto che la manovra è blindata, e sarà approvata dal Parlamento in una settimana. Una cosa che nella storia d'Italia non è mai accaduta...".

Anche Tremonti confida insomma nel "senso di responsabilità" al quale fa appello Napolitano. Ma resta un'incognita, gigantesca. Al di là del cordone sanitario imbastito intorno al Paese dai suoi due più autorevoli organi di garanzia, questo governo non è credibile. Non lo è mai stato. Ma oggi è ancora peggio. Anche il ministro che ha tentato in modo colpevolmente tardivo di incarnare la virtù del rigore, con l'inchiesta di Napoli appare umanamente provato e politicamente indebolito. Lui continua a resistere, forte dell'unica sponda alla quale si può appoggiare, cioè quegli stessi mercati che da "filosofo" ha sempre esecrato: "Venerdì, con l'attacco all'Italia, si è toccato con mano qual è il "costo politico" di Giulio Tremonti: dimissionatemi pure, e vedrete cosa succede ai titoli di Stato...". Probabilmente ha ragione lui. Ed è per questo che Napolitano e Draghi esigono che questa manovra, pur con tutti i suoi difetti, arrivi al traguardo senza troppi danni. Ma una politica non si può reggere sui ricatti. E c'è anche chi obietta che la manovra, con la sua irrinunciabilità e la sua intangibilità, sia un'arma spuntata. Vista la dinamica del venerdì nero, lo sostiene più di un operatore di Borsa: "Ma quale manovra da salvare! Se Berlusconi saltasse domattina, sui mercati sarebbe una festa, e lo spread crollerebbe al minimo storico ...". È sicuramente un paradosso. Ma rende bene l'idea di quale sia la credibilità di questo governo presso la business community.

(11 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI Lo strappo finale
Inserito da: Admin - Luglio 21, 2011, 05:49:07 pm
IL COMMENTO

Lo strappo finale

di MASSIMO GIANNINI


CHIUSO nella trincea di Palazzo Grazioli, ormai trasformata in Palazzo d'Inverno, il premier incassa la sconfitta più amara. In tre anni di sfascismo politico e processuale, la Lega non lo aveva mai lasciato solo sul fronte della giustizia. Aveva coperto ogni sua legge-vergogna, ogni sua intemperanza verbale e costituzionale. Ma con il voto su Papa, il Carroccio consuma lo strappo finale. Il Cavaliere rimane davvero solo. Il moribondo governo Berlusconi-Bossi non esiste più. Resiste solo l'inverecondo sub-governo Berlusconi-Scilipoti.

Il primo dato politico forte, che emerge dal doppio voto segreto dei due rami del Parlamento, è esattamente questo. Il Cavaliere esce a pezzi dall'ordalia di Montecitorio, dove le camicie verdi del Senatur, dopo un penoso tira e molla durato una settimana, sparano "fuoco amico" contro l'avvocato pidiellino sotto accusa nell'inchiesta sulla P4.

Sono voti pesantissimi. Contraddicono clamorosamente gli appelli lanciati a più riprese dal premier e dalla sua claque. Svelano palesemente l'ormai insostenibile cortocircuito nel quale si avvita la strategia della Lega. La fedeltà personale di Bossi nei confronti di Berlusconi non può più coesistere con l'irriducibilità politica di una base che invoca ad alta voce mani libere. Al Grande Capo della tribù padana, stanco e debilitato, non basta più il carisma sacrale e autocratico per spiegare le ragioni di un'alleanza asimmetrica, dalla quale il Carroccio incassa ormai molti più perdite che profitti.

Esiste un "fattore monetine". La Lega, e l'intera opposizione, ha fiutato il clima che si respira nel Paese, attraversato da una vena antipolitica che (come avvenne ai tempi di Craxi davanti al Raphael) non avrebbe perdonato alla "Casta" l'ennesima guarentigia. In un'Italia bastonata dalla manovra di Tremonti e indignata per i privilegi della nomenklatura che quella stessa manovra ha risparmiato, il no all'arresto di Papa sarebbe stato intollerabile. O per lo meno lo sarebbe stato per i leghisti, che ai tempi di Tangentopoli, fomentati dagli elettori secessionisti delle valli alpine, agitavano i cappi nell'aula di Montecitorio.

La Lega è dunque tornata alle origini. Ma la frattura con il Pdl su Papa è in realtà solo un'altra tappa, in un'escalation di autonomizzazione che ormai abbraccia l'intero spettro dell'azione di governo: dai rifiuti di Napoli alle missioni all'estero.

L'unico a non aver compreso la fase, e a ostinarsi a riscrivere la storia a suo abuso e consumo, è il presidente del Consiglio. Urla alla luna, gridando il suo sdegno contro il giacobinismo delle toghe e contro "l'inaccettabile deriva delle manette" dalle quali la politica si deve difendere.

La sua ossessione lo tormenta. Lo costringe alle solite nefandezze, come il rilancio dell'inaccettabile legge-bavaglio sulle intercettazioni. Lo induce alle solite menzogne. In un Paese squassato dagli scandali (che vanno dalla Struttura delta alla P4, dalla collusione con la mafia alla corruzione della Guardia di Finanza) il problema non è l'azione penale della magistratura, ma il malaffare della politica. Stigmatizzare la prima, senza vedere il secondo, è un'operazione di pura disonestà intellettuale.

Esiste una "questione morale". La si può chiamare anche in un altro modo, per non scomodare una "formula" impegnativa come quella che coniò a suo tempo Enrico Berlinguer. Ma non la si può nascondere. Lacera il centrodestra, e investe anche il centrosinistra, come dimostrano le inchieste su Pronzato, su Morichini, ora anche su Penati.

Per questo ciò che è accaduto al Senato, con il voto segreto parallelo sulla richiesta d'arresto di Alberto Tedesco, deve far riflettere. Se è vero che a votare no, nel segreto dello scranno, è stata anche una parte dei senatori del Pd (in dissenso con la linea del partito concordata sia a Palazzo Madama sia a Montecitorio) allora c'è davvero poco da esultare. Il Partito democratico deve far chiarezza al suo interno. In tutti i sensi. La trasparenza dei comportamenti, sia in Parlamento che fuori, è materia non negoziabile. E comunque non trattabile con le furbizie o le geometrie variabili tra un ramo e l'altro delle due Camere.

In una prospettiva post-berlusconiana, proprio il tema delle geometrie variabili fa emergere il secondo dato politico forte, dello show-down di ieri a Montecitorio. I voti delle opposizioni, sommati a quelli in libera uscita della Lega, hanno prodotto un risultato numerico significativo: 319. Più o meno la stessa "quota" con la quale il Cavaliere governa dal 14 dicembre dell'anno scorso, cioè da quando Fini ruppe il patto e Futuro e Libertà cambiò schieramento.

È nata un'altra maggioranza? Siamo ai primi vagiti di quell'"alleanza costituzionale" che, mettendo insieme Pd, Terzo Polo e Lega, potrebbe sostenere un governo di emergenza nazionale? È difficile capire se, oltre all'ipotesi aritmetica appena dimostrata, possa reggere alla prova anche l'ipotesi politica. Ed è altrettanto difficile capire oggi quale scenario sia migliore per il prossimo autunno, tra un governo di salute pubblica e le elezioni anticipate. L'unica cosa che non può reggere, con assoluta certezza, è il governo Berlusconi-Scilipoti. L'Italia, nel mirino della speculazione internazionale, non se lo può più permettere.

(21 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI Lo spirito del '92 che serve al Paese
Inserito da: Admin - Luglio 28, 2011, 11:54:59 am

IL COMMENTO

Lo spirito del '92 che serve al Paese

di MASSIMO GIANNINI

COM'E' già successo nell'Italia del '92, in uno dei tornanti finali della Prima Repubblica, di fronte al collasso del sistema politico tocca alle parti sociali propiziare la "svolta". Oggi la storia si ripete. Di fronte alla crisi irreversibile del berlusconismo, che precipita il Paese nella palude, capitale e lavoro si uniscono e invocano "discontinuità".

Nonostante in Borsa e sui mercati piovano pietre sempre più pesanti, l'irresponsabile propaganda governativa continua a ridimensionare la portata degli attacchi speculativi contro i titoli della nostra piazza finanziaria e del nostro debito sovrano. Di fronte a questa dissennata disinformazione di massa, il comunicato congiunto di tutte le forze della rappresentanza economica e sociale ristabilisce il "principio di verità". C'è un problema europeo di fragilità strutturale dei Paesi periferici. C'è un problema americano legato al rischio-default della nazione guida della produzione e degli scambi. Ma l'Italia, proprio l'Italia, è sotto attacco, e non per caso. La sua economia non cresce, il suo debito non è sostenibile, e soprattutto la sua politica non è all'altezza del compito che la fase gli assegna: innescare un "immediato recupero di credibilità nei confronti degli investitori".

L'iniziativa straordinaria di questo "partito trasversale" dei ceti produttivi ha dunque un doppio significato. Un significato economico: dà la misura della drammatica emergenza che l'Italia sta attraversando. Un significato politico: mette in mora Berlusconi, e di fatto lo "liquida" in nome di un interesse generale che il suo governo non è più in grado di assicurare. Per questo serve una "discontinuità capace di realizzare un progetto di crescita del Paese", che garantisca "la sostenibilità del debito e la creazione di nuova occupazione".

Si potrà discutere a lungo sull'esegesi del termine. Ma evocare una "discontinuità", in questa congiuntura politica, vuol dire invocare la fine di questa disastrosa avventura berlusconiana, che sta scaricando sulla collettività un "costo" ormai proibitivo, tra manovre inique e recessive, differenziale tra Btp e Bund, e quindi aumento del costo del denaro per famiglie e imprese.
Come nel '92, le parti sociali esigono un cambiamento radicale. Propongono una "supplenza", sostituendo una politica che non ce la fa. In questa chiave va letto il rilancio di un grande "Patto per la crescita" che coinvolga tutte le forze in campo. Esattamente come accadde quasi vent'anni fa, quando gli accordi di luglio sul costo del lavoro tra Confindustria e sindacati risollevarono un Paese distrutto dalle macerie di Tangentopoli.

Ma sembrano proporre anche una "reggenza", alludendo a una politica che ce la può fare. Governo "tecnico", affidato a Mario Monti? Governo di "salute pubblica", affidato a Giuliano Amato? Governo di "emergenza nazionale", affidato a Giulio Tremonti? Non importano la "formula" e il "nome". Quello che importa è che la richiesta delle forze sociali è ormai in campo. E tutti i protagonisti della partita in atto dovranno tenerne conto.

Dovrà tenerne conto il ministro dell'Economia, che a questa "rete" di forze guarda con attenzione e che da questa stessa "rete" di forze è stato spesso sostenuto. Tremonti ha il dovere ormai irrinunciabile di sgombrare il terreno (se è davvero in grado di farlo) dagli equivoci e dalle ambiguità: a proposito dei suoi rapporti con Marco Milanese, del "mercato di nomine" organizzato dal suo ex braccio destro nelle aziende controllate dal Tesoro, del suo presunto "contributo" al canone d'affitto della casa di Via Campo Marzio.

E forse dovrà tenerne conto il presidente della Repubblica, che ha sempre mostrato una sensibilità particolare per tutto ciò che fibrilla e si muove nella società italiana. Napolitano certamente avrà già valutato la portata di questa mossa trasversale, che vede sigle e corpi intermedi, spesso in conflitto tra loro, stavolta riuniti sotto le stesse insegne, quelle della "responsabilità". Organi della rappresentanza che, in questi tre anni, hanno palesato un colpevole collateralismo gregario nei confronti del governo (a partire dalla Cisl di Raffaele Bonanni) e che oggi recuperano tra loro quell'autonomia cercata invano dentro il Pdl.

L'unico che non terrà conto di questa svolta, perché non ne condividerà i contenuti e non ne
accetterà le conseguenze, è Silvio Berlusconi. Il presidente del Consiglio, ancora ieri, era totalmente immerso nelle sue consuete "turbe" giudiziarie: la poltrona di ministro della Giustizia affidata al fedele deputato che nel 2001 presentò una vergognosa norma salva-Previti, l'ennesimo abuso di potere architettato con la legge sul "processo lungo" che deve evitargli una sentenza sul Ruby-gate. Mentre l'Italia cedeva sotto i colpi della speculazione internazionale, la Borsa bruciava 23 miliardi di capitalizzazione, l'allargamento degli spread oltre quota 300 punti ci caricava di un fardello ulteriore (a regime) di 48 miliardi di interessi sul debito, il premier inseguiva i suoi soliti fantasmi. La giustizia, le toghe, i processi... In questo abisso che si allarga, tra le preoccupazioni pubbliche degli italiani e le ossessioni private del premier, c'è la vera cifra del suo fallimento politico.
m.giannini@repubblica.it


(28 luglio 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI "In caserma non ero tranquillo: ero controllato, pedinato".
Inserito da: Admin - Luglio 29, 2011, 09:30:01 am
IL CASO

Tremonti: "Una stupidata quella casa ci andai perché mi sentivo spiato"

Le spiegazioni offerte dal ministro sulla discussa offerta di Milanese colpiscono l'intero sistema di potere berlusconiano.

Il titolare del Tesoro temeva di essere vittima di una guerra tra bande dentro la Finanza.

"In caserma non ero tranquillo: ero controllato, pedinato".

"Chi parla di evasione fiscale è in malafede: posso dimostrare l'assoluta regolarità del mio comportamento"

di MASSIMO GIANNINI


"LO RICONOSCO. Ho fatto una stupidata. E di questo mi rammarico e mi assumo tutte le responsabilità. Ma in quella casa non ci sono andato per banale leggerezza. Il fatto è che prima ero in caserma ma non mi sentivo più tranquillo. Nel mio lavoro ero spiato, controllato, pedinato. Per questo ho accettato l'offerta di Milanese...". Finalmente, dopo lunghi giorni di imbarazzi e di silenzi, ecco la versione di Giulio Tremonti, al culmine di un assedio che lo vede all'angolo da un mese, e che rischia di farlo cadere da un giorno all'altro. Non una banale giustificazione "tecnica". Ma una brutale ricostruzione politica che, se autentica, tocca il cuore del sistema di potere berlusconiano.

Il "partito degli onesti" è un grumo di malaffari pubblici e di rancori privati. Un ministro dell'Economia, che ha appena imposto agli italiani una stangata da 48 miliardi di euro, si può pagare l'affitto di casa in nero? In quale altra democrazia occidentale sarebbe pensabile un simile cortocircuito etico e politico? Impensabile, insostenibile.

E infatti Tremonti è nell'occhio del ciclone. Non solo le rivelazioni che si inseguono ogni giorno, dalle carte dell'inchiesta sulla P4 e sull'Enav. Non solo le opposizioni che chiedono conto, rimpallando sul centrodestra una "questione morale" che si vorrebbe invece intestata al solo centrosinistra. Ma anche il "fuoco amico" del Pdl, con Berlusconi che non risparmia i veleni, i suoi "volenterosi carnefici" che si prodigano a mescolarli e i giornali di famiglia che non smettono di inocularli nel circuito politico-mediatico.

Da settimane sulla graticola, Tremonti tenta ora di passare al contrattacco. Di cose da chiarire ce ne sono tante. Basta rileggere le ordinanze dei giudici e dei pm. Tra il ministro e il deputato del Pdl "c'è uno stretto e attuale rapporto fiduciario che prescinde dal ruolo istituzionale rivestito da Milanese": lo scrive il pm di Napoli Vincenzo Piscitelli. "Assolutamente poco chiari i rapporti finanziari tra Tremonti e Milanese": lo scrive il gip di Napoli, Amelia Primavera. E dunque: perché il ministro decise di andare ad abitare nella casa per la quale Milanese versava al Pio Sodalizio un canone d'affitto di 8.500 euro al mese? E perché Tremonti, su questo canone mensile, ha pagato una quota di 4 mila euro, in contanti?

"La cosa più giusta è quella che ha detto Bossi  -  osserva adesso il ministro, chiuso nel suo ufficio di Via XX Settembre - ho fatto una stupidata, e di questo mi assumo la responsabilità di fronte agli italiani". È stata dunque una "leggerezza", aver accettato la proposta di un suo collaboratore: usare il suo appartamento per le trasferte nella Capitale. Tremonti rimanda al suo comunicato del 7 luglio, quando provò a troncare sul nascere l'ennesimo "ballo del mattone" che fa vacillare il Pdl, dallo scandalo Scajola in poi. "La mia unica abitazione è a Pavia. Mai avuto casa a Roma. Per le tre sere a settimana che da più di 15 anni trascorro a Roma, ho sempre avuto soluzioni temporanee, in albergo o in caserma. Poi ho accettato l'offerta dell'onorevole Milanese. Da stasera, per ovvi motivi di opportunità, cambierò sistemazione". Questo diceva Tremonti, un mese fa. Ora ha cambiato sistemazione, appunto. Ma resta sulla sua coscienza la consapevolezza di aver commesso, appunto, "una stupidata". Comunque grave. Gravissima per un ministro.

Nonostante questo, Tremonti non accetta di passare per un disonesto o un evasore fiscale. "Chi parla di evasione fiscale è in malafede. Questa accusa non la posso accettare. Sono in grado di dimostrare in modo tecnicamente e legalmente indiscutibile l'assoluta regolarità del mio comportamento, e del mio contributo alle spese di quell'affitto". Non lo toccano le nuove carte uscite dall'inchiesta Enav, né la ricostruzione dell'imprenditore Tommaso Di Lernia, secondo il quale l'affitto della casa non lo pagava Milanese, ma un altro imprenditore, Angelo Proietti, che in cambio otteneva sub-appalti. "È una storia di cui non so nulla  -  commenta il ministro - non conosco quell'imprenditore indagato, non so nulla del contesto nel quale ha raccontato quei fatti".

Ma la novità clamorosa, che emerge dallo sfogo di Tremonti sull'intera vicenda, non riguarda tanto le spiegazioni "formali" sulla quota d'affitto versata a Milanese, quanto piuttosto le ragioni "sostanziali" che lo spinsero ad accettare il "trasloco". Tra le righe, il ministro accenna qualcosa, proprio nel primo comunicato del 7 luglio. "Per le tre sere a settimana che da più di 15 anni trascorro a Roma, ho sempre avuto soluzioni temporanee, in albergo o in caserma. Poi ho accettato l'offerta dell'onorevole Milanese...". Questo è il punto cruciale. Per molti anni, e per l'intera legislatura 2001-2006 in cui è ministro, Tremonti dorme "in albergo o in caserma". Ma a un certo punto, dal febbraio 2009, decide di "accettare l'offerta dell'onorevole Milanese". Cosa lo spinge a farlo? Non il risparmio. Anzi, l'appartamento di Via Campo Marzio gli costa, mentre l'albergo lo paga il ministero, e la caserma la paga la Guardia di Finanza. E allora? Perché Tremonti decide di traslocare?

"La verità è che, da un certo momento in poi, in albergo o in caserma non ero più tranquillo. Mi sentivo spiato, controllato, in qualche caso persino pedinato...". Eccolo, il "movente" che il ministro alla fine rende pubblico, dopo oltre un mese di tiro al bersaglio contro di lui. Ecco la "bomba", che Tremonti fa esplodere nel nucleo di uno scandalo che non è suo (o almeno non solo suo) ma semmai dell'intero sistema di potere berlusconiano. L'aveva fatto capire lui stesso, il 17 giugno scorso, nel colloquio con il pm Piscitelli che lo aveva ascoltato come testimone. In quell'occasione Piscitelli fa sentire al ministro un'intercettazione telefonica (registrata nell'inchiesta sulla P4 di Bisignani) tra Berlusconi e il Capo di Stato Maggiore Michele Adinolfi. Ed è allora che  -  come si legge nell'ordinanza  -  "il ministro riferisce dell'esistenza di "cordate" nella Guardia di Finanza, che si sono costituite in vista della nomina del prossimo Comandante Generale, precisa come alcuni rappresentanti di quel Corpo siano in stretto contatto con il presidente del Consiglio".

Dunque, nella guerra per bande dentro la GdF, Tremonti sa da tempo di essere nel mirino di una "banda". In particolare, di quella che riferisce direttamente al premier. Lo dice lui stesso a Berlusconi, in un colloquio di cui parla proprio il generale Adinolfi, a sua volta interrogato da Piscitelli il 21 giugno (quattro giorni dopo il ministro). "Berlusconi  -  racconta il generale  -  mi mandò a chiamare, dicendomi che Tremonti gli aveva fatto una "strana battuta" allusiva, paventando che tramassi ai danni del ministro. Chiamò Tremonti davanti a me e lo rassicurò". Evidentemente quelle rassicurazioni non servono a nulla. "Vittima" di questa guerra per bande fin dal 2009, quando cominciano i primi dissapori interni alla maggioranza e il Cavaliere comincia a sospettare degli "inciuci" tremontiani con la Lega e delle sue mire successorie dentro il Pdl, il ministro dell'Economia non si sente "tranquillo". Al contrario, si sente "spiato". E ora lo dice, apertamente: "In tutta franchezza, non me la sentivo più di tornare in caserma. Per questo, a un certo punto, ho accettato l'offerta di Milanese. L'ospitalità di un amico, presso un'abitazione che non riportava direttamente al mio nome, mi era sembrata la soluzione per me più sicura".

Una scusa estrema, e tardiva, di un uomo disperato? Difficile giudicare. Ma questa è la ricostruzione di Tremonti. Se è vera, siamo al nocciolo duro del "metodo di governo" berlusconiano, che incrocia le P3 e le P4, la Struttura Delta e la "macchina del fango", gli apparati dello Stato e il malaffare economico. "Non accetterò che si usi contro di me il metodo Boffo", ha detto il ministro al Cavaliere, in un drammatico faccia a faccia dei primi di giugno, quando gli apparati del premier lo lavoravano ai fianchi, per convincerlo a dimettersi. Forse siamo ancora dentro quel film. Se è così, è più brutto e più serio della pur imperdonabile "stupidata" di Tremonti.

(28 luglio 2011) © Riproduzione riservata
http://www.repubblica.it/politica/2011/07/28/news/giannini_tremonti-19752756/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il risveglio sul Titanic
Inserito da: Admin - Agosto 11, 2011, 12:27:13 pm
IL COMMENTO

Il risveglio sul Titanic

di MASSIMO GIANNINI

SE QUELLO che si sta consumando sotto i nostri occhi in questo agosto di tregenda non fosse un vero dramma, verrebbe da dire che siamo ancora una volta alle "comiche finali". Un governo senza storia, guidato da un premier senza vergogna, insegue un obiettivo senza speranza. Ritrovare la forza di una politica e la dignità di una leadership, per imporre al Paese la cura dolorosa ma necessaria senza la quale c'è solo l'Apocalisse. Questo tentativo, continuamente inseguito e continuamente fallito, marchia a fuoco la via crucis degli incontri tra la risibile "armata berlusconiana" e le parti sociali. Li rende ogni volta velleitari, deludenti e dunque alla fine tragicamente dannosi.

"Negli ultimi cinque giorni tutto è precipitato", sostiene preoccupato Gianni Letta. Peccato che il governo non se ne sia accorto. L'effetto della "scoperta" fatta dal plenipotenziario del Cavaliere è quanto meno surreale. Ricorda il ministro della Propaganda iracheno, che diceva davanti alle telecamere "We are in controll" mentre i tank americani sullo sfondo varcavano le porte di Bagdad. Qui la crisi ha varcato i confini dell'Italia da almeno tre anni. E nessuno se n'è accorto, se non i cittadini che hanno subito una caduta dei redditi, dei consumi, dell'occupazione. Non se n'è accorto Berlusconi, convinto da sempre che "la nave va" perché gli italiani fanno la fila sulle autostrade nei weekend, riempiono i ristoranti la sera e comprano tanti cosmetici. Analisi dotta, da "statista" e uomo d'azienda, che dimostra di sapere bene "come funziona l'economia". Non se n'è accorto Tremonti, che dopo aver intravisto la "tempesta perfetta" all'inizio del 2008, invece di fronteggiarla si è scansato, parlando a lungo di filosofia, salvo informarci alcuni anni dopo che sul Titanic affondano tutti, e non si salvano nemmeno i passeggeri di prima classe. Analisi "colta", da commercialista e uomo di mondo, che dimostra di sapere bene come si deprime un'economia.

E adesso siamo qui. Con il presidente del Consiglio che dichiara che bisogna anticipare il pareggio di bilancio al 2013, ma non sa dire perché siamo arrivati a questo punto, come contiamo di uscire dalla tormenta e chi pagherà il conto finale. Con un ministro del Tesoro che annuncia che "la manovra va ristrutturata", ma non sa spiegare alle parti sociali dove era sbagliata quella vecchia e come cambierà quella nuova. Un raro esempio di inettitudine, riscrivere una manovra finanziaria due settimane dopo averla varata, e averci spiegato che erano ridicole le critiche di chi lamentava il folle rinvio del risanamento del deficit al biennio elettorale 2013-2014, ed erano assurdi i dubbi di chi temeva una risposta negativa dei mercati e una risposta perplessa della Ue e della Bce. "La manovra è perfetta e strutturale, ed è esattamente come ce la chiede l'Europa": questo era il "dogma", alla fine di luglio. Si è visto il risultato. Governo italiano commissariato dal "direttorio" Merkel-Sarkozy, lettera-capestro della Banca centrale europea sulle misure urgenti da varare subito, oltre 48 miliardi di aumento del costo del debito come risultato dell'impennata degli spread, quasi 80 miliardi bruciati in Borsa come risultato della perdita di capitalizzazione delle nostre banche.

Questa improbabile "coppia di fatto", un premier sfiancato dagli scandali privati e dal discredito internazionale e un ministro fiaccato dagli intrighi immobiliari e dai nemici interni, azzarda ora un decreto straordinario per il 18 agosto. Mossa disperata, ma purtroppo tardiva, ambigua e poco credibile. Mossa tardiva, perché era chiaro a tutti già un mese fa che la speculazione, dopo aver fatto le prove generali su Irlanda e Grecia, affilava le armi per un'estate di fuoco contro Eurolandia e i suoi debiti sovrani, e dunque sarebbe stato necessario lanciare subito, già allora, un segnale immediato sulla volontà di accelerare il pareggio di bilancio. Mossa ambigua, perché ora non si capisce davvero dove il governo voglia colpire. Berlusconi, ubriaco dei soliti fumi ideologici, non vuole introdurre nessuna "patrimoniale" perché "è una cosa di sinistra". Bossi, ebbro dei soliti vizi antropologici, non vuole misure sulla previdenza perché "le pensioni padane non si toccano". Tremonti, isolato e insultato da tutti, non sa più cosa toccare, se non i soliti ticket sanitari a carico dei soliti noti del ceto medio e basso. Tutti insieme, irresponsabilmente, non sanno far altro che aprire inutili tavoli. Un tavolo sul lavoro affidato a Sacconi, un tavolo sulle infrastrutture affidato a Matteoli, un tavolo sulle privatizzazioni affidato a Romani. Tutto precipita, intorno al Palazzo romano, e loro si siedono a chiacchierare senza dire nulla. Non un'idea concreta sui sostegni alla crescita economica, non una parola pratica sul taglio draconiano ai costi della politica.

Mossa non credibile, dunque, per tutte queste ragioni. E sia detto senza alcun compiacimento, ma al contrario, con tutta la preoccupazione imposta dalla fase. Nessuno può più giocare al "tanto peggio tanto meglio". L'opposizione non deve cedere alle derive "sfasciste", la Cgil non deve cedere alle pulsioni massimaliste (delle lacrime di coccodrillo piante adesso dalla Cisl e dalla Uil non vale nemmeno la pena di parlare, tanto è stato penoso il collateralismo di Bonanni e Angeletti in questi ultimi tre anni). Ma è evidente che questo governo non può farcela. Non è mai stato all'altezza del compito in tempi normali. Figuriamoci oggi, in tempi emergenziali. Si obietta che una "discontinuità politica in questo momento sarebbe troppo rischiosa. Ma anche questo, ormai, è tutto da dimostrare. E comunque oggi c'è in ballo molto di più del destino di un governo. In gioco, qui come nel resto d'Europa, c'è il risparmio e il lavoro delle famiglie, il mercato e gli investimenti delle imprese. La "posta" è l'Italia. Una posta troppo alta e troppo importante, per lasciarla ancora nelle mani di Berlusconi, Bossi, Tremonti e Scilipoti.
m.giannini@repubblica.it

(11 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI La manovra della disperazione
Inserito da: Admin - Agosto 13, 2011, 11:16:39 am
IL COMMENTO

La manovra della disperazione

di MASSIMO GIANNINI

IL GOVERNO della dissipazione ha infine raffazzonato la manovra della disperazione. Come i peggiori esecutivi andreottiani della Prima Repubblica, costretti a turare in extremis gli allegri buchi di bilancio, buttavano giù in tutta fretta i decretoni di Natale, così anche il gabinetto di guerra berlusconiano, obbligato dal direttorio franco-tedesco e dal board della Banca centrale europea, improvvisa il suo decretone d'agosto. Quarantacinque miliardi "aggiuntivi" di tasse e di tagli, dicono Berlusconi e Tremonti, per accentuare il peso simbolico dello "sforzo" di fronte alla business community. In realtà si tratta di misure che solo in minima parte si sommano, mentre in massima parte si integrano e anticipano la "prima rata" di norme, già evanescenti nel merito e urticanti nel metodo, varate a metà luglio. È il prezzo da pagare all'improvvisazione politica, come i fatti di questi tre anni dimostrano, e non certo alla speculazione finanziaria, come la vulgata governativa si affanna a far credere.

È un prezzo altissimo. Nella quantità: una manovra complessiva che, sia pure su base pluriennale, si avvicina ai 50 miliardi di euro, non ha precedenti nella storia repubblicana. Nella qualità: una stangata che, sia pure con un qualche apparente rispetto del principio di progressività del prelievo, ruota per tre quarti sull'aumento della pressione fiscale, ha precedenti forse solo nella storia sudamericana. Per fortuna che questo dice di essere il governo che "non mette le mani nelle tasche degli italiani". Berlusconi e Tremonti continuano a ripetere che "in cinque giorni tutto è cambiato e tutto è precipitato". Sappiamo bene che non è così. Tutto sta cambiando dall'inizio della crisi globale del 2007, con il crac dei mutui subprime americani. Tutto sta precipitando dall'inizio della crisi europea del 2010, con il crac del debito irlandese e poi di quello greco. Tutto sta precipitando dall'inizio della crisi occidentale del 2011, con il fantasma della double dip recession che soffoca Stati e mercati. Non averlo capito per tempo è la colpa più grave e imperdonabile che il governo italiano si porta dietro. E che ora si scarica sugli italiani, già provati da una caduta del reddito, del risparmio e dell'occupazione senza paragoni con il resto di Eurolandia, e adesso obbligati a questo drammatico supplemento di sacrifici.

La vera e unica novità di questa stangata è il cosiddetto "contributo di solidarietà" per i redditi più alti. Una misura che, nella forma, vorrebbe ricordare l'eurotassa introdotta dal governo Prodi nel '96 per raggiungere il traguardo di Maastricht. Ma nella sostanza la nuova norma è mal congegnata, e alla fine ha il solito sapore "di classe", come tutte le scelte fatte dai liberisti alle vongole cresciuti nell'allevamento di Arcore. La scelta di aggredire l'Irpef penalizza soprattutto il lavoro dipendente. La soglia scelta per il doppio prelievo fa sì che a pagare siano pochi "super-ricchi" (511 mila italiani, cioè l'1,2% dei contribuenti secondo la Cgia di Mestre). E il tetto scelto per i lavoratori autonomi (55 mila euro l'anno) fa sì che all'imposta straordinaria sfuggirà la stragrande maggioranza di chi già evade abbondantemente le tasse (e infatti dichiara in media poco meno di 30 mila euro l'anno). Dunque, l'intenzione del governo poteva anche essere buona, ma la realizzazione è pessima sul piano pratico, e discutibile sul piano etico.

Per il resto la stangata è una miscela caotica di vuoti e di pieni, che conferma l'impianto sostanzialmente regressivo seguito dalla maggioranza in questi tre anni. Da un lato, il carniere del rigore è sicuramente pieno per quanto riguarda il ceto medio, che sopporta da solo quasi l'intero onere del risanamento. È ceto medio il pubblico impiego che, ancora una volta, è il perno ideologico intorno al quale ruota la politica economica del centrodestra: dal Tfr agli straordinari, i dipendenti pubblici sono anche oggi la vittima sacrificale di una coalizione che si accanisce senza pietà contro le categorie che non la votano. È ceto medio l'universo dei pensionati, che tra disincentivi all'anzianità e anticipo dell'età delle donne, subisce un altro colpo necessario ma pesante, perché non bilanciato da una degna politica attiva del Welfare. Dall'altro lato, il carniere del rigore è altrettanto pieno per quanto riguarda i ministeri e gli enti locali, che patiscono il danno più devastante perché accompagnato dalla beffa del federalismo, ormai un feticcio virtuale persino per Bossi. Dopo la mannaia indiscriminata dei tagli lineari, il colpo di scure su dicasteri, regioni e comuni si accelera rispetto alla tempistica già prevista nel pacchetto di luglio: nulla di nuovo, dunque, ma l'esito non potrà non essere l'aumento dei tributi locali e l'azzeramento dei servizi sul territorio. Se è vero che c'è da soffrire (ed è doveroso farlo, perché il Paese ha vissuto al di sopra delle proprie possibilità e chi lo governa ha fatto di tutto per non farglielo capire) è anche vero che non possono soffrire sempre gli stessi.

Ma quello che abbaglia di più, in questa manovra dell'emergenza agostana, sono i vuoti. Il primo vuoto riguarda i famosi tagli ai "costi della politica". Ancora una volta l'improntitudine di questa casta berlusconiana ha tradito tutte le già malriposte attese della vigilia. C'è finalmente una sforbiciata delle province e l'accorpamento dei piccoli comuni (merce inutilmente "svenduta" nella campagna elettorale del 2008). Ma per il resto, tra stipendi pensioni e benefit dei parlamentari, c'è poco e niente, a parte il modestissimo "obolo" sulla tassa di solidarietà raddoppiata per deputati e senatori e la trasformazione dei loro viaggi in business class in voli in economy. Il secondo vuoto, che conferma la visione corporativa e aziendalista di questa maggioranza, riguarda la cosiddetta "patrimoniale": l'unica forma di imposizione che, se ben architettata, avrebbe potuto far pagare davvero chi ha di più e lo nasconde, e che avrebbe dato un segno di vera equità a una manovra altrimenti squilibrata. E non bastano, a bilanciare questa assenza che salva ancora una volta gli evasori, norme pur sacrosante come la tracciabilità delle operazioni sopra i 2.500 euro, che Prodi e Visco avevano introdotto nel 2006 e che il Cavaliere aveva voluto colpevolmente eliminare all'inizio della sua legislatura perché le considerava "leggi di stampo sovietico".

Ma il vero vuoto più clamoroso e più rovinoso di questa manovra riguarda, anche stavolta, il sostegno alla crescita dell'economia e alla produzione della ricchezza. È l'aspetto più inquietante e deprimente di questa stagione politica, marchiata a fuoco da una leadership inconsistente e imbarazzante che a tutto ha pensato fuorché agli interessi del Paese. Senza un'idea e senza un progetto per lo sviluppo, questa stangata estiva, che pure andava fatta, non potrà che generare nuova recessione, e aggiungere declino al declino. Tutti gli stati dell'Eurozona stanno somministrando cure da cavallo ai propri popoli. La differenza è che insieme ai sacrifici quei Paesi sanno costruire anche i benefici, mentre in Italia ci sono solo i primi senza i secondi. Occorreva dire la verità, agire prima e dotarsi di una politica. Così si uccide un'economia. "Gronda il sangue dal cuore, ma dovevamo farlo", ha detto il premier in conferenza stampa alla fine del Consiglio dei ministri. Se è vero, è sangue di coccodrillo.
m.giannini@repubblica.it

(13 agosto 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI Il falò delle verità
Inserito da: Admin - Agosto 22, 2011, 04:21:00 pm

IL COMMENTO

Il falò delle verità

di MASSIMO GIANNINI

SENZA verità non c'è democrazia. È il principio-cardine intorno al quale ruota la cultura politica dell'Occidente, come ci ha insegnato Hannah Harendt. Anche per questo l'Italia "moderna" sprofonda in una palude di democrazia "a bassa intensità". Il berlusconismo della Seconda Repubblica, involuzione matura dell'Andreo-Craxismo della Prima, ci ha definitivamente trasformato in un Paese che ha smarrito l'etica della verità. Nella stortura delle regole costituzionali. Nella rottura delle relazioni istituzionali. E ora nell'avventura della crisi economica e finanziaria.

Non c'è un solo ambito nel quale il presidente del Consiglio, pressato dalle sue urgenze private, non abbia edulcorato le emergenze pubbliche e manipolato la "narrazione" da offrire ai cittadini-elettori. La drammatica estate di "lacrime e sangue" è il vero tributo che ora paghiamo all'irresponsabile "autodafè" che il governo Berlusconi ha acceso in questi tre anni, raccontando agli italiani la favola del "Paese ricco, forte e vitale", che "sa reagire meglio degli altri alla crisi", salvo poi scoprire che siamo di nuovo sprofondati nel girone infernale del "Club Med" di Eurolandia.

Dunque, dobbiamo essere grati a Giorgio Napolitano, che con la sua "lezione di Rimini" ha scritto per l'ultima volta la parola "fine" sulla favola berlusconiana, e ci ha restituito il "linguaggio della verità". Quello che il premier non ha parlato fin dall'inizio della legislatura, e che invece è oggi un imperativo politico e morale. Quello che è invece indispensabile, per far capire ed accettare all'opinione pubblica una dose aggiuntiva di pesanti sacrifici che in molti avevamo previsto, e che il governo aveva sempre negato. Nel teatrino della politica fioccano le solite letture "palindrome": ma mai come stavolta il discorso del presidente della Repubblica non si presta a strumentalizzazioni di rito o ad interpretazioni di parte. Il suo è prima di tutto un atto d'accusa, nei confronti di chi, in questo "angoscioso presente", si è pervicacemente rifiutato di guardare in faccia alla realtà, ha furbescamente evitato di spiegarla agli italiani ed ha colpevolmente declinato ogni atto di responsabilità nella gestione attiva della crisi.

"Abbiamo parlato in questi tre anni il linguaggio della verità? Lo abbiamo fatto noi, che abbiamo responsabilità nelle istituzioni?". La domanda che il capo dello Stato rivolge all'intero ceto politico dal palco del Meeting di Rimini è palesemente retorica. La risposta è naturalmente negativa. Il "linguaggio della verità" ci è stato scientificamente negato dall'unica istituzione che aveva il dovere politico di parlarlo, e cioè il governo. E perseverare in questo errore è diabolico e autolesionistico. Come Napolitano giustamente ripete, "non si dà fiducia minimizzando o sdrammatizzando i nodi". Eppure, è esattamente quello che Berlusconi continua a fare. Abituato com'è, da consumato populista, a tagliare i nodi con la spada della propaganda piuttosto che a scioglierli con la fatica della politica, il Cavaliere aggiunge confusione al caos. Fa filtrare la sua insoddisfazione per una manovra che mette rovinosamente le "mani nelle tasche" dei contribuenti. Fa circolare ipotesi di modifica del "contributo di solidarietà" e di piani di intervento sulle pensioni, allargando da una parte l'abisso che lo separa da Tremonti e irritando dall'altra il nervo che lo allontana da Bossi.

Tutto quello che Napolitano chiede da Rimini questo presidente del Consiglio e questo governo non possono darlo, perché non l'hanno mai dato. "Reagire con lungimiranza" di fronte al Prodotto interno lordo che declina, all'occupazione che crolla, al debito che esplode. Guardare in faccia alla realtà "con intelligenza", e con "il coraggio della speranza, della volontà, dell'impegno". Virtù che il premier e il suo ministro dell'Economia non hanno mai espresso, e continuano a non saper esprimere, impaniati dentro una logica di coalizione nella quale nulla più si tiene. E poi, in vista del dibattito parlamentare sulla manovra: "occorrono più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche", occorre un "confronto aperto". Questo invoca il capo dello Stato. Come possono ascoltarlo, un premier che guarda alle opposizioni come a un "cancro", o un ministro che parla della libera stampa come un'accolita di "delinquenti"? E infine: basta "assuefazioni e debolezze nella lotta all'evasione fiscale, di cui l'Italia ha il triste primato". Come può raccogliere questo invito, un ministro dell'Economia che paga parte del suo affitto in nero, e che ha già regalato agli evasori con i capitali all'estero uno scudo fiscale tassato con un'aliquota volutamente e scandalosamente bassa?

Il presidente della Repubblica ha fornito un'ennesima prova di alta pedagogia politico-istituzionale. Si è confermato come l'unico caposaldo forte e credibile di una stagione politica in cui tutto va in rovina. La sua, ancora una volta, è una "predica utile". Ma chi dovrebbe farlo, purtroppo, non la potrà e non la saprà raccogliere. Ha venduto al Paese troppe bugie e troppe ipocrisie. Nel gigantesco "falò delle verità" costruito dal governo in questi tre anni, purtroppo, stiamo bruciando tutti. Salvarsi dalle fiamme è ancora possibile. Purché a farlo non siano più quelli che hanno appiccato l'incendio.

m.giannini@repubblica.it

(22 agosto 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/08/22/news/verit_democrazia-20718489/?ref=HREC1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La manovra delle bollicine
Inserito da: Admin - Agosto 30, 2011, 10:07:50 am
IL COMMENTO

La manovra delle bollicine

di MASSIMO GIANNINI


Una volta tanto il presidente del Consiglio è stato di parola. "Ho messo da parte le bottiglie per brindare all'accordo", ha detto durante il vertice di maggioranza ad Arcore. Dopo oltre sette ore l'intesa è arrivata. Ma dall'estenuante braccio di ferro di Villa San Martino è uscito esattamente quello che Berlusconi auspicava: una "manovra-champagne". All'apparenza, spumeggiante e piena di bollicine.
Nella sostanza, sempre più inconsistente e piena di buchi.

La partita politica dentro il centrodestra si chiude con un esito chiarissimo. Ora tutti alzano i calici, fingendo di aver portato a casa il risultato. La verità è ben diversa. L'unico vincitore è il Cavaliere, che ha messo in riga Tremonti e Bossi. "Non metto le mani nelle tasche degli italiani", aveva tuonato il premier. In nome di questo slogan da propaganda permanente, ha preteso e ottenuto la cancellazione del contributo di solidarietà sui redditi superiori ai 90 mila euro. Così, almeno in parte, ha evitato quel bagno di sangue perpetrato soprattutto ai danni del ceto medio, che avrebbe avuto un costo elettorale per lui insopportabile. Era l'unico obiettivo che gli stava a cuore. L'unico vessillo, psicologico e quasi ideologico, che voleva issare di fronte ai cittadini-elettori.

C'è riuscito. Ma ai danni dei suoi alleati. E anche ai danni del Paese. La "manovra-champagne" è solo un'altra, clamorosa occasione mancata. È confusa né più né meno di quelle che l'hanno preceduta. È altrettanto povera di senso e di struttura. Soprattutto, è altrettanto ininfluente sul piano del sostegno alla crescita, per la quale non c'è una sola misura di stimolo. E dunque è altrettanto depressiva sul piano dei redditi, dei consumi, degli investimenti, dell'occupazione. D'altra parte, non poteva non essere così. Tre manovre radicalmente diverse, affastellate in un mese e mezzo, sono il segno inequivocabile del caos totale che regna dentro una maggioranza pronta a tutto, pur di galleggiare e di sopravvivere a se stessa.

Berlusconi ha ridicolizzato Tremonti. Il ministro dell'Economia aveva annunciato una prima manovrina all'acqua di rose a giugno, spiegando che l'Italia era a posto sul debito e sul deficit. Travolto dalla crisi europea e dall'ondata speculativa dei mercati, ha presentato una manovra-monstre da 45 miliardi a luglio, spiegando che "in cinque giorni tutto è cambiato". Si è presentato ad Arcore chiedendo che quel pacchetto d'emergenza non fosse toccato, per evitare guai con la Ue e traumi sugli spread. Ebbene, quel pacchetto, al vertice di Arcore, non è stato "toccato": è stato totalmente distrutto. Della manovra tremontiana di luglio non resta quasi più nulla. Salta il contributo di solidarietà, saltano i pur risibili tagli ai costi della politica, salta la cancellazione dei piccoli comuni.

Berlusconi ha umiliato Bossi. La Lega pretendeva la supertassa sugli evasori fiscali e la salvaguardia delle pensioni "padane". Non ha spuntato niente. La maxi-patrimoniale si è annacquata in un più tollerante giro di vite sulle società di comodo alle quali i lavoratori autonomi intestano spesso appartamenti, auto di lusso e barche. Quanto alla previdenza, il Senatur non solo non salva le camice verdi, ma deve incassare un intervento a sorpresa sulle pensioni di anzianità dalle quali, ai fini del calcolo, verranno scomputati gli anni riscattati per la laurea e il servizio militare. Peggio di così, per il Carroccio, non poteva andare. A dispetto dei trionfalismi di Calderoli, ormai ridotto a un Forlani qualsiasi.

La partita economica sul risanamento, viceversa, si chiude con un esito assai meno chiaro. La rinuncia al contributo di solidarietà (congegnato in modo iniquo perché non teneva in alcun conto i carichi familiari e il cumulo dei redditi) attenua solo in parte il grave squilibrio della manovra, che resta comunque fortemente sbilanciata sul fronte delle tasse. L'aumento delle aliquote Iva è solo rinviato alla delega fiscale e assistenziale. La riduzione di 2 miliardi dei tagli a comuni e regioni non impedirà l'aumento delle addizionali Irpef e l'abbattimento dei servizi sul territorio e del Welfare locale. L'intervento sulla previdenza è solo un'altra "tassa sul pensionato", ed è lontano anni-luce dalla riforma che servirebbe al Paese per stabilizzare definitivamente la spesa, cioè il passaggio al sistema contributivo pro-rata per tutti.

Così riformulata, questa terza manovra berlusconiana è piena di buchi. Come si arrivi ai 45 miliardi promessi resta un mistero, ancora più insondabile di quanto non lo fosse già la seconda manovra tremontiana. Quanto valgono le misure anti-elusione contro le società di comodo? Quanto frutteranno i maggiori poteri attributi ai comuni nella lotta all'evasione? Nessuno lo sa. Le uniche certezze riguardano quelli che sicuramente pagheranno fino all'ultimo euro il costo di questo ennesimo compromesso al ribasso firmato dalla coalizione forzaleghista. Gli enti locali, per i quali restano tagli nell'ordine dei 7 miliardi.

I dipendenti pubblici, per i quali restano lo stop degli straordinari, il differimento del Tfr e il contributo di solidarietà, oltre tutto non più deducibile. E adesso anche le cooperative, per le quali si profila una drastica riduzione della fiscalità di vantaggio. Un blocco sociale ed economico vasto, ma con un denominatore comune: non appartiene alla constituency elettorale del centrodestra. È stato "selezionato" per questo. E per questo merita lacrime e sangue.

Certo, da consumato spacciatore di merchandising politico, nella "sua" manovra Berlusconi ha voluto anche le bollicine. Il contributo di solidarietà solo per i parlamentari. La soppressione di tutte le province e il dimezzamento del numero dei parlamentari. Misure che fanno un certo effetto mediatico e simbolico. Sono rigorosamente affidate a disegno di legge costituzionali (dunque non si faranno in questa legislatura, e quindi probabilmente non si faranno mai). Ma a sentirle annunciare, sembrano colpire al cuore la "casta" che il Cavaliere (pur facendone parte) finge di disprezzare.

Resta un problema, drammatico per il Paese, che misureremo nelle prossime ore e nei prossimi giorni. La "manovra-champagne" la puoi far ingoiare a un po' di pubblico domestico, meno informato o male informato dai bollettini di Palazzo Grazioli. Ma fuori dai confini della piccola Italia, purtroppo, è tutta un'altra storia. I finanzieri della business community, i tecnocrati della Bce e i partner dell'Unione Europea, sono la moderna "società degli apoti" di Prezzolini: loro non la bevono.

(30 agosto 2011) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Cresce il pressing della Banca centrale europea sull'Italia.
Inserito da: Admin - Settembre 05, 2011, 05:13:00 pm
RETROSCENA

Bankitalia avverte il governo

Aumentare l'Iva e più tagli

Cresce il pressing della Banca centrale europea sull'Italia.

Nella riunione del board i "falchi" chiederanno maggiori impegni ai paesi indebitati.

Via Nazionale propone due vie d'uscita per riequilibrare i conti

di MASSIMO GIANNINI


L'AUTUNNO caldo è cominciato.
"L'Italia deve scegliere: o lancia un vero segnale di svolta sulla manovra, o si offre in pasto ai mercati esponendo l'intera Eurozona a un enorme pericolo". Si apre una settimana che può cambiare il destino dell'italia e dell'Europa. In queste ore difficili, tra Banca centrale europea e Banca d'Italia, non c'è un solo interlocutore che non esprima "grandissima preoccupazione" per quello che sta accadendo nel nostro Paese. Il "caos totale" nel quale il governo è precipitato in questi ultimi due mesi, cambiando radicalmente per ben quattro volte il menu delle misure di risanamento per assicurare il pareggio di bilancio nel 2013, è una miccia accesa nel cuore della moneta unica. Per ora, a disinnescarla ha contribuito proprio la Bce, che ha comprato a piene mani i Btp sul mercato secondario, per disarmare la speculazione internazionale.

Ma quanto può durare, l'ombrello aperto su di noi dall'Eurotower?
È la domanda cruciale, alla quale la Bce proverà a dare una prima risposta giovedì prossimo, al primo board convocato per la ripresa dopo l'estate. A Francoforte c'è consapevolezza della grande difficoltà della fase. "I dati della congiuntura internazionale non sono affatto confortanti", dicono all'Eurotower. Eurolandia è in forte frenata. Come già anticipato dal Fondo monetario, le economie dell'area cresceranno nel 2011 solo dell'1,9%. Nel 2012 andrà peggio, con un deludente 1,4%. "Preoccupa il rallentamento della Germania", che dopo aver trainato il Continente quest'anno, si fermerà l'anno prossimo a un fiacco 1,6%. L'Italia va peggio di tutti: non supera lo 0,8% quest'anno, e si ferma allo 0,7% l'anno prossimo. C'è quindi un primo nodo da sciogliere: già con queste cifre, "la manovra da 45 miliardi messa in campo da Berlusconi andrebbe rafforzata ulteriormente". Se scende il Pil, infatti, crescono più del previsto il deficit e il debito. Dunque "servono più tagli di spesa, per garantire il pareggio di bilancio".

Ma la manovra appena varata dal centrodestra, nella sua quarta e schizofrenica versione, non da garanzie.
Né sulle singole misure, né sui saldi. Trichet lo ha già lasciato intendere. I suoi uomini sono ancora più espliciti. "L'Italia deve fare di più e di meglio. E deve farlo subito". Oggi riaprono Borse e mercati: le turbolenze ricominceranno. E la Bce non può continuare a togliere le castagne dal fuoco al governo italiano. Al board di giovedì i governatori dell'Eurosistema ne discuteranno, nel frattempo "sull'acquisto dei titoli di Stato sul mercato secondario si decide giorno per giorno". Ma una cosa è certa: "Il Security Market Program non è un meccanismo permanente". Se dunque è vero, come sostiene Trichet, che il salvagente della Bce sui Btp non è scattato solo dopo la garanzia che il governo italiano avrebbe rafforzato e accelerato la manovra, è anche vero che, a regime, il primo non dura in assenza della seconda. "Non possiamo coprire una qualsiasi forma di "azzardo morale" sul mercato dei titoli", sostengono alla Bce. Già i "falchi", tra politici ed economisti tedeschi, hanno criticato la Banca centrale perché con i suoi interventi "ha agevolato il lassismo dei Paesi periferici dell'area". E' ora di cambiare rotta. E già alla riunione di giovedì se ne potrebbe avere un anticipo, indirizzato implicitamente proprio all'Italia. "Altri Paesi - segnalano a Francoforte - si stanno dimostrando più responsabili. Uno su tutti: la Spagna, dove il Parlamento ha già varato la sua Legge Finanziaria, ed ha approvato l'inserimento della disciplina di bilancio in Costituzione".

L'Italia è indietro.
Sui tempi e sui numeri. E questo, sulla sponda interna, allarma la Banca d'Italia. Mario Draghi si prepara al "trasloco", ma in queste ore gli uomini del Direttorio sono in contatto costante e diretto con i loro "colleghi" d'oltrefrontiera. A Via Nazionale l'apprensione sul destino della manovra è persino più acuta che a Francoforte. Il messaggio lanciato con le tre versioni estive del pacchetto anti-deficit è stato "pessimo": confusione, improvvisazione, approssimazione. Vista da Palazzo Koch, la manovra è un "patchwork indecifrabile".
"E' arduo affidare al recupero di evasione fiscale un rientro dal deficit di così vasta portata", si sostiene in Bankitalia, in piena sintonia con i dubbi della Ue. Berlusconi e Tremonti, accecati da un regolamento di conti tra loro, non vedono più la realtà. Dimostrano di non avere un'idea su ciò che è e su ciò che deve diventare la società italiana. Prima colpiscono il ceto medio con il contributo straordinario, poi colpiscono i pensionati con la gabella sulla naia e la laurea, poi fanno la faccia feroce contro gli evasori, dopo averli blanditi con lo Scudo fiscale e con l'irresponsabile sostegno pre-estivo alla diffusa Vandea per le "vessazioni di Equitalia".

Così non si va da nessuna parte.
A Via Nazionale, si teme il vicolo cieco. Le vie d'uscita che la Banca d'Italia caldeggia sono due. La prima, sul lato delle spese, è "accelerare sulla spending review", affondando con il bisturi della priorità politica finalizzata a ricerca e sviluppo e non più non con il machete dei tagli lineari e indiscriminati su tutte le voci. La seconda, sul lato delle entrate, è "un intervento mirato e selettivo sulle aliquote Iva". Questa, secondo Palazzo Koch, sarebbe la soluzione migliore, sul piano delle opportunità macro-economiche e delle compatibilità politico-sociali. La Banca d'Italia ha fatto i suoi studi e le sue simulazioni. L'aumento dell'Iva non avrebbe impatti recessivi maggiori di quelli che la manovra in sé già presenta ora. E dal punto di vista dell'inflazione, "l'impatto sarebbe quasi nullo, poiché il quadro dei prezzi nonostante le ultime fiammate va verso un raffreddamento e la domanda di petrolio è in discesa". Dunque questa è la scommessa di Draghi e dei suoi uomini: pressato dalla Bce e dai mercati, alla fine Berlusconi sarà costretto ad agire sull'Iva, a dispetto dei timori infondati di Tremonti. Sarà il male minore, e garantirà un gettito certo, al contrario delle norme "dissuasive" e assai demagogiche sulla delazione e la gogna fiscale.

Il dubbio vero è se questo governo abbia ancora la forza per scelte politiche nette, riconosciute e riconoscibili.
O se invece la perdità di credibilità cumulata in tre anni di dissennatezze politiche e dissipazioni contabili sia irreversibile. All'Eurotower e a Via Nazionale si sa bene qual è la posta in palio. Tra Btp, Bot e Ctz, a settembre il Tesoro deve collocare sul mercato ancora quasi 45 miliardi di euro. Di qui alla fine dell'anno, le emissioni complessive di titoli di Stato ammonteranno a circa 148 miliardi. Se si allenta la sponda della Bce, come prevedono i "duri e puri" di Francoforte, basta un niente per far fallire un'asta e far banchettare gli speculatori internazionali. Sarebbe il disastro finale. Dopo aver rovinato l'Italia, Berlusconi e Tremonti si prenderebbero il merito di aver affondato anche l'Europa. Possono farcela, purtroppo.

m.giannini@repubblica.it
(05 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI La riduzione del danno
Inserito da: Admin - Settembre 07, 2011, 05:21:47 pm
 
IL COMMENTO

La riduzione del danno

di MASSIMO GIANNINI

Se non li puoi convincere, confondili. È la legge di Truman. Berlusconi e Tremonti, ormai svuotati di spessore politico, la applicano alla manovra con rigore scientifico. Dopo quattro tentativi miseramente falliti in appena due mesi, spunta ora la quinta versione del decreto anti-crisi. Già questa abnorme bulimia quantitativa sarebbe sufficiente a giudicare disastrosa l'azione del governo. Ma quello che stupisce, e indigna di più, è la totale schizofrenia qualitativa delle misure messe in campo.

A giugno Tremonti aveva garantito che, d'accordo con l'Europa, l'Italia non aveva bisogno di una vera e propria manovra di bilancio, e per questo aveva annunciato una modesta leggina di minima "surplace" contabile. Ai primi di luglio abbiamo scoperto che eravamo sull'orlo dell'abisso. Così è cominciata la folle teoria estiva dei decreti usa e getta. Prima la stangata del contributo di solidarietà sui ceti medio-alti. Poi la batosta sulle pensioni d'anzianità cumulate con il riscatto della laurea e della naja. Poi ancora la finta caccia agli evasori fiscali a colpi di "carcere & condono". Trovate estemporanee di questo o quel ministro, frustate casuali all'una o all'altra categoria. Senza logica politica, senza tenuta economica. Non solo i cittadini allibiti e gli speculatori affamati, ma l'intero establishment interno e internazionale ha fatto giustizia di tanta irresponsabile approssimazione. L'Unione Europea e la Bce, la Banca d'Italia e la Confindustria. Da ultimo, addirittura il Capo dello Stato, che con il suo intervento ufficiale di due giorni fa ha compiuto un passo senza precedenti, fin dai tempi della Prima Repubblica. Ha imposto la linea non solo sui tempi, ma persino sui contenuti della manovra.

Alla fine, dopo molte figuracce penose esibite sul mercato politico e molti miliardi bruciati sul mercato finanziario, il governo si è dovuto arrendere. L'ennesima, radicale riscrittura della manovra non cancella le storture di fondo. Con l'aumento dell'Iva e la reintroduzione della supertassa sui redditi oltre i 300 mila euro si fa persino più massiccio il ricorso alla leva fiscale, che già occupava quasi il 70% del menù dei provvedimenti varati nelle stesure precedenti. Svanisce così, ormai anche sul piano simbolico, la ridicola promessa del Cavaliere: "Non mettiamo le mani nelle tasche dei contribuenti", aveva giurato il premier, che ora invece in quelle tasche ci entra non solo con le mani, ma con tutte le scarpe. Si anticipa il giro di vite sull'età pensionabile delle donne, e si rinuncia così a qualunque ambizione riformatrice più generale sul capitolo della previdenza. Resta la drammatica carenza di misure concrete per la crescita e lo sviluppo. Resta la plastica evidenza di un governo che non ha una visione sulla società italiana di oggi, né una soluzione per quella che vuole costruire domani.

Tuttavia la quinta manovra, per quanto iniqua e sgangherata, almeno un pregio ce l'ha: i saldi contabili sono finalmente più solidi, come la stessa Commissione di Bruxelles ha già puntualmente riconosciuto. È certo il gettito in aumento dell'imposta sul valore aggiuntivo, il "male minore" invocato da tempo dalla Banca d'Italia e osteggiato per puro puntiglio dal ministro del Tesoro. È certo l'incasso a regime dell'intervento sulle pensioni delle donne, suggerito da Confindustria e ostacolato per puro ideologismo dal leader della Lega. È certo, per quanto risibile, il maggior introito del mini-tributo di solidarietà per i ceti più abbienti, inopinatamente preferito a una seria imposta sui grandi patrimoni per puro opportunismo elettorale. Dunque, almeno sulla copertura integrale dei 45 miliardi, la manovra risulta oggettivamente migliorata. Anche se rimane la sua irrimediabile inefficacia, rispetto alle esigenze di equità sociale e alle urgenze di rilancio del Pil. E anche se rimane la sua probabile insufficienza, rispetto agli impegni sottoscritti in Europa sul pareggio di bilancio e alle aspettative delle società di rating e della business community.
Quella di ieri, in definitiva, è solo una tardiva "riduzione del danno". I problemi dell'Italia sono tutt'altro che risolti. Nel momento in cui aggiusta la manovra, il governo certifica paradossalmente la sua fine. Berlusconi, Bossi e Tremonti si acconciano a continui compromessi al ribasso, ormai logorati dentro una convivenza da separati in casa, che li spinge a camminare a tentoni nella buia notte calata su Eurolandia. Il governo non c'è più. Lo sostituisce Napolitano, lo commissaria la Banca d'Italia, lo etero-dirigono i mercati. La stessa coalizione di centrodestra ne è tanto consapevole, che si vede costretta all'ultimo sfregio alle istituzioni: la richiesta del voto di fiducia, su una manovra che lo stesso Pd era pronto a non votare ma a non ostacolare, sembra più un atto di forza interno al centrodestra che non un atto di sfida rivolto al centrosinistra.

In queste condizioni si può tamponare un'emergenza congiunturale, ma non si può affrontare una crisi globale. Lo scrive ormai anche la grande stampa mondiale, dal "Wall Street Journal" al "Financial Times": l'Italia è unanimemente considerata la zavorra che rischia di affondare l'euro. Per questo, ancora una volta, l'unica via d'uscita da questa tempesta imperfetta è l'approvazione rapida del decretone, e poi le dimissioni immediate del governo. Sarebbe l'ultimo, e forse l'unico gesto di responsabilità compiuto dal presidente del Consiglio. Con la quinta manovra si recupera un po' di attendibilità aritmetica, ma non si ricostruisce la credibilità politica. Quella, per il Cavaliere, è perduta per sempre.
m.giannini@repubblica.it

(07 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Signor dietrofront
Inserito da: Admin - Settembre 14, 2011, 08:54:24 am
Signor dietrofront

di MASSIMO GIANNINI

Ci sono molti modi per naufragare. Giulio Tremonti lo sta facendo alla sua maniera. Inseguito dal fantasma di Marco Milanese, che è per lui come un morto che afferra il vivo, il ministro scompare e riappare, simula e dissimula, dice e non dice. Schiacciato dal peso di una crisi economica che ha saputo fiutare ma non ha voluto affrontare, schiantato dai vecchi patti e dai nuovi ricatti subiti dal suo ormai nemico Cavaliere, l'ex "genio dei numeri" alterna le solite fughe nei cieli stellati dell'alta filosofia kantiana alle discrete sortite negli scantinati della bassa macelleria italiana.

Oggi alla Camera sarà convertita in legge la manovra più confusa e contraddittoria del dopoguerra. Uscita da ben quattro pasticciati rifacimenti, su ciascuno dei quali il ministro è stato costretto a piazzare il suo imbarazzato cappello, la maxi-stangata da 54 miliardi non ci salva dal feroce verdetto quotidiano dei mercati e non ci basta a raggiungere il pareggio di bilancio nel prossimo triennio. Lo hanno capito tutti, e prima di tutti lo ha capito la Commissione europea, che già ci avverte dell'opportunità di pensare fin da ora a un pacchetto di misure aggiuntive perché i tagli di spesa non reggono e le entrate da evasione non garantiscono.

E Tremonti? Cosa dice? Cosa pensa? Nessuno lo sa. A Cernobbio e a Marsiglia ha divagato, parlando di Heidegger e di Habermas. Ma ora scopriamo che, nel frattempo, ha anche lavorato a due importanti dossier. Il primo dossier riguarda le privatizzazioni. Si annuncia un nuovo,
gigantesco piano di cessione del patrimonio pubblico. Si vocifera addirittura di un "Britannia 2". Cioè di un bis di quanto accadde il 2 giugno 1992, quando il governo Amato alla canna del gas, e con il Paese a un passo dalla bancarotta, avviò un piano di dimissioni che dieci anni dopo avrebbe fruttato circa 180 miliardi di vecchie lire. Allora fu Mario Draghi, direttore generale del Tesoro, a spiegare ai signori della City riuniti sul panfilo della Regina Elisabetta in rotta tra Civitavecchia e l'Argentario, il grande saldo di fine stagione per lo Stato Imprenditore. Oggi, a quanto pare, ci risiamo. Si parla di cessioni pubbliche per 400 miliardi di euro, tra quote di Eni ed Enel, Terna e Poste, Rai e beni immobili.

Benissimo. È una soluzione buona e giusta, che semmai andava fatta all'inizio della legislatura, in un progetto ragionato e organico, non con l'acqua alla gola della tempesta finanziaria e delle elezioni anticipate. Ma è un'operazione credibile? No, non lo è. Soprattutto perché il ministro che la patrocina è lo stesso che in tutti questi anni ha criticato le privatizzazioni degli Anni Novanta, e ha rinfacciato al Draghi del "Britannia 1" di aver svenduto le aziende pubbliche per pagare il prezzo dell'entrata italiana nel club di Maastricht.

Il secondo dossier riguarda la Cina. Si apprende ora che il ministro dell'Economia, in questi ultimi giorni, ha ricevuto in via riservata una vasta delegazione del Cic, ricchissimo fondo sovrano di Pechino, interessato a comprare i nostri gioielli di famiglia (meglio se energetici) e disposto ad acquistare (quasi fosse una contropartita) tanta parte dei nostri titoli di Stato.

Benissimo. La Cina è un interlocutore prezioso, anche se ingombrante. Una delle poche economie mondiali che tirano, e che dispongono di risorse finanziarie pressoché illimitate. Averla come "socio" nelle privatizzazioni, in un rapporto di partnership equa e vigilata, può aiutarci. Così come può aiutarci averla come compratore di ultima istanza dei nostri Btp, quando la Bce smetterà prima o poi di esserlo.
Ma oggi è un'operazione credibile? No, non lo è. Soprattutto perché il ministro che la sovrintende è lo stesso che in questi anni ha additato la Cina come il nostro nemico peggiore. Lo stesso che nel suo fortunato best-seller La paura e la speranza con il quale ha orientato a favore della destra la campagna elettorale del 2008, scriveva: "I cinesi fanno piani strategici... Piani imperiali. Farli non è colpa della Cina. I cinesi fanno i cinesi. Subirli e invece una colpa dell'Occidente e soprattutto dell'Europa, che ne riceverà il danno maggiore. Una colpa che, in Europa, e anche specificamente propria di quella quinta colonna costituita dagli eurocinesi...". Tremonti ha sempre indicato la Cina come una minaccia. Al punto di considerare il via libera all'ingresso di Pechino nel Wto il "peccato originale" dell'Occidente, l'inizio della sua fine. Al punto di considerare la data di quel via libera, l'11 dicembre 2001, alla stessa stregua simbolica dell'11 settembre 2001, quando l'America subì l'attacco alle Torri Gemelle e cominciò lo scontro di civiltà. Al punto da costruire su questo teorema il cuore del processo a Romano Prodi, allora presidente della Commissione Ue e dunque "quinta colonna" degli "eurocinesi".

Travolti dagli eventi epocali, sconvolti dai risentimenti personali, i politici possono anche cambiare idea. Basta aver l'onestà di ammetterlo. Basta avere il coraggio di riconoscere di aver sbagliato. E basta, soprattutto, non pretendere che l'opinione pubblica dia ancora credito a chi ha commesso errori così numerosi, così gravi, così imperdonabili. In questi giorni si parla di un governo dei migliori. Non sappiamo se esistono. Ma siamo certi che questo, ormai, e solo il governo dei peggiori.

(14 settembre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI La cosa giusta
Inserito da: Admin - Settembre 16, 2011, 11:55:06 am

La cosa giusta

Massimo GIANNINI

Questa volta non vale la vecchia maledizione del banchiere centrale, che Milton Friedman, parlando con Chesney Martin, riassumeva così: "Voi banchieri centrali prendete sempre le decisioni sbagliate, e se per caso ne prendete una giusta la prendete nel momento sbagliato. E se la prendete nel momento giusto, la prendete per il motivo sbagliato". Almeno in questa occasione, le cose non sono andate così. La grande operazione a tenaglia orchestrata dalla Federal Reserve e realizzata dalle banche centrali di mezzo mondo, (Bce, Bank of England, Banca della Svizzera e Banca del Giappone) è la "cosa giusta" da tutti i punti di vista: contenuto, momento e motivo. È giusto immettere dollari in un sistema finanziario sempre più asfittico, dove non poche banche europee hanno difficoltà sempre più serie ad approvvigionarsi sul mercato Usa. È giusto farlo ora, che il mercato interbancario è diventato, pericolosamente, sempre più illiquido. È giusto prevenire e tamponare l'effetto a catena di una crisi dei debiti sovrani che può trasformarsi da un momento all'altro in una crisi del sistema creditizio.

L'impressione è che, sullo stimolo della coppia Geithner-Bernanke a Washington, anche nella Vecchia Europa banchieri e tecnocrati abbiano capito la gravità del pericolo che stiamo correndo. Ed abbiano finalmente cominciato ad agire. In momenti eccezionali si impongono misure eccezionali. L'ombrello in dollari aperto in queste ore, per garantire la provvista delle banche a corto di liquidi, risponde allo scopo. La reazione positiva e immmediata dei mercati ne è la prova più tangibile. E forse questo è solo l'inizio. Non è affatto escluso che la mossa di oggi preluda ad una riduzione dei tassi di interesse, che Trichet non ha voluto annunciare due settimane fa e che invece potrebbe decidere la settimana prossima. Sarebbe un altro segnale importante, che non risolve ma aiuta. Anche solo a comprendere quanto sia alta la posta in gioco di questa nuova tempesta perfetta che può travolgere tutto, non solo la Grecia ma anche l'Italia, non solo qualche banca francese ma l'euro.

In fasi di altissima criticità non è solo opportuna, ma è addirittura necessaria qualche deroga all'ortodossia, e qualche apertura alla fantasia. Non tutti i mali vengono per nuocere: forse persino la clamorosa uscita di scena del "falco" tedesco Juergen Stark dall'Eurotower ha reso possibile oggi quello che solo una settimana fa non lo sarebbe stato. Tanto meglio. Ma a una sola condizione: che qualcuno, soprattutto in Italia e soprattutto nel governo, non coltivi ancora la malapianta dell'azzardo morale, com'è già accaduto con l'acquisto dei Btp da parte della Bce. L'equilibrio della politica monetaria tocca ai banchieri centrali. Ma il risanamento dei bilanci pubblici tocca ai politici. È un lavoro "sporco", perché costa consensi elettorali. Ma chi deve farlo, se non i governanti?

(15 settembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2011/09/15/news/banchiere_centrale-21725402/?ref=HRER1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Le bugie del Cavaliere sempre più ricattabile.
Inserito da: Admin - Settembre 18, 2011, 04:25:53 pm
L'ANALISI

La ragnatela di Berlusconi per nascondere la sua ossessione

Le bugie del Cavaliere sempre più ricattabile.

Al centro della rete c'è lui, che chiede "ragazze sempre più giovani" e "non troppo alte".

E quello che i magistrati chiamano un "comitato d'affari con Finmeccanica e la Protezione Civile"

di MASSIMO GIANNINI


SILVIO Berlusconi passerà alla storia come il "premier a tempo perso", secondo la definizione che lui da di se stesso conversando amabilmente con Maristelle Polanco, una delle innumerevoli "bambine" che hanno allietato le "serate eleganti" di Arcore, di Palazzo Grazioli o di Villa Certosa. Il presidente del Consiglio azzarda ora un rancoroso contrattacco.

Protesta sul "Foglio" per l'inaccettabile "aggressione politica, mediatica, giudiziaria, fisica, patrimoniale e di immagine" a cui è stato sottoposto. Denuncia la "campagna di delegittimazione che punta a scardinare il funzionamento regolare delle istituzioni". Lamenta il "regime di piena e incontrollata sorveglianza" al quale lo hanno sottoposto magistrati e giornali comunisti, con l'obiettivo di costruirgli addosso "l'immagine di ciò che non sono, con deformazioni grottesche delle mie amicizie e del mio modo di vivere il mio privato". Accusa sdegnato il "circuito mediatico e giudiziario completamente impazzito", che sta cercando di "trasformare la mia vita privata in un reato".

Bisogna sempre ascoltarlo, il Cavaliere, quando urla la sua onestà politica e il suo rigore morale di fronte agli scandali innumerevoli che lo travolgono. Quando grida al mondo le sue "verità", cercando di mascherare lo "scandalo permanente" della sua vita privata, incompatibile con
un incarico pubblico perché esposta al ricatto sistematico e disposta all'abuso di potere. Berlusconi tace o parla d'altro, come sempre. Fugge altrove. Nell'altrove dell'autocelebrazione manipolatoria e del complotto mediatico-finanziario. Lo fa perché non può rispondere alle domande che lo inseguono da tre anni, e che chiamano in causa la sua ossessione sessuale, perseguita e soddisfatta ad ogni costo e con tutti i mezzi. Compreso l'uso di una "ragnatela" di faccendieri senza vergogna (ai quali si consegna inerme, tentando di nascondere i suoi vizi con i suoi soldi) e di manager senza scrupoli (ai quali fa saldare il conto delle sue bravate aprendo al giro dei suoi lenoni affamati la cassaforte degli appalti pubblici). Al centro della ragnatela non c'è Tarantini né Lavitola. Non c'è Intini né Guarguaglini. Il "ragno" è lui. E' lui che chiede "ragazze sempre più giovani" e "non troppo alte". È lui che passa ore al telefono per organizzare i bunga bunga 2. E' lui che retribuisce lautamente i suoi pusher di escort, vestendo i panni della vittima ricattata, quando è in realtà il vero carnefice di se stesso.

Non è un "teorema" mediatico-giudiziario. E' invece il quadro chiaro, che emerge rimettendo in ordine fatti e documenti. Da una parte l'autodifesa del Cavaliere, affidata non solo alla lettera al "Foglio" ma prima ancora al "Memoriale" inviato ai pm di Napoli che cercano invano di sentirlo come testimone. Dall'altra parte le intercettazioni telefoniche, gli interrogatori, le ordinanze dei Gip: insomma i materiali agli atti delle inchieste di Bari, di Napoli, di Milano. Il confronto è impietoso. Il presidente del Consiglio non solo non spiega nulla. Ma depista, confonde, quasi sempre mente.

"TARANTINI, IMPRENDITORE DI SUCCESSO"
Ai pubblici ministeri napoletani che si rifiuta di incontrare Berlusconi scrive poche righe, nel suo "Memoriale": "Ho conosciuto il signor Tarantini e sua moglie alcuni anni orsono. Mi è stato presentato come un imprenditore di successo e da più parti ho avuto su di lui positive indicazioni".

Tutto qui. Il riferimento è vago. Nulla dice sulle modalità e sulle ragioni che hanno fatto incrociare le strade di un capo di governo e di uno spiantato trafficante di escort e cocaina. Nel passato di Tarantini non risultano agli atti "imprese di successo". La sua unica "impresa" è l'organizzazione di un vorticoso giro di prostitute, che lo stesso Tarantini "gestisce" a Bari e offre ai potentati locali, e che assolda dall'estate del 2008 per entrare nelle grazie del premier. Ci riesce, fin da quell'agosto. Di lì a un mese inizia a organizzare le "serate" berlusconiane. Nulla dice di tutto questo, il presidente del Consiglio. Nulla dice delle ragazze che, da quel momento e nell'anno successivo, "ordina" allo stesso Tarantini. Le 3.500 pagine depositate dalla procura di Bari sono un campionario infinito e ormai persino abusato. Basta leggere le conversazioni tra il Cavaliere e il suo "fornitore". "Vedi Giampaolo, ora al massimo dovremmo averne due a testa. Perché ora voglio che anche tu abbia le tue, se no mi sento sempre in debito. Tu porta per te e io porto le mie. Poi ce le prestiamo. Insomma, la patonza deve girare...". "Erano in undici... io me ne son fatte solo otto perché non potevo fare di più...".

Si indigna ora il Cavaliere, nella sua lettera al "Foglio": "È del tutto inaccettabile e addirittura criminale che persone che sono state presenti a mie cene con numerosi invitati siano marchiate a vita come escort". Basta leggere le carte, per scoprire che, ospitate nelle "serate eleganti", le ragazze sono retribuite per le loro prestazioni. "Devo trovare subito una troia", si dispera l'imprenditore cocainomane barese. Paga Tarantini. Ma dai brogliacci della procura emerge che, in diversi casi, paga anche il premier. È il caso del 6 settembre 2008, quando a Tarantini la Di Meglio spiega: "Io non ho detto niente, Stamattina, andando via, ha detto, 'ah metti questo in borsa', e io ho detto 'no guarda, non ti preoccupare, non ti sentire obbligato a...'. 'No mi fa piacere! '. Però io non ho chiesto, assolutamente...". E' il caso, ancora, della telefonata che lo stesso premier fa a Tarantini il successivo 17 ottobre, quando gli dice: "Guarda che hanno tutto per pagarsi da sole, sono foraggiatissime...".

"LAVITOLA, DIRETTORE DI GIORNALE"
Ancora più sintetico, per non dire reticente, si dimostra il Cavaliere quando spiega la sua "Conoscenza con Valter Lavitola": "Conosco Lavitola da parecchi anni, in particolare per la sua attività di giornalista e di direttore di giornale". Tutto qui. Troppo poco, per giustificare quello che i magistrati di Napoli, nell'ordinanza di arresto di Tarantini, descrivono come "un anomalo rapporto di interlocuzione privilegiata", caratterizzato da un "tono di speciale vicinanza". Troppo poco, per spiegare la natura delle relazioni tra il capo del governo e quello che ai pm appare come "un attivo e riservato informatore su vicende giudiziarie di specifico e rilevante interesse dello stesso Berlusconi". In pochi, in Italia, conoscono Lavitola, almeno fino al settembre di un anno fa, quando la macchina del fango berlusconiana parte all'attacco di Gianfranco Fini per la sua casa a Montecarlo e il dinamico direttore-editore dell'"Avanti" sforna documenti taroccati nelle sue ignote trasferte tra Santa Lucia e Panama. Berlusconi apprezza, evidentemente.

E' con Lavitola la telefonata dell'ottobre 2009, quando suggerisce al premier la nomina di un generale "amico" alle Fiamme Gialle: "Presidente, si ricorda la faccenda di cui le venni a parlare, la faccenda del generale? Non per fare il numero uno, per fare una mediazione e lui il numero due...". E Berlusconi, solerte: "Allora lo devo chiamare... Gli fissiamo un appuntamento. Allora lui si chiama? Spaziante?". Ed è ancora con Lavitola un'altra telefonata del 13 luglio scorso, con il premier che chiama con una scheda Wind, intestata a Ceron Caceres, di origine peruviana. Nella conversazione Lavitola parla dell'inchiesta P4, sputa fuoco contro Letta e Bisignani e gli parla di una nota che serve a Paolo Pozzessere, manager di Finmeccanica ora travolto dallo scandalo e dimissionato l'altro ieri, che invece il Cavaliere vuole sentire ("Fammi chiamare da Pozzessere", dice). E' la nota telefonata nella quale il premier dice "... tra qualche mese vado via da questo paese di merda...". Ed è di nuovo con Lavitola la telefonata del 24 agosto scorso, quando il premier consiglia al suo sodale latitante, che lo chiama dall'estero: "Resta lì, e vediamo un po'...".

Perché il presidente del Consiglio intrattiene un rapporto del genere, con un personaggio così losco ed ambiguo? Perché parla con lui usando utenze peruviane? Perché accetta i suoi consigli sulle leggi da approvare, persino sulle nomine da fare nei corpi dello Stato? Perché - come vedremo più avanti - lo riempie di denaro contante, da dividere con il socio Tarantini? Il "Memoriale" non lo dice.

I SOLDI AI TARANTINI, "FAMIGLIA DISPERATA"
La domanda più importante che i pm di Napoli vorrebbero rivolgere al premier, riguarda l'enorme quantità di denaro versato in questi anni a Tarantini. Nell'ordinanza d'arresto del faccendiere il versamento di queste "consistenti cifre e benefici" si quantifica in "appannaggi mensili in forma occuplta di quasi 20 mila euro, più una somma "una tantum di 500 mila euro". Perché questa gigantesca prebenda, a beneficio di uno spregiudicato "spacciatore" di donne e di droga? Nel suo "Memoriale", il premier ripete la favola del "Grande Benefattore": "Dopo il suo arresto Tarantini e la moglie mi scrissero delle accorate lettere... mi fecero sapere di essere in gravissime difficoltà economiche... chiedendomi aiuto per finanziare la loro azienda e per evitare il fallimento... Feci quindi avere al Tarantini e alla moglie del denaro consegnandolo direttamente al Lavitola o facendolo consegnare dalla mia segreteria...".

L'uomo generoso. Questa, dunque, è la leggenda che il premier cuce su se stesso. Carte alla mano, i magistrati di Napoli raccontano nell'ordinanza una verità totalmente diversa. "La ragione giustificativa di tali dazioni risiede nella vicenda processuale radicata a Bari, dove il Tarantini è indagato (per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione) e Berlusconi è coinvolto anche se solo mediaticamente...". Il premier, in altre parole, paga il silenzio del suo lenone sulla compagnia di escort che gli ha fornito negli anni. Vuole che patteggi la pena, e che eviti così un dibattimento nel quale uscirebbero tutte le intercettazioni telefoniche sulle "serate" di Casa Berlusconi, il cui contenuto è ritenuto "catastrofico per l'immagine del premier".

Ecco perché il presidente del Consiglio paga. Ancora una volta, deve insabbiare e nascondere la sua "sexual addiction". I suoi "aguzzini", Tarantini e Lavitola, non hanno con lui l'atteggiamento che lui stesso descrive nel "Memoriale", raccontandosi come il Buon Samaritano. "Lo dobbiamo tenere sulla corda", "metterlo in ginocchio" si dicono Tarantini e Lavitola al telefono prima dell'estate. Tarantini parla con la moglie Nicla, il 14 luglio: "Quando lui si sputtanerà io gli andrò addosso... lo dovrò mettere con le spalle al muro". Lei gli risponde: "Noi non abbiamo più niente da perdere, lui invece ha da perdere questo e quell'altro... Hai capito, gli compra le case, le sistema, gli trova lavoro a quattro mignotte... Lui si è fatto arrivare a casa minorenni, vogliamo parlarne? E adesso il problema era Giampaolo...". Questo è lo stato d'animo dei Tarantini, "famiglia bisognosa" miracolata dal Cavaliere. E' un presepe che non regge, quello costruito dal premier nel suo "Memoriale". Lo spazza via il pragmatico Lavitola che, a fine luglio dice a Giampi: "Più merda c'è, meglio è".

LE "FOTOGRAFIE" DI MARINELLA
Dunque, il premier paga. Questa verità non può più negarla neanche lui. Come paga? "Si trattava di somme che variavano tra i 5 mila e i 10 mila euro, 5 mila per il Tarantini e 5 mila per la moglie... Ho una cassaforte dove tengo sempre disponibile una somma di contanti....".

Almeno su questo, il Cavaliere non mente. Viola la legge, perché nel tempo versa in nero e in contanti una somma totale che lo stesso Tarantini, nell'interrogatorio del 2 settembre in carcere, quantifica in circa 700 mila euro. Ma non può mentire. Resta da scoprire un'altra verità: perché, se versa il suo obolo per beneficienza, non lo fa alla luce del sole? Perché, viceversa, sente il bisogno di occultare questa "incombenza" affidandola alle cure riservate della sua segretaria Marinella Brambilla, e di farla truccare con quello che i magistrati chiamano "un linguaggio criptico, convenzionale"? E' la farsa delle "foto da stampare", scoperta nella telefonata del 23 giugno tra la Brambilla e Lavitola: "Allora, riusciamo a stampare 10 foto, mandami... chi mi mandi, il solito Juannino, li, il tuo?". Questo è il gergo. Segreto e cifrato, come quello dei gangster. Perché? Se i soldi servono ad alleviare le pene di una famigliola in difficoltà, perché mimetizzarli da "foto" e farli transitare illegalmente usando balordi intermediari sudamericani? Perché occultare le tracce di ciò che si sta facendo, invece che esserne pubblicamente orgoglioso? Il Cavaliere paga non per aiutare, ma per zittire. Per questo non è tranquillo. C'è una prova a carico: è la deposizione della stessa Brambilla, interrogata dai pm il 13 settembre: nel confermare i versamenti, la segretaria racconta che quando il premier gli diede ordine di pagare Lavitola con 10 mila euro "era sicuramente infastidito e piccato: disse qualcosa tipo: 'quello è un rompiscatole'...". Perché quel fastidio, se il "regalo" del Cavaliere era un'opera buona che serviva a sfamare una bocca, e non a chiuderla?

LE AZIENDE PUBBLICHE COME MERCE DI SCAMBIO
C'è un ultima verità, che emerge dalle 100 mila intercettazioni di Bari, e che il presidente del Consiglio non chiarisce. Per la prima volta da quando le inchieste sono cominciate, si profila con nettezza un "metodo Berlusconi" che piega anche le aziende pubbliche e gli apparati dello Stato alle logiche della circonvenzione sessuale e della spartizione affaristica. Nasce quello che i magistrati chiamano un "comitato d'affari sul gruppo Finmeccanica, con la prospettiva di entrare nel capitale di una società di progetto, ancora in fase di costituzione a cui sarebbero stati destinati i circa 280 milioni di euro che il governo aveva stanziato ... per materiali, servizi ed opere per conto della Protezione Civile". E' Berlusconi che si fa chiamare da Paolo Pozzessere. E' Berlusconi, il 12 novembre 2008, che chiama Tarantini dalla sua macchina e passa la cornetta a Guido Bertolaso, seduto a fianco a lui, perché si mettano d'accordo per un appuntamento d'affari. E' Berlusconi, il 10 dicembre 2008, che incontra il presidente di Finmeccanica Guarguaglini, per chiedergli di far entrare Tarantini nella società controllata dalla Selex (di cui è amministratore delegato Marina Grossi, moglie di Guarguaglini) che dovrà gestire l'appalto da 280 milioni della Protezione Civile. "Ho visto Guarguaglini, poi ti riferisco".

Questo è l'abisso, nel quale precipitano il capo del governo e le sue istituzioni, lo Stato e le sue aziende, i soldi privati e quelli pubblici. Questo è il vero "scandalo permanente". Un presidente del Consiglio che usa la menzogna e abusa del suo ruolo. Che semina illegalità e immoralità. Che è ormai interamente posseduto dai suoi vizi, e per questo non può più governare.

(18 settembre 2011) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Maggioranza stabile e impresentabile
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2011, 04:08:30 pm
Maggioranza stabile e impresentabile

Chiuso nel bunker di Palazzo Grazioli mentre tutto intorno crolla, Silvio Berlusconi respinge l'ultimo attacco. Non basta la bocciatura di Standard & Poor's. Non basta lo spread che torna sopra quota 400. Non basta l'onda sempre più alta del discredito internazionale, che copre l'Italia di ridicolo e la accosta ormai pubblicamente alla Grecia. Non bastano neanche le inchieste giudiziarie che inchiodano il premier alle sue responsabilità, personali e forse anche penali. Non bastano le "serate eleganti" a base di sesso e soldi, le telefonate imbarazzanti con gli spacciatori di escort e i faccendieri di mestiere, l'abuso di potere e le ragazze usate come "mazzette umane" per aprire le porte degli appalti in Finmeccanica e alla Protezione Civile.

Ma ora non basta neanche il voto sull'arresto di Marco Milanese, braccato dai pm per il traffico di nomine pilotate e affari sporchi attraverso il ministero del Tesoro. Il governo e la maggioranza si salvano anche dall'ultima minaccia. Il voto segreto alla Camera sull'ex braccio destro Giulio Tremonti a Via XX Settembre non lascia spazio alle ambiguità e ai distinguo. La sfibrata coalizione forzaleghista è inesistente su tutto: dal sostegno alla crescita economica alla lotta alle disuguaglianze sociali. Ma quando si tratta di difendere la poltrona, si ristabiliscono miracolosamente ordine e disciplina. Spariscono i frondisti del Pdl, svaniscono gli irredentisti della Lega. I 312 voti contrari all'arresto lo confermano: considerate le due assenze (una di Frattini, giustificata, e l'altra dello stesso Tremonti, tanto sospetta da innescare l'ennesimo spargimento di veleni nel centrodestra) la maggioranza è stabile, ancorché impresentabile. È inchiodata a quota 314, quel numero al lotto che ha permesso al Cavaliere di respingere la mozione di sfiducia con la quale il 14 dicembre dello scorso anno Gianfranco Fini tentò inutilmente la spallata esiziale. Da allora, con qualche oscillazione minima (dal voto sulla relazione di Alfano ad alcuni voti sulla manovra), la resistibile armata berlusconiana ha retto intorno a questa soglia, politica e psicologica (dal voto sulla sfiducia a Bondi in poi).

La maggioranza non è cresciuta, come aveva promesso il Cavaliere sull'onda di una scandalosa compravendita di parlamentari che non si è mai interrotta. Ma non si è neanche liquefatta, come troppo spesso ha sperato e scommesso l'opposizione, fidando sulla faglia centrista che finora non si è aperta. Dunque, per quanto svillaneggiato in tutto il mondo e sfiduciato da buona parte dell'opinione pubblica, il presidente del Consiglio "non molla". Come ha giurato al Capo dello Stato. Lo aiuta il suo alleato più fedele e irriducibile, Umberto Bossi. Il Senatur non vuole, ed evidentemente non può, rompere il patto di sangue e di chissà cos'altro che lo vincola al Cavaliere. Come nel Popolo delle Libertà, anche nella Lega resta intangibile l'impronta personale, che fa di queste due formazioni non due partiti, ma due comitati elettorali e pre-politici, costruiti sui sogni e i bisogni dei rispettivi leader. E risultano patetiche, ormai, le adunate nelle valli padane, dove i colonnelli si stringono goffi e imbarazzati intorno al Cerchio Magico, salvo poi tornare nei corridoi romani a diffondere mugugni irrefrenabili e a prospettare rotture improbabili. È tutto e solo falso movimento. Pdl e Lega non romperanno, perché Berlusconi e Bossi hanno e avranno bisogno fino all'ultimo minuto l'uno dell'altro. Per esistere o per resistere, il che ormai fa lo stesso.

Fino a quando e a che prezzo? Sono le due domande che restano. Alla prima non c'è risposta. Si vive alla giornata, come ripete lo stesso Senatur, nei suoi momenti di lucidità. Alla seconda, invece, una risposta c'è. La si trova nel verdetto quotidiano dei mercati finanziari. Non tanto nei giorni neri della Borsa di Milano, che guida sempre ogni tracollo delle piazze internazionali. Quanto nel differenziale tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi, ormai stabilmente a ridosso dei 400 punti, e calmierato solo dai generosi acquisti di Btp che la Banca centrale europea continua a concederci. È un prezzo altissimo, perché a regime ogni 100 punti di allargamento della forbice ci costano 16 miliardi di euro in termini di maggior onere del debito pubblico. Eppure dobbiamo pagarlo. Con una consapevolezza, amara e drammatica. L'unica leva che può indurre Berlusconi a un gesto estremo di responsabilità verso il Paese (sarebbe il primo e l'ultimo) può arrivare dai mercati. Lo spread che si impenna a 500 punti. Un'asta del Tesoro che non va esaurita. L'Europa che trancia un giudizio senza appello. Un vero shock, insomma, che imponga una discontinuità politica immediata. Uno scenario da incubo. Nessuno lo auspica, ma nessuno può più fingere di non vederlo.

(22 settembre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI La ragnatela di Berlusconi per nascondere la sua ossessione
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2011, 05:02:10 pm
L'ANALISI

La ragnatela di Berlusconi per nascondere la sua ossessione

Le bugie del Cavaliere sempre più ricattabile. Al centro della rete c'è lui, che chiede "ragazze sempre più giovani" e "non troppo alte". E quello che i magistrati chiamano un "comitato d'affari con Finmeccanica e la Protezione Civile"

di MASSIMO GIANNINI


SILVIO Berlusconi passerà alla storia come il "premier a tempo perso" 1, secondo la definizione che lui da di se stesso conversando amabilmente con Maristelle Polanco, una delle innumerevoli "bambine" che hanno allietato le "serate eleganti" di Arcore, di Palazzo Grazioli o di Villa Certosa. Il presidente del Consiglio azzarda ora un rancoroso contrattacco.

Protesta sul "Foglio" per l'inaccettabile "aggressione politica, mediatica, giudiziaria, fisica, patrimoniale e di immagine" a cui è stato sottoposto. Denuncia la "campagna di delegittimazione che punta a scardinare il funzionamento regolare delle istituzioni". Lamenta il "regime di piena e incontrollata sorveglianza" al quale lo hanno sottoposto magistrati e giornali comunisti, con l'obiettivo di costruirgli addosso "l'immagine di ciò che non sono, con deformazioni grottesche delle mie amicizie e del mio modo di vivere il mio privato". Accusa sdegnato il "circuito mediatico e giudiziario completamente impazzito", che sta cercando di "trasformare la mia vita privata in un reato".

Bisogna sempre ascoltarlo, il Cavaliere, quando urla la sua onestà politica e il suo rigore morale di fronte agli scandali innumerevoli che lo travolgono. Quando grida al mondo le sue "verità", cercando di mascherare lo "scandalo permanente" della sua vita privata, incompatibile con
un incarico pubblico perché esposta al ricatto sistematico e disposta all'abuso di potere. Berlusconi tace o parla d'altro, come sempre. Fugge altrove. Nell'altrove dell'autocelebrazione manipolatoria e del complotto mediatico-finanziario. Lo fa perché non può rispondere alle domande che lo inseguono da tre anni, e che chiamano in causa la sua ossessione sessuale, perseguita e soddisfatta ad ogni costo e con tutti i mezzi. Compreso l'uso di una "ragnatela" di faccendieri senza vergogna (ai quali si consegna inerme, tentando di nascondere i suoi vizi con i suoi soldi) e di manager senza scrupoli (ai quali fa saldare il conto delle sue bravate aprendo al giro dei suoi lenoni affamati la cassaforte degli appalti pubblici). Al centro della ragnatela non c'è Tarantini né Lavitola. Non c'è Intini né Guarguaglini. Il "ragno" è lui. E' lui che chiede "ragazze sempre più giovani" e "non troppo alte". È lui che passa ore al telefono per organizzare i bunga bunga 2. E' lui che retribuisce lautamente i suoi pusher di escort, vestendo i panni della vittima ricattata, quando è in realtà il vero carnefice di se stesso.

Non è un "teorema" mediatico-giudiziario. E' invece il quadro chiaro, che emerge rimettendo in ordine fatti e documenti. Da una parte l'autodifesa del Cavaliere, affidata non solo alla lettera al "Foglio" ma prima ancora al "Memoriale" inviato ai pm di Napoli che cercano invano di sentirlo come testimone. Dall'altra parte le intercettazioni telefoniche, gli interrogatori, le ordinanze dei Gip: insomma i materiali agli atti delle inchieste di Bari, di Napoli, di Milano. Il confronto è impietoso. Il presidente del Consiglio non solo non spiega nulla. Ma depista, confonde, quasi sempre mente.

"TARANTINI, IMPRENDITORE DI SUCCESSO"
Ai pubblici ministeri napoletani che si rifiuta di incontrare Berlusconi scrive poche righe, nel suo "Memoriale": "Ho conosciuto il signor Tarantini e sua moglie alcuni anni orsono. Mi è stato presentato come un imprenditore di successo e da più parti ho avuto su di lui positive indicazioni".

Tutto qui. Il riferimento è vago. Nulla dice sulle modalità e sulle ragioni che hanno fatto incrociare le strade di un capo di governo e di uno spiantato trafficante di escort e cocaina. Nel passato di Tarantini non risultano agli atti "imprese di successo". La sua unica "impresa" è l'organizzazione di un vorticoso giro di prostitute, che lo stesso Tarantini "gestisce" a Bari e offre ai potentati locali, e che assolda dall'estate del 2008 per entrare nelle grazie del premier. Ci riesce, fin da quell'agosto. Di lì a un mese inizia a organizzare le "serate" berlusconiane. Nulla dice di tutto questo, il presidente del Consiglio. Nulla dice delle ragazze che, da quel momento e nell'anno successivo, "ordina" allo stesso Tarantini. Le 3.500 pagine depositate dalla procura di Bari sono un campionario infinito e ormai persino abusato. Basta leggere le conversazioni tra il Cavaliere e il suo "fornitore". "Vedi Giampaolo, ora al massimo dovremmo averne due a testa. Perché ora voglio che anche tu abbia le tue, se no mi sento sempre in debito. Tu porta per te e io porto le mie. Poi ce le prestiamo. Insomma, la patonza deve girare...". "Erano in undici... io me ne son fatte solo otto perché non potevo fare di più...".

Si indigna ora il Cavaliere, nella sua lettera al "Foglio": "È del tutto inaccettabile e addirittura criminale che persone che sono state presenti a mie cene con numerosi invitati siano marchiate a vita come escort". Basta leggere le carte, per scoprire che, ospitate nelle "serate eleganti", le ragazze sono retribuite per le loro prestazioni. "Devo trovare subito una troia", si dispera l'imprenditore cocainomane barese. Paga Tarantini. Ma dai brogliacci della procura emerge che, in diversi casi, paga anche il premier. È il caso del 6 settembre 2008, quando a Tarantini la Di Meglio spiega: "Io non ho detto niente, Stamattina, andando via, ha detto, 'ah metti questo in borsa', e io ho detto 'no guarda, non ti preoccupare, non ti sentire obbligato a...'. 'No mi fa piacere! '. Però io non ho chiesto, assolutamente...". E' il caso, ancora, della telefonata che lo stesso premier fa a Tarantini il successivo 17 ottobre, quando gli dice: "Guarda che hanno tutto per pagarsi da sole, sono foraggiatissime...".

"LAVITOLA, DIRETTORE DI GIORNALE"
Ancora più sintetico, per non dire reticente, si dimostra il Cavaliere quando spiega la sua "Conoscenza con Valter Lavitola": "Conosco Lavitola da parecchi anni, in particolare per la sua attività di giornalista e di direttore di giornale". Tutto qui. Troppo poco, per giustificare quello che i magistrati di Napoli, nell'ordinanza di arresto di Tarantini, descrivono come "un anomalo rapporto di interlocuzione privilegiata", caratterizzato da un "tono di speciale vicinanza". Troppo poco, per spiegare la natura delle relazioni tra il capo del governo e quello che ai pm appare come "un attivo e riservato informatore su vicende giudiziarie di specifico e rilevante interesse dello stesso Berlusconi". In pochi, in Italia, conoscono Lavitola, almeno fino al settembre di un anno fa, quando la macchina del fango berlusconiana parte all'attacco di Gianfranco Fini per la sua casa a Montecarlo e il dinamico direttore-editore dell'"Avanti" sforna documenti taroccati nelle sue ignote trasferte tra Santa Lucia e Panama. Berlusconi apprezza, evidentemente.

E' con Lavitola la telefonata dell'ottobre 2009, quando suggerisce al premier la nomina di un generale "amico" alle Fiamme Gialle: "Presidente, si ricorda la faccenda di cui le venni a parlare, la faccenda del generale? Non per fare il numero uno, per fare una mediazione e lui il numero due...". E Berlusconi, solerte: "Allora lo devo chiamare... Gli fissiamo un appuntamento. Allora lui si chiama? Spaziante?". Ed è ancora con Lavitola un'altra telefonata del 13 luglio scorso, con il premier che chiama con una scheda Wind, intestata a Ceron Caceres, di origine peruviana. Nella conversazione Lavitola parla dell'inchiesta P4, sputa fuoco contro Letta e Bisignani e gli parla di una nota che serve a Paolo Pozzessere, manager di Finmeccanica ora travolto dallo scandalo e dimissionato l'altro ieri, che invece il Cavaliere vuole sentire ("Fammi chiamare da Pozzessere", dice). E' la nota telefonata nella quale il premier dice "... tra qualche mese vado via da questo paese di merda...". Ed è di nuovo con Lavitola la telefonata del 24 agosto scorso, quando il premier consiglia al suo sodale latitante, che lo chiama dall'estero: "Resta lì, e vediamo un po'...".

Perché il presidente del Consiglio intrattiene un rapporto del genere, con un personaggio così losco ed ambiguo? Perché parla con lui usando utenze peruviane? Perché accetta i suoi consigli sulle leggi da approvare, persino sulle nomine da fare nei corpi dello Stato? Perché - come vedremo più avanti - lo riempie di denaro contante, da dividere con il socio Tarantini? Il "Memoriale" non lo dice.

I SOLDI AI TARANTINI, "FAMIGLIA DISPERATA"
La domanda più importante che i pm di Napoli vorrebbero rivolgere al premier, riguarda l'enorme quantità di denaro versato in questi anni a Tarantini. Nell'ordinanza d'arresto del faccendiere il versamento di queste "consistenti cifre e benefici" si quantifica in "appannaggi mensili in forma occuplta di quasi 20 mila euro, più una somma "una tantum di 500 mila euro". Perché questa gigantesca prebenda, a beneficio di uno spregiudicato "spacciatore" di donne e di droga? Nel suo "Memoriale", il premier ripete la favola del "Grande Benefattore": "Dopo il suo arresto Tarantini e la moglie mi scrissero delle accorate lettere... mi fecero sapere di essere in gravissime difficoltà economiche... chiedendomi aiuto per finanziare la loro azienda e per evitare il fallimento... Feci quindi avere al Tarantini e alla moglie del denaro consegnandolo direttamente al Lavitola o facendolo consegnare dalla mia segreteria...".

L'uomo generoso. Questa, dunque, è la leggenda che il premier cuce su se stesso. Carte alla mano, i magistrati di Napoli raccontano nell'ordinanza una verità totalmente diversa. "La ragione giustificativa di tali dazioni risiede nella vicenda processuale radicata a Bari, dove il Tarantini è indagato (per favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione) e Berlusconi è coinvolto anche se solo mediaticamente...". Il premier, in altre parole, paga il silenzio del suo lenone sulla compagnia di escort che gli ha fornito negli anni. Vuole che patteggi la pena, e che eviti così un dibattimento nel quale uscirebbero tutte le intercettazioni telefoniche sulle "serate" di Casa Berlusconi, il cui contenuto è ritenuto "catastrofico per l'immagine del premier".

Ecco perché il presidente del Consiglio paga. Ancora una volta, deve insabbiare e nascondere la sua "sexual addiction". I suoi "aguzzini", Tarantini e Lavitola, non hanno con lui l'atteggiamento che lui stesso descrive nel "Memoriale", raccontandosi come il Buon Samaritano. "Lo dobbiamo tenere sulla corda", "metterlo in ginocchio" si dicono Tarantini e Lavitola al telefono prima dell'estate. Tarantini parla con la moglie Nicla, il 14 luglio: "Quando lui si sputtanerà io gli andrò addosso... lo dovrò mettere con le spalle al muro". Lei gli risponde: "Noi non abbiamo più niente da perdere, lui invece ha da perdere questo e quell'altro... Hai capito, gli compra le case, le sistema, gli trova lavoro a quattro mignotte... Lui si è fatto arrivare a casa minorenni, vogliamo parlarne? E adesso il problema era Giampaolo...". Questo è lo stato d'animo dei Tarantini, "famiglia bisognosa" miracolata dal Cavaliere. E' un presepe che non regge, quello costruito dal premier nel suo "Memoriale". Lo spazza via il pragmatico Lavitola che, a fine luglio dice a Giampi: "Più merda c'è, meglio è".

LE "FOTOGRAFIE" DI MARINELLA
Dunque, il premier paga. Questa verità non può più negarla neanche lui. Come paga? "Si trattava di somme che variavano tra i 5 mila e i 10 mila euro, 5 mila per il Tarantini e 5 mila per la moglie... Ho una cassaforte dove tengo sempre disponibile una somma di contanti....".

Almeno su questo, il Cavaliere non mente. Viola la legge, perché nel tempo versa in nero e in contanti una somma totale che lo stesso Tarantini, nell'interrogatorio del 2 settembre in carcere, quantifica in circa 700 mila euro. Ma non può mentire. Resta da scoprire un'altra verità: perché, se versa il suo obolo per beneficienza, non lo fa alla luce del sole? Perché, viceversa, sente il bisogno di occultare questa "incombenza" affidandola alle cure riservate della sua segretaria Marinella Brambilla, e di farla truccare con quello che i magistrati chiamano "un linguaggio criptico, convenzionale"? E' la farsa delle "foto da stampare", scoperta nella telefonata del 23 giugno tra la Brambilla e Lavitola: "Allora, riusciamo a stampare 10 foto, mandami... chi mi mandi, il solito Juannino, li, il tuo?". Questo è il gergo. Segreto e cifrato, come quello dei gangster. Perché? Se i soldi servono ad alleviare le pene di una famigliola in difficoltà, perché mimetizzarli da "foto" e farli transitare illegalmente usando balordi intermediari sudamericani? Perché occultare le tracce di ciò che si sta facendo, invece che esserne pubblicamente orgoglioso? Il Cavaliere paga non per aiutare, ma per zittire. Per questo non è tranquillo. C'è una prova a carico: è la deposizione della stessa Brambilla, interrogata dai pm il 13 settembre: nel confermare i versamenti, la segretaria racconta che quando il premier gli diede ordine di pagare Lavitola con 10 mila euro "era sicuramente infastidito e piccato: disse qualcosa tipo: 'quello è un rompiscatole'...". Perché quel fastidio, se il "regalo" del Cavaliere era un'opera buona che serviva a sfamare una bocca, e non a chiuderla?

LE AZIENDE PUBBLICHE COME MERCE DI SCAMBIO
C'è un ultima verità, che emerge dalle 100 mila intercettazioni di Bari, e che il presidente del Consiglio non chiarisce. Per la prima volta da quando le inchieste sono cominciate, si profila con nettezza un "metodo Berlusconi" che piega anche le aziende pubbliche e gli apparati dello Stato alle logiche della circonvenzione sessuale e della spartizione affaristica. Nasce quello che i magistrati chiamano un "comitato d'affari sul gruppo Finmeccanica, con la prospettiva di entrare nel capitale di una società di progetto, ancora in fase di costituzione a cui sarebbero stati destinati i circa 280 milioni di euro che il governo aveva stanziato ... per materiali, servizi ed opere per conto della Protezione Civile". E' Berlusconi che si fa chiamare da Paolo Pozzessere. E' Berlusconi, il 12 novembre 2008, che chiama Tarantini dalla sua macchina e passa la cornetta a Guido Bertolaso, seduto a fianco a lui, perché si mettano d'accordo per un appuntamento d'affari. E' Berlusconi, il 10 dicembre 2008, che incontra il presidente di Finmeccanica Guarguaglini, per chiedergli di far entrare Tarantini nella società controllata dalla Selex (di cui è amministratore delegato Marina Grossi, moglie di Guarguaglini) che dovrà gestire l'appalto da 280 milioni della Protezione Civile. "Ho visto Guarguaglini, poi ti riferisco".

Questo è l'abisso, nel quale precipitano il capo del governo e le sue istituzioni, lo Stato e le sue aziende, i soldi privati e quelli pubblici. Questo è il vero "scandalo permanente". Un presidente del Consiglio che usa la menzogna e abusa del suo ruolo. Che semina illegalità e immoralità. Che è ormai interamente posseduto dai suoi vizi, e per questo non può più governare.

(18 settembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/09/18/news/berlusconi-21829414/


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'Italia, il prossimo birillo
Inserito da: Admin - Settembre 26, 2011, 04:46:10 pm
   
Polis

L'Italia, il prossimo birillo
 
Massimo GIANNINI


Il rally delle Borse non ci può né ci deve ingannare. Per l'Europa, e soprattutto per l'Italia, è suonata la campana dell'ultimo giro. L'iniziativa del G20, con il maxi-piano da tremila miliardi di euro per salvare la moneta unica e ricapitalizzare le banche, è la conferma implicita di quanto scriviamo da giorni. Si va dritti verso il "default" della Grecia. La messa in sicurezza delle principali istituzioni creditizie dell'Eurozona è la mossa che prepara la "caduta pilotata" di Atene. A questo punto sarebbe prevedibile, oltre che auspicabile, un contestuale taglio dei tassi d'interesse da parte della Bce.

In ogni caso, il "default" greco cambia lo scenario. Da un anno a questa parte, tra Bruxelles e le altre cancellerie del Vecchio Continente, si andavano ripetendo due solite solfe: quella eventualità non era preferibile dal punto di vista politico, nè percorribile dal punto di vista tecnico. Stiamo scoprendo, adesso, che quelle solfe non solo erano trite, ma erano anche false. Che poi questo epilogo della tragedia greca basti a salvare l'euro, è difficile dire.

Quello che è certo è che, caduto il tabù, le altre economie degli Stati periferici si devono regolare di conseguenza. L'Italia è il primo birillo che può cadere. Questo accelera, anziché frenarli, gli scenari della crisi politica. Il governo Berlusconi non ha la forza per reggere l'urto di una nuova manovra correttiva, né ha la credibilità per lanciare un nuovo progetto di crescita dell'economia. Il "divorzio" tra Palazzo Chigi e Tesoro rende impraticabile qualunque "decreto sviluppo" degno di questo nome. Non a caso, invece che di riforme strutturali, si riparla di condoni fiscali. È il massimo che ci si può aspettare, da questa Armata Brancaleone in disarmo.

La speranza è che la crisi si apra davvero a gennaio, come ha ventilato tra le righe Umberto Bossi, e che si vada a votare in aprile se, come sembra, risulterà impercorribile la via di un governo di emergenza nazionale. Le parti sociali sembrano già mentalmente e politicamente calate in questo scenario. Il "Manifesto" di Emma Marcegaglia per "Salvare l'Italia" va esattamente in questa direzione. Sembra la piattaforma economica che, sia pure con colpevole ritardo, Confindustria offre a un ipotetico "governo di salute pubblica", o a un potenziale schieramento riformatore da contrapporre al centrodestra post-berlusconiano. Del resto, l'iniziativa confindustriale sta in piedi solo se ispirata da questa logica. L'eclissi della politica facilita il ritorno alla stagione delle supplenze e delle concertazioni, simmetriche o asimmetriche, tra tecnocrazie e corpi intermedi della società. Ma è bene che gli operatori economici facciano il loro mestiere. Il "campo" che dovrebbe accogliere le nuove, fantomatiche "discese" è già molto intasato: Montezemolo, Passera, Profumo, e via andare. Ci manca solo la Marcegaglia.

Di imprenditori in politica ne abbiamo già conosciuto uno. Forse può bastare.

(26 settembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2011/09/26/news/rally_borse_giannini-22245751/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI SOMMERSI E SALVATI NELLA PARTITA BANKITALIA
Inserito da: Admin - Settembre 29, 2011, 05:02:00 pm
COPERTINA

SOMMERSI E SALVATI NELLA PARTITA BANKITALIA

MASSIMO GIANNINI

Se non ci saranno colpi di scena, Silvio Berlusconi si accinge a prendere l’unica decisione sensata dei suoi ultimi dieci anni di avventura politica. In settimana il presidente della Repubblica procederà alla nomina del nuovo governatore della Banca d’Italia. E il successore di Mario Draghi, salvo sorprese, sarà l’attuale direttore generale di Via Nazionale, Fabrizio Saccomanni. A proporlo al Capo dello Stato, se per qualche imponderabile ragione non cambierà idea, sarà proprio il presidente del Consiglio, «previa deliberazione del Consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d’Italia» (già convocato, per ora in via solo ordinaria, per dopodomani). Questo prevede la procedura di nomina, secondo la legge 262 del 2005.
Dopo un’estate intossicata dai soliti veleni e dai rituali bracci di ferro, Berlusconi si è dunque convinto ad appoggiare la «soluzione interna» e a privilegiare la «continuità» istituzionale, dentro un organo speciale dello Stato che fa da sempre della «continuità» la cifra della sua autonomia e della sua indipendenza. Così, nei decenni, Palazzo Koch ha conquistato sul campo la sua autorevolezza e la sua credibilità. Tanto da diventare una preziosa «riserva della Repubblica».
Se questo sarà l’esito, sarà finalmente una buona cosa per l’Italia. Uscirà sconfitto Giulio Tremonti, che a fine giugno aveva tentato un blitz per imporre al governo e alla Banca il suo candidato Vittorio Grilli. Già allora giudicammo «pericolosa» la manovra del ministro. Non per sfiducia nei confronti del direttore generale del Tesoro, che è figura indiscussa per spessore e prestigio. Ma per la «filosofia» che accompagnava la scelta tremontiana. L’idea, cioè, che la Banca d’Italia dovesse diventare un organismo «ausiliario» dei governi, una sorta di ufficio studi al servizio del potere costituito, dal quale attingere, a discrezione, progetti e proposte di ordine macroeconomico, e nient’altro. Una visione gregaria e strumentale del ruolo della Banca, che avrebbe finito con il ridimensionarne la «forza» e la funzione rigorosamente «terza» rispetto alla politica. Un altro modo, appena più elegante, per rimettere in riga Via Nazionale, e per entrarci dentro mani e piedi. Condizionandone sia la valutazione critica delle politiche economiche governative, sia la gestione dinamica delle politiche di vigilanza creditizia.
Per fortuna, se non ci ripenserà all’ultima ora, il Cavaliere ci salverà da questo rischio. Purtroppo non lo farà per convinzione, ma per ritorsione. Berlusconi sceglierà Saccomanni per consumare la sua vendetta contro Tremonti. Ma una volta tanto non conviene sottilizzare. È come nel calcio: questa partita è troppo importante. Il gioco non conta. Conta solo il risultato.

m.giannini@repubblica.it

da - http://www.repubblica.it/supplementi/af/2011/09/26/copertina/001faggio.html


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il Paese sgovernato
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2011, 05:06:51 pm
Il Paese sgovernato

Massimo GIANNINI

Il governo si dissolve, tra le "giornate intense" di Letta e le "serate eleganti" di Berlusconi. Alla Camera va sotto su un emendamento che inserisce anche la scuola pubblica tra i beneficiari dell'8 per mille. È la novantesima volta che accade, in tre anni e mezzo di legislatura. Un record assoluto, che farebbe schiantare l'esecutivo di qualunque altro Paese del mondo. Non quello italiano, che come il calabrone (corpaccione enorme, ali minuscole) vola radente e dannoso, sfidando tutte le leggi della fisica e della politica. Ma questo apparente "miracolo" non può e non deve ingannare. Il collasso numerico sull'8 per mille di oggi avviene a sole ventiquattr'ore di distanza dal successo aritmetico su Saverio Romano di ieri. È la "cifra" politica della maggioranza attuale: resiste quando il test parlamentare mette in gioco la sua sopravvivenza, non esiste quando si tratta di votare l'ordinaria amministrazione. Cioè quando si tratta di governare il Paese.

Infatti il Paese è di fatto sgovernato da tre anni e mezzo. Quando il mondo gira più o meno come al solito, ti puoi persino concedere questo lusso. Non te lo puoi più permettere, viceversa, quando il pianeta soffre una crisi globale, e tu in Europa sei l'anello debole della catena. La vittoria casalinga di Angela Merkel, che riesce a convincere il Bundestag ad approvare il potenziamento del Fondo Salva-Stati, aiuta l'Eurozona a prendere un po' d'ossigeno. Ma i problemi non sono affatto risolti. L'eurodelirio è appena agli inizi, e il peggio deve ancora venire. Per questo l'Italia continua ad essere esposta al massimo pericolo. Tanto più con un governo che affonda, e che torna a lacerarsi al suo interno sulle questioni di sempre. Come affrontare la partita del risanamento dei conti pubblici, con il necessario supplemento di manovra richiesto dalla Ue e dalla Bce sul fronte delle pensioni? Come fronteggiare con un minimo di credibilità il pacchetto-sviluppo che invocano ormai tutte le parti sociali? E come sciogliere il nodo della nomina del nuovo governatore della Banca d'Italia, la più importante istituzione economica della Repubblica, gettata nel tritacarne del regolamento di conti interno alla Pdl?

Queste sono le domande, tuttora senza risposta, che il premier elude mentre festeggia i suoi settantacinque anni menando fendenti contro la magistratura. Come se i guai dell'Italia dipendessero tutti da un manipolo di toghe rosse acquartierate nelle procure, e non invece da una cricca di irresponsabili asserragliati nel Palazzo. Questa crisi non si gestisce con un presidente del Consiglio e un ministro dell'Economia che non si parlano, e che quando si parlano fanno finta di trovare un accordo, salvo poi insultarsi e delegittimarsi a vicenda e per interposta persona nel gioco al massacro dei retroscena giornalistici. Quando si ribellano persino i sindacati gregari come la Cisl di Bonanni e la Uil di Angeletti, quando urlano la propria rabbia i decani dell'industria guidati da Emma Marcegaglia, i giovani imprenditori al seguito di Jacopo Morelli e i disillusi costruttori capitanati da Paolo Buzzetti, vuol dire che la misura è davvero colma. Un governo si può anche tenere in ostaggio. Ma non si può prendere in ostaggio un intero Paese.

(29 settembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2011/09/29/news/il_paese_sgovernato-22421680/


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'ultimo strappo di Marchionne
Inserito da: Admin - Ottobre 04, 2011, 07:37:46 pm
   
IL COMMENTO

L'ultimo strappo di Marchionne

di MASSIMO GIANNINI

IL DIVORZIO tra Fiat e Confindustria si è dunque consumato. Sergio Marchionne, l'Amerikano, viola anche l'ultimo tabù, e porta il Lingotto fuori da Viale dell'Astronomia. Cioè fuori dal luogo fisico, ma anche istituzionale e sociale, dove la Fiat era sempre stata dal 1910, dai tempi del senatore Giovanni Agnelli fino a Vittorio Valletta e poi all'Avvocato. Lo "strappo", anche solo per questo, si può davvero definire storico. Per un secolo Fiat e Confindustria sono state una cosa sola. La prima sceglieva i presidenti della seconda. Un unico, vero Potere Forte, che condizionava i governi e ne orientava le politiche.

Questa "cinghia di trasmissione" subì una prima rottura con l'elezione di Antonio D'Amato nel 2000, sull'onda di una Vandea dei "piccoli padroncini" che Agnelli patì e salutò a modo suo, con una delle frasi che resteranno negli annali della Repubblica: "Hanno vinto i berluschini". Ma undici anni e molte polemiche dopo, c'è voluto il super-manager italo-svizzero-canadese a compiere la rottura definitiva. Una rottura che, al di là della portata simbolica, ha un profondo significato politico ed economico. Mentre esce da Confindustria, la Fiat sembra fare un passo in più verso un'altra uscita, molto più significativa: l'uscita dall'Italia.

Un'uscita da un impianto culturale (le pratiche concertative e le regole associative, la contrattazione nazionale e la costituzione materiale) che prelude sempre più all'uscita da un sistema industriale. Un'uscita per altro largamente annunciata, e larvatamente preparata, nel corso di quest'ultimo anno e mezzo. Gli accordi separati del 2010 (Pomigliano D'Arco a giugno e Mirafiori a dicembre) erano già un implicito "manifesto" pubblico del modello Marchionne: mani libere nelle fabbriche e intese con chi ci sta, se serve anche al di fuori della gabbia del contratto collettivo. Ora, con la lettera in cui ufficializza l'addio del Lingotto a Viale dell'Astronomia a partire dal primo gennaio 2012, l'amministratore delegato rende esplicito quel "manifesto". La Fiat "è impegnata nella costruzione di un grande gruppo internazionale, con 181 stabilimenti in 30 Paesi". Non può permettersi il lusso di "operare in Italia in un quadro di incertezze che la allontanano dalle condizioni esistenti in tutto il mondo industrializzato".

L'inciampo italiano, per Marchionne, è rappresentato dal sistema di regole alla quale Confindustria ha scelto di restare ancorata, rifiutando di ascoltare la sirena che da Torino cantava ormai da un paio d'anni. Un sistema che ruota intorno alla difesa del contratto collettivo nazionale, che deve garantire certezza dei trattamenti economici e normativi comuni a tutti i lavoratori, in tutti i settori e in tutto il territorio nazionale. Alla valorizzazione dei contratti aziendali, che disciplinano tutte le materie "delegate", anche in deroga parziale al contratto nazionale, ma con i limiti e le procedure disciplinate da quest'ultimo. Al principio della rappresentatività e della maggioranza, che garantisce la validità e l'applicazione di questo doppio impianto contrattuale dentro le fabbriche.

Questa piattaforma è stata ribadita da Confindustria e sindacati con l'accordo del 28 giugno scorso, che ha sancito una ricucitura importante nel metodo della concertazione, con il ritorno al tavolo, e alla successiva intesa, anche della Cgil. Quell'accordo a Fiat andava stretto. Perché non lasciava sufficiente discrezionalità alle aziende, soprattutto sui licenziamenti. È nato così l'articolo 8 della manovra d'agosto. Con quella norma il governo è venuto incontro alle richieste Fiat, cogliendo un varco lasciato aperto dall'accordo di giugno, che allarga anche alla "legge" (e non solo al contratto nazionale) lo spettro delle materie "delegate" alla contrattazione aziendale in deroga. Il ministro Sacconi, con quel blitz agostano, ha stabilito che le intese aziendali possono derogare alla legge o al contratto nazionale, compreso lo Statuto dei lavoratori. In questo modo salta l'intero apparato degli istituti di tutela dei lavoratori: dalle mansioni agli inquadramenti, dal part time agli orari. Ma soprattutto, l'articolo 8 concede alle imprese, di fatto, la libertà di licenziamento.

Per questo la Cgil è scesa in piazza il 6 settembre, decretando lo sciopero generale. Per questo, soprattutto, Confindustria e sindacati sono tornati a sedersi al tavolo interconfederale, e il 21 settembre hanno siglato un nuovo accordo, confermando "l'autonoma determinazione delle parti sociali" in tutte le scelte relative "alle relazioni industriali e alla contrattazione", nazionale e aziendale. Una scelta coraggiosa e responsabile. In una stagione di forte crisi economica e di alta instabilità politica, le parti sociali hanno ristabilito il primato della concertazione, e hanno disinnescato l'inutile e pericolosa "mina" dei licenziamenti. Il governo Berlusconi ha inserito l'articolo 8 in un "luogo" improprio, il maxi-decreto anti-deficit, come fattore di condizionamento ideologico e di scardinamento sociale. L'accordo interconfederale del 21 settembre (al di là delle diverse esegesi giuslavoristiche che l'hanno accompagnato) ha opportunamente disinnescato quella "mina". Ristabilendo, come nel '92, una benefica "supplenza" nei confronti di una politica irresoluta e irresponsabile.

Ora è proprio contro quella mossa che si scaglia Marchionne. Ed è proprio quella mossa che il "ceo" della Fiat usa come argomento, per giustificare il "divorzio" da Confindustria. Il "lodo" del 21 settembre "rischia di snaturare l'impianto previsto dalla nuova legge", e di "limitare fortemente la flessibilità gestionale". Evidentemente, un esito del tutto inaccettabile per il Lingotto. È questo, dunque, il "peccato" di Emma Marcegaglia. Aver riportato la Confindustria al tavolo della concertazione, e aver ricostruito la trama lacerata dei rapporti sociali, all'insegna di un'idea quanto più possibile condivisa delle relazioni industriali nelle fabbriche, dei diritti fondamentali delle persone, e alla fine dell'Italia che produce, che lavora e che deve cercare faticosamente una comune via d'uscita dal declino.

Lo "strappo" di Marchionne ha quindi una chiave di lettura, visibile, che è prevalentemente socio-economica. Volendo, ce n'è anche una meno visibile, e tutta politica. La Confindustria della Marcegaglia, a sua volta, ha appena consumato la rottura con il governo Berlusconi, lanciando l'ultimatum ("o fa le riforme, o va a casa") e proponendo il progetto alternativo "Salviamo l'Italia" (insieme a Rete Imprese). La Fiat non condivide le critiche al Cavaliere (non a caso John Elkann sabato scorso ha stroncato il progetto confindustriale dicendo "non è tempo di proclami e proposte generiche". E allora prende definitivamente e pubblicamente le distanze, e se ne va da Viale Astronomia. E' un'interpretazione maliziosa, che i vertici del Lingotto smentiscono seccamente. Ma allora perché Marchionne parla di "Confindustria politica", che per Fiat "ha zero interesse"? E perché Fabrizio Cicchitto esulta per il "divorzio", dicendo "ora la Marcegaglia è isolata"? E perché, infine, solo un'ora dopo aver proclamato l'uscita da Confindustria il Lingotto annuncia anche un altro anno di cassa integrazione a Mirafiori, generosamente coperto, pro-quota, dal denaro pubblico?

Ma al di là delle dietrologie, conta quello che si vede. E quello che si vede è che la Fiat di Marchionne, a dispetto delle promesse, fatica a tenere la competizione globale e non regge la competizione nazionale. I numeri parlano chiaro. Sia quelli della finanza, sia quelli dell'industria. Dal 3 gennaio 2011, data dello spin off del Lingotto, i titoli del gruppo sono crollati. Fiat Spa valeva 6,9 euro, e ora ne vale 3,9, Fiat Industrial valeva 9 euro e ora ne vale 5,3. Fiat Spa, che allora capitalizzava 7,5 miliardi, oggi è scesa sotto i 4 miliardi. La produzione nazionale è inferiore alle attese, lontana anni luce dagli 1,4 milioni di auto previsti nel 2014. Le vendite continuano a ridursi, con un'ulteriore caduta del 4,7% a settembre, che porta la quota di mercato domestico ad un modesto 29,7%.

I nuovi modelli continuano a latitare: a prescindere dalla Nuova Panda appena lanciata, i 9 nuovi modelli e i 4 restyling previsti non si vedranno prima dell'inizio del 2013, e l'uscita della Giulia Berlina e Station Wagon è slittata al 2014. A parte la chiusura certa di Termini Imerese, della Irisbus di Avellino e della Cnh di Imola, sul destino degli impianti italiani regna la confusione più totale. Il mitico progetto "Fabbrica Italia" resta un'araba fenice. Il piano industriale è tuttora ignoto. La conferma degli investimenti su Mirafiori, formulata dallo stesso Marchionne, è sicuramente un fatto positivo, come lo è la garanzia che lì si produrrà la Jeep. Ma non si può non vedere che per Torino siamo ormai al terzo dietrofront: prima doveva produrre la Topolino, poi la Citycar, poi i Suv Alfa.

L'impressione, purtroppo, è quella di un'azienda che, almeno nel Belpaese, viaggia ormai a fari spenti. Che ha scelto di scommettere tutte le sue carte solo sulla ruota americana di Detroit, e ha scelto di giocare la partita della concorrenza domestica solo sul piano dei tagli alla produzione e al costo del lavoro. Marchionne può dire quello che vuole. Ma tanti indizi, ormai, cominciano a fare una prova. La "strategia delle mani libere" non ha più nessun'altra giustificazione, se non quella del disimpegno. Dopo il divorzio da Confindustria, arriverà anche il divorzio dall'Italia.

(04 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2011/10/04/news/giannini_marchionne-22652189/?ref=HREC1-4


Titolo: MASSIMO GIANNINI Legge-bavaglio, cinque anni di guerra per coprire gli scandali
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2011, 03:58:31 pm
La storia

Legge-bavaglio, cinque anni di guerra per coprire gli scandali del Cavaliere

Dal caso Saccà al giro di escort, la grande guerra del Cavaliere per cancellare le inchieste che lo coinvolgono.

Dopo la vittoria del 13 aprile 2008 l'annuncio: le intercettazioni, solo per mafia e Br.

Fino alla cronaca di questi giorni

di MASSIMO GIANNINI


È POTENTE e minacciosa, la forza di fuoco dispiegata nelle ultime settimane dal presidente del Consiglio sulle intercettazioni. "Voi parlamentari approvate al più presto la legge: la situazione attuale non è da Paese civile" (Agi, 6 ottobre). "Vi è un'urgenza a cui abbiamo il dovere di rispondere... Il cittadino alza il telefono e sente di poter essere controllato: è intollerabile, è un sistema barbaro a cui dobbiamo mettere fine" (Ansa, 7 ottobre).

LO SPECIALE SUL DDL INTERCETTAZIONI (su http://www.repubblica.it/politica/2011/10/10/news/cinque_anni_scandali-22962539/?ref=HRER1-1).
 
Silvio Berlusconi prepara con queste parole, scagliate come pietre contro i pm, il prossimo "giorno del giudizio". Giovedì la Camera voterà la legge-bavaglio, dalla quale può dipendere la sopravvivenza del suo governo. Il premier cerca di dimostrare l'indimostrabile: quella sulle intercettazioni non è la "sua" guerra, ma deve essere la guerra di tutti gli italiani che hanno a cuore la libertà.

È l'ennesima, disperata torsione del principio di verità. È la pretesa di impunità spacciata per diritto alla privacy. Non è un teorema giornalistico. Sono i nudi fatti di questi ultimi cinque anni. Ogni volta che Berlusconi ha forzato la mano alla sua maggioranza e al Parlamento, per chiedere il giro di vite sugli ascolti telefonici, non lo ha fatto per tutelare "milioni di cittadini inermi".

Ma per impedire che, attraverso l'esercizio di un diritto all'informazione tutelato dalla Costituzione, i mass media portassero alla luce del sole vicende oscure che riguardano i suoi vizi privati, i suoi affari personali, i suoi conflitti di interesse. E che per questo svelano la natura torbida del suo potere e il "metodo" improprio con cui lo amministra. Questa è la vera posta in gioco della legge-bavaglio.

IL PROLOGO: COME FREGARE IL COMPAGNO FASSINO
La Grande Guerra per difendersi dalle intercettazioni il Cavaliere comincia a combatterla facendone a sua volta un abuso, largo e disinvolto, contro i nemici. È lui a innescare lo scandalo Bnl-Unipol che all'inizio del 2007 spinge il governo Prodi a varare il ddl Mastella. La famosa conversazione tra Fassino e Consorte del 17 luglio 2005 ("Abbiamo una banca?") è l'arma-fine-di-mondo che Berlusconi brandisce nella campagna elettorale del 2006.

Quell'intercettazione è illegale, la pubblica il Giornale il 31 dicembre 2005. Non è agli atti dell'inchiesta. È solo un file audio custodito dalla GdF. Ma l'ad della Research Control System Roberto Raffaelli, il 24 dicembre, va ad Arcore e la offre in dono natalizio a Berlusconi che (come scriverà poi il gip Stefania Donadeo nell'ordinanza) lo ringrazia "del regalo fattogli, assicurandogli gratitudine eterna". Questo è dunque l'uso in "privato" che il Cavaliere fa del Grande Fratello telefonico, quando gli conviene.

INIZIA LA GUERRA: COME COPRIRE LO SCANDALO RAI-SACCÀ
La prima emergenza che spinge Berlusconi a invocare il bavaglio nasce alla fine del 2007. Il Cavaliere, falso "garantista" anche all'opposizione, sostiene il ddl Mastella, approvato alla Camera il 17 aprile all'unanimità. "È una questione di principio - dice - siamo contro lo Stato di polizia".

Una posizione sorprendente, e solo in apparenza coerente. Per il Cavaliere cominciano a profilarsi grane grosse. La prima scoppia a giugno. Sui giornali esce l'intercettazione di Stefano Ricucci, che dice al telefono di aver ricevuto "un via libera da Berlusconi" per la scalata a Rcs.

La seconda grana scoppia a luglio: il 4 il Csm accusa il Sismi di Niccolò Pollari di aver spiato illegalmente più di 200 magistrati. Pollari è uomo di fiducia di Gianni Letta per l'intera legislatura berlusconiana 2001-2006.

Ma la grana più seria esplode prima di Natale. Repubblica, il 21 dicembre, da conto dell'inchiesta della Procura di Napoli, che indaga Berlusconi per corruzione: ci sono intercettazioni in cui parla con il dg Rai Agostino Saccà per far assumere due ragazze in una fiction.

È il finimondo. La Rai apre un'inchiesta interna. Berlusconi la butta in politica: "Gli sciacalli sono in azione, vogliono far saltare il dialogo sulle riforme", dice all'Ansa il 22 novembre.

Ma il 20 dicembre, quando l'Espresso pubblica un'altra intercettazione con Saccà in cui si parla di posti Rai da assegnare a Elena Russo, Antonella Troise ed Evelina Manna, il Cavaliere sbotta: "Lo sanno tutti che in Rai si lavora solo se ti prostituisci o se sei di sinistra".

Il caso Saccà si concluderà con l'archiviazione 6, il 17 aprile del 2009. Ma all'inizio del 2008, alla vigilia del voto anticipato, il Cavaliere ancora non lo sa. Per questo ha già deciso: il giro di vite alle intercettazioni sarà nel suo programma di governo.

L'OFFENSIVA: VIA ALLA STRETTA SUGLI ASCOLTI TELEFONICI
Il 18 gennaio 2008 la Procura di Napoli chiede il rinvio a giudizio del Cavaliere per le raccomandazioni in Rai. Lui è sempre più preoccupato. Dopo il trionfo elettorale del 13 aprile, da neo-premier, rompe gli indugi. Il 7 giugno, a Capri, annuncia ai giovani di Confindustria: "Daremo una stretta sulle intercettazioni, che saranno possibili solo per la criminalità organizzata e il terrorismo".

Detto fatto: il 13 giugno, il Consiglio dei ministri vara il suo ddl: le intercettazioni saranno vietate per le indagini su reati con pena inferiore ai 10 anni, e sarà vietata la pubblicazione degli atti dell'indagine fino alla conclusione dell'udienza preliminare.

Il 27 giugno il governo vara il primo Lodo Alfano sull'immunità per le alte cariche. Il premier esulta, ma vuole di più. Il ddl sulle intercettazioni sia trasformato in decreto, chiede a Ghedini e Alfano riconvocati a Palazzo Grazioli ai primi di luglio. I suoi luogotententi lo sconsigliano: meglio puntare sul Lodo e sul ripristino dell'immunità parlamentare.

Il Cavaliere si adegua, ma dissente. Il 2 agosto, alla buvette di Montecitorio, saluta i deputati prima delle ferie: "Spero proprio che il Parlamento approvi una legge che autorizzi le intercettazioni solo per reati di mafia e terrorismo". Ma ha bisogno di una sponda dall'opposizione.

Il 29 agosto sul suo Panorama escono a sorpresa le intercettazioni telefoniche 8 su un giro di appalti Italtel, che chiamano in causa Prodi. Il premier rilancia il solito "garantismo a la carte": "Solidarietà a Prodi, questa vicenda dimostra che una legge sulle intercettazioni è necessaria e urgente". Lo ripete ai suoi per due mesi. Perché questa ossessione? La risposta è negli scandali che stanno per deflagrare.

LA GUERRA TOTALE: COME FERMARE I PM DI BARI SULLE ESCORT
Berlusconi saluta il 2009 con un fuoco d'artificio. Il 25 gennaio spara: "Sta per scoppiare il più grande scandalo della Repubblica". È l'affare Gioacchino Genchi, vicequestore di Polizia che ha effettuato indagini per conto di De Magistris nell'inchiesta "Why not" e "Poseidon". Il Copasir smaschera la "bufala". Il sistema Genchi ha molte zone d'ombra, ma non contiene intercettazioni, solo analisi di tabulati telefonici. Dunque, perché la sparata del premier? L'obiettivo è evidente: creare un clima di indignazione generale, propedeutico alla legge-bavaglio.

Il 29 gennaio la maggioranza introduce le prime modifiche restrittive al ddl intercettazioni: sono consentite solo per "gravi indizi di reato". Il 17 febbraio il Csm esprime parere negativo. Il premier non si ferma: vuole che la legge passi a tutti i costi. Nel frattempo, il 29 aprile, su Repubblica irrompe lo scandalo Noemi Letizia 9. Berlusconi reagisce e ruggisce, come un leone ferito. E l'11 giugno, in un clima di bagarre, la Camera approva definitivamente il ddl intercettazioni a colpi di fiducia, con 318 sì e 224 no. Alfano brinda: "Ora ci aspettiamo una rapida lettura da parte del Senato".

Ma il Cavaliere, in quei giorni, è nervoso. È convinto che il peggio debba ancora venire. Massimo D'Alema il 14 giugno va in tv, a In mezz'ora, e afferma: "C'è da aspettarsi che la maggioranza sia presto attraversata da nuove scosse".

E le "scosse", puntuali, arrivano. Tre giorni dopo scoppia lo scandalo delle escort alla Procura di Bari. Si parla di intercettazioni su ragazze pagate per partecipare alle "serate eleganti" di Palazzo Grazioli e di Villa Certosa. Il Cavaliere perde le staffe: "È la solita spazzatura con la quale cercano di disarcionarmi". Ma Patrizia D'Addario conferma tutto in un'intervista. E il 20 luglio l'Espresso pubblica un audio sulle notti roventi tra la stessa D'Addario e il presidente. Le "dieci domande" di Repubblica fanno il giro del mondo.

LA GUERRA DI LOGORAMENTO: COME OSCURARE LO SCANDALO P3
Per questo l'uomo di Arcore torna alla carica sulla legge-bavaglio: incurante della manifestazione per la libertà di stampa, che il 3 ottobre porta a Roma 300 mila persone. Il Cavaliere la bolla così: "È una farsa assoluta, in Italia c'è più libertà di stampa che in qualunque altro Paese". Comincia una guerra di logoramento, nella sua maggioranza e nelle piazze.

La sua è una corsa disperata contro il tempo. Il 9 escono i primi verbali sull'inchiesta barese, dai quali si evince che Tarantini ha portato alle feste di Berlusconi almeno 30 ragazze, molte delle quali pagate dall'"utilizzatore finale".

Il 22 settembre si apre un'altra pagina nera: scoppia lo scandalo P3, che nelle carte della procura di Roma coinvolge Verdini, Dell'Utri, Carboni. Ancora un profluvio di intercettazioni, nelle quali tutti si spartiscono favori e lavori, condizionano giudici e appalti, e si dicono per 27 volte che per ogni decisione devono "riferire a Cesare", cioè al Cavaliere (l'inchiesta 13). È lo scandalo della nota "cricca", che il premier prova inutilmente a liquidare così: "Sono solo quattro sfigati in pensione". Ma lo scandalo c'è. E il ddl intercettazioni e impantanato al Senato.

COME DISINNESCARE LE MINE SU TRANI E SUL RUBY-GATE
Il 10 febbraio 2010 esplode un altro scandalo 15: gli appalti sui "Grandi eventi", con Guido Bertolaso indagato per corruzione dalla procura di Roma. Un'altra messe di intercettazioni, che squassano la Protezione Civile e la rete di imprenditori "amici", da Anemone a Balducci. I giornali riferiscono di conversazioni intercettate e di incontri segreti a Palazzo Chigi tra quest'ultimo, Berlusconi e Letta. Piovono smentite, ma il danno è fatto.

Il 12 marzo nuovo scandalo: la Procura di Trani indaga Berlusconi per abuso d'ufficio 16. Un'altra infornata di intercettazioni inchioda il premier, che fa pressioni sul membro dell'Agcom Giancarlo Innocenzi per "chiudere Annozero". È un terremoto. Alfano manda gli ispettori a Trani. Il Cavaliere, alla manifestazione del Pdl di Roma del 20 marzo, attacca dal palco "le intercettazioni da stato sovietico".

Ma le parole non bastano più. Il 6 aprile convoca Umberto Bossi ad Arcore, per ridefinire la strategia di combattimento sulla legge-bavaglio. Il Giornale riassume così il vertice: "Il premier vuole che il ddl sia legge dello Stato entro giugno".

A maggio, al Senato, la maggioranza tenta l'affondo. Il 19, in Commissione, passa la stangata contro gli editori che pubblicano le conversazioni telefoniche. Il 24 i direttori dei grandi giornali lanciano un appello al centrodestra. Le "colombe" del Pdl raccolgono: il 28 maggio la maggioranza al Senato ufficializza i suoi emendamenti, uno dei quali reintroduce la possibilità di pubblicare per riassunto gli atti giudiziari prima dell'udienza preliminare. Il 10 giugno Palazzo Madama approva il ddl, nel caos dell'emiciclo. Si torna alla Camera, per la terza lettura. Ma il presidente non è soddisfatto: "Il testo è stato snaturato dalle lobby dei magistrati e dei giornalisti".

Il Cavaliere teme che la legge finisca nelle secche parlamentari. Teme Napolitano, che il primo luglio dichiara: "I punti critici sulle intercettazioni sono chiari, valuterò il testo al momento della firma". Teme la fronda nel centrodestra e dei finiani. Per questo il 2 luglio, di ritorno dal G20, rilancia al Tg1 e Tg5: "Sono tornato con ottimi risultati, ora prenderò in mano la manovra e le intercettazioni". Conclude con il grottesco "ghe pensi mi". Ma il 20 luglio Alfano sigla un "lodo" con la presidente della commissione Giustizia Giulia Bongiorno: saranno pubblicabili almeno "gli atti rilevanti" delle inchieste. Il Cavaliere, ancora una volta, storce il naso: "Così resta tutto com'era", sbuffa il giorno stesso.

Dopo la chiusura estiva riparte come un panzer. Il 31 agosto convoca Ghedini e Alfano a Palazzo Grazioli: otto ore di vertice, per mettere a punto la road map autunnale su processo breve e intercettazioni. Berlusconi sa che sta per cadergli in testa un'altra tegola.

Il Ruby-gate 18 squassa il circo politico-mediatico il 27 ottobre, e tiene banco per quattro mesi filati e avvelenati. Nuovo scandalo sessuale, stavolta con una minorenne, nuove intercettazioni imbarazzanti, come la telefonata in Questura per chiedere la liberazione della "nipote di Mubarak". Il 2011 non promette nulla di buono.

L'ASSALTO FINALE: COME NASCONDERE LA P4 E L'AFFARE TARANTINI-LAVITOLA
L'ultimo anno, per il premier, è un calvario. Da gennaio a settembre, c'è traccia di almeno undici vertici in cui si parla di intercettazioni a Palazzo Grazioli, tra il premier, Ghedini, Alfano e i suoi "collaboratori". Tra questi, l'8 febbraio scorso, figura anche Augusta Iannini, moglie di Bruno Vespa e Capo Dipartimento alla Giustizia. Nessuno saprà mai a quale titolo. Ma c'è una guerra da combattere: e per il Cavaliere tutte le armi sono buone. Lo ripete il 5 marzo, in un videomessaggio ai Promotori della Libertà: "La sinistra, vuole le intercettazioni a go-go... Vuole fare dell'Italia uno Stato di polizia, e noi glielo impediremo!".

Ai primi di giugno, scoppia lo scandalo P4. Anche qui, intercettazioni, che partono da Luigi Bisignani, travolgono Alfonso Papa, coinvolgono Letta e lambiscono Berlusconi. E la legge-bavaglio è ancora ferma al Senato. Tra il 20 luglio e la fine di agosto il premier convoca altri tre vertici a Palazzo Grazioli, per sollecitare la stretta. Ma, di nuovo, il tempo corre più veloce.

Il 28 luglio dice ai cronisti: "La legge sulle intercettazioni è stata massacrata da tutti gli interventi che ha subito: sono quasi tentato di ritirarla...". Negli stessi giorni l'Espresso pubblica l'intercettazione 20 in cui suggerisce al latitante Lavitola di "non tornare in Italia". Il primo settembre Tarantini viene arrestato, e nell'ordinanza del gip di Napoli escono le telefonate più scottanti: ragazze usate come "mazzette umane", ricatti e soldi versati per comprare silenzi, appalti "facilitati" in Finmeccanica.

Siamo alla cronaca di questi giorni: il premier è furente, e il 4 ottobre chiama Ghedini e Confalonieri a Palazzo Grazioli.
Il "Lodo" Ghedini-Bongiorno viene stracciato, si torna alla versione più dura della legge bavaglio. Quella che l'aula di Montecitorio dovrà approvare giovedì prossimo, pena la caduta del governo.

Perché quest'ultimo colpo di coda? Forse c'è ancora molto da scoprire, e dunque molto da nascondere, nelle carte delle procure. Centomila file sono tanti. Senza contare le parti "omissate", a quanto pare le più compromettenti, persino dal punto di vista della politica estera. Per questo Berlusconi, come dice la Bongiorno, ha "schioccato le dita" e ha fatto rimettere l'elmetto ai suoi soldati. Il 27 dicembre 2008 aveva giurato per le bancarelle di via dei Coronari: "Se vengono intercettate mie telefonate di un certo tipo, me ne vado in un altro Paese...". Era solo un'altra bugia. Ma serve a capire perché la Grande Guerra delle intercettazioni non è ancora finita.
 

(10 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/10/news/cinque_anni_scandali-22962539/?ref=HRER1-1 (potrai vedere la news completa di video)


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il dovere di dimettersi
Inserito da: Admin - Ottobre 12, 2011, 11:06:25 am
IL COMMENTO

Il dovere di dimettersi

di MASSIMO GIANNINI


LE ANIME candide, fuori dal Palazzo, potranno anche prendere per buona l'ultima menzogna spacciata a microfoni unificati da Berlusconi e Bossi. "È un problema tecnico risolvibile", hanno detto i due fantasmatici rais dell'ormai ex maggioranza forzaleghista. Ma la sorprendente sconfitta numerica subita alla Camera sull'assestamento al bilancio è una sconfitta politica devastante, e forse definitiva, per quel che rimane del centrodestra.

Intanto, non è affatto detto che sia risolvibile dal punto di vista tecnico. Un governo che va avanti come se nulla fosse, dopo aver incassato il no del Parlamento non su una legge qualsiasi, ma su un atto normativo di rilevanza costituzionale come il rendiconto di finanza pubblica, non si era mai visto. Ci sono solo un paio di precedenti, nella storia repubblicana, il più simile dei quali risale al governo Goria del 1988, che non a caso cadde subito dopo esser finito più volte in minoranza nel voto sulla Legge Finanziaria.

Ma è evidente a tutti, al di là della valenza tecnica e formale del caso, che quella che si è prodotta nell'assemblea di Montecitorio è una rottura politica e sostanziale. Probabilmente irreparabile, a dispetto della penose e consolatorie assicurazioni fornite dal Cavaliere e dal Senatur. C'è un momento, anche nell'anomalia assoluta del berlusconismo, nel quale le leggi della politica ritrovano una coerenza irriducibile. Nel quale le tensioni e i conflitti precipitano e convergono, tutti insieme, verso una conclusione inevitabile.
Questo è quel momento.

Si percepiva da mesi, ormai, il drammatico divorzio umano (prima ancora che politico) tra il presidente del Consiglio e il suo ministro del Tesoro, trasfigurato nell'odioso Ghino di Tacco di una coalizione affamata dai tagli lineari e assetata di denaro pubblico da spendere. Si vedeva da settimane, ormai, il lento ma inequivoco sfilacciamento di un Pdl ridotto a un ectoplasma, sotto la guida incerta e inconsistente di un Alfano che nasce come segretario del capo e non certo del partito, e che non può e non sa fronteggiare le correnti, coordinare le fazioni, dominare i cacicchi.

Si temeva da giorni, ormai, il fatidico "incidente di percorso", in Parlamento e fuori, che faceva tremare il "cerchio magico" del premier, disperato e assediato nel suo bunker. Palazzo Grazioli come il Palazzo d'Inverno. Alla Camera, a far mancare i voti che servivano, tra gli altri sono stati proprio Umberto Bossi, Giulio Tremonti e Claudio Scajola.

Tutto questo non può essere solo un caso. Non può essere un caso, se il vecchio Senatur ritarda l'ingresso in aula, confuso per la lesa maestà padana e stordito dall'inedita e inaudita vandea leghista che lo vede per la prima volta contestato dalla sua base. Non può essere un caso, se il superministro dell'Economia diserta un appuntamento in cui si discute e si vota un provvedimento-chiave di cui lui stesso è titolare. E non può essere un caso, se l'ex ministro dello Sviluppo si eclissa poche ore dopo un "pranzo tra amici", come lui stesso ha definito quello che ha da poco consumato insieme al Cavaliere. Forse non c'è complotto. Non ancora, almeno.

Ma nel disastrato esercito berlusconiano risuona forte e chiaro il "rompete le righe". Quello che succede è la dimostrazione pratica di ciò che era evidente già da più di un anno: un governo non sta in piedi, con la sola forza inerziale dell'aritmetica. Se non c'è la spinta della politica, con la quale far muovere la "macchina", un governo prima o poi cade. E questa spinta, ammesso che ci sia mai stata, manca palesemente. Almeno dal 14 dicembre 2010.

Si può senz'altro dire che Gianfranco Fini ha sbagliato i suoi calcoli. Che allora la spallata futurista non è riuscita. Che il Cavaliere ha resistito e oggi il presidente della Camera esprime un potenziale elettorale modesto, intorno al 3-4%. È tutto vero. Ma è altrettanto vero che da quel giorno, dalla scissione degli ex di An dal Pdl, la maggioranza è "clinicamente" morta.

Da allora nulla è stato più prodotto, nella residua ridotta verde-azzurra di B&B, Berlusconi & Bossi. Non una riforma strutturale, non una legge qualificante. La stessa maxi-manovra estiva nasce dalla "gestione commissariale" del Colle e di Via Nazionale (cioè dalle pressioni di Napolitano e Draghi) e non certo dall'azione materiale di Arcore o di Via XX Settembre.

Si è ironizzato a lungo, sulle "self-fulfilling prophecies" di quelli che annunciano da mesi e mesi la caduta imminente del re nudo, e sulle speculari doti di resistenza del medesimo. Ma alla fine, anche nel Paese di Berluscolandia, la realtà si impone sulla propaganda.

La realtà, oggi, dice che il presidente del Consiglio deve recarsi al Quirinale, e rassegnare le sue dimissioni: sarebbe impensabile derubricare quello che è accaduto come un banale inciampo procedurale, mentre è un vulnus politico di gravità eccezionale. La realtà, oggi, dice che non sono ammissibili trucchi da illusionista o bizantinismi da leguleio, tipo Consiglio dei ministri che riapprova l'aggiornamento al bilancio pubblico e lo fa rivotare dal Senato: sarebbe uno strappo inaccettabile alle regole e uno schiaffo intollerabile al Parlamento.

La realtà, oggi, dice che il presidente della Repubblica, se com'è giusto non interverrà proditoriamente per interrompere questa nefasta avventura di governo, com'è altrettanto giusto non interverrà artificiosamente per prolungarla. Berlusconi e Bossi, dopo quello che è accaduto, non esistono più. Sono "anime morte", come quelle di Gogol.
 

(12 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2011/10/12/news/il_dovere_di_dimettersi-23080763/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI LUPI PER AGNELLI IN PIAZZA DEGLI AFFARI
Inserito da: Admin - Ottobre 13, 2011, 04:35:45 pm
COPERTINA

LUPI PER AGNELLI IN PIAZZA DEGLI AFFARI

MASSIMO GIANNINI

Da qualche anno a questa parte, la famiglia Agnelli ha un rapporto difficile con il mercato finanziario. Il famigerato caso dell’equity swap del settembre 2005, che coinvolse Ifil e Exor e si concluse con una condanna amministrativa e un’assoluzione penale, fu a suo tempo un primo indizio. Ora se ne verifica un altro, che stavolta riguarda la Juventus, e che sta nuovamente sollecitando l’«attenzione critica» della Consob. Il gioiello calcistico della Real Casa, nonostante il bel rilancio in campionato e il grande successo del nuovo stadio, ha chiuso il bilancio al 31 giugno 2011 con una perdita record di 95,4 milioni. Nel frattempo, il patrimonio netto è diventato negativo per 4,9 milioni, soprattutto a causa della svalutazione da 5,3 milioni operata su Amauri, calciatore acquistato dal Palermo per 21,3 milioni e ora fuori rosa perché «non rientrante nel nuovo progetto tecnico».

Azzerato il patrimonio, in virtù di questa svalutazione, la Juve ha deciso di abbattere e ricostituire il capitale sociale, attraverso un’iniezione di denaro fresco fino a un massimo di 120 milioni di euro. Martedì 18 ottobre si riunirà l’Assemblea, per procedere alla copertura delle perdite e all’avvio dell’operazione di ricapitalizzazione. Exor ha già annunciato che sottoscriverà l’aumento per la quota di sua competenza (circa 72 milioni) ed eventualmente anche per la quota di 9 milioni di euro detenuta dal socio libico e «congelata» dopo il collasso del regime di Gheddafi. Il resto toccherà al mercato e ai piccoli azionisti che tuttavia, per tenersi le azioni Juventus, dovranno aprire il portafogli.

Con questa mossa, i dirigenti della «Bianconera» colgono due piccioni con una fava. Si sbarazzano dell’ingombrante partner libico, e soprattutto evitano di lanciare un’Opa. Il tutto, ovviamente, a scapito dei soci minori. E, forse, anche in prospettiva di un successivo «delisting». Sia chiaro: la Borsa italiana ci ha abituato a molto di peggio. Le società di calcio quotate ne hanno combinate di tutti i colori (basti pensare a quello che è accaduto ai titoli dell’As Roma durante la scandalosa trattativa per la vendita da parte dei Sensi). Ma quello individuato da Andrea Agnelli e dai vertici della società non è un buon esempio di «fair play» finanziario.

Che fine ha fatto lo «stile Juve»? Con queste tattiche si da un cattivo esempio al mercato. Per far risparmiare soldi alle maggioranze, si penalizzano i diritti delle minoranze. La Consob sta facendo «moral suasion» nei confronti della dirigenza. Ma finora senza risultati. Peccato. La nobile casata torinese tradisce comportamenti vagamente «predatori» che mal si conciliano con la sua tradizione. «Lupi per Agnelli»: ottimo al cinema, pessimo in Borsa.

m.giannini@repubblica.it

da - http://www.repubblica.it/supplementi/af/2011/10/10/copertina/001alabama.html


Titolo: MASSIMO GIANNINI Dalla lettera di Napolitano al premier all'ipotesi "terzo uomo"
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2011, 09:26:13 am
RETROSCENA

Bankitalia, quattro mesi di stallo Colle in pressing ma il governo non decide

Dalla lettera di Napolitano al premier all'ipotesi "terzo uomo".

Palazzo Chigi potrebbe accantonare i nomi di Saccomanni e Grilli per proporre  Bini Smaghi

di MASSIMO GIANNINI


C'È un'indecenza pubblica, che più di ogni altra fotografa la crisi politica e la totale paralisi del governo Berlusconi.

E che rende bugiarda la risposta fornita alla Camera dal presidente del Consiglio all'urgenza di "governabilità" sollecitata mercoledì scorso dal presidente della Repubblica. La nomina del successore di Mario Draghi alla guida della Banca d'Italia. Una "pratica" che ormai da quasi quattro mesi marcisce e rimbalza inutilmente, dal tavolo di Palazzo Grazioli a quello di Via XX Settembre. Senza che il premier sappia assumersi la responsabilità di una decisione.

"Signor presidente, lei ha ragione. So bene che la nomina è urgente. Ma l'impuntatura di Tremonti si sta trasformando in una vera e propria interdizione...". Venerdì pomeriggio, salito al Colle tre ore dopo aver incassato la "fiducia mutilata", il Cavaliere ha spiegato in questi termini lo "stallo" sulla scelta del prossimo governatore. Di fronte a lui, un costernato Giorgio Napolitano gli ha ribadito quello che va dicendo ormai da quasi quattro mesi: questa incertezza "nuoce alle istituzioni, alle persone e anche al Paese. La decisione spetta innanzitutto a lei. Rammenta la lettera che le ho scritto a giugno...". La sollecitazione del Capo dello Stato, al momento, non ha prodotto risultati. Il premier ha preso tempo, lumeggiando addirittura l'ipotesi di un interim all'attuale direttore generale dell'Istituto, che il presidente della Repubblica ha stroncato subito: nessun
interim. "Ne va della credibilità dell'Italia". Ma nonostante la "moral suasion" del Quirinale, l'incontro si è chiuso con un nuovo nulla di fatto.

Il tempo stringe. Dal prossimo 1 novembre Draghi traslocherà all'Eurotower di Francoforte. E la Banca d'Italia, la più importante istituzione repubblicana nel campo dell'economia, ancora non sa chi sarà il suo prossimo governatore. Le posizioni in campo sono ormai note. A Palazzo Koch la "tecnostruttura" sollecita una scelta "interna" che conservi l'autonomia dell'Istituto, e che dunque ruota naturalmente intorno al nome di Fabrizio Saccomanni, nato e cresciuto in Via Nazionale e dunque assoluto garante della sua indipendenza dalla politica. A Via XX Settembre, viceversa, il superministro dell'Economia si impunta sul suo candidato "esterno" Vittorio Grilli, l'attuale direttore generale del Tesoro, funzionale alla trasformazione della Banca d'Italia in quell'"organo ausiliario del governo" che lo stesso ministro auspica da tempo. Il tira e molla va avanti da giugno, in un turbine di voci e illazioni, veti e veleni. Il risultato è disastroso. La Banca d'Italia finisce, suo malgrado, nel tritacarne della politica di sottogoverno. La nomina del governatore diventa come la nomina del direttore generale della Rai. Via Nazionale viene ridotta come Viale Mazzini. Un banchiere centrale del calibro di Saccomanni è costretto ai ridicoli esami di "milanesità" imposti dalla follia populista di Bossi. Un civil servant del valore di Grilli è obbligato a difendersi dal sospetto di essere un "normalizzatore" marchiato a fuoco dalla politica.

L'indiscrezione di queste ultime ore è che, per uscire dallo "stallo" e dalla tenaglia di Draghi che preme per Saccomanni e di Tremonti che non molla su Grilli, il premier starebbe riprendendo in considerazione l'ipotesi del "terzo uomo". E il candidato sarebbe Lorenzo Bini Smaghi. Il membro italiano nel board della Bce è caduto in disgrazia, dopo aver rifiutato di dimettersi dal suo incarico all'indomani della nomina di Draghi all'Eurotower e aver creato un caso diplomatico con il presidente Sarkozy, che reclama quella poltrona per un francese. Venerdì scorso il Cavaliere ha convocato Bini Smaghi a Palazzo Grazioli. Chi gli ha parlato, riferisce che il "terzo uomo", ancora amareggiato per come le cancellerie e i media hanno raccontato prima dell'estate la sua "battaglia per l'indipendenza del banchiere centrale", continui a ribadire che la sua "non è una candidatura politica. Io non ho 'padrini', ho solo la mia storia e il mio curriculum, che dimostra tra l'altro che sono l'unico candidato dello stesso livello di Draghi".

Ma fonti autorevoli riferiscono che ora per il "terzo uomo" qualche spiraglio si potrebbe riaprire. Secondo un'esegesi filo-francese, se scegliesse lui per la Banca d'Italia Berlusconi (oltre a far finire in pareggio la partita tra Draghi e Tremonti) farebbe un favore a Sarkozy. Secondo un'esegesi anti-tedesca, se Berlusconi trasferisse Bini Smaghi a Via Nazionale, il nuovo governatore potrebbe arginare il ricostituito asse Merkel-Sarkozy nel consiglio direttivo della Bce, e al tempo stesso bilanciare il ruolo di Draghi, che soprattutto nella prima fase del suo mandato a Francoforte dovrà dimostrare di essere "più tedesco dei tedeschi". C'è chi dice che Bini Smaghi, nel suo colloquio riservato con Berlusconi, gli abbia esposto proprio queste diverse "opportunità". Ma sono ragionamenti di tipo puramente "tattico". Qui non si tratta di fare favori a una cancelleria o a una persona. Si tratta, viceversa, di fare una scelta che assicuri l'indipendenza, il prestigio e la continuità nella gestione della Banca. Per questo, anche l'ipotesi del "terzo uomo", presenta molte incognite. Non ultima, la possibilità che, se fosse nominato un esterno (compreso Bini Smaghi), il direttorio di Via Nazionale potrebbe persino rassegnare le dimissioni in blocco.

In ogni caso il premier ha preso nota. Ma ancora una volta non ha promesso né deciso nulla. Siamo al vuoto decisionale. Questo, soprattutto, inquieta Napolitano. Il presidente non è mai intervenuto e non interviene nella diatriba sui nomi. Di certo, ha a cuore l'autorevolezza e l'autonomia della Banca d'Italia. Di certo, non ha apprezzato il "danno d'immagine" causato all'Italia dalla "resistenza" di Bini Smaghi.
Il primo incontro tra il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio risale al 22 giugno. Alla vigilia della designazione ufficiale di Draghi alla Bce, che viene formalizzata due giorni dopo, Napolitano avverte il premier: ha cominciato a pensare alla successione in Banca d'Italia? Tocca a lui fare il primo passo. Berlusconi glissa: "Presidente, abbiamo ancora tanto tempo".

Deluso, il Capo dello Stato compie un primo passo istituzionale. Il 27 giugno scrive una lettera a Berlusconi (la stessa che gli ha ricordato nel colloquio di venerdì scorso): "Illustre signor presidente del Consiglio dei ministri, come Lei sa, l'articolo 19, comma 8 della legge 28 dicembre 2005, relativa a "Disposizioni per la tutela del risparmio", fissa una procedura ben precisa per la nomina del governatore della Banca d'Italia". La nomina, secondo la legge, "è disposta con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri e sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d'Italia". Napolitano ricorda a Berlusconi che la nomina del governatore è dunque "un atto complesso", ma che ruota intorno al "potere di proposta del presidente del Consiglio". Spetta a lui mettere in moto il meccanismo. Il presidente della Repubblica interviene "in concorso", con una decisione che deve avere "il più ampio consenso dei soggetti istituzionali indicati dalla legge". E quella decisione, auspica il Capo dello Stato, deve essere presa "in tempi brevi", per evitare polemiche e indiscrezioni.

Napolitano sa che il gioco al massacro può cominciare da un momento all'altro. E infatti il gioco al massacro comincia. Tremonti rivela a Repubblica che il governo ha già deciso: il nuovo governatore sarà Grilli. Scoppia il putiferio. L'opposizione insorge, qualche ministro già indignato per lo strapotere di Tremonti storce il naso, la Banca d'Italia e Draghi si allarmano. Il 30 giugno il Capo dello Stato è costretto a diramare un comunicato ufficiale, in cui invoca "un clima di discrezione e rispetto attorno ai nomi", condanna "forzature politiche e contrapposizioni personali". Ma quello del Quirinale, purtroppo, è inchiostro sprecato. Da quel momento in poi, il toto-nomine su Palazzo Koch impazza, e la politica come sempre dà il peggio di sé, spargendo tossine e veline intorno a Via Nazionale. Berlusconi non fa nulla per impedirlo. Sale al Colle altre quattro volte, durante l'estate. Il 18 luglio e il 27 luglio si parla di manovra e giustizia, ma il premier non dice una parola su Bankitalia. Il 28 luglio e il 2 agosto Napolitano riceve Draghi per fare il punto della situazione, e per discutere sulla crisi finanziaria. Il filo diretto tra Quirinale e Palazzo Koch produce il "commissariamento" del governo sulla manovra d'emergenza.

Il premier torna sul Colle l'11 agosto e il 14 settembre: parla della manovra d'emergenza, ma non dice una parola sulla successione a Draghi. Il 16 settembre, tuttavia, sembra profilarsi una svolta: Berlusconi riceve Saccomanni a Palazzo Grazioli. "Incontro lungo e molto cordiale", racconta il direttore generale di Via Nazionale. Sembra fatta. C'è un Consiglio Superiore della Banca già convocato per il 28 settembre: basta la lettera del premier, con la proposta del nome, e il gioco è fatto. Napolitano sembra sollevato. Mercoledì 21 settembre torna a ricevere Berlusconi al Colle, subito dopo il downgrading del debito italiano deciso da S&P. Stavolta è Napolitano che lo incalza: "Allora, ha deciso qualcosa sulla Banca d'Italia?". Va in scena una farsa pilatesca: il premier farfuglia: "Presidente, la scelta è difficile. Grilli lo conosco bene. Saccomanni l'ho incontrato cinque giorni fa: sono tutti e due così bravi...". Il Capo dello Stato è stupefatto. Torna a ripetere: "La scelta spetta a lei. Non si può più rinviare".

E invece si rimanda. Il 27 settembre il Cavaliere convoca Tremonti a Palazzo Grazioli. Un "duello" lungo due ore, dal quale Berlusconi esce sfinito. "Non c'è niente da fare. Giulio non si convince a dare via libera a Saccomanni. Per lui è diventata una questione di vita o di morte". Stretto in una morsa, il Cavaliere non sa che fare. Salvo ripetere, dopo l'ultimo consulto sul Colle di venerdì scorso, un'assurda formula dorotea: "Esistono persistenti difficoltà nella scelta". Il 24 ottobre è convocata una nuova seduta del Consiglio superiore di Palazzo Koch. È l'ultima occasione utile, per chiudere questa tragicommedia, dannosa per la Banca d'Italia e penosa per l'Italia.

m.giannini@repubblica.it

(17 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/economia/2011/10/17/news/bankitalia_paralisi-23345455/?ref=HREC1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Resta un'Armata Brancaleone
Inserito da: Admin - Ottobre 17, 2011, 09:28:10 am

Polis

Massimo GIANNINI

Resta un'Armata Brancaleone


Com'era prevedibile, è fallita anche questa caccia a "Ottobre rosso". Con la cinquantatreesima fiducia in tre anni e mezzo, il governo Berlusconi supera anche questa prova d'autunno, che per difficoltà e incertezza era quasi pari a quella alla prova d'inverno del 14 dicembre di un anno fa, quando i futuristi di Fini uscirono dalla maggioranza e tentarono inutilmente la spallata con una mozione di sfiducia. È quasi grottesco che, nelle stesse ore in cui un pur rabbioso Cavaliere festeggia lo scampato pericolo, il presidente della Repubblica inviti il governo a "non eccedere" con lo strumento delle fiducie, che producono una "inaccettabile compressione delle prerogative delle Camere". Come se quel clamoroso "eccesso" non si fosse già ampiamente prodotto, e quella "compressione" non fosse già palesemente avvenuta.

Ma recriminare è ormai inutile. Il Capo dello Stato ritiene che il "vulnus" della mancata approvazione del Rendiconto generale del bilancio pubblico sia sostanzialmente sanato dall'avvenuta "verifica parlamentare". La maggioranza di centrodestra, disperata e dissoluta, continua a perdere i pezzi. Ma continua ad avere i numeri per sopravvivere. Nel modo più avventuroso, rocambolesco e improduttivo possibile. Grazie alla stampella dei radicali, all'indecisione degli scajoliani, alla resistenza degli ex "responsabili". Ormai è peggio che un'Armata Brancaleone. È un manipolo di sbandati, irriducibili e mercenari, che va avanti per pura inerzia, per puro istinto di conservazione. Senza etica, senza politica. Ma con il conto in banca e gli appannaggi mensili, i benefit e le auto blu, lo scranno parlamentare e la ricca pensione da salvare. Questo, oggi, è il solo cemento della coalizione berlusconiana.

Altrove avrebbe fatto gridare allo scandalo non solo i cittadini, ma l'intero establishment. E avrebbe portato inevitabilmente il presidente del Consiglio a rassegnare le sue dimissioni. Non in Italia, dove il dissenso popolare non serve e lo sdegno istituzionale non basta. Per quanto posticcio, per quanto esecrabile, quel cemento resiste, ed è sufficiente per durare. Fino a quando? E soprattutto a quale prezzo? Questo, ancora una volta, è il cuore del problema. Napolitano ha agito con rigore e correttezza: non poteva essere lui a "disarcionare" il Cavaliere. Ma c'è da chiedersi se questo pur "doveroso passaggio" della fiducia abbia dissipato il dubbio cruciale che il Quirinale aveva puntualmente posto, tre giorni fa: esiste la "costante coesione necessaria" per affrontare l'asprezza di una crisi economico-finanziaria che non accenna a regredire, e per adempiere agli impegni sottoscritti con l'Europa? La risposta, chiara, è no. In questa anomala scheggia di centrodestra italiano non esiste alcuna "costante coesione", strategica e politica, ma solo un'inquietante adesione, opportunistica e totemica.

Non c'è interesse nazionale. Non c'è bene comune che tenga. C'è solo la tutela del privilegio, e dunque la difesa del Capo che la garantisce. Il resto è noia, come dimostra la pochezza del discorso del premier in aula. O è polemica, come dimostra lo scontro mortale tra i ministri sul fantomatico "decreto crescita", che non vedrà mai la luce. O se la vedrà, sarà l'ennesimo abbaglio. Come il primo "decreto scossa" varato il 2 febbraio, e il secondo "decreto sviluppo" varato il 5 maggio. Nello "spot" del premier, avrebbero dovuto far crescere il Pil "di almeno un punto e mezzo, forse due". Tocchiamo con mano, sulle nostre tasche, com'è andata a finire. L'Italia declina, stabilmente, verso crescita zero. "Il Cavaliere deve finalmente scendere da cavallo", titola il Financial Times 1, ricordando che "l'Italia deve salvare se stessa per salvare l'euro". Lui non è sceso. L'Italia non è salva. E l'euro è sempre più a rischio. Purtroppo, Silvio c'è.

(14 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2011/10/14/news/resta_un_armata_brancaleone-23240080/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Molise, dov'è la sinistra?
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2011, 10:13:07 am
Molise, dov'è la sinistra?

Massimo GIANNINI

Molise, Italia. A voler azzardare una lettura "nazionale" dell'esito di queste elezioni in una piccola e complicata regione del Centro-Sud, ci sarebbero diverse buone ragioni per far allarmare il centrosinistra. La vittoria di misura del candidato del centrodestra è un non-senso se messa in parallelo all'ineluttabile e speculare declino di Silvio Berlusconi. Michele Iorio, al suo terzo mandato, si afferma contro la logica: pluri-indagato, sponsorizzato dal Cavaliere, ha il coraggio di far sparire il nome del premier dal simbolo, e così incassa il sostegno dell'Udc che lo porta al traguardo. Questa specie di anomalo "Polo dei moderati", ricostituito dopo aver cancellato dalla sua offerta politica locale il suo leader nazionale ormai trasformato in un "black bloc", non serve a convincere, ma basta per vincere.

Il raffronto tra i risultati elettorali di oggi e quelli delle precedenti regionali del novembre 2006 sollecita qualche riflessione.
Il centrodestra può festeggiare lo scampato pericolo, ma senza crogiolarsi in un successo che non c'è. La coalizione che sostiene Iorio ottiene il 46,9%, pari a 89.142 voti. C'è un crollo verticale, quasi 10 punti, rispetto al 54,1% di dieci anni fa (pari a 112.152 voti).
E se la somma di Forza Italia e An nel 2006 dava un 28,8% di consensi, oggi il Pdl scivola al 17,05%. più di 11 punti in meno. Il confronto è ancora più impietoso con il dato delle politiche del 2008, dove in Molise (alla Camera) il Pdl incassò il 36,5%, pari a 71.994 voti.
È un tracollo evidente. Più di un campanello d'allarme per Berlusconi, e anche per Alfano alle prese con un'improbabile e non credibile rilancio del partito "sul territorio".

Ma se il centrodestra deve ragionare sulla sua incapacità di mantenere il consenso, il centrosinistra deve riflettere sulla sua incapacità di intercettare il dissenso. L'insieme delle opposizioni, dalle urne di due giorni fa, ottiene il 46,15%, pari a 87.637 voti.
Cresce di appena un punto percentuale, sia rispetto alle regionali 2006 (45,9%), sia rispetto alle politiche 2008 (45,6%).
Ma in questa metà campo, il dato peggiore riguarda il Partito democratico. Ha ottenuto il 9,3% (pari a 17.735 voti).
Male rispetto alle politiche (17,9%). Malissimo rispetto alle precedenti regionali, quando la somma Ds-Margherita ottenne il 23,3% dei voti. La stessa flessione (rispetto alle politiche) la registra l'Italia dei Valori, mentre l'Api di Rutelli si accontenta di un 5,9% e l'arcipelago della sinistra radicale resta più o meno sulle stesse posizioni di cinque anni fa.

L'opposizione può recriminare a lungo (e a ragione) sul "sabotaggio" indotto dalla presenza dei Grillini, visto che il Movimento Cinque Stelle ha sottratto al centrosinistra 5,6 punti percentuali, impedendo così la vittoria di Paolo Frattura. Ma questa spiegazione, pur comprensibile, suona riduttiva e autoconsolatoria. C'è un dato politico generale, che si coglie anche dalla "sindrome molisana", con il quale la sinistra riformista deve fare i conti: la sua offerta politica non è sufficiente né a convincere gli arrabbiati di sinistra a votare Pd, né i delusi di destra a spostarsi da un polo all'altro. Il governo Berlusconi è una calamità devastante. Ma l'armata anti-berlusconiana non pare un'alternativa convincente.

(18 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2011/10/18/news/molise_allarme-23430194/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il libro dei sogni
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2011, 05:38:14 pm
L'EDITORIALE

Il libro dei sogni

di MASSIMO GIANNINI


IL "LIBRO DEI SOGNI" di un premier che non fa più sognare. Il manifesto di politica economica di un governo che non può più governare. Il piano anti-crisi, illustrato da Berlusconi alla Ue, dissolve i sorrisi ironici di Sarkozy e della Merkel. Ma non risolve i problemi drammatici del Paese. Né sul fronte interno, né sul fronte internazionale. L'Europa chiede decreti legge. L'Italia offre pezzi di carta. L'Europa invoca misure concrete. L'Italia evoca promesse future. Con la sceneggiata di Bruxelles, il Cavaliere compra un po' di tempo. Ma il tempo, ormai, lavora contro di lui.

La lettera inviata ai partner europei sembra l'ultimo atto di un governo morente. Per tre anni e mezzo ha dissipato e tirato a campare, nell'inedia e nell'accidia. E ora, nel suo crepuscolo dannunziano, tenta il "gesto inimitabile", la "bella morte". In quelle undici cartelle c'è infatti un compendio di intenzioni magnifiche e di provocazioni ideologiche.

C'è l'elenco minuzioso delle solite "cose fatte" (e puntualmente inattuate, dalla pseudo-riforma Gelmini alla pseudo-riforma Brunetta) e la lista puntigliosa delle cose da fare (e colpevolmente mai realizzate, dalla riforma delle professioni alle privatizzazioni). Ma non c'è l'intervento che più di ogni altro avrebbe fatto recuperare credibilità al governo italiano, cioè un aggiustamento convincente sulle pensioni d'anzianità, magari con il passaggio al sistema contributivo per tutti. Sulla previdenza, viceversa, non c'è nulla, se non la "truffa" del "requisito anagrafico... pari ad almeno 67 anni per uomini e donne nel 2026". Un risultato già previsto dalla legislazione vigente, ed anzi addirittura lievemente peggiorativo rispetto alle stime.

Le intenzioni magnifiche sono quelle più neutre per il consenso politico: il risanamento dei conti, il pareggio di bilancio nel 2013, la ricostituzione di "un avanzo primario consistente", la creazione delle "condizioni strutturali favorevoli alla crescita".

Peccato che questi obiettivi, alla luce di quanto è accaduto dal 13 aprile del 2008 in poi, non sono più credibili. Non è credibile l'obiettivo di un abbattimento del debito pubblico al 112,6% del Pil nel 2014, dopo che in questi tre anni e mezzo il governo lo ha fatto crescere dal 113,7 al 120%. Non è credibile un avanzo primario al 5,7%, dopo che in questi tre anni e mezzo il governo lo ha polverizzato dal 3,8 allo 0,2%. Non è credibile, soprattutto, l'ennesimo "piano d'azione per la crescita", promesso alla Ue "entro il 15 novembre", dopo che Tremonti aveva annunciato il "tagliando alla crescita" il 7 settembre, varato il primo "decreto-scossa" il 2 febbraio e il secondo "decreto sviluppo" il 5 maggio. Fiumi di parole, finti incentivi alle imprese, crediti d'imposta fasulli, semplificazioni di facciata, Piani Sud e Piani Casa venduti e rivenduti.

Le provocazioni ideologiche sono quelle più "abrasive" per il consenso sociale. La lettera ipotizza "entro il maggio 2012" una minacciosa "riforma" imperniata su "una nuova regolazione dei licenziamenti per motivi economici nei contratti di lavoro a tempo indeterminato". Dopo la sostanziale sconfitta subito sull'articolo 8 della manovra d'agosto (neutralizzata dal successivo accordo bilaterale tra le patti sociali) il governo cerca una rivincita, riproponendo una norma che aggira i limiti ai licenziamenti fissati dall'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Non solo. La lettera azzarda anche "la mobilità obbligatoria del personale" e "la messa a disposizione con conseguente riduzione salariale del personale".

Qui c'è il vero paradosso di questo declino berlusconiano. Flessibilizzare il mercato del lavoro, rendendo più facili i licenziamenti nel settore privato e introducendo la mobilità e la Cassa integrazione nel settore pubblico, è oggi un impegno quasi proibitivo per qualunque governo. Lo si può fare sull'onda delle pressioni del Direttorio franco-tedesco, che chiede sacrifici ai Paesi più deboli dell'Eurozona ma che può comunque contare su un suo solido sistema di Welfare e di assistenza per chi il lavoro lo perde o non lo trova. Lo si può fare sull'onda delle sollecitazioni della Bce, che nella famosa missiva del 5 agosto al governo italiano chiedeva esattamente questo, salvo sollecitare anche la contestuale introduzione di "un sistema di assicurazione della disoccupazione e un insieme di politiche attive per il mercato del lavoro che siano in grado di facilitare la riallocazione delle risorse verso le aziende e i settori più competitivi".

Ora il governo italiano si dichiara pronto a raccogliere questi inviti. Ma solo nella parte più distruttiva (la libertà di licenziare per le imprese) e non in quella più costruttiva (il diritto a veri sussidi di disoccupazione per i lavoratori). È una scelta irresponsabile: non può non suscitare la dura e immediata reazione dei sindacati e delle opposizioni. Ma è soprattutto una scelta insensata: un governo che non ha più una base politica e che ormai sta perdendo anche quella parlamentare, può mettersi contro l'intero schieramento dei corpi intermedi della società italiana, dalla Confindustria ai sindacati alla Chiesa cattolica?

Molte delle misure annunciate nella lettera di Berlusconi sono inique e sbagliate. Molte altre sarebbero opportune e necessarie. Come avverte il Capo dello Stato, "servono decisioni urgenti e anche impopolari". Il vero problema è che il rito si celebra fuori tempo massimo. Un programma come quello spiegato dal Cavaliere ai capi di Stato e di governo di Eurolandia avrebbe avuto un senso il 14 aprile 2008, il giorno dopo il trionfo elettorale che consegnò a Berlusconi la più larga maggioranza della storia repubblicana.

Un progetto tosto, da vera destra thatcheriana, pronta a reggere l'urto delle piazze perché cementata da un impianto politico-culturale compiuto e condiviso. Lanciarlo oggi - con una coalizione devastata dagli scandali di Berlusconi, logorata dagli sbadigli di Bossi e azzoppata dalla delegittimazione di Tremonti - è una mossa disperata e velleitaria. Sembra solo un modo per cadere sul campo, fingendo di combattere oggi la "buona battaglia" che non si è avuto la forza e la voglia di combattere tre anni e mezzo fa.

Quale Consiglio dei ministri tradurrà in decreti tutti gli impegni scritti sulla lettera? Quale Parlamento li tradurrà in legge? Mentre il Cavaliere declamava il suo piano anti-crisi al direttorio europeo che l'ha ormai "commissariato", alla Camera la sua maggioranza si liquefaceva per la novantaquattresima volta dall'inizio della legislatura, su due provvedimenti minori. Mentre il Cavaliere tediava l'uditorio di Bruxelles riparlando di bunga bunga e toghe rosse, il rendimento dei Bot all'ultima asta cresceva oltre la soglia di guardia. È la prova più tangibile, ma anche la più amara, della strage delle illusioni berlusconiane.
 

(27 ottobre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI Bini Smaghi in trincea "Solo la Bce può decidere"
Inserito da: Admin - Ottobre 29, 2011, 06:27:23 pm
Il retroscena

Bini Smaghi in trincea "Solo la Bce può decidere"

Tre punti del parere Bce danno ragiona a Bini Smaghi. "Devono avvenire in momenti diversi dalle nomine, non devono ledere reputazione e credibilità della Bce e devono 'libera volontà'"

di MASSIMO GIANNINI


DALLA COMMEDIA di Palazzo Koch alla farsa dell'Eurotower. Dopo aver gestito in modo penoso il "dossier" della Banca d'Italia, il governo sta gestendo anche peggio la "pratica" della Banca Centrale Europea. "Lorenzo Bini Smaghi si deve dimettere", ripete pubblicamente e ossessivamente Berlusconi, davanti agli allibiti partner europei e agli addomesticati microfoni di Canale 5. Il presidente del Consiglio non fa mistero della sua frustrata indignazione, per un caso che mette ancora una volta in cattiva luce l'Italia e inasprisce i già compromessi rapporti con la Francia. Ne parla a tutti. Meno che al diretto interessato. Bini Smaghi, infatti, per ora va dritto per la sua strada. "Non mi ha chiamato nessuno, non ho parlato con nessuno. Dunque, non ci sono novità".

E invece almeno una novità c'è. È importante, perché rappresenta plasticamente l'anomalia del caso italiano. Ma non è risolutiva, perché alla soluzione del rebus manca ancora il contributo chiave del premier. La novità è la solita: di fronte alla conclamata latitanza del capo del governo (impegnato a raccontare barzellette agli stati generali del Commercio estero) e alla spazientita iattanza del portavoce di Sarkozy (convinto che una soluzione vada trovata "entro domani") è toccato ancora una volta al presidente della Repubblica farsi carico, suo malgrado, del problema. Giorgio Napolitano ha ricevuto Bini Smaghi al Quirinale. Quasi un'ora di colloquio. Con la consegna di un rigoroso
e rispettoso silenzio sui contenuti. Ma con la consapevolezza che il nodo è tutt'altro che sciolto. È anzi più ingarbugliato che mai, e ci vorrà tempo per venirne a capo.

Ma non è difficile capire quale sia l'orientamento del membro italiano nel board della Bce, e quale sia il ragionamento del Capo dello Stato. Dopo un'ultima riunione a Francoforte in mattinata, di rientro verso Roma per l'incontro sul Colle Bini Smaghi continua a ripetere quello che va dicendo ormai da quattro mesi. "Qualunque decisione io prenda, dovrà essere definita e concordata a livello di Banca centrale europea". Come dire: non prendo ordini dalla politica, nazionale o internazionale. E se devo dimettermi dal consiglio dell'Eurotower, questa deve essere una scelta autonoma, che matura in quella sede e in nessun'altra. Dunque, a poco servono le urla alla luna del Cavaliere, o le grida stizzite dell'Eliseo.

Bini Smaghi, sul piano politico, è in una posizione insostenibile. Già dal giugno scorso, quando Mario Draghi è stato designato ufficialmente alla guida della Bce al posto di Jean Claude Trichet, il membro italiano ha rifiutato ostinatamente di liberare il suo posto, come esige l'Eliseo. Due italiani e nessun francese, nel Consiglio direttivo della più importante istituzione europea: impensabile, a Parigi e non solo lì. Berlusconi, da allora, non è stato in grado di districare la matassa, intrecciandola addirittura a quella della nomina del nuovo governatore di Bankitalia.

Il gelo con Sarkozy è nato da quella prolungata, estenuante inettitudine del premier. I tentativi di trovare una soluzione sono stati vaghi e vani: Berlusconi, per convincerlo a lasciare libera la poltrona a Francoforte, gli ha proposto la presidenza dell'Autorità Antitrust, e continua tuttora a ventilargliela per vie traverse. Ma Bini Smaghi ha rifiutato e continua a rifiutare. "Da Statuto - ribadisce ormai da tempo, e lo ha fatto anche ieri nel faccia a faccia con Napolitano - posso lasciare solo per un incarico di pari livello: bisogna tener presente che nel Consiglio direttivo della Bce il mio voto vale quanto quello di Draghi...".

Un'impuntatura riprovevole. Una pretesa personale. Ma Bini Smaghi, sul piano giuridico, ha una freccia al suo arco. È il parere che la Direzione generale servizi giuridici della Bce ha inviato al board dell'Eurotower il 24 maggio scorso. In quel testo c'è scritto chiaro e tondo che un membro del board non può disporre come vuole del suo incarico, e meno che mai possono disporne i governi, pena "la reputazione e la credibilità della Bce". "Qualunque gesto di dimissione deve essere compatibile con il principio di indipendenza personale... Dimissioni di fatto imposte con l'obiettivo di evitare che due membri del Comitato esecutivo abbiano la stessa nazionalità sarebbero incompatibili con quel principio".
Dunque, secondo questo parere, Bini Smaghi avrebbe una sorta di diritto-dovere a resistere alla "moral suasion" di Roma e di Parigi. Non solo. Avrebbe lo stesso diritto-dovere di resistere anche alle offerte di altri incarichi. "L'incompatibilità con il principio di indipendenza - recita il testo della Banca - emergerebbe se la nuova posizione esterna non fosse commisurata allo status di membro del Comitato esecutivo e del Consiglio direttivo della Bce, rendendo evidente l'esistenza di pressioni esterne". Non varrebbe, secondo questa tesi, neanche il "fatto nuovo" dell'ingresso di un altro italiano (Draghi) al vertice degli organismi direttivi dell'Eurotower. Non può essere quello l'elemento che induce un altro membro a rassegnare contestualmente le sue dimissioni. Queste ultime "non possono coincidere nel tempo, né possono essere legate apertamente con la nomina di un altro membro del Comitato esecutivo, ma devono essere gestite con procedure e in momenti totalmente separati".

Questa, sotto il profilo "tecnico", è la linea Maginot di Bini Smaghi. L'ha riconfermata anche al presidente della Repubblica, ricordando tra l'altro (e non a caso) il precedente del francese Christian Noyer, che dal giugno 2002, prima di passare alla guida della Banca di Francia, restò nel board della Bce insieme al presidente Trichet (francese a sua volta) per un anno e mezzo. Anche per questo, oggi, servirà tempo prima di arrivare alle eventuali dimissioni del membro italiano.

Di fronte a questi argomenti, il ragionamento di Napolitano è quello che ha già svolto in diverse conversazioni riservate, dedicate proprio ai casi incrociati della Banca d'Italia e della Bce. L'autonomia di queste istituzioni è sacra. Ma il dovere di un vero "grand commis" è sempre e comunque quello di servire il suo Paese, tutelandone l'interesse nazionale. È evidente, allora, che Bini Smaghi presto o tardi dovrà lasciare il suo incarico. Comunque prima della scadenza naturale, fissata al maggio 2013. Ma è altrettanto evidente che, per raggiungere questo obiettivo, si dovrà ricostruire la tela strappata dei rapporti personali, delle procedure istituzionali e delle relazioni internazionali.

A farlo dovrà essere il presidente del Consiglio. Tocca a Berlusconi parlare con Bini Smaghi, cercando una via d'uscita dal vicolo cieco politico e giuridico nel quale tutto si è bloccato. Tocca a Berlusconi riflettere insieme a Draghi, individuando una exit strategy che non pregiudichi l'indipendenza della Bce. Tocca a Berlusconi, infine, ricucire il dialogo con Sarkozy, tentando un compromesso sui tempi e una possibile collocazione del membro italiano in un eventuale, altro organismo sovra-nazionale di pari livello (dalla Bei alla Bers, per esempio). Napolitano fa la sua parte. Da il suo contributo, nei limiti che la Costituzione gli assegna. Ma è irritato per questa assurda "supplenza". Non vuole più togliere le castagne dal fuoco a un governo che non governa, e a un premier che ormai agisce costantemente "sotto tutela". Un premier "a responsabilità limitata".

(29 ottobre 2011) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Il voto politico dei mercati
Inserito da: Admin - Novembre 07, 2011, 05:30:16 pm
Polis

Il voto politico dei mercati

Massimo GIANNINI

In attesa che la formalizzi il Parlamento, la mozione di sfiducia al governo Berlusconi è stata votata dai mercati. Com'era largamente prevedibile, la settimana finanziaria comincia nel peggiore dei modi per l'Italia, colpita al cuore dalla crisi di credibilità che affonda i Btp e la Borsa. Lo spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi misura la drammaticità del momento. Sfondata la soglia aritmetica e psicologica dei 400 punti, il differenziale viaggia senza freni verso quota 500 e oltre. Livelli impensabili, almeno dai tempi dell'ingresso nell'euro. Siamo su un crinale che ci riporta al 1992, alla bancarotta del Paese, all'iper-svalutazione della liretta, poi alla cacciata dallo Sme e alla maxi-manovra di Giuliano Amato, con tanto di scippo notturno sui depositi bancari. I numeri lo confermano, oltre che le valutazioni degli analisti finanziari (uno per tutti, Jim Reid, "strategist" della Deutsche Bank): sul mercato secondario è rimasta praticamente la sola Bce a comprare i Btp italiani. Se non ci fosse il "cordone sanitario" di Francoforte, intorno alla povera Italia, il default del nostro debito sovrano sarebbe forse inevitabile.

Tutti sanno la ragione di questa Caporetto. Silvio Berlusconi, pessima versione di un generale Cadorna senza truppe e senza armi, resiste nel bunker di Palazzo Grazioli, e trascina nel baratro non solo il suo governo, ma la sua nazione. E basta che il suo "cerchio magico" faccia filtrare l'ipotesi di dimissioni imminenti, per dare alla business community uno spunto per invertire la tendenza. Giuliano Ferrara annuncia che il Cavaliere potrebbe recarsi al Quirinale già questa sera: Piazza Affari azzera le perdite e comincia a guadagnare, il premio di rischio sui Btp italiani si riduce immediatamente. È un altro "voto politico" dei mercati: prima votano la sfiducia, quando il Cavaliere giura di voler restare a combattere, poi votano la fiducia, quando si profila la sua capitolazione e dunque si apre finalmente la prospettiva di una discontinuità di governo. È la prova plastica di quanto sia giusto il cosiddetto "teorema Roubini": la "liquidazione" di Berlusconi, di per sé, ha un valore di mercato positivo, stimabile in 100 punti di differenziale del costo del debito. È la "Papi Tax", che paghiamo per ogni giorno di permanenza del premier a Palazzo Chigi.

A dispetto di questi segnali chiarissimi che arrivano dal mondo, il Cavaliere si affretta a smentire le voci di dimissioni. Cos'altro deve succedere, perché il presidente del Consiglio prenda atto che la sua battaglia è perduta, e che la resistenza non distrugge solo lui e il suo partito, ma l'intero Paese? Quanti altri Maroni dovranno dire pubblicamente in televisione che "è finita ed è inutile accanirsi"? Quante altre Carlucci dovranno fare le valigie, e lasciare l'armata disperata del Popolo delle Libertà? Quello che colpisce, e indigna, è che mentre il "lunedì nero" si consuma sulle piazze finanziarie e nei Palazzi romani, il Cavaliere si ritira ad Arcore. Pranza con i suoi figli e con Fedele Confalonieri, l'amico chansonnier dei tempi belli. Forse deve sistemare i gioielli di famiglia, prima che tutto crolli. Come il generale nel suo labirinto di Marquez. Come il re in ascolto di Calvino. Si allontana dall'epicentro del sisma. Fugge da se stesso, dai suoi fantasmo, dalle sue responsabilità definitive. È una "fuga per la sconfitta", che purtroppo, nostro malgrado, ci travolge tutti.

(07 novembre 2011) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2011/11/07/news/prima_del_parlamento_votano_i_mercati-24584977/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Sulle orme di Atene
Inserito da: Admin - Novembre 09, 2011, 05:48:46 pm
IL COMMENTO

Sulle orme di Atene

di MASSIMO GIANNINI

Mentre a Roma si chiacchiera, l'Europa celebra la fine dell'Italia con un funerale di "rito greco". Tito Livio è abusato, ma rende plasticamente l'idea del disastro in pieno corso. Il corto circuito tra l'accidiosa trattativa di Palazzo intorno al maxi-emendamento alla legge di stabilità e la vorticosa deriva dei mercati intorno alla "carta italiana" dà la misura della nostra provinciale inadeguatezza. Prima di tutto a comprendere i fenomeni. E poi a prevenirli, a guidarli, a gestirli. Berlusconi consuma le sue ultime ore con la logica nota del "muoia Sansone". Le opposizioni chiedono un'accelerazione. Il Quirinale sonda, sollecita, media. Ma intanto la comunità finanziaria non aspetta. Lo spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi brucia tutte le soglie, aritmetiche e psicologiche. A quota 600 punti, siamo già abbondantemente in zona Grecia, Irlanda e Portogallo. Gli esecrati speculatori (così continua a chiamarli la Casta, presa dalla sindrome mussoliniana del planetario "complotto giudo-pluto-massonico") hanno emesso la loro sentenza, senza aspettare l'esito delle febbrili trattative capitoline. L'Italia non ce la fa, il vecchio governo fatica a morire, quello nuovo è difficile che nasca.

Ce n'è abbastanza per fuggire da tutto quello che, sulla piazza finanziaria, ricorda il tricolore. Titoli a lunga scadenza, ma adesso anche a breve. Non solo Btp a 5 e 10 anni, ma anche Bot trimestrali, semestrali, annuali. Le banche internazionali (dalla Rbs alla Ubs) dimezzano
il loro portafoglio di titoli italiani. Le grandi banche d'affari (da Goldman Sachs a Jp Morgan) vendono o non ricomprano i titoli del Belpaese. Sul mercato, da giorni, è attiva solo la Bce, che fa quel che può per evitare il collasso definitivo del Sistema. Ma ormai non basta più. Sulla "carta italiana" domanda e offerta non si incontrano praticamente più. Per questo, dopo il frenetico raid cominciato questa mattina, l'impennata dei differenziali (e dei relativi premi di rischio) si è fermata a metà giornata. Chi prova a vendere non trova compratori. È il segno che siamo vicini al punto di non ritorno. Tra gli operatori (da Barclays a Witan Investment Trust) si moltiplicano quelli che considerano addirittura inutile, a questo punto, il ricorso alle fatidiche "misure d'urgenza" invocate da mesi dalla Ue, dall'Fmi, dalla Bce. Ormai non serve più né un maxi-emendamento né un decreto legge. La crisi è già troppo avanti. Una crisi di liquidità, che sta per diventare una crisi di solvibilità. Ed è troppo tardi per rimettere il dentifricio nel tubetto.

Naturalmente speriamo che non sia vero. E che il cinico fatalismo del mercato lasci ancora qualche margine a un residuo ottimismo della politica. Ma la precondizione è che chi deve decidere capisca, una volta per tutte, che stiamo correndo un rischio mortale. Ripetere "non siamo come la Grecia" è un penoso esorcismo: serve a mettere l'anima in pace a qualche parvenu, incosciente e incompetente. Ma sta condannando Roma a seguire il destino di Atene.

m.giannini@repubblica.it
 
(09 novembre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI Il miracolo di mister spread
Inserito da: Admin - Novembre 17, 2011, 04:56:05 pm
COMMENTO

Il miracolo di mister spread

di MASSIMO GIANNINI

LA "DEMOCRAZIA dello spread", tra storture e paure, ha generato un piccolo miracolo. Quello che nasce dalle macerie del berlusconismo è un buon governo del Presidente. La sua qualità tecnica è da elogiare. La sua intensità politica è da dimostrare. Ma se l'Italia ha ancora una chance per salvarsi, quella si chiama Mario Monti.

La formula migliore, per definire il suo esecutivo, la conia lui stesso. "Un governo innovativo": così dice il presidente del Consiglio. Il nuovo governo che ha giurato ieri nelle mani del Capo dello Stato nasce effettivamente nel segno di una forte discontinuità. Per almeno tre motivi. Il primo motivo: un governo formato interamente da tecnici non ha precedenti nella storia repubblicana. Per trovare qualche analogia si deve risalire al governo Ciampi del '93 (quando il premier incaricato e non eletto, in piena tempesta di Tangentopoli, fu prelevato direttamente dalla Banca d'Italia) e al governo Dini del '95 (quando l'ex direttore generale di Via Nazionale ed ex ministro del Tesoro del primo governo Berlusconi fu chiamato a supplire al patente disarmo bilaterale dei due poli). Ma in quei casi si trattò di governi "misti": molti tecnici, ma anche diversi esponenti dei partiti.

Questa volta è diverso. Monti è stato costretto ad optare per un governo costruito interamente al di fuori del perimetro della politica. Una scelta imposta dal gioco dei veti incrociati tra Pdl e Pd, che alla fine
ha portato all'elisione congiunta delle candidature di Gianni Letta e di Giuliano Amato. Ma il nuovo premier ha fatto di questa necessità una virtù. Il profilo dei ministri che ha scelto è oggettivamente elevato, per autorevolezza e per competenza. E questo fa giustizia delle facili ironie di chi aveva parlato di un "governo del Preside", per irridere un team costituito da modesti professorini universitari e da grigi uomini d'apparato. Nella squadra di Monti ci sono sì professori, ma di eccellente livello: da Ornaghi a Profumo. Ci sono grand commis dello Stato, ma di sicuro valore: da Barca a Giarda.

Il secondo motivo è il rilievo che, nel nuovo governo, avrà l'economia. Il presidente del Consiglio, come previsto, tiene l'interim del Tesoro. Toccherà a lui il lavoro più duro: scrivere un'"agenda Monti" per il rientro dal debito pubblico. Ma al suo fianco, con un ruolo da superministro dello Sviluppo, che assomma anche le deleghe delle Infrastrutture e dei Trasporti, ci sarà Corrado Passera. All'ex banchiere di Intesa, in sostanza, spetterà l'altro compito speculare a quello del premier: mentre Monti si occuperà delle misure di risanamento dei conti, Passera si occuperà delle misure di sostegno alla crescita.

È una scelta che indica fin da ora la priorità e l'emergenza che il nuovo governo si prepara ad affrontare. E anche questo fa giustizia delle sguaiate polemiche sulle "congiure giudo-pluto-massoniche" del "direttorio franco-tedesco" e sul "governo dei banchieri". Una critica stupida, autarchica e provinciale, che alligna non solo in certe aree più radicali della sinistra, ma soprattutto in certe nicchie della destra sconfitta e sedicente "liberale". Come se Tremonti fosse stato meglio di Passera. Come se al Tesoro, nelle condizioni politiche attuali, potesse andare Nichi Vendola. Oppure, sul fronte opposto: come se fosse stato "liberale" il gigantesco conflitto di interessi di Berlusconi. O come se il tanto lodato Gianni Letta non fosse a sua volta advisor della "Spectre" della Goldman Sachs, esattamente come Monti.

Il terzo motivo è la presenza femminile. Tre donne sono poche, rispetto a diciassette incarichi ministeriali. Ma la Cancellieri, la Severino e la Fornero vanno ad occupare ministeri-chiave, come gli Interni, la Giustizia e il Welfare. Enrico Cuccia, ai tempi dei consigli di amministrazione dei Salotti Buoni, diceva che "i voti si pesano e non si contano". In questo caso si può dire la stessa cosa. Quei tre ministeri "pesano" infinitamente di più del loro valore numerico. Basti pensare al compito che aspetta la Fornero, esposta sul fronte cruciale della riforma delle pensioni, che la vedrà in campo probabilmente contrapposta a un'altra donna di peso, come il segretario della Cgil Susanna Camusso.

Il governo Monti, dunque, può prendere il largo. È un governo allo stesso tempo forte e fragile. È forte della sua autonomia e delle sue competenze. E questa è una garanzia al cospetto delle cancellerie europee (che hanno già dato al premier un riscontro più che positivo) e dei mercati finanziari (che speriamo gli concedano nelle prossime ore una tangibile "apertura di credito"). Ma è anche fragile, per ragioni uguali e contrarie. I partiti (ad eccezione della Lega) lo sorreggono dall'esterno ma non lo innervano dall'interno. Questo fa una qualche differenza, sul piano della piena e incondizionata corresponsabilità delle scelte necessarie, nei prossimi mesi, per uscire dalla crisi che, insieme all'Italia, rischia di portare alla bancarotta anche l'euro.

Il governo di "Mister Spread" può contare sul sigillo istituzionale di Giorgio Napolitano, il vero, straordinario regista di questo "miracolo" realizzato in due giorni e mezzo, dentro i principi del patto costituzionale e della democrazia parlamentare (a dispetto dei queruli urlatori del "golpe in guanti bianchi" e dell'"Italia declassata a democrazia minore"). Ma non può contare su una specifica maggioranza politica: deve appoggiarsi a una generica convergenza parlamentare. Questo ne rende più difficile il cammino. Il suo orizzonte, che si vuole giustamente di fine legislatura, è affidato alle larghe, ma instabili intese raggiunte dai partiti in questi giorni difficili. È appeso alla responsabilità del Pd, pronto a impiegare tutte le sue energie al servizio di una transizione che, ancora una volta, trascende o prescinde dalla sinistra. Alla fedeltà del Terzo Polo, che rinuncia provvisoriamente a lucrare rendite di posizione estranee alla logica bipolare. E infine all'affidabilità del Pdl, che dopo la caduta del suo Padre-padrone minaccia di sfasciarsi in mille pezzi, a conferma della natura proprietaria di un partito nato dalla pura giustapposizione degli interessi e cementato solo dal berlusconismo, almeno quanto i suoi avversari lo sono stati dall'anti-berlusconismo.

Questa volatilità politica (al pari di quella finanziaria) può complicare la vita del nuovo esecutivo. Ma dobbiamo sapere che a questa soluzione, qui ed ora, non c'è alternativa. Dobbiamo sapere che il governo del Professore non è neanche lontanamente paragonabile al governo del Cavaliere. E dobbiamo sapere che, se fallisse anche questo tentativo di traghettare il Paese fuori dalla tempesta, oltre al default politico ci toccherebbe anche quello economico. Resta un'incognita, insita nella natura e nella cultura del governo appena nato. Nonostante la qualità indiscutibile delle persone che lo compongono (o forse proprio in ragione di questa qualità), questo è un "governo delle élite". Rettori e banchieri, giuristi e avvocati, prefetti e professori. C'è da chiedersi se questo "corpo" selezionato della migliore élite nazionale saprà dare voce e rappresentanza anche alla "gente normale".

Obiettivamente (e fortunatamente) il governo Monti è l'esatto contrario del governo Berlusconi. Da tutti i punti di vista. Compreso questo: che il primo, a differenza del secondo, nasce senza popolo. La sfida di Monti, proiettata sulla primavera del 2013, sta tutta qui. Deve riempire di politica il vuoto che può aprirsi tra una nuova oligarchia tecnicista e la vecchia autocrazia populista. Deve conquistarsi, voto per voto, il sostegno parlamentare. Ma soprattutto deve costruirsi, legge per legge, il consenso popolare.

m.giannini@repubblica.it

(17 novembre 2011) © Riproduzione riservata
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Titolo: MASSIMO GIANNINI La crisi non aspetta
Inserito da: Admin - Novembre 24, 2011, 06:37:39 pm

IL COMMENTO

La crisi non aspetta

di MASSIMO GIANNINI


Dall'"uomo dei sogni" all'"uomo dei miracoli"? Nessuno si era illuso: il passaggio dal Venditore di Arcore al Professore della Bocconi non poteva bastare a risolvere i guai dell'Italia. Ma ora che la "dittatura dello spread" pesa sulla democrazia dei popoli, Monti non può esitare: serve una svolta immediata, per uscire da questa crisi.

La tempesta finanziaria è globale. Squassa l'Europa. Non più solo i paesi lassisti del Club Med: ormai persino la virtuosa Germania  paga dazio, come dimostra l'inaudito insuccesso dell'asta dei Bund disertata dagli investitori internazionali (e soprattutto asiatici) in fuga dai titoli dell'intera Eurozona. Ma l'Italia torna a pagare il prezzo più alto. Il differenziale sul Btp a due anni è salito a 700 punti, il più alto da quando esiste l'euro.

È un segnale chiarissimo: i mercati cominciano a dubitare non più solo della sostenibilità del debito a lungo periodo, ma anche di quello a breve. È anche un costo elevatissimo: stavolta il Tesoro dovrà pagare agli investitori un premio di rischio del 7,2% a scadenza biennale, e non decennale.

C'è una destra, provinciale e irresponsabile, che ora si frega le mani. Il manipolo degli "irriducibili" della ex maggioranza, Mibtel e spread alla mano, sostiene che il problema "non era Berlusconi". È l'ennesimo tentativo di mistificare la verità. L'"effetto Monti", sui mercati, c'è stato eccome.

Per
una settimana, dal giorno dell'incarico al nuovo premier domenica 13 novembre fino a domenica scorsa, i tassi di interesse sui nostri titoli di Stato sono scesi stabilmente da circa 570 a poco meno di 480 punti base rispetto ai titoli tedeschi.

Il solo cambio di governo, dunque, è stato salutato positivamente dalla business community. È la prova che il "teorema Roubini" non era affatto sbagliato: la semplice uscita di scena del Cavaliere comporta per l'Italia un risparmio secco di 100 punti base. La "Papi tax" è esistita, insomma. E noi l'abbiamo pagata.

Ma ora c'è un problema. Negli ultimi tre giorni si è insinuato il dubbio che il nuovo governo abbia scontato una partenza troppo lenta. Non solo rispetto alle attese dei mercati e dell'opinione pubblica, che erano e restano altissime. Ma anche rispetto alle urgenze dell'economia e della finanza, che erano e diventano sempre più drammatiche.

Il presidente del Consiglio, nel suo discorso alle Camere sulla fiducia, è stato impeccabile nella sua sobria fermezza, che è bastata a trasformare il pollaio di Montecitorio nell'emiciclo di Westminster: "L'Europa vive i giorni più difficili dal secondo dopoguerra... L'Italia vive una situazione di seria emergenza... dobbiamo evitare che qualcuno ci consideri l'anello debole dell'Europa... Il mio è un tentativo difficilissimo: ma se sapremo superare i problemi, avremo l'occasione per riscattare il Paese".

Da allora sono passati dieci giorni. Monti ha fatto al meglio tutto quello che doveva. Prima di tutto la formazione del governo, con una squadra di ministri scelti in un'élite tecnocratica di alta qualità. E poi la "missione fiducia" nel consesso internazionale: l'altro ieri l'Eurogruppo e l'incontro con Barroso e Van Rompuy, oggi il vertice trilaterale con Merkel e Sarkozy.

Una scelta felice, che in tre giorni ha miracolosamente riportato l'Italia nell'unico luogo fisico e politico nel quale deve stare e dal quale Berlusconi l'aveva inopinatamente sradicata: l'Europa dei costituenti, dei paesi fondatori e della moneta unica. I partner europei hanno apprezzato. Monti è stato accolto a Palazzo Justus Lipsius non come un "battutista" che racconta barzellette, ma come uno statista che torna a casa sua.

Ma i problemi italiani restano tutti, uguali se non più gravi di prima. Questo lo sa il governo di Bruxelles. Barroso premette: "Non ci aspettiamo miracoli", "il risanamento non è una corsa sprint, è una maratona". Ma poi avverte: "La situazione italiana rimane difficilissima", "il governo Monti ha di fronte a sé una responsabilità storica e una sfida immensa". Questo lo sa anche il governo di Roma.

Giustamente il premier, anche se ripropone il tema della rivalutazione del disavanzo in funzione del ciclo e degli investimenti, conferma l'obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013  Ma i giorni passano. E il dubbio è che ci sia uno scarto tra la comunicazione, giustamente allarmata, e l'azione, sorprendentemente misurata. Il primo Consiglio dei ministri "operativo", lunedì scorso, ha prodotto solo il via libera al decreto legislativo su Roma Capitale. Per quanto simbolico, un atto che non marchierà a fuoco questo pericoloso tornante della storia repubblicana.

L'Agenda Monti, così come il premier l'ha illustrata nel suo discorso programmatico, è già chiara nelle sue grandi linee. Dalla reintroduzione di un'Ici progressiva in base al reddito alla correzione delle pensioni d'anzianità. Dalla lotta all'evasione fiscale alla riduzione del prelievo su famiglie e imprese. Dalla razionalizzazione del mercato del lavoro alla riforma degli ammortizzatori sociali.

Le misure da varare sono sufficientemente note. Investono materie socialmente sensibili. Il premier, oltre all'imperativo della crescita, ha promesso rigore ed equità: stavolta "chi ha di più, dovrà dare di più". Sarà misurato anche sul rispetto di questa irrinunciabile promessa. È comprensibile che voglia calibrare gli interventi e comporli in un disegno organico, nel quale la somministrazione dei sacrifici sia accompagnata, per quanto possibile, dalla redistribuzione dei benefici.

La coesione politica impone prudenza. Il consenso sociale richiede pazienza. Ma anche per Monti il "fattore tempo" sta diventando cruciale. È il momento di accelerare, e di sfruttare la "luna di miele" che il nuovo governo sta ancora vivendo con il Paese. Il presidente del Consiglio ne è consapevole, come lo è il presidente della Repubblica. Anche questa volta, i tempi della transizione italiana rischiano di non coincidere con quelli della crisi internazionale.

Sta a Monti colmare, con la politica, anche questo deficit. Il Professore ha in tasca un doppio, prezioso "dividendo": la discontinuità e la credibilità. Non può sprecarlo. Prima ancora dei mercati, non glielo perdonerebbero gli italiani.

m.giannini@repubblica.it

(24 novembre 2011) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Il dovere dell'equità
Inserito da: Admin - Dicembre 03, 2011, 11:09:38 am
COMMENTO

Il dovere dell'equità

di MASSIMO GIANNINI

LA PAROLA-chiave della manovra che Monti presenterà lunedì agli italiani è una sola: equità. È questa l'unica "password", etica e politica, che potrà consentire al Parlamento, alle forze sociali e all'opinione pubblica di "accedere" a un programma di sacrifici inevitabili, ma altrimenti intollerabili.

Tutti parlano di equità. L'ha invocata il presidente della Repubblica il 13 novembre, quando ha conferito a Monti l'incarico di formare un nuovo governo, "su scelte urgenti di consolidamento della nostra situazione finanziaria e di miglioramento delle prospettive di crescita e di equità sociale". L'ha promessa il presidente del Consiglio nel discorso sulla fiducia il 14 novembre: "I sacrifici necessari dovranno essere equi". La chiede ora il leader del Pd Bersani, che oggi incontrerà il premier, alla ricerca di "soluzioni che coniughino il rigore con equità e consenso sociale".
Ma l'equità rischia di essere una parola vuota, e dunque la password rischia di non funzionare, se la manovra di Monti non si riempie di un significato politico chiaro, che vada oltre la pura tecnica dei numeri, dei fabbisogni, dei saldi. È evidente: al nuovo governo si chiedono riforme strutturali ambiziose, di durata lunga e di orizzonte vasto. Ma anche misure congiunturali pesanti, capaci di generare cassa subito. Potrà esserci uno scarto, nel trade-off tra i sacrifici immediati e i benefici futuri: 25 miliardi di euro in due anni non si mettono insieme senza affondare il bisturi nella carne viva della società italiana.

Il nodo è come, dove e perché si affonda quel bisturi. L'equità si può declinare in molti modi. Con un metodo consociativo da Prima Repubblica, si può colpire in modo indistinto su tutte le fasce sociali: siamo in emergenza, dunque tutti devono dare qualcosa. Ma ora si richiede un approccio diverso. L'Italia di oggi è provata da un ciclo estenuante di conflitti. Durante i governi Berlusconi, cui si deve un aumento del debito pubblico di 546 miliardi, il senso delle manovre è stato unidirezionale: colpire le constituency socio-politiche del campo avverso. Quindi stangate su lavoro dipendente, pubblico impiego, scuola.

Oggi, per essere davvero "equa", una manovra deve dunque pretendere molto da chi in questi anni ha dato nulla, e nulla a chi in questi anni ha dato molto. Questo principio, nelle 48 ore che mancano alla riunione del Consiglio dei ministri, dovrebbe guidare le scelte di Monti. Se partiamo da qui, si può già ragionare (e in qualche caso dubitare) delle ipotesi di intervento che circolano. Qualche esempio. Si parla di costi della politica: è giusto chiedere un tributo al risanamento a milioni di cittadini-elettori, ma non c'è equità se gli eletti non pagano per primi, qui ed ora, e non nella prossima legislatura. Si parla di previdenza: è giusto correggere gli squilibri generazionali per chi deve avere ancora accesso ai trattamenti d'anzianità, ma non c'è equità se si bloccano gli automatismi per tutti i 17 milioni di pensionati, compreso quel 48% di anziani che percepisce un assegno inferiore ai mille euro al mese, e quel 15% che ne percepisce uno inferiore ai 500.

Altri esempi. Si parla di un nuovo aumento delle aliquote Irpef: è giusto prevedere qualche inasprimento fiscale, ma non c'è equità se si continua a colpire il reddito piuttosto che il patrimonio. Si parla di un aumento degli ultimi due scaglioni più alti, quelli al 41 e al 43%: è giusto che i "ricchi" paghino di più, ma non c'è equità se si continua a considerare "ricco" il ceto medio e a prendere come base imponibile da colpire la categoria di reddito da lavoro dipendente con 55 mila euro l'anno, salvando ancora una volta la zona grigia del lavoro autonomo che denuncia meno di 20 mila euro l'anno. Si parla di provvedimenti sulla sanità: è giusto ridurre gli sprechi del servizio sanitario nazionale, ma non c'è equità se si torna al ticket sui ricoveri ospedalieri, cui ricorrono ormai solo le fasce sociali più povere.

Si potrebbe continuare. L'elenco delle ipotesi intorno alla manovra è lungo, e in ogni capitolo si può annidare la ripetizione dell'iniquità, che è stata la cifra dei governi ideologici berlusconiani. Oppure la rinuncia all'equità, che può essere la cifra dei governi tecnici, se e quando affrontano una manovra economica con una visione ragionieristica e con in dosso il solo "saio fiscale". Guardando il grafico del disavanzo pubblico, senza colmare il deficit politico che rischiano di produrre. Guardando ai mercati e alla Bce, senza vedere le persone in carne ed ossa, i corpi intermedi che gli danno voce e i Parlamenti che le rappresentano. Quello di Monti è nato come un "governo di scopo". Ed è vero: il risanamento dei conti e il rilancio della crescita sono uno "scopo" tecnico. Ma hanno dentro un potenziale politico enorme. Monti deve avere il coraggio di "scoprirlo". I partiti, in questa tregua solo apparentemente tecnocratica, devono ritrovare la forza di dispiegarlo. La password c'è: basta usarla bene.

m.giannini@repubblica.it

(03 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/03/news/monti_equit-25999580/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Molte tasse poca crescita
Inserito da: Admin - Dicembre 05, 2011, 11:46:55 pm
L'ANALISI

Molte tasse poca crescita

Le misure presentate dal governo Monti: norme che colpiranno milioni di persone, facendo meno 'macelleria sociale' di quella prevista.

Ma dall'esecutivo dei professori ci si attendeva qualcosa si più

di MASSIMO GIANNINI

 
LE LACRIME di Elsa Fornero sono una buona metafora di questo "decreto salva-Italia". Un'operazione chirurgica di tasse e di tagli senza anestesia, sul corpo vivo della società italiana. Farà piangere alcuni milioni di persone, anche se farà un po' meno "macelleria sociale" di quanto si temeva. Diciamo la verità. Dal governo dei Professori ci saremmo aspettati qualcosa di più.

In termini di qualità e di equità. Non serviva un autorevolissimo tecnico prestato alla politica come Monti, che con i suoi atti ha combattuto in Europa i grandi trust del pianeta e che con i suoi articoli si batte da anni per la modernizzazione del Paese, per varare una manovra che ha comunque un vago sapore di stangata vecchio stile. Non serviva una squadra d'élite per mettere insieme un pacchetto di misure che comprendono la solita infornata di imposte per i contribuenti e la solita carestia di risorse per gli enti locali.

Su questa "cura" grava in parte la stessa ipoteca che aveva pesato sulle ultime due manovre del governo Berlusconi-Tremonti, che tra luglio e agosto avevano razzolato la quasi totalità del gettito sulle tasse, e solo per una quota marginale sulle spese (di cui l'80% sulle riduzioni per ministeri, enti locali e sanità).

Ora, il pacchetto di misure varato dal Consiglio dei ministri ripete parzialmente lo schema: su un totale di 30 miliardi "lordi", 17 sono aumenti d'imposta, 13 sono riduzioni della spesa. Ancora una volta, la necessità di fare cassa fa premio sull'opportunità di ripensare più a fondo la natura e la struttura del bilancio pubblico. È vero che urgeva ed urge una terapia d'urto, e che come dice il premier "il debito pubblico non è colpa dell'Europa, ma è colpa di noi italiani". Ma se è vero quello che la Banca d'Italia ripete da tempo, e cioè che nel prossimo biennio la pressione fiscale viaggia verso il record del 43,7% del Pil e la spesa primaria al netto degli interessi corre verso il 43,3%, allora la manovra resta ancora troppo squilibrata dal lato delle entrate.

Sul fronte fiscale, il "saio" cucito addosso ai contribuenti è pesante. Monti (come del resto Tremonti) aveva promesso il passaggio della tassazione dalle persone alle cose. Nella sua manovra di questa traslazione c'è una traccia ancora insufficiente. Le "cose" vengono ri-tassate. La casa subisce un duplice, gravosissimo colpo: l'introduzione dell'Imu e l'aggiornamento degli estimi catastali.

I beni di consumo subiscono un'altra frustata: l'aliquota Iva aumenterà di altri 2 punti nel secondo semestre 2012, dopo il rialzo agostano già decretato dal governo forzaleghista, con un'alea difficile da calcolare sul possibile "propellente" inflazionistico che può generare. In compenso, con una scelta saggia propiziata anche dalla moral suasion dei partiti della "Grosse Koalition" all'italiana, le "persone" vengono tassate un po' meno del previsto.

Il cospicuo ritocco dell'ultima aliquota Irpef, dal 43 al 46%, è stato opportunamente rimosso dal menù. Si è risparmiato così l'ennesimo tributo sul ceto medio, e si è archiviata l'idea, non del tutto realistica, che i "ricchi" in Italia siano quelli che dichiarano più di 75 mila euro l'anno. In realtà questo è anche il bacino sociale del lavoro dipendente che paga le tasse fino all'ultimo centesimo, mentre il lavoro autonomo continua a ripararsi dietro dichiarazioni dei redditi scandalose, che non superano i 25-30 mila euro l'anno. In compenso, salirà l'addizionale Irpef delle regioni.

La manovra di Monti ha recuperato in extremis un barlume di equità. Con la pistola del Cavaliere alla tempia, il premier ha dovuto rinunciare a spostare drasticamente il prelievo, dal reddito al patrimonio. È deludente che un governo tecnico non sia stato in grado di varare un'imposta sulle grandi fortune sul modello francese, e non abbia nemmeno tentato di riequilibrare l'imposizione sulle rendite finanziarie (ferma al 20%) rispetto a quella sul lavoro (ormai a quota 36%).

Ed è deludente che abbia rinunciato a tentare un affondo più convinto contro gli "invisibili" del sistema tributario, che ogni anno nascondono al Fisco 120 miliardi di euro: si poteva osare di più, e non limitarsi a reintrodurre la tracciabilità del contante solo dai 1.000 euro, dopo aver annunciato alle Camere l'intenzione di "chiedere di più a chi ha di più" e la volontà di "colpire l'evasione fiscale" per impiegare il maggior gettito per abbattere le imposte sui lavoratori e sulle imprese. Ma in compenso, grazie alle pressioni del Pd, uno sforzo di giustizia sociale è stato fatto grazie alla tassa una tantum dell'1,5% sui capitali rientrati con l'ultimo scudo fiscale di Tremonti.

E sulla stessa linea si iscrivono l'estensione dell'imposta di bollo su diverse operazioni finanziarie (e non più solo sui conti correnti bancari), la tassa di stazionamento aggravata sugli yacht e i rincari del bollo sulle auto di lusso. Misure che incidono effettivamente sulle categorie più benestanti, risparmiate in tutti questi anni dai sacrifici. Tuttavia, anche in questo campo si poteva fare di più e di meglio, per rendere socialmente più tollerabile la distribuzione del prelievo.

Nel "decreto salva Italia" c'è comunque un elemento di qualità. Sul fronte della spesa, l'intervento sulle pensioni è serio e strutturale. È giusto correggere le iniquità del sistema dell'anzianità, anomalia tutta italiana nella quale si frantuma una parte del patto tra le generazioni. È giusto superare la disparità del metodo di calcolo (retributivo o contributivo) a seconda che si sia stati assunti prima o dopo il 1978. È giusto equilibrare le aliquote contributive delle categorie autonome che in questi decenni sono state abbondantemente al di sotto della media.

È anche giusto, benché doloroso, accelerare l'innalzamento ed equiparare l'età di vecchiaia per uomini e donne, anche se non si può non accompagnare un vero e proprio "scalone" sull'accesso alla pensione femminile con un sistema di Welfare finalmente inclusivo per chi deve coniugare lavoro e cura della famiglia e dei figli. Ma il blocco della rivalutazione degli assegni, sia pure salvando quelli al minimo e fino al limite dei 940 euro al mese, è a tutti gli effetti una "tassa sul pensionato", che oltre tutto non risparmia i trattamenti compresi tra i 1.000 e i 2.000 euro al mese. Il 48% del totale, e in questa fascia sociale non si tratta certo di "pensioni d'oro".

Per il resto, sui tagli di spesa non c'è molto altro di veramente "qualificante". L'abbattimento dei costi della politica è ancora allo stadio iniziale, a dispetto del gesto di buona volontà del premier che rinuncia al suo stipendio. Il colpo di scure sulle Autority e sulle Province, oppure la soppressione dell'Enit o dell'Agenzia per il nucleare, aiutano ma non risolvono.

Volendo amputare sul serio la spesa improduttiva e gli enti inutili si sarebbe potuto e si potrebbe affondare la lama molto più in profondità. La stessa cosa si può dire per il pacchetto di misure sulla crescita presentate dal ministro Passera. Le liberalizzazioni si limitano ai farmaci di fascia C nelle parafarmacie, e con una serie dettagliata di vincoli. Il credito d'imposta per la ricerca è troppo basso. La deduzione Irap sui costi del lavoro, a vantaggio delle imprese, è solo un primo passo, ancora troppo timido.

Monti, in queste settimane, aveva costruito la sua manovra su una "triade" inscindibile: rigore, equità, crescita. Dei tre assi, per ora ne ha calato davvero uno solo, cioè il primo. Era necessario. Ma se il premier non si affretta a giocare fino in fondo anche gli altri due, la sua partita sarà difficilissima. In Parlamento, e soprattutto nel Paese.

m.giannini@repubblica.it

 http://www.repubblica.it/economia/2011/12/05/news/molte_tasse_poca_crescita-26099701/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il bisogno di giustizia sociale
Inserito da: Admin - Dicembre 15, 2011, 06:19:30 pm
IL COMMENTO

Il bisogno di giustizia sociale

di MASSIMO GIANNINI

MONTI l'aveva annunciato: questo governo sarà costretto a rinunciare a certe liturgie, molto gradite nel passato. Ma la rottura che si è consumata con i sindacati è qualcosa di più di un semplice strappo al metodo della concertazione. È una lesione del principio dell'equità. Il governo, dunque, ha ascoltato ma non ha raccolto le richieste formulate da Cgil, Cisl e Uil, e le proteste sollevate da tante parti della società italiana. Non era obbligatorio dal punto di vista politico: l'emergenza economico-finanziaria impone decisioni urgenti e, per quanto dolorose, non necessariamente condivise. Forse non era opportuno dal punto di vista istituzionale: mentre sulle modifiche alla manovra si sta trattando in Commissione alla Camera, non si possono fare concessioni al sindacato su altri tavoli. Ma era doveroso dal punto di vista della giustizia sociale.

Graduare l'Ici-Imu sulla casa secondo i redditi e i carichi familiari, e innalzare almeno a 1500 euro al mese il tetto al di sotto del quale non scatta il blocco della rivalutazione delle pensioni, sono esigenze sacrosante di imparzialità redistributiva, e non pretese di autotutela corporativa.

Si capisce la difficoltà del governo, che sul decreto Salva-Italia è stretto tra la comprensibile domanda di equità che si coglie nel Paese e l'irresistibile "assalto alla diligenza" che si rischia in Parlamento. Tenere insieme le due cose non è semplice, con le confederazioni che scendono in piazza da una parte e i 1.400 emendamenti che stazionano in Commissione dall'altra. Ma una quadra, senza intaccare i saldi finali di una manovra che non deve cedere un centesimo sul terreno del rigore, andava e andrebbe trovata. Cinque miliardi non sono semplici da reperire, per far fronte al mancato gettito che deriverebbe dall'accoglimento delle proposte di modifica al testo sulla parte che riguarda casa e previdenza. Ma se è vero che l'azzeramento del "beauty contest" e il lancio di un'asta vera sulle frequenze tv non darebbero risorse immediate, è altrettanto vero che tra un ritocco dell'aliquota sull'una tantum a carico dei capitali scudati e un anticipo dell'aumento dei contributi previdenziali a carico dei lavoratori autonomi, parecchia "cassa" si potrebbe fare subito. In caso contrario, il cammino del governo si fa più impervio.

Ogni discorso sull'equità perde di senso, quando deputati e senatori scoprono la Grosse Koalition solo per difendere i propri emolumenti, che ogni mese cumulano 5.246 euro di indennità, 3.503 euro di diaria, 3.690 euro di rimborsi forfettari, 3.323 euro di rimborso viaggi. In gioco non c'è più il rispetto giuridico-costituzionale dell'equilibrio tra governo e Parlamento, ma la decenza etico-morale del rapporto tra eletti ed elettori. Sia detto senza cedere alle derive populiste e qualunquiste: gli onorevoli si conquistano sul campo la pessima reputazione di cui godono nel Paese. Così il Parlamento della Repubblica diventa la Casta dei bramini. Di fronte a tanta impudenza, il governo non può limitarsi a ripetere che "il Parlamento è sovrano". C'era una via, e l'ha indicata Tito Boeri: senza intervenire sulle indennità, la manovra avrebbe potuto tagliare i fondi di Camera e Senato, e i tagli sarebbero arrivati di conseguenza.

Ogni discorso sull'equità perde di senso, quando la manovra non incide sulla vergognosa metastasi italiana dell'evasione fiscale e sulla scandalosa distribuzione tra il reddito e il patrimonio. Cioè quando il 42,4% delle barche di lusso, il 31,7% delle automobili oltre i 185 cavalli e il 25% degli aerei da diporto risultano intestati a contribuenti che dichiarano meno di 20 mila euro l'anno. Quando l'aumento degli estimi, che ammonta al 60% per le case di milioni di italiani, si riduce al 20% per gli immobili delle banche, per gli alberghi e per i porti e quando si rinuncia ad innalzare le rendite (ferme al 2006) per gli immobili della Chiesa "non destinati all'esercizio del culto". Di fronte a tanta disparità, il governo non può limitarsi a dire "non abbiamo ancora studiato il dossier". C'era una via, e l'ha aperta addirittura il Cardinal Bagnasco: rivedere la formula troppo ambigua della legge, che esenta dall'Ici i cespiti ecclesiastici di natura "non esclusivamente commerciale". Monti ha già acquisito un merito oggettivo: con la credibilità del suo governo, ha riportato l'Italia agli onori del mondo. Ora gli è richiesto uno sforzo in più. Con l'equità della sua manovra, deve riportare gli italiani a credere nella politica. Se non lo farà, i cittadini onesti pagheranno, ma non capiranno.

m.giannini@repubblica.it

(12 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/12/news/giannini_equit-26456172/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Passera rilancia: rigore e sviluppo insieme.
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2011, 07:20:34 pm
L'analisi

Crisi, lo spread non torna più giù il rischio di un circolo vizioso

Il governatore di Bankitalia, Visco, ha segnalato al presidente del Consiglio che l'attività produttiva frenerà ancora.

Passera rilancia: rigore e sviluppo insieme.

Ma il premier Monti non è ancora riuscito ad attivare il circolo virtuoso che consentì a Ciampi di portare l'Italia nell'euro

di MASSIMO GIANNINI


È PASSATO il decreto Salva-Italia, ma l'Italia non è affatto salva. La dura legge dello spread ci inchioda ancora una volta alle nostre debolezze. Ieri, 23 dicembre, il differenziale tra i tassi dei Btp e quelli del Bund tedesco è risalito a 515 punti. Il 16 novembre, giorno del giuramento del nuovo governo, era a quota 518. Mario Monti torna così alla casella di partenza. È un problema serio, che spaventa il Palazzo e disorienta il Paese: in mezzo a queste due date c'è stata la manovra da oltre 20 miliardi, che ha inciso sulla carne viva degli italiani. I mercati l'avevano salutata con entusiasmo: il 6 dicembre lo spread era sceso a 368 punti, il minimo da luglio.

"Questa manovra ci dà speranza", aveva detto il premier. Oggi la speranza si affievolisce: al borsino di fine d'anno vince la paura. Se migliorano i differenziali degli Stati "periferici" dell'Eurozona, a partire dalla Spagna, e peggiora solo il nostro, il segnale è inequivoco, e insieme drammatico: nonostante l'ultima stangata, la comunità degli affari non crede ancora che l'Italia riuscirà ad abbattere il debito e a rilanciare la crescita. Detta più brutalmente: i sacrifici appena imposti al Paese rischiano di essere inutili. Questa è la constatazione che rende amaro il Natale degli italiani.
 
Siamo in zona-pericolo. Per l'incertezza internazionale, ma anche e soprattutto per la debolezza interna. Il governo ne è consapevole. Il tentativo è quello di gettare il cuore oltre l'ostacolo, lanciando la famosa "fase due". Quella dello sviluppo economico, che dovrebbe accompagnare il rigore finanziario.

Ma il cuore è leggero, e l'ostacolo è molto più alto del previsto. Nell'ultimo Consiglio dei ministri prima della sosta natalizia il premier ha affrontato la questione, ragionando sui numeri della "Relazione generale sulla situazione economica del Paese". "Le prospettive non sono affatto buone".

Basta sentire i ministri, per averne la conferma. Elsa Fornero avverte: "La manovra appena approvata era assolutamente necessaria. Sapevamo che avrebbe avuto un impatto sulla crescita, e ora sappiamo che è proprio la crescita la leva da azionare. Ma purtroppo dal territorio ci arrivano segnali preoccupanti". Piero Giarda è più esplicito: "Il risanamento l'abbiamo avviato, ma il quadro macro-economico sta peggiorando. Dal fronte delle imprese giungono notizie allarmanti, su ordinativi e occupazione".

Corrado Passera non si arrende: "Con il "Salva-Italia" abbiamo evitato la fine della Grecia. Ora dobbiamo uscire dalla sindrome delle fasi: non c'è una fase uno e una fase due, il rigore e lo sviluppo li dobbiamo fare insieme. La congiuntura è negativa, non possiamo aspettarci i fuochi d'artificio: ogni ministero deve fare la sua parte, giorno per giorno, per tagliare le spese e sostenere la crescita".

Ma far correre il Pil di un Paese che si porta sulle spalle una montagna di debito pubblico è una missione quasi impossibile, come purtroppo certifica l'impennata dello spread. È ancora Giarda, ad affondare il coltello nella piaga: "Non c'è dubbio, il debito è il nostro gigantesco problema. E i mercati sembrano orientati a scommettere sul fatto che noi potremmo non farcela".

È la stessa inquietudine di Passera: "Ne parlavo poco fa con un grande banchiere americano. È ovvio che il differenziale ci penalizza: l'Europa non ritrova un equilibrio, e noi abbiamo il debito pubblico più grande del mondo...".

L'Italia, in definitiva, sta entrando in una spirale micidiale. Deve risanare i suoi conti, e quindi fare manovre correttive sempre più pesanti. Ma lacrime e sangue scorrono in un Paese che è già in recessione, come dimostrano il calo dello 0,2% del prodotto lordo nel terzo trimestre (che riflette la caduta degli investimenti delle imprese) e il crollo delle retribuzioni rispetto all'inflazione (che blocca i consumi delle famiglie).

Così i tagli e le tasse deprimono ancora di più l'economia. Il rapporto debito/Pil non si riduce mai, perché le manovre fanno decrescere il numeratore, ma continuano a far decrescere anche il denominatore.

E se non si riduce il rapporto debito/Pil i mercati continuano a liberarsi dei titoli di Stato italiani, o a sottoscriverli chiedendo rendimenti sempre più alti. In questo modo il costo del debito pubblico, per lo Stato, continua a lievitare, rendendo necessarie altre manovre, che soffocano ancora di più l'economia. E via così, in un "loop" che finisce per uccidere un Paese.

Questo, dunque, è il vero abisso nel quale rischiamo di precipitare. All'Italia di Monti, per ora, non sta riuscendo il miracolo che riuscì a Ciampi nel 1996/1998, quando tagliammo il traguardo dell'euro grazie all'attivazione di quello che l'ex presidente della Repubblica definisce il "circolo virtuoso". L'aggancio al più importante dei parametri di Maastricht (un rapporto non superiore al 3% nel rapporto deficit/Pil) fu possibile grazie all'enorme "dividendo" che l'allora ministro del Tesoro riuscì a riscuotere in Europa.

Un dividendo fatto di credibilità personale, di "cultura della stabilità" politica e di manovre di rigore finanziario, che gli consentì di abbattere lo spread sui titoli tedeschi dai 530 punti del 1995 al minimo storico di sempre, meno di 30 punti base, nel dicembre 1997. Questo gli permise di risparmiare quasi 100 miliardi di interessi. Di somministrare al Paese manovre correttive severe ma non recessive. Di piegare il debito senza deprimere il Pil. Di ottenere per questo la fiducia dei mercati, e quindi di ricominciare il percorso dentro al "circolo virtuoso".

Il "miracolo Ciampi", per Monti, è molto più complesso. Sullo sfondo c'è la crisi di Eurolandia. Ma in primo piano resta l'instabilità dello scenario politico e la fragilità di un governo sostenuto da una maggioranza di "azionisti riluttanti". In queste condizioni, infondere fiducia negli investitori è tutt'altro che agevole.

L'agenda del Tesoro fa tremare i polsi. Il 28 dicembre andranno in asta Bot a sei mesi per 8,8 miliardi, il giorno dopo toccherà ai Btp a 3 e a 10 anni. Da Capodanno in poi sarà una roulette russa: solo per titoli a medio-lungo termine, 1 miliardo a gennaio, 46 a febbraio, 35 a marzo e 30 ad aprile. Totale: 112 miliardi in un solo quadrimestre, esclusi i Bot. Il presidente del Consiglio non può dormire sonni tranquilli. Al contrario di Ciampi, è costretto a girare in "circolo vizioso".

La vera sfida è invertire il ciclo, e convincere i mercati che l'Italia fa sul serio. "Serve una terapia d'urto per la crescita, che possa innescare un effetto shock", sostiene la Fornero. Passera ci sta lavorando. Ma con poche risorse a disposizione la "terapia d'urto" ha un impatto incerto: "Sbloccheremo le infrastrutture, sia a livello normativo sia a livello di cantieri. E faremo le nuove liberalizzazioni con la legge annuale sulla concorrenza".

Monti deve coniugare la famosa "triade", rigore-crescita-equità, con la sponda di un Parlamento malpancista e di un sindacato antagonista. Per questo cerca l'appoggio della più importante istituzione economica del Paese, cioè la Banca d'Italia. Nell'ennesimo faccia a faccia a Palazzo Chigi, il governatore Ignazio Visco ha tratteggiato al premier un orizzonte tutt'altro che incoraggiante: "Per il quarto trimestre c'è un ulteriore indebolimento dell'attività produttiva".

Secondo Via Nazionale, occorrerà un lavoro "chirurgico" sui tagli di spesa, nell'ottica della "spending review". E poi serviranno interventi mirati per "rimuovere gli ostacoli che frenano il sistema", dalle liberalizzazioni in tutti i settori alle misure per l'efficienza degli enti locali, dalla formazione e la scuola alla velocizzazione della giustizia civile.

La Banca d'Italia ha già fornito al premier una serie di indicazioni concrete, su ciascuno di questi capitoli. Toccherà al governo tradurle in misure legislative. La via è strettissima. Ma un'alternativa non c'è. Anzi, ce n'è una sola: il default dell'Italia. Come ha spiegato Visco a Monti, questo significherebbe "10 milioni di poveri in più, dall'oggi al domani". Buon Natale a tutti.

m.giannini@repubblica.it
 

(24 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2011/12/24/news/circolo_vizioso_giannini-27141364/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La lingua del disincanto
Inserito da: Admin - Dicembre 30, 2011, 10:47:19 pm
   
IL COMMENTO

La lingua del disincanto

di MASSIMO GIANNINI


IN QUESTO gelido inverno del nostro scontento, è quasi inutile chiedere a Mario Monti conforto e calore. Il suo governo "di scopo" non è nato per questo. La sua forza, che è anche la sua debolezza, deriva dal vuoto pneumatico della politica che si autosospende momentaneamente per manifesta incapacità. Il suo compito è dire l'amara verità a un Paese che per tre anni e mezzo è vissuto nel Truman Show berlusconiano, convinto che la crisi non ci avrebbe colpito, o che l'avremmo superata senza traumi, prima e meglio degli altri. La sua missione principale è risanare un bilancio pubblico martoriato da una mistura di diffuso lassismo finanziario e di ottuso rigorismo da tagli lineari. Tutto il resto verrà dopo. Le riforme e la crescita, l'equità e le grandi opere.

Nella sua prima conferenza stampa di fine d'anno, il presidente del Consiglio parla il linguaggio ruvido del disincanto. Il decreto Salva-Italia ha raggiunto l'obiettivo. "Eravamo sull'orlo del burrone, ma non ci siamo caduti". "Ora non siamo più vicini alla Grecia". "L'alternativa non era tra una manovra recessiva e una manovra espansiva, ma tra fare questa manovra e non fare nulla, cosa che avrebbe avuto un effetto esplosivo". Sono tante le frasi che restano impresse, e che danno la misura del baratro per adesso evitato. Ma al di là degli sforzi che il premier ha fatto per tenere le porte del 2012 aperte alla speranza, resta la sensazione che la cura da oltre 20 miliardi appena somministrata
al Paese siamo solo il primo stadio di una terapia ancora lunga e dolorosa. "Spero non servano altre manovre", si affretta a precisare Monti. Ma restano parole. Come furono parole quelle che Berlusconi pronunciò il 23 dicembre di un anno fa, e che il suo successore ha voluto ricordare: "Non servirà una manovra correttiva", disse allora il Cavaliere. "Nel frattempo ne sono servite altre cinque", ha chiosato il Professore.

Comincia un anno terribile. Il ciclo economico mondiale evidenzia un arretramento della crescita ovunque (comprese le aree finora più emergenti dei Bric) e un azzeramento della dinamica del Pil in Italia. Il ciclo politico europeo registra un'ulteriore cessione di sovranità nazionale alle istituzioni comunitarie. Se ha avuto un effetto, il vertice europeo dell'8-9 dicembre scorso è servito a ridurre ancora di più l'autonomia delle politiche fiscali teritoriali. Con una scelta tanto incomprensibile quanto velleitaria, Tremonti ha inchiodato l'Italia a una promessa impossibile con Bruxelles: il pareggio di bilancio entro il 2013. Monti lo sottolinea con una vena lievemente polemica, nella sua conferenza stampa: "Signori, quell'impegno non l'ha sottoscritto il mio governo". Semmai l'ha ereditato. Ma l'impegno c'è, e ora va onorato. Pena la definitiva sfiducia nei confronti di un Paese già fortemente screditato. Per questo, con ogni probabilità, verranno altre manovre, e verranno altri sacrifici.

Si può insistere finché si vuole, sull'ormai famosa triade che deve concretizzarsi in un'ipotetica unità di spazio e di tempo: rigore, crescita, equità. Si può ripetere fino alla noia che: "Non esistono una fase uno e una fase due". Ma i fatti contano più delle parole. E i fatti dicono che oggi paghiamo per raggiungere il risanamento finanziario, mentre nessuno può sapere se e quando incasseremo i dividendi dello sviluppo economico e della giustizia sociale. Forse non c'è alternativa, a questa road-map che ci impone in appena due anni di abbattere il deficit di 3 punti e il debito di 10 punti di Pil. Forse non possiamo far altro, per placare l'ira funesta dello spread, quel dio mercatista e pagano che pure non va "demonizzato", ma semmai va capito, anche se in questo momento ci penalizza più di quanto non meritino i nostri "fondamentali". "Non ci è dato lavorare con calma", come sostiene il premier. L'Unione ci aspetta, il 23 gennaio con l'Eurogruppo e il 30 con il Consiglio Europeo. Ma mentre sappiamo tutto dell'"atto dovuto", cioè la manovra di tasse e di tagli, sappiamo ancora poco o niente degli "atti voluti", cioè la strategia della crescita e dell'equità. Su questo fronte il governo Monti non ha altro da offrire, se non un operoso ma ancora fumoso "cantiere".

Le riforme del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali "sono in lavorazione". Sul "contratto unico" il ministro Fornero "sta ragionando". Sullo snellimento dei tempi e delle procedure per aprire nuove imprese: "È allo studio un provvedimento". Sul gigantesco problema dei crediti vantati dalle piccole imprese nei confronti della Pubblica Amministrazione "ci stiamo lavorando". Sull'accordo con la Svizzera per tassare i capitali esportati, secondo il modello già adottato da Germania e Regno Unito, "è allo studio un'ipotesi di accordo". Sulla lotta all'evasione fiscale "abbiamo piantato i primi semi". Sarebbe assurdo pretendere che il governo Monti facesse in tre mesi quello che il governo Berlusconi non ha neanche provato a fare in tre anni.
 

(30 dicembre 2011) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2011/12/30/news/la_lingua_del_disincanto-27380681/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Befera rilancia: "Serviamo lo Stato e non ci fermeremo"
Inserito da: Admin - Gennaio 08, 2012, 10:32:24 am
Il colloquio

Befera rilancia: "Serviamo lo Stato e non ci fermeremo"

"L'Italia deve tornare alla legalità. da febbraio nuovi blitz stile Cortina". Le imposte servono a pagare i servizi di cui tutti i cittadini beneficiano, dagli ospedali alle scuole. Chi le evade commette un vero furto ai danni di tutti noi, è bene ricordarlo. Grazie all'incrocio con i dati del Pra sui proprietari di auto di lusso, abbiamo fatto emergere 160 milioni di imposte evase. E circa mille contribuenti controllati hanno pagato oltre 60 milioni di tasse in più"

di MASSIMO GIANNINI


"LO RINGRAZIO, ce n'era davvero bisogno...". Per una volta, Attilio Befera può dismettere i panni di San Sebastiano. Nella guerra agli evasori fiscali il presidente del Consiglio si schiera senza se e senza ma a difesa dell'Agenzia delle Entrate e di Equitalia. E l'uomo che riscuote i tributi per conto dello Stato, contestato dai furbetti delle tante Cortine d'Italia, bersagliato dai reietti dell'eversione violenta e accusato dagli inetti di una destra anti-borghese e illiberale, sente finalmente lo Stato dalla sua parte. "Noi facciamo solo il nostro dovere. E lo facciamo sulla base delle leggi votate all'unanimità, da tutto il Parlamento. E continueremo a farlo, perché questo Paese deve decidere da che parte stare: con o contro lo Stato di diritto".

Il 42% dei possessori di barche di lusso, il 31,7% di proprietari di auto di altissima cilindrata e il 25,7% degli intestatari di aerei da diporto dichiarano redditi inferiori ai 20 mila euro l'anno. Le categorie del lavoro autonomo denunciano in media 18 mila euro l'anno, contro i 25 mila euro denunciato dal lavoro dipendente. La Guardia di Finanza fa un blitz a Cortina, scopre che su 133 possessori di auto di lusso 100 dichiarano meno di 30 mila euro e fa lievitare fino al 400% il volume dei ricavi di negozi e commercianti certificati dall'emissione di scontrini e ricevute fiscali. Di fronte a questo scandalo della democrazia, che destabilizza le fondamenta del patto sociale e altera le basi del libero mercato, succedono due cose incredibili. Un pezzo di Paese grida all'"oppressione fiscale". E un pezzo di Parlamento difende i "ladri" e accusa le "guardie".

Ancora una volta, come sempre accade quando l'Italia si sporge sull'abisso della bancarotta finanziaria e il governo di turno costringe gli italiani alla penitenza tributaria, la questione fiscale diventa il cuore di un'irrisolta frattura politica e di un'impossibile coesione sociale. Befera è un capro espiatorio perfetto. Monti chiede sacrifici pesanti agli italiani, e aumenta le tasse per accelerare il pareggio di bilancio. L'amministrazione finanziaria prova a stringere la morsa intorno all'evasione fiscale, con qualche accanimento eccessivo non contro chi non paga perché è disonesto, ma contro chi non ce la fa a pagare perché c'è la crisi. Ma intorno a questo disagio, oggettivo ma circoscritto, monta una colossale e paradossale campagna contro gli "strozzini" di Equitalia. Si evoca lo "stato di polizia". Si denunciano le "inutili operazioni ad effetto" nelle località dei vip. E qualche delinquente tira le sue "conclusioni": bombe carta contro i servitori dello Stato, proiettili per posta nelle sedi dell'Agenzia delle Entrate. Nel Pdl, da Cicchitto a Gasparri, le parole volano comne pietre. Befera è preoccupato: "C'è stata tanta, troppa leggerezza in questi giorni, nel commentare questi episodi. Per questo ora ringrazio il presidente del Consiglio, per la posizione molto forte che ha preso a Reggio Emilia. Noi facciamo solo il nostro dovere, nei confronti di contribuenti che spesso non lo fanno".

La vergogna della "Gomorra delle Dolomiti", come Francesco Merlo ha provocatoriamente definito Cortina d'Ampezzo, sta lì a dimostrarlo. "Diciamo che con la nostra operazione abbiamo fatto andar bene gli affari...", ripete Befera con un po' d'ironia. Ma la questione è invece molto seria. "Vede, questo Paese deve davvero scegliere se continuare sulla strada di questi ultimi anni, o tornare a praticare la legalità e il senso civico. Prima di tutto, dobbiamo ricordarci sempre che le imposte servono a finanziare i servizi di cui tutti i cittadini beneficiano, dagli ospedali alle scuole. E per questo io credo che chi evade le tasse commette un vero e proprio furto nei confronti di tutti noi. E aggiungo che chi non paga tasse e contributi viola la concorrenza, e fa un danno enorme agli imprenditori onesti, e quindi all'intero sistema economico".

Per questo i "blitz" in stile Cortina "non si fermeranno, ma anzi andranno avanti", come annuncia Befera. Le prossime missioni della Guardia di Finanza scatteranno non subito (perché gennaio "è mese di bassa stagione"), ma da febbraio. E si concentreranno nelle località turistiche più rinomate, soprattutto quelle invernali, a caccia dei "soliti ignoti" del Fisco. Altro che "azioni demagogiche e spettacolari", come strepita la Santanché, chiedendo i danni per l'amata Cortina e le dimissioni per l'odiato Befera. "Facciamo il nostro lavoro, e abbiamo dimostrato che dà risultati". Li dà sul territorio, ma li dà anche negli uffici. E qui il numero uno di Equitalia ci tiene a dare un'altra risposta a chi, da destra, critica l'invio di tanti "operativi" delle Fiamme Gialle per scoprire fenomeni di occultamento delle imposte che si potevano scoprire consultando semplicemente gli elenchi del Pubblico Registro Automobilistico. "Noi non facciamo solo operazioni sul territorio. Di controlli incrociati, attraverso il supporto informatico, ne abbiamo sempre fatti". C'è un dato, ancora inedito, che da la misura di questa attività ispettiva e dei suoi risultati: nel 2011, grazie a 3 mila controlli effettuati con l'incrocio tra i dati del Pra sui proprietari di auto di lusso e le dichiarazioni dei redditi, l'Agenzia delle Entrate ha fatto emergere 160 milioni di imposte evase. Circa 1.000 contribuenti controllati hanno aderito all'accertamento fiscale, e hanno pagato oltre 60 milioni di tasse aggiuntive.

Anche questa è l'Italia, purtroppo. È il raccolto avvelenato della semina di questi anni, che hanno visto un presidente del Consiglio inquinare il discorso pubblico con i germi della Vandea fiscale permanente. "Se lo Stato mi chiede il 50% di quello che guadagno mi sento autorizzato ad evadere". Oppure "non metterò le mani nelle tasche degli italiani". Silvio Berlusconi ha "diseducato" così i suoi elettori, di fronte al rispetto dei doveri del civismo, della legalità, della solidarietà. "È la peggiore espressione che si possa immaginare", commenta Befera, che risponde facendo appello al "senso dello Stato, e al senso di appartenenza a quella comunità che si chiama Italia, alla quale tutti apparteniamo, con gli stessi diritti e gli stessi doveri".

Resta da dire che anche Equitalia ha commesso e commette molti errori, dalle "cartelle pazze" ai pignoramenti indiscriminati, spesso a danno di contribuenti non possono pagare per le difficoltà economiche in cui si trovano e per l'avidità delle banche che chiudono i rubinetti del credito. Sono problemi seri, anche questi, che non possono essere sottovalutati. Befera non si sottrae, ma ripete che "su 10 milioni di cartelle esattoriali emesse ogni anno, i casi di errore non sono più di 1.000". Vanno evitati, Equitalia si impegna a farlo. Ma considerare queste "eccezioni come un sistema è ingiusto e sbagliato". Per questo i controlli andranno avanti. Quelli a tavolino, che si sono sempre fatti e si continueranno a fare. Ma anche quelli sul territorio, perché hanno "un evidente effetto-deterrenza", come dimostra il blitz cortinese, che ha convinto decine di esercenti e ristoratori a fare quello che altrimenti non avrebbero mai fatto: battere uno scontrino, emettere una ricevuta fiscale. Gesti normali, in una sana democrazia politica ed economica. "Atti sovversivi", nel Paese dei tanti, troppi Cetto Laqualunque nati nella Prima Repubblica del Caf e cresciuti nella Seconda Repubblica berlusconiana.

(08 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2012/01/08/news/befera_rilancia_serviamo_lo_stato_e_non_ci_fermeremo-27751485/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Previsti risparmi tra i cinque e i quindici miliardi di euro
Inserito da: Admin - Gennaio 09, 2012, 05:43:37 pm
IL COLLOQUIO

Giarda lancia la spending review "Entro gennaio il piano taglia-spese"

Il ministro prepara per fine mese il rigore selettivo: si parte da Palazzo Chigi poi tocca ai ministeri.

Previsti risparmi tra i cinque e i quindici miliardi di euro

di MASSIMO GIANNINI


MAI più nuove tasse. Mai più tagli lineari. Se la fase uno del risanamento finanziario è stata incardinata sugli aumenti d'imposta, la fase due ruoterà intorno al "rigore selettivo" nella spesa pubblica. "Entro fine mese  -  annuncia il ministro Piero Giarda  -  sarà pronto il piano per la "spending review" e scatteranno i primi interventi di razionalizzazione delle risorse statali".

Si parte da Palazzo Chigi, e in primavera toccherà ai ministeri. Un'operazione massiccia, ma "chirurgica". Servirà a superare l'epoca dei colpi d'ascia indiscriminati della gestione Tremonti, che hanno "schiantato l'economia", per passare a interventi tarati con il "bisturi", per eliminare gli sprechi senza deprimere investimenti, consumi e servizi. La "via alta" alla riqualificazione della spesa pubblica, che tentò meritoriamente Tommaso Padoa-Schioppa nel 2008, ma che non potè percorrere fino in fondo a causa della caduta del governo Prodi.

Oggi la rilancia Monti, che ha affidato proprio a Giarda, insieme al viceministro dell'Economia Vittorio Grilli, il compito di portare finalmente a compimento quel progetto. Ambizioso. Ai limiti del temerario. Secondo le stime, potrebbe fruttare tra i 5 e i 15 miliardi di risparmi di spesa. "Dipende dall'intensità e dalla serietà che i soggetti interessati dimostreranno". Ma dipende anche da come evolverà il quadro complessivo, non solo italiano, sul quale
incombono incognite difficili da calcolare. Secondo Giarda, le "variabili fondamentali" sono essenzialmente due. La prima è l'Europa. "L'obiettivo, in questo momento, è riuscire a convincere l'Unione che i nostri sforzi sono seri e strutturali, e che il vincolo di un rientro del debito pubblico in rapporto al Pil dal 120 al 60% in 20 anni è impensabile. Significa ridurre in misura meccanica il debito di 3 punti di Pil ogni anno, qualunque sia il tasso di crescita dell'economia. Questo è assurdo. Per questo il presidente del Consiglio Monti, nella missione che è iniziata la settimana scorsa con il vertice da Sarkozy e che culminerà con l'Eurogruppo e il vertice dei capi di Stato e di governo di fine mese, cercherà di convincere i partner europei ad accettare l'emendamento all'articolo 4 della bozza di nuovo Trattato intergovernativo".

La seconda variabile è la congiuntura. "Parliamoci chiaro - ragiona il ministro - qui si tratta di capire come va l'economia, quest'anno. Se continua il ciclo negativo di questi mesi, nel 2013 il pareggio di bilancio rischiamo di non raggiungerlo. I segnali, purtroppo, sono tutti negativi. Confindustria stima un calo della crescita nell'ordine dell'1,6%. Ora aspettiamo le previsioni di Prometeia. Ma lo scenario non è confortante". La fase due può aiutare il ciclo e invertire la direzione di marcia. "Monti vuole provvedimenti operativi già entro la fine di questo mese. Le liberalizzazioni sono al primo punto dell'agenda. Saranno importanti soprattutto come segnale all'Europa, perché poi bisognerà vedere in concreto quale impulso potranno dare al Pil nel breve periodo, e quale invece nel lungo".

L'intera azione di governo ruota intorno a quello che Giarda chiama "lo stramaledetto spread". Se non si riesce a innescare il "circolo virtuoso", abbattendo la curva dei rendimenti e quindi riducendo l'onere per interessi e il costo del debito, allora i sacrifici rischiano di diventare inutili. E le manovre che si susseguono, nel tentativo di trasmettere ai mercati la sensazione di una stabilità di lungo periodo, finiscono per bruciare risorse, deprimere redditi, cancellare posti di lavoro, prosciugare consumi, bloccare investimenti. E alla fine soffocano l'economia reale. Per questo è importante che l'Europa si convinca che quanto abbiamo fatto è il massimo possibile, nelle condizioni date. "I compiti a casa - dice Giarda - li stiamo facendo con impegno e serietà. Altre manovre non vogliamo farne, dopo quella di fine 2011. Altri aumenti di imposta sono impensabili, siamo già al limite adesso", con una pressione fiscale che è arrivata a superare il 46% del Pil.

A questo punto, insieme all'auspicata riduzione della spesa per gli interessi sul debito, la chiave del risanamento si chiama "spending review". E in questa "missione" Giarda è davvero il "predestinato". Pur essendo ministro per i Rapporti con il Parlamento, il Professore è forse il massimo esperto della materia. E Monti ha affidato a lui il compito. "Il presidente mi ha chiesto un rapporto complessivo entro la fine di gennaio, e io ci sto lavorando. Ne discuteremo in uno dei prossimi Consigli dei ministri. Si tratta di capire cosa si può fare subito e cosa invece può dare frutti più in là. Non è un compito facile: si tratta di passare dai tagli lineari di Tremonti, di cui ancora dobbiamo capire bene gli effetti, a interventi di riduzione chirurgica della spesa, settore per settore, ministero per ministero". Si parte dal "centro": tra le cose che si possono fare subito, infatti, c'è sicuramente la razionalizzazione delle strutture di Palazzo Chigi, con la soppressione di alcuni uffici e l'accorpamento di alcune direzioni generali. Poi, in primavera, nel quadro del Piano Nazionale di Riforme da presentare a Bruxelles, scatterà la cura più significativa, che riguarda la "periferia" del sistema pubblico, cioè i tagli alle spese e alle forniture dei ministeri.

Far dimagrire questo Leviatano di Hobbes è impresa immane, perché il "grasso" non è facile da trovare, e va cercato negli interstizi. "Al netto delle pensioni e degli interessi sul debito, la nostra spesa pubblica è nella media europea. Ma va resa più efficiente, perché stiamo parlando di denaro che riguarda i servizi al cittadino e il sostegno alle imprese. Noi abbiamo assunto un impegno senza precedenti, nella storia repubblicana: l'invarianza della spesa corrente nel prossimo triennio. L'abbiamo scritto nella Nota di aggiornamento presentata in Parlamento il 4 dicembre: tra 2010 e 2014 prevediamo 726 miliardi di euro di spesa primaria, che è "flat" in termini monetari per l'intero periodo. Calcolando un'inflazione media del 2%, è come se noi riducessimo la spesa pubblica corrente di 2 punti percentuali di qui al 2014. Vuole dire un taglio del 10% in cinque anni. Un'operazione mai tentata prima. Ma non è scontato che ci si riesca. Serve l'impegno di tutti. L'obiettivo finale è quello di far sì che i risparmi prodotti dalla "spending review" sostituiscano i tagli lineari, che tanto male hanno fatto alla nostra economia".
Su questo, serve l'impegno rigoroso di tutti. In Parlamento, nel governo, nelle strutture ministeriali, negli enti decentrati. Ma è un tentativo che non può e non deve fallire. "Si tratta di ridurre in modo selettivo la spesa improduttiva, rinunciando una volta per tutte alla scorciatoia del taglio dei fondi per la benzina delle volanti della Polizia o del congelamento degli aumenti contrattuali nel pubblico impiego. Vale la pena, e sa perché? I risparmi fatti finora sono stati ottenuti nel modo più brutale: sospendendo i pagamenti della Pubblica Amministrazione, o tagliando del 20-30% la spesa in conto capitale, cioè gli investimenti. Questo ha avuto una ripercussione micidiale sull'economia e sull'occupazione. Così non possiamo e non vogliamo più andare avanti. Così non torneremo mai sul sentiero della crescita".

Per questo la "spending review" è essenziale. Per ragioni tecniche, ma anche e soprattutto per questioni di opportunità politica. La spesa pubblica - sostiene Giarda, esperto e cultore di opera lirica - ricorda la "Anna Bolena di Donizetti, secondo la visione che ne ha il coro di popolo: ora si compone "in un sorriso", ora appare "triste e pallida". La spesa pubblica, cioè, può essere al tempo stesso espressione della coscienza collettiva e ostacolo alla crescita economica. Scelta di democrazia e fonte di pratiche improprie. Sta a noi, d'ora in poi, decidere cosa debba essere".

m.giannini@repubblica.it

(09 gennaio 2012) © Riproduzione riservata
da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/09/news/giarda_spending_review-27785432/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La frustrazione e la democrazia
Inserito da: Admin - Gennaio 13, 2012, 05:11:11 pm
IL COMMENTO

La frustrazione e la democrazia

di MASSIMO GIANNINI

UN BRUTTO giorno per la democrazia. La tentazione di liquidare così la decisione della Consulta sui referendum elettorali c'è, ed è forte. È comprensibile la delusione di quel milione e 217 mila cittadini: pur avendo firmato per l'abrogazione del "Porcellum", ora si sentono defraudati di un diritto che rende unica la nostra Costituzione e deprivati di uno strumento partecipativo che esalta la democrazia diretta. È legittima la "disperanza" di molti altri milioni di italiani: pur non avendo aderito alla raccolta delle firme, guardavano ai quesiti referendari come a una "leva" fondamentale, per sbloccare finalmente le resistenze conservative della famigerata casta, altrimenti immobile e irresponsabile.

L'ultima chance per il cambiamento, ancora una volta, è affidata alla credibilità istituzionale e alla persuasione morale del presidente della Repubblica. Tocca di nuovo a Giorgio Napolitano, dopo la decisione della Corte, scuotere i partiti dal torpore, e inchiodarli alle loro responsabilità di fronte al Paese. Il vertice sul Colle con i presidenti di Camera e Senato, e il comunicato ufficiale che ne è scaturito subito dopo la pronuncia dei giudici costituzionali, testimonia l'urgenza di questo impegno che il Capo dello Stato esige adesso dal Parlamento. E conferma che il Quirinale è in campo, anche sul tema della riforma elettorale, e non assisterà in silenzio a questa accidiosa "vacanza" della politica.

Ci sarà modo e tempo per riflettere sugli aspetti tecnici che hanno convinto i giudici ad assumere questa decisione. Le ragioni giuridiche che spingevano verso un sì ai quesiti non mancavano. Molti costituzionalisti, in assenza di precedenti specifici che la escludono, ritenevano e ritengono fondata la cosiddetta "reviviscenza" delle norme precedenti a quelle abrogate per via referendaria. Dunque, cancellato il "Porcellum", sarebbe tornato in vita il "Mattarellum". La Consulta, evidentemente, ha raggiunto una conclusione diversa: in caso di abrogazione della legge attuale, la cosiddetta "normativa di risulta" non sarebbe stata né chiara né coerente. E un pericolo di "vuoto normativo", in materia elettorale, non è sostenibile. C'è solo da chiedersi se quello che i giuristi definiscono l'"horror vacui", nel caso concreto, non fosse comunque preferibile all'"orrore puro" costituito dal sistema elettorale vigente.

Nel frattempo, si deve comunque rispetto per il verdetto della Corte. La frase è retorica, ma le sentenze si rispettano anche se non si condividono. Noi non la condividiamo, ma non per questo la bolliamo come un "atto di regime", meno che mai riconducibile a una "regia occulta" del Capo dello Stato. Certo, è una "sentenza politica", ma come lo sono tutte quelle che interpretano le leggi, nelle quali si riflette qui ed ora la volontà del popolo sovrano, le inquadrano o le aggiornano al contesto storico e le misurano con i parametri della Costituzione. In questo senso, è possibile che ai margini abbia influito sui giudici un condizionamento meta-giuridico, cioè il sospetto di un qualche legame politico tra l'esistenza del "governo strano" di Monti e la sopravvivenza della legge elettorale più "strana" del mondo. Ma se anche esistesse o fosse esistito, questo è un nesso improprio, che non tiene di fronte a una verifica contro-fattuale.

Corte o non Corte, il sistema elettorale vigente resta una vergogna italiana, che ha privato gli elettori del diritto di scegliere i propri eletti, ed è servito solo a garantire quello che i costituenti di Filadelfia avrebbero definito un vero e proprio "dispotismo elettivo". C'è un nome e cognome, al quale imputare questa vergogna: Silvio Berlusconi, l'ultimo giapponese del "Porcellum". Insieme al povero Bossi, non a caso, è l'unico a dire ancora oggi che quella "è una buona legge". Si capisce perché. La legge-truffa di fine 2005 nasce nel rozzo laboratorio padano di Lorenzago e porta la firma simbolica di Calderoli. Ma origina dal delirio di onnipotenza del Cavaliere, che ne ha bisogno per non perdere le elezioni del 2006 per stravincere quelle del 2008. Questa curvatura personalistica delle regole del gioco elettorale, costruite a misura dell'urgenza politica di un solo uomo, marchia a fuoco le sorti della Seconda Repubblica, e ora rischia di condizionare anche i destini della Terza. Il centrodestra berlusconiano aveva ed ha tuttora l'esigenza di eliminare lo svantaggio competitivo che soffre con il sistema dei collegi uninominali (nelle elezioni del 1996 e del 2001, con il "Mattarellum", ottenne alla Camera un milione e mezzo di voti in meno tra la parte maggioritaria e quella proporzionale). Il pessimo rendimento "coalizionale" di allora (riflesso della scarsa coesione del suo elettorato) è un handicap che il centrodestra non ha mai colmato, ma semmai ha accentuato in questi ultimi anni.

Per questo Berlusconi e Bossi, a dispetto delle sortite di propaganda dei figuranti Alfano e Maroni, continuano a preferire il "Porcellum" a qualunque altra formula. Piuttosto che perdere, quell'amalgama mal riuscito di Pdl e Lega preferisce tenersi una legge elettorale schifosa. Un mostro giuridico che, dietro allo specchietto per le allodole di un apparente bipolarismo, produce più frammentazione tra i partiti (rendendo fragile la governabilità in virtù del potere di ricatto attribuito ai "minori") e meno partecipazione tra i cittadini (cancellando il diritto di scegliere i candidati in virtù dell'abominio delle liste bloccate).

Questa è la gigantesca ipoteca che grava su quest'ultimo anno e mezzo di legislatura. I partiti convergono, a chiacchiere, sull'urgenza di riformare il sistema. Tutti si accodano ai richiami solenni di Napolitano che, come aveva già fatto nel discorso alle Alte Cariche del 20 dicembre e poi nel messaggio televisivo di Capodanno, frusta i partiti e il Parlamento e li esorta a "non sprecare" il tempo che ci separa dal voto del 2013 per varare le grandi "riforme istituzionali" utili al Paese. Proprio a partire da quella elettorale. Ma le condizioni politiche per riuscirci restano tuttora labilissime. Le proposte non mancano. Dalla porcata di Calderoli si può uscire con l'adesione a un sistema compiutamente proporzionale, attraverso l'abolizione di un assurdo premio di maggioranza, e senza troppi sofismi intorno alle differenze tra modello tedesco o modello spagnolo. Oppure se ne può uscire con l'adesione a un modello compiutamente maggioritario, attraverso la reintroduzione dei collegi uninominali e senza troppi cavilli intorno alle differenze tra modello inglese a un turno o modello francese a due turni. Quello che manca è la convenienza del Cavaliere e la convergenza di tutti su una piattaforma comune e condivisa.

La legge Berlusconi-Calderoli è un Frankenstein da abbattere. Oggi, in Occidente, non esistono democrazie consolidate che miscelano sistemi proporzionali e premi di maggioranza. Solo a Malta esiste qualcosa che si avvicina all'obbrobrio italiano. Il Parlamento può ancora sanare questa anomalia. Avrebbe il dovere morale e politico di farlo. Servirebbe un sussulto di dignità e di responsabilità. Un sì della Consulta avrebbe trasformato quel sussulto in un obbligo. Il no lo ridimensiona a una "facoltà". Per questo, purtroppo, il pessimismo della ragione prevale ancora una volta sull'ottimismo della volontà. I partiti italiani, colpevolmente auto-sospesi, sono ridotti a ectoplasma della Repubblica. Il sondaggio di Ilvo Diamanti, uscito su questo giornale lunedì scorso, li retrocede a un miserabile 4% di "indice di fiducia" da parte dei cittadini. In questo clima, come ha avvertito Gustavo Zagrebelsky, la pronuncia della Corte può alimentare la "frustrazione" degli elettori, e ingrossare l'onda già altissima dell'anti-politica. Sta agli eletti decidere se lasciarsi travolgere, o provare a domarla con le riforme. Solo così un brutto giorno per la democrazia potrà trasformarsi nella sua grande occasione.

m.giannini@repubblica.it

(13 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/13/news/giannini_referendum-28017890/?ref=HREC1-4


Titolo: MASSIMO GIANNINI La resistenza del professore
Inserito da: Admin - Gennaio 21, 2012, 12:16:32 pm
L'EDITORIALE

La resistenza del professore

di MASSIMO GIANNINI

ORA LA FASE DUE è cominciata davvero. Il maxi-decreto sulle liberalizzazioni ha un "valore economico" opinabile. Non sappiamo se davvero potrà far risparmiare 1.800 euro l'anno per ogni famiglia come stima l'Adiconsum, far crescere il Pil dell'1,4% come sostiene il Cermes-Bocconi, far aumentare dell'8% l'occupazione e del 12% i salari reali come prevede la Banca d'Italia. Ma sappiamo che la lenzuolata di Monti e Passera ha una "cifra politica" altissima.

Si può discutere finché si vuole sui vuoti e sui pieni di questo provvedimento. Si possono criticare le concessioni sui farmaci e sul commercio, le rinunce sulle reti ferroviarie e sull'agenda digitale, le retromarce sulle assicurazioni e sulle banche: più coraggio non avrebbe guastato.

Ma quello che non si può discutere è che per la prima volta, ormai da molti anni, un governo ha l'ambizione di proporre agli italiani una prima "riforma di sistema", improntata ai principi dell'economia liberale. Una riscrittura complessiva delle regole di funzionamento del mercato, incardinata sul primato del cittadino-consumatore, e non sul potere della rendita corporativa.

Un colpo d'ala che, per una volta, supera la maledizione che assillava Ugo La Malfa, quando ai tempi della Nota Aggiuntiva sosteneva che "l'Italia fa sempre riforme corporative, quindi fa controriforme". Questa, pur con tutti i suoi limiti, non lo è.

Non era affatto scontato che un'operazione di questa portata potesse riuscire a un governo tecnico che attinge la sua forza da una momentanea "convergenza" di sigle, piuttosto che da una strutturale maggioranza di partiti, e che è reduce da una prova difficile come il decreto Salva-Italia, convincente sul piano della quantità ma tutt'altro che esaltante sul piano dell'equità.

C'era il rischio, elevatissimo, che il premier fosse costretto a una disonorevole ritirata. E che la sua lenzuolata diventasse un fazzoletto prima ancora di approdare sul tavolo del Consiglio dei ministri. La Vandea delle grandi e piccole lobby è risuonata da giorni, alta e forte, nelle piazze metropolitane. L'inopinata fuga di notizie sui contenuti del maxi-decreto ha allarmato le segreterie di partito, mai insensibili alle grida di dolore che si levano dalle nicchie protette della società italiana.

Le pressioni esterne sono state fortissime, trasformando le liberalizzazioni in un campo di battaglia prima ancora che il testo definitivo approdasse a Palazzo Chigi. La prova sta nella lunga notte di trattative tra ministri e capigruppo, e poi nella maratona di otto ore che si è resa necessaria perché il governo licenziasse il decreto nella sua versione definitiva.

Monti ha resistito all'assedio, riducendo al minimo possibile i cedimenti alle piazze e ai palazzi. Il pacchetto di misure per la concorrenza è sicuramente parziale, senz'altro incompleto e mai abbastanza esaustivo. Ma stavolta c'è un fondo di verità nelle parole del premier, quando afferma che "ogni categoria è stata chiamata a uno sforzo di riforma", che "nessuno potrà dire che ce la siamo presa con i Poteri deboli lasciando tranquilli i Poteri forti" e che "scontentiamo tutti nella stessa misura perché in futuro siano tutti più contenti".

Su questo decreto Cresci-Italia Monti si giocava e si gioca tutte le sue carte. Se avesse perso questa partita, cedendo dall'inizio all'offensiva delle categorie sociali e finendo stritolato dalla "cinghia di trasmissione" dei partiti, avrebbe firmato il certificato di morte del suo governo. Con la preziosa copertura del presidente della Repubblica, il premier è riuscito invece a reggere l'urto.

Ora può giocare le sue carte mantenendo una posizione di forza, sottraendosi ai veti politici e ai ricatti corporativi. Può affrontare la nuova fase della legislatura parlando direttamente al Paese. Aprendo finalmente l'agenda (finora miseramente vuota) della crescita e dello sviluppo. Ha le carte in regola per provarci: il suo governo si dimostra in grado di tentare quella scomposizione e ricomposizione degli interessi diffusi che in una democrazia "normale" spetterebbe ai partiti, ma che i partiti in questo momento non sono in grado di fare.

L'intera vita di questo governo si regge sul filo di questo paradosso. Le vicende di questa lenzuolata lo confermano una volta di più. È un'anomalia che andrebbe sanata. Per una prima ragione, che è "congiunturale": il decreto va ora in Parlamento, e sarebbe un suicidio se nella fase di conversione i partiti assecondassero il rituale assalto alla diligenza. Il conflitto sociale che accompagna inevitabilmente il tentativo di modernizzare il Paese non può essere lasciato tutto intero sulle spalle di un "governo strano" e di una "maggioranza riluttante".

Per vincere questa battaglia occorrono una totale assunzione di responsabilità sulle singole misure e una piena condivisione sugli obiettivi di fondo. È davvero finita, se il Parlamento di oggi diventa quello che Luigi Einaudi raccontava nel '37: "La borsa nella quale gli avvocati dei grandi capi dell'industria, della finanza, del commercio, della navigazione, dell'agricoltura contrattano i rispettivi privilegi".

E poi per una seconda ragione, che è strutturale: l'azione di governo, per quanto o in quanto "supplente", lascia uno spazio enorme alla politica, che deve solo avere il coraggio di prenderselo. Lo invoca Napolitano, che scuote i partiti e inchioda i presidenti delle due Camere a un calendario dei lavori intorno a una nuova legge elettorale che ci consenta di superare l'ignobile "Porcellum". Lo chiede lo stesso Monti, che sollecita i leader della sua impropria e involontaria "Grosse Koalition" a "rafforzare il dialogo", a farlo fruttare e magari a non viverlo come una consultazione carbonara di cui vergognarsi di fronte al proprio elettorato.

Ma mentre su questo terreno è possibile trovare d'accordo Bersani e Casini, purtroppo resta in campo, irrisolta, la gigantesca incognita di Berlusconi. La politica, nonostante i suoi bizantinismi, è semplice geometria: non è un caso se, proprio nel giorno in cui il Professore trova una più che accettabile "quadra" sul decreto Cresci-Italia, il Cavaliere torna a palesare uno dei suoi cortocircuiti tra pancia e cervello, oscura la sua vena "di governo" e riscopre la sua vena di lotta.

"La cura Monti non funziona": questo dice Berlusconi, dimostrando il suo nervosismo per una stagione che ormai lo vede ai margini, e svelando la debolezza della sua Pdl, che sbiadisce ogni giorno di più dietro l'immagine impalpabile di Alfano. Poi aggiunge: "Presto gli italiani ci richiameranno". L'illusione è dura a morire, anche per il più patetico degli illusionisti.

m.giannini@repubblica.it

(21 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/21/news/resistenza_professore-28508798/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Passera: "Nostra proposta non si snaturi..."
Inserito da: Admin - Gennaio 22, 2012, 10:11:28 am
L'INTERVISTA

Passera: "Nostra proposta non si snaturi

Ora il piano crescita e lavoro"

A colloquio con il ministro dello Sviluppo sul decreto liberalizzazioni e le tappe future del piano di rilancio dell'economia italiana.

"In due mesi abbiamo fatto ciò che non era stato fatto in due decenni". "Il cammino per una crescita strutturale è stato tracciato".

E avverte: "Guai a pensare che il pericolo sia scampato, sarebbe un tragico errore"

di MASSIMO GIANNINI


ROMA - "La proposta è questa, e non può essere né annacquata, né snaturata. Ci sono proteste, ma sono convinto che il Paese capirà. Per questo contiamo anche in questo caso sul senso di responsabilità del Parlamento: c'è in gioco un bene comune superiore, che si chiama crescita sostenibile. Perseguiamolo, tutti insieme, andando oltre gli interessi particolari". Nel suo ufficio al ministero dello Sviluppo, Corrado Passera scorre le prime pagine dei giornali, titolate sulla sua "lenzuolata" di liberalizzazioni. "Non lo nego: sono molto soddisfatto, un gran lavoro di squadra. Venerdì è stata una bella giornata, per il governo e per l'Italia". E annuncia le prossime tappe del piano su crescita e lavoro.

Un Consiglio dei ministri di otto ore non si ricordava da tempo. Avete litigato di brutto, o avete dovuto arginare le pressioni dei partiti?
"Abbiamo semplicemente lavorato a fondo, con la voglia di ciascun ministro di contribuire anche alle proposte non di sua diretta pertinenza. Dopo il decreto Salva-Italia, che doveva fermare la caduta verso il baratro e convincere i mercati e l'Europa sulla nostra determinazione a perseguire il rigore finanziario, abbiamo avviato un grande piano per la crescita. Bisogna fare in modo che l'Italia si apra, come mercato e come società, in settori fino ad oggi rimasti chiusi: dall'energia ai servizi pubblici locali, dal commercio alle professioni. Bisogna dimostrare che questo Paese vuole sbloccare le sue tante paralisi e vuole imboccare il cammino delle riforme. Abbiamo messo in campo un disegno organico e strutturale, che valorizza molto le liberalizzazioni, ma poi si estenderà a tutte le leve dello sviluppo: la riforma del mercato del lavoro e le semplificazioni, le infrastrutture con lo sblocco di altri 5 miliardi di lavori che portano il totale a 20 in meno di due mesi, i 6 miliardi di incentivi Ace e Irap per le imprese che investono e assumono, i 20 miliardi per il fondo di garanzia dei crediti alle pmi. Insomma, non misure estemporanee, ma un insieme di provvedimenti collegati che non si vedevano da tempo".

Ma su molti punti serviva più coraggio. Le ferrovie: perché avete rinunciato a intervenire sulla rete?
"Non è vero che abbiamo rinunciato. Già nel decreto Salva-Italia, con la creazione dell'Autority per i trasporti, abbiamo creato le garanzie per regolare meglio i rapporti tra chi gestisce la rete e chi offre i servizi. Ma non escludiamo affatto, in futuro, di separare ulteriormente queste due realtà. Approfondiremo con l'Autority, studieremo anche i modelli adottati all'estero. Nessuna scelta è preclusa".

Potevate fare di più su assicurazioni e banche.
 "Considero un bel passo avanti la nuova disciplina sui contratti della Rc auto e sulle agenzie, con l'obbligo di dare raffronti tra offerte di compagnie concorrenti. E cosi pure nel caso di polizze vita per i mutui casa. Quanto alle banche, abbiamo rafforzato i conti correnti di base. Certo, si può sempre fare di più, ma la concorrenza nel credito è già diventata fortissima. La Posta ha dato un grande contributo".

Avete ceduto sulle farmacie, rinunciando a liberalizzare i farmaci di fascia C.
"Avevamo già provato a varare questa norma, nel primo giro del decreto Salva-Italia. Il Parlamento ha rifiutato, e per questo non l'abbiamo riproposta. Ma abbiamo rilanciato con una norma di portata anche maggiore: 5 mila farmacie in più su 18.000 vuol dire mettere una pressione più forte sui prezzi ai cittadini, anche per i farmaci di fascia A. Non solo: il concorso unico apre il mercato anche a chi non è figlio di farmacisti. Mi pare un enorme passo avanti".

Diciamo allora che vi siete arresi alla frangia più dura, quella dei tassisti.
"Sui taxi eravamo partiti con idee più larghe. Ma anche qui il compromesso finale è positivo. Non trovo obiettive le critiche dei "benaltristi": non era affatto scontato che riuscissimo ad aprire tante aree di rendita.
Tutti gli italiani ne dovranno avere un beneficio tangibile".

A proposito di compromessi. La sospensione del beauty contest sulle frequenze tv non è una soluzione minimale? Avreste potuto decidere subito la revoca delle concessioni, nonostante gli attacchi di Mediaset.
"Le critiche di Mediaset le ho messe nel conto, ma mi paiono tutto sommato misurate. Sono convinto che la soluzione che abbiamo scelto sia la migliore, e non un escamotage per prendere tempo. Dobbiamo tener conto delle leggi, delle delibere dell'Agcom, delle direttive europee. La sospensione ci consente di decidere alla luce di questi elementi, e senza incappare nelle infrazioni Ue. Abbiamo comunque evitato che un bene pubblico venisse regalato, in un momento in cui chiediamo enormi sacrifici ai cittadini, ad un settore che di frequenze ne ha già moltissime".

La lenzuolata l'avete approvata. Ma ora comincia la fase più difficile: la Vandea delle corporazioni, la rivolta dei "100 forconi" che squassa l'Italia. Ne terrete conto?
"Speriamo che il fatto di aver chiesto qualcosa a tutti i settori, grandi e piccoli, pubblici e privati, convinca ciascuno ad accettare un pezzo di sacrificio, in nome di un bene comune superiore, cioè la crescita. Le proteste ci sono, le resistenze continueranno. Ma al di là di qualche eccesso, abbiamo anche trovato collaborazione in molte categorie. Mi creda, con il decreto Cresci-Italia abbiamo fatto la cosa giusta. Siamo convinti che una parte rilevante del Paese è con noi: ci saranno pure i "100 forconi", in giro per la penisola, ma ci sono alcuni milioni di cittadini che ci dicono "bene, non vi fermate". Si rendono conto che così, in Italia, non si può più andare avanti. Serve una scossa, e noi stiamo cercando di darla".

Oltre alla protesta sociale, c'è il malpancismo politico. La lenzuolata, già criticata prima del varo, va in Parlamento: non teme che i partiti la riducano in stracci?
"È vero, nei giorni scorsi c'era chi ci diceva "perché colpisci questa categoria, che fa parte della nostra base elettorale, e non altre?". Ma ora che si vede l'ampiezza e l'equità del nostro intervento riformatore, credo che tutti possano convincersi a sostenerlo. Se mai auspico che dalle Camere ci vengano idee e stimoli ad allargare ulteriormente l'operazione di apertura alla concorrenza".

Questo vuole dire che il decreto è immodificabile? Prendere o lasciare?
"Valuterà il presidente Monti nelle sedi opportune. Il Parlamento è sovrano, ma questa è la nostra proposta: pensiamo non debba essere né annacquata, né snaturata".

Berlusconi freme. Dice "la cura Monti non funziona, presto ci richiameranno". Non è un problema, per voi, questa maggioranza riluttante?
 "Non sono dentro le vicende del Pdl. In generale, mi pare che i partiti finora non ci abbiano fatto mancare l'appoggio necessario. È ovvio che ci sia qualche disagio di fronte a un governo "strano", come lo ha definito Monti, e a una soluzione istituzionale anomala. L'importante è che il disagio non si traduca in sfiducia".

Quindi secondo lei dopo la lenzuolata le elezioni anticipate si allontanano?
"Questo non so dirlo. Spero che le forze politiche dimostrino lo stesso senso di responsabilità manifestato finora. Attenzione: in poco tempo abbiamo fatto grandi passi avanti, ma l'Italia resta sempre in "zona mortale": dobbiamo fare ancora molto per convincere i mercati e l'Europa. I primi segnali cominciamo a vederli sullo spread, malgrado un ingiustificato declassamento del rating. Ma guai a pensare che il lavoro sia finito, e che il pericolo sia scampato. Sarebbe un tragico errore".

Finora su crescita e occupazione non avete fatto granché. Non state sottovalutando il disagio sociale che cresce, soprattutto tra i giovani?
"Intanto, in appena due mesi abbiamo fatto quanto non era mai stato fatto in quasi due decenni. Quanto al disagio sociale, io lo sento e lo vedo, ma credo sia stato sottovalutato da molti negli ultimi anni. Tra disoccupati, inattivi, sottoccupati, stiamo parlando di almeno 6/7 milioni di persone: dobbiamo loro risposte urgenti, e queste risposte arrivano solo con un grande progetto di sistema per far crescere l'economia. Non si crea occupazione senza crescita e da mesi il nostro Paese con mezza Europa è invece in piena recessione".

E allora mi dica: qual è il piano?
"Il cammino per ricostruire crescita strutturale, a questo punto, l'abbiamo tracciato. Le liberalizzazioni sono un pezzo importante, ma puntiamo a far crescere la competitività delle aziende e la competitività del Sistema-Paese. Per la competitività delle aziende, abbiamo già dato un forte contributo alla crescita dimensionale con l'Irap e l'Ace, faremo proposte con il ministero dell'Università per la formazione e il ridisegno degli incentivi per l'innovazione e la ricerca, rafforzeremo la strumentazione per l'internazionalizzazione coinvolgendo con la nuova Ice le ambasciate e le camere di commercio, porteremo avanti le politiche di riduzione del costo dell'energia, e poi lanceremo la prossima settimana un decreto molto corposo sulla semplificazione, con decine di interventi per snellire gli adempimenti e i costi della burocrazia, e appena possibile, predisporremo un piano per smaltire i pagamenti sospesi della Pubblica Amministrazione".

Le imprese aspettano 60-80 miliardi di rimborsi. Perché avete archiviato la norma che prevedeva di restituirli in Bot e Btp?
"Non abbiamo archiviato nulla. Intanto nel decreto abbiamo stanziato i primi 5 miliardi per avviare lo smaltimento. Il pagamento in titoli di Stato è una delle ipotesi, ma ce ne sono altre che stiamo valutando. Dobbiamo recepire la direttiva Ue che impone pagamenti entro 30/60 giorni, sia per pubblici che per privati, e dobbiamo abbattere il pregresso in fretta, per aiutare le imprese senza venire meno ai nostri impegni sul rientro del debito pubblico. Garantito, lo faremo".

Domani si apre il tavolo sulla riforma del mercato del lavoro. Lei che ne pensa?
"Dobbiamo individuare meccanismi che facilitino l'ingresso dei giovani sul mercato del lavoro, e che eliminino la piaga del precariato. Sono convinto che al tavolo della trattativa il ministro Fornero troverà la formula più adatta. Nessuna ipotesi deve essere esclusa in via pregiudiziale. Questo vale sia per i modelli contrattuali sia per la flessibilità, in entrata, in uscita e nell'uso degli impianti".

Mi sta dicendo che secondo lei si deve discutere anche di articolo 18?
"Di articolo 18 in questi giorni si è parlato fin troppo. Io dico solo che dobbiamo far crescere, allo stesso tempo, la produttività dei fattori, il tasso di occupazione e i redditi delle famiglie. Lo spazio per farlo c'è, si tratta solo di volerlo riempire, con il coraggio di innovare e di imparare dalle migliori esperienze internazionali".

Ma il metodo della concertazione è finito, con il governo dei tecnici?
"Concertazione è un termine che ognuno declina a modo suo. Io sostengo che in momenti di crisi bisogna lavorare tutti insieme, governo e parti sociali, imprese e sindacato. E per esperienza personale aggiungo che farlo con un sindacato forte, e soprattutto unito, è un grande vantaggio e produce grandi risultati".

Lei cosa farà, nel 2013? In molti la indicano come il vero "candidato" forte della prossima sfida elettorale, non si sa bene in quale metà del campo. È tentato?
"Non voglio essere reticente, ma non so proprio cosa dirle. Io sto facendo il ministro dello Sviluppo. Ho accettato con entusiasmo di partecipare a un progetto fortemente voluto dal presidente Napolitano e dal presidente Monti. Spero solo che funzioni. Tutto il resto si vedrà. Non è la prima volta che lavoro per lo Stato: lo faccio con grande orgoglio".

(22 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/01/22/news/intervista_passera-28555296/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Lavoro, ecco il piano Fornero
Inserito da: Admin - Gennaio 29, 2012, 11:53:31 pm
IL DOSSIER

Lavoro, ecco il piano Fornero Contratti sfoltiti e protezioni più moderne

Il ministro del Welfare convocherà imprese e sindacati tra mercoledì e giovedì: confronto diviso su quattro tavoli.

Tra i capitoli Forme Contrattuali, formazione, flessibilità. ammortizzatori sociali

di MASSIMO GIANNINI

"Siamo pronti. Mercoledì o giovedì torneremo a sederci al tavolo con le parti sociali. Saremo prudenti, ma determinati: puntiamo ad un'intesa di alto profilo riformatore". Dopo una falsa partenza, il ministro del Welfare Elsa Fornero si prepara a riconvocare imprese e sindacati, e a rilanciare la riforma del mercato del lavoro. "Ripartiamo da quattro tavoli: forme contrattuali, formazione, flessibilità e ammortizzatori sociali". Chi in queste ore ha parlato con la Fornero, la descrive determinata, anche se un po' seccata per le polemiche interne alla squadra di governo. Non vuole alimentare i dissensi con il "collega" Corrado Passera: "Le polemiche non servono, non aiutano. Certo, siamo diversi, ma le cose tra noi vanno benissimo...". Il ministro preferisce concentrarsi sulla road map di una riforma che, dopo il decreto Salva-Italia sul rientro dal deficit e il decreto Cresci-Italia sulle liberalizzazioni, è diventata cruciale per il futuro del Paese. Una riforma "necessaria, anche in relazione ai nostri impegni con l'Europa". Ma una riforma complessa, per le resistenze che incontra, soprattutto tra Cgil, Cisl e Uil, e soprattutto su certi argomenti specifici, come la cassa integrazione straordinaria e l'articolo 18. Ma stavolta, proprio per evitare che il confronto si impantani subito su questi singoli capitoli ad altissima intensità politica, la Fornero ha concordato insieme a Monti il "metodo dello spacchettamento", cioè la divisione della trattativa in quattro "sotto-tavoli". Nessun documento "prendere o lasciare", ma una serie di proposte, un ascolto delle richieste, e poi una sintesi finale, sulla quale costruire il consenso. Ecco su quali basi si svilupperà il dialogo con le parti sociali.

LE FORME CONTRATTUALI
Si parte da una premessa di base: nella insostenibile "giungla dei 46 modelli contrattuali" attualmente in vigore, alcuni hanno dato buona prova (contratti a progetto, part time) altri hanno determinato abusi (lavoro interinale). La Fornero punta allora ad una riduzione netta del numero delle tipologie contrattuali, anche attraverso il meccanismo degli incentivi e dei disincentivi al loro utilizzo. Il "contratto unico" sul modello Boeri-Garibaldi, da questo punto di vista, è un'ipotesi sul tappeto, come lo è il modello Ichino: tutti ruotano intorno all'idea di un contratto di base, per i neo-assunti, di durata più o meno triennale e a tutele crescenti. Ma questo impianto non può esaurire le piattaforme contrattuali possibili: "Non ha senso eliminarle tutte, comprese quelle che hanno dato buoni risultati". Semmai si tratta di aggiornarle.

Per i giovani che si affacciano per la prima volta sul mercato del lavoro, il ministro condivide la richiesta di Camusso, Bonanni e Angeletti: si parte dal contratto di apprendistato, "sul quale c'è ampia condivisione". Anche in questo caso, si possono apportare correttivi alla riforma varata dal precedente governo, per rendere quel meccanismo più flessibile. Ma su questo la Fornero è convinta di poter raggiungere un "accordo soddisfacente" con i sindacati.

LA FORMAZIONE
È una "questione cruciale". Una "priorità" per il governo. Qui occorre un "salto culturale", che l'intero mondo del lavoro (produttori e lavoratori) deve dimostrasi in grado di compiere. La formazione non avviene "una sola volta nella vita". La formazione è una risorsa che non si acquisisce all'inizio del ciclo produttivo, e poi basta, ma va assicurata fino al raggiungimento dell'anzianità. Se aumenta l'età pensionabile, deve aumentare anche la spesa che le aziende destinano a questo scopo, e che in concorso con lo Stato deve garantire anche a chi perde il lavoro in età avanzata di potersi riconvertire, e di poter rientrare nel mercato anche se ha superato i 50 anni di età. È il concetto di "formazione permanente", sul quale il governo chiede uno sforzo a tutto il sistema produttivo, partendo dal presupposto che i fondi da attingere al bilancio pubblico sono limitati.

LA FLESSIBILITÀ
È il nodo più spinoso, come dimostrano i fatti di questi ultimi quindici anni, da quando il governo del primo Ulivo tentò di discutere con la Cgil di revisione dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Ma anche su questo, la Fornero non è pessimista. Flessibilità in entrata e in uscita non vuol dire necessariamente abolire l'obbligo di reintegro per i lavoratori licenziati senza giusta causa né giustificato motivo. Il ministro lo ripete da giorni, con tutti gli interlocutori possibili: "Dobbiamo depurare la questione dal suo valore ideologico: il governo sulla flessibilità non ha né uno spirito di rivincita, né la voglia di imporre un suo diktat. Cerchiamo solo di risolvere un problema, senza traumi né conflitti". Qual è il problema, lo ha spiegato la stessa Fornero, nel suo intervento in un convegno a Milano: "Oggi esiste un legame eccessivo tra il singolo lavoratore e il suo posto di lavoro. Un legame che si tende a far "resistere", molto spesso, anche quando l'azienda che fornisce quel posto di lavoro non è più in grado di assicurarlo. Questo problema va risolto". Come, lo dirà la trattativa al tavolo con le parti sociali. Alla Fornero stanno a cuore due cose. La prima è far capire alle imprese che il ricorso ad una maggiore flessibilità del lavoro deve avere comunque un costo elevato. La seconda è far capire ai sindacati che "nessuno, nel governo, si sogna di mettere a repentaglio i diritti, perché i diritti sono la base del patto sociale".

GLI AMMORTIZZATORI SOCIALI
Questo è l'ultimo tavolo, in termini di scansione temporale. Perché come sostiene da sempre il ministro, "nessuno può pensare che tutto cambi da domani mattina: c'è un'emergenza, che va affrontata subito, e c'è un disegno di più lungo respiro", che riguarda appunto il sistema di Welfare. Gli ammortizzatori sociali sono il cuore della riforma che verrà. Ma il compito è improbo. Si tratta di spostare risorse da una voce all'altra, per rafforzare l'assistenza anche con strumenti come il salario minimo. Si tratta di trovarne di nuove, per sostituire strumenti "non più adeguati ai tempi che stiamo vivendo". Ma al Tesoro di fondi da dedicare a questo capitolo di spesa, al momento, praticamente non ce ne sono, come Piero Giarda e Vittorio Grilli hanno ripetuto al presidente del Consiglio l'altro ieri. Per questo si interviene su quello che c'è. La cassa integrazione, sulla quale lunedì scorso si è innescata una reazione durissima dei sindacati e delle imprese, è uno dei fronti più caldi. Chi le ha parlato riferisce che il ministro considera la Cig uno strumento "sub-ottimale". Chi ci sta dentro se la vuole tenere, e non la vuole cambiare. Ma secondo il ministro quella "coperta" non può durare in eterno. C'è una "comprensibile paura", ad abbandonare una forma di tutela che dura da decenni. Ma "bisogna cambiare, per migliorare". La Fornero vuole trovare, insieme alle parti sociali, soluzioni più efficaci e moderne, ma non meno sicure. "Nessuno sarà abbandonato al suo destino".

Questa è dunque la strategia, che il ministro del Welfare ha messo a punto insieme al premier, in vista dell'ennesima "settimana cruciale" per i destini del Paese. Domani il vertice europeo, e tra mercoledì e giovedì il nuovo round con imprese e sindacati. Questa volta non si può sbagliare. Ce lo chiede l'Europa, ce lo chiedono le multinazionali straniere, che spesso sono restie ad investire in Italia proprio per la farraginosità del nostro mercato del lavoro. La Fornero, dopo aver fatto una riforma dolorosa ma strutturale come le pensioni, si gioca tutte le sue carte. Concertazione o no, confida "nel senso di responsabilità delle parti". Sa di avere il sostegno, prezioso, del presidente della Repubblica Napolitano. Ripete a tutti che il governo "non vuole abbattere totem". Che occorre "discutere di tutto, laicamente e pragmaticamente". Ricorda, ancora una volta, "la lezione di Luciano Lama". Spera che la ricordino anche i suoi "successori".

m.gianninirepubblica.it

(29 gennaio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2012/01/29/news/lavor_piano_fornero-28945203/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Frankenstein in Parlamento
Inserito da: Admin - Febbraio 11, 2012, 11:14:22 pm
 
IL COMMENTO

Frankenstein in Parlamento

di MASSIMO GIANNINI

COME il sonno della ragione, l'incrocio tra governo "strano" e Parlamento sovrano genera mostri. Duemilaquattrocento emendamenti presentati al Senato sul decreto legge per le liberalizzazioni sono un'offesa al buon senso e al buon gusto. Tradiscono un'idea malintesa, che allontana sempre di più gli eletti dagli elettori. Non si vuole difendere la sovranità del potere legislativo. Si vuole proteggere l'intangibilità del sistema corporativo.

La "lenzuolata" appena varata da Monti e Passera non ha la stessa forza di quelle introdotte da Prodi e Bersani nel 1998 e nel 2006.
Come conferma il rapporto della Commissione europea anticipato ieri da "Repubblica", è ancora troppo timida. Non affonda la lama della concorrenza nel ventre molle della rendita, in aree strategiche come le banche e le reti, le assicurazioni e le professioni. Ma rappresenta comunque un enorme salto di qualità, rispetto alla palude di statalismo e di immobilismo della legislatura berlusconiana. Non farà risparmiare 1.800 euro l'anno ad ogni famiglia italiana, né farà crescere il Pil dell'1,4%, l'occupazione dell'8% e i salari reali del 12%, come spera il governo. Ma è sicuramente la prima, salutare scossa a un'economia paralizzata, a una società bloccata.

Un Parlamento responsabile, invece di partorire i suoi Frankenstein, avrebbe il dovere di convertire in fretta il decreto. E se proprio volesse rifiutare la logica del prendere o lasciare, dovrebbe apportare poche modifiche, e solo migliorative, nell'unica direzione possibile: quella dell'ulteriore apertura al mercato nei troppi settori ancora troppo protetti.

Per esempio, facendo scattare da subito lo scorporo dall'Eni della rete di trasporto del gas della Snam. Accelerando la separazione della rete ferroviaria da Trenitalia. Scardinando definitivamente il diritto di esclusiva per i gestori delle pompe di benzina. Imponendo l'immediata riduzione delle commissioni bancarie a carico degli esercenti per l'utilizzo delle carte di credito. Aprendo definitivamente a tutti i più giovani le porte d'accesso alle professioni. Rimuovendo i vincoli agli agenti monomandatari delle compagnie d'assicurazione riunite nell'indifendibile cartello della Rc-auto. Estendendo il meccanismo del price cap per le tariffe autostradali anche alle concessioni in essere (compresa quella di Autostrade) e non solo a quelle future. Moltiplicando le licenze dei taxi. Ripristinando la libera vendita dei farmaci di fascia C nelle para-farmacie.

L'elenco potrebbe continuare. Con una decina di emendamenti di questo tenore, il pacchetto Monti-Passera diventerebbe davvero la "rivoluzione liberale" di cui c'è bisogno, nell'Italia delle mille corporazioni e dei cento forconi. Invece a Palazzo Madama è partito il vecchio, caro assalto alla diligenza. Duemilaquattrocento proposte di modifica. Una sparuta minoranza, per lo più firmata da esponenti del centrosinistra, introduce alcuni effettivi rafforzamenti al testo. Ma per il resto la quasi totalità degli emendamenti, 700 firmati da senatori del solo centrodestra, recepiscono altrettante richieste delle solite lobb in guerra permanente contro qualunque cambiamento: avvocati, farmacisti e tassisti. Il presidente del Consiglio lo aveva previsto, giusto una settimana fa, durante il videoforum su "Repubblica Tv". "Sono preoccupato, ma non molleremo", aveva detto. Forse neanche lui aveva immaginato una reazione così abnorme delle "caste" che purtroppo trovano ascolto in Parlamento.

È un pessimo segnale. Non bastano le buone intenzioni bipartisan dei relatori, che in vista del dibattito in aula sperano di sfoltire questa selva ingestibile di emendamenti. Il governo sarà comunque obbligato a porre la fiducia, se non vuole che la lenzuolata del decreto Cresci-Italia finisca in mille pezzi, com'è già in parte successo con il decreto Salva-Italia. Sarebbe la quinta fiducia in tre mesi e mezzo, con un bottino di voti in calo costante: dai 556 sì all'insediamento dell'esecutivo tecnico, il 18 novembre, ai 420 sì al decreto svuota-carceri del 9 febbraio. Anche questo è un modo per logorare un governo che toglie ossigeno politico a un agguerrito e disperato drappello di "riluttanti" della ex maggioranza. Pur di sabotare il manovratore, cavalcano qualunque rivolta delle categorie. Se ha davvero l'ambizione di "cambiare il modo di vivere degli italiani", come ha annunciato da Washington, Monti non può e non deve cedere a questa destra sudamericana, che agonizza tra le macerie del berlusconismo. Ne va della modernizzazione del Paese.

m.giannini@repubblica.it

(11 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/11/news/parlamento_liberalizzazioni-29684693/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il dovere della notizia
Inserito da: Admin - Febbraio 13, 2012, 11:32:55 am
L'EDITORIALE

Il dovere della notizia

di MASSIMO GIANNINI


NON C'È BISOGNO di aver letto la "lezione" di Joseph Pulitzer alla Columbia University, per sapere che "un giornalismo onesto e indipendente è la forza più possente che una civiltà moderna abbia mai sviluppato".

Per questo, pur prendendo atto della smentita congiunta di Palazzo Chigi e della Cgil a proposito dell'incontro segreto tra Monti e Camusso per concordare una riforma dell'articolo 18, non possiamo che confermare la veridicità della notizia. Esprimiamo la massima considerazione nei confronti del presidente del Consiglio, di cui apprezziamo l'impegno profuso per mettere in sicurezza il Paese e modernizzare la sua economia.

Abbiamo un profondo rispetto per il segretario generale del più importante sindacato italiano, di cui comprendiamo lo sforzo nel tutelare i suoi iscritti e al tempo stesso allargare la base della sua rappresentanza sociale anche ai giovani, ai precari e agli "invisibili" del mercato del lavoro. Ma vorremmo rassicurare entrambi.

Nel metodo, nella sua lunga storia Repubblica non ha mai avuto l'abitudine di "inventare" notizie "assolutamente infondate". Meno che mai per "forzare la mano" di qualcuno. Il compito di un giornale "onesto e indipendente", appunto, è sempre e solo quello di cercare informazioni, verificarle attraverso fonti sicure e attendibili, e poi pubblicarle. È quello che è accaduto anche in questa circostanza.

La notizia di un faccia a faccia tra Monti e Camusso
ci è arrivata da una fonte sicura e attendibile. Ci è stata confermata da ambienti autorevoli. L'abbiamo pubblicata, com'era nostro dovere, senza porci la solita, insinuante domanda che inquina da troppo tempo il discorso pubblico italiano: cui prodest? Non è un nostro problema. Un quotidiano ha un solo "giudice", al quale rendere conto ogni giorno con la qualità della sua informazione: il lettore. Tutto il resto non conta.

Nel merito, né Palazzo Chigi né la Cgil possono smentire (e infatti non lo fanno) che il confronto sulla riforma dell'articolo 18 sia ormai prossimo a una svolta. Questo è, a prescindere dalle posizioni "note e stranote" della Cgil. Non si vede perché pubblicare un retroscena che spieghi questo livello più avanzato della trattativa debba essere interpretato come un tentativo di "far saltare il confronto" o di esercitare "pressioni improprie".

Per confortare questa lettura vagamente complottista, tra l'altro, la Cgil incappa in un palese salto logico. Recita il comunicato: "Prima due fondi di Scalfari, ora una notizia falsa in prima pagina: chi vuole forzare la mano?". La risposta è: nessuno. E non si vede quale possa essere il nesso tra il retroscena di Claudio Tito pubblicato ieri e gli editoriali di Eugenio Scalfari pubblicati la settimana scorsa.

La prima è una notizia, i secondi sono opinioni. Con una notizia non si può polemizzare. Su un'opinione si può discutere, come in effetti ha fatto la Camusso, rispondendo per lettera al nostro giornale e confutando la tesi di Scalfari sul riformismo di Luciano Lama.

Quello che non si può fare è collegare idealmente e strumentalmente le due cose. Come se Repubblica avesse orchestrato una qualche oscura e misteriosa "campagna". Per fare cosa, poi? Mettere la Cgil con le spalle al muro, per aiutare il governo (come sembrava trasparire tra le righe nella lettera di risposta della Camusso al primo editoriale di Scalfari)? O far saltare la trattativa con le parti sociali, per sabotarlo (come sembra emergere dal comunicato stampa di ieri)?

Nessuna forzatura, nessun sabotaggio. Solo libera e corretta informazione. Se poi da tutto questo scaturirà un buon accordo per modernizzare il nostro mercato del lavoro, senza far strage dei diritti ma estendendoli a chi non ne ha alcuno, sarà tanto meglio per l'Italia.

m.giannini@repubblica.it

(13 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/02/13/news/il_dovere_della_notizia-29782508/?ref=HREC1-45


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il Grande Capitale vuole il bis
Inserito da: Admin - Febbraio 21, 2012, 12:14:50 pm

IL COMMENTO

Il Grande Capitale vuole il bis

di MASSIMO GIANNINI

DOPO i riconoscimenti della City e di Wall Street, era fin troppo facile prevedere che Mario Monti avrebbe mietuto successi anche a Piazza Affari. Milano è la sua "casa", in ogni senso. Da anni non è più la "capitale morale" del Paese. Ma resta pur sempre il cuore dell'economia e della finanza italiana. E oggi questo cuore batte palesemente per il Professore. Non è un'opinione, ma una constatazione. Quello di Monti non è il "governo dei Poteri Forti", ma è un fatto che i Poteri Forti sostengono il governo di Monti. I "montiani" non sono tutti banchieri, ma è un altro fatto che tutti i banchieri sono "montiani". Per constatarlo basta ascoltare i pensieri e le parole di quello che una volta si chiamava il "gotha" dell'economia e della finanza italiana, riunito a Palazzo Mezzanotte per sentire il presidente del Consiglio.

Da Giovanni Bazoli a Federico Ghizzoni, da Enrico Cucchiani a Luigi Abete. Da Fulvio Conti a Franco Bernabè, da Marco Tronchetti Provera a Flavio Cattaneo. Non trovi un solo esponente della business community che non guardi al "governo strano" come alla sola ancora di salvezza per un'Italia alla deriva. Soprattutto, che non si affidi alla cultura del "tecnico" per evitare di ricadere nell'impostura del "politico". Un ragionamento che non vale solo per l'oggi. Chi opera in Borsa e muove ogni giorno qualche miliardo di euro, non può non apprezzare qui ed ora l'effetto Monti sui mercati: dal famigerato "Btp Day" del 28 novembre 2011, quando i rendimenti sui nostri titoli di Stato superarono l'8%, i tassi si sono quasi dimezzati e i prezzi sono lievitati. Se rivendesse oggi, chi avesse investito allora guadagnerebbe il 10,2% sui Btp a 5 anni, il 12% sui Btp a 10 anni e addirittura il 16,1% sui Btp indicizzati all'inflazione. Un affarone.

Il passaggio di fase, che non riguarda il presente ma il futuro, lo sintetizza un noto banchiere: "Il problema non è quello che succede oggi, ma quello che succederà nel 2013. Pd e Pdl, Terzo Polo e Idv pensano davvero di tornare in campo come una volta, magari senza nemmeno aver cambiato la legge elettorale? Questo Paese ha bisogno di una transizione più lunga, e solo Monti la può garantire. Non basta la parentesi di un anno per fare tutte le riforme che servono". Un altro banchiere, ancora più noto, si spinge più in là: "Un anno di Monti non basta a noi, ma non basta neanche ai mercati. Perché lo spread non cala più di tanto? Perché gli investitori si fidano dell'Italia di adesso, ma non di quella che uscirà fuori dalle urne del 2013". Una lettura confortata da un indicatore oggettivo: la curva del differenziale tra i tassi sui titoli italiani e quelli tedeschi, da alcune settimane, è scesa in modo strutturale e più marcato sui Btp a 2 anni, che non su quelli a 10. È la conferma che i mercati, paradossalmente, comprano Italia sul breve ma non sul lungo termine.

La "corrente montiana" non agita solo le acque della palude stagnante e inconcludente dei partiti, come dimostrano le fibrillazioni di Palazzo innescate dalla sortita di Walter Veltroni. Attraversa impetuosa, e in questo caso pienamente condivisa, anche l'establishment italiano. Se un ex leader del Pd non vuole "regalare Monti alla destra", quel simulacro nazionale di "borghesia produttiva" non vuole "regalare l'Italia ai partiti". C'è una classe dirigente che considera l'esperimento del Professore un punto di non ritorno. Dopo questo governo niente potrà e dovrà essere più prima. Quindi, bisogna trovare il modo di prolungare la "formula" per almeno un'altra legislatura. Troppe e troppo complesse sono ancora le riforme da fare. Non solo la crescita, il mercato del lavoro, le liberalizzazioni. A questo governo la comunità degli affari chiede di tutto e di più. Abbattere "i privilegi della casta" e fare le "vere privatizzazioni", valorizzare il patrimonio immobiliare e "rifondare la pubblica amministrazione", ripensare le Authority e portare le piccole imprese in Borsa. Non un programma emergenziale. Piuttosto un piano quinquennale. Oltre tutto, da portare avanti "senza ascoltare le parti sociali". Cioè senza farsi bloccare dai sindacati.

Qui si annida la vera incognita, nell'endorsement che il Grande Capitale offre al premier con il suo lunghissimo applauso. Piaccia o no, quello di Monti è vissuto da tanta parte del Paese come il governo delle élite. Un governo che rischia di essere appiattito sulla frontiera di un'altra antipolitica. Stavolta calata dall'alto e non salita dal basso. Ma il risultato non cambia. Il Professore, opportunamente, prova a sottrarsi. L'insistenza con la quale ribadisce il suo mandato "a termine" è credibile: dire che questo governo è "di breve durata", ed ha come orizzonte massimo "la prossima primavera", è un modo per sollecitare la politica a riappropriarsi del suo primato. Il passaggio sui Salotti Buoni è ineccepibile: dire che "in passato hanno tutelato bene l'esistente e consentito la sopravvivenza un po' forzata dell'italianità di alcune aziende, impedendo la distruzione creatrice schumpeteriana", è un modo per accusare i capitalisti in nome del capitalismo.

Ma al fondo, e prima ancora di capire cosa accadrà nel 2013, il problema di Monti è ancora una volta quello di costruirsi un vero "popolo". Di guadagnarsi sul campo, con l'equità fiscale e la giustizia sociale, un consenso che vada ben oltre il pur importante "recinto" di Piazza Affari. L'Italia si è finalmente liberata del governo populista del Cavaliere. Ma aspetta ancora il governo popolare del Professore.

(21 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Un lasciapassare ad personam
Inserito da: Admin - Febbraio 26, 2012, 06:11:20 pm
   
L'ANALISI

Un lasciapassare ad personam

di MASSIMO GIANNINI

Le sentenze si rispettano. Sempre. Sia quando esaudiscono un'aspettativa, sia quando la frustrano. Promanano dai tribunali della Repubblica, dunque da un potere riconosciuto dalla Costituzione. Per questo, anche la sentenza che ha salvato Silvio Berlusconi dalla condanna per il caso Mills merita rispetto. Ciò non toglie che anche questa, come molte altre che l'hanno preceduta, sia l'ultima ferita allo Stato di diritto. L'ennesino salvacondotto "ad personam", che ha permesso all'ex presidente del Consiglio di sottrarsi al suo giudice naturale. I luogotenenti della propaganda arcoriana sono già all'opera. Raccontano la solita favola, che purtroppo abbiamo imparato a conoscere in questi quasi vent'anni di eclissi della ragione. "È finita la folle corsa dei pubblici ministeri", esulta Ghedini. "La persecuzione è fallita, ho subito oltre 100 processi e sono stato sempre assolto", ripete il Cavaliere. Manipolazioni e mistificazioni, ad uso e consumo di un'opinione pubblica narcotizzata e di un'informazione addomesticata.

La prima bugia. La corsa dei pm non è stata affatto "folle". Nella vicenda Mills, come la sentenza della Corte di Cassazione ha già certificato nell'aprile 2010, confermando sul punto le due precedenti pronunce di primo e secondo grado, è scritto nero su bianco: Berlusconi fu il "corruttore" dell'avvocato inglese, che ricevette 600 mila dollari per testimoniare il falso nelle inchieste sui fondi neri depositati nelle società offshore della galassia
Mediaset. Ora sarà necessario aspettare il deposito delle motivazioni, ma anche quest'ultima pronuncia del tribunale di Milano riconferma quell'impianto accusatorio. Mills fu corrotto dal Cavaliere, come il pm Fabio De Pasquale, tutt'altro che folle, ha tentato di dimostrare in questi cinque lunghi anni di processo. E se il Cavaliere non subisce la condanna che merita, questo non accade perché "non ha commesso il fatto", o perché "il fatto non sussiste", come prevedono le formule di assoluzione piena. Ma dipende solo dal fatto che il reato è prescritto. E non è prescritto per caso. Le irriducibili tattiche dilatorie della difesa da una parte, le insopportabili pratiche demolitorie del governo forzaleghista dall'altra, hanno "cucito" la prescrizione sulla figura dell'ex premier.

Qui sta la seconda bugia. Berlusconi ha subito finora non 100 processi, ma 17. Di questi 4 sono ancora in corso: diritti Mediaset, Mediatrade, Ruby e affare Bnl-Unipol. Di tutti gli altri, solo 3 si sono conclusi con un'assoluzione, per altro con formula dubitativa. Tutti gli altri 11, compreso l'ultimo sul caso Mills, si sono risolti grazie alle norme ad personam che lo stesso Berlusconi, usando il pugno di ferro del governo, ha imposto al Parlamento per fuggire dai processi, invece che difendersi nei processi. Depenalizzazione dei reati di falso in bilancio (da All Iberian alla vicenda Sme-Ariosto), estensione delle attenuanti generiche (dall'affare Lentini al Consolidato Fininvest), riduzione dei tempi della prescrizione (dal Lodo Mondadori al caso Mills, appunto). Sono tante le "leggi-vergogna" con le quali il presidente-imputato è intervenuto nella carne viva dei suoi processi, per piegarne il corso e l'esito in suo favore.

Anche la sentenza di ieri, dunque, è il frutto avvelenato di questa scandalosa semina berlusconiana. Un irriducibile cortocircuito tra istituzioni. Un insostenibile conflitto tra poteri. L'esecutivo militarizza il legislativo per sottomettere il giudiziario. Quella stagione, per fortuna, è politicamente alle nostre spalle. Ma i danni collaterali, purtroppo, continuano a scuotere il Paese. In una destra ormai popolata di anime perse, ma non per questo meno irresponsabili, c'è già chi vede in questa prescrizione processuale l'occasione di un riscatto politico per il Cavaliere. Questa sì, è una vera follia. L'incubo berlusconiano l'abbiamo già attraversato, e continuiamo ancora a pagarne il prezzo sulla nostra pelle e con le nostre tasche. A chi oggi continua a protestare a vanvera per il "golpe in guanti bianchi" di Mario Monti, bisognerà ricordare che se in Italia c'è stato davvero un ciclo di "sospensione della democrazia", l'abbiamo vissuto con il governo del Cavaliere. Non certo con quello del Professore.


(26 febbraio 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI L'opa ostile sul professore
Inserito da: Admin - Marzo 02, 2012, 10:58:51 am
LE IDEE

L'opa ostile sul professore

di MASSIMO GIANNINI


È PARTITA l'Opa su Monti. Ed è più ostile di quanto non sembri. Dopo Casini, anche il Cavaliere lancia dunque la sua offerta pubblica d'acquisto sul Professore. Silvio Berlusconi ha avvelenato i pozzi per un quasi ventennio, costruendo un "bipolarismo di guerra" fondato sull'aggressione e la delegittimazione dell'avversario.

E adesso, come per miracolo, si concede una folgorazione tardiva: la Grosse Koalition all'italiana, o all'amatriciana. Pdl, Pd e Terzo Polo, secondo l'ex premier, dovrebbero accordarsi per candidare Mario Monti a Palazzo Chigi anche per la prossima legislatura.

Sulla carta, una proposta tutt'altro che peregrina. L'ipotesi di un "Monti bis" riflette un sentimento diffuso. Prima di tutto nella testa vuota di una politica che non ha più molto da offrire agli elettori, e che per questo si affida al governo tecnico come ad uno scudo dietro al quale ripararsi, in attesa di ricostruire una piattaforma programmatica accettabile e autosufficiente.

E poi soprattutto nella pancia disillusa di un Paese che invece ha molto da chiedere, e che per questo guarda al governo tecnico come a un punto di non ritorno, una riserva imperdibile di competenza e di credibilità alla quale attingere finché si può. Letta in questa chiave, la mossa di Berlusconi è allo stesso tempo astuta e disperata.

L'astuzia consiste nell'ennesima operazione di mimesi politica e di trasformismo mediatico. Il Cavaliere vuol far credere agli italiani che il governo montiano è
la prosecuzione naturale, sia pure con altri mezzi, del governo berlusconiano. "Lo sosteniamo, perché sta portando avanti il nostro programma". Questo ripete l'uomo di Arcore, per spiegare il suo endorsement nei confronti del Professore. Per questo può restare a Palazzo Chigi altri cinque anni. "È uno di noi": questo è il messaggio implicito che la propaganda berlusconiana tenta di trasmettere all'opinione pubblica.

Ma a dispetto della banale vulgata arcoriana, a muovere il Cavaliere non è un improbabile "spirito costituente". È invece la solita intenzione di confondere le acque e nascondere i problemi. Lo dicono i fatti. In questi lunghi anni di avventura cesarista e populista, Berlusconi non ha mai neanche provato a fare una seria riforma delle pensioni (che la Lega gli ha sempre bloccato) né un pacchetto serio di liberalizzazioni (che la ex An gli ha sempre avversato).

Non ha mai neanche provato a far pagare le tasse agli evasori, né a far pagare l'Ici alla Chiesa. Dunque, non si vede proprio in cosa consista la presunta "continuità" di azione e di ideazione tra il governo forzaleghista di ieri e quello "di impegno nazionale" di oggi. Il "decisionismo" moderato di Monti non è in alcun modo assimilabile al radicalismo inconcludente di Berlusconi.

Ma al Cavaliere, oggi, conviene azzardare l'Opa sul Professore per due ragioni. La prima ragione riguarda il centrodestra. Tutti i sondaggi lo dimostrano: senza la Persona che l'ha inventato e costruito a sua immagine e somiglianza, il partito personale si dissolve nel Paese, scivolando verso un drammatico 20% di consensi. Se le condizioni non mutano, il Pdl è condannato a una sconfitta sicura, sia alle amministrative di primavera sia alle politiche dell'anno prossimo.

Non solo: senza il collante del leader onnipotente e carismatico, il partito si disgrega al suo interno, confermando il fallimento della Rivoluzione del Predellino e la natura "mercenaria" di una destra tenuta assieme non dagli ideali, ma solo dagli interessi.

Con l'annessione unilaterale di Monti, il Cavaliere da un lato annega l'inevitabile disfatta elettorale dentro uno schema di Grande Coalizione dove non vince e non perde nessuno, e dall'altro lato rappattuma i cocci di un partito altrimenti destinato a una serie di scissioni a catena.

La seconda ragione riguarda il centrosinistra. Con questo "audace colpo", Berlusconi cerca di rimandare la palla avvelenata nel campo di un Pd già diviso, costretto a dire no, per il 2013, ad un patto per un "governo di salute pubblica" di cui è oggi il principale contraente e garante.

Qui, dunque, sta la disperazione della "svolta" berlusconiana. Una scelta imposta dall'istinto di sopravvivenza, e non certo dal "senso di responsabilità". Fa bene Bersani a sottrarsi immediatamente all'"alleanza innaturale". Farebbe bene Monti a sottrarsi gradualmente all'"abbraccio mortale".

Il Professore deciderà tra un anno se e come "capitalizzare" la sua esperienza politico-istituzionale. Ma una cosa è certa: il "montismo", per come lo stiamo imparando a conoscere, non è e non sarà mai riducibile a una "variante mite" del berlusconismo.

m.giannini@repubblica.it
 

(02 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/02/news/l_opa_ostileprofessore-30795861/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il velo strappato
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2012, 12:21:17 pm
COMMENTO

Il velo strappato

di MASSIMO GIANNINI


"NIENTE birra e panini al numero 10 di Downing Street", era il motto di Margareth Thatcher ai tempi della storica vertenza con i minatori inglesi. Nella Gran Bretagna di Iron Lady con i sindacati non si trattava. Trent'anni dopo, nell'Italia di Mario Monti le porte di Palazzo Chigi sono aperte: con le parti sociali si tratta, e si è trattato a lungo in questi giorni e in queste settimane. Ma il risultato pratico è lo stesso. Se i "corpi intermedi" della società condividono le scelte, tanto meglio. In caso contrario, il governo va avanti comunque.
Lo strappo si è dunque compiuto. Il presidente del Consiglio ha deciso di scrivere la sua riforma del mercato del lavoro sacrificando la Cgil. Un sacrificio pesante, e gravido di conseguenze. È ancora una volta l'articolo 18 a segnare un decisivo cambio di fase, che modifica strutturalmente non solo le relazioni industriali, ma anche le consuetudini politiche del Paese. Dietro alla rottura tra Monti e Camusso c'è molto di più di un dissenso sulle nuove norme che regolano i licenziamenti. C'è la fine della concertazione, che ha scandito i rapporti tra politica ed economia nella Seconda Repubblica. C'è la fine di una costituzione materiale, che dal 1992 ha affiancato la Costituzione formale nelle fasi più acute della crisi italiana.

Nel passo compiuto dal governo c'è una svolta di merito. Anche nella legislazione giuslavoristica italiana cade quello che tutti consideravano l'ultimo tabù. L'articolo 18, cioè l'obbligo di reintegrare il lavoratore, resterà solo nei licenziamenti per motivi discriminatori, e varrà per tutte le aziende, comprese quelle con meno di 15 dipendenti. Ma a questa estensione "dimensionale" della tutela corrisponde una limitazione di quella "funzionale". Nei licenziamenti per motivi disciplinari soggettivi toccherà al giudice decidere se applicare la reintegra o l'indennizzo. E nei licenziamenti per motivi economici oggettivi scatterà solo l'indennizzo. Proprio quest'ultima è stata la molla che ha fatto scattare il no della Cgil.

Sarebbe ingeneroso liquidare questo no come il solito riflesso pavloviano di una deriva sindacale massimalista e conservatrice.
La preoccupazione della Camusso, ancorché non del tutto condivisa da Bonanni e Angeletti, è tutt'altro che infondata. In questo nuovo schema l'articolo 18, di fatto, non viene "manutenuto", ma manomesso. I diritti si trasformano in moneta. Una forzatura paradossalmente accettabile, in un Paese che cresce a ritmi del 3% e crea un milione di posti di lavoro l'anno, o in un Paese che ha un sistema collaudato e coperto di flexsecurity scandinavo. Non nell'Italia di oggi, in piena recessione, con una disoccupazione giovanile del 29,7% e un nuovo sistema di ammortizzatori sociali che entrerà a regime solo nel 2017. In queste condizioni, la "via bassa" della produttività e della competitività scelta finora dalle imprese espone i lavoratori a un rischio oggettivo: qualunque crisi aziendale sarà regolata con i licenziamenti per motivi economici, al "prezzo" di un indennizzo che costerà poco più di un qualunque pre-pensionamento.

Questo aspetto non può essere trascurato, in un sistema produttivo che investe assai poco (negli ultimi dieci anni la quota di ammortamenti dell'industria è calato dal 6 al 3,7% rispetto al fatturato) e che già ora tende a far pagare ai più deboli il conto della crisi.
È un problema serio, che indebolisce il molto di buono che pure c'è nella riforma del governo, dall'introduzione di una tutela universale per chi perde il lavoro al disincentivo alle troppe forme contrattuali che hanno perpetuato finora il massacro sociale del precariato.
E stupisce che il premier giustifichi la decisione di scardinare l'articolo 18 con la necessità di far cadere un impedimento "vero o presunto" agli investimenti esteri in Italia. Non si comprime un diritto, in nome di una "presunzione". Se c'è anche solo un ragionevole dubbio che per le imprese straniere l'articolo 18 sia "un alibi" per non investire, allora le si convince con la forza dei numeri.
E i numeri, oggi, dicono che su 160 mila cause di lavoro pendenti solo 300/500 sono attivate ai sensi di quella norma, che dunque è un falso problema.

Ma nel passo compiuto dal governo c'è anche una svolta di metodo. Monti lo spiega con una chiarezza esemplare. Quando riconosce il dispiacere per la rottura con la Cgil, ma aggiunge che il "potere di veto" non è più consentito a nessuno. Quando racconta di aver cercato fino all'ultimo il consenso di tutti, ma annuncia che al vertice finale di domani "non ci sarà alcuna firma" delle parti sociali su un documento del governo. Quando ammette che il dialogo con le parti sociali "è importantissimo", ma avverte che non può tradursi in una "cultura consociativa" che in passato ha scaricato il costo degli accordi sulla collettività. La cesura, culturale e politica, è chiarissima: il governo consulta, ma non concerta. Il suo unico interlocutore è il Parlamento, ripete più volte il premier. È al Parlamento che questo governo risponde, ed è in Parlamento che questo governo si andrà a cercare i numeri che servono a far passare questa riforma.

È un principio incontestabile. La sovranità del potere legislativo non è in discussione. Neanche (o meno che mai) per un governo tecnico che si regge su una convergenza tripartita, piuttosto che su una maggioranza organica. Ma anche qui ci sono due domande, che non possono essere evase. La prima domanda: il governo ha fatto davvero tutto il possibile per imbarcare anche la Camusso nell'intesa?
Il dubbio è legittimo: l'impressione che in una parte del governo e del Parlamento vi siano forze che animate da una rivincita ideologica spingono per "dare una lezione" alla Cgil è forte, e non da oggi. Come è forte l'impressione che all'esecutivo, in fondo, non dispiaccia presentare a Bruxelles e ai mercati una riforma del lavoro accompagnata dallo "scalpo" del sindacato più importante, da esibire come un trofeo di "guerra".

La seconda domanda: il governo ha chiare le implicazioni politiche di questo strappo? L'accordo separato che esclude la Cgil riapre una drammatica spaccatura dentro il Pd. Il silenzio di Bersani è assordante, e rivela da solo l'enorme imbarazzo di un partito irrisolto, che sarà pure attraversato dalla faglia "socialdemocratica", ma che resta pur sempre l'"azionista di riferimento" del governo Monti.
Il presidente del Consiglio non può non essere consapevole di cosa può accadere nel centrosinistra (e magari anche nella Lega) di qui al voto parlamentare sulla riforma. Caduto un tabù, può cadere anche un governo.

(21 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/21/news/velo_strappato-31926518/


Titolo: MASSIMO GIANNINI La Cgil non ci ha mai fatto controproposte"
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2012, 06:40:04 pm
IL COLLOQUIO

Lavoro, la Fornero: "Possibili modifiche ma no a una riforma ridotta in polpette"

Parla il ministro del Lavoro: "Il disegno di legge non si può snaturare, niente reintegro per i licenziamenti economici.

Le imprese non abusino della flessibilità. 

Sull'articolo 18, il Pd è favorevole a una manutenzione.

La Cgil non ci ha mai fatto controproposte" 

di MASSIMO GIANNINI

 
ROMA - "Questa è una riforma seria ed equilibrata. Spero che i partiti capiscano: modifiche se ne possono fare, ma il governo non accetterà che questo disegno di legge venga snaturato, o sia ridotto in polpette". Schiumati almeno in parte i veleni ideologici della prima ora, Elsa Fornero riflette sullo scontro in atto intorno al disegno di legge che riscrive le regole sui licenziamenti, sui contratti flessibili e sugli ammortizzatori sociali.

E lancia un appello alle Camere: "Questo provvedimento potrà anche subire qualche cambiamento, ma chiediamo che il Parlamento sovrano ne rispetti l'impianto e i principi basilari. In caso contrario dovrà assumersi le sue responsabilità, e il governo farà le sue valutazioni".

Insieme al presidente del Consiglio Monti, il ministro del Welfare è al centro delle polemiche. Dopo la riforma delle pensioni, anche quella del lavoro la vede in prima linea, a fronteggiare le critiche. Come quelle di Susanna Camusso, che a Cernobbio ha contestato a Fornero le sue "lacrime di coccodrillo". "Non lo nego, ci sono rimasta male. Io avevo espresso il mio rammarico per la rottura con la Cgil. Ero stata sincera. Mi dispiace che il mio rammarico e la mia sincerità siano state giudicate con tanto sarcasmo". Distonie personali, che nascondono dissensi politici.

I sindacati contestano il metodo: con lo strappo deciso martedì scorso e ratificato venerdì in Consiglio dei ministri, Monti e Fornero hanno di fatto chiuso l'era della concertazione, relegando le parti sociali a un ruolo di semplice consultazione. Il ministro non nega la portata della svolta, ma la argomenta.

"La linea l'ha tracciata il presidente Monti: le discussioni con le parti sociali si fanno, e sono doverose, ma a un certo punto devono finire, e il governo deve trarre le sue conclusioni, anche se qualcuno non è d'accordo. Su questo, da parte nostra, c'è assoluta fermezza. Il fatto che il premier abbia ribadito che l'approvazione del disegno di legge avviene "salvo intese" ha un significato meramente tecnico. Vuol dire che ci riserviamo di scrivere le norme nel modo più chiaro e più completo possibile. Non vuol dire invece che su certe norme sia ancora in corso una trattativa. Non vuol dire che la discussione è ancora aperta, e che per un'altra settimana riparte la giostra, e qualcuno è ancora in tempo per salirci sopra. Il provvedimento è quello, e non cambierà fino al suo approdo in Parlamento".

Ma i sindacati (a questo punto non più solo la Cgil ma anche la Cisl, la Uil e la Ugl) contestano soprattutto il merito. Cioè la riscrittura dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che nella sua nuova versione esclude la possibilità di reintegro in caso di licenziamenti per motivi economici oggettivi. Anche su questo punto, Fornero rinnova la linea della fermezza.

"Abbiamo il massimo rispetto per il Parlamento, che valuterà il disegno di legge e deciderà se e come cambiare. Ma per quanto riguarda il governo, è chiaro che non accetteremo modifiche che snaturino il senso delle singole norme. E sull'articolo 18 il senso della nostra riforma è chiaro: nei licenziamenti per motivi economici oggettivi è previsto l'istituto dell'indennizzo, e non quello del reintegro. Si possono fare correzioni specifiche, ma questo principio-base della legge dovrà essere rispettato".

È proprio questo, tuttavia, il punto di frizione e di rottura maggiore con la Cgil, e anche con il Partito democratico. Il ministro del Welfare capisce, ma non condivide. "Io non voglio accusare nessuno, ci mancherebbe altro. Dico solo che il Pd si è più volte dichiarato disponibile a una "manutenzione" sull'articolo 18, anche se noi non abbiamo mai capito cosa questo significhi nella pratica. Quanto alla Cgil, non ci ha mai fatto controproposte... ".

Il leader della Uil Angeletti, tuttavia, nei giorni scorsi ha rivelato un retroscena che fa riflettere. I tre sindacati insieme avevano presentato al premier un pacchetto completo e già blindato, che anche per i licenziamenti economici (oltre che per quelli disciplinari) prevedeva il cosiddetto "modello tedesco", cioè la facoltà del giudice di decidere tra il reintegro e l'indennizzo del lavoratore. Monti avrebbe rifiutato l'offerta, confezionando un pacchetto che in realtà, a conti fatti, scavalca addirittura "a destra" il modello tedesco.

Perché questa forzatura? Fornero racconta una storia diversa: "La Cgil non si è mai spinta fin lì - sostiene - e quanto al modello tedesco noi non scavalchiamo nessuno. Le norme scritte in una legge ordinaria si interpretano, l'articolo 18 non è scritto nella Costituzione. Il nostro provvedimento prevede espressamente che le aziende non possano ricorrere strumentalmente a licenziamenti oggettivi o economici che dissimulino altre motivazioni. In questi casi, se il lavoratore proverà la natura discriminatoria o disciplinare del licenziamento, il giudice applicherà la relativa tutela. Non solo: il presidente Monti, nella stesura definitiva del ddl, si è impegnato a evitare ogni forma di abuso in questa materia. Dunque, nessuna macelleria sociale. Non distruggiamo i diritti di nessuno".

Per questo, secondo il ministro del Welfare, il Parlamento nell'esame del provvedimento dovrebbe rispettarne l'equilibrio. "Noi siamo sereni. Pensiamo di avere dalla nostra la forza e la bontà delle argomentazioni. Come sempre, avremmo voluto fare di più. Ma le assicuro che anche noi tecnici abbiamo un cuore, e sentiamo fino in fondo il disagio che pesa sulla vita di tante persone. Non è solo la Cgil ad avere una coscienza rispetto ai lavoratori, agli operai, ai giovani, ai disoccupati. Con questo disegno di legge, per la prima volta dopo tanti anni, cerchiamo di creare le condizioni per aumentare l'occupazione, rimettiamo mano agli ammortizzatori sociali".

L'ampiezza dell'intervento c'è, in effetti. Ma non si può nascondere la pochezza delle risorse. Con meno di 2 miliardi non si fa molto, per ridisegnare un sistema di tutele universali per tutti coloro che finora ne sono stati sprovvisti. "È vero - ammette Fornero - su questo le do ragione. Ai precari avremmo voluto dare di più, ma un po' d'indennità con la mini-Aspi gliel'abbiamo pur data. Tra niente e un po', le chiedo, cosa è meglio? La verità è che anche in questa riforma, come nelle altre che abbiamo fatto, abbiamo dovuto e dobbiamo tenere conto di tanti interessi contrapposti e di altrettanti opposti estremismi. In tanti, troppi dimenticano che il Paese è in grandissima difficoltà, e le risorse a disposizione sono davvero poche. Per alcuni la grande riforma del mercato del lavoro è abolire del tutto l'articolo 18, per altri è abolire tutti i contratti flessibili. Noi ci muoviamo su questo sentiero, che è molto, molto stretto".

Il sentiero è stretto anche dal punto di vista politico. Bersani si prepara a un braccio di ferro parlamentare per modificare il provvedimento, Alfano giudica indebolito il governo per via della scelta rinunciataria del disegno di legge. "Un decreto legge - obietta Fornero - sarebbe stato una forzatura, data la vastità dei temi contenuti nel provvedimento. Ci sono regole precise, sulla necessità ed urgenza, e le regole non possono essere bypassate. La legge delega avrebbe rischiato di avere tempi persino più lunghi del ddl. Per questo abbiamo optato per quest'ultimo strumento. Ma guai se questo venisse letto come un cedimento, che consente ai partiti di fare melina, di allungare i tempi e di annacquare la riforma. Sarebbe un disastro per l'Italia, anche sui mercati".

Dunque, la riforma va approvata in fretta, e non va depotenziata. Ammesso che sia una riforma "potente" e capace di creare posti di lavoro, e non una battaglia simbolica per abbattere un tabù, o peggio un pretesto offerto alle imprese per difendere la competitività licenziando i lavoratori invece che aumentando gli investimenti.

Il ministro del Welfare non si sottrae, e dopo aver esortato il Parlamento si rivolge anche agli industriali: "Non mi aspetto certo licenziamenti di massa, come effetto della nostra riforma. Purtroppo mi aspetto i licenziamenti legati alla recessione, che già c'erano prima e che continueranno ad esserci, perché la crisi non è affatto finita. Ma proprio per questo rinnovo l'appello ai nostri imprenditori: non abusate della buona flessibilità che la riforma introduce. Sarebbe il modo più irresponsabile di farla fallire".

m.giannini@repubblica.it

(26 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2012/03/26/news/intervista_fornero-32207104/


Titolo: GIANNINI Riforma del lavoro, giustizia e Rai le mosse del premier da Tokyo
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2012, 05:09:00 pm
RETROSCENA

Riforma del lavoro, giustizia e Rai le mosse del premier da Tokyo

Il governo studia una exit strategy sull'articolo 18. "Voglio unire, non dividere", dice Monti.

Severino dirà no alla proposta di abolire la concussione. Sul dg di Viale Mazzini scelte in "totale autonomia"

di MASSIMO GIANNINI


"IO VOGLIO unire, non dividere. Voglio trovare soluzioni che facciano avanzare il Paese, non creare problemi che spacchino partiti o parti sociali...". Mario Monti è appena rientrato dalla cena ufficiale con le autorità giapponesi, e al telefono con la squadra dei suoi collaboratori di Palazzo Chigi tiene il briefing di fine giornata.

Una giornata che ruota intorno a due "fusi" diversi. A Tokyo mancano pochi minuti alla mezzanotte. A Roma sono quasi le cinque del pomeriggio. In Giappone il presidente del Consiglio incassa l'ennesimo successo in termini di credibilità e prestigio internazionale. In Italia registra invece un ulteriore inasprimento dei rapporti politici con la sua non-maggioranza, e in particolare con il Pd.

Per questo, sia pure a dodicimila chilometri di distanza, Monti ci tiene a raffreddare il clima. "Non ho mai inteso mancare di rispetto alle forze politiche - chiarisce con il suo 'team' - e sono io il primo a lavorare per cercare misure condivise. Anche sulla riforma del mercato del lavoro".

Dopo l'evocazione del motto andreottiano sul "meglio tirare a campare che tirare le cuoia", ora la coalizione tripartita fibrilla per il nuovo avvertimento montiano che rimbalza dall'Asia: "Il governo ha il consenso, i partiti no". Benzina sul fuoco delle polemiche, in un momento in cui le fiamme sono già altissime per lo scontro sull'articolo 18. Il premier osserva: frasi estrapolate da ragionamenti più ampi, che non volevano "irridere nessuno".

Monti sa bene che non può fare a meno del sostegno dei partiti. E come ha provato a spiegare a più riprese a tutti i suoi interlocutori, prima e durante questo viaggio asiatico, non vuole in alcun modo che nel Palazzo e nel Paese si generi la sensazione di una "asimmetria politica": con "un Pdl che supporta il governo, e un Pd che lo sopporta". Sarebbe inaccettabile. Ma è quello che rischia di succedere, se non si riporta il conflitto sui licenziamenti su un terreno di ragionevolezza.

Non è facile. Per ragioni politiche: la svolta decisionista e post-concertativa voluta dal premier sull'articolo 18 ha creato una frattura oggettiva con il centrosinistra e con il sindacato. E poi anche per ragioni personali: si racconta che Monti sia rimasto "profondamente dispiaciuto" per le parole di Bersani, che mercoledì della scorsa settimana, dopo la prima rottura con le parti sociali, alla direzione del Pd ha detto "il presidente del Consiglio non ha mantenuto le promesse".

Per un politico di professione sarebbe normale. Per il Professore non lo è affatto. "Si può non condividere una mia proposta, ma non si può dire che non mantengo la parola...", si è sfogato allora con i suoi collaboratori. Secondo la sua ricostruzione dei fatti, al vertice di maggioranza di venerdì 16 marzo, immortalato dalla famosa foto di gruppo trasmessa da Casini su Twitter, il premier aveva spiegato per filo e per segno la proposta sull'articolo 18, compresa la riscrittura della norma sui licenziamenti per motivi economici senza più la possibilità del reintegro.

Comunque siano andate le cose, ora i "pontieri" di Palazzo Chigi e quelli di Largo del Nazareno (Dario Franceschini in testa) sono al lavoro per ricucire lo strappo. Monti ci tiene a lanciare segnali distensivi, e lo ripete al telefono da Tokyo ai suoi luogotenenti: "Sono convinto che il varo di questa riforma sia importante, nell'interesse dei lavoratori, dei giovani, dei precari, dei disoccupati. Confido nel senso di responsabilità di tutti". Ma perché il varo di questa riforma unisca e non divida coalizione e partiti, come il premier auspica, è necessario sciogliere il nodo della tutela prevista nei "licenziamenti oggettivi o economici".

Il punto è delicatissimo. Monti al telefono mette a punto la "road map" delle prossime ore. Lo staff della Presidenza del Consiglio si riunirà oggi, insieme al ministro del Welfare Fornero e con gli uffici giuridici del Quirinale, per ragionare sulla stesura del testo del ddl. Lunedì sera, al rientro dall'Estremo Oriente, il premier troverà quel testo sulla sua scrivania, e deciderà il da farsi sul capitolo "Disciplina sulla flessibilità in uscita e tutele del lavoratore".

Si devono vagliare rilevanti profili di costituzionalità, sui quali si stanno applicando i giuristi del Colle. Si possono esaminare graduazioni diverse nell'applicazione delle tutele tra vecchi e nuovi assunti, sulle quali sta facendo approfondimenti il ministro Fornero. Si possono studiare correttivi alla fase giurisdizionale, che nell'accertamento della natura dei licenziamenti impugnati potrebbero assegnare un ruolo diverso al giudice, sui quali si sta esercitando il Guardasigilli Severino.

Una cosa è certa, e Monti lo ribadisce ai suoi anche da Oltre-Oceano: "Qui non c'è qualcuno che deve fare passi indietro, semmai tutti insieme dobbiamo fare un passo avanti". Il premier vuole evitare una "conta" in Parlamento sull'articolo 18, che spaccherebbe la maggioranza e i partiti che la compongono. Sarà il governo, pare di capire, a prendere un'iniziativa autonoma. Prima o all'avvio dell'iter parlamentare. Proprio per far sì che sulla riforma si arrivi a un via libera condiviso, almeno a livello politico.

I rapporti di forza dentro la maggioranza devono essere salvaguardati. Una logica di vincitori e vinti sarebbe esiziale per la vita stessa dell'esecutivo. A dispetto delle apparenze, che riflettono il grande gelo tra Monti e Bersani, il capo del governo percepisce il beneficio di un Pd convinto e coeso alle sue spalle, e intuisce il maleficio di un Pdl che aspetta solo di potergli rinfacciare un "cedimento alla sinistra" sui licenziamenti, per imporgli un cedimento uguale e contrario sulle questioni che stanno più a cuore alla destra. Due su tutte: la giustizia e la Rai. Sono dossier velenosi, di cui Monti conosce la pericolosità. Anche per questo continua a monitorarli anche dall'altra parte del mondo.

Sulla giustizia, dopo l'incidente della telefonata di Cicchitto e alla vigilia del vertice di domani tra la Severino e i tecnici del tripartito, il "mandato" è chiaro: non si accettano mercanteggiamenti, e se qualcuno pensa di bussare alla porta del governo per chiedergli di far suo l'emendamento Pd che abolisce la concussione e cancella i processi in corso (a partire da quello di Silvio Berlusconi sul caso Ruby per arrivare a quello di Filippo Penati sul caso Falck) ha sbagliato indirizzo.

Sulla Rai i tempi sono più lunghi e se ne riparlerà dopo il primo turno delle amministrative, ma anche qui la linea è tracciata: il premier vaglierà i nomi del nuovo cda e sceglierà il nuovo direttore generale (resistendo alle pressioni di chi in queste ore punta a una riconferma di Lorenza Lei) in totale autonomia dalle segreterie di partito.

Queste sono le "pratiche" che lo aspettano lunedì prossimo, al suo ritorno a Roma. Pratiche roventi che per un attimo, sabato scorso, avevano quasi convinto il premier a rinunciare al suo viaggio in Asia. Poi ha prevalso un altro ragionamento, con il quale Monti conclude il suo briefing telefonico: "Dopo Wall Street e la City, il Nikkei e soprattutto la Cina sono troppo importanti per riaffermare la credibilità dell'Italia e ristabilire la fiducia dei mercati".

L'operazione sembra riuscita. L'America di Obama, che ha decretato a suo tempo la "liquidazione" per via finanziaria del governo Berlusconi (al quale non ha mai perdonato i rapporti con Putin e Gheddafi), ha già ricominciato a "comprare Italia", e ora pare ci sia addirittura una lista di multinazionali già pronte a investire da noi, in attesa di capire l'esito della partita sui licenziamenti.

In Europa il premier ha giocato di sponda con le istituzioni comunitarie e con la Bce. Ha potuto contare su Mario Draghi, il cui ragionamento è stato chiarissimo: se aderite al "fiscal compact", per la Banca centrale è più facile lanciare il maxi-piano di rifinanziamento per le banche. E se passa questo, le banche italiane faranno provvista all'Eurotower all'1%, e con quei fondi potranno ricominciare a comprare Btp, accelerando la riduzione dello spread. È quello che è accaduto e sta accadendo. Ha potuto contare sul sostegno di Angela Merkel, presso la quale è interceduto personalmente Papa Ratzinger.

Per completare l'operazione "Salva-Italia" all'estero mancava solo l'Asia. "E l'Asia sta rispondendo con entusiasmo", è l'ultimo messaggio che arriva da Tokyo, quando lì è quasi l'una di notte e in Italia sono le sei del pomeriggio. Anche grazie al lavoro di un "ambasciatore" che finora è rimasto dietro le quinte, ma che ha aiutato e sta aiutando Monti passo passo, nella prossima due giorni cinese: Romano Prodi, che a Pechino è più apprezzato e coccolato che a Roma. Che sia il destino dei Professori prestati alla politica? Tocca a Monti, da martedì prossimo, dimostrare il contrario.

m.giannini@repubblica.it
 

(29 marzo 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/03/29/news/mosse_monti-32375828/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il riformismo della democrazia
Inserito da: Admin - Aprile 05, 2012, 10:39:34 am
L'EDITORIALE

Il riformismo della democrazia

di MASSIMO GIANNINI


UNA RIFORMA "di rilievo storico". Mario Monti saluta così la nuova disciplina del mercato del lavoro. Un giudizio fin troppo enfatico.
La Storia va sempre maneggiata con cura. Ma la soddisfazione del presidente del Consiglio è comprensibile. In poco più di due mesi, il suo governo è riuscito dove sette governi precedenti avevano fallito in poco meno di vent'anni.

Il definitivo via libera al testo del disegno di legge, ottenuto con la mediazione della maggioranza tripartita e la non-opposizione della Triplice sindacale, è un traguardo ad alta intensità politica, anche se ad incerto impatto economico. Un primo passo avanti sulla via di una modernizzazione ancora troppo lontana, e di un Welfare ancora troppo povero.

Come sempre, in questi casi si redige la lista dei vincitori e i vinti. Mai come stavolta ha vinto il riformismo. La pratica più difficile, ma più promettente. Quella della democrazia, che comporta la fatica del confronto, se serve dello scontro, e che alla fine decide senza rinunciare per principio alla ricerca del consenso. Quella del buonsenso governante, che respinge i veti ma sa ricomporre i conflitti in quello che una volta si sarebbe definito "un equilibrio più avanzato". Quella del metodo concertativo, che può anche prescindere dall'assenso preventivo delle parti sociali, ma riconosce come valore la coesione nazionale.

Monti ha avuto il merito di non farsi imprigionare dall'algida camicia di forza del tecnico, che vive e opera nel vuoto della statica professorale e della meccanica mercatista, senza curarsi della dinamica sociale e della logica politica. Ha avuto l'intelligenza di ascoltare e il coraggio di correggere la sua impostazione iniziale, su un tema cruciale e non solo simbolico come l'articolo 18 che, piaccia o no ai liberisti un tanto al chilo, chiama in causa i diritti del lavoro grazie ai quali un individuo diventa un cittadino.

L'esito non era affatto scontato. La zavorra ideologica con la quale era stata caricata la questione dei licenziamenti rischiava di trascinare nel gorgo l'intera riforma. Azzerando e annullando anche tutto quello che c'era di buono. L'avvio di una lotta al drammatico dualismo occupazionale, che vede padri protetti e figli senza tutele. L'inizio di una guerra senza quartiere all'apartheid del precariato, con l'incentivo a recuperare la centralità del contratti a tempo indeterminato e il disincentivo ad abusare dei co. co. pro e delle finte partite Iva.
 
La riscrittura dell'articolo 18, nella prima versione annunciata dal governo il 21 marzo scorso, era inaccettabile perché ingiusta.
Introduceva una disparità clamorosa tra il diritto dell'azienda a licenziare e quello del lavoratore a non essere licenziato. Declinava in modo del tutto arbitrario le forme di tutela, escludendo a priori quella "reale" del reintegro nei licenziamenti illegittimi per motivi economici.

Impuntarsi su questa ingiustizia sociale, e impiccarsi a questa antinomia giuridica, avrebbe rischiato di mettere a repentaglio l'esistenza dell'intero provvedimento (oltre che la vita dello stesso governo). Monti l'ha capito, e ha modificato la norma prima ancora di trasmettere il disegno di legge al presidente della Repubblica.

Un atto di responsabilità, oltre che di equità. Il compromesso finale è accettabile, anche se per una valutazione oggettiva occorrerà leggere il testo del provvedimento per chiarirne i punti ancora sospesi, a partire dall'onere della prova nel "nuovo" processo del lavoro.
 
Bersani ha avuto il merito di dar voce a questo bisogno di giustizia sociale, intestandoselo fino in fondo e a prescindere dalla battaglia di Susanna Camusso. È riuscito a convincere il premier a reintrodurre l'istituto del reintegro e a dare più poteri al giudice nell'accertamento della manifesta insussistenza o infondatezza del licenziamento economico.

Soprattutto, è riuscito a tenere unito il Pd, su una posizione critica ma costruttiva perché propositiva. Non si è lasciato attraversare dalla faglia socialdemocratica interna al partito né stritolare nella cinghia di trasmissione al contrario rispetto alla Cgil. Anche questo esito non era affatto scontato. La prospettiva di un'implosione del Pd, dilaniato tra le due anime del socialismo europeo e del cattolicesimo democratico, era tutt'altro che irrealistica.

Il segretario, questa volta, è riuscito a scongiurarla, proprio sulla frontiera più calda per l'intera sinistra. Il partito ha retto, su una linea progressista e riformista. E proprio questa è stata la chiave per convincere Monti a cedere e costringere Alfano e Casini a negoziare, senza contropartite di altra natura sul piano economico (come la flessibilità totale in entrata) e "contro-natura" sul piano politico (come la giustizia e la Rai).
 
Chi sicuramente ha perso, in questa partita ad alto rischio, è la nutrita schiera degli schumpeteriani d'accatto che, attraverso la mistica della "distruzione creatrice" del capitale, puntavano a consumare la loro vendetta ideologica e post-novecentesca contro il lavoro, e quindi contro la sinistra e il sindacato. Lo stormo dei falchi pidiellini che puntavano ad annettere Monti alla destra berlusconiana, che citavano a sproposito Giacomo Brodolini e Marco Biagi, che evocavano il decreto di San Valentino dell'84 e il titolo dell'Avanti nel primo centrosinistra del '63: "Da oggi ognuno è più libero".

Purtroppo non fu vero allora. Per fortuna non è vero oggi, almeno sul versante della libertà di licenziare. L'operazione revanchista non è riuscita. Cgil, Cisl e Uil, recuperando un accettabile livello di unità sindacale, hanno respinto l'attacco, dimostrando che la loro "resistenza" era mirata alla collaborazione e non alla conservazione.
 
Ora la riforma può attraversare in fretta e senza danni l'iter parlamentare. Anche questo è un valore aggiunto, come ha spiegato il premier: dopo la manovra anti-deficit, la stretta sulle pensioni e le liberalizzazioni, il fattore tempo nell'approvazione della legge sul lavoro conta quasi quanto il suo contenuto. Tuttavia, incassato il dividendo politico della riforma, quello che manca è ancora e sempre il dividendo economico.

Affermare che questa legge servirà "a creare posti di lavoro e a rilanciare la crescita", come hanno sostenuto il presidente del Consiglio e il ministro Fornero, è purtroppo velleitario, per non dire illusorio. In un ciclo di recessione acuta, questa riforma non basterà a sostenere l'occupazione e a rilanciare il Pil. Tra l'altro, con un sistema di ammortizzatori sociali e di politiche attive per il lavoro finanziati con poco più di 1,7 miliardi non si va lontano.
 
Lo sviluppo economico è altrove. E questa è la missione che tocca al governo, ora che l'"alibi" dell'articolo 18 è stato rimosso, portandosi via il grumo di polemiche e di risentimenti che da sempre lo accompagnavano. Aspettiamo (con pochissima fiducia) l'invasione delle multinazionali straniere, finalmente pronte a investire in un'Italia più "flessibile".

Proprio nel giorno della riforma "di rilievo storico", colpisce un'altra notizia: la Danieli, colosso della siderurgia italiana, annuncia un gigantesco piano di investimenti in Serbia. Ed elenca i motivi che la inducono a non scommettere sull'Italia: nell'ordine, "costo delle materie prime, costo della manodopera, scarsità di tecnici e ingegneri, cuneo fiscale e scarsa competitività del Sistema-Paese".

La rigidità del mercato del lavoro "in uscita" non figura nell'elenco. Come sostiene il ministro Fornero, "l'articolo 18 è stata una grande conquista, ma il mondo è cambiato". Come dimostra il caso Danieli, il vero tabù italiano non è l'articolo 18 che c'era, ma la crescita che non c'è.

m.giannini@repubblica.it
 
(05 aprile 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI - La fine del Nirvana
Inserito da: Admin - Maggio 02, 2012, 10:24:02 am

IL COMMENTO

La fine del Nirvana

di MASSIMO GIANNINI


"NON TIRERÒ a campare", aveva promesso Monti il 26 aprile, con una sorprendente parafrasi del vecchio motto andreottiano. Da allora è passato poco più di un mese. E il presidente del Consiglio, in effetti, ha dato al Paese e al Palazzo l'impressione di una preoccupante deriva dorotea. Fiaccato dalla dolorosa polemica sulla riforma del mercato del lavoro, bersagliato dalla velenosa Vandea fiscale cavalcata dai populisti di ogni colore, logorato dallo speculare ritorno di fiamma dei partiti, il premier ha rischiato un pericoloso galleggiamento. Per questo, da giorni, si aspettava un colpo d'ala, che riportasse il "governo di impegno nazionale" all'altezza del suo compito e l'Italia in sicurezza sui mercati internazionali.

Proprio nella settimana in cui è risuonata l'eco sinistra delle elezioni anticipate, quel colpo d'ala è finalmente arrivato. Il varo della "spending review" messa a punto dal ministro Giarda, e la nomina di Enrico Bondi come commissario straordinario per la razionalizzazione della spesa pubblica, segnano una svolta radicale nel cammino del risanamento e nel destino del governo. Cambia la quantità dei sacrifici finanziari che saranno richiesti agli italiani di qui al 2013. Cambia la qualità dei rapporti politici che accompagneranno la strana maggioranza fino al termine della legislatura.

Dal punto di vista economico, l'operazione di taglio della spesa corrente "comprimibile", cioè quella che non riguarda pensioni, stipendi e costo degli interessi sul debito, sancisce un'inversione di rotta attesa da anni. Dopo una manovra fin troppo infarcita di aumenti di imposta, il Professore trova il coraggio di compiere l'atto più politico che esista: incidere con il bisturi sul corpo amorfo della spesa improduttiva, nella quale si annidano non solo gli sprechi, ma anche e soprattutto le rendite di sottogoverno e le clientele partitiche ed elettorali.

Una missione che tentò meritoriamente, e purtroppo inutilmente, Tommaso Padoa-Schioppa, e che ora torna d'attualità con un obiettivo arduo ma ambizioso: risparmiare 4,2 miliardi in soli sette mesi.

Si poteva osare di più? È possibile.

Nel lungo periodo, la spesa "non incomprimibile" è cifrata da Monti in 295 miliardi. Nel breve, è stimata in 80 miliardi. I tagli potenziali, dunque, sono tanti. Ma l'importante è cominciare, e non rassegnarsi all'inerzia degli inasprimenti fiscali, né cedere al ricatto conservativo delle amministrazioni. E a questa impresentabile destra italiana, che ora si indigna per la nomina di Bondi sostenendo che non serve il "tecnico dei tecnici" per ridurre i costi del Leviatano statale, bisognerà pur chiedere dov'era e cosa faceva, mentre governava il Paese per quasi undici anni sugli ultimi diciotto, e la spesa corrente cresceva indisturbata del 34 per cento.

Il grande risanatore dei crack Ferruzzi e Parmalat avrà un compito difficile, e quasi proibitivo. Ma se c'è una chance di farcela, Bondi è l'uomo giusto. Competenza e coraggio non gli mancano. Per piegare le resistenze partitocratiche e burocratiche avrà bisogno di un sostegno granitico del governo che lo ha nominato, e di un appoggio politico delle parti sociali e delle forze più responsabili presenti in Parlamento. La stessa cosa vale per gli altri "consulenti" scelti dal premier, da Francesco Giavazzi che dovrà monitorare i tagli degli aiuti alle imprese, a Giuliano Amato che dovrà occuparsi del finanziamento ai partiti. È nell'interesse dell'Italia e dei contribuenti, che la "spending review" abbia successo. Solo così sarà possibile scongiurare l'aumento di due punti dell'Iva, già programmato per ottobre, e magari trovare risorse aggiuntive da restituire alle famiglie.

Dal punto di vista politico, la svolta di Monti è ancora più netta. La revisione dei criteri di spesa, per il premier, è l'occasione per regolare qualche conto sospeso con chi, nelle piazze o nelle aule di Montecitorio, in questi giorni ha irresponsabilmente gettato benzina sul fuoco della protesta anti-tasse. Il decreto Salva-Italia è troppo sbilanciato dal lato delle imposte, che assorbono i due terzi dell'intera manovra correttiva. La pressione fiscale è a livelli eccezionalmente alti, e crescerà ancora l'anno prossimo fino al livello record del 45,4 per cento del Pil. Ma in questo clima di perdurante instabilità finanziaria in Europa, e di destabilizzante tensione sociale in Italia, quello che sta facendo la destra è vergognoso, oltre che pericoloso.

La Lega di Maroni, il barbaro sognante che si spaccia "moderato", sobilla i comuni a non pagare l'Imu.

Il Pdl di Alfano, il segretario di Berlusconi che si proclama "responsabile", propone a chi ha pagamenti in sospeso dalla Pubblica Amministrazione di compensarli non versando le imposte fino ad esaurimento del suo credito. Mancava solo Giulio Tremonti, l'ex ministro dei condoni e dei tagli lineari, a lamentare "tasse e aumenti" e a evocare "un buco da 20 miliardi". Parole usate come pietre, in un discorso pubblico già fin troppo esasperato, da chi ha governato in questi ultimi tre anni e mezzo, e ha portato il Paese a un passo dalla bancarotta etica, politica ed economica. Guido Carli, a suo tempo, li avrebbe definiti "atti sediziosi". Oggi, più prosaicamente, possiamo definirli penosi esercizi di bassa demagogia, in cui si mescolano cinismo, opportunismo e "peggiorismo". Monti finalmente sbatte in faccia a questa sciagurata destra forzaleghista tutto il peso delle sue responsabilità storiche. Marca una cesura definitiva con Berlusconi, smascherando le sue nefandezze sui campi che gli sono da sempre più cari. Sulle tasse, gli ricorda le disinvolte campagne a favore dell'evasione e l'allegra cancellazione dell'Ici che oggi rende necessaria le reintroduzione dell'Imu.

Sulla giustizia, gli ricorda la "corruzione dilagante", cioè la vera "tassa occulta" che soffoca l'economia.

Sulle televisioni, gli ricorda lo scempio della Rai, del tutto priva di "logiche di trasparenza, merito e indipendenza dalla politica".

Anche solo per questa operazione-verità, gli italiani devono essere grati al Professore. Comunque vada, avrà avuto il merito di aver spazzato via il bugiardo "Nirvana" nel quale ci ha trascinato, per troppi anni, il Cavaliere.

m.giannini@repubblica.it
 
(01 maggio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/05/01/news/commento_giannini-34257556/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Un altro Paese
Inserito da: Admin - Maggio 22, 2012, 03:43:33 pm
L'EDITORIALE

Un altro Paese

di MASSIMO GIANNINI

L'ITALIA cambia colore. Dal weekend elettorale, macchiato dal sangue innocente di Brindisi e dal sisma devastante di Ferrara, nasce una nuova geografia politica. Certo, c'è lo sfondamento trionfale di Grillo a Parma. Ma prima di questo, c'è il mutamento strutturale dei rapporti di forza tra i poli. Fino a ieri, tra i comuni con più di 15 mila abitanti, il centrodestra ne amministrava 98, il centrosinistra 56. Da oggi è l'opposto: il centrosinistra governa 95 città, il centrodestra solo 34. È finito un ciclo, anche se un altro non è ancora cominciato.

Tra primo e secondo turno, questo voto locale riflette in pieno la voglia irriducibile di cambiamento che attraversa il Paese su scala nazionale. Un bisogno di voltare pagina che avviene solo in parte "dentro" il sistema, ma che per il resto alligna non necessariamente "contro", ma sicuramente "fuori" dal sistema. Liquidato frettolosamente come "anti-politica", il fenomeno è in realtà molto più articolato e complesso. Nasconde piuttosto una domanda di "altra politica", alla quale i partiti tradizionali non sembrano più in grado di dare risposta.

Lo dice il pericoloso aumento dell'astensionismo, che ai ballottaggi è cresciuto di 13 punti rispetto al primo turno di due settimane fa e di 11 punti rispetto al secondo turno del 2007. Se ad una tornata locale in cui il cittadino può eleggere direttamente il suo sindaco vota solo il 51,4%, vuol dire davvero che quella che un
tempo si sarebbe definita la frattura tra Paese reale e Paese legale è ormai quasi insanabile, e che la sfiducia non riguarda più solo le nomenklature costose e parassitarie, ma la stessa democrazia rappresentativa.

Lo conferma il clamoroso successo del Movimento 5 Stelle, che va molto al di là della conquista finale nella "Stalingrado" emiliana, dove Pizzarotti ha quasi doppiato i voti del rivale Bernazzoli: vuol dire che ha intercettato non solo i consensi dirottati dal Pdl, ma anche quelli più arrabbiati del Pd. Il grillismo ha fatto il pieno quasi ovunque, da Genova (oltre il 15%) a Verona (9,5%), da La Spezia (10,7%) ad Alessandria (11.7%). Pur presentandosi solo in 101 comuni su 941, dopo il primo turno l'Istituto Cattaneo lo accreditava di un 8,7% a livello nazionale. Dopo i ballottaggi c'è già chi gli accredita addirittura un 20%. Probabilmente il dato è sovrastimato. Sicuramente l'offerta politica dei candidati sindaci scelti da Grillo è più credibile di quella che lui stesso propone per il governo del Paese.

Ma il dato politico è incontrovertibile: il comico genovese ha stravinto. E stavolta non c'è niente da ridere. I suoi competitori hanno ora il dovere del confronto: l'etichetta snobistica da "guitto" sfascista e qualunquista non può più servire. Lui stesso ha ora il dovere della responsabilità: la rendita facile e demagogica dei Vaffa-day non può più bastare.

L'Italia "azzurra" non esiste più: la scomparsa del Pdl dal territorio è più stupefacente persino di quella del suo padre-padrone dal Palazzo. Il partito del popolo delle Libertà ammaina la sua bandiera ovunque, dalle sue roccaforti del Nord alle sue casematte del Sud. E fa quasi tenerezza Angelino Alfano, il povero "segretario senza il quid", che vede capitolare la trincea proprio nella sua città natale, Agrigento. L'Italia "verde" va scomparendo: la disfatta della Lega è più sorprendente persino della resistenza del Senatur. E fa quasi sorridere Maroni, il povero "barbaro sognante", che tra le macerie giura "la traversata nel deserto è finita", senza capire che invece comincia solo adesso. L'asse Berlusconi-Bossi muore qui, insieme all'uso politico della Questione Settentrionale che la "premiata ditta" ne ha fatto in questi lunghi anni, nascondendo i più biechi interessi affaristici dietro i vessilli ideologici del populismo e del federalismo.

L'Italia "rossa" resiste, e semmai riallarga i suoi confini nelle zone in cui li aveva ridotti da anni. Ha ragione Bersani a rivendicare il risultato. Ma al leader del Pd non può sfuggire che il suo partito al momento vive e vegeta soprattutto grazie ai collassi dell'avversario. Non può sfuggirgli che il "grande partito dei progressisti italiani" oggi arriva a stento al 25%. Non può sfuggirgli che, nonostante le ultime "riconquiste" di schieramento, le insegne che svettano sui municipi di Milano o di Genova, di Napoli, di Cagliari o di Palermo non sono le sue. E quanto alla sconfitta di Parma, non può sfuggirgli l'effetto surreale che produce lui stesso, quando replica "non è vero che perdiamo ovunque contro i grillini, il Pd ha vinto a Budrio e a Garbagnate". Questa è quasi comicità involontaria.

Infine, con il fallimento del Terzo Polo di Casini e senza una seria riforma della legge elettorale, a Bersani non può sfuggire che di qui al 2013 non ci sono vie d'uscita: può solo riproporre un caravanserraglio simil-unionista, insieme a Vendola e a Di Pietro. Una non-soluzione che forse serve a vincere ma non a governare, e che gli italiani hanno già testato con esiti disastrosi nel 2006.

Sfiancati da un quasi ventennio di Forza Italia, gli elettori ora chiedono con forza un'"altra Italia". Il Pd è ormai il primo partito della nazione. Tocca alla sinistra riformista riscrivere il progetto. Elaborare i contenuti e individuare il "contenitore" che possa raccogliere l'istanza di rinnovamento sempre più urgente nel Paese. Non ci si può sedere sulla riva del fiume, e aspettare che passi il cadavere dei nemici. Chi si ferma a Budrio e Garbagnate è perduto.

m.giannini@repubblica.it
 

(22 maggio 2012) © Riproduzione riservatA

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Il dovere della verità
Inserito da: Admin - Maggio 31, 2012, 04:30:14 pm
IL COMMENTO

Il dovere della verità

di MASSIMO GIANNINI


CORVI in Vaticano, talpe a Palazzo Chigi? Il giallo del disegno di legge sulla riforma dell'organismo disciplinare per l'operato dei magistrati è molto più di un incidente di percorso. Forzatura burocratica, manovra politica. Qualunque sia il movente, è un episodio grave e inquietante, che si verifica nel cuore della struttura di governo e si traduce nella sconfessione pubblica di uno dei suoi uomini più rappresentativi: Antonio Catricalà. La smentita della presidenza del Consiglio è netta: quel testo, anticipato ieri da Repubblica, esiste ed è stato all'attenzione del governo. Ma il premier Monti "aveva già da tempo ritenuto tale iniziativa inopportuna e non percorribile". E il guardasigilli Severino l'aveva bocciato, considerando "impossibile una simile riforma attraverso legge ordinaria anziché costituzionale". A questo punto una domanda si impone: chi e perché lo ha promosso e lo ha portato avanti?

La portata tecnicamente eversiva di quel disegno di legge è sotto gli occhi di tutti. Come hanno scritto ieri sul nostro giornale Liana Milella e Gianluigi Pellegrino, con quelle norme si sarebbe stravolto, per via legislativa, un principio di autonomia funzionale garantito dalla Costituzione attraverso il Consiglio superiore della magistratura. Attraverso l'istituzione di un nuovo organismo "misto" di valutazione dell'operato delle toghe, il lavoro dei magistrati sarebbe stato di fatto riportato sotto il controllo della politica. Un obiettivo perseguito per anni
dal Cavaliere, nella fase più rovente del berlusconismo da combattimento, e per fortuna scongiurato dalla resistenza del Capo dello Stato e delle opposizioni. Ma ora silenziosamente e misteriosamente rilanciato dalla tecnostruttura di Palazzo Chigi. All'insaputa o addirittura contro la volontà del presidente del Consiglio.

Qui sta la straordinaria gravità del fatto. Come dimostrano i documenti che pubblichiamo oggi in esclusiva, a sponsorizzare il provvedimento non è stato un funzionario qualsiasi, ma il sottosegretario di Palazzo Chigi. Monti e la Severino, come recita il comunicato ufficiale, avevano "già da tempo" respinto e archiviato l'iniziativa. Tuttavia, Catricalà in persona ha trasmesso quel testo agli organi istituzionali preposti alla formulazione di un parere giuridico. Catricalà in persona ha firmato di suo pugno la lettera di accompagnamento, inviata il 2 maggio alla Corte dei conti e il 14 maggio al Consiglio di Stato. E appena quattro giorni fa, come dimostra il verbale che riproduciamo a pagina 11, il Consiglio di Stato si è riunito per formulare il suo parere, su un disegno di legge che "già da tempo" il capo del governo aveva considerato politicamente insostenibile e giuridicamente impraticabile.

Come può essere accaduto un simile cortocircuito? Il sottosegretario è stato ispirato da qualcuno, o ha fatto di testa sua? E poi: ha agito autonomamente, senza sapere che il suo presidente del Consiglio e il ministro competente erano contrari all'iniziativa? Oppure sapeva di questa contrarietà, e nonostante questo è andato avanti lo stesso? In tutti e due i casi, si tratta di un serio strappo istituzionale. Nella prima ipotesi, è un atto pericoloso: un sottosegretario non può assumersi una responsabilità così grande, senza informare i suoi "superiori", su un tema nevralgico per la vita democratica, come la giustizia e i rapporti tra politica e magistratura. Nella seconda ipotesi, è un atto sedizioso: un sottosegretario non può prendere decisioni sottobanco, meno che mai se contrarie alla volontà del presidente del suo Consiglio.

Gli interrogativi sono tanti. I punti oscuri da chiarire sono ancora di più. Il comunicato di Palazzo Chigi risponde a una metà del problema: quello che riguarda l'orientamento di Monti, per fortuna fermo sul principio dell'indipendenza della magistratura. Ma l'altra metà della questione rimane in ombra: e questa tocca a Catricalà portarla alla luce del sole. Il "Gianni Letta" del governo tecnico, come viene spesso definito, non può essere sospettato di ruoli impropri, né può apparire come la "talpa" che scava il terreno sotto i piedi di Monti. È un servitore dello Stato, e deve rispondere di ciò che fa al capo del governo (che lo ha scelto) e ai cittadini (anche se non lo hanno eletto).
L'unica cosa che non può fare, dopo quello che è successo, è tacere. Il suo predecessore sapeva farlo benissimo, e per tanti, troppi anni gli è stato concesso questo "privilegio". Ma Catricalà, oggi, non se lo può più permettere.
m.giannini@repubblica.it

(28 maggio 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Lo sguardo corto della politica
Inserito da: Admin - Giugno 02, 2012, 09:32:56 am
IL COMMENTO

Lo sguardo corto della politica

di MASSIMO GIANNINI


UNA "CRISI di gravità eccezionale", come quella descritta da Ignazio Visco nelle sue prime Considerazioni finali, imporrebbe "l'eccezionalità" come paradigma della fase. Per fronteggiare problemi eccezionali servirebbero leader eccezionali, capaci di adottare soluzioni eccezionali. Invece, in questa piega sconfortante della modernità, non c'è quasi niente di eccezionale. Se non gli effetti della stessa crisi, rovinosa per la vita di tante persone. È come se le élite politiche non avessero la percezione di cosa rischino gli Stati e i popoli, in termini di progresso economico e di coesione sociale. Così può capitare un paradosso: che siano proprio le tecnocrazie, accusate di snaturarle o addirittura "sovvertirle", a dimostrarsi più sensibili ai destini delle democrazie. Di fronte al pericolo di quella che Paul Krugman chiama "l'ellenizzazione del discorso europeo", e alla possibilità che sull'agorà di Atene bruci anche la moneta unica, tocca alla "triade tecnocratica" Monti-Draghi-Visco chiedere alla politica di assumersi le sue responsabilità.

Le parole di Mario Monti, che ricorda la minaccia di un "contagio finanziario" tuttora incombente sui debiti sovrani dell'Eurozona, pesano come un macigno sulle spalle di Angela Merkel. Tocca a lei "riflettere profondamente" sulla necessità di accelerare gli sforzi per la crescita, senza i quali verrà meno il sostegno pubblico alle politiche di rigore. Tocca alla Cancelliera di Ferro, indipendentemente da chi avrà la maggioranza al Reichstag nel 2013, far ragionare i suoi concittadini su cosa ha significato l'euro. Per una Ue che dal 2008 ha bruciato 4 milioni di posti di lavoro all'anno, c'è una Germania che non è mai stata così ricca: secondo i dati Bundesbank, nel 2011 il patrimonio finanziario dei tedeschi ha raggiunto la cifra record di 4.715 miliardi. Per i figli della Repubblica di Weimar il Deutsche Mark è una suggestione. Ma per i nipoti l'euro è un affarone. Sono davvero in condizione di rinunciarci?

Le parole di Mario Draghi al Parlamento di Strasburgo pesano come pietre sulla coscienza di un establishment accidioso e indeciso a tutto. "Chiedetevi come sarà l'Europa tra dieci anni, quale tipo di visione vogliamo avere e quali saranno le tappe per arrivarci: prima si definirà questo cammino, meglio sarà per tutti". L'Europa di oggi, irresoluta e irresponsabile, produce insieme un'economia della depressione e una politica dell'insicurezza. Senza una strategia di lungo respiro, i governanti dalla veduta corta si nutrono di pura tattica, battendo il tempo dell'Europa su quello delle rispettive scadenze elettorali. Non sono capaci di rispondere alla domanda di futuro e di crescita, di lavoro e di equità che promana dai popoli. Ma per scaricarne le tensioni, sono bravissimi a indicare un "pessimo esempio" (la povera Grecia) e un ottimo capro espiatorio (i ricchi banchieri). Non che i signori del credito non abbiano la loro buona dose di colpe. Ma è sempre troppo facile pretendere dai tecnici quello che i politici non sanno o non vogliono dare. Nella "disputa" in corso, nonostante tutto, oggi hanno più ragione i primi dei secondi. Ha più ragione Draghi, che dopo aver garantito 500 miliardi di acquisti di titoli di Stato con il "Securities Markets Programme" e altri 1.000 miliardi di liquidità immessa sul mercato con i due "Ltro" di dicembre e febbraio, ora avverte "non c'è più tempo da perdere, non possiamo colmare la mancanza di azione sul fronte dei conti pubblici, non è il nostro mandato né il nostro dovere, la Banca centrale europea non può riempire il vuoto lasciato dalle mancanze della governance europea".

Le parole pronunciate da Ignazio Visco, per il suo esordio nel salone delle assemblee di Palazzo Koch, non sono da meno: "Inerzia politica, inosservanza delle regole e scelte economiche errate rischiano oggi di mettere a repentaglio l'intera costruzione... I processi decisionali, condizionati dal metodo intergovernativo e dal principio dell'unanimità, sono ancora lenti e farraginosi". Serve un'Europa che funzioni come "federazione di Stati". Servono processi decisionali rapidi, risorse pubbliche comuni e regole davvero condivise. Ma sono compiti che "esorbitano dalla sfera d'azione del sistema delle banche centrali, e investono responsabilità politiche, nazionali e comunitarie". E sono compiti che rimandano a una saggia riflessione di Tommaso Padoa-Schioppa, giustamente rievocata dal governatore: "L'insidia è di credere che l'euro sia l'ultimo passo, che l'Europa unita sia ormai cosa fatta". Più che un monito, una profezia. L'euro andrebbe difeso, dall'opportunismo degli scettici e dal cinismo dei mercati. Ma è proprio questo che manca. Come dice Visco, mancano "manifestazioni convergenti della volontà irremovibile di preservare la moneta unica".

La "piccola Italia", in tutto questo, vive un dramma nel dramma. E anche qui (soprattutto qui, viene da dire) servirebbe una visione all'altezza dello "stato d'eccezione" in cui siamo precipitati. Ma proprio qui, nel vuoto e nel silenzio assordante di una politica frammentata e delegittimata, la "supplenza" dei tecnici mostra i suoi limiti. Forte della debolezza di una maggioranza tripartita sempre più confusa e disarticolata, Monti fa quello che può, anche se potrebbe fare di più. E il governatore, che di questo governo è in definitiva un "azionista di riferimento", dice un po' meno di quel che dovrebbe. È verissimo che l'esecutivo ha riportato il bilancio pubblico "su una dinamica sostenibile e credibile". È un po' meno vero che ha "rianimato la capacità di crescita dell'economia". È verissimo che la pressione fiscale è "a livelli ormai non compatibili con una crescita sostenuta". È un po' meno vero che si è aperto il "vasto cantiere" delle riforme strutturali.

Dopo la cocente delusione per il modesto debutto del nuovo presidente di Confindustria Squinzi, da Visco era lecito aspettarsi proprio una maggiore "visione" sul futuro del Paese, anche al prezzo di una minore "condivisione" sulle scelte compiute dal governo, e magari anche dal sistema bancario (la denuncia della moltiplicazione delle poltrone nei board poteva essere molto più severa, se è vero che i primi 10 gruppi bancari contano ben 1.136 cariche; la rampogna sul contenimento delle remunerazioni degli amministratori doveva essere molto più dura, se è vero che un "ceo" di fresca nomina nel 2011 ha incassato 66 mila euro per aver lavorato una sola settimana). Ma è evidente che, con i tecnici a Palazzo Chigi, cambia anche il ruolo di Palazzo Koch. È difficile fare i "supplenti dei supplenti". Dal dopoguerra, la stella della più prestigiosa e autorevole istituzione economica nazionale ha brillato ancora di più quando al governo c'era un ceto politico inetto e incapace di far uscire l'Italia dalla lunga notte della Repubblica. Oggi è diverso. Quel ceto politico sopravvive in Parlamento, ma è sempre più screditato nel Paese e soprattutto non abita più nella "stanza dei bottoni". Dal Cavaliere al Professore: è già un enorme passo avanti, anche se la notte non è ancora finita.

m.giannini@repubblica.it

(01 giugno 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Il compromesso sulla morale
Inserito da: Admin - Giugno 18, 2012, 05:00:54 pm

IL COMMENTO

Il compromesso sulla morale

di MASSIMO GIANNINI

TRA minacce del Pdl e anatemi del Pd, sulla legge anti-corruzione si consuma un pessimo compromesso al ribasso. Fatto di ipocrisie politiche che nascondono le cattive conoscenze della destra e di anomalie giuridiche che riflettono le scarse conoscenze della sinistra. Non sappiamo se il testo di "mediazione" elaborato dal ministro Severino vedrà effettivamente la luce. Ma sappiamo per certo che quel provvedimento non risolve i problemi di un Paese incapace di voltare pagina sul terreno della legalità, di uscire dalle logiche da "Stato di eccezione" delle norme ad personam inventate negli anni del berlusconismo da combattimento, o dalle apparenti guerre di posizione che spesso servono solo a mascherare forme improprie di quietismo istituzionale.

L'Italia, il Paese di Tangentopoli, vive una nuova questione morale. Il malaffare prospera nella zona grigia che incrocia politica ed economia, e costa ogni anno 60 miliardi ai contribuenti, come ci ricorda la Corte dei conti. Secondo uno studio del Pew Research, citato dal professor Luigi Guiso, tutti i cittadini dei Paesi industrializzati sono convinti che il Paese meno corrotto d'Europa sia la Germania, e a eccezione dei cechi, dei polacchi e dei greci, tutti considerano che il Paese più corrotto sia l'Italia. È un dato oggettivo. Di fronte a questa evidenza, uno Stato serio avrebbe una strada molto semplice da percorrere: allungare i tempi della prescrizione dei processi scandalosamente abbattuti dalle leggi su misura volute da Berlusconi (su tutte, la ex Cirielli), o in subordine inasprire le pene per il reati di corruzione e di concussione per induzione. Per ragioni evidentemente inesplicabili alle opinioni pubbliche, i partiti non possono o non vogliono procedere su questa via maestra, semplice e coerente con l'obiettivo di rafforzare i principi dello Stato di diritto. Preferiscono pasticciare e litigare su proposte contraddittorie, che celano le peggiori intenzioni. E il governo preferisce mediare con soluzioni macchinose, che autorizzano i peggiori sospetti.

È inutile negare l'innegabile. Se passasse la legge Severino (nella versione su cui è stata posta la fiducia alla Camera, che spacchetta i due principali reati contro la pubblica amministrazione nelle altrettante fattispecie della corruzione per costrizione e della indebita induzione) l'impatto sui processi in corso sarebbe sicuro. Nel processo Ruby che coinvolge Berlusconi, secondo una parte della Procura potrebbe non esserci "continuità giuridica" e il reato di concussione per la telefonata alla Questura di Milano potrebbe decadere. Certo, resterebbe il reato di prostituzione minorile, ma quello è molto più difficile da dimostrare in dibattimento.

Nel processo che vede coinvolto Filippo Penati per le tangenti nell'area Falck almeno due delle tre concussioni per le quali l'ex sindaco di Sesto è imputato risulterebbero già prescritte nel 2010, mentre la terza si prescriverebbe entro il prossimo anno. Certo resterebbero i reati di finanziamento illecito e corruzione, ma questi sono di ben minore gravità sul piano delle pene. Questo è lo stato dell'arte. E non c'è alcun parlamentare onesto né alcun opinionista preparato che possa smentirlo. La battaglia che stanno inscenando i partiti, quindi, è del tutto insensata e strumentale. Il Pd avrebbe dovuto capirlo per tempo, e far saltare subito un tavolo velenoso, dove non sono ammesse trattative, meno che mai sotto banco. Si sarebbe almeno risparmiato il danno e la beffa di vedersi ora esposto alla gogna mediatica, per aver sostenuto una norma "salva-Penati", proprio dal partito personale del Cavaliere che per lui ha costruito in quasi vent'anni ogni genere di salvacondotto. Lo stesso partito che adesso, nella relativa incertezza sull'efficacia delle nuove norme nel processo Ruby, porta la sua aberrante "filosofia" fino alle più estreme conseguenze, minacciando ritorsioni sulla legge per la responsabilità civile diretta delle toghe: una norma che salva solo Penati è insostenibile, dicono i dottor Stranamore del Pdl, ce ne vuole una che salva espressamente tutti, a partire dal Cavaliere.

La miserabile follia di questo "negoziato" è sotto gli occhi di tutti. Tanto più se la si accompagna con l'altra mostruosità di questa nuova legge anti-corruzione, che per sancire l'ovvio, cioè l'incandidabilità immediata del parlamentare che abbia subito una condanna definitiva, rimanda a un'erratica delega al governo, che visti i tempi stretti della legislatura rischia di non vedere mai più la fase attuativa. Sono nutrimenti preziosi, per la "bestia" dell'anti-politica, ma anche per la domanda di "altra politica" che pure si leva, sempre più forte, dalla pancia e dalla testa degli italiani. Di fronte a questo scempio del buon senso e del buon diritto, non resta che lanciare un appello ai due poli e al Guardasigilli, sulla scia di quanto ha già scritto su Repubblica Gianluigi Pellegrino. Concordino, tutti insieme, un disarmo bilaterale, e rinuncino a riscrivere il codice per salvare questo, quello o tutti quanti. Lascino com'è l'articolo 317 del codice penale, che disciplina la concussione per induzione (unica forma conosciuta e diffusa di reato contro la Pubblica amministrazione) e si limitino a integrarla con un codicillo di due righe, in cui si prevede l'eventuale punibilità del concusso, oltre che del concussore. Per fare questa scelta non servono settimane né mesi né anni. Basta una mezz'ora per scrivere la norma, e un paio di giorni per approvarla nei due rami del Parlamento. Governo e maggioranza abbiano un sussulto di dignità e di responsabilità, e lo facciano. Gli italiani onesti, che chiedono solo democrazia e legalità, gliene saranno finalmente grati.
m.giannini@repubblica.it

(16 giugno 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI La modica quantità
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2012, 11:16:07 am
L'ANALISI

La modica quantità

di MASSIMO GIANNINI


ORA SI CAPISCE perché i governi preferiscono aumentare le tasse. Soprattutto nei Paesi a statalismo diffuso come l'Italia, la spesa pubblica è l'"oggetto" del contratto sociale e il cuore della costituzione materiale. Tagliare la spesa equivale a rinegoziare il primo, e a riscrivere la seconda. Per questo il decreto sulla "spending review" varato da Monti, oltre che un forte impatto economico, ha un alto costo politico.

La lama del governo affonda non solo sugli sprechi, ma nella carne viva della società italiana. La tempestività è soddisfacente. Ma ancora una volta l'equità è intermittente. Il tasso di riformismo del provvedimento non è assente, ma è insufficiente: siamo alla "modica quantità".

"Tagli versus riforme". Tommaso Padoa-Schioppa, che la "spending review" la lanciò nel 2007 da ministro del Tesoro, aveva colto (ma non sciolto) il nodo gordiano. Nell'Italia del compromesso permanente sulle spalle delle generazioni future, dei diritti acquisiti e dei privilegi consolidati, delle sinecure per gli inclusi e delle ingiustizie per gli esclusi, serve innanzitutto la "revisione della spesa", non la sua "liquidazione". Un'operazione che richiede il bisturi, non il machete. Una missione che esige un'idea di Paese, non una "ideologia della cassa".

Questo, per un governo che consideri il Welfare un valore irrinunciabile dell'Occidente e non un ferrovecchio inservibile del Novecento, significa che la spesa pubblica in molti casi va tagliata, ma in qualche altro caso va aumentata. Il saldo finale deve generare un risparmio significativo per il bilancio dello Stato. Ma insieme a questo, deve propiziare anche un "compromesso al rialzo" tra lo Stato che offre servizi e il cittadino che li produce e che se ne serve.

La "spending review" di Monti inclina più verso la voce "tagli" che non verso la voce "riforme". L'urgenza del gettito fa premio sull'efficienza del sistema. In parte era inevitabile, vista la criticità del giudizio dei mercati su un'Italia soverchiata dal suo debito sovrano e la necessità di scongiurare un nuovo giro di vite sull'Iva nel 2013. Almeno su questo, il premier ha mantenuto la promessa, costruendo una manovra estesa anche se non abbastanza profonda. Taglio per taglio. Prima di intervenire sulle "voci" più sensibili si doveva aggredire il capitolo delle spese militari, limitando o azzerando l'investimento da 12 miliardi sui caccia F-35, che servono alla Difesa come biglietto d'ingresso nelle commesse della Lockheed, ma non servono al Paese.

Risparmi per 26 miliardi non sono pochi, per un'economia che decresce da anni e per una società che sopporta sacrifici da mesi. Ma è una cura indispensabile. A dispetto del mal di pancia dei partiti, dell'ira degli enti locali, della rabbia dei sindacati e dei dubbi causidici degli economisti. Avevamo giustamente criticato il decreto Salva-Italia perché ruotava al 70% intorno agli aumenti d'imposta e rinviava i tagli di spesa. Ora che i tagli di spesa arrivano non si può opporre un dissenso uguale e contrario. Piaccia o no (e a noi questo impegno draconiano e non richiesto assunto da Tremonti non piace) l'Italia ha promesso alla Ue il pareggio di bilancio nel 2013. Per rispettare i patti, è giusto attingere con più determinazione al tesoretto "occulto" di un'evasione fiscale da 200 miliardi, e a quello "emerso" di un patrimonio alienabile da 450 miliardi. Ma non basta. E allora, delle due l'una: o si elevano le tasse, o si abbattono le spese. Non volere né l'una né l'altra è una fuga nell'irrealtà.

La voce più critica sul piano sociale riguarda la sanità. Il governo ha opportunamente rinunciato al taglio centralizzato degli ospedali minori: toccherà alle Regioni razionalizzare le strutture e portare lo standard a 3,7 posti letto ogni mille abitanti. Resta il fatto che alla sanità si chiederanno altri sacrifici per 5 miliardi in tre anni. Se si sommano agli 8 miliardi decisi dal precedente governo, il "conto" addebitato alla spesa sanitaria ammonta a 13 miliardi. Pochi, se si pensa che da noi una Tac costa il doppio che in Germania e il triplo che in Francia, e che un posto letto costa 134 mila euro l'anno in Lombardia e 200 mila in Campania. Troppi, se si pensa che l'attesa media per quella stessa Tac è di 3-6 mesi, e in molte strutture anche d'eccellenza quegli stessi posti letto mancano proprio.

Il pubblico impiego paga un dazio pesante, ma obiettivamente non devastante. Gli organici si riducono di 6.954 dipendenti e 293 dirigenti. Il ricorso alla mobilità obbligatoria fa cadere il tabù del posto fisso. Può dispiacere a un settore che da tre anni sopporta già il blocco della contrattazione. Ma è un fatto che oggi la Pubblica amministrazione paga lo stipendio a 3 milioni 458 mila 857 dipendenti che secondo la Corte dei conti, in rapporto alla popolazione residente, costano in media 2.849 euro all'anno per ciascun italiano. Più della Germania (2.830 euro), ma anche della Spagna (2.708 euro) e persino della Grecia (2.436 euro). Ed è un altro fatto che dalla produttività del settore pubblico arrivano "segnali preoccupanti". Pesano "l'assenza della meritocrazia" e la "distribuzione indifferenziata dei trattamenti accessori, al di fuori di criteri realmente selettivi e premiali".

L'amministrazione giudiziaria fa la sua parte. La "rivoluzione epocale" di cui parla il ministro Severino è un eccesso retorico, ma lo sfoltimento di 37 tribunali minori, 38 procure e 220 sezioni distaccate non può far gridare allo scandalo, né incide sui tempi biblici della giustizia civile, che richiede in media 1.210 giorni per la risoluzione di una causa. La giustizia italiana è la più cara d'Europa, costa 67 euro l'anno per ogni cittadino, contro i 46 euro della Francia e i 22 del Regno Unito. La geografia giudiziaria del Paese è difforme e squilibrata: a Bolzano c'è un giudice ogni 110 cancellieri, a Campobasso ce n'è uno ogni 221. Gli avvocati possono urlare finché vogliono il loro sdegno corporativo. Ma disboscare questa giungla è l'affermazione di un dovere, non la lesione di un diritto.

In un quadro di austerità complessiva, anche i famosi "costi della politica" subiscono un ridimensionamento. La soppressione di 60 Province è una vittoria del premier, che ha resistito alle pressioni dei cacicchi, ed è riuscito a fare quello che i partiti promettono da anni e non fanno. Se si aggiungono il dimezzamento delle auto blu, l'abbattimento dei contratti d'affitto, il taglio parziale delle poltrone nei cda delle società pubbliche e delle consulenze negli enti, non si può dire che Monti abbia ceduto alle solite lobby.

Una volta tanto, il Palazzo paga il suo tributo al risanamento. E un provvidenziale ripensamento notturno ha evitato al governo la più folle delle scelte: il taglio di altri 200 milioni all'Università, per dirottare il ricavato al sostegno delle scuole private parificate. Sarebbe stato un danno simbolico ma enorme per un'istruzione pubblica già mortificata in questi anni, e una beffa per i giovani ai quali si promettono ponti d'oro sospesi sull'abisso. Per fortuna il buon senso delle istituzioni repubblicane ha fatto premio sul consenso delle gerarchie ecclesiastiche.

La "spending review" è un "metodo di governo" della cosa pubblica, e dunque è molto più che un antidoto contro il deficit. Questo decreto è solo un passo iniziale, e ancora parziale, sulla strada del cambiamento dei processi di riqualificazione della spesa. Ne serviranno altri, più convincenti. Ma intanto il primo è stato compiuto. Ugo La Malfa sosteneva che in genere "l'Italia fa riforme con spirito corporativo, quindi fa contro-riforme". Almeno questo, stavolta, non è accaduto.

m.giannini@repubblica.it

(07 luglio 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/07/07/news/la_modica_quantit-38669102/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Grilli: "Niente aiuti Bce e meno tasse ...
Inserito da: Admin - Agosto 12, 2012, 04:25:28 pm

L'INTERVISTA

Grilli: "Niente aiuti Bce e meno tasse Ecco come salveremo l'Italia"

Il ministro dell'Economia: "Forse esisteva un caso Italia, ora non più". "Abbiamo fatto molto, no alla patrimoniale.

Intervenire sui mercati del debito sovrano per stabilizzarli è dentro il mandato Bce.

Tutti conoscono la gravità della crisi, ognuno pensa che a cambiare debbano essere gli altri"

di MASSIMO GIANNINI


"L'Italia può uscire da questa crisi, ma deve proseguire sulla strada delle riforme. Il governo farà tutto ciò che serve per mettere in sicurezza il Paese. In autunno avremo due appuntamenti importanti: il piano pluriennale di rientro dal debito pubblico che abbiamo già avviato, e la seconda fase della spending review per efficientare la spesa pubblica". E' l'affermazione impegnativa con la quale Vittorio Grilli, ministro dell'Economia, apre l'intervista su Repubblica oggi in edicola. Il ministro afferma che "occorre accelerare gli interventi di riequilibrio annunciati dalla Bce". E aggiunge: "Per ora l'Italia non ha bisogno di aiuti", annunciando che "appena sarà possibile ridurremo la pressione fiscale su famiglie e imprese". E chiude alla patrimoniale sollecitata da Bersani: "La patrimoniale - spiega - non appartiene al mio vocabolario. Il governo, con l'Imu e i bolli sulle rendite finanziarie, ha già fatto passi importanti per riequilibrare il prelievo, spostandolo dal reddito allo stock della ricchezza. Toccherà ai prossimi governi decidere se fare passi ulteriori".

Poi affronta i dubbi sulla crescita del Vecchio Continente, e rappresenta l'Europa "come un granchio" che "continua a crescere, ma in modo non lineare: a stadi, a balzi. Deve cambiare il suo esoscheletro, per adeguarsi. Questo è un processo faticoso, e come per i granchi la muta è un periodo di grande vulnerabilità. Per questo il cambiamento deve avvenire in fretta, e i tempi li dettano i mercati".

Quindi il delicato tema delle tasse. "Il nostro impegno è ambizioso: noi vogliamo eliminare l'aumento dell'Iva in modo permanente, e contiamo di farcela. È vero, la pressione fiscale è troppo alta, e va ridotta. Com'è noto, gli strumenti sono due: aumentare la base imponibile attaccando le aree di evasione, ridurre in modo strutturale la spesa pubblica. Su entrambi i fronti siamo determinati, e l'abbiamo dimostrato". "Per ora ci siamo concentrati sull'evitare l'aumento dell'Iva. Non vogliamo illudere nessuno con promesse sulla tempistica che ora non siamo in grado di fare, ma appena si creerà uno spazio ridurremo anche le altre imposte". Ed esclude al 100 per cento l'ipotesi di una nuova manovra in autunno: "Sarebbe un errore: se varassimo una manovra per ridurre ulteriormente il deficit nominale, non faremmo altro che deprimere ulteriormente un'economia già in recessione".

(12 agosto 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/08/12/news/intervista_grilli-40810646/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La doppia linea d'ombra
Inserito da: Admin - Agosto 17, 2012, 06:42:49 pm
L'ANALISI

La doppia linea d'ombra

di MASSIMO GIANNINI
 

LA "LINEA D'OMBRA" tedesca, come la chiamava Tommaso Padoa-Schioppa, torna a offuscare l'orizzonte d'Europa. È già successo, nella parabola a tratti tragica del Novecento. Succederà ancora, in quella pacifica del Terzo Millennio. L'identità fragile di una moneta rischia di alimentare un'alterità irriducibile tra i popoli. Quello che colpisce di più, nella nuova ondata revanchista partita dalla Germania, è la trasversalità del fronte politico schierato contro i vituperati Paesi del Club Med.
Paesi che prosperano irresponsabili a spese delle finanze tedesche, contro la Bce dell'"italiano" Mario Draghi che gli regge il gioco, e alla fine contro l'euro che finisce per mettere in comune i vizi dei "latini" e le virtù dei "teutoni".

Il voto del prossimo anno non pesa solo a Roma. C'è un elettore anche a Berlino. Ma finora, almeno da quelle parti, non si era mai visto un fuoco incrociato che vede convergere i partiti della maggioranza, la Cdu e l'Fdp, e quelli dell'opposizione, la Spd, su una stessa linea non più solo rigorista, ma al dunque anche potenzialmente anti-europeista. Una linea populista e difensiva, quella emersa a sinistra con Schneider, che dà voce al contribuente tedesco stanco di pagare il costo dell'integrazione europea e del salvataggio dei Paesi periferici dell'eurozona: non i 310 miliardi di cui parla la Merkel, ma quasi 1.000 se si sommano gli aiuti, i crediti e le garanzie prestate finora dalla Bundesrepublik.

Una linea sciovinista e quasi eversiva, quella rilanciata a destra da Willsch e Schaeffler, che dà corda all'ortodossia monetarista della Bundesbank stanca di soccombere nel board di una Bce ormai trasformata in una "bad Bank" finanziatrice di Stati-canaglia: dunque, si cambi "la regolamentazione del peso dei voti nelle sedi decisionali" dell'Eurotower.

Poco importa se la prima tesi sia falsa: la Germania, in rapporto al Pil, contribuisce al fondo salva-Stati meno di molti altri Paesi (compresi quelli del Sud). E poco importa se la seconda ipotesi sia assurda: introdurre nel Sistema delle Banche Centrali un criterio che fu caro a Enrico Cuccia, in base al quale "i voti non si contano, ma si pesano", oltre a implicare una revisione dello Statuto e quindi del Trattato, comporterebbe una violazione del principio democratico. "Una testa, un voto", è una regola che vale e deve valere ovunque, in Occidente. Nel Bundestag come nel board della Bce.

Ma il problema della "linea d'ombra" tedesca, a questo punto, è un altro. L'insofferenza contro i vincoli di questa Europa ineguale e irrisolta non è più solo questione di "falchi", come finora ci siamo comodamente abituati a pensare. Questa sorta di sindrome di Weimar, che ritorna sotto altre spoglie e attanaglia a Berlino l'intero arco costituzionale, riflette con tutta evidenza un malessere sempre più radicato e diffuso nell'opinione pubblica tedesca.

Questa evidenza ha due implicazioni. La prima implicazione riguarda il destino stesso della moneta unica, e in questo ambito il ruolo della Banca Centrale Europea. Com'è chiaro a tutti, la partita inaugurata nel Vertice Ue il 28-29 giugno e poi nel Consiglio direttivo dell'Eurotower, il 2 agosto, non è affatto conclusa, ma semmai è appena cominciata. E Draghi non l'ha certo vinta, quella partita, ma deve ancora giocarla, riempiendo di fatti concreti gli annunci formulati in conferenza stampa. Una missione delicatissima, vista la risoluta e ostinata opposizione tedesca all'acquisto diretto di bond dei Paesi a rischio spread, come la Spagna e l'Italia. Se il programma di rifinanziamento non parte a settembre, qualunque sia la formula scelta (un nuovo Ltro o una riattivazione dell'Smp), la tregua agostana concessa dai mercati finirà, e per la moneta unica suonerà forse la campana dell'ultimo giro.

La seconda implicazione riguarda proprio l'Italia. L'irredentismo tedesco va confutato e arginato. Ma va innanzitutto capito. Il "superiority complex" della Germania non nasce solo dalla spocchiosa arroganza, inaccettabile in un Popolo che non finirà mai di farsi perdonare abbastanza per le carneficine novecentesche che ha generato. Origina anche dalla consapevolezza di un Sistema-Paese fondamentalmente sano, e di una società sufficientemente evoluta. Dove le riforme strutturali sono state compiute e dove la crescita non è solo il risultato di un'economia "sociale", ma anche un derivato della filosofia morale: il giusto premio, cioè, alla scelte etico-politiche condivise dalla nazione.

In un'Europa che si vuole federale e solidale, la pretesa che anche gli altri contraenti del patto comunitario facciano altrettanto non solo non è irricevibile, ma va raccolta perché è profondamente giusta. Questo, in Italia, sembra averlo capito solo Monti. E solo Monti sembra aver capito che, in un momento così difficile, per paradosso il nostro alleato più prezioso è proprio la Cancelliera di Ferro. Non è un caso se proprio la Merkel, in Europa, continua a difendere Draghi. E non è un caso se proprio la Merkel, in Germania, subisce per la prima volta un assedio bipartisan. Oggi noi abbiamo bisogno della Zarina di Berlino. E dunque fa bene il presidente del Consiglio a coltivare con lei un rapporto politico e personale che finora, a parte qualche momento critico, non ha conosciuto appannamenti.

Ma la Zarina di Berlino ha anche bisogno di noi. Per evitare che in casa sua si punti inevitabilmente il dito contro quelle che tra Palazzo Chigi e Via XX Settembre qualcuno chiama "le solite cavallette italiane", l'Italia non deve cedere un millimetro sul fronte della tenuta dei conti pubblici e sul rispetto dell'impegno al pareggio di bilancio strutturale. Come ricordano da giorni il premier e il ministro del Tesoro Grilli, "l'emergenza è tutt'altro che finita". Al di là delle formule, questo significa che la nostra, purtroppo, resta e deve restare ancora a lungo una politica economica "emergenziale".

Margini per tornare a spendere, o per allargare in altro modo i cordoni della borsa, non ce ne sono ancora. E questo vale per il governo in carica, ma anche per i governi che verranno. Cedimenti propagandistici, su questo fronte, producono solo danni: illusioni tradite all'interno, ritorsioni adirate all'estero. Qui si apre un drammatico deficit di consapevolezza, nei partiti che si preparano a una campagna elettorale lunga ed estenuante. È la "linea d'ombra" italiana. E non è meno pericolosa di quella tedesca.
m.giannini@repubblica.it

(17 agosto 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Bersani a Monti: "Cambi passo oppure l'Italia non si salva"
Inserito da: Admin - Agosto 25, 2012, 05:45:23 pm
L'INTERVISTA

Bersani a Monti: "Cambi passo oppure l'Italia non si salva"

Il messaggio del segretario Pd: "Dico all'esecutivo che è ora di riscrivere l'agenda, di rompere l'avvitamento tra austerità e recessione".

E ancora: "Se passasse l'idea che la politica non è in grado di tirarci fuori dalla crisi, ci porremmo ai margini delle democrazie"

di MASSIMO GIANNINI


"SENTO in giro molte preoccupazioni sul dopo Monti. Allora chiariamo subito un punto: qualunque ragionamento sul prossimo futuro deve partire dal presupposto che non vengano abolite le elezioni, magari su suggerimento di Moody's. Se in Italia passasse l'idea che la politica non è in grado di tirarci fuori dalla crisi, noi ci porremmo automaticamente al margine delle democrazie del mondo". Finite le brevi ferie d'agosto, Pierluigi Bersani torna in campo e detta a Monti le condizioni dell'autunno. Il leader del Pd considera quella del governo tecnico una "parentesi non ripetibile". "Perché vede - spiega - il limite della soluzione tecnica non sta nel governo Monti, che pure ha fatto un gran lavoro, ma nella mancanza di univocità di una maggioranza che ha opinioni diverse, perché in natura esistono una destra e una sinistra alternative l'una all'altra. E se a Bruxelles o sui mercati si ha paura per la tenuta del rigore in Italia, io voglio credere che ci si riferisca a un rischio Berlusconi o a un pericolo populista, non al centrosinistra".

Eppure, segretario, l'impressione è che cancellerie e Borse non si fidino neanche di voi...
"Noi abbiamo fatto la moneta unica, con Prodi, D'Alema e Amato abbiamo raggiunto accordi storici con la Ue e la Nato, io ho lavorato con Ciampi e Padoa- Schioppa. I mercati e le cancellerie non possono far finta di non conoscerci. Se ci sono manovre interessate per dire che nell'Italia del dopo Monti non c'è un presidio credibile, noi siamo qui, con la nostra storia, a dimostrare che non è vero".

Quindi lei fin da ora dice no a un Monti bis e dice no a una Grande Coalizione?
"Io dico che in un Paese maturo si fronteggiano un centrodestra, un centrosinistra ed eventualmente una posizione centrale che da una legislatura all'altra può dare flessibilità al sistema. Chi vince, governa. Questo è il vero tema, non quanti tecnici ci sono nel governo. E questo significa che non si può andare al voto proponendo una Grande Coalizione. Non esiste proprio".

Perciò, Bersani va al voto con il suo programma e le sue alleanze, e se vince va a Palazzo Chigi. Giusto?
"Così funziona, nelle democrazie normali. E poi, hai visto mai, può succedere che una figura come Monti non riesce a portare a casa una legge contro la corruzione, e invece Bersani ci riesce".

Il Pd è sempre più insofferente col governo. Oggi c'è il primo Consiglio dei ministri dopo le ferie. Cosa chiede a Monti?
"A Monti chiedo un cambio di passo. Non sono d'accordo su come stanno andando le cose. È ora di riscrivere l'agenda. Per noi progressisti è il momento di rompere l'avvitamento tra austerità e recessione. Il rigore non va abbandonato. Ma è ora di aprire gli occhi. Lo dico anche al Consiglio dei ministri che si riunisce oggi: date finalmente uno sguardo alla realtà".

Perché finora il premier e i ministri non l'hanno fatto?
"Non sto dicendo questo. Dico che ora ci sono due problemi da affrontare. Il primo è europeo: a settembre il messaggio dell'Ue sulla stabilizzazione degli spread non deve più essere un oggetto da Sibilla Cumana, ma deve diventare operativo. A proposito di battere i pugni sul tavolo, questa è l'occasione. Il secondo è italiano. Sento parlare di via d'uscita dalla crisi. Io credo nella possibilità di uno spiraglio, ma ancora non lo vedo. E ho l'impressione che il governo finora non abbia percepito lo scivolamento dell'economia reale. C'è un crollo della produzione industriale, un segno meno nei consumi, lavorano 22 milioni di italiani su 60. Io chiedo: come affrontiamo queste emergenze?".

E cosa si aspetta che le risponda, Monti?
"Per me il rigore è la condizione necessaria, ma non è l'obiettivo. Il vero obiettivo, qui ed ora, è il sostegno all'economia reale. Leggo di piani energetici, di piani per gli aeroporti. Per carità, va tutto benissimo. Ma i problemi di famiglie e imprese, in questo momento, sono altri. Per esempio: il prezzo della benzina si può ridurre? I pagamenti della Pubblica Amministrazione sono stati sbloccati? E che facciamo di fronte alle crisi industriali, dalla Fiat a Finmeccanica all'Alcoa? Le eventuali operazioni di alienazione del patrimonio pubblico possono essere destinate a politiche industriali e allo stimolo all'economia reale? In agenda io vorrei queste priorità. Attenzione a messaggi troppo astratti, che non generano fiducia ma semmai scollamento".

Da mesi si critica il governo perché non fa niente sulla crescita, ora lei lo critica perché prova a fare qualcosa?
"Io non lo critico, ma dico che non bisogna passare dal niente al troppo. Sento parlare di una defiscalizzazione del-l'Iva sulle infrastrutture, praticamente senza copertura. Bene, ma perché da mesi si dice no alla sterilizzazione dell'Iva sulle accise per la benzina? Ci sono cose che il governo può fare subito. Rafforzi gli sgravi fiscali sulle ristrutturazioni immobiliari in funzione antisismica e ambientale. Adotti misure di sburocratizzazione, eliminando passaggi burocratici o esternalizzandoli. Finanzi l'innovazione coi crediti d'imposta sulla ricerca e la defiscalizzazione degli investimenti. Introduca una vera Dual Income Tax".

Il nodo vero è la pressione fiscale. Lei pensa che Monti dovrebbe cominciare a rimodulare le aliquote Irpef?
"Senta, io non riesco a raccontare favole. È un obiettivo per il futuro, ma per ora non possiamo permettercelo. Dobbiamo scongiurare gli aumenti dell'Iva, questo sì. Ed è possibile farlo, aumentando il recupero dell'evasione fiscale, concludendo l'accordo con la Svizzera sulla tassazione dei capitali, lavorando realisticamente sugli incentivi alle imprese, e poi definendo meglio con gli enti locali la griglia della spending review".

Elsa Fornero ha detto che porterà il taglio del cuneo fiscale in Consiglio dei ministri. Lei è d'accordo?
"Certo, in prospettiva il cuneo fiscale va ridotto. Ma anche qui, non ci sono soluzioni miracolistiche. E poi serve uno schema pattizio: Prodi tagliò il cuneo fiscale di 5 punti, ma purtroppo questo non servì a rilanciare gli investimenti".

E la patrimoniale? La deve fare Monti, o la farete voi quando tornerete al governo?
"Noi proponemmo un'imposta sui grandi patrimoni immobiliari per alleggerire l'Imu. Non si fece allora, per me va fatta adesso. Quanto alla finanza, la ricchezza scappa e la povertà resta. Va rafforzata la tracciabilità dei capitali, anche su scala europea. Questo Monti può farlo, entro la fine della legislatura".

Lei parla di fine della legislatura. Ma tornano in ballo le elezioni anticipate a novembre.
"Le elezioni anticipate sono un'elucubrazione dannosa. Io non le auspico e non le vedo all'orizzonte, anche se è nostro dovere tenerci pronti a qualunque evenienza. Poi, lo dico una volta per tutte, non c'è alcun nesso tra voto anticipato e legge elettorale...".

Ma l'intesa col Pdl sulle modifiche al Porcellum c'è o no?
"Oggi un accordo non c'è ancora, ma da parte nostra c'è la disponibilità a chiudere in fretta. Naturalmente, non rinunciamo ai nostri due paletti. Primo: la sera in cui si chiudono le urne il mondo deve sapere chi governa, altrimenti ci travolge uno tsunami. Secondo: i cittadini devono scegliere chi mandare in Parlamento. In concreto, questo significa due cose. Ci vuole un premio di maggioranza ragionevole, e il 15% lo è, perché sarebbe curioso che il Pdl che nel 2005 ha introdotto una premialità sconosciuta in Occidente oggi dicesse no a una premialità decorosa. E poi ci vuole una quota significativa di collegi uninominali, per ricreare un legame tra elettori ed eletti".

Mi dica la verità, c'è imbarazzo nel Pd sul conflitto sollevato dal presidente Napolitano contro i pm di Palermo per le intercettazioni sulla trattativa Stato-mafia?
"Nessun imbarazzo. Napolitano ha fatto quel che doveva. Dopodiché, in un sistema costituzionale e democratico lo schema non è chi è d'accordo e chi no con il Capo dello Stato, ma chi lo rispetta e chi no. E allora, se il presidente ha chiesto alla Consulta di chiarire un punto cruciale che riguarda le sue prerogative, può anche essere criticato ma deve essere rispettato. E questo non sta avvenendo sempre. C'è una campagna contro Napolitano: esiste un filone populista, in certe aree della politica e del giornalismo, che forse ha anche un disegno in testa. Ma non passerà".

Ma lei e il Pd siete d'accordo con Monti e la Severino, che annunciano una nuova legge sulle intercettazioni?
"Per me in una democrazia liberale il diritto alla riservatezza di chi è al di fuori da un'indagine penale non è un optional. Ma attenzione: questo diritto si garantisce con un filtro rigoroso affidato alla magistratura, senza limiti alle indagini e bavagli all'informazione. Dunque, se il governo vuole presentare un ddl con queste caratteristiche, noi siamo pronti a discuterne. Ma la condizione è che ci sia un pacchetto complessivo di riforma della giustizia, con al primo posto le nuove norme contro la corruzione. E dopo, semmai, anche le intercettazioni".

Le primarie tornano a infuocare la vostra metà campo. Le farete, come e quando?
"Il percorso è chiaro. In autunno vareremo una carta di intenti, con regole d'ingaggio, criteri di partecipazione, impegni e responsabilità comuni. E tra novembre e dicembre faremo le primarie di coalizione, con la massima apertura alle forze politiche e alla società civile ".

Del rottamatore Matteo Renzi che mi dice?
"In questi mesi non ho mai alimentato polemiche, e continuerò a farlo. Siamo dentro la più grave crisi del dopoguerra. Ne usciamo solo se c'è condivisione tra noi".

Sulle alleanze il quadro è problematico, tra Vendola e Casini. Riuscirete a vincere e a governare, mettendo insieme i centristi e i comunisti?
"Noi organizziamo un centrosinistra aperto a un incontro con forze politiche e sociali moderate. Entro ottobre saranno pronti 10-15 punti di programma, non 281 pagine. Sarà poi il candidato premier a fare il resto...".

Lei, presumibilmente...
"Se mi voteranno, sarò io. Sulla base di quel programma, il centrosinistra proporrà un'alleanza di legislatura alle forze liberali e moderate del Paese. Dentro questo perimetro non ci sono solo Vendola e Casini, ma ad esempio anche i socialisti".

Con Di Pietro è finita per sempre?
"Mi pare evidente che lui vuole star fuori. Il centrosinistra deve fare spesso i conti con le forze agite da questo istinto minoritario di auto-esclusione dalle responsabilità. Io, da riformista, lavoro perché questa maledizione finisca. Il Pd è pronto per governare, e sono convinto che governerà".

m.giannini@repubblica.it


(24 agosto 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI La road map Monti-Severino.
Inserito da: Admin - Settembre 03, 2012, 12:00:44 pm
RETROSCENA

Giustizia, subito la legge anticorruzione ma niente forzature sulle intercettazioni

La road map Monti-Severino. Il premier con i ministri ha messo a punto il piano da sottoporre al Parlamento.

La Cancellieri: " Inconcepibile intercettare Napolitano". Si escludono decreti o ddl sugli ascolti. Anche il Quirinale condivide l'agenda.

La ricostruzione integrale su Repubblica oggi in edicola

di MASSIMO GIANNINI

Giustizia, subito la legge anticorruzione ma niente forzature sulle intercettazioni
"Niente strappi, niente forzature". Mario Monti è stato chiarissimo. Lo ha ribadito venerdì mattina, parlando con i suoi ministri per mettere a punto il "cronoprogramma" delle misure varate dall'esecutivo. Lo ha confermato giovedì pomeriggio, parlando al telefono con il Capo dello Stato per esprimere a Napolitano la solidarietà dell'intero governo di fronte al "ricatto" politico-mediatico al quale è stata esposta la più alta istituzione repubblicana. "Le intercettazioni telefoniche sono uno dei temi in agenda, ma in questo momento il governo non ha in cantiere né un disegno di legge, né tanto meno un decreto legge".
Lo stesso presidente della Repubblica, pur lambito dall'onda, invoca prudenza. Al contrario di quanto è stato detto e scritto in questi giorni, il Quirinale non ha mai sollecitato alla presidenza del Consiglio "misure urgenti" per limitare l'uso e l'abuso delle intercettazioni. Si può pensare a un disegno di legge, è la linea del premier, ma sulla giustizia non è questa la priorità.

Anche sulla giustizia, quindi, la road map è dunque definita. Il Guardasigilli Paola Severino ha lavorato l'intero mese di agosto, per metterla a punto. E nel weekend l'ha confrontata con i suoi tecnici e con Palazzo Chigi. "La legge anti-corruzione è il primo vagone che deve partire. Ma io ho seguito e seguo il dibattito che si sta sviluppando anche su tutti gli altri capitoli della giustizia, e sono pronta a fare i miei passi: dalla legge forense alla responsabilità civile dei magistrati". In linea con l'indicazione di Monti, anche il ministro non prevede sviluppi a breve sulle intercettazioni.

Dove invece l'accelerazione ci dovrà essere, secondo i piani della Severino, è appunto sull'anti-corruzione. Il premier l'ha detto e continua a ripeterlo: "Ce lo chiedono gli italiani, ce lo chiede l'Europa. C'è un testo che abbiamo ereditato dal precedente governo. Dobbiamo migliorarlo e rafforzarlo, con il contributo del Parlamento. Ma colpire la corruzione è un fattore di crescita per l'economia e di credibilità per il Paese". La Severino ne è altrettanto convinta: "Dopo il varo del provvedimento alla Camera, ora serve un'intesa politica forte, per far ripartire il ddl al Senato". Parole che lasciano trasparire la volontà di sollecitare Pdl, Pd e Udc ad una piena condivisione sulle modifiche da apportare la testo.

L'articolo intregrale su Repubblica in edicola e su Repubblica+ 1

(03 settembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/09/03/news/giustizia_governo-41876832/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Passera: patto per la produttività ultimo capitolo dell'agenda
Inserito da: Admin - Ottobre 09, 2012, 11:09:05 am
INTERVISTA

Passera: patto per la produttività ultimo capitolo dell'agenda Monti

Il piano del governo. Si gioca tutto nelle prossime due settimane: ma arrivare a un accordo sarà un miracolo.

L'obiettivo è riformare la contrattazione e puntarla sul rilancio della competitività

di MASSIMO GIANNINI

"Un grande patto per la produttività". È forse l'ultimo "sogno nel cassetto" del governo Monti. La campagna elettorale è già in pieno corso: condizionerà il finale della legislatura, e limiterà inevitabilmente il campo d'azione dell'esecutivo. Ma di cose da fare, oltre al consolidamento dei conti pubblici che dovrà consentire all'Italia di raggiungere il pareggio strutturale di bilancio nel 2013, ce ne sono ancora. Corrado Passera, di rientro da un dibattito nella basilica di Assisi con il cardinal Gianfranco Ravasi, ne è convinto. E il ministro dello Sviluppo economico fissa l'obiettivo principale dell'agenda d'autunno.

"Un accordo tra governo, imprese e sindacati, per riformare la contrattazione e puntarla sul rilancio della competitività del Sistema-Italia". Il momento è propizio, quasi obbligato. Il piatto della crescita è miseramente vuoto. Quello dello sviluppo, nonostante i tanti annunci di questi mesi, piange. Negli Anni Settanta, come ricorda il Cnel, il nostro Paese guidava la classifica dell'Ocse come output per ora lavorata del settore manifatturiero, con una crescita del 6,5%. Nella prima decade degli Anni Duemila siamo crollati all'ultimo posto, con un aumento della produttività dello 0,4% in media d'anno, contro il 3% della Gran Bretagna, il 2,8% dell'Olanda, il 2,5% della Francia, l'1,8% della Germania, l'1,5% della Spagna. Non solo. Secondo Jp Morgan, tra il 2008 e il 2009 l'Italia è l'unico Paese, tra i maledetti Piigs, ad aver
registrato un aumento del costo del lavoro nominale per unità di prodotto, mentre Portogallo, Irlanda, Gracia e Spagna hanno proseguito sulla via della deflazione salariale. Con questi numeri non si va lontano. Per questo Monti cerca l'affondo, e rilancia sul patto per la produttività.
Secondo lo schema del ministro per lo Sviluppo, il governo non si limiterà a fare solo da arbitro del negoziato, ma metterà sul piatto qualcosa. "La detassazione del salario di produttività". Le imprese e i sindacati, da parte loro, dovranno raggiungere un'intesa che ruota intorno a un diverso assetto della contrattazione. Quella di secondo livello, cioè il contratto aziendale, diventa preponderante, ed assorbe la quasi totalità degli aumenti salariali (come già prevedevano gli accordi di luglio e settembre 2011). Quella di primo livello, cioè il contratto nazionale, resta per la parte normativa, ovviamente, e anche per una minima parte economica, che deve coprire l'inflazione attraverso una revisione del meccanismo di adeguamento automatico in base alle previsioni sull'andamento dell'indice dei prezzi armonizzato a livello europeo (il cosiddetto Ipca). Ma anche per questa parte residua di salario, secondo Passera, "dovrebbe scattare un sistema di aggancio automatico agli incrementi di produttività". Come congegnarlo è oggetto della trattativa.

Si gioca tutto nelle prossime due settimane. Da oggi fino a giovedì prossimo la Confindustria dovrà discutere e mettere a punto la sua piattaforma, insieme alle altre associazioni di categoria di Rete Impresa. E dalla settimana successiva ripartirà il tavolo con Cgil, Cisl e Uil. Non sarà facile. Da una parte, il leader degli industriali Giorgio Squinzi non risparmia le critiche a Monti, e ha già bollato come "un aperitivo" il decreto legge sullo sviluppo approvato giovedì scorso dal Consiglio dei Ministri: la Confindustria continua a cavalcare l'idea di un aumento delle ore lavorate, trascurando il fatto che, senza una ripresa apprezzabile dei consumi e un rilancio consistente degli investimenti, il problema non è "quanto" si lavora ma "come" si produce. Dall'altra parte, il segretario della Cgil Susanna Camusso non intende fare più sconti al governo, ed anzi reclama una rapida liquidazione della parentesi "tecnica" a Palazzo Chigi: e su questa trincea, con la Cisl di Bonanni spiazzata a metà del guado, si è attestata persino la Uil di Angeletti, immemore delle tante cambiali in bianco firmate a suo tempo al governo Berlusconi.

Per questo, nelle condizioni attuali, secondo Passera arrivare a un accordo nelle prossime due settimane "sarebbe un miracolo". Ma vale la pena di tentare. Con la congiuntura disastrosa in corso, si profila altrimenti un duplice rischio. Che la via "produttivistica" alla fuoriuscita dalla crisi, secondo il motto squinziano del "lavorare di più", si riveli velleitaria (tanto più in una fase in cui la domanda è piatta). E che alla fine prevalga altrimenti la "via bassa" al recupero di competitività, cioè una tendenza inerziale delle imprese a tagliare comunque il costo del lavoro (con la conseguente, inevitabile erosione dei salari reali e la progressiva, ulteriore riduzione delle coperture del Welfare). E' quello che purtroppo sta già accadendo in alcuni settori, a partire dal sistema bancario.
Il governo, che finora della triade montiana iniziale ha centrato solo il target del rigore e non quello della crescita e dell'equità, non vuole trascorrere in surplace i pochi mesi che separano il Paese dalle elezioni. Passera ha in programma il nuovo Piano energetico nazionale, che dovrebbe vedere la luce entro novembre, e l'asta delle frequenze, che "si farà entro dicembre". Nei prossimi giorni arriveranno finalmente le indicazioni dell'Agcom. Passera sa bene che c'è stato un ritardo di due mesi, ma lo spiega con il passaggio di consegne tra i vecchi e i nuovi vertici dell'Autority. E ora, assicura, si va avanti senza impedimenti:
Sullo sfondo, restano altre due grandi questioni. La prima è l'eventuale richiesta dello scudo salva-spread. Al momento tutto è fermo, in attesa di capire le scelte della Spagna. Ma il premier e i suoi ministri non hanno cambiato idea. Secondo Passera, il problema di un differenziale dei tassi sui nostri Btp che non cala nasce dal dubbio dei mercati su cosa accadrà "dopo Monti", e non certo su come evolverà la tenuta dei nostri "fondamentali" di bilancio. Vittorio Grilli è ancora più netto: "Per noi non c'è nulla di nuovo: andiamo avanti per la nostra strada, e non chiediamo alcun aiuto perché non ne abbiamo bisogno", dice il ministro in partenza per il vertice dell'Eurogruppo che si riunisce oggi a Bruxelles.

La seconda questione è l'eventuale avvio di un percorso di riduzione della pressione fiscale. Anche dentro il governo, il dibattito è in pieno corso. Ci sono ministri che premono per "risarcire" i contribuenti onesti con i proventi dell'evasione. Ma Monti non si piega. "Entro questa legislatura non possiamo permettercelo". E Grilli è sulla stessa linea: "Non ci sono le condizioni", ripete. Anche l'ipotesi di dirottare su qualche sgravio in busta paga i 6,5 miliardi già previsti per evitare l'aumento di due punti delle aliquote Iva viene considerata impercorribile. "Non servirebbe a nulla - sostiene il ministro del Tesoro - se lasciassimo riaumentare l'Iva introdurremmo una misura regressiva e l'eventuale sgravio in busta paga non porterebbe benefici apprezzabili per i contribuenti: spalmando quelle risorse su una platea troppo vasta, ne verrebbe fuori una "mancia" da pochi spiccioli, che certo non servirebbe a sostenere i consumi delle famiglie". Dunque, si va avanti con il percorso già segnato. Ridurre le tasse, rimodulare l'incidenza dell'imposta personale sul reddito, non è nell'orizzonte del governo Monti. Se ne occuperà il suo successore. Cioè lo stesso Monti, secondo l'auspicio di molti.
m. gianninirepubblica. it


m.giannini@repubblica.it
 

(08 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Il ritorno alla realtà e il sogno fiscale
Inserito da: Admin - Ottobre 10, 2012, 07:30:56 pm
L'ANALISI

Il ritorno alla realtà e il sogno fiscale

di MASSIMO GIANNINI


BENTORNATI nel mondo reale. Immersi nel fango della questione morale e nel carosello della campagna elettorale, i partiti della strana maggioranza si erano quasi dimenticati dell'emergenza economica italiana.

La legge di stabilità del governo Monti 1 è una scossa che riporta tutti al principio di realtà. Una scossa necessaria, se si guarda al grafico dell'indebitamento finanziario strutturale, che ci siamo impegnati a riportare in surplus già a partire dall'anno prossimo. Una scossa violenta, se si guarda alle drammatiche condizioni materiali di un Paese già stremato dai sacrifici. E dunque una scossa non proprio salutare per l'economia reale, ancorché mitigata da una piccola svolta, e cioè l'avvio di quel "percorso" di riduzione della pressione fiscale che il presidente del Consiglio aveva negato solo una settimana fa.

"Non è un'altra manovra", giura il ministro del Tesoro Grilli. Ma si fa fatica a definire in un altro modo un pacchetto di misure da 11,6 miliardi, che arriva appena dieci mesi dopo il decreto Salva-Italia da oltre 30 miliardi, dopo una doverosa ma durissima riforma delle pensioni, dopo l'indegna stangata per gli esodati, dopo la pesantissima batosta sulla casa. Questa legge, nella forma e nella sostanza, è a tutti gli effetti una Finanziaria bis. La quantità degli interventi non è in discussione: se vogliamo portare al tavolo dell'Unione europea il pareggio di bilancio, questi sono i saldi da rispettare. Ma la qualità delle decisioni del governo soddisfa solo in parte.

La novità più rilevante, dunque riguarda le entrate. La riduzione di 1 punto delle due aliquote Irpef più basse dela curva è una prima inversione di rotta, sulla via della restituzione agli onesti di quanto finora è stato sottratto all'Erario dai disonesti. Si può fare di più e di meglio per sostenere il reddito delle famiglie meno abbienti, visto che a causa dello scandalo di un'evasione da 260 miliardi di euro l'anno la prima aliquota dell'imposta personale la pagano molti imprenditori, artitiani e lavoratori autonomi che non nascondono le tasse. Ma è comunque un segno d'attenzione verso i deboli, che finora non son stati proprio al centro dei pensieri di questo governo. E pazienza se per finanziare questo sgravio aumenterà l'Iva: un minor prelievo in busta paga si sente molto più di un alleggerimento dell'imposta sui consumi. Resta, sul fronte fiscale, il rammarico per l'introduzione effettiva dell'Imu sugli immobili ad uso commerciale della Chiesa solo a partire dal 2013, quando i comuni cittadini il prelievo sul mattone hanno già iniziato a pagarlo da giugno di quest'anno.

Sul fronte dei tagli, le lacrime di coccodrillo dei governatori regionali non ci possono impietosire. Dopo quello che è successo e succede nel Lazio e in Lombardia, in Campania o in Calabria, il nuovo giro di vite sugli enti locali ci sta tutto. Si arrangino loro, con meno ostriche e meno consulenze. Quello che si fa fatica ad accettare, invece, è un ulteriore colpo sulla spesa sanitaria e sul pubblico impiego. Non c'era proprio alternativa al taglio di un altro miliardo e mezzo ai bilanci delle Asl, con tetti di spesa già all'osso sul costo degli apparecchi e degli appalti e strette odiose sui permessi per l'assistenza dei disabili? Non c'era altra via per risparmiare risorse, se non congelando fino al 2017 i contratti degli statali, già bloccati nel triennio passato dal governo Berlusconi? E non c'era altro modo di contenere i costi, se non fissando un nuovo vincolo del 3% l'anno al già risibile budget della spesa universitaria?

Con questi interventi, selettivi al contrario, la spending review assume i contorni dell'accanimento terapeutico. E ancora una volta, i tecnici dimostrano di avere molta attitudine per la contabilità nazionale, ma poca propensione all'equità sociale. Detto questo, la Legge di Stabilità si porta dietro due implicazioni, sulle quali si impone una riflessione.

La prima implicazione è economica. Proprio nel giorno in cui l'Istat fotografa una caduta del 4,1% del potere d'acquisto dei salari 2 e il Fondo monetario certifica il crollo del 2,3% del Pil di quest'anno, la manovra aggiuntiva del governo conferma che l'Italia, come del resto la Spagna e in prospettiva la stessa Francia, ha ormai imboccato un sentiero che conduce ad Atene, e non a Berlino. La spirale più recessione-più rigore sta dispiegando i suoi effetti micidiali. I tagli di spesa e i recuperi di evasione possono finanziare ben poco, oltre al maggior fabbisogno determinato dalla caduta del denominatore nel rapporto deficit/Pil e debito/Pil. E l'aggiustamento, per un Paese che non può più neanche immaginare ulteriori inasprimenti d'imposta in stile Hollande ma dovrebbe semmai cominciare a ridurre la pressione fiscale, non può non avvenire ormai a carico del Welfare. Cioè attraverso la riduzione ancora più spinta del perimetro di una spesa sociale già di per sé iniqua e squilibrata.

È la via "mercantilistica" alle correzioni di bilancio, che genera bilanci pubblici a impatto sempre più regressivo e recessivo. Vale per oggi, ma vale anche per domani. Stretta in questa morsa, e a dispetto di qualche revisione fin troppo generosa del remore, l'Italia non vedrà alcuna ripresa nel 2013. Se ne riparla nel 2014, se va bene. E se non ci fosse da piangere, farebbe sorridere la comicità involontaria di chi, nella Legge di Stabilità appena varata, ha inserito anche una norma per il risparmio energetico denominata "Operazione cieli bui". Mai formula fu più azzeccata, non solo per declinare qui ed ora un tocco di "austerity" da Anni Settanta, ma anche per tracciare l'orizzonte generale del Paese nei prossimi due anni.

La seconda implicazione è politica. Al di là delle apparenze e delle esigenze imposte dalla fase, tra il governo Monti e i partiti che lo sostengono c'è un corto circuito sempre più evidente. A Pd, Pdl e Udc che vagheggiano suggestive riscritture bipartisan della riforma previdenziale della Fornero, il premier contrappone l'irriducibile coerenza dei saldi contabili e l'inevitabile cogenza degli impegni europei. È in atto uno strano paradosso: mentre i leader di una politica in affanno nel centrosinistra e in disarmo nel centrodestra lanciano Monti per la legislatura che sta per cominciare, lo contestano nella legislatura che deve ancora finire. Ma forse c'è una via d'uscita anche a questo paradosso. Il Professore, grazie al suo prestigio e alla sua autorevolezza, ha evitato al Paese la bancarotta, e lo ha riportato agli onori del mondo. Ma nella sua azione di governo ci sono luci ed ombre, cose ben fatte e occasioni mancate. Come dimostra l'ultima stangata decisa in perfetta autonomia dall'Eliseo, per gli Stati di Eurolandia le "condizionalità" del risanamento concordato con la Ue, presenti e future, riguardano la fedeltà complessiva al patto comunitario, non l'adesione acritica a un unico modello di sviluppo. Investono l'equilibrio complessivo di bilancio, non le azioni specifiche necessarie per raggiungerlo. in questa chiave, quella che si sta innescando intorno alla cosiddetta "Agenda Monti" rischia di essere una polemica inutile e dannosa.

Le politiche economiche sono frutto di una scelta, non di un destino. L'Italia ha un solo vincolo invalicabile (ormai anche di rango costituzionale) che chiunque vinca le elezioni dovrà ricordare e rispettare: non si può finanziare più una sola spesa in deficit. Tutto il resto è politica, dunque arte del possibile. Anche dopo il 2013, vero valore aggiunto è Monti, non la sua Agenda.

m.giannini@repubblica.it

(10 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Grilli: "Criticare la manovra è un suicidio i tagli Irpef ...
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2012, 05:52:34 pm

IL COLLOQUIO

Grilli: "Criticare la manovra è un suicidio i tagli Irpef danno speranza alle famiglie"

Il ministro dell'Economia difende la manovra ma dice: "Si può cambiare".

Conferma che i conti pubblici sono in sicurezza e aggiunge: "All'estero una sola domanda: cosa succederà dopo le elezioni?"


di MASSIMO GIANNINI

"LA LEGGE di stabilità è un punto di svolta". Appena rientrato da Tokyo, Vittorio Grilli traccia un bilancio della missione al Fondo Monetario Internazionale. "È andata molto bene. Tutti, da Christine Lagarde ai cinesi, apprezzano gli enormi passi avanti che l'Italia sta facendo. E a tutti è piaciuta molto la manovra che abbiamo appena varato...". Ma nessuno, evidentemente, è profeta in patria.

AGLI apprezzamenti degli organismi e dei partner internazionali fanno da contraltare le critiche severe che in Italia i partiti e le parti sociali stanno scaricando sulla Legge di stabilità. Pd, Pdl e stavolta persino "l'ultraortodossa" Udc di Casini sparano a zero sulle iniquità della manovra, che da un lato concede qualcosa sull'Irpef, ma dall'altro lato prende molto sulle detrazioni, le deduzioni e l'Iva. La Confindustria è perplessa, la Cgil annuncia lo sciopero generale.

E allora, nella settimana che coincide con l'avvio del dibattito parlamentare sul provvedimento, il ministro dell'Economia ci tiene a ribadire il suo messaggio: "Abbiamo voluto lanciare un forte segnale al Paese: il rigore sta dando i suoi frutti, e questi frutti possiamo cominciare a restituirli ai cittadini, avviando un percorso di riduzione della pressione fiscale. Ora, io capisco le critiche su alcuni punti specifici del provvedimento. Ma qui, per la prima volta da molto tempo, noi tagliamo di due punti le aliquote Irpef sui redditi più bassi.
Questo segnale va raccolto, dalla politica e dalla società, perché è positivo. Ma se anche questo, nella polemica quotidiana, viene trasformato in una segnale negativo, allora diventa un suicidio per il Paese".

Prima di tutto, Grilli cerca di difendere il senso politico della Legge di stabilità. "Dopo molti mesi di sacrifici necessari, noi con questa manovra di parziale riduzione della pressione fiscale vogliamo cambiare le aspettative delle famiglie e delle imprese. Vogliamo ridare speranza agli italiani, che con grande senso di responsabilità hanno capito cosa abbiamo rischiato, e si sono rimboccati le maniche".

LA MANOVRA: "PUNTI CRITICI, MA SCELTE DI EQUITÀ"
Questa iniezione di fiducia, secondo Grilli, non va dispersa nello scontro del giorno per giorno. "Mi rendo conto che certi toni vengono esasperati dalla campagna elettorale ". Ma nella Legge di stabilità ci sono alcuni aspetti oggettivamente discutibili. Per molti scaglioni di reddito, l'effetto della riduzione delle detrazioni e delle deduzioni annulla completamente l'abbattimento delle aliquote Irpef. Non solo: la tassazione supplementare su alcune voci, come le indennità di accompagnamento per gli invalidi, rende molto meno equilibrata una manovra che invece avrebbe dovuto avere una forte cifra "sociale".

Il ministro non nasconde il problema, ma vuole chiarire: "Guardi, a regime, con la nostra manovra sull'Irpef, rimettiamo 6 miliardi di euro nelle tasche degli italiani, e ne riprendiamo 1,2 attraverso la riduzione delle detrazioni e delle deduzioni. Faccia lei il saldo. Non solo: quei 6 miliardi li restituiamo ai redditi più bassi, e quegli 1,2 miliardi li spalmiamo su tutti i contribuenti. Mi dica lei se questa non è una scelta di equità...".

Detto questo, Grilli riconosce che qualcosa da rivedere c'è: "Ci sono alcuni punti del provvedimento che possono essere corretti. Il governo è disponibile a discuterne, e ad accogliere le proposte migliorative che verranno dalle forze politiche in Parlamento. A condizione, ovviamente, che non vengano alterati i saldi, e che non cambi il senso complessivo della manovra. Per esempio, sull'incidenza del provvedimento nella cosiddetta fase transitoria si può discutere ". Il colpo di scure delle detrazioni agisce in senso retroattivo sul 2012, per altro in violazione di un principio fissato dallo Statuto del contribuente.

Il ministro ne è consapevole: "Prima di procedere, abbiamo fatto varie ipotesi. Una di queste prevedeva anche la sterilizzazione del 2012. Purtroppo ci siamo resi conto che, facendo questa scelta, non avremmo avuto le risorse per coprire la riduzione immediata delle due aliquote Irpef, quella del 23% e quella del 27%, ma solo della prima. Ma poiché volevamo trasmettere una scossa forte al Paese, soprattutto in termini di aspettative, abbiamo preferito accantonare l'ipotesi, ed abbattere subito entrambe le aliquote".

Certo, anche il mantenimento di un punto in più sull'aliquota Iva è stata una decisione dolorosa: ma se l'anno prossimo le condizioni lo permetteranno il governo farà di tutto per eliminare anche quello.

LA RICHIESTA DI AIUTI: POSSIBILE BOOMERANG
Da oggi, nell'iter parlamentare del provvedimento, si potrà correggere il tiro. "E' un disegno di legge e non un decreto  -  chiarisce ancora Grilli - e quindi è aperto per definizione ai contributi delle Camere. Io accetto tutte le critiche, ma su un punto vorrei esser chiaro: per mesi siamo stati criticati perché abbiamo aumentato troppo le imposte e non abbiamo tagliato abbastanza le spese. Ora ci criticano perché riduciamo le imposte e tagliamo troppo le spese. Mi sembra un modo un po' autolesionistico di giudicare l'azione di governo ".

Lo stesso autolesionismo che, secondo il ministro del Tesoro, caratterizza il dibattito in corso sull'Agenda Monti, che a destra e a sinistra si ha troppa fretta di "liquidare". "Un altro suicidio, anche quello...", commenta, e invita a "fare un giro nelle cancellerie, o anche solo tra un po' di investitori al di là delle Alpi". Emerge la stessa, ossessiva domanda che ha tenuto banco al vertice del Fondo monetario di questo fine settimana: "Il tema non è più se l'Italia ce l'ha fatta o no, ma che cosa succederà in Italia dopo le elezioni del 2013. E che fine faranno la riforma delle pensioni e quella del mercato del lavoro".

Che l'Italia per il momento sia salva, per Grilli è una certezza. "I conti pubblici sono in sicurezza, e questo ce lo riconoscono tutti, la Ue, la Bce, l'Fmi e gli altri partner europei. Nel 2013 centreremo l'obiettivo del pareggio strutturale di bilancio, e senza aver bisogno di aiuti di alcun genere. Noi siamo convinti e lo ribadiamo ancora una volta: non chiederemo interventi alla Bce o al Fondo Salva-Stati, perché non ci servono".

Il ministro non lo dice, ma a questo punto, come si è convenuto anche in questi quattro giorni di summit a Tokyo, se l'Italia chiedesse gli aiuti adesso rischierebbe un effetto boomerang sui mercati: dopo aver ripetuto da tre mesi che gli aiuti non servono, se Monti ne facesse richiesta all'improvviso gli operatori internazionali potrebbero pensare a qualche emergenza contabile o finanziaria nascosta, o non dichiarata, e a quel punto l'attacco al debito sovrano sarebbe inevitabile.

Dunque, nessun aiuto. Il governo si aspetta piuttosto che gli aiuti li chieda la Spagna, che ne ha bisogno per il peggioramento del suo deficit e della crisi bancaria, e che sara "il test ideale" per verificare l'efficacia degli strumenti messi in campo dalla Bce e dall'Esm. E il governo si aspetta anche una valutazione prudente sulla possibilità di concedere una proroga ulteriore alla Grecia, come sembra sia intenzionata a fare la Trojka.

"L'Italia  -  ragiona Grilli - sosterrebbe il costo maggiore. Già nell'ultimo biennio il nostro debito pubblico è aumentato di 4 punti a causa dei prestiti a Grecia, Irlanda e Portogallo. Se scatteranno gli aiuti alla Spagna per non meno di 100 miliardi, la quota parte italiana sarà pari a un altro punto e mezzo di Pil. Insomma, dobbiamo essere generosi, ma dobbiamo valutare con prudenza anche l'impatto sulla finanza pubblica. Tanto più che attraversiamo una fase congiunturale ancora molto, molto difficile".

RIPRESA, MA SOLO CON UN PATTO SULLA PRODUTTIVITÀ
Anche questo è stato il cuore del vertice del Fondo monetario appena concluso. Le prospettive dell'economia globale, la crescita che non c'è, la ripresa possibile. Il presidente della Bce Draghi vede uno spiraglio all'orizzonte, all'inizio del 2013. Il ministro del Tesoro concorda, anche se non si fa troppe illusioni: "Nella seconda metà del 2012 le economie del pianeta sono crollate. Il Brasile è passato da una crescita dell'8% a un modestissimo 1%, e un fenomeno analogo è accaduto in India e in Cina. Con l'inizio del nuovo anno, le cose dovrebbero migliorare: i cinesi ci hanno assicurato che allenteranno la stretta fiscale e monetaria, dopo averne esagerato la portata per paura dell'aumento dei prezzi alimentari e immobiliari.

Questo potrà portare benefici anche al resto del mondo. Ma per contro, bisogna vedere cosa accadrà negli Stati Uniti, dove pesa il rischio del "fiscal cliff" e non è chiaro lo sbocco delle elezioni presidenziali". Insomma, il quadro è ancora incerto. Ed è per questo che l'Italia, secondo Grilli sofferente di una "crisi di domanda con aspettative negative che si stanno autoavverando ", aveva bisogno di una "scossa fiscale". La Legge di stabilità è stata concepita con questo spirito. Anche se i risultati, per adesso e ancora una volta, non soddisfano le attese di equità e di giustizia sociale.

A questo punto, a completare la missione del governo Monti non manca molto. Il ministro fissa i punti, di qui alla prossima primavera: approvazione della Legge di stabilità, decreto sulle spese delle Regioni, riforma costituzionale del Titolo V e dell'articolo 81 "rafforzato", ddl sulla corruzione, e poi, soprattutto, nuovo patto sulla produttività. Il confronto triangolare è in corso, il sentiero è in salita. Il governo ritiene di aver fatto la sua parte, finanziando proprio con la Legge di stabilità gli sgravi fiscali sul salario di produttività.

Ma questo non è sufficiente. E allora, come già aveva fatto Corrado Passera, anche Grilli rinnova il suo appello: "Il gap che esiste in Italia sulla produttività spiega anche il dissesto dei conti pubblici di questi anni. Quel gap è insostenibile, e va colmato al più presto. Imprese e sindacati devono fare uno sforzo, mettere da parte le pregiudiziali ideologiche, e consentire al Paese di fare il salto di qualità". Appello sacrosanto. Purché non si traduca, ancora una volta, nella solita "via italiana" alla competitività: non meno costo del lavoro per unità di prodotto, ma semplicemente meno salario reale in busta paga.

m.giannini@repubblica.it

(15 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI La famiglia Agnelli e il panino olandese
Inserito da: Admin - Ottobre 15, 2012, 06:05:14 pm
EDITORIALE

La famiglia Agnelli e il panino olandese

di MASSIMO GIANNINI

Chi ha mai detto che gli Agnelli non battono più un colpo? È vero, forse John Elkann latita un po’ sulle tormentate vicende della Fiat, e lascia al ruvido Marchionne il duro compito di spiegare al governo e agli italiani l’inspiegabile, e cioè come si possa intonare il de profundis per Fabbrica Italia dicendo al tempo stesso che il Lingotto «resterà in Italia». Ma al riparo dai rumori e dai riflettori la famiglia torinese è tutt’altro che inerte sul fronte del business. L’ultima novità in arrivo è la fusione tra Fiat Industrial e Case New Hollande (anticipata prima dell’estate dalla casata sabauda e confermata da Walter Galbiati su “Repubblica” di venerdì scorso). Dall’operazione nascerà una nuova società di diritto olandese. Una grande azienda italiana da 25 miliardi di fatturato cambierà nazionalità. E gli azionisti di maggioranza (gli Agnelli, appunto) lucreranno un consistente pacchetto di vantaggi societari e di benefici fiscali, alla faccia degli azionisti di minoranza. Il sistema più in voga nel Paese dei tulipani è quello di piazzare una Spa-madre nelle Antille Olandesi e una Spa-nipote (operativa) in uno Stato estero.
In mezzo c’è la Spa-figlia, che è controllata dalla prima e controlla la seconda. È lo schema usato dagli Agnelli per la fusione Fiat-Industrial-Cnh. Nel gergo della finanza si chiama «dutch sandwich». Cioè panino olandese. Buon appetito!

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Italia-Germania 0-2? Dimenticati in fretta i fasti degli Europei, i tedeschi rischiano di rifilarci in breve tempo almeno un altro paio di goal. Il primo è lo scippo di un altro gioiello di famiglia: la Siemens sta per chiudere le operazioni per portarsi a casa Ansaldo Energia.
Colpo brutto per il Sistema-Paese che cede un altro pezzo di innovazione, e pessimo per Finmeccanica che paga il caos industrial-giudiziario di questi ultimi anni. La holding di Via Montegrappa, in rosso per 2,5 miliardi, si arricchisce di denaro fresco ma si impoverisce di alta tecnologia. Il secondo goal è lo scippo di Endesa dalla «borsa» dell’Enel, che controlla il gigante spagnolo dell’energia con il 92%.
Per ora è solo una voce, per altro smentita dagli interessati: E.On potrebbe tornare in pista per riprendersi la preda che il colosso italiano gli soffiò nel 2006, con un’Opa da 41,3 euro per azione che valeva quasi il doppio di quella lanciata allora dai tedeschi.
Oggi, per Endesa, E.On dovrebbe scucire la bellezza di circa 50 miliardi. Tanti, forse troppi anche per i potentissimi teutoni.

Anche in questo caso, per l’Italia sarebbe un danno, ma per l’Enel sarebbe una grande boccata d’ossigeno. A fine 2012 l’indebitamento finanziario netto previsto dal gruppo guidato da Fulvio Conti sarà di 43 miliardi. È la maledizione delle public utilities italiane, dall’Eni alla Telecom: molti debiti, poche idee.

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Titolo: MASSIMO GIANNINI L'occasione mancata
Inserito da: Admin - Ottobre 19, 2012, 05:27:33 pm
IL COMMENTO

L'occasione mancata

di MASSIMO GIANNINI

NELL'ITALIA dei Berlusconi e dei Formigoni, nel Paese dei Belsito e dei Fiorito, una legge contro la corruzione che vede la luce quasi vent'anni dopo Tangentopoli è un evento storico. E Monti, che sulla legge ci mette la faccia e la firma, si assume per questo una responsabilità rilevante. Dopo mesi di pretestuosa melina parlamentare, di inerzia "comprensibile ma non scusabile di alcune parti politiche", di trattative sopra e sotto il banco, il governo rompe gli indugi con il voto di fiducia al Senato, passato con un plebiscito bulgaro: 257 sì, e solo 7 no. Ci sarebbe da festeggiare. Ma la festa ha un gusto un po' amaro.

Il ministro della Giustizia tuona: "Questa legge non è carta straccia". Ha ragione: questa legge, semmai, è un pannicello caldo. Conforta, ma non cura. Lenisce, ma non risolve. In qualche caso, addirittura, peggiora il male che vorrebbe estirpare. Nessuno nega il segnale politico. Dopo il devastante lavacro di Mani Pulite, e dopo diciassette anni di cultura dell'impunità scientificamente inoculata nelle vene del Paese dalla macchina del potere berlusconiano, il testo della Severino è il primo tentativo di rialzare in qualche modo la bandiera della legalità. Di rimettere mano a una strumentazione normativa logora, contraddittoria e comunque inadeguata ad arginare la nuova ondata di scandali che dalla Lombardia alla Sicilia sta ammorbando la democrazia e soffocando l'economia. La corruzione "vale" 62 miliardi di giro d'affari, "pesa" per il 2,4% sul reddito nazionale e per il 3% sul fatturato delle imprese, riduce del 16% il volume degli investimenti esteri. Se si rimuovesse la metastasi del malaffare, il Pil italiano potrebbe crescere del 4% in 5 anni. Varare una legge che almeno sulla carta si prefigge questo obiettivo è già di per sé un atto di discontinuità con il drammatico "passato che non passa".

Ma i motivi di soddisfazione finiscono qui. Se dal politico si passa al giuridico, e se dal simbolico si passa al pratico, è purtroppo facile dimostrare che questa legge non è affatto una grande svolta, ma una gigantesca occasione mancata. Innanzi tutto, per quello che il testo "non contiene" (come ieri ha giustamente ricordato su questo giornale Barbara Spinelli). Il falso in bilancio, depenalizzato nel 2002 dal Cavaliere. Il reato di "auto-riciclaggio", invocato inutilmente dalla Ue, dalla Banca d'Italia e dal procuratore antimafia Piero Grasso. Il reato di "voto di scambio", utilizzato a man bassa da governatori e assessori, e non più a suon di denaro ma di appalti e assunzioni, ville e vacanze. E poi la sanzione dell'interdizione automatica dai pubblici uffici per i politici concussori, che viene inopinatamente cancellata dal codice e che rischia di precipitarci dalla vetta delle "liste pulite" all'abisso delle "poltrone sporche".

Ma questa legge diventa addirittura pericolosa per quello che invece "contiene". Al di là degli obiettivi passi avanti sulle nuove figure di reato (traffico di influenze, corruzione tra privati) nel caso della concussione la marcia indietro è davvero inquietante. Qui, paradossalmente, il provvedimento del governo non solo non riduce il danno, ma lo produce. Il reato finora disciplinato dall'articolo 317 del codice penale viene spacchettato in due fattispecie diverse. Per uno (la "corruzione per costrizione", ipotesi quanto meno fantasiosa perché in genere nessuno si fa corrompere con la pistola alla tempia) le pene restano immutate a 12 anni nel massimo e si inaspriscono da 3 a 4 anni nel minimo. Per l'altro (la "indebita induzione", ipotesi classica di chi ottiene favori o "utilità" abusando della propria posizione di pubblico ufficiale) le pene si abbattono da 12 a 8 anni. Questa scelta, insensata e dissennata, incide sui tempi di prescrizione, che scendono da 15 a 10 anni. E può tradursi in un vero e proprio colpo di spugna per molti processi, tuttora pendenti di fronte ai tribunali della Repubblica.

Lo stesso ministero della Giustizia stima che i processi per concussione, giunti al traguardo della sentenza definitiva in Cassazione prima della mannaia della prescrizione, sono stati 109 nel 2009, 121 nel 2010, 142 nel 2001. Allo stato attuale, ne risultano pendenti 75. Con la nuova legge almeno la metà di questi potrebbe già decadere. E a saltare potrebbero essere i processi più illustri, con imputati eccellenti e bipartisan. Da quello di Berlusconi per il caso Ruby, la "nipote di Mubarak", a quello di Penati per le aree ex Falck. Da quello di Ottaviano del Turco a quello di Clemente Mastella. Da quello di Alfonso Papa a quello di Alberto Tedesco. Perché questi processi meritano un trattamento di favore rispetto a tutti gli altri, resta un arcano che nessuno ha il coraggio di spiegare.

La Severino, in aula, si difende dalle critiche. Parla di un "equilibrio delle pene" che va sempre rispettato, perché "non ci devono essere eccessi né in basso né in alto". Parla di pene giuste che si devono costruire "tenendo conto dei valori da tutelare". Ma proprio questo è il punto debole del Guardasigilli. La concussione (come dimostrano le cronache giudiziarie di questi mesi e di questi giorni) è forse il reato più grave tra quelli compiuti contro la pubblica amministrazione. Perché merita una diminuzione della pena, rispetto alle norme già in vigore? Dov'è l'equilibrio? Quello che il ministro considererebbe evidentemente un "eccesso" (il mantenimento della pena massima a 12 anni anche per l'indebita induzione, oltre che per la concussione per costrizione) sarebbe fondamentale non solo e non tanto per punire più severamente chi commette il reato, ma soprattutto per mantenere a 15 anni i tempi della prescrizione, e quindi per evitare che saltino i relativi processi ancora in corso. Non è forse questo un "valore da tutelare", in un Paese che ha conosciuto le leggi ad personam di Berlusconi (a partire dalla ex Cirielli, utile a lui proprio per dimezzare le prescrizioni), e che per questo ha subito diversi richiami dall'Europa e dall'Ocse?

Il nodo è giuridico. Ma con tutta evidenza, è prima di tutto politico. Il tira e molla sulla legge anti-corruzione, in corso ormai da quasi due anni, nasconde un non detto che chiama in causa tutti i partiti, e ora anche il governo. Il patto finale, rappresentato da questa legge, conviene a vario titolo a tutti i "contraenti". Gli stessi che ora, a destra e a sinistra, si affrettano a dire che il testo va approvato, ma alcune norme andranno riviste, lo hanno di fatto "blindato" nella parte che gli stava più a cuore, litigando (o fingendo di litigare) su tutto il resto. La Severino respinge i sospetti, ed è legittimo che lo faccia. Grida "nessuno dica che questa legge è frutto di inciuci". Ne prendiamo atto: non ci sono stati "inciuci" negoziati a tavolino (anche se il Guardasigilli in queste settimane di confronto con i partiti deve aver visto l'inferno, altrimenti non aggiungerebbe un sibillino "bisogna passare qui dentro per capire la fatica che c'è dietro ad ogni provvedimento"). Diciamo allora che il risultato finale è probabilmente il frutto di una mutua e forse anche tacita convenienza. E dirlo non è fare i "grilli parlanti", ma semplicemente gli onesti cronisti.

Non tutto è ancora perduto, comunque. Il disegno di legge torna ora alla Camera. Con un rigurgito di coraggio e di consapevolezza, magari supportato da un parere del Csm che stranamente questa volta tarda troppo a venire, il governo potrebbe ancora correggere queste storture. Potrebbe ancora riempire di misure coerenti e cogenti quello che, per adesso, resta solo un passaggio significativo, ma non decisivo, nella lotta alla corruzione. "Siamo un governo di persone oneste, non abbiamo varato queste norme perché siamo amici degli amici dei corrotti": nessuno può dubitare delle parole del ministro della Giustizia, che riflettono al meglio quelle più volte pronunciate dal presidente del Consiglio. Ma proprio per questo ci aspettiamo qualcosa di più. Proprio per questo è nato l'appello e poi la raccolta delle oltre 300 mila firme lanciata da Repubblica. Una legge diversa. Una legge della quale "l'Italia possa andare davvero orgogliosa". Questa, obiettivamente, non lo è.
m.giannini@repubblica.it

(18 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Il trucco dei film strapagati per creare una cassaforte segreta
Inserito da: Admin - Ottobre 28, 2012, 10:33:35 am
L'INCHIESTA

Il trucco dei film strapagati per creare una cassaforte segreta

Il "sistema Berlusconi": frode da 270 milioni. Cinquantamila pagine di atti e rogatorie internazionali in 12 Paesi.

Alcune società offshore si ritrovano anche in altri processi paralleli del Cavaliere.

Come scriveva D'Avanzo nel 2010, Agrama acquista i diritti e poi li rivende a Mediaset "a prezzi enormemente gonfiati"

di MASSIMO GIANNINI

MILANO - Lo hanno chiamato, con un eufemismo, "processo Mediaset". Sedici anni, tra indagini dei pm e conflitti con il tribunale di Milano. In realtà questa condanna del Cavaliere rivela e colpisce il cuore segreto del "Sistema-Berlusconi": i fondi neri.

Buoni per tutti gli usi: evadere le tasse, pagare tangenti. Un metodo collaudato. Non solo in quest'ultimo processo. Con soggetti e oggetti diversi, ricorre anche in altri processi che hanno visto l'ex presidente del Consiglio sul banco degli imputati: dall'affare Mills al caso Mediatrade, fino ad arrivare alle vicende di All Iberian. C'è questo filo rosso, a legare la lunga sequela di inchieste che lo hanno riguardato e accompagnato in questi diciotto anni di avventura politica e di sventura giudiziaria: creare una "provvista riservata", nelle pieghe dei bilanci societari, per farne un uso indebito e improprio. Per tutelare i propri interessi finanziari, e addomesticare i propri guai processuali. Intrecciato a questo, c'è un altro filo: quello della politica, che Berlusconi ha piegato ai suoi bisogni, militarizzando il Parlamento e deformando i codici con almeno diciotto leggi ad personam concepite con l'unico scopo di difendere se stesso "dai" processi, e non "nei" processi. Una storia che merita di essere ripercorsa, a partire dalla condanna appena irrogata dai giudici milanesi.

PROCESSO MEDIASET: SEI ANNI DI "CORPO A CORPO"
Cinquantamila pagine di documenti. Rogatorie internazionali in dodici Paesi. L'inchiesta sui diritti cinematografici Mediaset muove i primi passi nel giugno 2003. I pm della procura di Milano De Pasquale e Robledo aprono l'ennesima indagine su Berlusconi, allora premier, già imputato in altri 7 processi. Indagando sui fondi riservati del comparto estero delle controllate Fininvest, i magistrati scoprono quello che, nella sentenza di ieri, definiranno un "sistema illegale" (guidato dallo stesso Berlusconi anche dopo il suo ingresso in politica) finalizzato alla costituzione di "disponibilità estere" attraverso l'utilizzo di diverse "società offshore". Alcune delle quali, la Century One e la Universal One, si ritrovano anche in altri processi paralleli che riguardano il Cavaliere.

Tutto ruota intorno alla compravendita fittizia di diritti televisivi su altrettanti film. Diritti che secondo i magistrati sono "oggetto di passaggi di mano e di maggiorazioni ingiustificate". Per realizzarli, il Cavaliere si avvale dei soliti, improbabili "mediatori" che ricorrono nelle sue diverse scorrerie finanziarie, inevitabilmente trasformate in traversie giudiziarie (da Mills a Tarantini e Lavitola). Qui il sensale è un egiziano diventato cittadino americano, Frank Agrama, che compra e rivende diritti, gonfiandone il valore, per conto di Berlusconi. Sono "passaggi privi di qualsiasi funzione commerciale, che servono "solo a far lievitare il prezzo", e dunque a costituire una provvista in nero dentro i bilanci. Per i magistrati il sistema dei costi gonfiati consente così "un'evasione notevolissima". Almeno 270 milioni di euro, sottratti alla società e agli azionisti, e occultati al Fisco.

Berlusconi - all'inizio dell'inchiesta indagato per falso in bilancio, appropriazione indebita e frode fiscale insieme ai figli Marina e Piersilvio, a Fedele Confalonieri e ai manager Fininvest Giorgio Vanoni e Candia Camaggi - nega tutto. Ma come scrive Giuseppe D'Avanzo in un articolo del gennaio 2010, il pm Robledo ritiene di poter dimostrare che Agrama acquista i diritti e poi li rivende alle società di Berlusconi "a prezzi enormemente gonfiati". A Los Angeles li compra a cento. A Milano li rivende a mille. La differenza tra cento e mille resta all'estero e Agrama si preoccupa, molto curiosamente, di "restituire" i profitti su conti nella disponibilità di manager Mediaset, in Svizzera, nel Principato di Monaco, alle Bahamas.

LO SCUDO DELLE 18 LEGGI AD PERSONAM
Ce n'è abbastanza per ritenere che quell'Agrama sia un socio occulto di Berlusconi. Come accade in parallelo nel processo Mills, anche qui ci sono testimoni che confermano. Come Bruce Gordon, responsabile della vendite della Paramount, che dichiara: "In Paramount le società di Agrama sono indistintamente indicate come "Berlusconi companies" e l'esposizione creditoria come "Berlusconi receivables"". Allora Gordon (come poi confermeranno i giudici con la sentenza di condanna di ieri) aggiunge che l'ascesa al governo di Berlusconi non ha mutato la situazione. "Agrama - ricorda il testimone - ci diceva che continuava a riferire a Berlusconi sulle negoziazioni per l'acquisto dei film anche dopo la sua nomina a presidente del Consiglio". Dunque - è la convinzione della magistratura inquirente, ora ribadita anche da quella giudicante - "non esistono gli affari di Agrama, ma soltanto quelli di Berlusconi".

Insomma, fin dall'inizio si capisce che il premier rischia grosso. Comincia così la sua ennesima battaglia contro le toghe. La procedura è quella di sempre: un sabotaggio continuo e sistematico del lavoro dei magistrati. Il 7 luglio 2006, dopo che l'allora ministro della Giustizia Castelli ha bloccato almeno due rogatorie in America ed è stata respinta la richiesta di Ghedini di trasferire il processo a Brescia, il gup Paparella rinvia a giudizio il Cavaliere. Per il Berlusconi imputato, il processo inizia ufficialmente il 21 novembre. Ma nel frattempo, il Berlusconi premier dispiega tutta la sua potenza di fuoco per fermare "i giudici mozza-orecchi". Prima della fine della legislatura, impone alle Camere due micidiali leggi ad personam, quella sulla prescrizione breve e quella sulla depenalizzazione del falso in bilancio.

Equivalgono a due colpi di spugna. E funzionano. Nel gennaio 2007 i giudici di Milano devono prendere atto dell'avvenuta prescrizione per i reati commessi prima del 1999 e per il falso in bilancio. Resta l'accusa di frode fiscale. Ma per questo c'è già pronta un altro salvacondotto: il nuovo Lodo Alfano, che concede l'immunità (e l'impunità) alle alte cariche istituzionali. A settembre 2008 il processo è sospeso, perché i pm invocano l'incostituzionalità del Lodo. La Consulta gli da ragione, ma intanto se n'è andato un altro anno. Il processo riparte a novembre del 2009. Il Cavaliere è già tornato a Palazzo Chigi, ma non ha più scudi per proteggersi. Ne inventa un altro, e lo fa ingoiare a forza alla sua maggioranza e al Paese. La legge sul "legittimo impedimento". Grazie a questa, per quasi due anni non si presenta alle udienze, e viene dichiarato formalmente "contumace". Si rifa vedere ad aprile 2011, per ammonire il pm De Pasquale: "Lei è quello cattivo?".

È quasi un presagio. A giugno di quest'anno De Pasquale chiede la condanna di Berlusconi a 3 anni e 8 mesi: "Sui soldi dei fondi neri - afferma in aula - ci sono le sue impronte digitali". Non più il "teorema di una magistratura inquisitoria che attenta la democrazia". Da ieri questa è una sentenza di un tribunale della Repubblica, emessa in nome del popolo italiano. Con un aggravante: il tribunale infligge all'imputato una condanna più pesante di quella richiesta dalla pubblica accusa. Lo fa in ragione della sua comprovata "propensione a delinquere".

I "106 PROCESSI" E LA FALSA TEORIA DEL COMPLOTTO
Questi sono i fatti. L'ex premier, e la sua cerchia di cortigiani, gridano allo scandalo. Già chiusa la parentesi da "statista" che con l'ennesimo "atto d'amore" verso l'Italia si ritira in una sua immaginaria "riserva della Repubblica", l'unto del Signore risfodera i suoi triti anatemi. Evoca la "persecuzione giudiziaria", la "giustizia a orologeria", il "Paese incivile e barbaro". Parla di "60 procedimenti subiti in diciotto anni di vita politica". E mente, ancora una volta, come sui suoi processi ha sempre fatto fin dal 1994. Nell'ottobre 2009 dichiara: "In assoluto ho subito 106 processi, tutti finiti con assoluzioni e due prescrizioni". Nello stesso giorno, la figlia Marina ridimensiona le esagerazioni paterne: "Mio padre tra processi e indagini è stato chiamato in causa 26 volte". Qualche giorno dopo, il portavoce Paolo Bonaiuti la spara più grossa: "I processi contro Berlusconi sono 109".

La verità è un'altra. Anche questa, raccontata più volte da Giuseppe d'Avanzo su questo giornale. I processi affrontati dal Cavaliere come imputato sono stati finora 17. Di questi, 13 sono conclusi. Le assoluzioni sono state solo 3. In un'occasione con formula piena per l'affare "SmeAriosto/1" (la corruzione dei giudici di Roma). Due volte con la formula dubitativa del comma 2 dell'articolo 530 del Codice di procedura penale che assorbe la vecchia insufficienza di prove: i fondi neri "Medusa" e le tangenti alla Guardia di Finanza, dove il Cavaliere è stato condannato in primo grado per corruzione (dichiarato colpevole ma prescritto in appello grazie alle attenuanti generiche; assolto in Cassazione per "insufficienza probatoria").

I proscioglimenti sono stati 10, propiziati da altrettante leggi ad personam. Riformato e depenalizzato il falso in bilancio dal suo governo, Berlusconi viene assolto in due processi (All Iberian/2 e Sme-Ariosto/2) perché "il fatto non è più previsto dalla legge come reato". Due amnistie estinguono il reato e cancellano la condanna inflittagli per falsa testimonianza (aveva truccato le date della sua iscrizione alla P2) e per falso in bilancio (i terreni di Macherio). Per cinque volte è salvo con le "attenuanti generiche" che (attenzione) si assegnano a chi è ritenuto responsabile del reato. Per di più le "attenuanti generiche" gli consentono di beneficiare, in tre casi, della prescrizione dimezzata che si era fabbricato come capo del governo: "All Iberian/1" (finanziamento illecito a Craxi); "caso Lentini"; "bilanci Fininvest 1988-'92"; "fondi neri nel consolidato Fininvest" (1500 miliardi); Mondadori (Cesare Previti compra il giudice Metta, ed entrambi sono condannati).

Questa è dunque la vera storia dei processi del Cavaliere. Quasi sempre è risultato colpevole, ma si è salvato grazie alle norme che lui stesso si è cucito addosso. Per trasformare la sua ossessione giudiziaria nell'ossessione di un'intera nazione.

m.giannini@repubblica.it

(28 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI L'onda anomala
Inserito da: Admin - Ottobre 30, 2012, 05:42:11 pm
IL COMMENTO

L'onda anomala di MASSIMO GIANNINI


Prima dell'uragano di New York, arriva lo tsunami di Sicilia. Basta che Beppe Grillo attraversi a nuoto lo Stretto di Messina, e l'onda anomala investe l'isola. Devasta quasi tutto, a partire dalle vecchie "casematte" del potere di centrodestra. Tra le macerie si erge un'alleanza di centrosinistra, fragile e non autosufficiente. E si staglia un Movimento 5 Stelle, agile e destabilizzante. Se questo esito del voto siciliano si proiettasse su scala nazionale, ne verrebbe fuori un quadro politico indecifrabile. E un Parlamento ingovernabile.

Sul piano locale, queste elezioni regionali offrono tre spunti di riflessione. La prima evidenza, la più inquietante, è il combinato disposto tra la corsa dell'anti-politica e la fuga dalla politica. Tutti immaginavano che il comico genovese, in trasferta in una terra a lui incognita, avrebbe ottenuto un buon risultato. Ma non era affatto scontato che, con poco più di una settimana di comizi nelle piazze e nelle valli sicule, Grillo riuscisse a diventare il primo partito in quasi tutte le città, con percentuali che oscillano intorno al 18%. Non contano le proposte programmatiche sull'isola formulate dal leader dell'M5S. Conta la voglia di cambiamento purchessia di chi lo ha votato, che fa premio su tutto. Se a questo dato aggiungiamo il record di un'affluenza alle urne che per la prima volta nella storia repubblicana resta sotto la soglia psicologica del 50%, l'abisso che separa gli elettori dagli eletti (per disincanto populista o per disinteresse astensionista) diventa davvero pauroso.

La seconda evidenza, la più stupefacente, è il crollo totale del Pdl, che è alla base dell'insuccesso di Musumeci. La Sicilia è storicamente un feudo della creatura berlusconiana, che qui è nata come Forza Italia, è cresciuta, ha incubato le sue più disinvolte formule coalizionali ed ha coltivato i suoi trionfi epocali. Dalla satrapia condivisa con il "socio" centrista Totò Cuffaro al leggendario "cappotto" 61 a zero del 2001. Dalle vette vertiginose del 46,6% ottenuto alle politiche del 2008, poi parzialmente corretto al 33,4% delle regionali, oggi il Partito del Popolo delle Libertà precipita al 12%. Una miseria di voti, racimolati nella terra dei Marcello Dell'Utri, dei Renato Schifani e soprattutto di quell'Angelino Alfano che qualcuno vorrebbe degno ed unico erede dell'impero del Cavaliere, e che persino nella sua Agrigento incassa l'ennesima umiliazione. Nonostante questo, il segretario di Berlusconi (molto più che del suo partito) parla di un "risultato straordinariamente positivo". Più che indignazione, suscita compassione.

La terza evidenza, la meno sconfortante, è la tenuta dell'asse Pd-Udc, che consente almeno a Crocetta di governare la regione, magari attraverso un ulteriore patto con il movimento di Micciché e Lombardo. è il segno che l'alleanza tra progressisti e moderati ha un suo senso, anche in una regione generalmente "inospitale" per la sinistra. Bersani parla di "un risultato storico", e a suo modo dice il vero. A parte il dominio assoluto della Dc ai tempi della Prima Repubblica, nella Seconda in Sicilia ha sempre governato la destra (con l'insignificante parentesi di Antonio Capodicasa, esponente dell'allora Pds, che guidò Palazzo dei Normanni tra il '98 e il 2000). Dunque, per il centrosinistra aver piazzato comunque la sua bandiera nell'isola è un passo avanti. Ma il segretario farebbe bene a non enfatizzare troppo il "successo". La ditta Pd-Udc è comunque la somma di due debolezze: insieme (se si aggiunge il 6,5% della lista civica Crocetta) fanno più del 30%, ma da soli i democratici calano a poco più del 13% e l'Udc si ferma al 10,8% (contro, rispettivamente, il 25,4% e il 9,4% delle politiche 2008). Vuol dire che il centrosinistra vince sulle rovine del centrodestra, cede consensi ai grillini e non intercetta quelli finiti nel frigorifero dell'astensione.

La Sicilia è da sempre un "laboratorio", che anticipa e consolida le tendenze generali. Questi tre effetti del voto locale avranno dunque implicazioni significative sulla politica nazionale.
A destra si produce l'ennesimo paradosso. Proprio il risultato siciliano (che sancisce plasticamente la fine del ciclo berlusconiano e l'eutanasia di Alfano, un "delfino" mai nato) offre a Berlusconi l'opportunità di rilanciarsi ancora una volta come unico demiurgo della destra italiana. La destra dell'Editto di Villa Gernetto: populista e forzaleghista, anti-europea e anti-repubblicana. La destra che attacca il rigore della Merkel e il Fisco oppressore, accusa la Corte costituzionale e la magistratura inquirente, e un giorno offre a Monti la guida del Ppe italiano mentre il giorno dopo minaccia di togliergli la fiducia in Parlamento. La destra che agita le primarie come una foglia di fico di un impossibile "pluralismo interno", ma che vedrà di nuovo il Cavaliere come il solo e il vero tragicomico Jocker di una campagna elettorale pericolosa per il governo e rovinosa per il Paese.
A sinistra si profila un'opportunità, ma anche un problema. L'idea di una vocazione maggioritaria del Pd, per quanto desiderabile e suggestiva, non sembra in sintonia con gli umori del Paese. Il Partito democratico ha dunque una sola chanche, che il risultato siciliano avalla e per certi versi propizia. Deve saper essere una forza capace di federarne altre, usando l'unica risorsa della quale in questo momento sembra disporre: il suo potere di coalizione. La sua forza di attrazione, che si deve poter esplicare sia alla sua sinistra, sia al centro. è la fatica del riformismo. Chi non capisce questo, e si ostina a porre veti insormontabili sulle alleanze e paletti irrinunciabili sui programmi, rischia di condannare il centrosinistra alla divisione, e quindi alla minorità.

Ma su tutto, resta una preoccupazione di fondo. Il voto siciliano ci consegna un panorama di formazioni politiche che, singolarmente prese, oscillano tra il 10 e il 20%. Tramontati i partiti di massa, esauriti i partiti personali, restano partiti medio-piccoli che per provare a governare possono solo provare a "consorziarsi". Per il resto, un enorme bacino di suffragi in libera uscita, ma senza vie d'uscita: una domanda di cambiamento politico che non trova risposta nei partiti, incapaci di innovare persone e proposte, e quindi finisce nel limbo del non voto. Se questo fosse il risultato delle prossime elezioni nazionali, nella primavera del 2013, l'Italia ne uscirebbe a pezzi. Sarebbe uno scenario che, a dispetto di una politica che vuole tornare a guidare le sorti del Paese, sarebbe obbligata a ripetere l'esperimento in corso, cioè quello di una Grande o Piccola Coalizione. Ma con l'aggravante di un Parlamento balcanizzato, tra le convulsioni dei forzaleghisti e le aggressioni di un centinaio di deputati grillisti. Una prospettiva sicuramente favorevole a un Monti bis. Ma probabilmente sfavorevole all'Italia, che in balia dell'onda anomala si confermerebbe l'unica democrazia "commissariata" dell'Occidente.

m.giannini@repubblica.it

(30 ottobre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/10/30/news/onda_anomala-45552662/?ref=HRER3-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La metamorfosi del bipolarismo
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2012, 06:33:55 pm
La metamorfosi del bipolarismo


di MASSIMO GIANNINI

"QUALCOSA mi dice di non candidarmi", aveva confessato Mario Monti nel colloquio con Eugenio Scalfari su Repubblicadi ieri. Quella "voce di dentro", che in lui covava da tempo insieme a quelle che invece, da fuori, lo spingevano a candidarsi, alla fine ha avuto un peso. L'ultima conferenza stampa del Professore, cerimonia di commiato di un tecnico al capolinea, non si è trasformata nell'epifania di un leader pronto a "salire in politica" con la sua faccia e con la sua lista. Monti, per ora, non si candida. O meglio: si candida, ma a modo suo. Da "candidato riluttante". Si propone cioè nell'unico modo in cui può farlo un senatore a vita obbligato a un profilo di terzietà, e in cui sa farlo un civil servant disposto ad essere "chiamato" dall'establishment, piuttosto che votato dal popolo.

Mette se stesso, e la sua Agenda, a disposizione del Paese e di chi, tra i partiti, vorrà assumere questo intero "pacchetto" come architrave costituente della prossima legislatura. Se questo accadrà, e se glielo chiederanno espressamente, lui sarà pronto a valutare un'eventuale premiership. La linea è sfumata. Il lessico è fumoso. Più che Alcide De Gasperi, la formula montiana ricorda Aldo Moro. Ma il senso di marcia, di qui alle elezioni del 24 febbraio, è ormai abbastanza chiaro.

Stretto tra la moral suasion di Napolitano (fautore del principio di imparzialità imposto dal laticlavio senatoriale) e la forza dissuasiva dei sondaggi (finora infausti per le formazioni moderate) il Professore si tiene ancora aperte tutte le porte. In entrata, se la proposta dell'ipotetica "coalition of the willing" che lui auspica lo convincerà. Ma anche in uscita, se invece non ci saranno le condizioni di "credibilità" dell'offerta che lui ritiene indispensabili.

Il premier uscente interrompe così l'insostenibile melina di questi ultimi giorni, e rilancia la palla nella metà campo dei partiti. Dicano loro che "uso" vogliono fare del montismo, e dell'eredità positiva lasciata da questo governo di "salvezza nazionale". Poi lui deciderà. Questa mossa presta il fianco ad almeno due critiche. Da un lato, prolunga il clima di incertezza sulla geometria e la fisionomia degli schieramenti in vista del voto di febbraio. Dall'altro lato, riflette lo stesso schema emergenziale dal quale è nato un anno fa il governo tecnico: la "democrazia degli ottimati" che prevale, ancora una volta, sulla democrazia degli eletti. Ma in questa mossa c'è anche una svolta strutturale. Un gigantesco "cambio di gioco", di cui Monti diventa l'artefice. Nella bolla di relativa incertezza, che il Professore non ha voluto sgonfiare per ragioni di coerenza istituzionale di convenienza personale, ci sono alcune certezze ormai evidenti. Destinate a incidere profondamente sulla campagna elettorale e sulle prospettive della prossima legislatura.

La prima certezza è la rottura, insanabile e definitiva, con la destra berlusconiana. Al di là delle cortesie formali, che fanno parte del collaudato fairplay montiano, il premier uscente ha liquidato l'epopea populista e cesarista del Cavaliere con parole eleganti, ma taglienti come la lama di un rasoio. Lo "sbigottimento" di fronte alle schizofrenie quotidiane di Berlusconi riassume e riflette lo sconcerto di tanti italiani. Già nella conversazione con Scalfari, il premier uscente aveva escluso una possibile alleanza con il Pdl: "Non lo farò mai". Ora, questa sentenza diventa inappellabile. Quando Monti arriva ad esprimere "fatica nel seguire la linearità del pensiero" di Berlusconi, e a parlare di una "comprensione mentale che mi sfugge ", non c'è più altro da aggiungere. Il berlusconismo è archiviato. E questa destra, ancora una volta dominata dalla figura tragicomica del suo padre padrone, è inservibile per qualunque progetto costituente. Averlo detto con assoluta chiarezza di fronte all'opinione pubblica non è solo un gesto di coraggio, ma anche un atto di forza del Professore, che in questo anno di tormentata coabitazione con il Cavaliere ha dovuto ingoiare fin troppi rospi, senza mai potersi togliere la soddisfazione di urlare la sua verità. Ora questa verità è venuta a galla, ed è un bene per tutti.

La seconda certezza è speculare alla prima. Se davvero anche Monti pensa ed agisce nella logica di un futuro governo "pienamente politico", questo significa che i possibili alleati di una futura maggioranza che non si vuole più "strana" ma "normale", non potranno essere che il nuovo centro di Monti (Grande o Piccolo che sia) e il centrosinistra di Bersani. Questo carica tutti di enormi responsabilità. Il premier uscente lo ha già detto a Scalfari: "Considero indispensabile un'alleanza post-elettorale con il Pd". Ma nel frattempo, pur nella validità del suo paradigma che ruota intorno all'alternativa cambiamento/conservazione, dovrà convincersi che esiste ancora una sinistra diversa dalla destra, e che non tutto quello che è stato fatto dal suo governo (sul fronte dolente della crescita e dell'equità sociale) va preservato e venerato come un totem. I centristi di Casini e Montezemolo, che si identificano nel Professore, dovranno dimostrarsi all'altezza del compito. Rinunciando per sempre alle tattiche andreottiane dei due forni. Incarnando al meglio la cultura del popolarismo europeo, piuttosto che l'incultura del tatticismo doroteo. Selezionando con cura le liste dei propri candidati, come gli chiede implicitamente lo stesso Monti, prima di scendere in campo con loro o anche solo prima di dar loro la sua "benedizione".

Infine, il Pd. Bersani fa benissimo a ricordare al Professore che ora la parola spetta ai
cittadini-elettori. Il segretario sa che, prima del voto, con Monti funzionerà un meccanismo di competizione. Ma sa anche che, dopo il voto, sarà opportuno (se non addirittura necessario) un meccanismo di collaborazione. Andranno studiati i tempi e le forme. Ma è uno sbocco quasi inevitabile. Prima di tutto per scongiurare l'ipotesi di un "pareggio " al Senato, dove il premio su base regionale può favorire l'asse Pdl-Lega in regioni chiave come il Veneto, il Piemonte e la Lombardia. E poi perché, per un Partito democratico che punta finalmente a riscoprire la famosa "vocazione maggioritaria", la prospettiva della completa autosufficienza può rivelarsi controproducente. Vellica il settarismo del vecchio Pci, ma non aiuta la nascita di un riformismo nuovo e moderno.

Se è legittimo e giusto rivendicare un programma imperniato su una maggiore equità sociale, sulla difesa dei diritti e dei deboli, è altrettanto legittimo e giusto allargare il perimetro della rappresentanza, e adoperarsi per rendere finalmente possibile un vero patto tra moderati e progressisti. Le istanze ugualitarie di Vendola, e le rivendicazioni protestatarie della Cgil, sono una risorsa della sinistra. Ma non possono e non devono esaurirne la spinta, a meno che non ci si voglia rinchiudere nella "fortezza" dell'esistente.

Da ieri il quadro politico è già cambiato. Grazie a Monti, l'Italia è uscita dal baratro finanziario nel quale stava precipitando. Grazie a Monti, qualunque sia il giudizio sul suo operato e sui singoli punti della sua Agenda, l'Italia ha oggi un ancoraggio solidissimo con l'Europa. E grazie a Monti, il bipolarismo italiano è già diverso da quello che abbiamo conosciuto in questi ultimi vent'anni. Con la definitiva esclusione della destra forza-leghista dal perimetro della governabilità, cade quella "anomalia necessaria" che ha giustificato le Larghe Intese di un anno fa. L'incubo della Grande Coalizione con Berlusconi, da oggi, non è più all'orizzonte. La stagione dei patti col diavolo è finita.
Il Paradiso resta ancora lontano. Ma stavolta, forse, possiamo almeno uscire dall'Inferno.

m.giannini@repubblica.it

(24 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2012/12/24/news/commento_giannini-49370166/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Le divergenze parallele
Inserito da: Admin - Dicembre 29, 2012, 07:51:47 pm
Le divergenze parallele

di MASSIMO GIANNINI


La metamorfosi è compiuta. Non basta più essere Professori, per reggere quattro ore di trattativa con gli ex, i post e i neo democristiani, a discutere di coalizioni e liste elettorali, candidature e comizi. La riunione-fiume con casiniani, finiani e montezemoliani sancisce la definitiva trasformazione di Mario Monti. Il "tecnico prestato alla politica" diventa un politico forgiato dalla tecnica. Il Centro Montiano non nasce come partito nella forma, solo perché il senatore a vita non si sente di tradire la missione concordata con il presidente della Repubblica che lo ha nominato.

Ma lo è, con tutti gli ossimori e le ambiguità del caso, nella sostanza. Lista unica al Senato, liste separate ma coalizzate alla Camera, e l'ex premier che accetta (secondo l'aberrazione costituzionale del Porcellum) il ruolo esplicito di "leader della coalizione".

Dunque, la nuova Cosa Bianca ha una testa: Monti. Ha diverse gambe: i cespugli centristi. E ha anche un progetto: disarticolare gli assetti del bipolarismo, rompere lo schema binario destra/sinistra, sostituirlo con il paradigma cambiamento/conservazione, riaggregare i moderati sotto le insegne dell'ortodossia europeista e di un'economia sociale di mercato all'italiana. L'idea è ambiziosa. Addirittura velleitaria, se si considera che manca appena un mese e mezzo al voto, e che la piattaforma programmatica del Centro Montiano, per quanto salvifica in
questi ultimi tredici mesi, sconta l'altissimo tasso di impopolarità della stangata sull'Imu in queste ultime settimane.

Monti cessa di essere il "candidato riluttante", e sale in politica da "candidato militante". Non si presterà ai bagni di folla, ma sarà in campo con il suo nome e con la sua faccia. Una scelta non scontata: prima della conferenza stampa di fine anno sembrava ormai prevalere la rinuncia. Una scelta per molti versi coraggiosa: il Professore, abituato a "concedersi" nei più alti consessi, accetta di "contarsi" dentro le urne. E qui, nell'accettazione di questa sfida a viso aperto, si nascondono insieme un'opportunità e un problema.

L'opportunità è quella di misurare quante "divisioni" ha davvero Monti, e quanta capacità di attrazione può sprigionare in quella zona grigia della società italiana sopravvissuta prima all'eclisse democristiana e poi all'apocalisse berlusconiana. Dal novembre 2011 in poi, il Professore è stato sempre popolare e mai populista. "Cooptato" a Palazzo Chigi, ci è entrato e ci ha abitato senza avere un suo "popolo". Oggi si tratta di capire se un suo "popolo" si è formato ed esiste davvero. È una verifica importante, per un tecnocrate abituato a gestire il potere dall'alto, e non a conquistarselo dal basso. E perciò non selezionato dalla democrazia, dove valgono i consensi dei cittadini. Ma piuttosto legittimato da un'aristocrazia, dove valgono le cancellerie internazionali, le gerarchie ecclesiastiche o le dinastie industriali. Il 24 febbraio, per fortuna, non varrà la vecchia regola di Enrico Cuccia: i voti non si peseranno, si conteranno. Ed è un bene che la "conta" riguardi anche questo rinato Terzo Polo, visti i clamorosi insuccessi subiti dai tanti "piccoli centri" abortiti in questi ultimi vent'anni.

Il problema è che questo tentativo spinge Monti e i suoi "ottimati" su una posizione inevitabilmente "frontista" rispetto ai due Poli. Con la destra, per fortuna, la rottura è ormai consumata ed è irrimediabile. Berlusconi, del Centro Montiano, è un nemico non solo politico e simbolico, ma a questo punto addirittura personale. Tutto, nel forzaleghismo ritrovato del Cavaliere, è l'antitesi del montismo. E d'altro canto, se l'operazione del Professore ha un senso, è quello di ereditare in futuro l'elettorato conservatore in fuga definitiva dal Pdl, per traghettarlo dentro il porto sicuro del vero popolarismo europeo, laico, costituzionale, repubblicano. Dunque è in quell'area sociale e politica che la coalizione moderata deve cominciare a pescare, oggi e in prospettiva. Ma per fare questo, Monti deve inasprire i toni e allargare il fossato che lo separa da Bersani.

E qui il problema diventa paradosso. Con la sinistra, il Centro Montiano dovrà provare a fare un accordo, se non vuole scommettere sull'ingovernabilità, puntando a una Folle Coalizione che tiene dentro anche Berlusconi e Grillo. Un accordo non pre, ma post-elettorale, che serva a garantire una maggioranza sicura anche al Senato dove la partita è più incerta. Ma questo patto andrebbe discusso, ragionato e preparato in un clima di collaborazione tra Monti e Bersani. Invece, come dimostrano i prodromi di questi ultimi giorni, la campagna elettorale è destinata a infiammarsi intorno alla competizione tra il premier e il segretario. Il primo costretto a prendere sempre più platealmente le distanze dal Pd, per ridurre quelle che lo separano dall'elettorato del Pdl. Il secondo obbligato, per ragioni uguali e contrarie, a rimarcare sempre più orgogliosamente il presidio identitario della sinistra.

Il risultato rischia di essere a saldo zero per tutti. Parafrasando l'antica lezione di Moro, Monti e Bersani sono destinati alle "divergenze parallele". Almeno nella prossima legislatura. Più in là ognuno riprenderà la sua strada, centro e sinistra potranno diventare alternativi. Ma non è ancora il momento. E se dunque i due leader si condannano già oggi a una cooperazione conflittuale, fanno la fine di Craxi e De Mita, e non rendono un buon servizio al Paese. La Terza Repubblica non può nascere con i vizi letali della Prima.

m.giannini@repubblica.it

(29 dicembre 2012) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Se Zuckerberg guidasse il cane a sei zampe
Inserito da: Admin - Febbraio 07, 2013, 11:40:03 pm

Se Zuckerberg guidasse il cane a sei zampe
 
Massimo Giannini

La Consob ci riprova. Dopo anni di torpore ispirato da Lamberto Cardia, "sacerdote" del laissez faire di culto lettiano, il docile watchdog della Borsetta italiana tenta per l'ennesima volta di fare la faccia feroce. Stamattina Giuseppe Vegas e i suoi uomini hanno convocato negli uffici di Piazza Verdi i vertici della Saipem. Vogliono capire come sia stato possibile l'ultimo scandalo che, insieme a quello del Montepaschi, ha riprecipitato nel fango il già opaco mercato finanziario tricolore. Un profit warning che, dalla sera alla mattina, taglia del 50 per cento le stime sugli utili attesi. E soprattutto, nel frattempo, quel pacco del 2,3 per cento di azioni Saipem vendute a caro prezzo sul mercato da un misterioso Fantomas, prima che il titolo precipitasse del 34 per cento. Si sospetta il temuto "market abuse", quel magnifico reato di abuso di mercato di recente conio per il quale in Italia, del resto, non viene condannato quasi mai nessuno. Non sappiamo cosa racconteranno alla Commissione Alberto Meomartini e Umberto Vergine, presidente e amministratore delegato del gruppo controllato dall'Eni. I manager, nel colloquio con Luca Pagni che pubblichiamo oggi, cercano di fornire qualche spiegazione sul collasso dei profitti, ma difficilmente potranno dire qualcosa sull'audace colpo messo a segno da qualche occhiuto investitore, poco prima che la società bruciasse di lì a poco un terzo della capitalizzazione e trascinasse nell'abisso l'intero listino. Solo un gonzo può credere che si sia trattato di una coincidenza.

Chi ha venduto quei titoli era a conoscenza dell'annuncio che Saipem stava per fare. Come sempre, tutti gli indiziati smentiscono di aver avuto parte nel delitto. Smentisce l'Eni, smentisce Fidelity. Il colpevole, come nei gialli di serie B, sarà il solito maggiordomo. Nell'attesa, purtroppo verosimilmente vana, che la Consob e la magistratura vengano a capo del misfatto, viene da fare un'altra riflessione, più generale, che riguarda il senso di responsabilità e l'accountability delle tanto celebrate "classi dirigenti". Prendiamo per buone le rassicurazioni dell'Eni, che si chiama totalmente fuori dalla vicenda. Ma viene in mente un paragone, che dovrebbe insegnare qualcosa. Tutti conosciamo il bagno di sangue di Facebook. Il prezzo per azione del colosso dei social network, prima con l'Ipo e poi con la quotazione a Wall Street, è crollato in tre mesi da 38 a meno di 17 dollari. Innescando psico-drammi, class action e sospetti di ogni tipo. Zuckerberg non ci ha pensato due volte: ha rassicurato soci e dipendenti, e ha ricomprato 101 milioni di azioni, per un valore di 1,9 miliardi di dollari. Al prezzo di collocamento. Bene: se oggi a tenere il guinzaglio del cane a sei zampe ci fosse uno come Zuckerberg, magari farebbe la stessa cosa.

 

(05 febbraio 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Da Mps a La7. Quei Passeri sul filo del telegrafo
Inserito da: Admin - Marzo 04, 2013, 06:20:30 pm
Da Mps a La7. Quei Passeri sul filo del telegrafo

MASSIMO GIANNINI

Osservi il fondo del pozzo italiano, la crisi atroce di governabilità che paralizza il Paese, le procedure che regolano i passaggi istituzionali, i riti che scandiscono il confronto politico, e non puoi fare a meno di pensare al solito Koestler di "Schiuma della terra": passeri cinguettano sui fili del telegrafo, mentre il telegrafo trasmette telegrammi con l'ordine di uccidere tutti i passeri...

L'Italia sgovernata aspetta il 15 marzo per l'avvio delle consultazioni al Quirinale, mentre sui mercati sono pronti a scatenare l'inferno.
Dopo il voto l'impennata degli spread ci è costato 80 milioni, le ultime due aste di Bot e Btp scontano già un aumento dei rendimenti e un calo della domanda, il Tesoro trema in vista della doppia asta di buoni a breve e a mediolungo del 13 e 14 marzo, e del totale di 273 miliardi di titoli di Stato da collocare nell'intero 2013. L'ordine già corre sui fili. Ma i passeri, placidi e ignari, sono sempre lì che cinguettano.

****

Guardi il buco nero del Montepaschi, lo stillicidio di inchieste e di nuovi capi d'imputazione che riguardano i vecchi vertici della banca, i conti in affanno, il rischio di fuga dei depositanti, il Tesoro che deve affrettarsi a staccare l'assegno dei Monti bond, e non puoi fare a meno di pensare agli stessi fili del telegrafo, e agli stessi passeri che ci zampettano sopra, in attesa dell'inevitabile esecuzione. Non paghi dei disastri già combinati in questi anni di socialismo municipale, i "grandi elettori" della Fondazione Mps si scontrano su come deve cambiare lo statuto, e su quante delle sedici poltrone in lizza si dovranno spartire in futuro il Comune, la Provincia, l'Università e la Curia di Siena dentro la Deputazione Mps. Non gli è bastato il bagno di fango delle elezioni di lunedì scorso nella città del Palio, dove la sinistra è colata a picco. La banca affonda per colpa loro. Ma i passeri, arroganti e incoscienti, sono sempre lì che litigano.

****

Consideri la penosa telenovela della tv italiana, beauty contest coraggiosamente cancellato e gare sulle frequenze falsamente annunciate, finte vendite di La7 in campagna elettorale e continui stop and go a ridosso del voto, offerte vere o presunte di qualche "campione nazionale" ed aste chiuse poi aperte poi richiuse ora forse riaperte, e non puoi fare a meno di pensare alle chiacchiere e alle occasioni perdute di questi ultimi mesi.

Bisognava tagliare le ali a Sua Emittenza il Cavaliere, allo strapotere del suo impero pubblico-privato. Bisognava stroncare il gigantesco conflitto di interessi televisivi che lo avviluppa, da presidente del Consiglio come da capo dell'opposizione. E invece tutto finisce in gloria dei suoi amici, vicini o lontani, Cairo o Sposito che siano. Altri Passeri, delusi e silenziosi, sono sempre lì che aspettano.

m.giannini@repubblica.it

(04 marzo 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Un premio ai sediziosi
Inserito da: Admin - Marzo 13, 2013, 11:32:46 am
Un premio ai sediziosi

di MASSIMO GIANNINI

C'E' RIMASTO solo un faro, a illuminare questa lunga notte della Repubblica. Negli ultimi giorni del suo settennato, Giorgio Napolitano deve guidare il Paese fuori dalla crisi. Il "peso" di questa consapevolezza ispira ogni riga del comunicato con il quale il Capo dello Stato invita la politica e la magistratura a ritrovare il senso della "comune responsabilità istituzionale", in uno dei tornanti più critici della storia repubblicana. Ma questa volta l'appello del Colle, insieme alla condivisione istituzionale, riflette una "sproporzione" politica.

La condivisione istituzionale è ovvia. In un'Italia lacerata dal conflitto permanente tra i poteri dello Stato, innescato negli anni Novanta da Tangentopoli ed esasperato nel quasi Ventennio berlusconiano dalle torsioni cesariste del Cavaliere, il "ristabilimento di un clima corretto e costruttivo nei rapporti tra politica e giustizia" è davvero il minimo che si possa esigere. Napolitano non si è mai stancato di chiederlo, con equilibrio e con determinazione, nell'intera traiettoria del suo mandato. Che ci riprovi oggi è logico e giusto.

È giusto invocare che politici e magistrati non si percepiscano come "mondi ostili". È giusto pretendere che si evitino "tensioni destabilizzanti per il nostro sistema democratico", vista soprattutto "l'estrema importanza e delicatezza degli adempimenti istituzionali che stanno venendo a scadenza". È giusto ricordare al Cavaliere e ai "caimani" in grisaglia schierati davanti al tribunale di Milano che nessuna "investitura popolare ricevuta" può esonerare un politico dal "più severo controllo di legalità", che è e deve restare "un imperativo assoluto per la salute della Repubblica". Ed è altrettanto giusto rammentare ai magistrati che non si devono mai sentire depositari di "missioni improprie", ma devono limitarsi al rispetto scrupoloso dei "principi del giusto processo sanciti dal 1999 nell'articolo 111 della Costituzione".

Parole incontestabili. Suggerite dal buon senso e dal senso dello Stato. Ma Napolitano non si ferma qui. Questa volta pronuncia altre parole, che nella contesa in atto tra la "destra di piazza" e la magistratura configurano un'evidente sproporzione politica. Il presidente della Repubblica, sia pur respingendo quasi con disprezzo "l'aberrante ipotesi" del complotto delle toghe rosse evocato dal Cavaliere e dalle sue truppe cammellate, giudica "comprensibile" la preoccupazione del Pdl di "veder garantito che il suo leader possa partecipare adeguatamente alla complessa fase politico-istituzionale già in pieno svolgimento".

Il movente che spinge Napolitano ad accogliere questa "preoccupazione" è chiaro. Di qui alla metà di aprile si susseguiranno appuntamenti fondamentali, per trovare una via d'uscita dalla crisi. L'insediamento delle nuove Camere, l'avvio delle consultazioni, l'elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento. Il messaggio implicito ai giudici che stanno indagando o processando Berlusconi è il seguente: fate in modo che gli appuntamenti giudiziari che lo riguardano non intralcino o non si sovrappongano con queste scadenze, dal buon esito delle quali dipendono le sorti politiche della nazione.

L'effetto pratico di questo "monito" è rilevante. Nei fatti, è come riconoscere al Cavaliere un "legittimo impedimento" automatico, o un "Lodo Alfano" provvisorio, che da qui ai prossimi mesi gli fa scudo ai processi nei quali è ancora coinvolto, e dai quali ancora sistematicamente si sottrae, non più nella sua veste di presidente del Consiglio, ma in quella di leader "dello schieramento che è risultato secondo, a breve distanza dal primo, nelle elezioni del 24 febbraio".

L'effetto politico è ancora più eclatante. E non è un caso che gli "arditi" del Pdl, appena rientrati dalla "marcia su Milano", ora festeggino il comunicato del Colle. Gli "atti sediziosi" di questa destra italiana, pronta a sfidare un Palazzo di giustizia per salvare il suo leader dai "giudici-cancro da estirpare", non solo non vengono sanzionati come meriterebbero. Ma alla fine risultano addirittura premiati. Il comunicato del Quirinale arriva il giorno dopo quella che Christopher Lasch definirebbe un'impensabile "rivolta delle élite". Un "assedio" simbolico, ma fino a un certo punto, di un gruppo di eletti del popolo che si ribellano contro un potere dello Stato. Un fatto enorme, mai accaduto dal 1948 ad oggi, che avrebbe dovuto sollevare una reazione sdegnata di tutte le istituzioni e di tutte le forze politiche.

E invece il presidente della Repubblica ha ricevuto una delegazione del Pdl guidata da Alfano, salito sul Colle per chiedere provvedimenti punitivi contro la magistratura e per annunciare altrimenti l'Aventino della destra. Quasi un ricatto, al Paese e alle sue istituzioni. Comunque un "atto di forza" intollerabile, che andava respinto con sdegno e con altrettanto forza. E che invece ha raggiunto il suo scopo. Assicurare un improprio "salvacondotto" a un cittadino che, per quanto "popolare", è e dovrebbe essere uguale a tutti gli altri di fronte alla legge. Rilanciare il padre-padrone di questa destra, impresentabile perché irresponsabile, dentro uno schema politico che ora gli consente persino di rivendicare il Quirinale, oltre che di giocare a viso aperto la partita delle "larghe intese". Nel silenzio, assordante e colpevole, della sinistra e del Pd, che difende il suo fortino mentre i vecchi "arci-nemici" e i nuovi "falsi-amici" saccheggiano quel che resta dell'Italia.

m.giannini@repubblica.it

(13 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/13/news/premio_sediziosi-54438056/?ref=HRER1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI I veri sediziosi
Inserito da: Admin - Marzo 14, 2013, 03:50:03 pm
I veri sediziosi

di MASSIMO GIANNINI

RINGRAZIAMO il Presidente della Repubblica per la sua lettera. Non dubitiamo che la delegazione del Pdl salita al Quirinale non abbia formulato richieste di "impropri interventi". Tuttavia la necessità di "provvedimenti punitivi contro la magistratura " e il preannuncio di un "Aventino della destra" erano stati già espressi pubblicamente più volte dai dirigenti del Pdl, e per giorni hanno fatto da sfondo all'incontro concesso dal Presidente all'onorevole Alfano.

Diamo atto al Capo dello Stato delle sue "vibrate reazioni espresse direttamente ai principali esponenti del Pdl" per la loro marcia sul tribunale di Milano. E ci rallegriamo che il Presidente, dopo essersi limitato a giudicare quella manifestazione "senza precedenti" nel comunicato di due giorni fa, nella lettera a Repubblica aggiunga ora "per la sua gravità".

Quanto al riconoscimento a Berlusconi di un "legittimo impedimento automatico", prendiamo atto delle parole del Capo dello Stato: "nessuno scudo". E' un'affermazione importante, perché a leggere il comunicato dell'altroieri l'impressione che Berlusconi e la destra avrebbero potuto interpretare le parole del Presidente come una sconfessione per la magistratura e un "salvacondotto" per il Cavaliere era fortissima. La prova, purtroppo, sta nelle reazioni odierne di tutto il Pdl (a partire da Ghedini) e nell'intervista di Berlusconi a Panorama.

Invece di accogliere l'appello a ritrovare "il senso del limite e della misura", il Cavaliere torna ad attaccare le toghe e a contraddire il Quirinale. Napolitano considera "aberrante" la teoria del complotto giudiziario, Berlusconi la rilancia evocando una "operazione Craxi 2" contro di lui.

Sappiamo bene che anche la magistratura commette i suoi errori. Ma con "rigore e zelo", e con il rispetto dovuto alla più alta carica dello Stato, continuiamo ad avere un'idea molto precisa su chi siano i veri "sediziosi".

(14 marzo 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/03/14/news/veri_sediziosi-54521585/?ref=HRER3-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La strada stretta
Inserito da: Admin - Marzo 22, 2013, 06:26:52 pm
La strada stretta

di MASSIMO GIANNINI


La missione che oggi il Capo dello Stato affiderà a Bersani è ai limiti del temerario. Costruire la Terza Repubblica su una piccola maggioranza "da combattimento" e due grandi minoranze "di blocco". Il leader del Pd deve tentare un "governo strano", che per nascere ha bisogno di non essere sfiduciato dal Pdl e per durare ha bisogno di non essere impallinato dall'M5S. Un'equazione quasi impossibile, per l'aritmetica e per la politica. Ma l'unica in campo, per evitare il ritorno alle urne.

Al termine di un giro di consultazioni che non sono bastate a diradare i "banchi di nebbia" paventati fin dall'inizio dal presidente della Repubblica, è logico e giusto che Napolitano dia l'incarico a Bersani, sia pure con riserva. Ed è logico e giusto che lui ci voglia provare: è pur sempre il "vincitore-sconfitto" nel voto del 24 febbraio. In questa veste (già di per sé molto scomoda) la strada che il segretario dei democratici deve percorrere si fa sempre più stretta e pericolosa. Si muove tra due paletti, resi espliciti dall'esito degli incontri al Quirinale.

Il primo paletto è interno: il Pd è indisponibile a ogni ipotesi di coalizione o forma di alleanza, palese od occulta, con il Pdl: dunque ribadisce il suo no pregiudiziale alle larghe intese riproposte da Berlusconi, "pillole avvelenate" che il Cavaliere prova ad offrire al centrosinistra, con l'unico obiettivo di rientrare in un gioco politico dal quale al momento è escluso. Il secondo paletto è esterno: Beppe Grillo è indisponibile a ogni ipotesi di fiducia o forma di sostegno, palese od occulto, a un governo diverso da quello guidato dal suo stesso non-partito: dunque il Movimento 5Stelle ribadisce la sua vocazione "totalitaria" e si rifiuta di condividere con qualunque altra forza politica le insegne del cambiamento, di cui si ritiene unico proprietario o intestatario.

Con questi vincoli, quello che da oggi è il nuovo "presidente incaricato" prova a mettere in piedi un governo non auto-sufficiente, che non può contare su una maggioranza pre-costituita, ma che deve tentare di costituirla con il metodo delle geometrie variabili. Queste geometrie vanno ricercate su due piani diversi.

C'è un piano politico, che si articola sulla necessità di far fronte all'emergenza della crisi (allentando la morsa del rigore fiscale, ridando liquidità al sistema delle imprese, sbloccando gli investimenti degli enti locali) e alla questione morale (varando una legge severa contro la corruzione e tagliando i costi della "casta"). Su questi temi la convergenza in Parlamento non è legata alle pregiudiziali tattiche, ma è dettata dalle posizioni "ideologiche": una seria legge sul finanziamento ai partiti potrà forse contare sulla stampella di Grillo, mentre una vera legge sul conflitto di interessi escluderà automaticamente Berlusconi dal perimetro della maggioranza.

C'è poi un piano istituzionale, che si articola sulla necessità di riscrivere la legge elettorale, sul dimezzamento del numero dei parlamentari e sulla creazione di un Senato delle autonomie. Riforme largamente condivise, almeno sulla carta, che a parte la prima devono passare attraverso l'iter della revisione costituzionale fissata dall'articolo 138, e che dunque devono essere approvate con la maggioranza dei due terzi. E qui Bersani deve necessariamente puntare a una convergenza trasversale e più ampia, "per il bene del Paese". Ma per poter attuare queste riforme di sistema, avvertite come urgenti da tutti, nel Palazzo e nel Paese, è necessario che il governo guidato dal leader del Pd possa vedere la luce, e dunque ottenga una fiducia, o quanto meno una "non sfiducia", in Parlamento.

Il ragionamento del leader è chiaro: chi si chiama fuori, a questo punto, si assume la responsabilità di impedire che l'Italia possa uscire dalla palude nella quale sta sprofondando. Chi affonda il suo "governo del cambiamento" si assume la responsabilità di portare il Paese esattamente dove nessuno (tranne Grillo e Casaleggio) sembra disposto ad andare: e cioè verso nuove elezioni. Con lo stesso orribile Porcellum che produce solo ingovernabilità, e senza le misure che possono tamponare la recessione, arginare la povertà e fermare la tragica emorragia di posti di lavoro.

Il "piano A" del leader del centrosinistra è lodevole. Ma oggettivamente ha un solo punto di forza: è l'unica soluzione in campo, prima di risciogliere nuovamente le Camere e tornare ancora una volta alle urne. Il gioco dei veti incrociati e delle reciproche incompatibilità sembra aver già bruciato tutti i possibili piani B, C o D. Governi tecnici o istituzionali, governi del presidente o dell'esploratore: ormai tutte le alternative sembrano precluse. Dalla logica ferrea dei numeri, dall'irriducibile irredentismo dei grillini o dall'irresponsabile tatticismo del Cavaliere.

Non osiamo nemmeno immaginare quali contropartite potrebbe pretendere Berlusconi (a partire proprio dall'elezione del successore di Napolitano sul Colle) per non intralciare il cammino di Bersani. Già basta questo, per capire quanto sia rischioso e accidentato il sentiero che dovrebbe portare il Pd a Palazzo Chigi. Stavolta in gioco, oltre al governo del Paese, c'è il destino della sinistra italiana.
m.giannini@repubblica.it

(22 marzo 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI La paga dei leader e la lezione di Peres
Inserito da: Admin - Marzo 26, 2013, 11:24:37 pm
La paga dei leader e la lezione di Peres

Massimo GIANNINI


In una lezione al Workshop Ambrosetti a Villa d’Este, nel settembre 2012, Shimon Peres spiega come sta cambiando la natura delle leadership nel mondo globale. La delegittimazione delle classi dirigenti, indotta da una crisi senza precedenti, diffonde nei popoli l’impressione che il mondo stia diventando «non governato». Chi dovrebbe farlo, a tutti i livelli, non solo non sa offrire risposte, ma spesso non sa nemmeno «quali sono le domande». Alcune grandi aziende globali sembrano poter supplire a questa vuoto, stimolando nei cittadini domande (di consumo) per le quali hanno già pronte le risposte (di prodotto). Ma questo non può bastare, a rilegittimare le leadership. Né di chi governa un Paese, né di chi guida un’azienda. Secondo Peres, serve un radicale mutamento di orizzonte delle elite. «Oggi, se un leader vuole essere accettato e dunque popolare, deve servire, non governare...». Tornano in mente queste parole dell’ex statista israeliano, buone per la politica e l’economia, leggendo da un lato i dati Confcommercio sul crollo del Pil, che fa crescere oltre quota 4 milioni il numero dei nuovi poveri, e dall’altro lato l’accordo raggiunto in sede Ue per «salvare» ancora i bonus milionari dei banchieri. Due scandali della democrazia. Dimostrano l’insostenibilità di un’ineguaglianza sociale che può degenerare anche in un Paese storicamente abituato ai compromessi al ribasso. Con quale sprezzo del ridicolo Consiglio Ue e Parlamento di Strasburgo hanno concordato di prorogare di un altro anno, dal 2013 al 2014, l’entrata in vigore del tetto ai compenso dei manager in servizio presso le banche di Eurolandia? Come si può non vedere che se un ceo «merita» un assegno annuale pari a 200, 300 o 400 volte lo stipendio di un suo dipendente, prima o poi il sistema collassa? Come abbiamo raccontato su Affari&Finanza dell’11 marzo, funziona così ovunque, bene o male che vadano le aziende. Vale in Europa, dove alla Barclays l’ad Bob Diamond nel 2011 ha incassato 17,5 milioni di sterline, mentre il capo dell’investment banking Rich Ricci ha portato a casa quasi 18 milioni di sterline. Ma vale anche in Italia. E non c’è bisogno di rievocare le vergogne della razza predona (come l’ex dg di Mps Antonio Vigni che nel 2011, mentre la banca perdeva 4,6 miliardi, intascava ben 5,4 milioni). Basta fermarsi ai gioielli della finanza che fa utili: per esempio le Generali, dove l’ex ceo Giovanni Perissinotto è stato rimosso dagli azionisti con un «premio» da 11,6 milioni, mentre al suo successore Mario Greco è stato appena riconosciuto un bonus da 1,8 milioni per i soli primi cinque mesi del 2012. «Indignatevi!», ammoniva Stéphane Hessel. Provate a dargli ancora torto, adesso.
m.giannini@repubblica.it

(25 marzo 2013) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/03/25/news/la_paga_dei_leader_e_la_lezione_di_peres-55313443/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il compromesso antistorico
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2013, 11:26:11 am
   
Il compromesso antistorico

di MASSIMO GIANNINI


A POCHI giorni dalla scadenza del suo settennato, Napolitano non rinuncia ad inoculare dosi massicce di pedagogia istituzionale in un sistema politico malato. Non si rassegna al tri-polarismo bloccato che paralizza il Paese e al grillismo arrabbiato che occupa il Parlamento. Invoca le "larghe intese" tra Pd e Pdl. Sbocco normale, in qualunque altra democrazia europea. "Compromesso antistorico", nell'Italia di oggi.

È vero. Nella teoria, un accordo programmatico pieno tra sinistra e destra sarebbe il miglior antidoto per curare i mali del Paese, spurgarne i veleni politici e lenirne i disagi sociali. Sarebbe la formula più proficua per rimettere in moto l'economia e riaprire il cantiere delle riforme costituzionali. Sarebbe l'argine più efficace per fermare l'onda a Cinque Stelle, che si nutre degli immobilismi parlamentari e dei bizantinismi regolamentari, si ingrossa con il disprezzo del professionismo politico inteso come male assoluto, si alimenta della teoria semplicistica di Jackson (su cui si è fondato lo spoil system americano) e quella rivoluzionaria di Lenin (imperniata sull'idea che anche una semplice cuoca può fare il capo dello Stato).

Ma, nella pratica, l'esperimento che riuscì nel 1976, quando Dc e Pci si accordarono per far nascere il terzo governo Andreotti, non è in alcun modo ripetibile. Le analogie storiche non reggono. Le condizioni politiche non esistono. È comprensibile che il presidente, per motivi di biografia politica e personale, sia rimasto legato a quel pezzo di Storia repubblicana, che vide un'Italia ferita a morte reagire e risollevarsi, in mezzo al piombo delle Brigate Rosse, lo scandalo Lockheed e una crisi economica pesantissima.

È quasi inutile ricordare quello che Napolitano già sa meglio di chiunque altro. Quel monocolore democristiano di trentasette anni fa, che si resse sulla "non sfiducia" del partito comunista (oltre che del Psi, del Psdi, del Pli e del Pri) nacque grazie alla riflessione e all'elaborazione politica di due leader della statura di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer. Fu la tappa intermedia di un percorso iniziato nel '74 con il progetto berlingueriano del "compromesso storico", e culminato nel '78 nell'approdo moroteo del governo di "solidarietà nazionale" (nato proprio cinque giorni prima del tragico rapimento di Via Fani).

Bersani non è Berlinguer, e su questo non ci sono dubbi. Ma quello che conta di più, in questo parallelismo storico improprio e improponibile, è che Berlusconi non è Moro. Un abisso incommensurabile, umano, culturale e politico, separa lo statista di Maglie dall'uomo di Arcore. Non c'è accostamento possibile tra la filosofia con la quale Moro propiziò le "larghe intese" nel '76 e l'idolatria con la quale Berlusconi propugna adesso la "grande coalizione". Il primo aveva un progetto generale, che puntava a sciogliere la democrazia bloccata di quella lunga stagione di Guerra Fredda unendo temporaneamente le forze dei due grandi partiti di massa. Il secondo ha un obiettivo individuale, che punta a barattare la formazione del governo con l'elezione del presidente della Repubblica, la trattativa sulle riforme con il suo salvacondotto giudiziario.

Lasciamo stare per un momento la parabola populista, cesarista e tecnicamente rivoluzionaria del Cavaliere che ha caratterizzato il suo quasi Ventennio. Mettiamo da parte il suo gigantesco conflitto di interessi, la sua campagna forsennata contro i magistrati condotta dalla trincea di Palazzo Chigi, la sua propensione a far saltare tutti i tavoli, dalla Bicamerale in poi. Torniamo al parallelismo tra lo schema moroteo dell'epoca e il proposito berlusconiano di oggi. Moro, con i suoi limiti e i suoi occhi chiusi sulle nefandezze del suo segretario Freato e dei capibastone delle correnti scudocrociate, chiese al suo partito di "non aver paura di avere coraggio", e quel coraggio lo pagò con la vita. Oggi l'unico coraggio del Cavaliere è quello del ricatto: il sostegno a "un governo Bersani", ma all'unica condizione che al Quirinale vada lui stesso o, in subordine, Gianni Letta.

Non basta tutto questo a considerare Berlusconi un alleato impossibile per chiunque? Questa consapevolezza, per gli eletti e gli elettori del centrosinistra, non significa che con il Cavaliere non si debba nemmeno parlare. Ha ragione Dario Franceschini, quando sostiene che l'avversario non si sceglie, perché lo hanno già scelto gli italiani. Dunque il dialogo è essenziale. Purché, in questo tempo sospeso delle istituzioni, serva a individuare un metodo per far ripartire l'orologio dei poteri dello Stato, dall'esecutivo al legislativo. E prima ancora ad eleggere un presidente della Repubblica, dotato di tutte le prerogative e gli strumenti che la Costituzione gli assegna.

Se serve a questo e solo a questo, e quindi non a negoziare patti scellerati di altra natura o merci di scambio contro-natura, l'incontro tra Bersani e Berlusconi non è solo opportuno ma è doveroso. Se invece tra i partiti c'è ancora chi si culla nel sogno del "compromesso antistorico", farà bene a svegliarsi in fretta, e ad acconciarsi ad un rapido ritorno alle urne. Il governo Monti ci ha momentaneamente salvato dalla bancarotta. Ma il suo evidente insuccesso sulle riforme di sistema sta lì a dimostrare che la "grande coalizione" all'italiana, e alla berlusconiana, non funzionerà mai.

m.giannini@repubblica.it

(09 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/09/news/il_compromesso_antistorico-56245827/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Se Telecom gioca alle ombre cinesi
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2013, 05:47:48 pm
Se Telecom gioca alle ombre cinesi

Massimo Giannini

Le ombre cinesi su Telecom Italia non fanno paura. Dopo tanti piani velleitari, parecchi giri di valzer e qualche ballon d'essai, la trattativa con H3G è l'affare più convincente che si profila all'orizzonte. Il cda di giovedì prossimo, per Franco Bernabè, può essere davvero la "telefonata che ti allunga la vita". Ma più che il destino del ceo, di fatto quasi sfiduciato dai suoi stessi azionisti, c'è in gioco il futuro del gigante italiano della telefonia. Stavolta non si scherza. Il primo a capirlo è stato Mario Greco, ad delle Generali, che ha suonato la campanella di fine-ricreazione. "Non esistono partecipazioni strategiche": lo ha detto, lo sta mettendo in pratica. E si parte proprio da Telco, dove il Leone di Trieste potrebbe sfilarsi. Mediobanca non può far finta di niente: Alberto Nagel, a prescindere dalla disavventura con i Ligresti, è a sua volta impegnato in un processo di rinnovamento e riposizionamento che parte da Bpm e quindi potrebbe coinvolgere anche la cassaforte in cui è custodita Telecom. Dal punto di vista finanziario ci sarà modo e tempo per giudicare l'impatto dell'operazione. Certo un concambio tarato ai valori di Borsa attuali non è realistico. Questo vale tanto per 3 Italia (valutata 2 miliardi) quanto a maggior ragione per Telecom (che ora ne vale poco più di 10). Si vedrà. Ma intanto è l'aspetto industriale dell'eventuale matrimonio che sembra avere una sua logica. Il partner cinese è uno dei più forti e dei più liquidi a livello mondiale. Non ha alcun interesse né per affari "mordi e fuggi" (sul modello Sawiris) né per alleanze "di blocco" (sul modello Telefonica). Naturalmente, per consentire l'ingresso di un socio estero, tanto più se "extra. comunitario", è necessario sbrigliare prima il groviglio della rete, che a quel punto andrebbe affidata a mani sicure rigorosamente italiane. Il dossier Cassa Depositi e Prestiti non è il massimo, ma gestito in questa ottica sarebbe accettabile. Naturalmente dovrebbe trattarsi di uno scorporo integrale, e funzionale all'utilizzo dell'infrastruttura da parte di tutti gli operatori, in un regime di tariffe finalmente concorrenziali. Scorporata la rete, una Telecom finalmente alleggerita dai debiti (che oggi superano i 28 miliardi) potrebbe convolare a nozze con H3G. E il nuovo socio "straniero" potrebbe fare tutto quello che Telefonica non ha mai voluto fare: cioè lanciare Telecom nella sfida del mercato globale delle tlc, uscendo dal perimetro di un mercato domestico ormai saturo e sempre più asfittico. È stato il paradosso di questi anni: gli spagnoli hanno allungato le mani su Telecom solo per impedirgli di crescere dov'era più forte, cioè in Sud America. Un paradosso che la creazione di Telco ha cristallizzato e reso strutturale. Per questo, oggi, tocca proprio ai soci della holding sciogliere l'"abbraccio mortale".
m.giannini@repubblica.it

(08 aprile 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Il metodo sbagliato
Inserito da: Admin - Aprile 18, 2013, 06:17:18 pm
Il metodo sbagliato

di MASSIMO GIANNINI

L'UOMO del Colle è Franco Marini. L'ex leader storico della Cisl è dunque la figura super partes che, in continuità con il settennato di Napolitano, può rappresentare "l'unità nazionale". Una decisione sofferta, maturata nello schema delle "larghe intese" tra Pd e Pdl. Pierluigi Bersani la saluta come "una scelta di responsabilità", perché anche Marini può essere "il presidente di tutti". Silvio Berlusconi la benedice come una "buona candidatura", perché Marini "è persona del popolo". Hanno ragione tutti e due. Ma la somma non fa l'intero. Questo compromesso bipartisan tradisce le attese che il segretario del Pd aveva alimentato parlando di una "carta a sorpresa" sul modello Boldrini-Grasso alla Camera e al Senato.

Sul Quirinale è invece tornata la vecchia logica. Meno innovativa e più conservativa. Il problema non è il "merito" della scelta. Marini è persona degnissima e non merita di finire nel tritacarne nel quale rischiano di precipitarlo le comprensibili resistenze di un bel pezzo della sua stessa costituency. Il problema è il metodo con il quale si è arrivati alla scelta, che chiama in causa i rapporti di forza tra centrosinistra e centrodestra. E, insieme al metodo, c'è un problema politico, che interroga direttamente il Pd, il suo rapporto con il Paese e il suo orizzonte culturale e identitario.

Nel merito, Marini merita il massimo rispetto. La sua storia personale parla per lui. Esponente della sinistra sociale della Dc di Donat Cattin, democratico sincero e antifascista convinto. Segretario generale della Cisl ai tempi di Lama e Benvenuto, presidente del Senato, poi senatore. Non è sospettabile di cedevolezze, sulla linea del Piave della difesa della Costituzione e dei poteri dello Stato, sistematicamente attaccati e delegittimati nel quasi Ventennio berlusconiano. Uomo di esperienza politica collaudata, e oltre tutto con il cuore e il cervello immersi da sempre nel corpo vivo della società italiana, che soffre i morsi della recessione e della disoccupazione. Chi meglio di lui, dall'alto dell'istituzione più rappresentativa della Repubblica, può interpretare i bisogni e i disagi del Paese reale, travolto dalla crisi globale?

Nel metodo, Bersani aveva di fronte a sé una strada maestra. Da vincitore virtuale delle elezioni, aveva il diritto- dovere di fare un nome degno, di sicura sensibilità istituzionale e costituzionale, individuato preferibilmente al di fuori dalla nomenklatura di partito. Aveva il diritto-dovere di presentare quel nome agli italiani, di offrirlo e di spiegarlo come fattore di coesione e di garanzia, per tutti i cittadini e per tutte le forze politiche. Aveva il diritto-dovere di chiedere, su quel nome, il voto unanime dei gruppi parlamentari. Con un percorso aperto, lineare, trasparente. Che parlasse al Paese, molto più che al Palazzo.

Il leader del Pd ha imboccato invece un'altra via. Infinitamente più tortuosa, contraddittoria e a tratti incomprensibile. E a un giorno dall'inizio del voto dei Grandi Elettori, con una sorprendente rinuncia all'esercizio della leadership, ha inopinatamente consegnato la decisione finale nelle mani di Berlusconi, sottoponendogli non un nome, ma una rosa. Così il Cavaliere ha potuto scegliere la soluzione per lui più vantaggiosa, lucrando una golden share sul settennato impropria e immeritata rispetto ai numeri e ai rapporti di forza tra i due poli.

Non è tutto. Dopo la mossa vincente e convincente sui nuovi presidenti di Camera e Senato, Bersani aveva anche indicato i due requisiti fondamentali per la selezione del nuovo Capo dello Stato. "Competenza" e "cambiamento": queste erano le password che avrebbero aperto le porte del Colle al nuovo inquilino. Qui c'è uno scarto visibile tra obiettivo e risultato. Marini ha certamente grande competenza (anche se, per usare il linguaggio dei costituzionalisti,
non ha alle spalle né standing internazionale né expertise da grande "meccanico nell'officina delle istituzioni "). Ma in tutta onestà non si può affermare che Marini rappresenti il "cambiamento". Può darsi che Matteo Renzi abbia torto, quando sostiene che è "uomo del secolo scorso". Tuttavia ha qualche ragione quando aggiunge che la sua candidatura è "uno schiaffo al Paese", che invoca inutilmente la rifondazione della politica e il ricambio delle classi dirigenti. Non si può certo dire che Marini sia una risposta alla domanda di futuro che sale dall'Italia e che ispira il "Pd possibile" sognato dal sindaco di Firenze.

E qui la scelta di metodo nasconde il problema politico. Era già accaduto dopo il voto del 24-25 febbraio, per la formazione del nuovo governo: usando la vecchia metafora andreottiana, anche per l'elezione del nuovo presidente della Repubblica Bersani aveva due "forni" ai quali rivolgersi per impastare il suo pane: il forno di Grillo e il forno di Berlusconi. Sul governo, il leader del Pd ha inutilmente provato a rivolgersi al forno di Grillo, umiliandosi persino di fronte ai suoi "pizzaioli", e gli è andata male. Sul Quirinale, ha ostinatamento bussato al forno di Berlusconi, cedendogli la prima scelta, e ora rischia di andargli male ugualmente. Perché mentre nel primo caso il pane di Grillo era immangiabile, visto che i Cinque Stelle non fanno coalizione con nessuno, nel secondo caso era invece commestibilissimo.

La candidatura di Stefano Rodotà, inventata ad arte dall'ex comico, apriva e forse aprirebbe ancora un terreno nuovo (e non banalmente "nuovista", in stile Milena Gabanelli) che il Pd avrebbe potuto utilmente esplorare. O "appropriandosi" per tempo di quello stesso candidato, che è un fior di costituzionalista ed è stato a suo tempo presidente del Pds. O proponendo un candidato simile, come ad esempio Sabino Cassese, a sua volta simbolo di quel rinnovamento sul quale si fondano le istanze della società civile e di una larghissima fetta di elettorato della sinistra, riformista o radicale che sia.

Con la candidatura di Marini, Bersani rinuncia a questa "esplorazione". Non sappiamo se dietro ci sia un calcolo inconfessato sulla nascita di un possibile "governo di minoranza", magari con la non sfiducia del Pdl. Ci rifiutiamo di crederlo. Ma vediamo il risultato che questa decisione del segretario ha prodotto. Il Pd che si conta e si spacca, lungo una faglia che non attraversa solo i renziani ma anche le altre correnti interne. Sel e Vendola che si sfilano. Il centrosinistra che offre ancora di più il suo fianco già martoriato alle sciabolate impietose di Grillo e Casaleggio, e si allontana ancora un po' dal suo elettorato, confuso e sgomento. E infine il pericolo che tutto questo precipiti nella rappresentazione plastica dell'ennesimo paradosso: Marini, voluto da Bersani e scelto da Berlusconi, che viene eletto solo da una "scheggia" di Pd e da un blocco mono-litico di centrodestra, occasionalmente "ricostituito" da Pdl, Lega e Scelta Civica.

Un bel capolavoro, che si poteva e si doveva evitare. E che il Partito democratico, più lacerato che mai ed esposto al napalm del suo Vietnam interno, rischia di pagare carissimo nell'immediato futuro.

m.giannini@repubblica.it

© Riproduzione riservata (18 aprile 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/18/news/metodo_marini-56885917/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Le strane nomine dello Stato Padrone
Inserito da: Admin - Aprile 30, 2013, 04:39:20 pm
Le strane nomine dello Stato Padrone


A due mesi esatti dal voto del 24-25 febbraio, nel vuoto pneumatico del governo e nel caos entropico della politica, c’è un’istituzione che marcia indisturbata verso la «meta», per altro ignota ai più. Quell’istituzione è la Cassa depositi e prestiti, forse l’ultima vera cassaforte rimasta in un Paese impoverito come l’Italia. La scorsa settimana, a sorpresa, il vertice della Cdp è stato confermato in blocco dagli azionisti, cioè il Tesoro e le fondazioni bancarie. Dunque lunga vita a Franco Bassanini, presidente, e a Giovanni Gorno Tempini, amministratore delegato. Navigatori di lungo corso, che hanno solcato indomiti i mari tremontiani e quelli montiani, e che ora si preparano ad affrontare anche i marosi del governo che verrà, se e quando verrà. La continuità è importante, per un istituto che custodisce oltre 220 miliardi di risparmi postali degli italiani, usufruisce di un utile di quasi 3 miliardi e distribuisce un dividendo di circa 1 miliardo. E lo è ancora di più per un istituto che è ormai diventato e può ancora di più diventare un ingranaggio essenziale nel meccanismo di gestione della politica industriale e di trasmissione delle risorse all’economia reale. Due esempi di questa fase, per capirci. Il primo: la Cdp è al centro del discusso progetto di scorporo della rete Telecom, che oltre a quella per la banda larga o ultralarga potrebbe presto portare alla costituzione di una holding di tutte le reti infrastrutturali del Paese. Il secondo: la Cdp è uno dei rubinetti essenziali attraverso cui potrebbe scorrere almeno una parte dei 40 miliardi di debiti commerciali che la Pubblica amministrazione si prepara a rimborsare alle imprese private. Dunque, è utile che questi delicati dossier siano affidati a mani sicure, che conoscano la fase istruttoria per poi realizzare al meglio quella esecutiva. Ma nella scelta compiuta dal governo Monti c’è una contraddizione oggettiva, che merita qualche riflessione e, ancora di più, qualche spiegazione. Nella stessa settimana in cui l’azionista pubblico riconferma senza un attimo di esitazione i vertici della Cassa depositi e prestiti, decide invece di non decidere nulla su quelli della Finmeccanica, temporaneamente affidata alla «cure» di Alessandro Pansa dopo l’arresto di Giuseppe Orsi il 12 febbraio. La motivazione colpisce: è più giusto che a decidere chi dovrà guidare il colosso malato della difesa sia il prossimo governo. Dunque, tutto rinviato alla prossima assemblea, che si svolgerà a giugno. Come si diceva un tempo nel salotto televisivo di Arbore, una domanda sorge spontanea: perché il principio si applica a Finmeccanica e non alla Cdp? Non è in gioco la fiducia verso Bassanini e Gorno Tempini, amministratori rispettabilissimi. Si tratta solo di capire se c’è un metodo, nella follia dello Stato Padrone.

m.giannini@repubblica.it

(22 aprile 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Le intese larghissime di Catricalà allo Sviluppo
Inserito da: Admin - Maggio 07, 2013, 11:11:07 pm
Le intese larghissime di Catricalà allo Sviluppo


Nel «governo del nostro scontento», come l’ha felicemente ribattezzato la copertina di Internazionale, Enrico Letta è riuscito a ridurre quasi al minimo sindacale i danni collaterali di un governo di coalizione di cui Silvio Berlusconi, piaccia o no, detiene a tutti gli effetti la golden share. Ma se la «riduzione del danno» è stata possibile per la lista dei ministri, l’operazione è riuscita assai meno per la lista dei sottosegretari. Nel numero di Affari & Finanza in edicola lunedì 6 maggio diamo conto di programmi e organigrammi dei due principali ministeri economici. Qui, su tutte, colpisce una gattopardesca operazione di «riciclaggio». Antonio Catricalà lascia la poltrona strategica di sottosegretario Palazzo Chigi, e si sposta allo Sviluppo. Se si vuole una rappresentazione plastica delle larghe intese, questa è perfetta. Catricalà è un grand commis di lungo corso. Nell’anno e mezzo di servizio alla presidenza del Consiglio, è stato considerato «l’uomo all’Avana» di Gianni Letta, il plenipotenziario berlusconiano dentro la «casta dei quiriti». Ora, come spiega l’articolo di Stefano Carli, con il suo nuovo incarico Catricalà dovrà gestire almeno due dossier ad altissima intensità politica. Quello sulle frequenze tv, e soprattutto quello sulla rete Telecom.

Cosa ci possiamo aspettare? Non ce ne voglia l’ex presidente dell’Antitrust. Ma la risposta, temo, è un bel nulla. L’ipotetica operazione H3G, per Telecom è per il Sistema-Paese, implica una scelta forte di politica industriale. Come ho già scritto, l'affare con Li Ka Shin ha senso solo se dal conferimento di 3 e dall’ingresso dei cinesi nasce una vera società della rete in capo al Fondo strategico della Cdp, autonoma e non controllata da Telecom, che investe sull’infrastruttura e la mette a disposizione di tutti gli operatori, a tariffe e a condizioni paritarie e concorrenziali. Un’opzione del genere cambierebbe radicalmente la fisionomia del mercato, non solo nelle tlc ma anche nelle televisioni. La rete in fibra ottica in tutte le case degli italiani determinerebbe una gigantesca «disintermediazione» dell’offerta tv, in termini di contenuti e di servizi. Altrove, in Europa e nel mondo, il fenomeno è in pieno corso. È immaginabile anche in Italia, dove Mediaset per sopravvivere resta disperatamente aggrappata al satellite e al digitale terrestre? Catricalà avrà il coraggio di fare un passo del genere, a tutto danno del Cavaliere? Mi permetto di dubitarne. Nel frattempo, dal giorno della nascita del governo Letta, Mediaset ha guadagnato in Borsa più del 10%. A spanne, il titolo (che capitalizza circa 2,3 miliardi) ha aumentato dunque il suo valore di oltre 200 milioni. Sempre a spanne, la famiglia Berlusconi (che controlla il 40% delle azioni) si è già arricchita di un’ottantina di milioni. Magia delle intese larghe. Anzi, larghissime. m.giannini@repubblica.it

(06 maggio 2013) © Riproduzione riservata
DA - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/05/06/news/le_intese_larghissime_di_catrical_allo_sviluppo-58151518/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Così Berlusconi utilizzava i fondi neri per corrompere...
Inserito da: Admin - Maggio 10, 2013, 10:54:11 pm
Così Berlusconi utilizzava i fondi neri per corrompere politici e giudici

Si conferma che sulle oltre 60 società del Group B transitarono fondi neri per quasi mille miliardi di lire.

In vent'anni evasi centinaia di milioni

di MASSIMO GIANNINI


SI TORNA in piazza, come ai bei tempi. Tutti "con Silvio", che nei giorni festivi rispolvera la mimetica e l'elmetto, smettendo i panni inconsueti e severi dello Statista indossati nei giorni feriali. Contro le "toghe rosse". Contro la "gogna a regola d'arte". Contro "le procure d'assalto", gli "inquisitori accaniti", i "grandi orologiai" che regolano sapientemente le loro lancette sulle fortune del Cavaliere. Soprattutto, contro quest'ultima "sentenza impresentabile" nel processo d'appello sui diritti cinematografici Mediaset, che conferma una condanna pesantissima a carico di Silvio Berlusconi.

Di fronte all'ennesima, grave disavventura giudiziaria del suo leader, la grancassa della destra produce il solito rumore. Un fragoroso profluvio di stilemi indignati e di frasi già fatte, che servono a confondere e a nascondere. Tutti si chiedono "cosa succede", adesso che l'ossessione giudiziaria del capo del Pdl minaccia la già fragilissima esistenza del "governo di servizio" guidato da Enrico Letta. Ma nessuno si chiede piuttosto "cosa è successo", per giustificare una sanzione così devastante a carico del principale "azionista di riferimento" della strana maggioranza tripartisan.

Quella che si deve confondere, agli occhi dell'opinione pubblica, è l'anomalia storica di un imprenditore che ha scelto di "scendere in campo" anche per sottrarsi al giudice penale, con la pretesa di riconoscere come suo unico giudice naturale il popolo sovrano. Oggi, complice una sinistra distrutta e disarmata, Berlusconi azzarda una sottile operazione culturale: risorgere come "uomo di Stato", attraverso la "grande politica" delle larghe intese, che monda ogni peccato e depotenzia ogni reato. Solo in questo modo, come teorizza Giuliano Ferrara, potrà "obliterare ogni valore morale delle condanne che lo riguardano".

Quella che si deve nascondere, agli occhi dei cittadini-elettori, è la responsabilità penale di un imputato "eccellente" e tuttora innocente (fino al giudicato definitivo) ma che ha già subito 17 processi, 14 assoluzioni (10 per effetto delle leggi ad personam) e 3 condanne, compresa l'ultima dell'altroieri. Oggi, complice la propaganda egemone e il nuovo clima di "unità nazionale", Berlusconi ritenta l'audace colpo: banalizzare la verità dei suoi reati dietro la cortina fumogena della "persecuzione giudiziaria". Solo in questo modo si può cambiare il nome alle cose, sollevando un polverone intorno alla forma (una "sentenza folle basata solo sull'eliminazione dell'avversario per via giudiziaria") per coprire la sostanza (ll contenuto di quella stessa sentenza, che lo inchioda a 4 anni di carcere e 5 anni di interdizione).

E allora vale la pena di rileggerla, questa pronuncia della Corte d'Appello di Milano, che ricalca e conferma quella di primo grado dell'ottobre 2012. Vale la pena di capire cosa c'è dietro quella condanna per "frode fiscale". Detta così sembra poco, e invece rivela un sistema di "gestione aziendale" che, attraverso la provvista estera e i fondi neri, è quasi sempre al servizio della "corruzione politica". Ieri a vantaggio di Craxi e di Metta. Oggi (verrebbe da pensare) del faccendiere Lavitola o del senatore De Gregorio.
 
LA FRODE FISCALE: PERCHÉ SERVONO I FONDI NERI
Al Cavaliere, per il periodo 2002 e 2003, viene contestata una frode al fisco di circa 7 milioni di euro, per l'acquisto di diritti su film e prodotti tv comprati e rivenduti, a prezzi gonfiati, tra società offshore controllate dalla stessa Mediaset. I pm De Pasquale e Spadaro avevano scoperto operazioni fraudolente per 370 milioni di dollari. All'inizio del processo Berlusconi era infatti indagato anche per appropriazione indebita e falso in bilancio. Ma le leggi ad personam hanno dato buoni frutti: due capi d'imputazione sono caduti, grazie alla prescrizione accorciata. L'entità delle cifre si è ridotta. Ma lo schema scoperto e descritto dai magistrati, nelle motivazioni della sentenza di primo grado, è chiarissimo.

"Le imputazioni descrivono un meccanismo fraudolento di evasione fiscale sistematicamente e scientificamente attuato fin dalla seconda metà degli anni '80 nell'ambito del gruppo Fininvest, connesso al cosiddetto "giro dei diritti televisivi"... I diritti di trasmissione televisiva, provenienti dalle majors o da altri produttori e distributori, venivano acquistati da società del comparto estero e riservato di Fininvest, e quindi venivano fatte oggetto di una serie di passaggi infragruppo, o con società solo apparentemente terze, per essere poi trasferite ad una società maltese che a sua volta li cedeva, a prezzi enormemente maggiorati, alle società emittenti. Tutti questi passaggi erano privi di qualunque funzione commerciale...".

Dunque, dagli atti si evince un dispositivo contabile codificato e finalizzato a produrre denaro fittizio. Secondo i magistrati, Berlusconi ne era "il dominus indiscusso". "Il cosiddetto "giro dei diritti" si inserisce in un contesto più generale di ricorso a società offshore anche non ufficiali ideate e realizzate da Berlusconi avvalendosi di strettissimi e fidati collaboratori quali Berruti, Mills e Del Bue". La "riferibilità" al Cavaliere della "ideazione, creazione e sviluppo del sistema che consentiva la disponibilità di denaro separato da Fininvest ed occulto", secondo la sentenza, è "pacifica". Com'è altrettanto pacifico che l'intero meccanismo sia stato ideato "per il duplice fine di realizzare un'imponente evasione fiscale e di consentire la fuoriuscita di denaro dal patrimonio Fininvest/Mediaset a beneficio di Berlusconi".

Il Cavaliere è "l'ideatore". Ma anche il "beneficiario" e, come direbbe Ghedini, "l'utilizzatore finale". Ma a cosa è servito questo "disegno criminoso", che secondo i giudici dimostra la "naturale capacità a delinquere" del capo della destra italiana? Che uso è stato fatto, nel corso del tempo, di questo fiume sommerso di soldi finiti nella disponibilità dell'ex premier anche dopo la sua discesa in campo del '94? La risposta, in buona parte, sta ancora negli atti giudiziari e nelle sentenze. Non solo nell'ultima, che riguarda i diritti tv. Ma anche nelle precedenti, e non meno inquietanti.

ALL IBERIAN E CRAXI, MILLS E LE MAZZETTE AI GIUDICI

Il "motore" della macchina che sforna i fondi neri, come spiega la Corte d'appello, è custodito nel "comparto estero di Fininvest", cioè nelle società offshore, situate in Paesi come le Isole Vergini, il Jersey e le Bahamas... sui conti delle quali... far transitare il denaro...". L'esistenza di queste società è "documentalmente provata". Century One e Universal One, Principal Communication e Principal Network. Edsaco e Amt. Medint e Lion. Poi Arner e Ims. Una rete di spa più o meno occulte. Le prime fanno parte del "Fininvest Group B", cioè il "comparto estero riservato" sul quale la casa madre del Cavaliere ha scaricato, dalla fine degli anni '80, gli "affari sporchi".
Non lo dice solo la sentenza della Corte d'appello dell'altroieri. Ma l'intera parabola processuale di Berlusconi, che testimonia l'esistenza di un polmone finanziario pensato e costruito per pagare tangenti. I giudici di secondo grado, non a caso, citano la pronuncia con la quale il 25 febbraio 2010 la Cassazione ha condannato in via definitiva Mills, che per coprire Berlusconi dichiara il falso in aula. "Per la Fininvest - scrive la Suprema Corte - erano state create tra 30 e 50 società, costituite prevalentemente nelle Isole del Canale e nelle Vergini... Tra queste società vi era All Iberian, con sede a Guernsey, divenuta nel corso della propria attività "la tesoreria di un gruppo di società offshore"... Per evitare gli effetti della Legge Mammì (che aveva fissato un tetto al possesso delle reti televisive in Italia) era stata utilizzata la società Horizon, posseduta da Mills, che aveva costituito la società lussemburghese Cit...".

Più avanti gli stessi giudici di Cassazione, citando un'altra sentenza definitiva emessa nella vicenda Arces, ricordano che sempre dal segretissimo "Fininvest Group B" vennero fuori le mazzette con le quali "la Guardia di Finanza era stata corrotta affinché non venissero svolte approfondite indagini in ordine alle società del gruppo Fininvest". E infine, ancora la Cassazione ricorda che anche "i fatti relativi all'illecito finanziamento in favore di Bettino Craxi da parte di Fininvest, sempre attraverso All Iberian, erano stati definitivamente dimostrati, sulla base di plurime prove testimoniali e documentali...".

A questo punto si può trarre qualche conclusione. Gli atti certificano, ancora una volta, che i soldi del comparto B delle società Fininvest, direttamente riconducibile a Berlusconi, servirono a foraggiare politici e magistrati fin dai tempi della Prima Repubblica. Si conferma (come scrisse Giuseppe D'Avanzo sul nostro giornale, l'ultima volta nel luglio 2011) che sulle oltre 60 società del Group B "very discreet" della Fininvest transitarono allora fondi neri per quasi mille miliardi di lire. I 21 miliardi che hanno ricompensato Craxi per la legge Mammì. I 91 miliardi, poi trasformati in Cct, erogati per la stessa ragione ad "altri politici" mai scoperti. Le risorse destinate da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma, tra i quali Vittorio Metta, per manipolare il verdetto sulla battaglia di Segrate. Gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Mondadori, Standa, Rinascente.

Questo dicono le carte, a dispetto delle urla di piazza del Cavaliere e delle chiacchiere da talk show dei suoi corifei. E questo, oggi più che mai, è importante e doveroso ricordare, per non cedere al "cupio dissolvi" collettivo in nome del quale si vuole riscrivere la Storia italiana di questi anni. Dice un deputato pdl: "In questi giorni che vedono le forze politiche faticosamente impegnate in una fase di pacificazione e di coesione nazionale, il Palazzo di giustizia di Milano appare sempre più come quel giapponese armato fino ai denti, inconsapevole della fine della guerra...". Ecco l'arma finale per la "distrazione di massa". In questo Ventennio, in Italia, non c'è stata nessuna "guerra". Ma anche ammesso che ci sia stata, e che ora sia finita grazie al condono tombale e morale delle "larghe intese", quello che non può finire è lo Stato di diritto. È il primato della Costituzione, che vuole tutti i cittadini uguali di fronte alla legge.

m.giannini@repubblica.it

(10 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/05/10/news/grande_corruttore-58460499/?ref=HRER1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il sacco dei Ligresti e la morale di Sutton
Inserito da: Admin - Maggio 21, 2013, 04:55:36 pm
   
Il sacco dei Ligresti e la morale di Sutton


Cronache di ordinaria disuguaglianza, negli Stati Uniti. Racconta il Wall Street Journal, in un'inchiesta pubblicata venerdì scorso, che nel 2012, forse all'acme della Grande Crisi globale, i "ceo" delle maggiori multinazionali americane hanno guadagnato, in media, circa 10 milioni di dollari a testa. Non male, considerando che il resto della popolazione, cioè quel 99 per cento difeso da "Occupy Wall Street" sul quale specula e prospera l'elite dell'1 per cento, nel frattempo se n'è andato in malora. Cronache di ordinaria follia, in Italia. Racconta il Sole 24 Ore, in un "Pay Watch" di Gianni Dragoni pubblicato sempre venerdì scorso, che nel 2012 si è consumato l'ultimo, clamoroso "furto con destrezza" della solita Razza Predona ai danni delle casse di Fonsai, prima del complesso passaggio al gruppo Unipol. La famiglia Ligresti al gran completo, e il management del gruppo Fondiaria-Sai e Premafin, si sono portati a casa una bella vagonata di milioni, proprio nell'annus horribilis di quella che un tempo fu una grande compagnia d'assicurazione. Giulia Ligresti ha percepito 1,69 milioni lordi come presidente e ad di Premafin, per otto mesi e mezzo. Paolo Ligresti, consigliere Fonsai fino al 30 ottobre e titolare di altre cariche dentro al gruppo, ha incassato 1,09 milioni. Jonella Ligresti, presidente di Fonsai per nemmeno quattro mesi, ha messo in borsa 925 mila euro. E vai: la famiglia di Don Salvatore è servita. Ma anche un'altra famiglia, quella dell'ex ministro Ignazio La Russa, ha avuto il suo. Geronimo La Russa, figlio di cotanto padre e membro del cda Premafin per sei mesi, ha messo in tasca 11.500 euro più 549.171 euro come prestazioni professionali del suo studio legale. Vincenzo La Russa ha percepito invece 91.239 euro come consigliere Fonsai più 441.485 euro come prestazione professionale. Così va il mondo. Il nonsense è che stiamo parlando di un polo finanziario in perdita fissa da parecchi anni, e che stava portando i libri in tribunale se alla fine non lo avesse salvato il Cavaliere Bianco delle cooperative rosse Carlo Cimbri (vedremo nel tempo con quali esiti). Bando ai qualunquismi e ai populismi. Ma a leggere queste cronache marziane mi è venuto in mente l'ultimo, magnifico libro di Jr Moehringer, "Pieno giorno". Racconta la vita di Willie Sutton, mitico eroe-rapinatore di banche all'epoca della Grande Depressione. "Sono tempi duri, la gente non ne può più. Prezzi alle stelle, tasse troppo alte, milioni di persone piene di rabbia e con la pancia vuota. Ingiustizia. Disuguaglianza. La guerra alla povertà è una presa in giro... Siamo sempre alle solite, dice Sutton. Non del tutto, dice Fotografo: La merda è la stessa, ma la gente non vuole più mandarla giù. La gente scende nelle strade, fratello". Appunto.

m.giannini@repubblica.it

(20 maggio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/05/20/news/il_sacco_dei_ligresti_e_la_morale_di_sutton-59195892/


Titolo: MASSIMO GIANNINI La primavera dello scontento
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2013, 05:02:05 pm
La primavera dello scontento

di MASSIMO GIANNINI


In queste amministrative c'è la primavera del nostro scontento. Quando un elettore su due resta a casa e rinuncia al rito civile del voto, la crisi della democrazia rappresentativa è compiuta. Il dato che colpisce di più, in un test elettorale che interessava 7 milioni di italiani, è il trionfo del partito astensionista. Se alle politiche di febbraio lo tsunami grillino aveva spazzato via i "vecchi" partiti, stavolta la vera onda anomala è quella del non voto, che non è più protesta "creativa", cioè ricerca del candidato o della lista che rompono tutti gli schemi. È invece rinuncia preventiva, cioè scelta di chi non vuole più scegliere.

Perché lo considera inutile, e perché sente che la democrazia è ormai solo procedura di palazzo, e non più "cura" della polis. Se la democrazia rappresentativa non mi rappresenta perché non risolve i problemi della mia vita quotidiana, il mio voto non serve. Bisogna guardare innanzitutto dentro questo drammatico abisso che divide politica e società, per non caricare il voto di significati troppo "paradigmatici". Ma al fondo dell'abisso, un bilancio parziale è comunque possibile. La clamorosa risacca che prosciuga ovunque il Movimento 5 Stelle lascia sul terreno l'esito più imprevedibile: un Pd che non molla e un Pdl che tracolla.

A dispetto dei sondaggi che a livello nazionale fotografano una ritirata del Partito democratico e un'avanzata del Popolo della Libertà, il voto delle città riflette l'esatto contrario. Il centrosinistra a Roma ipoteca il Campidoglio. Su 16 comuni capoluogo ne conquista 5 al primo turno, confermandosi in testa in altri 10. È un sorpasso in retromarcia, perché avviene nel clima di sfiducia e disincanto di cui abbiamo detto. Ma resta un risultato piuttosto sorprendente: dimostra che forse non tutto è perduto, e che il partito, con le sue strutture logore e con i suoi leader ammaccati, un barlume di radicamento sul territorio ancora ce l'ha. La soddisfazione di Epifani è dunque comprensibile. Tuttavia, anche qui conviene non farsi troppe illusioni.

Il vantaggio di Marino nella Capitale è ampio e difficile da colmare. Ma il ballottaggio è sempre un'altra partita, come può testimoniare Rutelli che la perse rovinosamente cinque anni fa. E l'ex chirurgo si afferma per ora grazie a una strana alchimia, difficilmente ripetibile su scala nazionale. Un misto di "oltrismo" e di "nuovismo": non a caso il suo slogan era "Non è politica, è Roma". Una miscela di radicalità e di alterità rispetto allo stesso Pd: non a caso lui stesso non ha votato per il governo Letta e a questo primo turno lo ha sospinto soprattutto il voto di Sel. La formula Marino non è facilmente esportabile, in un partito che invece guarda ormai a Matteo Renzi, fautore e simbolo dello "sfondamento al centro", come il candidato premier predestinato. Dunque serve cautela. Per i prossimi quindici giorni e anche per i prossimi quindici mesi, quando si dovrà celebrare un congresso che si vuole, giustamente, fondativo di un nuovo centrosinistra, capace di ibridare in un'identità finalmente risolta quell'"amalgama mal riuscito" che è stato il Pd in questi anni.

Il centrodestra subisce una batosta pesante, e altrettanto inaspettata. A Roma paga l'impresentabilità di Alemanno, il peggior sindaco degli ultimi 50 anni, travolto dal nulla che ha rappresentato, sul piano amministrativo e su quello culturale. Non sono bastate le assunzioni clientelari di famigli ed ex picchiatori fascisti all'Atac e all'Ama. Hanno pesato le bugie propagandistiche sul calo delle tasse (tra Imu e addizionale Irpef Roma è la città dove se ne pagano di più) e gli scandali del suo sottobosco (in testa il suo braccio destro Mancini). Risultato: se il Pdl perde anche Roma, non amministra più nessuna grande città. Un trauma per la destra capitolina, ma anche per la leadership berlusconiana. Il Cavaliere si illude di tenere ancora assieme, sotto la sua sovranità carismatica, le ultime schegge impazzite dell'ex Msi e i residui avamposti prealpini della Lega. Questo voto amministrativo non lo premia, da nessun punto di vista. Il Popolo delle Libertà perde quasi ovunque al Nord, da Sondrio a Vicenza, da Treviso a Imperia. E il Carroccio scompare in Veneto, cioè nel cuore della prima epifania padana di trent'anni fa.

Resta da spiegare l'eclissi totale delle Cinque Stelle. Un non-partito che solo tre mesi fa ha sfondato le porte del Palazzo d'Inverno, sull'onda di una forza d'urto che giustamente non abbiamo solo definito "anti-politica", ma anche "altra-politica". Ebbene, com'è accaduto in Grecia alla destra neo-fascista di Alba Dorata e alla sinistra estremista di Syriza, anche il Movimento di Grillo e Casaleggio ha subito l'enorme riflusso di chi l'aveva scelto per "dare un segnale", e ora è rimasto deluso. M5S non va al ballottaggio in nessun comune capoluogo, e nel complesso del voto amministrativo perde tra la metà e i due terzi dei consensi che aveva ottenuto nel voto politico. Piaccia o no al conducator genovese e al suo guru, è il segno che in questi tre mesi è mancata proprio quell'"altra politica" che gli elettori si aspettavano dal movimento. E invece è stato il vuoto, riempito solo dagli sfondoni di forma e di sostanza dei capigruppo e da un dibattito surreale e autoreferenziale sulle diarie e gli scontrini degli "onorevoli-cittadini".
Per una crudele legge del contrappasso, anche le 5 Stelle, appena entrate nel Palazzo e dunque cooptate dal Sistema, agli occhi dell'opinione pubblica sono diventate una banalissima e irrilevante "parte degli arredi". E' la conferma di quello che l'ex comico non vuole accettare: non solo la sana dialettica interna, ma soprattutto il buon uso di un tesoretto elettorale che non serve a nulla se non viene speso e investito sul mercato politico. Se oltre centocinquanta deputati e senatori non producono politica, cioè proposte e leggi utili alla collettività, la "missione" palingenetica del grillismo perde totalmente di significato. Cade l'assioma sul quale si regge il futuro regno di Gaia: "uno vale uno". Non è più vero. Se il Movimento non cambia, e se non ricostruisce sul disastro in Friuli, in Val d'Aosta e ora nei comuni capoluogo, "uno vale zero". E dunque non vale neanche la pena votarlo.

La domanda cruciale che tutti si fanno, adesso, è come questo risultato incida sul governo Letta. Se il voto di Roma, soprattutto, rafforzi o meno la Grande Coalizione. L'impressione - com'è già accaduto per l'Imu e per lo ius soli, per la riforma elettorale e per quella sul finanziamento pubblico, per la sentenza Mediaset e per il processo Ruby - è che anche questa contesa elettorale contribuirà a far fibrillare la stranissima maggioranza. La sensazione - come dimostra la percentuale stratosferica dell'astensionismo - è che in generale le Larghe Intese, per quanto necessarie o necessitate, non riscaldino i cuori della gente. Lo conferma un'evidenza, in questo momento davvero paradossale: mentre governano insieme a livello nazionale, saranno proprio il centrosinistra e il centrodestra a sfidarsi nei ballottaggi a livello locale. L'uno contro l'altro, e irriducibilmente diversi. Com'è giusto che sia, in una sana democrazia dell'alternanza.

(28 maggio 2013) © Riproduzione riservata
      
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Titolo: MASSIMO GIANNINI Visco ci parli delle banche che prestano poco denaro
Inserito da: Admin - Maggio 28, 2013, 11:07:29 pm
Visco ci parli delle banche che prestano poco denaro

Massimo GIANNINI

Il «capitalismo in-finito», come lo chiama Aldo Bonomi nel suo saggio appena uscito da Einaudi, ha il solito brutto vizio di sempre. Scandagliando nel profondo della crisi drammatica di questi anni, l’autore pesca solide ragioni di critica verso il «sistema»: l’inconcludenza della politica e l’inefficienza dei governi, l’entropia dei mercati e la miopia dell’Europa, il cinismo delle banche e il conservatorismo dei sindacati. Giorgio Squinzi, alla sua seconda assemblea confindustriale, non sfugge a questo collaudato clichè. L’impresa dice molto di tutti, e quasi niente di sé. Ma su un punto il leader degli industriali rilancia una verità incontestabile, al di là dell’angosciosa rappresentazione di un Nord «sull’orlo del baratro» (che ha già ingoiato buona parte delle 70 mila aziende cessate negli ultimi cinque anni) e dell’orgogliosa rivendicazione del ruolo cruciale della manifattura (che rappresenta il 17% del Pil e l’80% dell’export). Quella verità è la stretta del credito, che si stringe al collo del sistema produttivo. Non si sa se stia per partire la «terza ondata» del credit crunch. Se non è vero, è comunque verosimile. Ma si sa qual è stato l’esito delle prime due ondate che si sono susseguite finora: lo stock dei prestiti erogati negli ultimi diciotto mesi si è ridotto di 50 miliardi di euro. Secondo il neo-ministro Zanonato la restrizione raggiungerebbe addirittura i 60 miliardi. E in ogni modo, come ricorda Squinzi, quasi un terzo delle imprese non ha liquidità sufficiente a fronteggiare le esigenze operative. Quindi il problema non è solo che non si può investire, ma - come spiega Marcello De Cecco nel suo commento - non si possono neanche più pagare gli stipendi ai dipendenti. Alle critiche i signori del credito rispondono sgranando il loro rosario di lamentazioni, uguali e contrarie a quelle dei signori dell’industria. Il giro di vite imposto dall’Eba sui ratios patrimoniali, la stretta della Vigilanza sugli accantonamenti, il boom delle sofferenze e dei crediti incagliati, esplosi anche nel primo trimestre. È tutto vero. Ma qualche domanda ormai si impone. A cosa serve avere un sistema bancario che si appunta un Core Tier 1 del 10% come una medaglia sul petto, se poi da cotanta stabilità di capitale proprio non discende un’altrettanta disponibilità di credito per l’economia reale? E a cosa serve ostentare il ritorno dei profitti, che secondo Prometeia nel 2013 dovrebbero raggiungere un totale di 2,4 miliardi per l’intero sistema creditizio, se nel frattempo le aziende manifatturiere portano i libri in tribunale? Qualche risposta sarebbe gradita. Magari dal governatore Ignazio Visco, che venerdì prossimo officerà l’assemblea annuale della Banca d’Italia. Aspettiamo le sue Considerazioni finali, che speriamo siano meno autoreferenziali di quelle di Squinzi.
m.giannini@repubblica.it

(28 maggio 2013) © Riproduzione riservatA

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Le larghe contese e lo Stato padrone
Inserito da: Admin - Giugno 03, 2013, 04:40:29 pm
Le larghe contese e lo Stato padrone


La promessa è solenne. Le prossime nomine saranno decise "secondo criteri selettivi, oggettivi e procedure trasparenti di prossima definizione".
Il ministero del Tesoro spiega così la ragione del rinvio delle scelte sul nuovo organigramma di Finmeccanica, che per conoscere il suo destino dovrà attendere un'assemblea convocata entro la prima metà di luglio. Una bella grana per Fabrizio Saccomanni, che interrompendo finalmente il lungo sonno del suo predecessore deve reintegrare due posti nel cda del più quotato e inguaiato polo industrialtecnologico della difesa. Il presidente (dopo l'arresto dell'ex numero uno Giuseppe Orsi) e il consigliere dimissionario Franco Bonferroni. Ma non è l'unico dossier, aperto sul tavolo del ministro di Via XX Settembre.

Di nomine da fare ce ne sono altre, non meno importanti. Dalle Ferrovie a Invitalia, dalla Sace a F2i. Una gran giro di poltrone, in ballo di qui alla prossima estate. Da uomo delle istituzioni, arrivato dalla Banca d'Italia, Saccomanni vorrebbe rinnovare i consigli delle Spa controllate dal Tesoro secondo parametri "rivoluzionari", per un Paese abituato all'eterna mangiatoia dello Stato padrone. La selezione delle candidature dovrebbe "assicurare la qualità professionale e la competenza tecnica dei prescelti". Requisiti di onorabilità e di "legalità", cioè assenza di pendenze giudiziarie di qualunque genere. Vincoli di incompatibilità con altri incarichi di natura politica o economica, cioè assenza di conflitti di interesse di qualunque tipo. Insomma, una griglia severa. Che da un lato potrebbe alzare di molto l'asticella, per la scelta dei futuri amministratori. E dall'altro lato potrebbe azzerare interi consigli di amministrazione già intasati di personaggi improbabili, e per lo più al di sotto di ogni sospetto di lottizzazione.

L'iniziativa del Tesoro è lodevole. Ma mantenere la promessa sarà dura anche per un tecnico puro come Saccomanni. Pare infatti che il ministro si sia deciso a congelare le mosse su Finmeccanica, e ad annunciare una revisione complessiva dei criteri di nomina, perché nel frattempo si è scatenata una corsa frenetica all'accaparramento. La Grande Coalizione all'italiana riaccende i soliti appetiti. I partiti della "stranissima maggioranza" sono tornati famelici. Le aziende pubbliche sono ancora una volta un bottino da spartire. Come ai bei tempi, si intruppano in sala d'aspetto politici trombati o semi-falliti, manutengoli del Burosauro quirite e amici degli amici del sottobosco governativo. Persino il faccendiere Luigi Bisignani si riaffaccia sul proscenio, per spiegare chi e come spartisce la torta tra i litiganti, nel Belpaese delle Larghe Intese e delle Larghe Contese.
Auguri, ministro Saccomanni. E se può, resista.

m.giannini@repubblica.it

(03 giugno 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Il Porcellum di Tronchetti e Vegas lo sceriffo
Inserito da: Admin - Giugno 11, 2013, 05:28:51 pm
Il Porcellum di Tronchetti e Vegas lo sceriffo


Formidabili questi anni. Nonostante la crisi, il povero capitalismo italiano se la cava sempre, dietro il salvacondotto delle 'operazioni di sistema'. L'affare Camfin-Pirelli è da manuale. Un brutale salvataggio, scaricato sulle spalle dei risparmiatori e spacciato per 'progetto industriale'. Qualche giorno fa, commentando l'esito del duello tra Tronchetti Provera e Malacalza, un grande giornale titolava, con malcelata soddisfazione: 'La pace tra i soci farà bene a Pirelli'. Verissimo. Ma sullo sfondo c'è da porsi un altro paio di domande. La prima: quella 'pace' farà bene anche al mercato? La seconda: quella 'pace' ha un prezzo, e quel prezzo chi lo paga? Di questo nessuno parla. Non i grandi soloni della misera finanza nazionale. Non i grandi signori della sciatta business community tricolore. E nemmeno i grandi tutori delle regole di trasparenza del mercato, cui la legge assegna un compito sistematicamente e colpevolmente inevaso. Alessandro Penati, su 'Repubblica' di mercoledì scorso, ha scritto parole definitive sulla natura di questa operazione. Un patto di sindacato occulto, del quale il mercato e stato tenuto scientemente all'oscuro. Scambi azionari tra Malacalza e Tronchetti da una parte, Pirelli e Allianz-Unipol dall'altra, tutti effettuati rigorosamente a valori inferiori ai prezzi correnti di Borsa. Malacalza che vende Camfin a monte e compra Pirelli a valle, evitando l'Opa a cascata. Unicredit e Intesa (le famose e sempre amiche 'banche di sistema') che strozzano le piccole imprese sane ma non lesinano 100 milioni di capitale al 'cliente eccellente'. Il campionario degli errori e degli orrori è infinito, in questa brutta pagina di finanza italiana. Compreso il fatto che, ancora una volta, mentre il Tronchetti-manager continua la sua brillante 'carriera', il Tronchetti-azionista continua la sua costante discesa. Dalla fusione Pirelli-Pirellina, fino all'ultimo aumento di capitale da 40 milioni di Gpi completato a fine anno, la sua partecipazione nella Bicocca si è progressivamente ridotta. Prima dell'ingresso dei Malacalza era al 5%, ora è al 2, dopo l'opa di Camfin scenderà ancora. Insomma, un capolavoro. Nessuno contesta a Tronchetti il merito di aver rimesso in carreggiata Pirelli dal 2008 in poi. Ma su quello che è accaduto prima, e sulle alchimie finanziarie che gli hanno consentito di mantenere il controllo del gruppo senza mai aprire il portafoglio, meglio non parlare. Ma il velo più pietoso, stavolta, bisogna stenderlo sulla Consob, che ancora una volta non ha visto, non ha sentito, non ha parlato. Il nuovo corso di Giuseppe Vegas sembrava promettente. Ma su questo 'porcellum' finanziario ci ha riportato indietro di qualche anno. Ai bei tempi di Lamberto Cardia che, mentre Ligresti e i suoi cari spolpavano Fonsai, dormiva il sonno dei giusti. Sveglia, sceriffo, o quando riaprirai gli occhi nel saloon di Piazza Affari staranno solo i cocci!

m.giannini@repubblica.it

(10 giugno 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Le larghe intese non parlano l'inglese
Inserito da: Admin - Luglio 07, 2013, 11:28:21 am
Le larghe intese non parlano l'inglese

Massimo GIANNINI

MILANO - Più che il "governo del fare", sembra il "governo del dire". Le parole sono chiare, ma i fatti possono aspettare. Le Larghe Intese si confermano un laboratorio di lunghe attese. Si decide di decidere, ma ogni decisione vera è rinviata all'autunno. La Legge di Stabilità si trasforma nel momento della verità: in quell'imbuto dovranno confluire decisioni fondamentali per le tasche dei cittadini: l'aumento delle aliquote Iva, la riformulazione dell'Imu, la ridefinizione della Tares, il destino della Tobin Tax e dei ticket sanitari, il finanziamento delle missioni all'estero e il perfezionamento dell'acquisto dei cacciabombardieri da 150 milioni a pezzo. Un ingorgo spaventoso, e pericoloso. Una specie di "fiscal cliff" tricolore. La strana maggioranza lo affronta senza una strategia precisa. Compra tempo. La Grande Coalizione all'italiana, come nella poesia di Montale, solo questo può dirti: cioè che non è, ciò che non vuole essere. Non è una Grande Coalizione alla tedesca, dove destra e sinistra si uniscono per fare insieme ciò che non riuscirebbero mai a fare divisi. Non vuole essere un governo del cambiamento, che impone al Paese le riforme di struttura di cui ha davvero bisogno. Enrico Letta, giustamente, ripete "non vogliamo sfasciare il bilancio pubblico perché siamo ancora dentro una tempesta finanziaria". Ha perfettamente ragione. Ma al premier è richiesto uno sforzo di fantasia e un supplemento di coraggio. Non si può scongiurare l'aumento di un'imposta anticipando il versamento di un'altra imposta. Non si può rispostare il prelievo dalle cose alle persone, dopo aver professato per anni l'esigenza di fare l'esatto contrario. Soprattutto, non si può più rimandare un piano serio per ridurre la pressione fiscale e per abbattere la spesa pubblica. Non la spesa sociale, che semmai va ottimizzata e in qualche caso persino aumentata. Ma la spesa corrente, che invece dal 2000 è aumentata al ritmo del 3% l'anno. In Europa c'è un modello da seguire. La Gran Bretagna di Cameron sta svolgendo un ruolo nefasto sull'integrazione europea e sull'Unione bancaria, ma sul taglio alla spesa corrente sta facendo miracoli. Il governo di Londra ha appena varato la sesta manovra che riduce il perimetro delle uscite dello Stato per 11,5 miliardi di sterline. Si riduce il costo del lavoro dei dipendenti pubblici, si riduce il costo della macchina dello Stato, si tagliano persino i rimborsi sul carburante e il riscaldamento per i cittadini britannici che vivono nei Paesi caldi. In compenso, con i risparmi si riducono le imposte e si aumenta addirittura la spesa per la sanità. È un buon esempio, che l'Italia non seguirà. Le Larghe Intese non parlano il tedesco, ma neanche l'inglese.

m.giannini@repubblica.it

(01 luglio 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Le baruffe chiozzotte tra i pattisti di casa Rcs
Inserito da: Admin - Luglio 10, 2013, 11:49:57 am
Le baruffe chiozzotte tra i pattisti di casa Rcs

Massimo GIANNINI

C’è grande confusione nei cieli della ex Galassia del Nord. Ma come al solito, la situazione non è eccellente. Generali e Mediobanca celebrano
l’epicedio del vecchio catoblepismo, e celebrano l’epinicio del moderno capitalismo. Ma la transizione è lenta, macchinosa, contraddittoria.
Lo scioglimento dei patti che per decenni hanno blindato il sistema è tormentato e, in qualche caso, avvelenato. Il caso Rcs è paradigmatico.
Dopo mesi di baruffe chiozzotte, di contese verbali e di intese virtuali, in uno degli ultimi salotti buoni milanesi esplode una strana guerra.
John Elkann, memore dell’eredità morale dell’Avvocato, si ricorda di essere un Agnelli, innamorato dei «suoi» giornali. Rastrella il 20%, e non già lanciando la Exor (come sarebbe più naturale, vista la liquidità appena entrata in cassa grazie alla vendita di Sgs ai belgi per la bellezza di 2 miliardi) ma schierando direttamente la Fiat (non proprio nelle condizioni ottimali per un’operazione del genere, oberata com’è dal crollo delle vendite auto e dalla fusione con Chrysler).

Una mossa a sorpresa, spiegata sommariamente sul piano industrial-finanziario, ancorché illustrata preventivamente al presidente della Repubblica.
Una mossa che forse ne prepara altre, e forse apre le porte ad altri futuri alleati (magari travestiti da squali australiani).

Gli altri azionisti sembrano spiazzati. Mediobanca temporeggia, Banca Intesa sdottoreggia. Ma Diego Della Valle non indietreggia.
Mister Tod’s attacca, ma non spacca. Sfruculia Alberto Nagel e Giovanni Bazoli, per capire se spalleggiano l’offensiva della Real Casa sabauda o sono pronti a sciogliere il patto e rinegoziare le quote di tutti. E si dice pronto ad arrivare a sua volta al 20%, sottoscrivendo la sua quota di aumento di capitale (pari all’8,7%) e prendendosi anche l’eventuale inoptato. È tutto un fiorire di annunci e di controannunci sui giornali.
 
È tutto un alternarsi di discese ardite e di risalite in Borsa. Con la solita Consob impegnata ad accendere i suoi soliti «fari», che abbagliano molto ma illuminano poco. Cosa non funziona, in questa resa dei conti? Più che gli eventuali fattori critici sui quali si potranno esercitare le autorità di vigilanza, qui colpisce la coazione a ripetere comportamenti e accomodamenti che hanno poco a che vedere con le logiche di un mercato libero e aperto. In un Paese normale, un caso come Rcs avrebbe avuto un decorso naturale: sciolto consensualmente il patto di sindacato, la famiglia Agnelli avrebbe lanciato un’Opa, e Della Valle avrebbe lanciato la sua contro-Opa. A quel punto, gli azionisti avrebbero emesso il loro «verdetto», premiando l’una o l’altra offerta secondo la pura e semplice convenienza economica dell’investimento. Fine del gioco: semplice, pulito, lineare. Ma nel Belpaese, ancora una volta, non andrà così.

m.giannini@repubblica.it

(08 luglio 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Un atto di viltà
Inserito da: Admin - Luglio 13, 2013, 10:44:09 am

Un atto di viltà

di MASSIMO GIANNINI


C'è uno scandalo politico da illuminare, nella linea d'ombra che attraversa gli Stati e gli apparati, la diplomazia e la burocrazia, i diritti e gli affari.

Solo in Italia può succedere che cittadini stranieri, ma domiciliati qui, possano essere "sequestrati" in gran segreto dalle autorità di sicurezza e rispediti nel Paese di provenienza, dove si pratica abitualmente la tortura.

Solo in Italia può accadere che questi cittadini siano rispettivamente la moglie e la figlia minorenne di un noto dissidente del Kazakistan, rimpatriati a forza con il pretesto di un passaporto falso per fare un "favore" a un premier "amico" come Nazarbayev, con il quale si fa business ma del quale si parla come di un dittatore violento e senza scrupoli.

Solo in Italia può avvenire che un simile strappo alle regole dei codici nazionali e internazionali sia scaricato, tutto intero, sulle spalle dei funzionari della pubblica amministrazione, mentre i ministri del governo della Repubblica si lavano serenamente le mani e le coscienze. Perché questo è, alla fine, il comunicato con il quale Palazzo Chigi prova a chiudere l'oscuro caso Ablyazov-Shalabayeva: un atto di viltà politica e di inciviltà giuridica, che invece di ridimensionare lo scandalo, lo ingigantisce.

Il testo, redatto alla fine di un vertice tra il presidente del consiglio Letta e i ministri Alfano, Bonino e Cancellieri, è un concentrato di buone intenzioni e di clamorose contraddizioni. Chiarisce che le procedure che hanno portato all'espulsione di Alma Shalabayeva e della sua figlioletta di sei anni sono state assolutamente regolari sul piano formale. Trasferisce sulla Questura di Roma e sulla Digos la colpa "grave" di non aver comunicato ai vertici del governo e ai ministri competenti "l'esistenza e l'andamento delle procedure di espulsione". Riconosce l'errore, revoca il provvedimento e si premura di verificare "le condizioni di soggiorno della donna" ora detenuta nella capitale kazaka, auspicando che possa al più presto "rientrare in Italia per chiarire la propria posizione".

Il cortocircuito è evidente: si prova a coprire questa vergognosa "rendition all'amatriciana", ma di fatto si sconfessa senza ammetterlo l'operato di Alfano, che ne aveva negato l'esistenza. Sommerso dalle critiche internazionali e dalle polemiche interne, l'esecutivo prova a dire l'indicibile all'opinione pubblica: di questa vicenda non sapevamo niente, ha fatto tutto la polizia senza avvertirci, ma ha fatto tutto secondo le regole, e nonostante questo ci rimangiamo l'espulsione. Un capolavoro di ipocrisia pilatesca, che non regge alla prova dei fatti e meno che mai a quella dei misfatti. Basta ricapitolarli, e incrociarli con le spiegazioni farfugliate in queste settimane dai ministri, per rendersi conto che la linea difensiva non tiene. Le domande senza risposta sono tante, troppe, per non chiamare in causa direttamente il vicepremier e responsabile del Viminale Angelino Alfano, e in subordine le "colleghe" Bonino e Cancellieri.

Come si può credere che la Digos organizzi di propria iniziativa un blitz imponente, che nella notte tra il 28 e 29 maggio impegna non meno di 50 uomini, per arrestare Muktar Ablyazov, "pericoloso" oppositore del regime kazako di Nursultan Nazarbayev, inseguito da "quattro ordini di cattura internazionale" (in realtà ne risulta uno solo)? Come si può credere che la Questura di Roma e poi il prefetto decidano di propria iniziativa il decreto di espulsione a carico della moglie del dissidente Alma, per poi trasferirla insieme alla figlia Alua al centro di accoglienza e infine imbarcarla su un aereo per il Kazakistan con il pretesto di un passaporto della Repubblica centrafricana falso (che in realtà si rivelerà autentico)?

Pensare che un affare di questa portata politica, che va palesemente al di là della dimensione della pubblica sicurezza, possa esser stato gestito in totale autonomia dal capo della Digos Lamberto Giannini e dal dirigente dell'ufficio Immigrazione Maurizio Improta, è un'offesa al buonsenso e alla dignità delle istituzioni. Eppure è quello che si legge ora nel comunicato di Palazzo Chigi. I fatti si sono svolti ormai quasi un mese e mezzo fa. Da allora, i ministri coinvolti hanno taciuto, e manzonianamente troncato e sopito.

Dov'era Alfano, mentre per ragioni ignote si rispedivano nelle mani di un governo accusato da Amnesty International di "uso regolare della tortura e dei maltrattamenti" le familiari di un dissidente che vive tuttora in esilio a Londra? Dov'era Alfano, mentre l'ambasciatore kazako Andrian Yelemessov tempestava il Viminale di telefonate, per sollecitare l'operazione di polizia poi conclusa con l'arresto di Alma e Alua? Dov'era la Bonino, giustamente sempre così attenta ai diritti umani, mentre un aereo messo a disposizione dalla stessa ambasciata kazaka imbarcava madre e figlia a Ciampino, per ricacciarle nell'inferno di Astana? Dov'era la Bonino, mentre il Financial Times e i giornali internazionali denunciavano  su tutte le prime pagine lo scandalo di una doppia "deportazione" che viola apertamente la Convenzione del 1951 sui rifugiati politici?

 A queste domande non c'è risposta, se non l'omertoso comunicato ufficiale. I ministri coinvolti non sentano il dovere di assumersi uno straccio di responsabilità. "Non sapevamo", dicono, mentendo e ignorando che in politica esiste sempre e comunque una responsabilità oggettiva, e che la politica impone sempre e comunque doveri precisi connessi alla funzione. Non sentono il dovere di rendere conto, e di spiegare chi e perché ha esercitato pressioni, e chi a quelle pressioni ha ceduto, in una notte della Repubblica che ricorda alla lontana un'altra notte del 2010, alla Questura di Milano, quando un presidente del Consiglio chiedeva per telefono ai funzionari presenti di rilasciare una ragazza perché era "nipote di Mubarak". Chi ha telefonato a chi, questa volta? E con quale altra ridicola scusa di "parentela eccellente" ha trasformato un'operazione di polizia contro un rifugiato politico in un gesto di cortesia a favore di un despota asiatico ricchissimo di gas e petrolio, a suo tempo in amicizia con il Berlusconi premier e tuttora in affari con il Berlusconi imprenditore?

Altrove, per molto meno, saltano teste e poltrone. In Italia, com'è evidente, non funziona così. Sul piano etico, il minimo che si può chiedere è che a quella madre e a quella figlia, purtroppo cacciate con il fattivo contributo delle nostre autorità, sia restituito il diritto di tornare nel Paese in cui avevano deciso di vivere. Sul piano politico, il massimo che si deve pretendere è che chi ha sbagliato, chi ha mentito, o anche solo chi ha taciuto, ne risponda di fronte all'Italia e agli italiani.

m. gianninirepubblica. it


(13 luglio 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Il padrone kazako
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2013, 11:46:56 am
   
Il padrone kazako

di MASSIMO GIANNINI


UNA democrazia non può e non deve avere paura della verità. Per questo lo scandalo kazako segna una pagina nera della democrazia. E per questo la scelta della «strana maggioranza », che chiude gli occhi di fronte alla colossale operazione di manomissione della realtà e blinda l’esecutivo solo in nome della realpolitik, non aiuta la causa della buona democrazia. Angelino Alfano ha mentito al Parlamento e al popolo sovrano. «È un fatto gravissimo: non ero stato informato io, né i miei colleghi, né il presidente del Consiglio». Questo dice al Senato, il ministro dell’Interno, dando lettura puntigliosa e testuale delle sei cartelle che compongono, da pagina 8 a pagina 13, la parte della relazione del prefetto Pansa intitolata “Il flusso informativo”. Nulla sapeva, dunque, di ciò che è avvenuto tra il 28 e il 31 maggio, quando l’ambasciatore kazako Adrian Yelemessov chiede e ottiene dal Viminale che la moglie e la figlia di un noto dissidente siano «sequestrate» e rispedite, con procedure contrarie al diritto interno e internazionale, in un Paese il cui regime pratica abitualmente la tortura.

Quello che invece non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, è ciò che è scritto nelle sette cartelle precedenti di quel rapporto, intitolate “Cronologia dei fatti”, dove alla pagina 2 si può leggere ciò che accadde davvero «il 28 maggio», «nella serata»: «Il ministro dell’Interno, a seguito di ulteriori telefonate dell’Ambasciatore, cui non ha risposto, fa incontrare lo stesso con il suo Capo di gabinetto». Quello che non dice ai senatori, il ministro dell’Interno, e ciò che invece riconosce il suo stesso Capo di Gabinetto, ora costretto alle dimissioni e finora unico capro espiatorio dell’intera vicenda, nell’intervista non smentita rilasciata ieri a “Repubblica”. Alla domanda di Carlo Bonini: «Era stato il ministro Alfano a chiederle di ricevere l’ambasciatore kazako?», Giuseppe Procaccini testualmente risponde: «Sì. Ero stato informato che l’ambasciatore doveva riferirmi una questione molto delicata ». E poco più avanti, alla domanda: «Dunque il 29 maggio il ministro dell’Interno sapeva che la diplomazia kazaka aveva chiesto l’arresto di un latitante? », il funzionario ammette: «Sì. Di un pericoloso latitante».

Eccole, se ancora ce ne fosse bisogno, le prove dell’omertà che rendono indifendibile Alfano, e non più sostenibile la sua posizione dentro il governo. Per un mese e mezzo il ministro dell’Interno, e con lui quello degli Esteri, hanno vissuto o hanno fatto finta di vivere in un vuoto politico e pneumatico, dove la sovranità statuale è stata sospesa, e dove la potestà ministeriale è stata disattesa. Alfano e Bonino non hanno visto, sentito o parlato. E hanno lasciato che, a ordinare, a gestire e a decidere della sorte di due cittadine straniere, sul territorio italiano, fosse il «padrone kazako», cioè il satrapo dispotico Nursultan Nazarbaeyev, attraverso i suoi messi diplomatici. Lo dicono i fatti, e lo confermano i documenti ufficiali.

È Yelemessov, la sera del 28 maggio, a irrompere al Viminale, ad esigere il blitz nella villetta di Casal Palocco, a prendere parte insieme ai funzionari della Ps alla «riunione operativa» nell’ufficio di Procaccini, che lo stesso (ex) Capo di Gabinetto, nell’intervista a “Repubblica” di ieri, racconta sia «finita molto tardi».

È Yelemessov, attraverso il suo consigliere Khassen, a forzare la Questura di Roma per avviare l’operazione, spiegando che il dissidente Ablyazov «è un criminale pericoloso in contatto con gruppi armati terroristici ». È Yelemessov, attraverso Khassen, a concordare il 30 maggio (dopo il blitz che non ha portato alla cattura di Ablyazov, ma al sequestro di sua moglie e sua figlia) le procedure di espulsione di Alma e di Alua, a «rappresentare alla Questura il timore che un transito a Mosca possa diventare l’occasione per un attacco organizzato dal ricercato», e a comunicare alla stessa Questura che la Shalabayeva «potrebbe usare un passaporto falso della Repubblica del Centro Africa» (comunicazione poi rivelatasi a sua volta falsa). È Yelemessov, attraverso Khassen, a fornire il 31 maggio alla Questura i documenti di viaggio di Alma e Alua e a proporre «la possibilità di un volo diretto verso la capitale del Kazakhstan, in partenza dall’aeroporto di Ciampino alle ore 17». E infine è ancora Yelemessov, attraverso Khassen, a prendere direttamente in carico madre e figlia poco prima delle 17 del 31 maggio, e ad imbarcarle «sul volo della compagnia austriaca Avcon Jet, proveniente da Lipsia e diretto ad Astana».

Com’è evidente, per ragioni che vanno al di là della pura e semplice inefficienza delle burocrazie amministrative, un bel pezzo di sicurezza nazionale è stata nelle mani delle autorità kazake, mentre quelle italiane si bagnavano nell’acqua di Ponzio Pilato. Il “padrone kazako” è stato il vero gestore di questa «rendition all’amatriciana », che ha ridicolizzato l’Italia di fronte al mondo e l’ha esposta a una più grave violazione dei diritti umani nei confronti di una donna e della sua figlioletta di sei anni. Può ritenersi soddisfatto, l’ambasciatore kazako, che ora un’indignata Bonino convoca inutilmente alla Farnesina. Yelemessov se n’è già andato in ferie: un meritato «viaggio premio», perché lui la sua «missione» può dire di averla a tutti gli effetti compiuta.

Sono le autorità politiche e amministrative italiane che, invece, la loro missione l’hanno miseramente fallita, o volutamente sfuggita. Bisognava ammetterlo subito, senza rifugiarsi dietro l’ormai solita scusa tartufesca del misfatto «a mia insaputa». Bisognava che Alfano lo riconoscesse subito, assumendosi fino in fondo e a viso aperto le sue responsabilità, senza scaricarle sulla tecnostruttura che comunque dipende da lui, e senza la penosa e pelosa «chiamata di correo» nei confronti di Enrico Letta. «Né io né il premier sapevamo nulla», ribadisce il ministro. A sproposito, perché nessuno ha mai insinuato che il presidente del Consiglio sapeva o avrebbe dovuto sapere fin dall’inizio cosa successe in quei frenetici giorni di fine maggio, nel quadrilatero oscuro Viminale- Casal Palocco-Ponte Galeria-Ciampino.

Questa colpa «in vigilando», o questo dolo «in agendo», pesa tutto intero sulle spalle del ministro dell’Interno. Che se non sapeva è stato negligente, e se sapeva è stato reticente. Forse ha agito in base a ordini superiori, vista la spregiudicata disinvoltura con la quale la «falange kazaka» ha orchestrato e diretto le operazioni italiane, certa di poter pretendere un «sequestro di persona» in cambio dei buoni affari conclusi a suo tempo dall’ex premier Berlusconi con gli zar del petrolio ex sovietico. Forse è stato addirittura scavalcato dal suo leader, che di Nazarbayev è molto più amico di quanto non riconosca lui stesso nell’intervista al “Corriere della Sera” di ieri, in cui il Cavaliere blinda Alfano e il governo definendo «assurde queste mozioni di sfiducia presentate dalle opposizioni, che impegnano il Parlamento e fanno perdere tempo in un momento così difficile e preoccupante». Non male, detto dal capo-popolo di un partito che solo una settimana fa, dopo la semplice fissazione di un’udienza della Cassazione, ha minacciato l’Aventino chiedendo la «serrata » delle Camere per tre giorni consecutivi.

Comunque siano andate le cose, Alfano aveva il dovere di dimettersi da ministro dell’Interno. E quel dovere lo ha ancora. Non è troppo tardi, per un gesto di serietà istituzionale e di onestà intellettuale di fronte al Paese. E il Pd non dovrebbe dividersi né provare imbarazzi inutili, nell’invocare ed esigere quel gesto. Non dovrebbe rassegnarsi alla logica che lega inestricabilmente la sorte personale di Alfano a quella del governo. E invece è esattamente quello che fa: scivolando sempre di più, in nome di una governabilità a qualsiasi costo, sul piano inclinato del compromesso al ribasso. Si dice che la richiesta delle dimissioni di Alfano indebolisce il governo, o addirittura lo espone al rischio di una crisi.

Ma proviamo a rovesciare la visuale. È quello che è accaduto, cioè lo scandalo kazako, ad aver indebolito irrimediabilmente il governo e ad averlo esposto al pericolo di una caduta. Non è quello che dovrebbe accadere, cioè la doverosa uscita di scena di chi ha sbagliato, a minacciare la sopravvivenza della Grande Coalizione. Se non si erigono le barricate dell’ideologia, è possibile separare il destino del ministro dell’Interno dal futuro delle Larghe Intese. Il governo Letta potrebbe persino rafforzarsi, se riuscisse ad uscire da questo pasticcio kazako con una soluzione decorosa. L’autoassoluzione della politica, che per durare insegue di volta in volta l’impunità formale e sostanziale, non lo è affatto. Se la «pacificazione» produce assuefazione, non ci rimette solo la sinistra. Ci rimette l’Italia.

m.giannini@repubblica.it

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Grasso e Boldrini alla cena dei "carini"
Inserito da: Admin - Luglio 19, 2013, 11:48:15 am

Polis
      
Grasso e Boldrini alla cena dei "carini"

    Massimo Giannini

Ribolle da giorni, e giustamente, il magma della rabbia «padrona». Fare impresa in Italia è sempre più difficile. Stato leviatano e sindacato cileno. Tasse micidiali e infrastrutture medievali. Burocrazia opaca e giustizia lumaca. Come dare torto alle grida del ceto imprenditoriale, colpito da una recessione che in cinque anni ha mietuto la caduta di otto punti di pil e il fallimento di 70 mila aziende solo nella manifattura? A sentire Giorgio Squinzi il punto di rottura non è affatto lontano. Nell’ultima settimana gli anatemi del presidente di Confindustria sono piovuti ogni giorno. Il 5 luglio, da Padova: «Non penso come Saccomanni che a fine anno vedremo la luce, se tutto va bene nel 2014 cresceremo di uno 0,4%...». L’8 luglio, da Milano: «Non c’è nessuna luce in fondo al tunnel ma solo un flebile lumicino: abbiamo il dovere di protestare contro le vessazioni...». Il 9 luglio, alla Camera: «Il rimbalzino della fine dell’anno non creerà occupazione...». L’11 luglio, all’Ance: «La situazione è preoccupante, siamo ancora lontani dalla fine della stagione nera...». Dunque si avvicina anche in Italia quella che Christopher Lasch chiama «la rivolta delle élite»? Sarebbe quasi bello da pensare. Un establishment gagliardo e tosto, pronto a dare battaglia e a difendere i propri interessi nel cuore di una crisi epocale e globale. Una borghesia in parte illuminata, e in parte anche un po’ sgangherata, ma comunque moderna. Capace di concepirsi addirittura come «classe» particolare, ma portatrice di una visione generale da far valere nel confronto con la politica e con il governo. Purtroppo in Italia non c’è niente di tutto questo. L’organo di rappresentanza del mondo produttivo non esce dalle logiche asfittiche e minimaliste di un corporativismo situazionale. Piccola lobby, grandi costi. Volete la prova? È la cena che proprio Confindustria ha organizzato mercoledì scorso, con le alte cariche dello Stato, i presidenti di Camera e Senato, e i capigruppo dei partiti di Montecitorio e Palazzo Madama. Iniziativa irrituale, ma proprio per questo interessante, che lo stesso Squinzi ha giustificato così: «La politica non percepisce le difficoltà dell’economia reale: dobbiamo trovare insieme un percorso di crescita nel più breve tempo possibile». Buon proposito. Ma chi ha partecipato all’evento, racconta di un convivio sconfortante. Squinzi vicino a Boldrini, Grasso vicino a Formigoni, tutti attovagliati alla Foresteria di Via Veneto, a chiacchierare del più e del meno. Brevi cenni sull’universo, e poi un paio d’ore di leggiadro nulla, alla faccia della stagione nera e dell’emergenza industriale e occupazionale. La cena dei «carini», per usare la formula di Crozza. No, questa borghesia italiana non passerà alla storia. Tutt’al più alla geografia.

m.giannini@repubblica.it

(15 luglio 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI L'analisi - La bandiera dell'equità fiscale
Inserito da: Admin - Agosto 10, 2013, 07:10:19 am
L'analisi - La bandiera dell'equità fiscale

di MASSIMO GIANNINI


SOMMERSA dalle grida berlusconiane contro la magistratura, riaffiora dunque l’“altra emergenza”. Quella che morde la carne viva di famiglie e imprese, che incide sul futuro collettivo di un’intera nazione e conta molto di più del destino personale di un pregiudicato eccellente.

Entro il 30 agosto il governo deve decidere se confermare l’eliminazione dell’Imu, o se rimodulare il prelievo sugli immobili. È una scelta fondamentale, che può decidere la vita del governo quanto una sentenza di condanna per il Cavaliere. A dispetto di un “pensiero debole” ricorrente e purtroppo dominante, incline ad annullare le distanze e ad azzerare le differenze, il Fisco è una frontiera che può dividere la sinistra dalla destra. Esattamente come la Giustizia, che esige tutti i cittadini uguali di fronte alla legge, anche il Fisco è uno strumento che aiuta a combattere le disuguaglianze.

La “cifra” politica dell’Imu è dunque elevatissima. E il documento diffuso dal ministro dell’Economia lo conferma plasticamente, e quasi drammaticamente. In un testo di oltre cento pagine, Saccomanni fotografa la realtà, e poi descrive i nove possibili scenari di cambiamento, che vanno dalla “totale abolizione” dell’imposta fino alla “derubricazione della revisione Imu sulla prima casa con destinazione di risorse per la parziale abolizione dell’imposta all’allentamento del patto di stabilità dei comuni e la service tax”. Per depotenziare la questione dalla sua alta intensità politica, sembra quasi che il governo ne voglia aumentare di proposito la densità “tecnica”. Ciascuna delle ipotesi esaminate viene valutata in base al costo per le casse dello Stato, all’efficienza, all’equità nell’impatto redistributivo, alla responsabilizzazione dei livelli di governo, al costo della “compliance” per i contribuenti e ai costi amministrativi.

Qui sta, allo stesso tempo, la forza e la debolezza del documento. La forza è nell’oggettività dei numeri che espone e che finalmente, dopo tante chiacchiere, definisce in modo esaustivo e definitivo la base tecnica e l’oggetto della “contesa” politica. La debolezza sta nella neutralità del testo, che si limita a squadernare doviziosamente le opzioni, senza privilegiarne esplicitamente una. Ma questo limite non deve stupire. È per così dire “strutturale”. Va al di là dell’Imu. È intrinseco alla natura anomala di questo governo di Larghe Intese. La difficoltà di scegliere tra una o l’altra misura di revisione del prelievo sugli immobili (come quella di decidere se rinviare definitivamente l’aumento dell’Iva, di stabilire se si debba riformare l’amministrazione giudiziaria o di accordarsi su come si possa cambiare la legge elettorale) riflette geometricamente la difficoltà di conciliare le diverse idee, e persino le diverse costituency elettorali, che dominano i due schieramenti.

Come spiega lo stesso Saccomanni, il confronto tra i partiti sull’Imu, cominciato dopo l’istituzione della cabina di regia e gli incontri bilaterali, ha fatto emergere distanze siderali tra Pd e Pdl. Per questo il ministro ha deciso di mettere tutti di fronte ai dati della realtà, descrivendo costi e benefici di tutte le scelte possibili che la politica, di qui alla fine del mese, sarà chiamata a fare. Può sembrare una mossa pilatesca. Ma lo è solo in parte. Basta leggere il dettaglio delle singole misure proposte, nel quadro sinottico di pagina 74 del testo, per rendersi conto che nella valutazione del governo le due opzioni peggiori, sul piano economico e sociale, sono quelle sostenute dal Pdl. L’abolizione totale dell’imposta sull’abitazione principale ha un costo in termini di gettito “alto” (4 miliardi), un’efficienza “scarsa, un “impatto regressivo rispetto al reddito”, una responsabilizzazione dei livelli di governo “scarsa”, un costo di “compliance” per i contribuenti “nullo” e un costo amministrativo “alto”. L’abolizione della prima rata dei versamenti Imu sospesi per decreto a maggio ha le stesse caratteristiche negative, con la sola differenza di un costo più basso in termini di gettito (2,43 miliardi).

È dunque improbabile che l’Imu sia cancellata per sempre, come chiedono i liberisti alle vongole passati dalla scuola di Chicago al doposcuola di Arcore. Con un debito pubblico al 130,3% del Prodotto interno lordo, e nonostante un avanzo primario al 2,4%, l’Italia purtroppo non può permettersi di ridurre drasticamente le tasse, e meno che mai tornando ad allargare il suo deficit. Gli impegni assunti con l’Europa continuano a pesare, e se ne avrà una prima traccia già al G-20 di San Pietroburgo del 5-6 settembre, e poi all’Ecofin immediatamente successivo. Lo spread a quota 250 è una bella nota estiva, ma non può e non deve ingannare. Come ricorda la Bce di Mario Draghi, che invita i Paesi periferici dell’Eurozona a “non vanificare gli sforzi già compiuti allo scopo di ridurre i disavanzi pubblici”.

Se sarà confermato il parziale miglioramento del Pil del secondo trimestre (diminuito dello 0,2% invece del temuto 0,4%) e se l’andamento delle entrate del secondo semestre confermerà il trend di quelle del primo, l’eventuale extra-gettito da 8-10 miliardi dovrà essere impiegato per ridurre il cuneo fiscale, non certo per eliminare un’imposta sugli immobili che (sia pure graduata in modo diverso e magari in funzione della condizione economica del nucleo familiare) esiste in tutti i Paesi d’Europa.

Chi ha case d’altissimo pregio e redditi molto elevati è giusto che paghi un tributo. Ne va dell’equità sociale del sistema che il governo tecnico di Monti ha colpevolmente ignorato e che invece il governo politico bipartisan non può assolutamente dimenticare. Ma questo, nei prossimi giorni e spurgata la prima ondata di polemiche, l’esecutivo dovrà dirlo chiaro, e scriverlo nero su bianco in un decreto legge. Per quanto completo e accurato, un documento non basta a salvarsi l’anima. Letta e Saccomanni dovranno assumersi le loro responsabilità di fronte alla maggioranza e di fronte agli italiani.

Le reazioni della destra sono già furenti, anche se inconcludenti. Prima, in campagna elettorale, il Pdl ha trasformato la soppressione della tassa sulla prima casa in un vessillo ideologico e demagogico, da agitare al cospetto di un elettorato disincantato e deluso, dopo l’ubriacatura bugiarda degli anni 2000, quando Berlusconi sbancava le urne promettendo “meno tasse per tutti”. Poi, dopo il voto, l’ha trasformata nell’atto “fondativo” della Grande Coalizione, giudicandola indiscutibile e irrinunciabile per recuperare terreno nelle categorie più abbienti, dove l’emorragia elettorale è stata più copiosa. Per le tasse come per le condanne del Cavaliere, il partito berlusconiano, disperato e disarticolato, continua dunque a far crescere le tensioni, anche se non riesce a farle esplodere. Di qui al 30 agosto sentiremo ripetere fino alla noia “o salta l’Imu, o salta Letta”. Per ora non saltano né l’uno né l’altro. Ma resistere a questo logoramento continuo, e a questo stillicidio quotidiano di penultimaum, è sempre più difficile. Anche per un governo che non ha alternative. Non basta una necessità per fare una virtù.

m.giannini@repubblica.it

(09 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI La proposta irricevibile
Inserito da: Admin - Agosto 23, 2013, 11:42:00 pm

La proposta irricevibile

di MASSIMO GIANNINI


Ora tutto è chiaro, al di là di ogni ragionevole dubbio. La rottura consumata a Palazzo Chigi sulla fantasmatica "agibilità politica" di Berlusconi apre gli occhi anche a chi, per mesi, settimane e giorni, ha fatto finta di non vedere. O ha provato a manomettere la realtà dei fatti e a manipolare la verità delle parole con la fumisteria delle formule. Alfano, pena la sopravvivenza stessa della "strana maggioranza", chiede al governo di farsi carico di ciò che al governo non compete: salvare il Cavaliere, condannato in via definitiva per frode fiscale, dalla decadenza e dall'incandidabilità. Una proposta indecente. E dunque irricevibile.

Si disvela così, finalmente, la vera natura della Grande Coalizione. Per questa destra italiana, dominata dalla figura del padre totemico che la "massa primaria" ama senza se e senza ma, il governo di Larghe Intese non riflette un equilibrio politico transitorio ma più avanzato, utile a risolvere le emergenze finanziarie del Paese. È invece solo uno strumento "tecnico", utile a risolvere le urgenze giudiziarie di Berlusconi. Per questa destra italiana, incapace di accettare le regole dello Stato di diritto e di affrancarsi da una leadership autocratica e totalizzante, il governo è in effetti "di scopo". Ma lo "scopo", a dispetto della propaganda bugiarda del dopo-elezioni, non è la tutela dell'interesse nazionale ma la difesa di un interesse personale. Se questo interesse non può essere difeso, perché le sentenze sono esecutive e non c'è presidente della Repubblica né presidente del Consiglio che ne possano vanificare gli effetti, allora il governo non serve più. E si può anche sciogliere il vincolo che lo fa nascere e lo tiene insieme.

Questo è il senso del Pdl per le istituzioni. Dopo il fallimento dell'assedio al Quirinale, dove Napolitano custodisce con cura la Costituzione repubblicana, e dopo l'ultima riunione del "gabinetto di guerra" a Villa San Martino, dove l'armata berlusconiana decide la nuova offensiva, Alfano osa l'inosabile. Garantisce la tenuta del governo, solo a condizione che Letta (e attraverso Letta il Pd) faccia votare no alla Giunta per le autorizzazioni, e poi all'aula del Senato, alla decadenza del Cavaliere, che la legge Severino prescrive in automatico. O solo a patto che il premier (e attraverso il premier il centrosinistra) accetti quanto meno uno slittamento del voto di Palazzo Madama. I Dottor Stranamore di Arcore esigono un "approfondimento". Lo chiamano così.

Questo, in realtà, è più volgarmente un ricatto. Un ricatto che serve a tenere in ostaggio non solo il governo, ma un intero Paese, che invece di arrovellarsi sui salvacondotti di Berlusconi avrebbe un disperato bisogno di concentrarsi sulle strategie per la crescita e per il lavoro. E se questo non accade non è colpa delle ossessioni coltivate dall'anti-berlusconismo, ma delle devastazioni prodotte dal berlusconismo. Disposto, come sempre, a giocare al "tanto peggio tanto meglio". A scambiare la stabilità solo con l'impunità. E a dare corpo purtroppo alle profetiche preoccupazioni formulate dal Capo dello Stato nella sua nota di Ferragosto, quando si chiede di non accettare le decisioni della magistratura, e di evitare "ritorsioni" improprie sulle altre istituzioni.

È esattamente quello che sta per succedere. Dopo lo strappo di Palazzo Chigi, com'era prevedibile, la crisi si avvicina a grandi passi.
Una crisi quasi al buio, dove non si vedono spiragli per elezioni anticipate (che il Colle non vuole espressamente concedere), ma dove non si vedono margini per maggioranze alternative (che Grillo non è palesemente in grado di assicurare). Nell'arca del Pdl, che molla gli ormeggi tra sentenze dei tribunali e pronunce del Senato, c'è ormai posto solo per caimani, falchi e pitonesse. Ma il diluvio universale, purtroppo, investirà l'Italia, e non solo i naufraghi, disperati e irresponsabili, della "nuova" Forza Italia.


(22 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI L'ultimo compromesso
Inserito da: Admin - Agosto 29, 2013, 04:22:03 pm
L'ultimo compromesso

di MASSIMO GIANNINI


Dunque, le Larghe Intese non moriranno per l'Imu. Non è ancora escluso che possano "morire per il Twiga", come vorrebbero le pitonesse del Pdl, sempre pronte a immolare se stesse e l'Italia sull'altare della decadenza e dell'incandidabilità del pregiudicato Silvio Berlusconi.
La cancellazione totale dell'imposta sulla prima casa per il 2013 è un compromesso che allunga la vita del governo. Resta da capire se salva anche quella dei molti italiani che soffrono i morsi della recessione e della disoccupazione. Quando si riducono le tasse, in un Paese che vanta il peggior livello di servizi e la maggior pressione fiscale d'Europa, una boccata d'ossigeno arriva comunque.

Se si considera che fino al 2012 molte famiglie hanno ipotecato persino la tredicesima per pagare la stangata sugli immobili, un risparmio di 4 miliardi non è poca cosa. È condivisibile la soddisfazione di Enrico Letta, che parla di "scelta coraggiosa ed equilibrata". Il coraggio va apprezzato: rinunciare a un intero anno di imposta, in un'Italia che combatte con il più alto debito pubblico del mondo e che oscilla pericolosamente intorno al tetto del 3% di deficit concordato con l'Europa, è un bell'azzardo.
L'equilibrio va dimostrato: che l'Imu fosse iniqua è oggettivo, ma il modo in cui la si cambia è decisivo.

C'è un groviglio tecnico, ancora tutto da districare. Come sarà coperto il buco enorme che si apre quest'anno nelle casse dei Comuni, private del gettito Imu? Per la prima rata è più o meno chiaro: qualche taglio di spesa (benché ancora vago), un prelievo su giochi e scommesse, un po' di Iva in più grazie alla nuova tranche di pagamenti dello Stato alle imprese. Per la seconda rata è buio pesto: tutto è rinviato alla legge di stabilità di ottobre, che promette di essere ricca di incognite e povera di risorse. E cosa succederà l'anno prossimo? L'Imu sarà sostituita dalla Service Tax, sulla quale gli enti locali scaricheranno tutti i tributi attualmente in vigore per i servizi connessi agli immobili. Vedremo come funzionerà. Ma Prima e Seconda Repubblica insegnano: cambia il nome, non cambia il senso. Tra la vecchia e la nuova, sempre di tassa stiamo parlando.

C'è un nodo politico, ancora tutto da sciogliere. Il premier sostiene che l'accordo sulla cancellazione dell'Imu "è merito di tutti".
È comprensibile che lo dica: non vuole lasciare che la destra si intesti la titolarità esclusiva del risultato, e che alla sinistra resti il "premio di consolazione" di una manciata di spiccioli per la Cassa integrazione e per altri 6.500 esodati. Ma è Berlusconi che canta vittoria, parlando di "promessa mantenuta" e addirittura, con un impeto di comicità involontaria per un condannato, di "etica della politica". È Alfano che, a Consiglio dei ministri ancora in corso, "cinguetta" su Twitter "missione compiuta". Sono i ministri del Pdl che, a fine giornata, ringraziano il Cavaliere "per questo successo", che "senza di lui sarebbe stato impossibile".

È evidente che sull'Imu il premier e il Pd hanno giocato in difesa, finendo per cedere al "primo ricatto berlusconiano". L'hanno fatto su un terreno nel quale tutti gli italiani hanno qualcosa da guadagnare, come le tasse, e dunque pagando un prezzo politico modesto. Ma questo non può non pesare, sui prossimi appuntamenti che aspettano la maggioranza. Vincendo sull'Imu, Berlusconi ha perso un alibi: per far cadere il governo che non risolve i suoi problemi di "agibilità politica" voleva usare l'inciampo dell'odiata tassa sulla casa. Ora non può più farlo. Se vuole "assassinare" le Larghe Intese, che non gli garantiscono l'impunità giudiziaria, deve farlo a viso aperto, e deve avere la faccia tosta di spiegarlo agli italiani.

Non è escluso che lo faccia, conoscendo la dismisura culturale e istituzionale dello Statista di Arcore. Ma adesso è per lui oggettivamente più difficile. Non a caso Letta può osare e può dire che a questo punto il governo "è senza scadenza". Non è detto che sia vero. Ma certo tutto questo conferisce al Pd il massimo di libertà e di responsabilità, nel maneggiare il "secondo ricatto berlusconiano". Sull'abolizione dell'Imu il compromesso è possibile. Sulla concessione del salvacondotto è inaccettabile.

m.giannini@repubblica.it

(29 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI La corruzione come metodo
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2013, 04:41:28 pm

La corruzione come metodo

di MASSIMO GIANNINI



I bardi della corte di Arcore, ancora una volta, la sparano grossa. Gridano al "golpe rosso", all'"attacco concentrico", all'"esproprio proletario". Molto più banalmente, depurate dal falso ideologico e politico al quale ci ha abituato la propaganda populista e vittimista del quasi Ventennio berlusconiano, le motivazioni della Cassazione sul Lodo Mondadori sono solo l'ovvia conseguenza civilistica di una verità giudiziale ormai acquisita. Una verità definitiva, al di là di ogni ragionevole dubbio, che a questo punto diventa anche storica. Una verità che sveste il Sovrano di tutti i suoi finti orpelli e i suoi falsi scudi. E lo espone, nudo, di fronte alla legge e al Paese.

Cos'altro deve accadere, perché si debbano considerare vere e non più contestabili le accuse provate in ben sei gradi di giudizio, e infine sanzionate con una condanna dalla Corte d'appello di Milano il 9 luglio 2011? A cos'altro ci si può appigliare, per contestare quella sentenza esemplare in cui ora la Cassazione, trova come unico e paradossale "difetto" quello di essere "fin troppo analiticamente argomentata"? Eppure non basta, ai falchi e alle colombe del Pdl che insieme ai familiari difendono il Capo, in una rituale confusione di ruoli in cui come sempre il partito si fa azienda e l'azienda si fa partito.

I giudici di allora, come quelli di oggi, hanno scritto e ampiamente dimostrato due dati di fatto oggettivi, e non più controvertibili. Il primo: nella contesa che nel 1991 portò il gruppo Mondadori nelle mani del Cavaliere si produsse un episodio gravissimo di corruzione di magistrati, di cui Berlusconi fu l'ideatore iniziale e Previti l'esecutore materiale. Il secondo: se quel reato corruttivo non si fosse verificato, la casa editrice di Segrate sarebbe rimasta a pieno diritto nella proprietà del gruppo De Benedetti (editore di questo giornale).
Basterebbe questo a dare la misura dell'enorme responsabilità penale che, nella vicenda specifica, grava sulle spalle della sedicente "vittima" del "complotto" e giustifica il risarcimento danni cui è adesso costretto. Ma qui c'è molto di più. Nelle carte del Lodo Mondadori come in quelle delle altre sentenze passate in giudicato (da All Iberian ai diritti tv Mediaset) c'è riassunto lo stigma dell'intera parabola berlusconiana, e insieme il paradigma della sua avventura imprenditoriale e politica. Un vero e proprio "metodo di governance" (e poi anche di governo), che risale a molti anni prima dell'epica "discesa in campo" del '94 ed è in buona parte alla base delle fortune iniziali del tycoon della televisione commerciale, fin dai tempi dei primi decreti "ad aziendam" varati dall'amico Craxi negli anni '80. Un "sistema di potere" collaudato, in cui gli affari privati si mescolano agli interessi pubblici. Gli strumenti della mala-finanza sono usati per assicurarsi i buoni uffici della mala-giustizia. Il Cavaliere evade il fisco, crea fondi neri, realizza falsi in bilancio. Tutto serve per alimentare una "provvista" segreta, con la quale si comprano magistrati compiacenti e finanzieri renitenti, e poi anche faccendieri senza scrupoli e parlamentari senza vergogna.

La Guerra di Segrate e il "dominus" della corruzione
Nella guerra di Segrate "l'apparato corruttivo" berlusconiano dispiega tutta la sua geometrica potenza. All'inizio degli anni '90 la contesa tra due industriali per il possesso della Mondadori volge a favore di De Benedetti, dopo che un collegio di arbitri gli assegna la titolarità della maggioranza delle azioni della casa editrice. Berlusconi impugna il Lodo davanti alla Corte d'Appello di Roma. E qui, nel "porto delle nebbie" della Capitale, accade il misfatto. Il giudice relatore Vittorio Metta deposita una sentenza di 167 pagine (scritta non da lui ma da "ignoti", pare nello studio Previti) che sovverte il Lodo e riassegna la Mondadori al Cavaliere. Si scoprirà poi, più di dieci anni dopo, che quella sentenza Berlusconi l'ha comprata, facendo depositare 400 milioni di lire sul conto di Metta, attraverso i buoni uffici di Previti. Anche questa è una verità giudiziale, scritta in una sentenza passata in giudicato, dopo le pronunce della Corte d'Appello di Milano del 23 febbraio 2007 e della Cassazione il 13 luglio dello stesso anno.

Quella condanna penale costa la galera a Previti e agli avvocati Acampora e Pacifico. Berlusconi si salva solo perché, nel frattempo, è già diventato presidente del Consiglio nel 2001, e ha fatto approvare dal Parlamento un paio di leggi che gli servono a salvare la faccia e la poltrona. A lui, premier, i magistrati di secondo grado applicano la pena della "corruzione semplice" (non quella "aggravata" che invece inchioda Previti) e gli riconoscono le "attenuanti generiche". Grazie a queste, e alla nuove norme che nel frattempo hanno accorciato i tempi della prescrizione, il Cavaliere è riconosciuto a tutti gli effetti colpevole, ma non viene condannato perché il reato è ormai prescritto. Lo schema è sempre il solito. Ed è lo stesso che, attraverso l'abuso autoritario del potere esecutivo e l'uso gregario del potere legislativo, lo salva dalle sanzioni del potere giudiziario. È andata quasi sempre così: dal processo Sme-Ariosto a Mills, dal processo Mediatrade a All Iberian 1.

Di fronte a tutto questo, solo i teoreti bugiardi della Grande Menzogna possono gridare al "tentativo di annientamento totale" del Cavaliere ad opera delle toghe politicizzate. Sulla base di quelle sentenze penali, la giustizia civile non fa altro che il suo corso. I giudici della Cassazione non possono che ribadire solennemente le due evidenze che già decretarono quelli della Corte d'Appello due anni fa. Prima evidenza: Berlusconi è "il corruttore", perché è stato "indiscusso beneficiario delle trame illecite materialmente attuate da altri sodali", e Previti è l'ufficiale pagatore, perché "doveva ritenersi organicamente inserito nella struttura aziendale", al punto che tra le sue varie incombenze "rientravano anche l'attività di corruzione di alcuni magistrati". Seconda evidenza: la corruzione del giudice Metta ha privato De Benedetti non solo e "non tanto della chance di una sentenza favorevole, ma senz'altro della sentenza favorevole". La posta perduta dalla Cir, in altri termini. È stata molto più grande della "chance": è stata la Mondadori stessa, perché secondo la Corte "con Metta non corrotto l'impugnazione del lodo sarebbe stata respinta".

Questo passaggio, ormai "res iudicata", rende risibile l'ira di Marina Berlusconi, che tuona contro l'"autentico esproprio politico" e l'accanimento di "una certa magistratura" che "assieme al gruppo editoriale di Carlo De Benedetti, tentano di eliminare dalla scena politica" suo padre. La politica, in questa vicenda processuale come nelle tante altre che lo riguardano, non c'entra nulla. Il Cavaliere paga in denaro per i reati comuni che ha commesso quando era solo un imprenditore e l'epifania di Forza Italia era ancora di là da venire. Paradossalmente, Marina avrebbe quasi ragione quando sostiene che Fininvest non "deve un euro" alla Cir. Perché gli dovrebbe molto di più: cioè la Mondadori stessa, quella di allora, con tutto il potenziale economico e finanziario che rappresentava e avrebbe potuto rappresentare nell'arco di questi vent'anni. Un'occasione persa per sempre. Per questo, riafferma la Cassazione, il danno subito dalla Cir è "ingiusto".

Il sistema di potere e l'essenza del berlusconismo
Ma il Lodo Mondadori è solo un capitolo di una "narrazione" molto più vasta, e molto più inquietante. Come ha scritto Giuseppe D'Avanzo su "Repubblica" il 10 luglio 2011, questa vicenda giudiziaria, insieme a tutte le altre che lo hanno visto e lo vedono ancora coinvolto, riflette il rifiuto delle regole e il disprezzo della legge che il Cavaliere ha sempre dimostrato, da imprenditore illiberale e poi anche da leader di una destra anti-costituzionale. È lui il simbolo dell'Italia tangentara degli anni '80 e '90, e poi dell'Italia corrotta del nuovo millennio. Il meccanismo corruttivo è intrinseco alla gestione aziendale, ed è quasi consustanziale al raggiungimento dei risultati. Va al di là del solito principio secondo il quale il Cavaliere "non poteva non sapere". Scrive la Cassazione: "Un'analisi ricomposta dell'intera vicenda (costituzione della provvista all'estero ed utilizzo della stessa a fini corruttivi) consentiva di concludere in termini di consapevolezza necessaria di quanto andava accadendo in capo al dominus societario".

Qui, come sui diritti tv Mediaset, è sempre lui il "dominus", che architetta e sovrintende al sistema. E lo fa con una logica ferrea, che D'Avanzo ricostruiva ricordando la sentenza Mills, l'avvocato inglese che per conto e nell'interesse di Berlusconi e con il suo coinvolgimento diretto e personale crea e gestisce "64 società estere offshore del "group B very discret" della Fininvest", dove transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri. I 21 miliardi che hanno ricompensato Craxi per l'approvazione della legge Mammì. I 91 miliardi destinati a politici "ignoti" (che "costano molto perché è in discussione la legge Mammì"). E ancora il controllo illegale dell'86% di Telecinco. L'acquisto fittizio di azioni per conto di Leo Kirch. Le risorse destinate appunto da Previti per la corruzione di Metta nel Lodo Mondadori. Gli acquisti di azioni che in violazione delle regole favorirono le scalate a Standa e Rinascente. All'elenco di allora si potrebbero aggiungere ora i miliardi spesi nel frattempo per comprare i silenzi dei Tarantini e i Lavitola, spacciatori di olgettine nelle "cene eleganti" di Palazzo Grazioli e Villa Certosa, o per comprare i voti dei De Gregorio e altri "responsabili", congiurati necessari per far cadere il governo Prodi nel 2008.
Eccola, al fondo, la vera essenza del berlusconismo. Un potere che sfrutta senza scrupoli la sua funzione pubblica, con l'unico scopo di proteggere i suoi affari privati. Aspettiamo l'alba di un nuovo video-messaggio, per capire se lo Statista di Arcore farà saltare il tavolo. Ma intanto assistiamo basiti al suo ultimo, disperato travestimento: il ladro che si urla perché l'hanno "rapinato".

m. giannini@repubblica. it

(18 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/09/18/news/la_corruzione_come_metodo-66769792/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI - Sedici minuti, sei bugie
Inserito da: Admin - Settembre 20, 2013, 05:04:44 pm

Sedici minuti, sei bugie

di MASSIMO GIANNINI


Il video-messaggio di Berlusconi non è solo un concentrato di dolori personali e di rancori collettivi. Come sempre, i suoi sedici minuti di "discorso alla nazione" racchiudono anche una micidiale sequenza di falsità. Dalla ricostruzione delle sue vicende politiche alla "narrazione" delle sue vicissitudini giudiziarie, la menzogna domina la scena e scandisce il plot della fiction berlusconiana. La menzogna, ancora una volta, è "instrumentum regni" del Cavaliere, utile a sovvertire il senso e a generare il consenso.

Nel triste, solitario e finale comizio televisivo, registrato come nel 1994 nella location di Villa San Martino, si possono contare almeno sei bugie, che vanno dal bilancio della crisi economica al rilancio della "moderata" Forza Italia. Omissioni della realtà, manomissioni della verità: vale la pena di ripercorrerle una per una, con una esegesi testuale e contro-fattuale, per capire ancora una volta i meccanismi che fanno funzionare la "macchina" del potere berlusconiano.

1) La crisi economica senza precedenti
Dice il Cavaliere agli italiani: "Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere... Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo...".
Berlusconi parla come un passante, non come il presidente del Consiglio che solo dal 2001 ad oggi ha governato il Paese per ben otto anni. I risultati economici dei suoi due governi sono stati rovinosi. Lo dice Ignazio Visco, governatore della Banca d'Italia, nelle Considerazioni finali del maggio 2012 (il governo Berlusconi è caduto nel novembre 2011): "Le condizioni economiche si deteriorano da un anno. La produuzione industriale, che aveva a stento recuperato nel secondo trimestre dello scorso anno,... è da allora caduta del 5%. Il Pil è diminuito dalla scorsa estate per tre trimestri consecutivi, con una perdita complessiva di 1,5 punti percentuali. Il tasso di disoccupazione è salito, da luglio, da poco più dell'8 a quasi il 10%, fra i giovani con meno di 25 anni dal 28 al 36%". Quanto alle tasse, la pressione fiscale è sempre aumentata durante i governi del Cavaliere: dal 40,6 al 41,4% tra il 1994 e il 1996, dal 40,5 al 41,7% tra il 2001 e il 2006 e dal 42,7 al 44,8% tra il 2008 e il 2011.

2) La magistratura "contropotere irresponsabile"
L'attacco più veemente, come al solito, è contro le toghe: "Siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercè di una magistratura politicizzata che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità... si è trasformata da Ordine dello Stato in un Contropotere in grado di condizionare il potere legislativo e il potere esecutivo e si è data come missione quella di realizzare la via giudiziaria al socialismo".
A quali "fonti" abbia attinto il Cavaliere è un vero mistero. La Costituzione prevede che "i giudici rispondono soltanto alla legge" (articolo 101), che spettano al Csm "secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati (articolo 105), ma che "il ministro della Giustizia ha facoltà di promuovere l'azione disciplinare" e che il pm "gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario" (articolo 107). Com'è evidente, la magistratura è un "organo dello Stato", che gode di autonomia secondo il principio della separazione dei poteri, ma non della "totale irresponsabilità" lamentata dallo Statista di Arcore: risponde alle leggi, come avviene in tutti i "Paesi civili". Quanto al "Contropotere" che condiziona "il potere legislativo e il potere esecutivo", il Ventennio berlusconiano dimostra l'esatto contrario: con 18 leggi ad personam sulla giustizia su un totale di 37 fatte approvare a forza dal Parlamento, è stato Berlusconi a usare il potere esecutivo per imporre al legislativo un vincolo al giudiziario. Infine, la "missione di realizzare la via giudiziaria al socialismo" è un inedito assoluto del Cavaliere: qualche solerte azzeccagarbugli deve avergli spacciato come documento di Magistratura Democratica un vecchio dispaccio di Andrej Vishinsky, procuratore dell'Unione Sovietica degli anni '30.

3) La caduta del primo governo del 1994
Per sostenere la tesi del "complotto politico" e della "Guerra dei Vent'anni" dichiarata contro di lui dai giudici rossi, Berlusconi risale ai tempi di Mani Pulite, alla sua discesa in campo e al suo primo trionfo elettorale del '94: "Immediatamente, i Pm e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Md si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo".

È la famosa leggenda dell'avviso di garanzia recapitato all'allora premier dal Pool di Milano durante il vertice Onu sulla criminalità a Napoli. Fatto vero, che si verifica il 22 novembre 1994. in relazione all'inchiesta sulle tangenti alla Guardia di Finanza. Ma il primo governo del Polo non cade affatto per questo: si sfarina a causa della lotta fratricida sulla riforma Dini, che porta la Lega di Bossi a decidere il ribaltone e Berlusconi ad aprire la crisi il 22 dicembre, con un durissimo discorso alla Camera in cui accusa l'ex alleato Senatur di "rapina elettorale". Quanto all'esito di quel processo sulle tangenti alla Guardia di Finanza, non è vero che il Cavaliere viene "assolto, con formula piena, sette anni dopo". Intanto in quel processo, nel 2001, viene condannato Salvatore Sciascia, dirigente Fininvest, che le tangenti le ha pagate. Berlusconi viene assolto su tre capi d'imputazione, ma per un quarto se la cava grazie all'"insufficienza probatoria". Non solo: nella sentenza di condanna definitiva per David Mills la Cassazione accerta che l'avvocato inglese fu corrotto "per testimoniare il falso nel processo sulle tangenti alla Gdf", favorendo così l'assoluzione dell'ex premier.

4) Cinquanta processi, quarantuno assoluzioni
È un classico della vulgata berlusconiana: "Mi sono stati rovesciati addosso 50 processi che hanno infangato la mia immagine... ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di estromettermi dalla politica con una sentenza che è politica ed è mostruosa... sottraendomi da ultimo al mio giudice naturale, cioè a una delle sezioni ordinarie della Cassazione che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte...".

Il vero numero dei processi di Berlusconi non è 50, come dice ora, né meno che mai 106, come sparò nel novembre 2009. I suoi processi sono finora 18. Quelli conclusi sono 14 (di questi uno è una condanna definitiva per frode fiscale, quello sui diritti tv Mediaset, e solo un altro è un'assoluzione con formula piena; quanto al resto, 2 sono assoluzioni con "formula dubitativa", e 10 sono assoluzioni dovute all'effetto delle leggi ad personam, tra legge Cirielli sulla prescrizione e depenalizzazione del falso in bilancio). Quelli ancora in corso sono 4: due di questi si sono conclusi con una condanna in primo grado (nastri Unipol e Ruby 1) mentre per altri 2 il procedimento è solo agli inizi (Ruby 2 e compravendita dei senatori a Napoli). Quanto alla condanna definitiva sui diritti tv Mediaset, la sentenza non è politica, poiché si riferisce a fatti che precedono la discesa in campo, e non c'è stata alcuna sottrazione al "giudice naturale": l'assegnazione alla "Sezione feriale" della Cassazione, invece che alle sezioni seconda e terza, rientra nella normale applicazione della legge e della prassi. La procedura d'urgenza nella discussione delle cause è prevista dall'articolo 169 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale e dal "decreto organizzativo" varato dalla stessa Corte nel 2012.

5) L'evasione inesistente sui diritti tv
Sulla condanna nel processo Mediaset il Cavaliere si difende così: "Sono riusciti a condannarmi per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola... Io non ho commesso alcun reato, io sono assolutamente innocente...".

L'evasione fiscale, con la quale il gruppo Mediaset ha creato fondi neri necessari al pagamento di tangenti, non è affatto "inesistente". Secondo i giudici, che l'hanno confermato in tre gradi di giudizio, la frode fiscale effettivamente sanzionata si riferisce al biennio 2002/2003, ed ammonta a 7 milioni di euro. Ma quella originariamente contestata era pari a 370 milioni di dollari, perché risaliva indietro fino agli anni '80. Se questa imputazione è caduta è solo grazie, ancora una volta, alle leggi ad personam, che hanno fatto cadere le accuse di appropriazione indebita e di falso in bilancio. Ma la frode fiscale, ormai, è "res iudicata". Se questo è un innocente.

6) Forza Italia partito della tolleranza
Il mesto finale da Caimano attinge all'antico repertorio azzurro: "Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita e della famiglia, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari...".

Sul "valore della famiglia" come caposaldo etico-morale dei valori forzisti, la sentenza di condanna in primo grado per prostituzione minorile patita dal Cavaliere per la vicenda di Ruby, la "nipote di Mubarak", sembra raccontare tutt'altra storia. E non si tratta di intrusione nella vita privata, ma del dovere di un uomo pubblico di rendere conto dei propri comportamenti, soprattutto quando questi rivelano l'abuso e la dismisura. Sulla "tolleranza verso gli avversari", a parte la sterminata letteratura sui "comunisti che coltivano l'odio e l'invidia sociale" e i numerosi "editti" emessi per cacciare dalla Rai i vari Biagi, Santoro e Luttazzi, fa fede una frase memorabile che proprio Berlusconi pronunciò il 6 aprile 2006, all'assemblea di Confcommercio: "Non credo che ci siano in giro così tanti coglioni che votano per la sinistra...". Questo perché, oggi come allora, Forza Italia è "il partito dei moderati". L'eterno ritorno. O, forse, l'eterno riposo.

m.giannini@repubblica.it

(19 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/09/19/news/sedici_minuti_sei_bugie_di_massimo_giannini-66847826/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La corruzione come metodo
Inserito da: Admin - Settembre 22, 2013, 04:35:37 pm

La corruzione come metodo

di MASSIMO GIANNINI



I bardi della corte di Arcore, ancora una volta, la sparano grossa. Gridano al "golpe rosso", all'"attacco concentrico", all'"esproprio proletario". Molto più banalmente, depurate dal falso ideologico e politico al quale ci ha abituato la propaganda populista e vittimista del quasi Ventennio berlusconiano, le motivazioni della Cassazione sul Lodo Mondadori sono solo l'ovvia conseguenza civilistica di una verità giudiziale ormai acquisita. Una verità definitiva, al di là di ogni ragionevole dubbio, che a questo punto diventa anche storica. Una verità che sveste il Sovrano di tutti i suoi finti orpelli e i suoi falsi scudi. E lo espone, nudo, di fronte alla legge e al Paese.

Cos'altro deve accadere, perché si debbano considerare vere e non più contestabili le accuse provate in ben sei gradi di giudizio, e infine sanzionate con una condanna dalla Corte d'appello di Milano il 9 luglio 2011? A cos'altro ci si può appigliare, per contestare quella sentenza esemplare in cui ora la Cassazione, trova come unico e paradossale "difetto" quello di essere "fin troppo analiticamente argomentata"? Eppure non basta, ai falchi e alle colombe del Pdl che insieme ai familiari difendono il Capo, in una rituale confusione di ruoli in cui come sempre il partito si fa azienda e l'azienda si fa partito.

I giudici di allora, come quelli di oggi, hanno scritto e ampiamente dimostrato due dati di fatto oggettivi, e non più controvertibili. Il primo: nella contesa che nel 1991 portò il gruppo Mondadori nelle mani del Cavaliere si produsse un episodio gravissimo di corruzione di magistrati, di cui Berlusconi fu l'ideatore iniziale e Previti l'esecutore materiale. Il secondo: se quel reato corruttivo non si fosse verificato, la casa editrice di Segrate sarebbe rimasta a pieno diritto nella proprietà del gruppo De Benedetti (editore di questo giornale).
Basterebbe questo a dare la misura dell'enorme responsabilità penale che, nella vicenda specifica, grava sulle spalle della sedicente "vittima" del "complotto" e giustifica il risarcimento danni cui è adesso costretto. Ma qui c'è molto di più. Nelle carte del Lodo Mondadori come in quelle delle altre sentenze passate in giudicato (da All Iberian ai diritti tv Mediaset) c'è riassunto lo stigma dell'intera parabola berlusconiana, e insieme il paradigma della sua avventura imprenditoriale e politica. Un vero e proprio "metodo di governance" (e poi anche di governo), che risale a molti anni prima dell'epica "discesa in campo" del '94 ed è in buona parte alla base delle fortune iniziali del tycoon della televisione commerciale, fin dai tempi dei primi decreti "ad aziendam" varati dall'amico Craxi negli anni '80. Un "sistema di potere" collaudato, in cui gli affari privati si mescolano agli interessi pubblici. Gli strumenti della mala-finanza sono usati per assicurarsi i buoni uffici della mala-giustizia. Il Cavaliere evade il fisco, crea fondi neri, realizza falsi in bilancio. Tutto serve per alimentare una "provvista" segreta, con la quale si comprano magistrati compiacenti e finanzieri renitenti, e poi anche faccendieri senza scrupoli e parlamentari senza vergogna.

La Guerra di Segrate e il "dominus" della corruzione
Nella guerra di Segrate "l'apparato corruttivo" berlusconiano dispiega tutta la sua geometrica potenza. All'inizio degli anni '90 la contesa tra due industriali per il possesso della Mondadori volge a favore di De Benedetti, dopo che un collegio di arbitri gli assegna la titolarità della maggioranza delle azioni della casa editrice. Berlusconi impugna il Lodo davanti alla Corte d'Appello di Roma. E qui, nel "porto delle nebbie" della Capitale, accade il misfatto. Il giudice relatore Vittorio Metta deposita una sentenza di 167 pagine (scritta non da lui ma da "ignoti", pare nello studio Previti) che sovverte il Lodo e riassegna la Mondadori al Cavaliere. Si scoprirà poi, più di dieci anni dopo, che quella sentenza Berlusconi l'ha comprata, facendo depositare 400 milioni di lire sul conto di Metta, attraverso i buoni uffici di Previti. Anche questa è una verità giudiziale, scritta in una sentenza passata in giudicato, dopo le pronunce della Corte d'Appello di Milano del 23 febbraio 2007 e della Cassazione il 13 luglio dello stesso anno.

Quella condanna penale costa la galera a Previti e agli avvocati Acampora e Pacifico. Berlusconi si salva solo perché, nel frattempo, è già diventato presidente del Consiglio nel 2001, e ha fatto approvare dal Parlamento un paio di leggi che gli servono a salvare la faccia e la poltrona. A lui, premier, i magistrati di secondo grado applicano la pena della "corruzione semplice" (non quella "aggravata" che invece inchioda Previti) e gli riconoscono le "attenuanti generiche". Grazie a queste, e alla nuove norme che nel frattempo hanno accorciato i tempi della prescrizione, il Cavaliere è riconosciuto a tutti gli effetti colpevole, ma non viene condannato perché il reato è ormai prescritto. Lo schema è sempre il solito. Ed è lo stesso che, attraverso l'abuso autoritario del potere esecutivo e l'uso gregario del potere legislativo, lo salva dalle sanzioni del potere giudiziario. È andata quasi sempre così: dal processo Sme-Ariosto a Mills, dal processo Mediatrade a All Iberian 1.

Di fronte a tutto questo, solo i teoreti bugiardi della Grande Menzogna possono gridare al "tentativo di annientamento totale" del Cavaliere ad opera delle toghe politicizzate. Sulla base di quelle sentenze penali, la giustizia civile non fa altro che il suo corso. I giudici della Cassazione non possono che ribadire solennemente le due evidenze che già decretarono quelli della Corte d'Appello due anni fa. Prima evidenza: Berlusconi è "il corruttore", perché è stato "indiscusso beneficiario delle trame illecite materialmente attuate da altri sodali", e Previti è l'ufficiale pagatore, perché "doveva ritenersi organicamente inserito nella struttura aziendale", al punto che tra le sue varie incombenze "rientravano anche l'attività di corruzione di alcuni magistrati". Seconda evidenza: la corruzione del giudice Metta ha privato De Benedetti non solo e "non tanto della chance di una sentenza favorevole, ma senz'altro della sentenza favorevole". La posta perduta dalla Cir, in altri termini. È stata molto più grande della "chance": è stata la Mondadori stessa, perché secondo la Corte "con Metta non corrotto l'impugnazione del lodo sarebbe stata respinta".

Questo passaggio, ormai "res iudicata", rende risibile l'ira di Marina Berlusconi, che tuona contro l'"autentico esproprio politico" e l'accanimento di "una certa magistratura" che "assieme al gruppo editoriale di Carlo De Benedetti, tentano di eliminare dalla scena politica" suo padre. La politica, in questa vicenda processuale come nelle tante altre che lo riguardano, non c'entra nulla. Il Cavaliere paga in denaro per i reati comuni che ha commesso quando era solo un imprenditore e l'epifania di Forza Italia era ancora di là da venire. Paradossalmente, Marina avrebbe quasi ragione quando sostiene che Fininvest non "deve un euro" alla Cir. Perché gli dovrebbe molto di più: cioè la Mondadori stessa, quella di allora, con tutto il potenziale economico e finanziario che rappresentava e avrebbe potuto rappresentare nell'arco di questi vent'anni. Un'occasione persa per sempre. Per questo, riafferma la Cassazione, il danno subito dalla Cir è "ingiusto".

Il sistema di potere e l'essenza del berlusconismo
Ma il Lodo Mondadori è solo un capitolo di una "narrazione" molto più vasta, e molto più inquietante. Come ha scritto Giuseppe D'Avanzo su "Repubblica" il 10 luglio 2011, questa vicenda giudiziaria, insieme a tutte le altre che lo hanno visto e lo vedono ancora coinvolto, riflette il rifiuto delle regole e il disprezzo della legge che il Cavaliere ha sempre dimostrato, da imprenditore illiberale e poi anche da leader di una destra anti-costituzionale. È lui il simbolo dell'Italia tangentara degli anni '80 e '90, e poi dell'Italia corrotta del nuovo millennio. Il meccanismo corruttivo è intrinseco alla gestione aziendale, ed è quasi consustanziale al raggiungimento dei risultati. Va al di là del solito principio secondo il quale il Cavaliere "non poteva non sapere". Scrive la Cassazione: "Un'analisi ricomposta dell'intera vicenda (costituzione della provvista all'estero ed utilizzo della stessa a fini corruttivi) consentiva di concludere in termini di consapevolezza necessaria di quanto andava accadendo in capo al dominus societario".

Qui, come sui diritti tv Mediaset, è sempre lui il "dominus", che architetta e sovrintende al sistema. E lo fa con una logica ferrea, che D'Avanzo ricostruiva ricordando la sentenza Mills, l'avvocato inglese che per conto e nell'interesse di Berlusconi e con il suo coinvolgimento diretto e personale crea e gestisce "64 società estere offshore del "group B very discret" della Fininvest", dove transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri. I 21 miliardi che hanno ricompensato Craxi per l'approvazione della legge Mammì. I 91 miliardi destinati a politici "ignoti" (che "costano molto perché è in discussione la legge Mammì"). E ancora il controllo illegale dell'86% di Telecinco. L'acquisto fittizio di azioni per conto di Leo Kirch. Le risorse destinate appunto da Previti per la corruzione di Metta nel Lodo Mondadori. Gli acquisti di azioni che in violazione delle regole favorirono le scalate a Standa e Rinascente. All'elenco di allora si potrebbero aggiungere ora i miliardi spesi nel frattempo per comprare i silenzi dei Tarantini e i Lavitola, spacciatori di olgettine nelle "cene eleganti" di Palazzo Grazioli e Villa Certosa, o per comprare i voti dei De Gregorio e altri "responsabili", congiurati necessari per far cadere il governo Prodi nel 2008.
Eccola, al fondo, la vera essenza del berlusconismo. Un potere che sfrutta senza scrupoli la sua funzione pubblica, con l'unico scopo di proteggere i suoi affari privati. Aspettiamo l'alba di un nuovo video-messaggio, per capire se lo Statista di Arcore farà saltare il tavolo. Ma intanto assistiamo basiti al suo ultimo, disperato travestimento: il ladro che si urla perché l'hanno "rapinato".

m. giannini@repubblica. it

(18 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/09/18/news/la_corruzione_come_metodo-66769792/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La ballata dei poteri morti
Inserito da: Admin - Settembre 27, 2013, 07:45:08 pm
La ballata dei poteri morti

di MASSIMO GIANNINI


Nella grandiosa svendita di fine stagione che si sta consumando su Telecom non si salva nessuno. Al dolo di un capitalismo indecente, che scappa col malloppo e lucra i suoi ultimi affarucci sulla pelle di utenti, risparmiatori e lavoratori, si somma la colpa di una politica impotente, che piange le solite lacrime di coccodrillo sul latte già versato. All'inconcludenza dei controllori, che assistono silenti alle nefandezze di un "mercato" sospeso tra Far West e parco buoi, si somma l'impudenza dei manager, che bruciano risorse umane e finanziarie senza mai pagare dazio ma facendosi pagare bunus milionari. È agghiacciante scoprire che una delle ultime grandi aziende del Paese, per quanto fiaccata dalla concorrenza e schiantata dai debiti, possa passare di mano dall'oggi al domani senza che nessuno abbia saputo o abbia visto alcunché. Non sapeva niente il presidente del Consiglio Letta, che adesso promette la sua tardiva "vigilanza". Non sapeva niente il presidente di Telecom Bernabè, che dichiara addirittura di aver appreso la notizia del blitz spagnolo dai comunicati stampa.

Non sapeva niente la Consob, che annuncia di aver acceso il solito "faro", dopo quelli già inutilmente puntati su Fonsai o Mps, utili solo a far lievitare la bolletta energetica pagata all'Enel. Non sapeva niente il Parlamento, che adesso leva alti e vacui lai, danzando mestamente intorno al polveroso totem dell'"italianità" e invocando platealmente la difesa della "sicurezza nazionale".

Tutti bugiardi. Perché tutti sapevano tutto, da mesi se non addirittura da anni. Non c'è fine più annunciata di quella che sta per portare Telecom nelle braccia di Telefonica. Sui quotidiani e sui settimanali, negli ambienti politici e in quelli borsistici, il dramma dell'ex colosso tricolore è all'ordine del giorno da tempo. E l'opzione spagnola era già quasi scontata dal 2007, quando Telefonica fu imbarcata dentro la holding di controllo Telco, spacciata come "operazione di sistema" dagli improbabili architetti di Mediobanca, Generali e Banca Intesa.

Per scongiurarla, i soci "eccellenti" dell'ex Salotto Buono avrebbero dovuto avere in tasca i miliardi necessari ad una robusta iniezione di capitali freschi. I manager avrebbero dovuto avere in testa un piano di sviluppo del business telefonico e delle alleanze globali. I politici avrebbero dovuto avere in mano un progetto di politica industriale degna della quinta potenza del pianeta.

E invece, dopo la spoliazione della Stet successiva alla "madre di tutte le privatizzazioni", la truffa dei nocciolini duri perpetrata dalle nobili casate sabaude pronte a controllare le aziende con una fiche di pochi spiccioli, il saccheggio realizzato dalla squadra tronchettiana, non c'è stato quasi più nulla. Solo la prosecuzione della razzia con altri mezzi: dal 2007 ad oggi, nella cinica accidia della comunità finanziaria e politica, Telecom ha subito un ulteriore drenaggio di risorse per circa 24 miliardi. A chi millantano la loro meraviglia e la loro indignazione, oggi, i controllanti e i controllati?

A giugno Alberto Nagel, amministratore delegato di Mediobanca, a chi gli chiedeva lumi sul destino di Telecom annunciava già che a settembre ci sarebbe stato lo "show down". Solo due settimane fa Bernabè, a chi andava a trovarlo nel quartier generale di Corso d'Italia, spiegava che "la situazione patrimoniale di Telecom, tra debiti e goodwill, è tremenda" e che "gli azionisti erano informati". E da mesi i queruli esponenti di partito discettano a vanvera sullo scorporo della rete, sognando un'altra Iri custodita nei forzieri della Cassa depositi e prestiti. Ripescando e riabilitando post mortem il dossier del povero Angelo Rovati, crocifisso senza pietà ai tempi del governo Prodi per aver prospettato un "disegno criminale", oggi considerato geniale.

Dunque su Telecom (come su Alitalia, su Parmalat, su Ligresti e presto chissà forse anche su Enel o su Finmeccanica) non si celebra la saga dei Poteri Forti, ma la ballata dei Poteri Morti. Questo è ciò che resta del famoso "capitalismo di relazione" (e in qualche caso "di corruzione"). Capace di regalare la telefonia italiana a un indebitatissimo Cesar Alierta per un piatto di lenticchie. Di consentire agli spagnoli di portarsi via l'intera posta senza fare l'Opa, senza far arrivare neanche un euro nelle casse svuotate di Telecom e nei portafogli delusi di una Borsa trattata come una bisca. E questo è ciò che resta dell'establishment economico e dell'élite finanziaria. Mosche del capitale, che succhiano i loro ultimi dividendi sulle spoglie delle aziende e di chi ci lavora.

Ma questo declino, per quanto terribile, non è un destino. Questa operazione può ancora essere fermata, se c'è ancora in giro un po' di buon senso e buon gusto. E non perché si deve rispettare l'italianità: un mantra demagogico, auto-assolutorio e di per sé anti-moderno, da non cavalcare a priori perché i buoni affari non hanno passaporto. Almeno per questo, si può immaginare l'imbarazzo del premier, che dovrebbe gridare "non passi lo straniero" nelle stesse ore in cui è a New York per promuovere il Made in Italy e per convincere le multinazionali a investire in Italia. Questa operazione va fermata perché è rovinosa per il sistema industriale e dannosa per il mercato finanziario.

Telefonica prenderà il controllo di Telecom senza consolidare il suo debito. Lascerà che siano gli altri, nel frattempo, a fare il "lavoro sporco". Cioè smembrando l'azienda e avviando uno spezzatino selvaggio, attraverso il sacrificio della attività più redditizie in Brasile e in Argentina, mercati dove il gruppo italiano dava fastidio a Telefonica perché competeva alla pari sul mobile. Alla fine delle tre tappe fissate dall'operazione, Alierta ingoierà Telco, finalmente alleggerita dai debiti. Il tutto avverrà a un prezzo di 1,09 euro ad azione, di cui beneficeranno solo i "compagnucci della parrocchietta" milanese, messa in piedi dalla Galassia del Nord sei anni fa. Il 78% degli altri azionisti, comuni mortali che hanno comprato in Borsa, non vedranno un centesimo.

Questo è il doppio scempio che va impedito. Può farlo il governo, accelerando il varo del decreto attuativo che estende anche alle telecomunicazioni la nuova "golden power", lo strumento che sostituisce la vecchia golden share e che conferisce al Tesoro il diritto di vincolare con una quota minoritaria, ma dotata di poteri speciali, la governance di aziende "strategiche". C'è tempo per farlo, prima che Telefonica perfezioni il delitto perfetto. E per mettere almeno al sicuro la rete, garantendone la crescita in una prospettiva coerente con l'investimento sulla banda larga e sull'Agenda digitale. Può farlo la Consob, se nel frattempo il Parlamento avrà la forza e il coraggio di correggere la legge sull'Opa riducendo, o congegnando in modo diverso, la soglia di controllo del 30% sopra la quale scatta l'obbligo di lanciare un'offerta pubblica d'acquisto.

Ci vorrebbe un soprassalto di dignità. Un sussulto di responsabilità. In una formula trita, ma ancora efficace: ci vorrebbe un Sistema Paese. È difficile crederci. Ma non tutto è perduto, in questa Italia a saldo e alla mercé dei Poteri Morti. Tranne l'onore.

m.giannini@repubblica.it

(26 settembre 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/economia/2013/09/26/news/ballata_poteri_morti-67291410/?ref=HRER1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Fine Corsa
Inserito da: Admin - Ottobre 06, 2013, 12:19:04 am
Fine Corsa
di MASSIMO GIANNINI

Non c'è una ragione al mondo, se non il sonno della ragione stessa che ormai acceca il Cavaliere, per definire il voto della Giunta del Senato "un colpo al cuore della democrazia". La decadenza di Silvio Berlusconi, decisa a maggioranza a Palazzo Madama, è l'esatto contrario: l'affermazione di un principio che fa vivere la democrazia. L'uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, come ricorda la nostra Costituzione. Il rispetto di una sentenza definitiva di cui non si deve solo "prendere atto", ma che si deve soprattutto "applicare", come ricorda il capo dello Stato nella sua nota del 13 agosto. È vero: quello della Giunta è un voto annunciato. Ma non perché questo organismo istituzionale, come recitano le bugiarde geremiadi berlusconiane, sia stato proditoriamente trasformato in un "plotone d'esecuzione", o sia stato inopinatamente animato dal "fumo" della persecuzione.

È un voto annunciato perché così prescrive una legge dello Stato, approvata con il solenne consenso del Pdl durante il governo Monti, e considerata a tutti gli effetti "perfettamente costituzionale" dalla sua stessa firmataria, la ex Guardasigilli Severino. Quella legge stabilisce in automatico l'incandidabilità e la decadenza dalle cariche elettive per chiunque abbia riportato una condanna definitiva con pene superiori ai due anni di reclusione. Il Cavaliere è stato condannato a quattro anni nel processo sui diritti tv Mediaset in tutti e tre i gradi di giudizio, per un reato grave come la frode fiscale finalizzata alla creazione di fondi neri dai quali attingere per pagare tangenti. Per questo la Giunta del Senato non può che prendere atto, e decidere di conseguenza: il Cavaliere decade, ed è incandidabile.

In un Paese normale e occidentale tutto finirebbe qui. Non ci sarebbe scandalo politico-istituzionale, se non quello di un leader che si ostina a sfuggire al suo giudice e al suo "giudicato". Non ci sarebbe "attentato allo stato di diritto", se non quello perpetrato nel Ventennio dello Statista di Arcore a colpi di leggi "ad personam" e "ad aziendam". Ma l'Italia è ormai "altro", non solo dal mondo normale ma a volte persino dal canone occidentale. Così, in vista del voto dell'aula del Senato che dopo la Giunta dovrà ratificare in via definitiva la decadenza di Berlusconi, infuriano la consueta canea contro le istituzioni, la rituale minaccia alle toghe, la solita aggressione preventiva contro gli organi di garanzia. E per un giorno, in nome della "lesa maestà" del Sovrano e dello scempio arrecato alla sua sacra figura, tutti si ritrovano a corte. Lealisti e complottisti. Eternamente berlusconiani e diversamente berlusconiani.

Non stupisce, ora, che sfascisti impenitenti e moderati sedicenti urlino insieme, ancora una volta, all'"assassinio politico". La svolta del 2 ottobre c'è stata, ed è stata a suo modo storica. Per la prima volta dall'epifanica discesa in campo del 1994 il capo assoluto e carismatico del Pdl è stato messo in minoranza, e costretto a una clamorosa ritirata. Per la prima volta la sua anomala "creatura" politica, artificiale e personale, ha somigliato un po' più a un partito e un po' meno ad un'azienda. Ma per quanto drammatica, la disfatta sulla fiducia al governo Letta non è ancora il 25 luglio del Cavaliere. E per quanto coraggioso, lo strappo di Alfano non è ancora l'ordine del giorno Grandi. La destra italiana è entrata in una terra incognita. Forse già non più berlusconiana, ma certo non ancora post-berlusconiana. Una terra in cui la faglia di un estremismo urlato ed esibito incrocia ancora quella di un moderatismo vagheggiato ma inibito. La rottura "governista" imposta dalle colombe si è consumata intorno a un atto che poteva essere davvero "fondativo", ma che al momento non lo è e non promette di esserlo.

Ha ragione chi si aspetta che il prossimo passo dell'ala ministeriale dei pentiti di Forza Italia sia la formazione dei gruppi parlamentari autonomi. E ha ragione Dario Franceschini, quando sostiene che se il Pdl non si spacca sarà stata tutta una "finzione" dal chiaro sapore doroteo. Come insegna la storia migliore e purtroppo minoritaria della Dc, la "moderazione" è una cultura politica e dunque una pratica, non una semplice estetica. Ammesso che esistano davvero, misureremo i "diversamente berlusconiani" dai prossimi passaggi della legislatura. A cominciare proprio dal voto dell'assemblea di Palazzo Madama sulla decadenza. Ma certo non lascia ben sperare uno Schifani che rilancia la sfida al Pd e a Scelta Civica, chiedendo per quel voto, ancora una volta, un "sussulto di responsabilità". Ci manca solo un nuovo attacco frontale a Giorgio Napolitano, e poi torniamo al copione di sempre, che cancella con un colpo solo la "rivoluzione" del 2 ottobre.

Di fronte ai tormenti della destra, il centrosinistra deve avere senz'altro un "sussulto di responsabilità", ma in tutt'altro senso. Il Pd si è miracolosamente riscoperto unito intorno alla "linea della fermezza", proprio sulla decadenza del Cavaliere. Per quella via, la via del costituzionalismo e del principio di legalità, ha riattivato la connessione con buona parte del suo elettorato deluso da tanta, troppa "intelligenza col nemico". Si tratta di non smarrire quella via, e di non cadere nelle trappole ordite da un Movimento 5Stelle sempre più impresentabile e sempre più irriducibile alle logiche di una politica che vuol provare a costruire qualcosa, e non si limita a distruggere tutto. Il comportamento di Vito Crimi che in Giunta "posta" i suoi insulti a Berlusconi dice tutto: è sconcertante sul piano istituzionale, perché tratta una delicata seduta in Commissione come una truce assemblea di condominio, ed è ributtante sul piano umano, perché svilisce la dignità della lotta politica alla gratuità dell'offesa personale.

Per il Pd, ancora, si tratta di non prestare il fianco alle tribali divisioni che hanno devastato l'assemblea di due settimane fa. Si tratta di non lacerarsi tra le pastoie neo-centriste coltivate intorno alla figura di Letta e le scorciatoie movimentiste ritagliate sul profilo di Renzi. Si tratta insomma di non aprire un congresso permanente, e anticipato, sulla pelle del Paese. Sarebbe un favore enorme, regalato ancora una volta a un Berlusconi che a questo punto non ha davvero più nient'altro da aspettare. Comunque andranno le cose, nell'aula del Senato e nelle aule dei tribunali, la sua parabola politica volge ormai al termine. C'è solo da accompagnarlo, senza inutili vendette ideologiche, negli archivi della Repubblica.

5 ottobre 2013
Da – repubblica.it


Titolo: MASSIMO GIANNINI Legge stabilità, né stangata né frustata
Inserito da: Admin - Ottobre 16, 2013, 05:03:10 pm

Legge stabilità, né stangata né frustata

di MASSIMO GIANNINI
16 ottobre 2013

La prima legge di stabilità della Grande Coalizione all'italiana riflette i limiti della strana maggioranza che l'ha prodotta. Non si può giudicare rivoluzionaria: non aggredisce il Leviatano della spesa pubblica improduttiva e non aziona le leve di un'economia competitiva. Ma non si può neanche definire rinunciataria: azzarda qualche timido tentativo di introdurre politiche redistributive senza alimentare ulteriori dinamiche recessive. Il risultato è una manovra di mantenimento. O di galleggiamento, secondo i punti di vista.

Ci mette "al sicuro con l'Europa" (e questo il premier Letta fa bene a rivendicarlo). Ma non "ci porta fuori dalla recessione" (e questo il ministro Saccomanni esagera a sottolinearlo). Con questo pacchetto di misure da 11,5 miliardi non abbandoniamo il sentiero stretto del rigore, perché con un debito pubblico che viaggia al 135% nei prossimi tre anni non possiamo permettercelo. Ma non imbocchiamo la via larga dello sviluppo, perché con una caduta di Pil del 9% negli ultimi cinque anni servirebbe tutt'altro coraggio. La Finanziaria delle Larghe Intese brilla soprattutto per quello che non c'è (cioè i malefici che evita) piuttosto che per quello che c'è (cioè i benefici che porta).

Non c'è la temuta "stangata" sulla sanità, e di questo va dato atto al presidente del Consiglio che se ne intesta il merito. Un salasso di 4 miliardi di tagli ulteriori sarebbe stato obiettivamente insostenibile. Questa è una voce del Welfare in cui si spende malissimo ma non tantissimo (9,3% del Pil in Italia, contro il 12% dei Paesi Bassi o l'11,6% di Francia e Germania), e in cui l'ideologismo dei tagli lineari decisi negli ultimi dieci anni dai governi Berlusconi-Tremonti ha fatto danni incalcolabili (come del resto è accaduto anche sull'istruzione e la ricerca). Ma aver evitato questo ennesimo atto di macelleria sociale non basta a "qualificare" la manovra.

Si coglie qua e là una ricerca di soddisfare il bisogno crescente di equità che monta nel Paese. Ma è quasi rabdomantica, e in alcuni casi contraddittoria. Anche qui, pesano chiaramente le diverse costituency politico-elettorali dei partiti di governo, che frappongono veti incrociati e giustappongono richieste. Senza elaborare una sintesi avanzata, senza enucleare una priorità definita. L'esempio più lampante è la seconda rata dell'Imu: quest'anno non la verseremo perché così ha preteso il Cavaliere nel "patto costitutivo" del governo, ma l'anno prossimo la pagheremo con gli interessi. Cambierà solo il nome, ma non la sostanza: si chiamerà "Trise", e costerà in media 370 euro a famiglia. Un altro esempio è la tassazione del capitale: manca la forza di ripensare in modo definitivo la struttura squilibrata del prelievo sulle rendite finanziarie (tuttora colpite con aliquote pari alla metà esatta di quelle che gravano sul lavoro). Ma si supplisce con l'ulteriore inasprimento della "patrimonialina " sui bolli del deposito titoli.

Manca la determinazione di rimodulare il perimetro dello Stato sociale, allargandolo dove serve e restringendolo dove si può, ma si concede qualche risorsa aggiuntiva al Fondo dei non autosufficienti, alla Social card e alla cassa integrazione in deroga. Manca la fantasia di strutturare una fiscalità di vantaggio per i nuclei familiari, ma si prolungano gli eco-bonus sull'energia e sulle ristrutturazioni immobiliari. Si introduce un contributo di solidarietà sulle pensioni più alte, ma si impongono nuovi sacrifici al pubblico impiego, sul quale non si interviene con una riforma radicale volta a un vero recupero di efficienza (come ci sarebbe un disperato bisogno), ma con un altro giro di vite sui rinnovi contrattuali e sulle prestazioni straordinarie (come nella peggiore tradizione forzaleghista).

Il risultato di questa complessa alchimia politico-finanziaria ha almeno il pregio di non essere una "mannaia" sulla testa dei contribuenti. Su questo non si può dare torto a Letta. Ma se non c'è la stangata, appunto, purtroppo non c'è neanche la "frustata". Gli stimoli allo sviluppo si intuiscono, ma sono obiettivamente modesti. "Pagheremo meno tasse", dicono in coro premier e vicepremier. Ma non ce ne accorgeremo, se lo sgravio si sostanzia in un calo della pressione tributaria di meno di un punto di Pil nel prossimo triennio. E qui c'è il limite più serio di questa manovra. La grande operazione di abbattimento del cuneo fiscale è deludente. E ancora una volta, nell'affannosa mediazione tra le pressioni dei sindacati e le pretese di Confindustria, non vince nessuno, e rischiano di perdere tutti.

Il taglio vale sì 10 miliardi, diviso tra imprese e lavoratori, com'era stato annunciato. Ma sarà spalmato sull'arco dei tre anni. Questo vuol dire che in una busta paga da 15 mila euro di reddito medio, per il 2014, arriveranno  poco più di 100 euro di aumento delle detrazioni all'anno. Meno di 10 euro al mese. Il costo di una napoletana in pizzeria, o di dieci cappuccini al bar. La stessa cosa vale per gli sgravi Irap sui neo-assunti a beneficio delle imprese, che varranno 15 mila euro l'anno per ogni nuovo contratto stabilizzato. Alla fine prevale la stessa logica, falsamente egualitaria, che condannò l'operazione sul cuneo fiscale compiuta dal governo Prodi nel 2006/2008. Meglio di niente, ma non generò un solo centesimo di punto in più di prodotto lordo. Non è così che si sostengono i consumi e si rilanciano gli investimenti.

Questa è la vera occasione mancata. Anche per un esecutivo "anomalo" come quello di Letta e Alfano. Ma era inutile illudersi troppo. Nelle condizioni date, mai come questa volta l'obiettivo della legge è quello di garantire ciò che recita il suo "titolo": la stabilità. Probabilmente non più de-crescita, ma certamente non ancora crescita. Solo stabilità. Stabilità dei conti pubblici, che in questo momento è specchio e garanzia degli equilibri politici. Tutto questo soddisferà i "governisti" dei due poli. Piacerà alla matrigna Europa, e forse anche ai mercati tiranni. Per carità, non è poco. Ma agli italiani serve molto di più.
m.giannini@repubblica.it

16 ottobre 2013

Da - http://www.repubblica.it/politica/2013/10/16/news/legge_stabilita_commento_giannini-68697144/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il perimetro di Bankitalia e le vite degli altri
Inserito da: Admin - Novembre 04, 2013, 11:58:17 am
 
    Massimo GIANNINI

Il perimetro di Bankitalia e le vite degli altri

Ripassando le cronache di questi giorni sulla legge di stabilità, e rimettendo in fila i sacrifici iniquamente distribuiti dalla manovra del governo, mi torna in mente una frase di Lord Marsh, ex presidente della British Rail ai tempi che precedettero la “cura” della Lady di Ferro: «Potete ridurre qualsiasi spesa pubblica, fatta eccezione per il servizio statale: quei ragazzi hanno speso centinaia di anni ad apprendere come aver cura di se stessi». Applicata all’Italia di oggi, la battutaccia dell’allora capo delle mitiche Ferrovie britanniche non riguarda affatto i dipendenti del “servizio statale”. Al contrario, loro sono le prime vittime delle Finanziarie di questi ultimi anni, compresa l’ultima che ha di nuovo colpito senza pietà il pubblico impiego. Tra estensione del blocco dei contratti fino al dicembre 2014, taglio del 10% degli straordinari e allungamento fino al 2017 del blocco del turn over, l’obolo ammonta a più di 5 miliardi nel prossimo biennio. Il pubblico impiego, per la quantità delle risorse che drena e la qualità dei servizi che offre, richiede un intervento diverso da quello praticato finora. Servirebbe una ragionata riorganizzazione strutturale, non un’indiscriminata deflazione salariale. Ma così è. Nella stagione del “thatcherismo alla milanese” di scuola berlusconiana, come nell’era delle Larghe Intese di scuola italiana, se sacrifici si devono fare, si fanno. Purché però li facciano tutti. E qui torna d’attualità Lord Marsh. Nella legge di stabilità c’è un beneficio, per una cerchia ristretta di «ragazzi», francamente difficile da comprendere. Cito l’Ansa del 23 ottobre, che riprende un comunicato ufficiale del Tesoro (di cui per inciso è ministro l’ex dg della stessa Banca centrale): «La stretta prevista dalla legge di stabilità per il pubblico impiego non riguarda i dipendenti della Banca d’Italia, perché gli interventi “assumono come riferimento il perimetro delle amministrazioni pubbliche rilevanti ai fini dell’indebitamento da parte della Ue, dal quale la Banca d’Italia è fuori”». Ineccepibile sul piano giuridico. Insopportabile sul piano etico. All’istituzione di Palazzo Koch si deve un rispetto assoluto. È un’eccellenza italiana, forse la più prestigiosa rimasta in un Paese che ha dissipato quasi tutto. Ma quando si costringono tante famiglie a tirare la cinghia, più che al «perimetro delle amministrazioni» bisognerebbe pensare all’equità delle soluzioni. Questa non lo è. Rafforza l’idea che l’Italia sia in mano alle Caste. Alimenta la rabbia di chi si sente ancora una volta costretto a pagare, mentre pochi privilegiati sono esonerati perché hanno imparato assai bene come «aver cura di se stessi». Se sei dentro il «perimetro», ti salvi. Fuori, ci sono solo «le vite degli altri». Un messaggio devastante, in tempi di crisi economica e di antipolitica. m.giannini@repubblica.it

(28 ottobre 2013) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/10/28/news/il_perimetro_di_bankitalia_e_le_vite_degli_altri-69634012/


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'acchiappa fantasmi dei capitali in fuga
Inserito da: Admin - Novembre 13, 2013, 03:47:53 pm
L'acchiappa fantasmi dei capitali in fuga

Ci risiamo. Ogni volta che sono con l'acqua alla gola, a corto di soldi e di idee, si mettono ad acchiappare i fantasmi. Servono una decina di miliardi, di qui a fine anno, per finanziare tutto quello che è stato promesso nella Legge di Stabilità. Dalla Cassa integrazione alla soppressione della seconda rata dell'Imu. E tutti, tra governo e maggioranza, giocano a chi la spara più grossa. Per un Alfano che sogna la manna fiscale invocando a sproposito il 'contrasto di interessi' all'americana, c'è un Renzi che vede la panacea previdenziale evocando il contributo di solidarietà sulle pensioni. Pannicelli caldi stesi sulle ferite del bilancio pubblico. O prosciutti freschi applicati sugli occhi del contribuente confuso. Con tutta la buona volontà, è difficile raccapezzarsi con un governo che i giorni pari, per bocca del suo ministro dell'Economia, annuncia giustamente un piano antievasione incardinato sui limiti all'uso del contante, e che i giorni dispari, per bocca del suo vicepremier, definisce quel piano sbagliato e irricevibile. Ma tra gli acchiappa-fantasmi brillano soprattutto i cacciatori di capitali in fuga. Un altro mito tricolore, cullato nelle fasi di sconforto collettivo. Dal Tesoro trapela un progetto per il rimpatrio dei fiumi di denaro rimasti oltre frontiera anche dopo l'ultimo scandaloso scudo fiscale della premiata ditta Berlusconi-Tremonti. Si parla di almeno 200 miliardi. Una cifra enorme, concentrata soprattutto in Svizzera (dove si orienta almeno il 60% dei flussi in uscita), e poi Lussemburgo, San Marino, Monaco e in forte ascesa Hong Kong e Singapore. Se si riuscisse a riportarne a casa anche solo un terzo, ci sarebbero risorse per finanziare un taglio vero del cuneo fiscale e contributivo. Ma è realistico inseguire i fantasmi del capitale? Lo sarebbe, in teoria. La fuga di queste enormi quantità di ricchezza misura lo sfacelo etico della nazione e la bancarotta morale della sua 'borghesia'. L'Ocse e la Ue suggeriscono di far rimpatriare i capitali facendo pagare sanzioni che vanno da una forchetta minima del 3-15% a una massima del 6-30% (per i paesi della cosiddetta black list). Ma chi e come potrebbe costringere o convincere i tanti italiani che in questi anni hanno nascosto il denaro all'estero a riportarlo in patria, pagando al Fisco una 'multa' molto più seria dell'obolo che il governo di destra introdusse nel 2009? E poi c'è un altro problema. In Italia, per chi ha patrimoni da investire, non c'è quasi più niente da comprare. La Borsa è quello che è, fiaccata oltre tutto da una Tobin Tax mal congegnata che da marzo ad oggi ha fatto calare gli scambi di un buon 15%. I fondi comuni impiegano solo il 7,8% del proprio portafoglio in azioni italiane, mentre il 22,1% va nel resto d'Europa, il 12,1% in Nord America e l'8,4% in Asia. Una volta rientrati (e opportunamente tassati) i capitali bisognerebbe anche farli restare. Altrimenti, come direbbe Leo Di Caprio ai poveri ghostbusters tricolori, prova a prenderli.
m.giannini@repubblica.it

(04 novembre 2013) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/11/04/news/l_acchiappa_fantasmi_dei_capitali_in_fuga-70181754/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il Guardasigilli alla sua terza versione dei fatti.
Inserito da: Admin - Novembre 18, 2013, 10:22:46 pm
Contatti, bugie e omissioni: tutte le contraddizioni nell'autodifesa di Cancellieri

Il Guardasigilli alla sua terza versione dei fatti.

Con la "lunghissima amicizia" con i Ligresti, il ministro mette le mani avanti su ciò che può ancora venire fuori dall'inchiesta

di MASSIMO GIANNINI
16 novembre 2013


Blindata dal capo dello Stato, rassicurata dal capo del governo, Annamaria Cancellieri nega ancora una volta ogni "addebito" sullo scandalo Ligresti. Da ministro, rifiuta ancora una volta ogni "sospetto" politico sul suo operato. Da cittadino, respinge ogni dubbio etico sulla natura dei rapporti con la famiglia di Paternò. Pensava di aver già chiarito tutto, nelle audizioni rese in Parlamento il 5 novembre. Ma se dieci giorni dopo è costretta a rendere conto di nuovo dei suoi comportamenti di fronte al Paese, vuol dire che non tutto era chiaro, nella vicenda della scarcerazione della figlia di don Salvatore. Non lo era allora, dopo le clamorose rivelazioni sul suo interrogatorio del 22 agosto ai pm di Torino. E non lo è neanche oggi, dopo le lacunose "spiegazioni" fornite, con la sua "lettera aperta", alle ulteriori "bugie" denunciate da Repubblica.

Dopo aver provato a giustificare con i sentimenti "di umana vicinanza" le sue telefonate con Gabriella Fragni, i suoi contatti con Antonino Ligresti e le sue segnalazioni al Dap per sollecitare la traduzione agli arresti domiciliari di Giulia, il Guardasigilli doveva ora chiarire almeno tre "omissioni" (nella migliore delle ipotesi) o "menzogne" (nella peggiore) scoperte da questo giornale nella sua ricostruzione dei fatti. La prima: l'esistenza di una telefonata in più, non riferita ai magistrati, con Antonino Ligresti (quella del 21 agosto, oltre del 17 luglio con la Fragni e a quella del 19 agosto con lo stesso Antonino). La seconda: l'evidenza che la telefonata del 19 non l'aveva "ricevuta" (come aveva dichiarato ai pm), ma l'aveva fatta direttamente lei (come si evince dai tabulati) al cellulare del fratello del finanziere siciliano. La terza: la frequenza delle conversazioni telefoniche (almeno sei tra il 17 luglio e la prima settimana di agosto) tra il marito del ministro, Sebastiano Peluso, e lo zio di Giulia (proprio nella fase cruciale in cui si doveva decidere sulla sua scarcerazione).

Nessuno di questi tre fatti è stato smentito. E nessuno di questi tre fatti, finora, era noto ed era stato raccontato dal ministro alle Camere e alla Procura. Nonostante questo, nella sua "lettera aperta" la Cancellieri giura di non aver detto bugie. "Si sostiene che io abbia omesso di riferire circostanze rilevanti o peggio che abbia mentito al Parlamento il 5 novembre scorso... si sostiene che abbia riferito circostanze non vere al pm che mi ha ascoltato il 22 agosto a seguito dell'intercettazione di una mia conversazione con la compagna di Salvatore Ligresti...". La lettura testuale della missiva del Guardasigilli, incrociata con la testimonianza resa in Procura e la "arringa" pronunciata in Aula, fa emergere ben tre versioni diverse. E non destituisce di fondamento, ma semmai rafforza l'idea che la sua "autodifesa" sia stata in effetti omissiva, se non addirittura mendace.

LA "LUNGHISSIMA AMICIZIA" CON I LIGRESTI
In premessa, il ministro è costretto a ribadire, con molta più forza di quanto non abbia fatto con i magistrati, la sua "lunghissima amicizia con Antonino Ligresti". Lo accenna ai pm il 22 agosto ("conosco Antonino Ligresti da molti anni"). Lo ripete in Parlamento ("Sono stata e sono amica di Antonino Ligresti, conoscenza maturata durante la mia lunga permanenza a Milano, per ragioni del tutto estranee alla mia attività professionale"). Ma è evidentemente questa "lunghissima amicizia" che spinge la Cancellieri a mettere quasi le mani avanti, su ciò che ancora potrà venir fuori dall'inchiesta, quando scrive nella sua lettera che "un rapporto di amicizia è tale perché implica una frequentazione fatta di conversazioni e contatti telefonici". Ed è esattamente questa "lunghissima amicizia" che induce la Cancellieri, nella famosa telefonata con la Fragni del 17 luglio, giorno della retata dei Ligresti) a prodigarsi al di là di ogni ragionevole responsabilità istituzionale.

Quel "non è giusto", ripetuto per ben quattro volte, a proposito delle manette ai polsi di don Salvatore e delle sue due figlie, che non suona "empatico" verso la famiglia, ma critico verso i magistrati. Quel "qualsiasi cosa io possa fare conta su di me...", abbozzato all'inizio e poi riaffermato poco dopo: "proprio qualsiasi cosa adesso serva, non fare complimenti...". Quell'accenno improvvido alla questione del figlio Piergiorgio, assunto in Fonsai e liquidato con 3,6 milioni dopo aver scoperchiato il buco da 1 miliardo che costa la prigione al clan siciliano e dopo aver fatto raffreddare i rapporti tra le due famiglie ("maledetto quel giorno..."). Tutto questo, ancora una volta, fa da sfondo ai "comportamenti" del ministro. E checché ne dica nella sua lettera, continua purtroppo ad appannarne "l'immagine", e a mettere in discussione la sua "integrità morale", il suo "onore" e la sua "fedeltà alle istituzioni".

LA PRIMA TELEFONATA FATTA IL 19 AGOSTO
Ma veniamo ai fatti nuovi, che il ministro fino ad oggi aveva "dimenticato", nascosto o negato. Le telefonate con Antonino Ligresti. Se ne conosceva una sola, quella del 19 agosto. Nel suo intervento in Parlamento, il 5 novembre, il ministro non ne parla affatto. Ne parla invece ai pm, nell'interrogatorio del 22 agosto, in questi termini: "Effettivamente ho ricevuto una telefonata da Antonino Ligresti... che mi ha rappresentato la preoccupazione per lo stato di salute della nipote Giulia Maria la quale... soffre di anoressia e rifiuta il cibo... In relazione a tale argomento ho sensibilizzato i due vice-capi del Dap Francesco Cascini e Luigi Pagano, perché facessero quanto di loro stretta competenza per la tutela della salute dei carcerati".

Repubblica, scorrendo i tabulati telefonici in mano alla Procura, scopre che quella telefonata la Cancellieri non l'ha "ricevuta", ma l'ha fatta dal suo cellulare, il "366...", dalle 13,33 alle 13,39 del 19 agosto. Sei minuti esatti di conversazione. Ora, nella sua lettera aperta, il ministro è costretto ad ammetterlo: "La prima telefonata - scrive - è stata fatta da me". Poi aggiunge: "Ma solo a seguito di diversi tentativi fatti da Antonino Ligresti di raggiungermi al telefono". Una chiosa che vuole somigliare a un'attenuante, ma non lo è affatto. La sostanza è questa: il ministro aveva detto di aver ricevuto una telefonata, ora riconosce di averla fatta. Dunque ha mentito. Perché? Che bisogno c'era di farlo?

LA SECONDA TELEFONATA FATTA IL 21 AGOSTO
Veniamo alla seconda telefonata con il fratello di don Salvatore, ignota all'opinione pubblica e agli eletti della Repubblica finché questo giornale non l'ha svelata, l'altroieri, con l'articolo di Paolo Griseri e Ottavia Giustetti. Di questa non c'è alcuna traccia, né nell'audizione davanti alle Camere, né nell'interrogatorio con le toghe torinesi. Al pm Vittorio Nessi, la Cancellieri racconta una storia diversa: ricordando prima la telefonata del 17 luglio con la Fragni, poi quella del 19 agosto con Antonino, il ministro spiega: "Dopo di allora non l'ho più sentita né ho sentito altri in relazione al caso Ligresti, ad eccezione della telefonata con Antonino di cui ho già riferito" (quella del 19 agosto, che come si è visto parte da lei e non da lui). Poi, nel verbale dello stesso interrogatorio del 22 agosto il Guardasigilli conclude così: "Ieri sera Antonino Ligresti mi ha inviato un sms chiedendomi se avessi novità e gli ho risposto che avevo effettuato le segnalazioni nei termini che ho sopra spiegato, nulla di più".

Una formula ambigua. A senso, si capisce che tra il ministro e il fratello di don Salvatore è avvenuto uno scambio di sms. Ma Repubblica, tabulati telefonici alla mano, scopre che non è così. All'sms di Antonino la Cancellieri risponde con un'altra telefonata, stavolta di sette minuti e ancora una volta partita dal suo cellulare, di cui finora non aveva parlato con nessuno. E anche questo è finalmente costretta ad ammetterlo, nella sua "lettera aperta": "La seconda conversazione - scrive - è in risposta ad un ulteriore contatto proveniente da Ligresti. Di questi due contatti ho riferito puntualmente alla Procura...". Il ministro non parla apertamente di telefonate fatte, ma genericamente di "contatti". Una formula lessicale che serve a dissimulare una verità. Dunque, anche in questo caso il ministro ha mentito. Perché? Che bisogna c'era di farlo?

La Cancellieri ha affidato l'altro ieri al Corriere della Sera le seguenti parole: "Questa conversazione di sette minuti non la ricordavo e non la ricordo, sennò perché avrei dovuto nasconderla?". Al di là della stranezza di non ricordare il 22 agosto una telefonata fatta il 21, è proprio questa la domanda alla quale lei stessa dovrebbe rispondere, e non l'ha ancora fatto.

LE SEI TELEFONATE DEL MARITO
Siamo all'ultimo capitolo oscuro del racconto. Anche questo mai raccontato finora dal Guardasigilli. Anche questo scoperto e denunciato da Repubblica. Le sei telefonate che il marito della Cancellieri, Sebastiano Peluso, si scambia con il fratello di don Salvatore tra il 17 luglio e la prima settimana di agosto. Anche di queste il ministro non fa alcuna menzione, davanti ai pubblici ministeri e ai parlamentari. Ma anche di queste, nella sua "lettera aperta", non può che dare conferma. "Mio marito - scrive - ha avuto contatti telefonici con Antonino Ligresti... è nostro amico, lo ribadisco. È un medico, mi sono rivolta spesso a lui per consigli su problemi di salute miei e dei miei familiari. L'abbiamo fatto anche in quel periodo...". Il ministro ammette, dunque: in questo caso, non ha mentito ma ha omesso. Il movente "clinico" delle telefonate, evidentemente, sposta la vicenda su un terreno non controvertibile perché non provabile allo stato degli atti. Ma a maggior ragione, se quella medica è davvero la spiegazione, perché nasconderla? Di nuovo: che bisogno c'era? Cosa non si può raccontare, di questo legame profondo che unisce queste due famiglie?

"Rifiuto qualunque sospetto", conclude la Cancellieri. E nel rifiuto, si spinge a dire un'involontaria enormità: "Nessuna interferenza vi è stata rispetto alla vicenda processuale dei Ligresti da parte mia". Troppa grazia: ci mancherebbe addirittura che il ministro della Giustizia intervenga "sulla vicenda processuale" del clan di Paternò. In vista del voto sulla mozione di sfiducia, la zona d'ombra non si dirada ma si estende. Più che a Napolitano e a Letta, il destino del Guardasigilli è affidato al Pd.
m.giannini@repubblica.it

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/11/16/news/caso_cancellieri_omissioni_e_bugie-71131039/?ref=HRER1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La Svizzera ci dà lezioni di …
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:29:20 pm
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Nel clima plumbeo che respiriamo in Occidente, i teorici posticci della «decrescita felice» preparano il terreno a un nuovo Medio Evo, dove il denaro torna ad essere lo «sterco del diavolo». Un abbaglio ideologico, contagioso e pericoloso. Ma ben più pericoloso sta ormai diventando il divario tra chi ha poco e chi ha troppo. L’iniquità riduce in carta straccia il contratto sociale, e mina alla radici la tenuta stessa del sistema. Per la prima volta il capitalismo non sembra più l’unico «strumento» conosciuto che consente a un numero sempre maggiore di persone di raggiungere migliori condizioni di vita. Vale nel ciclo di produzione e di distribuzione della ricchezza. Lo dice Luciano Gallino nel suo ultimo libro: nei 15 Paesi Ocse la quota dei salari sul Pil è diminuita di 10 punti percentuali, mentre quella delle rendite e dei profitti è cresciuta di 25 punti. Vale anche nelle aziende. Lo dicono le ultime statistiche: in Italia il divario tra gli stipendi percepiti dai top manager e i salari dei lavoratori dipendenti è pari a 1 su 163. Se un dirigente percepisce un compenso medio pari a 4 milioni 326 mila euro l’anno, un dipendente porta a casa una media di 26 mila euro lordi l’anno. E vale nel privato come nel pubblico. Lo dice l’ultimo rapporto Ocse «Government at a Glance»: in Italia i dirigenti di prima fascia dei sei ministeri più importanti guadagnano in media 650 mila dollari l’anno (contro una media Ocse di 232 mila dollari) , mentre i funzionari si fermano a 69 mila dollari. Queste sono le cifre dell’ingiustizia, che ha ormai trasformato profondamente il concetto e il perimetro della cosiddetta «middle class». Di fronte a tutto questo, domenica prossima, 24 novembre, accadrà in Svizzera un evento per molti versi «rivoluzionario». I cittadini della ricca Confederazione elvetica saranno chiamati a votare un referendum per la modifica della Costituzione secondo il principio «1 a 12». Nessun manager, cioè, potrà avere nella sua azienda una retribuzione mensile superiore a quella che i dipendenti meno pagati della stessa azienda guadagnano in un intero anno. L’esito del voto popolare dovrà comunque essere ratificato da un voto del Parlamento federale. Ma se il referendum passasse sarebbe una svolta epocale. Non solo per la Svizzera, dove il rapporto tra salario minimo dei dipendenti e stipendio massimo dei manager è lievitato da 1 a 6 nel 1984 a 1 a 43 nel 2011, e dove nel 2012 alla Roche l’ad Severin Schwan (con una retribuzione di 15,7 milioni di franchi) ha guadagnato 261 volte lo stipendio del dipendente meno pagato del gruppo. Sarebbe una lezione storica per l’intero pianeta. Soprattutto perché, ad impartircela, non sarebbe la Corea del Nord taglieggiata dai feroci epigoni del socialismo reale, ma la civilissima Svizzera nobilitata dai laboriosi gnomi del capitalismo globale.
m.giannini@repubblica.it

(18 novembre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/11/18/news/la_svizzera_ci_d_lezioni_di_equit-71267172/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il diritto di chi vota
Inserito da: Admin - Novembre 19, 2013, 05:47:51 pm
Il diritto di chi vota

di MASSIMO GIANNINI

13 novembre 2013

Non c'è riforma più tradita di quella che riguarda il sistema elettorale. I partiti ne discutono, inutilmente e strumentalmente, ormai da otto anni. Da quando il centrodestra berlusconiano, già allora dilaniato dalle contese ereditarie e dalle confusioni identitarie, impose al Parlamento e al Paese la famosa "legge porcata". Concepita in una baita delle Dolomiti dai sedicenti "saggi" dell'allora Cdl, fin troppo lucidi a dispetto dei tanti bicchierini di grappa bevuti per l'occasione. Il loro unico obiettivo era sabotare la vittoria elettorale dell'Unione di Prodi e, in subordine, espropriare gli elettori del diritto di scegliere i propri eletti. Missione compiuta.

Da allora, un ceto politico sempre più impresentabile ha rinnovato ciclicamente la promessa di correggere quell'"errore", e di farsi perdonare quell'orrore. Oggi dobbiamo prendere atto che questo Parlamento non è in grado, per cinismo e opportunismo, di onorare l'impegno. In Commissione Affari Costituzionali del Senato va in onda l'ennesima, penosa messinscena. Quello che importa è solo il tornaconto dei commedianti, e non l'interesse del pubblico. Ogni gruppo recita a soggetto, anche se di malavoglia, perché il 3 dicembre arriva la temuta sentenza della Consulta.

Il Pd, sostenuto da Sel e Scelta Civica, presenta la sua mozione sul doppio turno di coalizione. Naturalmente non passa. Vota no il Pdl, che ha una vaga preferenza per il proporzionale ma non ha una linea precisa, essendo ormai ridotto a un cumulo di macerie alla vigilia della danza macabra di sabato prossimo intorno al totem del Cavaliere oscuro. Vota no la Lega, che dopo averlo allegramente rottamato, intestandosi il Porcellum per la firma del suo eroico ministro Calderoli, ora ha addirittura la faccia tosta di proporre il ripristino del Mattarellum. Si astiene il Movimento 5 Stelle, che nell'entropia autoreferenziale delle nomenklature agonizzanti sguazza e spera sempre di prosperare.

Questo è lo scenario, mesto e decomposto, che si offre al popolo sovrano. Ogni partito insegue un suo "modello" per blindare, con la meccanica elettorale, i consensi che fatica a mantenere nella rappresentanza sociale. Il Porcellum è il padre di tutti i guai di questi ultimi anni: ha generato degrado istituzionale (come confermano gli scandali che attraversano l'intera Penisola) e disaffezione civile (come dimostrano i successi del primo vero partito italiano, quello degli astensionisti). Dopo aver concepito un "Frankenstein" del genere, non c'è da inventare chissà quale altro mostro. Basta scegliere tra i sistemi che fanno funzionare da quasi un secolo le grandi democrazie europee. Invece no. Gli azzeccagarbugli tricolori le provano tutte, ibridando il "tedesco", il "francese", da ultimo lo "svizzero" e l'"Ispanico".

L'ultimo "esperimento", di cui si sente parlare nei corridoi tra Palazzo Chigi, Montecitorio e Palazzo Madama, sarebbe un nuovo pastrocchio che mantiene le liste bloccate (anche se più ristrette e con una rappresentanza di genere vincolata), e introduce per la Camera una soglia del 40% per accedere al premio di maggioranza di 340 seggi. Non l'eutanasia del Porcellum, ma addirittura la sua rinascita. Un Super Porcellum che, nella crisi irreversibile del sistema e nel declino inarrestabile dei grandi partiti di massa, produrrebbe l'unico effetto di non far vincere nessuno. E dunque "costituzionalizzerebbe" di fatto la formula delle Larghe Intese, alla quale un apparato politico destrutturato e tendenzialmente consociativo come il nostro tende ormai quasi per inerzia.

Oltre che l'esproprio definitivo del diritto di scelta dei cittadini, questa sarebbe la morte certa del bipolarismo. Cioè dell'unico "valore" creato, indirettamente e suo malgrado, dal Ventennio berlusconiano. Per questo, a prescindere da ogni valutazione specifica sul modello del "sindaco d'Italia" caro al candidato segretario del Pd, non si può dare torto a Matteo Renzi, che sfida il suo e tutti i partiti a rinunciare ai miserabili interessi di bottega e ai mediocri compromessi al ribasso, e a puntare invece su un accordo di profilo "alto", che garantisca insieme la governabilità e l'alternanza.

Non c'è principio più giusto che questo: chi vota deve sapere, la sera stessa delle elezioni, chi ha vinto e chi governerà il Paese. Deve poter decidere in piena libertà chi può rappresentarlo al meglio sul territorio, e non dentro le stanze chiuse delle segreterie. E deve poter sperare che se il suo schieramento perde le elezioni una volta, può sicuramente vincerle la prossima. Senza bisogno di ricorrere a Grosse Coalizioni tanto forzose quanto improprie, che dovrebbero governare i grandi cambiamenti e invece vivacchiano di piccoli accomodamenti.

Ma questa speranza, ancora una volta, sembra destinata a naufragare. Con buona pace dei cittadini, che dai referendum di Mario Segni nei primi anni Novanta aspettano ancora una legge elettorale chiara e semplice, che consenta loro di scegliere un partito e una coalizione, un candidato premier e un deputato o un senatore da mandare in propria vece alla Camera o al Senato. E con tanti saluti a Giorgio Napolitano, che frusta i partiti dall'inizio del suo mandato al Quirinale, e che al superamento definitivo del Porcellum ha legato la sua stessa disponibilità alla rielezione. Per questo è ora di dire basta. Servono un sussulto di dignità e un'assunzione di responsabilità. Per curare la nostra democrazia ferita.

Il Pd ha di fronte due soluzioni. La prima, minimale, è il ritorno al Mattarellum. C'è il problema giuridico di come assicurare la "riviviscenza" di una legge pre-esistente? Lo si risolva. Nella patria del diritto questo è un ostacolo superabile. La seconda, più ambiziosa, è il rilancio del maggioritario a doppio turno, come avviene in Francia e come lo stesso Pd aveva già deciso nel 2011. C'è il problema tecnico di come introdurlo in un regime che non prevede il semi-presidenzialismo? Lo si affronti. Nella prospettiva di un'Italia "de-berlusconizzata" anche questo non è un tabù inviolabile.

Si tratta di scegliere. E di farlo subito, con convinzione. Senza retropensieri "gran-coalizionisti" o riserve mentali correntizie. Un pregiudiziale "cui prodest" di una riforma elettorale, oggi, è solo l'ultimo sintomo, esiziale, del collasso etico-politico di un'intera classe dirigente, che vuole tenersi la "porcata" di Calderoli perché la considera la sua "polizza vita". Basterebbe riformarla, e un minuto dopo cadrebbero tutti gli alibi per non mandare a casa l'intero Parlamento e non tornare subito alle urne. Anche per questo la riforma va fatta, e subito. L'Italia, che non è la Germania, ha un disperato bisogno di tornare alla "normalità" bipolare. È vero che, in un Paese in crisi economica, non si vive di legge elettorale. Ma è altrettanto vero che, in un Paese in bancarotta morale, di Porcellum si può anche morire.
© Riproduzione riservata 13 novembre 2013

http://www.repubblica.it/politica/2013/11/13/news/il_diritto_di_chi_vota-70866573/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il Cavaliere dell'Apocalisse
Inserito da: Admin - Novembre 26, 2013, 06:14:15 pm
Il Cavaliere dell'Apocalisse

di MASSIMO GIANNINI

26 novembre 2013

Con un cupo anatema da Sacra Scrittura apocrifa, Berlusconi recita l'ultima scena da Cavaliere dell'Apocalisse. Alla vigilia del voto sulla decadenza, non c'è più spazio per l'argomentazione politica, svilita a variante del marketing ed esaurita da vent'anni di "pubblicità ingannevole".

Non c'è più spazio per la dimensione etica, ridotta a inutile orpello per benpensanti da un potere auto-riferito che si pretende al di sopra di tutto. C'è spazio solo per la maledizione biblica, che lo Statista di Arcore scarica preventivamente sui "colleghi senatori" dell'odiata sinistra e dell'esecrata opposizione grillina. Salvatemi, tuona dall'abisso nel quale l'hanno sprofondato i suoi reati e i suoi "peccati", o della vostra colpa "dovrete vergognarvi per sempre di fronte ai vostri figli, ai vostri elettori e a tutti gli italiani".

Con queste parole definitive del suo protagonista indiscusso, si compie dunque l'osmosi finale che era, e voleva essere fin dal '94, il cuore stesso del berlusconismo. Un'odissea personale che deve coincidere con un'epopea nazionale. Il paradigma di una leadership carismatica che deve diventare lo stigma di un intero Paese. Così, seguendo fino in fondo la psicologia disperata e l'egolatria esasperata del Cavaliere, se domani il presidente del Senato Piero Grasso pronuncerà davvero la frase fatidica ("Prego i commessi di accompagnare il senatore Berlusconi fuori dall'aula") non si celebrerà solo la fine di una carriera politica, ma si consumerà "la fine della Storia". Con lui non muore solo il capo-popolo di una destra anomala e anti-europea, a-costituzionale e a-fascista, sconfitto alle ultime elezioni e condannato in via definitiva per una frode fiscale gravissima e tuttora sotto processo per reati altrettanto gravi.

Con lui muore tutto. Il grande "partito dei moderati", mai nato e mai esistito. Il grande sogno della "rivoluzione liberale", mai esplicitato e mai perseguito. La grande conquista del bipolarismo, inoculato nelle vene del Paese non con dosi omeopatiche di cultura dell'alternanza ma con dosi venefiche di furore ideologico verso tutti i nemici. E alla fine la stessa democrazia, "dimezzata" e "calpestata nei suoi principi essenziali", solo perché una Corte lo ha giudicato colpevole e un ramo del Parlamento ratifica e applica quel giudizio, come la legge Severino (a suo tempo votata in massa e in letizia dal Pdl) gli impone di fare.

Non stupisce certo l'affidavit postumo di Dominique Appleby, presentato dal Cavaliere in conferenza stampa come clamorosa "arma fine di mondo" che determinerà la "sicura revisione" del processo sui diritti tv Mediaset, mentre è solo una prevedibile e patetica "patacca" vecchia del 2007, che la Procura ha puntualmente smentito un'ora dopo. Più di tutto, nella lettera ai senatori letta da Berlusconi ai cronisti attoniti colpisce questo: il "politicamente morto" che afferra i vivi, e cerca di trascinarli con sé nel fuoco della Geenna, o quanto meno di marchiarli a sua volta con la damnatio memoriae che loro gli vogliono infliggere, e alla quale lui si vuole ad ogni costo sottrarre.

Questa incapacità di accettare, almeno una volta nella vita, le regole del gioco, le leggi dello Stato, il primato del diritto. Questa irriducibilità a riconoscere il canone occidentale, i principi del costituzionalismo, il bilanciamento dei poteri. Questa idea scellerata che nel Paese sia esistita una "guerra dei vent'anni" (che nessuno ha combattuto contro di lui, ma che lui ha combattuto contro i magistrati) e che questa "guerra" debba ora finire non con l'espiazione della pena da parte del pregiudicato, ma con la punizione inflitta ai giudici che quella pena hanno deciso, usando solo lo strumento del codice penale.

Ed è stupefacente, ma in fondo anche coerente, che ormai a dispetto di tutti i malintesi "moniti alla pacificazione" lanciati da lui medesimo e i cortesi inviti alla moderazione lanciati dal presidente della Repubblica, il Cavaliere dell'Apocalisse torni a evocare i soliti spettri di cui si nutre e ci nutre dal giorno dell'epica discesa in campo. La penosa leggenda del "cittadino esemplare" che si è battuto "per il bene del Paese" e "ha sempre pagato le tasse" (i suoi processi parlano di fondi neri per mille miliardi di vecchie lire e l'ultima condanna di una frode fiscale da 360 milioni di euro). Il "calvario" bugiardo dei "57 processi" (sono stati invece 19).

La tentazione "castale" a invocare il ripristino dell'articolo 68 della Costituzione, cioè quell'immunità parlamentare contro la quale lui stesso si scagliò ai tempi di Tangentopoli (ma che ora gli torna utile per ristabilire "una giusta distanza tra i magistrati e gli eletti del popolo"). L'ossessione psicotica e farneticante della "riforma della giustizia", per impedire che Magistratura democratica raggiunga la sua "missione" (cioè "la via giudiziaria al socialismo contro il capitalismo borghese") e che l'Anm continui a bloccare come sempre tutte le leggi "non gradite" (deve essergliene sfuggita qualcuna, visto che Berlusconi premier è riuscito a imporre alle Camere almeno 10 leggi ad personam in materia di giustizia, dalle rogatorie alla Cirielli, dal Lodo Alfano alla "riforma" Castelli).

Con tutta la buona volontà e la buona fede non c'è proprio più nulla da salvare, in queste ultime "volontà" dettate dal Cavaliere dell'Apocalisse. E non c'è un'eredità politico-culturale da raccogliere, se non quei nient'affatto trascurabili 8 milioni di voti che ancora Berlusconi tiene in tasca. Si tratta solo di capire come e quando proverà a portarli ancora una volta nell'unico "luogo" che lui stesso sa e ama "abitare" con un'efficacia oggettiva, per quanto appannata: le urne. E si tratta solo di capire se Enrico Letta, con la sola stampellina gracile di Alfano, saprà resistere ai prossimi urti che, sul fronte opposto dal quale muove Matteo Renzi, gli arriveranno addosso dal 9 dicembre in poi. La morsa si stringe sulle Intese non più Larghe. E se per Berlusconi vale quello che Flaiano disse di Cardarelli ("è il più grande poeta morente"), per questa Italia impaludata non può e non deve valere quello che ha scritto ieri il Wall Street Journal: "La stabilità del cimitero".
m.giannini@repubblica.it

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/11/26/news/cavaliere_apocalisse-71957514/?ref=HREC1-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI L'Italia, la Ue e l'alibi del semestre bianco
Inserito da: Admin - Novembre 29, 2013, 07:15:05 pm
L'Italia, la Ue e l'alibi del semestre bianco

Provate a fare un giro, dall’arbasiniana «casalinga di Voghera» al bonomiano «padroncino del Nord Est». Salite anche più su, lungo i piani dell’ascensore sociale. Arrivate al neo-eletto deputato di Roma, o al giovane analista finanziario di Milano. Provate a chiedere, in perfetto stile «iena» Enrico Lucci, se sanno chi è Dalia Grybauskaite. Non ho dubbi. Guarderanno un punto vuoto nello spazio, in cerca di un’impossibile illuminazione. Ma non la troveranno. Resteranno al buio, saranno costretti alla resa. Dalia è una bella signora di 57 anni, tosta e autorevole, nata a Vilnius il primo marzo 1956, che guida un piccolissimo ma importante Paese della grande Europa: la Lituania. Perché è interessante sapere chi è la signora Dalia? Perché il primo ministro lituano, al momento, è anche il presidente di turno dell’Unione europea. E qui si può rinnovare la sfida: riprovate a chiedere di nuovo, alla casalinga e al padroncino, al parlamentare o al finanziere, se sapevano che la presidenza di turno della Ue, dal primo luglio scorso al prossimo 31 dicembre, tocca alla Lituania. Ancora una volta, temo, vi guarderanno smarriti. La Lituania, nel quadro fatiscente del Vecchio Continente, è un campioncino nazionale. È stato uno dei primi entrati nel tunnel della crisi, con un crollo del Pil del 15% nel 2009, ma anche uno dei primi ad uscirne, tanto che a fine 2013 avrà il tasso di crescita più alto dell’Unione. Dunque, massimo rispetto per la signora Dalia e il suo Paese. Ma della presidenza di turno lituana, a fine dicembre, non resterà pressochè nulla. Come nulla è restato per tutti i Paesi che si sono avvicendati nella guida dei semestri europei. Vale oggi per la Grybauskaite, come valse ieri per Sarkozy. E varrà domani anche per Letta, che pure è un eccellente quadro di governo europeo. L’Italia assumerà la presidenza di turno dal luglio al dicembre 2014, dopo i sei mesi affidati alla Grecia che scattano dal prossimo gennaio. Nel dibattito politico domestico si è ormai affermato un «dogma» indiscutibile: l’Italia potrà tornare al voto solo nel 2015, perché prima «c’è il semestre europeo». Tra le due cose non c’è alcun nesso. Le presidenze di turno sono ormai un passaggio burocratico, del tutto privo di impatto politico. Nei suoi sei mesi di presidenza, com’è già accaduto in passato, l’Italia non cambierà la storia dell’Unione, e nessun Paese dell’Unione gli chiederà di farlo. Dunque, prima o durante il semestre si può serenamente votare, senza che questo faccia crollare l’edificio europeo, già fragile di suo. Certo, la stabilità è sempre preferibile all’ingovernabilità. Purchè non si tramuti in immobilità. Il semestre europeo non è il «semestre bianco». Rappresentarlo così è il Grande Alibi delle Piccole Intese.

m.giannini@repubblica.it

(25 novembre 2013) © Riproduzione riservata
Da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/11/25/news/l_italia_la_ue_e_l_alibi_del_semestre_bianco-71879215/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il nuovo complotto contro l'Italia
Inserito da: Admin - Dicembre 04, 2013, 11:21:55 am
Il nuovo complotto contro l'Italia

Massimo GIANNINI

Non c’è bisogno di evocare Ian Fleming e la Spectre, centrale del crimine globale smantellata da James Bond nel fantaspionistico «Operazione Tuono». E nemmeno Philip Roth e Charles Lindbergh, burattino nelle mani di Hitler nel fantastorico «Complotto contro l’America». Ma l’attacco a freddo lanciato da Standard & Poor’s contro le Generali non può passare sotto silenzio. Romano Prodi, sempre più lontano dai veleni della politica ma sempre più vicino ai grandi temi dell’economia, me lo dice con indignazione: «Ma possibile che qui nessuno si renda contro della gravità di quello che è successo?». Appunto. È un caso da manuale, che fa il paio con il precedente del gennaio 2012, quando la stessa agenzia declassò a sorpresa l’Italia a BBB+, lo stesso livello del Kazakistan. Ora tocca al più grande gruppo assicurativo tricolore, tra i primi tre d’Europa, che può scivolare a BBB perché ha in pancia un «bolo» considerato indigeribile: 60 miliardi di euro in Bot e Btp. Nell’offensiva di S&P è folle la «destinazione»: Generali fa 1,6 miliardi di utili in 9 mesi, ha il 75% delle attività all’estero, ha già ridotto a 55 miliardi i suoi investimenti in Bot e Btp. Ma è ancora più folle la spiegazione: Generali è in creditwatch negativo perché è troppo esposta in titoli italiani, e l’Italia è a sua volta esposta al rischio default.

Un sillogismo irrealistico: i pur non eccellenti «fondamentali» di bilancio non autorizzano a pensare a un’insolvenza a breve o medio termine. Soprattutto un sillogismo illogico: se davvero saltasse il nostro debito sovrano, il downgrading delle Generali sarebbe l’ultimo dei problemi, visto che (insieme a tutte le aziende italiane), salterebbero l’intero Sistema Paese e l’intera Eurozona. Lo capisce anche un bambino. È impossibile che non lo capiscano i Signori del Rating. Ma allora perché lo fanno? I cattivi pensieri suggeriscono che sia partita, o possa ripartire, un’offensiva contro la moneta unica, che usa l’Italia come anello debole, o agnello sacrificale.

Ha ragione Massimo Mucchetti, che parla di «una manovra gravissima contro la Repubblica». Una manovra che parte, ancora una volta, da una delle «tre sorelle» (oltre a S&P, Moody’s e Fitch) che in un regime di «oligopolio perfetto» tengono da almeno cinque anni in ostaggio i mercati, taglieggiando gli Stati e lucrando un fatturato annuo di 4,5 miliardi. Come ha detto a suo tempo Mario Draghi, delle agenzie di rating si dovrebbe fare a meno. E questo vale ancora di più per campioni come Generali, che non hanno bisogno di «certificati» per collocare sui mercati i propri bond. Ma resta una domanda. Di fronte a questo strisciante «complotto contro l’Italia», perché Letta e Saccomanni non battono un colpo? m.giannini@repubblica.it

(02 dicembre 2013) © Riproduzione riservata
Da - http://www.repubblica.it/economia/affari-e-finanza/2013/12/02/news/il_nuovo_complotto_contro_litalia-72466380/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Cercando una 500 per le vie di New York
Inserito da: Admin - Dicembre 24, 2013, 05:52:18 pm
Cercando una 500 per le vie di New York

Massimo GANNINI

Purtroppo per l’Italia e per la Fiat, il sogno americano di Sergio Marchionne sta diventando un incubo. L’impasse con Veba non si sblocca. L’acquisto del 41,5% delle azioni Chrysler in mano al fondo di proprietà del sindacato a stelle e strisce Uaw, che consentirebbe al Lingotto di arrivare al 100% della casa di Auburn Hills, è ancora lontano. Lo ostacolano le divergenze sul prezzo della quota (intorno ai 5 miliardi secondo gli americani, non più di 3 secondo le stime dei torinesi) e le differenze sugli andamenti di mercato (eccellente la quota Usa, pessima quella italiana). E così la fusione si allontana, mentre si avvicina la prospettiva che nel frattempo Veba avvii con una Ipo la quotazione di Chrysler a Wall Street. Se questo avvenisse, nei primi mesi del 2014, per Marchionne sarebbero guai. A fine aprile, insieme all’annuncio dei risultati finanziari del primo trimestre, il «ceo» dei due mondi dovrebbe rivedere l’aggiornamento al piano quinquennale. Nel frattempo i nuovi azionisti del colosso di Detroit potrebbero rinunciare in via definitiva alla fusione. Nessuno se lo augura. Ma bisogna pur fare i conti con la realtà. E la realtà dice purtroppo che ormai i rapporti di forza tra Torino e Auburn Hills, com’era prevedibile, si sono totalmente invertiti a vantaggio degli americani. Lo dicono i numeri di bilancio. Lo stallo finanziario e l’andamento del mercato pesano enormemente sulla parte Fiat del gruppo. Nei primi nove mesi del 2013, su un totale di 2,4 miliardi di euro di utile di gestione, la parte non-Chrysler ne ha generati appena 177 milioni. A livello di risultato netto, l’utile totale di 655 milioni si trasforma in un passivo di oltre 700 milioni senza la parte Chrysler. Detta più brutalmente: senza la filiale americana di Detroit, quella europea di Torino non regge la competizione globale. Lo confermano i numeri del mercato. A novembre le vendite di auto e veicoli commerciali di gruppo sono aumentate del 16% a 142.275 unità, il miglior risultato dal 2007. Peccato che questa tendenza positiva riguardi tutti i marchi del gruppo, tranne la Fiat. Il marchio Jeep ha registrato un boom del 30%, il marchio Ram Truck ha ottenuto una crescita del 25%, il marchio Chrysler ha registrato una incremento del 12%. Il marchio Fiat, per contro, ha incassato un meno 15%, precipitando a meno di 3 mila unità. Quello che preoccupa, a dispetto della trionfale propaganda del Lingotto, è la frenata della 500 (meno 41%), non compensata dall’arrivo di quasi un migliaio di nuove 500L. Per quello che vale, riporto un’esperienza molto personale. In cinque giorni di permanenza a New York, purtroppo non ho visto in giro un solo esemplare della mitica «utilitaria» di casa Fiat. Sono io che ho sbagliato occhiali, o è Marchionne che ha sbagliato i calcoli?
m.giannini@repubblica.it

(16 dicembre 2013) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2013/12/16/news/cercando_una_500_per_le_vie_di_new_york-73722697/


Titolo: MASSIMO GIANNINI La versione di Joshua sul finto "mercato"
Inserito da: Admin - Gennaio 18, 2014, 05:24:01 pm
La versione di Joshua sul finto "mercato"

Massimo GIANNINI

L’anno nuovo, come al solito, comincia com’era finito quello vecchio. Alti lai, stessi guai. Tra spread e Borsa, l’economia di carta va. Tra recessione e credit crunch, anche l’economia reale va. Ma in malora. Nel frattempo, i nodi della politica, dell’economia e della finanza sono sempre lì, irrisolti. Viene in mente la sentenza memorabile di uno dei protagonisti di «Joshua, allora e oggi», l’ultimo capolavoro di Mordecai Richler (geniale e scapigliato “papà” canadese di Barney Panofsky e della sua leggendaria «Versione»): «Ho visto il futuro, e non funziona». **** Nelle segrete di Palazzo Salimbeni si sussurra che Profumo e Viola, convinti dalla moral suasion del Tesoro, avrebbero deciso per adesso di restare al vertice del Montepaschi. Al cda di domani si saprà se è vero. Intanto, la Fondazione ottiene il rinvio dell’aumento di capitale. Un rinvio costoso per la banca, dopo i disastri mussariani da Antonveneta in poi. Ma che importa? Basta non perdere il controllo del caveau, dal quale hanno prelevato tutti. In attesa della nazionalizzazione, Siena si conferma l’ultima casamatta del socialismo municipale. Non ha mai funzionato. **** Nelle segrete di Palazzo Vecchio si racconta che Renzi stia affilando la lama della ghigliottina. Ad aprile scadono i vertici delle ex PpSs. Eni, Enel, Terna, Fintecna, Consap, persino Consob (manca un commissario). Quante e quali teste rotoleranno? Il segretario del Pd dice: non ci interessano le poltrone in quanto tali, valuteremo i manager in base alle necessarie strategie di politica industriale. Nobile proposito. Dicevano così anche ai tempi di Andreotti e Craxi. Non funzionò. **** Nelle segrete di Palazzo Chigi si narra che Letta stia valutando il da farsi sulla rete Telecom. Il rapporto Caio è ormai in arrivo, ed è la fotografia di un discreto disastro. Nel frattempo, l’azienda orbita in un penoso limbo, tra i pasticci di Cesar Alierta in Sudamerica e gli impicci di Marco Patuano a Roma. Cosa resterà della vecchia Telecom, con una rete spacchettata e una Tim Brasil venduta? Non può funzionare. **** Nelle segrete di Palazzo delle Finanze si dice che Cassa Depositi e Prestiti stia stringendo i tempi per cedere il suo 49% di Cdp Reti, la società veicolo che contiene le quote di Snam e presto anche quelle di Terna. Tra i possibili acquirenti ci sarebbe State Grid of China, gigante delle infrastrutture di rete che da solo ha un fatturato pari a più di metà della capitalizzazione dell’intera Borsa italiana. Non è un fondo sovrano, ma una spa operativa. Dunque, presto le nostre reti di gas e di energia ad alta tensione potrebbero finire, sia pure con una ragguardevole quota di minoranza, in mani cinesi. Funzionerà? m.giannini@repubblica.it

(13 gennaio 2014) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Lupi a Wall Street. Agnelli su Broadway
Inserito da: Admin - Febbraio 14, 2014, 06:42:46 pm
Lupi a Wall Street.
Agnelli su Broadway

«Nessuno qui conosce realmente l’andamento della borsa, è tutto fugace, non è reale, polvere di stelle. Noi non creiamo un cazzo, non costruiamo niente...». Lo sospettavamo da sempre, ma sentirlo dire dal lupo di Wall Street Jordan Belfort, nella superba incarnazione cinematografica di Leonardo Di Caprio, fa un certo effetto. Non cercare l’etica negli affari. Quando l’economia tira, è inutile. Quando c’è la crisi, è un lusso. La morale del film, purtroppo incontestabile, è che non c’è nessuna morale. Meno che mai nel turbo-capitalismo di carta di questi anni. Ma al di là degli avidi lupi che gonfiano le bolle, le fanno esplodere e poi si nutrono di quello che resta tra le macerie, l’America è un posto dove molto si distrugge, ma molto si continua a creare. Twitter schianta in borsa perché nell’ultimo trimestre ha aggiunto «solo» altri 9 milioni al suo popolo di utenti (ora a quota 241 milioni) e il suo tasso di crescita è stato «solo» del 3,8% rispetto al 3,4 dei rivali di Facebook (ormai a quota 1,23 miliardi di utenti). L’hi-tech, l’innovazione, la ricerca e lo sviluppo sul Web: il primato Usa, su questa frontiera, resta inattaccabile e lo sarà per i prossimi 25 anni. Qual è invece il nostro «primato»? Eccolo: secondo le stime di S&P Capital IQ, negli ultimi tre anni in Italia sono state concluse 198 fusioni e/o acquisizioni di aziende tricolori da parte di gruppi stranieri per un controvalore di 53,9 miliardi. Abbiamo ceduto su tutto, dall’alimentare di Parmalat all’alta moda di Bulgari. A completare il quadro ci mancavano ancora le ultime due «bandiere bianche», sventolate da altrettanti italiani che di fatto si arrendono alle sirene d’oltrefrontiera. Luca di Montezemolo, grande ambasciatore del made in Italy, cede Poltrona Frau agli americani di Haworth. Sergio Marchionne, manager dei due mondi, trasferisce la sede legale e fiscale della Fiat ad Amsterdam e a Londra. Due vicende diverse, ma in fondo non poi così tanto. Perché tutte e due confermano quello che tutti ormai verifichiamo ogni giorno. Il Paese si impoverisce e si deindustrializza. Eccolo, un altro primato: secondo Prometeia-Intesa Sanpaolo, solo nel 2013 la manifattura italiana ha bruciato 25 miliardi di ricavi. L’establishment si preoccupa, ma non se ne occupa. Letta dovrebbe, ma probabilmente ha altre necessità: per ora si accontenta dell’elemosina da 500 milioni elargita dagli sceicchi del Kuwait. Renzi potrebbe, ma evidentemente ha altre priorità: all’ultima direzione del Pd si è detto «colpito», con due settimane di ritardo, della «mancata discussione» intorno alla scelta di Fiat di trasferire le sedi in Inghilterra e in Olanda. Lupi a Wall Street, come racconta Scorsese. Agnelli su Broadway, come cantavano i Genesis. E intanto l’Italia che fine fa?
m.giannini@repubblica.it

(10 febbraio 2014) © Riproduzione riservata

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Titolo: MASSIMO GIANNINI Il cuneo di Renzi e la legge di Murphy
Inserito da: Admin - Marzo 18, 2014, 12:06:45 pm
Il cuneo di Renzi e la legge di Murphy

Massimo GIANNINI

La confusione intorno alle 'grandi riforme' del governo Renzi, finora, è stata direttamente proporzionale alle enormi aspettative seminate dal premier lungo il suo cammino. Da due settimane non passa giorno che sul web non riecheggi un cinguettio, twittato preferibilmente all'alba, sulle imminenti 'misure shock' per il rilancio dell'economia. Ma fino ad oggi di scioccante ci sono state soprattutto due cose. La prima è la frustata dalla Ue sui gravi ritardi italiani: a dispetto del mantra 'l'Europa la cambiamo noi' Bruxelles non fa sconti agli ultimi arrivati, e la Merkel non la 'compri' riconoscendone la sapienza calcistica intorno alle rotule di Mario Gomez. La seconda è l'improvvisazione dei ministri, che sparlano a vanvera come le 'comari di Windsor' ai tempi di Formica e Andreatta. Dopodomani a Palazzo Chigi vedrà la luce il pacchetto scaccia-crisi dell'era renziana. Il caos preparatorio è stato notevole. A parte la gaffe iniziale del presidente del Consiglio sulla 'riduzione in doppia cifra', la coalizione ha recitato a soggetto. Il guru economico del Pd, Filippo Taddei, ha annunciato la contestuale riduzione del 10% dell'Irap e di 5,5 miliardi dell'Irpef. Compromesso doroteo: ma se vuoi spartire di nuovo la torta, devi sapere che i benefici saranno ancora una volta risibili. Dividere 10 miliardi per due significa per le imprese un risparmio di 300 euro annui sul costo del lavoro di ciascun neo assunto (ipotizzando un lordo di 30 mila euro), per i lavoratori un risparmio di 50 euro al mese sull'Irpef (ipotizzando un lordo di 25 mila euro). Non certo uno shock. Per questo, l'unico tra i ministri di cui ci si deve fidare, Pier Carlo Padoan, ha detto al Sole 24 Ore che invece bisogna 'concentrare l'intervento in una sola direzione: o tutto sulle imprese, quindi Irap e oneri sociali, o tutto sui lavoratori attraverso l'Irpef'. Parole sagge, dopo le esperienze falsamente 'egualitarie' tentate da Prodi nel 2006 e da Letta nel 2013. Ma solo ventiquattr'ore dopo il Ghino di Tacco Angelino Alfano ha smentito Padoan: 'Serve un'azione duplice, riduzione Irap per le imprese, riduzione Irpef per i lavoratori'. Come uscire dall'entropia? Quanto raccolto a Palazzo Chigi e uscito su Repubblica sabato scorso sembra finalmente fissare un punto fermo: i 10 miliardi andranno tutti a riduzione dell'Irpef. Giusto così. E non perché i supporter della Camusso abbiano più ragione degli ultrà di Squinzi, ma perché una scelta netta è più efficace di una non scelta. Sempre a condizione che, di qui a mercoledì, non spunti qualche altro ministro a rimangiarsi la parola data, e a confermare che anche nel Dolce Stilnovo renziano vale sempre una delle vecchie leggi di Murphy: non affannarti a contraddire i politici, prima o poi lo faranno da soli.
m.giannini@repubblica.it

(10 marzo 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2014/03/10/news/il_cuneo_di_renzi_e_la_legge_di_murphy-80633811/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il Cavaliere è nudo
Inserito da: Admin - Marzo 19, 2014, 11:56:31 am
Il Cavaliere è nudo

di MASSIMO GIANNINI
19 marzo 2014
   
Non c'è più tempo per gli alibi e per le provocazioni. Passo dopo passo, il destino del pregiudicato Silvio Berlusconi si compie. Com'è giusto che sia, in un Paese nel quale un Ventennio di leggi ad personam non è riuscito a far saltare i cardini dello Stato di diritto.

Con la sentenza della Cassazione, che conferma l'interdizione dai pubblici uffici per due anni, il Cavaliere diventa a tutti gli effetti incandidabile e ineleggibile. Una decisione scontata e coerente con la condanna definitiva nel processo sui diritti tv Mediaset, che ha sancito al di là di ogni ragionevole dubbio una verità storica e politica: Berlusconi è stato "l'ideatore iniziale" di una gigantesca frode fiscale, e al tempo stesso "l'utilizzatore finale" della provvista in nero che gli è servita negli anni a corrompere magistrati, pubblici funzionari e parlamentari. Di qui, per il capo della destra populista, discende tutto. Ieri la decadenza da senatore, votata da Palazzo Madama il 27 novembre dell'anno scorso. Oggi l'interdizione dai pubblici uffici, ribadita dalla Suprema Corte dopo la decisione dell'Appello. Domani l'affidamento in prova ai servizi sociali, sul quale il Tribunale di sorveglianza si pronuncerà il prossimo 10 aprile.

Passaggi obbligati, per qualunque cittadino sottoposto alla giurisdizione della Repubblica. Passaggi avvelenati, per un leader che si è sempre preteso meno uguale degli altri davanti alla legge, per il solo fatto di aver ricevuto l'unzione sacra del popolo, attraverso il lavacro dell'urna che monda tutti i reati e tutti i peccati. Un leader che ora, ancora una volta proprio in nome di quell'unzione sacra, sperava di potersi ripresentare alle elezioni europee, per riottenere dalla sua gente la verginità etica e la legittimità politica che le maledette "toghe rosse" gli avrebbero tolto.

Ebbene, ora anche questa estrema, disperata e quasi grottesca finzione è finita. Berlusconi non si può candidare. I suoi giornali di famiglia e le sue amazzoni, autonomi o autorizzati che siano, possono azzardare tutti gli strappi possibili, raccogliendo le firme e invocando la grazia. È tutto inutile, oltre che penoso. E se non bastano ancora le inequivocabili pronunce delle giurisdizioni nazionali, valgono quelle altrettanto indiscutibili delle istituzioni sovranazionali. "Le regole in Europa sono molto chiare", ripete Viviane Reding a nome della Commissione europea, con parole che equivalgono a una sentenza più definitiva di quella già emessa un anno fa dai magistrati milanesi.

Nessuno può impedire al Cavaliere di fare propaganda, nei limiti che il Tribunale di sorveglianza gli concederà tra poco più di tre settimane. Nessuno può impedirgli di "fare politica", nei termini restrittivi imposti dall'esecuzione della pena alla quale è sottoposto. Potrà perfino continuare a sbraitare contro i pm e il Csm, Napolitano e la Consulta, a evocare a sproposito la "guerra civile" e a urlare alla luna per il complotto ordito contro di lui dalla Spectre togata, che lo vuole morto da vent'anni. Avrà un'arma in più per la sua campagna elettorale, che lo vede ancora in campo ma non più condottiero, a incarnare assieme a Grillo gli "opposti populismi" di un'Italia che lotta disperatamente per uscire dai fantasmi di una mai nata Seconda Repubblica.

Adesso il Cavaliere è nudo. Di fronte alla realtà e di fronte agli italiani. Di fronte ai suoi innumerevoli fallimenti e alle sue enormi responsabilità. Non ha mai realizzato la "rivoluzione liberale". Non ha mai creato quel "partito moderato di massa" che aveva spacciato. Dopo il voto trionfale del 2008 aveva il Paese in pugno, alle elezioni del 2013 ha perso tutto. Sei milioni e mezzo di azzurri pentiti gli hanno voltato le spalle. Ora può provare a tenere aggrappata alla sua vecchia creatura almeno una parte di quei 7 milioni di elettori che gli sono rimasti, probabilmente lo zoccolo duro forzista che voterebbe qualunque cosa e qualunque lista in cui ci sia una sia pur minima "traccia" del berlusconismo che fu, e che non potrà mai più essere.

Nonostante il suo status di "pregiudicato in attesa di giudizio" (i processi su
 
Ruby e sulla compravendita di senatori sono ancora in corso) si può considerare comunque un "miracolato". Ha ottenuto un posto al tavolo delle riforme, quando era già mestamente incamminato sul viale del tramonto. È stato rivestito di un ruolo di "padre costituente", che non merita e non ha mai fatto nulla per meritare. Si accontenti di questo. È già tantissimo, dopo tutti i disastri che ha combinato.

m. gianninirepubblica. it

© Riproduzione riservata 19 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/03/19/news/il_cavaliere_nudo-81328135/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La dottrina Berlinguer sulle nomine di Stato
Inserito da: Admin - Marzo 29, 2014, 11:06:49 am
La dottrina Berlinguer sulle nomine di Stato

"I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni... Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali... Tutto è già lottizzato e spartito o si vorrebbe lottizzare e spartire...". Alla vigilia della più colossale operazione di azzeramento/rinnovamento della classe dirigente pubblica e para-pubblica degli ultimi vent'anni, queste parole ti fanno riflettere. Non sono di Matteo Renzi, il Grande Rottamatore del nuovo Pd, ma di Enrico Berlinguer, il Grande Timoniere del vecchio Pci. Le pronunciò il 28 luglio 1981, nella storica intervista a Eugenio Scalfari con la quale sbattè in faccia la Questione Morale all'Italia accidiosa che di lì a qualche anno si sarebbe felicemente attovagliata alla mangiatoia del Caf. Walter Veltroni ha il merito di averle ripescate, scuotendo la nostra memoria con il magnifico "Quando c'era Berlinguer". Un film che ti scalda il cuore, ma ti lascia l'amaro in bocca. Certe frasi dell'ultimo comunista italiano sembrano scandite oggi, non trent'anni fa. Entro metà aprile il governo deve presentare le liste per il rinnovo dei consigli di Eni, Enel, Finmeccanica, Terna, Poste e altre controllate dello Stato. In totale, almeno 350 nomine. Una "occupazione" senza precedenti, per usare la formula berlingueriana. Ma con quali criteri il presidente del Consiglio si accinge a decidere il destino dei vecchi e nuovi "boiardi"? Al momento non è chiaro. L'unica cosa relativamente certa è che Renzi, attraverso i suoi sottosegretari, ha fatto trapelare l'intenzione di non rinnovare i manager che hanno già fatto tre mandati. Questo criterio, se fosse vero, taglierebbe automaticamente le teste di Scaroni all'Eni, Conti all'Enel, Cattaneo a Terna e Sarmi alle Poste. Nulla di scandaloso. Un po' di spoil system non guasta, dopo una stagione lottizzatoria che ha visto il dominio assoluto del network Berlusconi-Letta-Bisignani. Tuttavia, se non si vuole solo sostituire una spartizione con un'altra, sarebbe utile fissare alcuni criteri di base, validi per il presente e per il futuro. Come sostiene giustamente Massimo Mucchetti, l'unico che nel Pd sembra avere idee chiare su queste materie, il governo dovrebbe misurare le prestazioni dei capi azienda uscenti in relazione al mandato ricevuto, e stabilire i nuovi mandati ai quali ispirare le nuove liste. Dal ritorno per i soci (dividendi più variazione delle quotazioni del titolo) alla "natura" dell'utile (come risultato della pura gestione industriale o della cessione di partecipazioni). I parametri valutativi possono essere tanti. Andrebbero solo codificati. Per evitare di ritrovarci di nuovo qui, tra altri trent'anni, a rimpiangere ancora la nobile, e purtroppo inservibile "diversità" di Berlinguer.
m.giannini@repubblica.it

(24 marzo 2014) © Riproduzione riservata

Da - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2014/03/24/news/la_dottrina_berlinguer_sulle_nomine_di_stato-81743321/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Scusate avete visto l'evasione fiscale?
Inserito da: Admin - Aprile 07, 2014, 05:24:39 pm
Scusate avete visto l'evasione fiscale?

Massimo GIANNINI

C'era una volta l'evasione fiscale. Uno scandalo da 200 miliardi l'anno, tra imposte dirette e imposte indirette. Un buco del 30% di imponibile Iva, sottratto ogni anno all'Amministrazione finanziaria. L'evasione schiacciava l'economia del Paese e il bilancio dello Stato, rendendo sempre più difficile il contenimento della pressione tributaria. Oltraggiava la giustizia redistributiva e l'etica pubblica, costringendo i soliti noti a pagare troppe tasse perché i soliti ignoti non ne pagavano affatto. Alterava la concorrenza e il libero mercato, obbligando gli imprenditori onesti a competere ad armi impari con quelli disonesti. I rissosi governi di Prodi la perseguivano ferocemente, gli spassosi governi di Berlusconi la incoraggiavano allegramente. Nessuno riusciva a sconfiggerla. Ma insomma: se ne discuteva, se ne parlava. Oggi di evasione fiscale non si parla più. Nel nuovo "esprit florentin" che si respira in Italia la parola sembra uscita dai vocabolari. Non ne parla il premier Renzi, non ne parla il ministro dell'Economia Padoan. L'unico che continua ad abbaiare alla luna è il povero Attilio Befera, reduce da tre anni di "gogna" per le troppe vessazioni che Equitalia ha praticato sui contribuenti. Il direttore generale delle Entrate, nell'indifferenza dei più, ci informa che il "Tax Gap" italiano, cioè la differenza tra il gettito potenziale e quello effettivo di Irpef, addizionali, Ires, Iva e Irap, continua a superare i 90 miliardi. Se si aggiunge l'evasione dei contributi e delle tasse locali, ecco che si torna alla cifra-monstre di 200 miliardi, più volte riportata anche dalla Banca d'Italia. Anche se non se ne parla più, l'evasione non solo c'è ancora, ma continua a crescere. I segnali che arrivano dalla Guardia di Finanza sul territorio, e che vanno oltre le statistiche ufficiali del Comando Generale, segnalano una ripresa della piccola e grande "infedeltà fiscale". Ma la cosa non interessa a nessuno. Il governo tace. Il Parlamento fa di peggio. Il Senato (anche qui, nel silenzio generale) ha appena dato via libera al decreto legge sul rientro dei capitali dalla Svizzera e sulla cosiddetta "voluntary disclosure". Dopo aver almeno escluso l'idea di limitarsi a introdurre una modesta tassa forfettaria sul "nero" che rientra, l'aula di Palazzo Madama ha comunque modificato il testo originario, dimezzando le imposte dovute sui capitali rimpatriati e depenalizzando anche i reati di frode "con altri artifici", oltre alla omessa o infedele dichiarazione. Complimenti ai senatori, che in casi del genere verrebbe voglia di rottamare davvero senza rimpianti. L'evasione aumenta, e invece di alzare la guardia la si abbassa ancora una volta, premiando i ladri e disarmando le guardie. Davvero un bel segnale, mentre impazza la nuova "questione morale". Avanti così, e ci toccherà rimpiangere gli scudi fiscali di Tremonti. m.giannini@repubblica.it

(07 aprile 2014) © Riproduzione riservata

DA - http://www.repubblica.it/rubriche/polis/2014/04/07/news/scusate_avete_visto_l_evasione_fiscale_-82938617/


Titolo: MASSIMO GIANNINI Bentornati nel mondo reale
Inserito da: Admin - Aprile 09, 2014, 06:33:37 pm
Bentornati nel mondo reale

di MASSIMO GIANNINI
09 aprile 2014
   
Stavolta, a Palazzo Chigi, niente slide e pesciolini rossi. Il Def è un documento cruciale. Impegna il governo non solo di fronte al Paese e al Parlamento, ma anche e soprattutto di fronte alla Commissione Europea e poi all'Ecofin, che dovranno esaminarlo, approvarlo o correggerlo nel prossimo mese di giugno. Per questo, in attesa di leggere il testo definitivo varato dal governo, la prima e la più importante valutazione da fare è che la fase delle televendite è conclusa, o quanto meno sospesa. Matteo Renzi rinuncia ad usare le sue abituali "armi di persuasione di massa".

Pier Carlo Padoan comincia ad usare le sue essenziali "strategie di contenimento". Il risultato è un Documento di Economia e Finanza ancora denso di zone d'ombra, ma sufficientemente credibile sul piano numerico, e sostanzialmente condivisibile sul piano politico. Il roboante esordio nella stanza dei bottoni e l'ubriacante tour nelle capitali europee ci avevano restituito un presidente del Consiglio fin troppo convinto che "l'Europa cambia verso" e che l'Italia può "forzare" la griglia degli impegni comunitari. La conferenza stampa di ieri, volitiva ma non certo pirotecnica come la precedente, ci restituisce invece un premier che per fortuna ha imparato a fare qualche conto con la realtà. E la realtà, purtroppo, è che non siamo in condizione di sottrarci ai vincoli di bilancio che abbiamo volontariamente sottoscritto.

Li rispetteremo, ora è nero su bianco. E questa è già un'ottima notizia, che ci mette al riparo dai pericolosi avventurismi e dai penosi velleitarismi delle ultime settimane. Questo non significa morire di austerità. La scommessa del Def è raggiungere gli obiettivi di finanza pubblica non solo attraverso le manovre di contenimento del deficit e del debito, ma soprattutto attraverso la crescita del Pil sostenuta dalle riforme strutturali da approvare nel frattempo.

Nessuno, nemmeno Renzi-Mandrake che gioca al "rullo compressore" e Padoan-Lothar che fa il severo controllore, può escludere che il piano di riforme fallisca. Ma obiettivamente, in attesa di convincere la signora Merkel e l'intera Eurozona a rivedere le basi economiche della sua convivenza, questo è l'unico modo per disinnescare la gigantesca mannaia del Fiscal Compact e del Six Pack, che dal 2016 ci obbligherebbero a rientrare di un ventesimo l'anno della parte di debito che eccede il 60% del Pil. Vuol dire stangate da 50 miliardi l'anno per i prossimi 15 anni. Cioè la pura e semplice macelleria sociale.

Viceversa, come ha spiegato Padoan, ci basterebbe ottenere di qui ai prossimi tre anni una crescita nominale del 3%, di cui un 1% di aumento del Pil e un 2% di aumento dell'inflazione, e la ghigliottina ci sarebbe risparmiata, perché il debito si ridurrebbe in automatico per il solo effetto della crescita del Prodotto lordo. La scommessa è tutta qui. Ricorda quella che fecero Prodi e Ciampi sugli spread tra il '96 e il '99, quando l'ingresso nell'euro senza uccidere l'economia nazionale fu assicurato dall'enorme risparmio di spesa per interessi e dall'avanzo primario cumulato in quegli anni: grazie alla "cura" e alla credibilità di quel governo, il differenziale con i tassi tedeschi scese in due anni da 600 a zero punti.

La storia non si ripete mai due volte. E quando lo fa o è tragedia o è farsa. Tuttavia, nelle condizioni date, è l'unico azzardo che si può tentare. Tutto ruota intorno alle riforme, alla loro praticabilità e alla loro incisività. I chiaroscuri sono ancora tanti, e Renzi non li ha affatto illuminati. Non è chiaro come sarà articolato il taglio del cuneo fiscale nella busta paga di maggio, e come sarà applicato ai cosiddetti "incapienti". Non è chiaro dove calerà la scure della Spending Review che rischia di riprodurre il nefasto schema tremontiano dei tagli lineari. Non è chiaro quando la riduzione dell'Irap, e dunque il contestuale aumento dell'imposta sulle rendite finanziarie. Non è chiaro quanto e quando saranno saldati i crediti dello Stato verso le imprese. E nulla si sa ancora di come saranno davvero riformati il fisco, la Pubblica Amministrazione e il mercato del lavoro.

Nell'immediato restano due cose buone, purché non si rivelino una tantum. Gli 80 euro mensili di sgravio Irpef, che Renzi chiama la "quattordicesima nelle tasche degli italiani", è una bella boccata d'ossigeno per molte famiglie. Il miliardo in più di tassazione sulle banche, per le plusvalenze realizzate con la rivalutazione delle quote di Bankitalia, è una scelta di equità che riequilibra il prelievo tra chi ha molto e chi ha poco. Se a questo si aggiungono il tetto agli stipendi dei manager e il rilancio dei tagli a tutte le caste, viene fuori un pacchetto di misure dal forte sapore elettorale. Riflettono quella vena di "populismo dolce" di cui Renzi è obiettivamente portatore. Ma incrociano un sentimento fortemente radicato nella società italiana.

Per questo il premier cresce nell'indice di fiducia e il Pd vola nei sondaggi. Ogni giorno che passa - tra la battaglia sul Senato e questo stesso Def - diventa sempre più evidente che il voto europeo del 25 maggio sarà lo snodo esiziale della legislatura. Renzi cerca lì il suo "lavacro", per purificarsi del peccato originale commesso ai danni di Enrico Letta. Ce la può fare, con Grillo fiaccato dalle risse tra "cittadini" e Berlusconi affidato ai servizi sociali. Ma dal 26 maggio la stagione delle promesse deve finire. Bentornati nel mondo reale.

m. giannini@repubblica. it
© Riproduzione riservata 09 aprile 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/04/09/news/bentornati_nel_mondo_reale-83101077/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La sfida keynesiana di via Nazionale
Inserito da: Admin - Giugno 01, 2014, 05:58:00 pm
La sfida keynesiana di via Nazionale

di MASSIMO GIANNINI
31 maggio 2014
   
SAREBBE fin troppo facile mettere in sequenza le parole di Squinzi e le Considerazioni Finali di Visco, e leggerle come un convinto sostegno al «governo Leopolda». Cioè l’ennesima prova del solito vezzo italiota, che spinge tutti a salire sul carro del vincitore. È chiaro che il plebiscito riscosso da Renzi alle europee induce partiti, istituzioni e corpi intermedi a ripensare ruoli e collocazioni. Non serve aver studiato Gramsci, per capire l’importanza del consenso nei rapporti di forza e, in prospettiva, nella costruzione di un’egemonia. Dunque c’è anche questo, nell’apertura di credito sulle riforme tributata l’altro ieri dal presidente di Confindustria, e rilanciata ieri dal governatore di Bankitalia. Il riconoscimento di una grande legittimazione, che obbliga a una grande responsabilità. Con il voto del 25 maggio, gli elettori hanno detto a Renzi: vogliamo fidarci di te, ma ora fai quello che hai promesso.

Squinzi e Visco gli ripetono la stessa cosa. Ora hai la forza: usala non più solo per raccontarci come va cambiato il Paese, ma per cambiarlo davvero.

La Banca d’Italia non si limita a dire al premier che è sulla buona strada, con il bonus Irpef da 80 euro alle famiglie e con l’accelerazione del pagamenti dello Stato alle imprese. Lo ammonisce a non abusare della solita leva fiscale (visto che la nuova Tasi inciderà in molti comuni più della vecchia Imu). E gli suggerisce una vera e propria sfida keynesiana. Il rigore è servito a sanare i conti pubblici, anche se il debito resta intollerabilmente alto. Ma i costi dell’austerity, combinati con la Grande Crisi, sono stati micidiali. La crescita latita, e la deflazione incombe.

Per questo urgono le riforme che scandiscono il crono-programma renziano. Con due caveat, fondamentali. Il primo: le riforme non basta annunciarle a Palazzo Chigi e presentarle in Parlamento, bisogna tradurle in pratica (se è vero che solo il 48% delle 69 leggi di riforma varate tra novembre 2011 e aprile 2013 sono arrivate alla fase attuativa). Il secondo: la ripresa non verrà, e i posti di lavoro non nasceranno, se alle riforme non si accompagna un coraggioso rilancio degli investimenti (negli ultimi 4 anni quelli pubblici sono crollati del 30%, nel 2013 quelli privati sono scesi al 17% del Pil, livello più basso del dopoguerra). Aumentare la produttività è necessario, ma è inutile se non si rimette in moto la domanda. Non serve esser rimasti folgorati sulla via tracciata da Thomas Piketty, per rendersene conto.

Stavolta c’è anche un altro messaggio, che viene dalle élite. Ed è un messaggio che finalmente rimette al centro dell’agenda italiana non solo la recessione e la disoccupazione, ma anche la nuova Questione Morale che squassa il Paese, da Milano a Reggio Calabria.
Il presidente di Confindustria, due giorni fa, ha parlato di «scatto morale». Puntando il dito contro le stesse imprese che rappresenta, e dicendo «chi corrompe fa male alla propria comunità, fa male al mercato, produce un grave danno alla concorrenza e a i suoi colleghi». Spetta a «noi imprenditori il dovere di difendere la nostra casa dai corrotti che ci danneggiano e di denunciare i corruttori che ci taglieggiano ». Il governatore della Banca d’Italia, ieri, è stato persino più duro. Tra gli interventi di riforma più urgenti non ha ricordato né la spending review né il fisco, ma «quelli che riguardano la tutela della legalità».

Forse mai, nei saloni di Via Nazionale, si era sentita una condanna così netta contro «corruzione, criminalità, evasione fiscale» che, oltre a «minare alla radice la convivenza civile», distorcono il mercato e distruggono lo Stato, accentuano il carico fiscale per chi paga le tasse e bloccano la generazione di nuove occasioni di lavoro. Forse mai, nelle parole di un governatore, si era celebrato un processo così duro al sistema delle imprese e a quello delle banche, sempre più spesso accusate di malaffare proprio nel tanto celebrato «territorio»: Come dimostrano gli scandali Mps e Carige, e come confermano quei 45 casi di «irregolarità di possibile rilievo penale» scoperti dalla Vigilanza, su 340 ispezioni effettuate presso altrettanti istituti di credito.

«Comportamenti inaccettabili», li definisce Visco, che invoca a più riprese «ossequio della legge », «rispetto delle regole e linearità di comportamenti ». Era ora che l’establishment uscisse allo scoperto, e si pronunciasse su un tema così dirimente. Invece di voltare lo sguardo altrove, come ha fatto troppe volte prima, durante e dopo Tangentopoli, e poi nel ventennio berlusconiano, dominato dalla caduta del principio di legalità e dallo Stato d’eccezione permanente. L’Italia di oggi, purtroppo, sconta anche questo: uno spread etico, non solo economico. E da quello non ci salva la Bce di Draghi, ma solo la buona politica.

m. giannini@ repubblica.it
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Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/05/31/news/la_sfida_keynesiana_di_via_nazionale-87709531/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Corruzione, la Grande Ipocrisia
Inserito da: Admin - Giugno 05, 2014, 07:25:22 pm
Corruzione, la Grande Ipocrisia
L'analisi. Da Tangentopoli in poi, e per un infinito ventennio di malaffare, non solo si è fatto assai poco.
Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto male


Di MASSIMO GIANNINI
05 giugno 2014
   
Cos'altro deve succedere, per convincere la politica a muovere un passo concreto, tangibile e inequivocabile, contro la corruzione che torna a minare le basi della convivenza civile e della concorrenza economica? Quante altre retate devono accadere, per spingere il governo e il Parlamento a ripristinare con un atto definitivo, responsabile ed efficace, il principio di legalità di cui in questi anni di fango hanno fatto strame tutti, ministri e sottosegretari, amministratori centrali e cacicchi locali?

Domande tutt'altro che oziose (o capziose), di fronte all'acqua lurida che tracima dal Mose, dove proprio la politica si è definitivamente messa "a libro paga", esigendo quello che i magistrati chiamano "lo stipendio di corruzione".

Da Tangentopoli e Mani Pulite in poi, e per un infinito ventennio di malaffare pubblico e privato, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto assai male. Grandi proclami, piccoli compromessi. Leggi-feticcio, da dare in pasto al popolo bue. E poi appalti in deroga a volontà, per lucrare fondi neri. Non solo in epoca berlusconiana, che sappiamo straordinariamente nefasta sul piano etico. Anche in tempi più recenti, che speravamo finalmente proficui sul piano della ricostruzione morale e della legislazione penale.

Così non è stato. Così non è ancora. E al presidente del Consiglio Renzi, che meritoriamente dichiara di voler "cambiare verso" all'Italia anche dal punto di vista della giustizia e che opportunamente si accinge a dare più poteri al commissario anti-corruzione Cantone, non è inutile ricordare quanto è accaduto e quanto sta ancora accadendo. Al di là degli annunci, che pure servono a scuotere la coscienza di un Paese disabituato al meglio e assuefatto al peggio, ma che da soli non bastano a consolidare nell'opinione pubblica la percezione di un vero cambiamento. Da troppo tempo - interrotti solo dai blitz dei pm sulle infinite cricche tricolori, dal terremoto dell'Aquila al G8 della Maddalena, dai mondiali di nuoto al sacco di Carige, dall'Expo milanese al Mose veneziano - abbiamo ascoltato alti lai e asciugato lacrime di coccodrillo. Ma nulla è cambiato, nei codici e nelle norme di contrasto. C'è come l'accidiosa consapevolezza che la corruzione, con i suoi 60 e passa miliardi di "fatturato" l'anno, rappresenti una parte essenziale e forse irrinunciabile del Pil nazionale. Così l'establishment, politico ed economico, celebra a ogni nuovo arresto la Grande Ipocrisia. Interviste sdegnate, riunioni d'emergenza. Poi più nulla. O leggi fatte male, a volte col legittimo sospetto che le si vogliano esattamente così, per convenienza bipartisan.

La legge Severino occasione mancata
Non parliamo, stavolta, dei misfatti compiuti da Berlusconi premier. Sono tristemente noti. Diamo dunque per acquisite le 12 leggi ad personam azzardate dall'ex Cavaliere sulla giustizia. La colossale occasione, miseramente mancata, è stata la legge Severino, approvata dal governo Monti nel novembre 2012. Insieme a qualcosa di buono (le nuove norme sulla decadenza e l'incandidabilità, che costano allo stesso Berlusconi condannato il seggio al Senato) la legge "spacchetta" inopinatamente il reato di concussione, riducendo i reati (e dunque i tempi di prescrizione) per l'ipotesi meno grave (ma infinitamente più frequente) dell'"induzione". L'anomalia viene segnalata dai magistrati, rilevata dal "Sole 24 Ore" e da "Repubblica", che ne chiede conto al ministro Guardasigilli consegnandole 250 mila firme raccolte a favore di una "seria legge contro la corruzione". Ma non c'è niente da fare. La legge passa così com'è, con la benedizione trasversalissima delle appena nate Larghe Intese: "tecnici" montiani, Pd e Pdl votano compatti, alla Camera: 480 favorevoli, solo 19 contrari, il Parlamento approva.

Di lì nascono tutti i guai successivi. Berlusconi userà i benefici derivanti dal caos normativo innescato dalla legge Severino nel processo Ruby. La stessa cosa farà Filippo Panati nel processo Falck. Un caos che nel frattempo viene autorevolmente certificato. A febbraio di quest'anno tocca alla Ue, nel suo rapporto sulla corruzione, evidenziare la lunga "serie di problemi irrisolti" lasciati dalla legge Severino (prescrizione, falso in bilancio, autoriciclaggio, voto di scambio) e stigmatizzare "gli effetti della frammentazione del reato di concussione". Il 15 marzo tocca invece alla Corte di Cassazione denunciare per sentenza i danni causati da quella legge all'esercizio della giurisdizione, e chiedere a governo e Parlamento di porvi rimedio al più presto.

I segnali contraddittori del Parlamento
La richiesta cade nel vuoto. Mentre cominciano a scoppiare i nuovi scandali, governo e Parlamento non solo non raccolgono l'invito. Ma si muovono lanciando al Paese segnali contraddittori, su tutti i fronti che riguardano lo Stato di diritto. Due esempi, ma clamorosi perché passati sotto silenzio. Il 28 gennaio 2014 il governo Letta approva il decreto legge numero 4, "disposizioni urgenti in materia di emersione e rientro dei capitali detenuti all'estero". È la cosiddetta "voluntary disclosure", in voga in altri Paesi dell'Unione. Ma da noi viene allentata oltre misura. Al Senato il testo originario viene modificato, le imposte dovute sui capitali rientrati vengono dimezzate e i reati di frode "con altri artifici", oltre alla omessa o infedele dichiarazione, vengono depenalizzati. Di fatto, quasi un colpo di spugna, che alla fine non passa solo perché la Camera il 19 marzo decide di stralciare queste norme e di farle confluire in un ddl che sarà presentato in futuro.

Per uno scampato pericolo, un disastro compiuto. Il 17 maggio è entrata in vigore la legge numero 67, che introduce la possibilità di chiedere l'affidamento in prova ai servizi sociali nei procedimenti per delitti economico-finanziari con pene fino a 4 anni di detenzione. In questi casi, su richiesta del soggetto incriminato, si sospende il processo e si avvia un percorso di servizio e risarcimento, di durata massima 2 anni, al termine del quale il reato si estingue. Nella lista dei delitti per i quali si può ottenere il beneficio ci sono l'omessa dichiarazione dei redditi, la truffa, il falso in bilancio e persino il furto. Questo sì, a tutti gli effetti, ha le fattezze di un "colpo di spugna", studiato proprio per i reati dei "colletti bianchi". Il Parlamento approva unanime la legge, il 2 aprile scorso, nell'indifferenza dei più.

Il governo Renzi la Grande Speranza
Mentre riesplodono le nuove e vecchie Tangentopoli, che vedono il potere politico alternativamente vittima e a volte carnefice di quello economico, il Parlamento invia dunque questi strani segnali di fumo al Paese. Delinquere non è poi così compromettente. Alla fine si può scendere a patti. Di fronte a tanto cinismo consociativo, la Grande Speranza si chiama Matteo Renzi. Solo lui può spazzare via la Grande Ipocrisia chiamata lotta alla corruzione. Ma le prime mosse del premier non sono confortanti. Nel discorso sulla fiducia alle Camere, il 22 febbraio, il nuovo presidente del Consiglio non dice una parola sul tema della legalità e delle strategie di contrasto al malaffare. Un silenzio che assorda, e che spinge Roberto Saviano a scrivere una lettera aperta al premier, su "Repubblica" del 28 febbraio. Renzi raccoglie la sollecitazione, e il giorno dopo annuncia dal salotto di Fabio Fazio, a "Che tempo che fa", la nomina di Raffaele Cantone alla guida dell'Autorità anti-corruzione, nata un anno prima e mai formata.

È un primo indizio, che sembra rassicurante. Ma le mosse successive, purtroppo, non sembrano trasformarlo nella prova che tutti aspettiamo. La vicenda del Documento di Economia e Finanza, non aiuta a capire qual è la vera strategia del governo. Il Consiglio dei ministri, riunito a Palazzo Chigi, approva il Def l'8 aprile. Renzi ne illustra le linee guida, con le solite slide. Il giorno dopo, sul suo sito, il ministero dell'Economia pubblica il testo integrale. A pagina 27 del Piano Nazionale delle Riforme, compare un ricco capitolo dedicato alla giustizia: "Asset reale per lo sviluppo del Paese", è il titolo. Pier Carlo Padoan, dai tempi dell'Ocse, ha bastonato duramente l'Italia, proprio per i ritardi sulla corruzione. Per questo, nel Def, il ministro scrive parole chiarissime, non solo sulla giustizia civile e amministrativa, ma proprio sulla lotta alla corruzione: occorre "rivedere la disciplina del processo penale, con particolare riferimento all'istituto della prescrizione, ferma restando l'esigenza di assicurare la certezza e ragionevolezza dei tempi". Più avanti: "Introduzione dei reati di autoriciclaggio e autoimpiego, anche rafforzando il 41 bis". E infine: "È necessario affrontare in modo incisivo il rapporto tra gruppi di interesse e istituzioni e disciplinare i conflitti di interesse e rafforzare la normativa penale del falso in bilancio".

Lo strano caso del Def depotenziato
Finalmente una dichiarazione programmatica impegnativa. Il segno che "cambiare si può". Ma sei giorni dopo, quando il Def arriva alle Camere per l'avvio dell'iter parlamentare, il testo è sorprendentemente cambiato. Il capitolo Giustizia rimane, alle pagine 29 e 30, e poi a pagina 63, nel capitolo II.10 intitolato "Una giustizia più efficiente". Si parla di tutto, dalla riforma della giustizia civile al sovraffollamento carcerario, dalle leggi già varate sul voto di scambio a quelle contenute nella Severino. Si propone la "mediazione obbligatoria" e la "depenalizzazione dei reati minori", la "difesa dei soggetti più deboli" e la "tutela dei minori". Ma per quanto li si cerchi, i paragrafi sulle modifiche al processo penale, dalla prescrizione all'autoriciclaggio, dall'autoimpiego al falso in bilancio, non ci sono più. Chi e perché le ha cancellate? Una spiegazione possibile, anche se parziale, la forniscono gli atti parlamentari. Il 16 aprile, durante il dibattito in Commissione Giustizia della Camera, i deputati Cinquestelle almeno per una volta fanno bene il loro mestiere. Alfonso Bonafede "ritiene che sia estremamente grave che nella formulazione presentata alle Camere del Def in data 9 aprile 2014 venga fatto espressamente riferimento all'esigenza di affrontare definitivamente entro giugno 2014 il problema dei tempi di prescrizione e che ieri, martedì 15 aprile, dopo che nella serata di lunedì 14 aprile il presidente del Consiglio si sia incontrato con Silvio Berlusconi, sia pervenuta alle Camere una "errata corrige" da parte della presidenza del Consiglio, nella quale è stato cancellato ogni riferimento alla questione della prescrizione".

La risposta di Donatella Ferranti, presidente della Commissione, arriva di lì a poco: "Le correzioni apportate con l'errata corrige - replica l'esponente del Pd - erano state in realtà segnalate dagli uffici del Ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio la scorsa settimana". Dunque, non sarebbe stato il premier a "depotenziare" il testo, e meno che mai l'avrebbe fatto dopo l'incontro di due ore, a Palazzo Chigi, con l'ex Cavaliere. Possiamo credere alla ricostruzione della Ferranti. Ma l'anomalia resta. E se a "sbianchettare" i paragrafi sul programmato giro di vite per la prescrizione, l'autoriciclaggio e il falso in bilancio è stato il ministro Orlando, e non Renzi, che differenza fa? Di nuovo: che segnale si vuol mandare al Paese?

Le prossime tappe del cronoprogramma
Siamo all'oggi. La gigantesca metastasi delle mazzette, che si propaga da Milano a Venezia nel corpo malato dell'"operosa Padania", obbliga il governo a fare qualcosa, subito. Orlando ha preso tempo sui vari provvedimenti già all'esame del Parlamento da più di un anno (dal testo della Commissione Fiorella sulla prescrizione alle diverse proposte sul falso in bilancio). Ha rinviato tutto a un più organico disegno di legge anti-corruzione, originariamente previsto entro l'estate e ora forse anticipato alla prossima settimana. Ma nel frattempo deve battere un colpo, almeno sulla promessa attribuzione dei pieni poteri a Cantone e magari anche sull'autoriciclaggio. Se ci riuscirà, al Consiglio dei ministri di domani, sarà tanto di guadagnato. Ma di fronte alla nuova Questione Morale, che torna a devastare drammaticamente il Paese e a sporcarne irrimediabilmente l'immagine, non basta più la narrazione riformista. Serve l'azione riformatrice. Chiara e severa, senza concessioni e senza ambiguità. Anche così si difende la memoria di Enrico Berlinguer dagli iconoclasti pentastellati.
m.giannini@repubblica.it

da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/05/news/grande_ipocrisia-88085898/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI La giunta Raggi e l'innocenza perduta
Inserito da: Arlecchino - Settembre 02, 2016, 05:44:08 pm
La giunta Raggi e l'innocenza perduta
Dal poco che trapela dalle "segrete stanze" del Movimento, i dimissionari pagano una "crisi di rigetto" che, fin dalla vittoria elettorale alle amministrative di giugno, sta avvelenando l'organismo pentastellato

Di MASSIMO GIANNINI
02 settembre 2016

SE ROMA è lo "stress test" che misura la capacità di governo del Movimento 5 Stelle, i segnali che arrivano dalla Capitale non sono confortanti per il Paese. Diciamo la verità, nessuno poteva pretendere che la giunta guidata da Virginia Raggi, in poco più di un mese, potesse ripulire la città eterna di tutti i suoi atavici mali: mafia e monnezza, buche e pantegane. Ma allo stesso modo nessuno poteva immaginare che il Campidoglio pentastellato, dopo appena settanta giorni, facesse saltare cinque poltrone in un colpo solo. E non poltrone qualsiasi. Un capo di gabinetto, i tre manager che guidano Atac e Ama (le due municipalizzate più disastrate d'Italia) e soprattutto un super-assessore al Bilancio che era il vero (e forse unico) fiore all'occhiello di questa giunta: quel Marcello Minenna, trasferito a forza dalla Consob, che aveva in mano il portafoglio e il patrimonio di Roma, gravato da un debito monstre di quasi 13 miliardi. Un fatto grave. Anche al di là delle ovvie invettive del Pd, che farebbe bene a non maramaldeggiare troppo sulla Capitale, visto che ha allegramente e colpevolmente contribuito a ridurla com'è.

Ma se persino Paola Taverna parla di "perdita gigante", vuol dire che qualche ingranaggio più "strutturale", nella macchina del potere pentastellato, si è rotto davvero. E se non piangessimo i morti di un terremoto vero, che ha distrutto vite e destini, dovremmo parlare di un sisma politico, che squassa il movimento e apre una faglia profonda proprio nel luogo simbolo in cui Grillo tenta di dimostrare quello che, finora, rimane indimostrabile e indimostrato: e cioè che il Movimento, elaborato il lutto di Gianroberto Casaleggio, è ormai entrato nell'età adulta, ed è ormai pronto a guidare l'Italia. Purtroppo, per un Paese ormai "tripolare" che avrebbe un urgente bisogno di alternative politiche tutte ugualmente credibili e spendibili, le cose non stanno affatto così. L'alternativa non esiste più a destra, perché tra le macerie del berlusconismo si vedono avanzare solo fantasmi. Ma non esiste ancora nei 5 Stelle, perché tra le "anime" del grillismo si vedono crescere solo miasmi. Cosa è successo, infatti, a Roma? E perché queste cinque dimissioni in un solo giorno sono inquietanti? Per due ragioni di fondo.

La prima ragione è di merito. Questa "rottura" multipla, che indebolisce drammaticamente una squadra già di per sé non eccelsa (almeno rispetto alle attese), non avviene su temi concreti, che riguardano la vita di tutti i giorni di quattro milioni di cittadini. Raineri o Minenna non se ne vanno perché non c'è accordo con la Raggi o con gli altri assessori su come risolvere il problema dei rifiuti, o su come rendere più efficiente il trasporto urbano, o sui lavori che sarebbero necessari se si accettasse la candidatura alle Olimpiadi. Dal poco che trapela dalle "segrete stanze" del Movimento (e già questa formula obbligata ne tradisce la vocazione originaria), i due dimissionari pagano una "crisi di rigetto" che, fin dalla vittoria elettorale alle amministrative di giugno, sta avvelenando l'organismo pentastellato. È in corso, dicono, un regolamento di conti: da una parte c'è la sindaca e i suoi fedelissimi, sempre più chiusi dentro al "raggio magico", dall'altra ci sono gli "esterni" e i "tecnici", sempre più esclusi e scontenti. Perché litigano? I cittadini romani, e noi tutti, vorremmo saperlo.

E invece non lo sappiamo. Perché nessuno spiega niente. E quello che vediamo e abbiamo visto finora non è un dibattito serrato e concreto su come si abbatte il debito, su come si riduce l'addizionale Irpef, su come si migliora il decoro urbano, ma l'ennesima, estenuante querelle sulle nomine e sugli stipendi degli amministratori. Come avrebbero fatto i dorotei o i craxiani di una volta. E com'era già successo agli stessi parlamentari grillini dopo il successo elettorale del 2013, quando sprecarono il primo anno a Montecitorio non a illustrare agli italiani come si finanzia davvero il reddito di cittadinanza, ma a sbranarsi tra loro sugli scontrini e le ricevute del ristorante.

E qui emerge la seconda ragione, che invece è di metodo. I Cinquestelle hanno avuto un merito oggettivo: hanno cambiato i modi e i tempi della comunicazione politica, anche attraverso l'uso "orizzontale" della Rete. Ora, quello che è appena accaduto nella Capitale ha una portata politica evidente. E dunque dovrebbe essere raccontato con assoluta chiarezza all'opinione pubblica. Non può bastare un post sulla pagina Facebook della sindaca, pubblicato alle quattro del mattino, in cui la Raggi si limita a dare una lettura banalmente burocratica delle dimissioni del suo capo di gabinetto, senza dire nulla di quelle del super assessore al Bilancio. Salvo poi parlare del dovere della "trasparenza".

Gestito così, il Campidoglio non è una casa di vetro. Diventa una corte di Bisanzio. Un concentrato di veleni e di arcana imperii di cui nessuno sa e capisce nulla. Una guerriglia sotterranea tra un maxi e un mini direttorio, un conflitto permanente tra correnti palesi e occulte, che in qualche caso fanno rimpiangere i partiti vecchi e rissosi della Prima Repubblica.

Dov'è finita la "diversità" pentastellata? Dove sono finite l'"innocenza" e la "purezza" del Movimento, il "non partito" con il "non statuto", che nasce e cresce dal basso e che in virtù dei sacri principi fondativi ("uno vale uno", "i leader non esistono") rivoluziona la politica e rifonda la democrazia? Per adesso, il "grillismo reale" precipita in un vortice di impreparazione e di presunzione. Si avvita in una spirale di velleitarismi e di personalismi. Ribellarsi alle élite è giusto. E il Movimento, con i suoi quasi 9 milioni di elettori alle politiche del 2013, ha dato corpo esattamente a questa legittima istanza di "ribellione democratica". Ma governare è un'altra cosa. Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista lo sanno bene. Quando in gioco c'è non solo il Campidoglio, ma in prospettiva addirittura Palazzo Chigi, il motto "meglio inesperti che disonesti", per quanto rassicurante, non può più bastare.

Con questo articolo Massimo Giannini torna a scrivere per " Repubblica"

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02 settembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/09/02/news/l_innocenza_perduta-147036326/?ref=fbpr


Titolo: MASSIMO GIANNINI Se il voto diventa un rito cannibale
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 10, 2016, 09:34:23 am
Se il voto diventa un rito cannibale

Di MASSIMO GIANNINI
08 dicembre 2016

UNA macabra 'cerimonia cannibale' si consuma intorno al corpo stanco del Paese. La politica, terremotata dall’ordalia referendaria, divora se stessa. E precipita l'Italia in una crisi di governo che si fa sempre più indecifrabile. Renzi si dimette, la sinistra fagocita un altro dei suoi leader. Ma Renzi non esce di scena, come aveva promesso. Semmai rilancia: chiama tutti i partiti a un’impossibile 'grande abbuffata', che non vedremo mai. E quindi si rilancia, forse per oggi, sicuramente per il futuro: solo io posso succedere a me stesso.

Se la direzione del Pd doveva chiarire cosa c'è dietro l'angolo, l'obiettivo è fallito. L'ex premier ha parlato da premier ancora in carica. Non una parola sulla disfatta referendaria, molte parole sulle cose fatte nei mille giorni e su quelle ancora da fare. La serena, equilibrata consapevolezza di domenica è durata lo spazio di una notte. Il 'discorso della sconfitta' è già dimenticato, quasi che la sconfitta non sia mai esistita. Anzi il Pd, pare, sta conoscendo "un boom di iscrizioni". Se è stata indecorosa la festa della minoranza del partito, che in un impeto bertinottiano ha brindato alla caduta del 'suo' governo, lo è altrettanto la festa di Renzi, che "alza i calici" non si sa bene a che cosa.

Questa è una crisi totalmente autoprodotta. Nata da un referendum che doveva purificarlo dal peccato originale (guidare un governo non eletto), e invece si è rivelato un perfetto suicidio politico. E complicata da un azzardo morale (imporre al Paese una legge elettorale valida solo per la Camera, nella fallace certezza che gli italiani avrebbero detto sì all’abolizione del Senato elettivo).

Cosa propone Renzi per uscire dal vicolo cieco nel quale ha cacciato l’Italia?
Due soluzioni, ugualmente impercorribili. La prima è il 'governo di responsabilità', aperto a tutti i partiti che, insieme al Pd, devono assumersi la responsabilità di far uscire il Paese da questa impasse. In teoria, è una buona formula. Presuppone, appunto, la presa in carico dei problemi del Paese, che vengono prima dei destini dei leader, e la ricerca di soluzioni credibili e condivise, nell’interesse dei cittadini- elettori. Ma se diventa, in pratica, l’ennesimo 'proiettile d’argento' sparato nel buio di una notte repubblicana in cui la politica tenta solo di salvare se stessa, senza preoccuparsi di salvare l’Italia, allora si trasforma nel suo contrario. Una proposta irresponsabile, perché palesemente impercorribile: il mucchio selvaggio, tutti dentro, dove in quel tutti ci dovrebbero essere anche i 5 Stelle, notoriamente indisponibili a qualunque 'contaminazione'. Dunque a cosa servirebbe, se non a essere respinta dal Quirinale? C'è solo un'altra possibilità: che 'governo di responsabilità', in realtà, significhi 'Grande Coalizione' con Berlusconi. L'ipotesi è improbabile: per quello che vale, il Cavaliere si è già chiamato fuori. Ma soprattutto è inaccettabile: dopo aver tuonato da un anno contro gli inciuci, Renzi non può riproporre un Nazareno 4.0, senza perdere la faccia e la dignità.

La seconda proposta non è meno impercorribile. Perché questa crisi sconta una doppia anomalia: non nasce da una caduta della maggioranza, e non prevede la possibilità di scioglimento immediato delle Camere (come sostiene Mattarella, è realmente 'inconcepibile' votare con due sistemi elettorali diversi tra i due rami del Parlamento, pena il passaggio dalla confusione di oggi al caos di domani). Dunque Renzi dice: non abbiamo paura di niente e di nessuno, se qualcuno vuole votare subito dopo la sentenza della Consulta sull’Italicum, fissata il 24 gennaio, noi siamo pronti. Ma la sentenza della Corte non sarà 'auto-applicativa', quindi servirà comunque tempo per recepirne i contenuti in una legge. Votare 'sotto la neve', come si diceva ai tempi della crisi berlusconiana, sarà impossibile.

E allora cosa ha in testa Renzi? Lui lo esclude, ma forse è un reincarico, con la stessa maggioranza di oggi. O per portare il Paese al voto anticipato in primavera, ma dalla poltrona di Palazzo Chigi, gestendo gli 'importanti appuntamenti internazionali' che fanno brillare gli occhi al premier uscente. O per arrivare addirittura alla fine della legislatura del 2018, se ci sono le condizioni. Uno scenario che non ha molte più chance di essere attuato. Se non al prezzo di altre rotture. Una rottura con il suo partito, perché la minoranza non glielo consentirebbe. Una rottura con se stesso, perché il Renzi rottamatore, ultrarapido e ultramoderno, capace di rompere le vecchie liturgie e gli antichi compromessi, tornerebbe in campo con un 'bis' doroteo da Prima Repubblica, degno di un Forlani qualsiasi.

Tutto è nelle mani del Capo dello Stato. Nella 'cerimonia cannibale' della politica c’è di tutto. Spirito di vendetta e istinto di conservazione. Quello che manca, clamorosamente, è ciò che serve ed è utile al Paese. L'esito del referendum poteva stupire solo chi, troppo impegnato nello storytelling dei giorni felici, in questi tre anni non ha mai voluto guardare la faccia triste dell’Italia. Quel mare di No che ha travolto il governo nasce per una buona metà da un disagio sociale profondo e sempre negato. Ma per un'altra metà nasce dal rifiuto di una brutta riforma costituzionale. Il messaggio che quei 17 milioni di italiani hanno mandato, con il rifiuto di un 'Senato non elettivo', è chiaro: ci siamo, vogliamo decidere noi chi ci deve rappresentare. La risposta a questa domanda di partecipazione non può essere il quarto governo non eletto, che dura fino alla scadenza naturale della legislatura. Bisogna ridare al popolo ciò che il popolo chiede: il diritto di scegliere. Al più presto. Questo non è populismo. È Costituzione.

Ma come ha scritto Mario Calabresi, le elezioni non possono diventare un salto nel buio. O peggio ancora una roulette russa. Quindi una legge elettorale serve, e serve un governo 'di scopo', sostenuto dalla maggioranza di oggi, o da chi ci sta. Non c'è da aspettare il nuovo Consultellum, o rieditare il vecchio Italicum. Volendo, c’è a disposizione un sistema eccellente, maggioritario, che ha già funzionato in modo egregio quando l'Italia usciva dalle secche di Tangentopoli, nel 1993. Si chiama Mattarellum, dal nome dell’attuale presidente della Repubblica.
Basta una legge di una riga, per farlo rivivere. Basta una settimana di lavori parlamentari, per approvarlo. Poi torniamo pure alle urne. Ma finalmente 'sereni'. Senza pistole puntate sulla tempia.

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08 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/08/news/se_il_voto_diventa_un_rito_cannibale-153685884/?ref=HREA-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Lo straniero alle porte e l'inutile linea del Piave
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 17, 2016, 01:58:51 pm
Lo straniero alle porte e l'inutile linea del Piave
Di MASSIMO GIANNINI
16 dicembre 2016

Lo straniero è alle porte, e noi non abbiamo niente da metterci. Un invasore minaccia di portarsi via un altro campione nazionale, e il Paese trabocca di orgoglio ferito e stupito. Certo, stavolta la posta in gioco è alta. In tutti i sensi: economico, politico, simbolico. Vincent Bolloré osa l'assalto al cielo, portando un attacco ostile al cuore del potere berlusconiano. Il blitzkrieg, forse non per caso, avviene in un momento di relativa fragilità del Paese. La resistibile armata renziana si è ritirata a Pontassieve, dopo la disfatta referendaria.

La timida pattuglia di Gentiloni muove i primi passi in una terra incognita. E così, come sempre e più di sempre, rispuntano i patrioti del giorno dopo. Riemergono gli alfieri dell'italianità perduta. "Non passi lo straniero". Ma il grido di battaglia risuona stanco. Soprattutto inutile, nell'era dei mercati liberi, apolidi e irresponsabili. Ciononostante, come cantava De André, le regine del tua culpa affollano i parrucchieri. È vero che Mediaset non è un'azienda qualsiasi. "Qui è in gioco l'Azienda Italia", dice il presidente del Consiglio, lasciando intendere che Palazzo Chigi potrebbe ingaggiare un'aspra resistenza contro i francesi. Il premier si sbaglia. Per due buone ragioni.

La prima ragione è storico-politica: se quella fosse davvero la posta in palio, il suo monito sarebbe tardivo. L'Azienda Italia ce la siamo già giocata da un pezzo. La nostra Caporetto si consuma da anni, nell'incoscienza del pubblico e nell'insipienza del privato. Governi senza idee, abituati alle partite di scambio e ai negoziati corporativi, incapaci di concepire politiche industriali e di far crescere settori strategici. Capitalisti senza capitali, affezionati alla rendita e ai comodi servizi in concessione, incapaci di investire nell'innovazione di prodotto e di processo. Se ne sono andati così, nei decenni, i pezzi migliori.

Se parliamo solo di Francia, è emigrata oltralpe la proprietà di Edison e Carrefour, Parmalat e Galbani, Bnl e Cariparma, per non parlare di Bulgari e Fendi, Pomellato e Loro Piana. Alla Borsa di Milano le partecipazioni degli investitori francesi pesano per 34,5 miliardi, il 7% del listino. Sono cadute una alla volta (compresa l'ultima, Pioneer, che Unicredit ha ceduto tre giorni fa ad Amundi, per 3,5 miliardi). Accompagnate da un rammarico parolaio che elude i veri problemi, mai risolti. La pessima gestione delle imprese e delle banche (che le rende fortunatamente contendibili) e l'atavica carenza di un solido Sistema-Paese (che le rende giustamente indifendibili).

La seconda ragione è tecnico-giuridica. Di strumenti per difenderci non ce ne sono. E quelli che ci sono, nelle condizioni date, non è forse neanche giusto utilizzarli. La discesa in campo dell'Agcom non pare l'arma fine di mondo. Semmai un'arma di distrazione di massa. La scalata di Vivendi a Mediaset sarebbe preclusa dal fatto che le due partecipazioni di Bolloré (Telecom e Mediaset) già ora supererebbero i limiti di concentrazione previsti dal combinato disposto del "mercato prevalente delle telecomunicazioni" (40%) e del cosiddetto Sic, "Sistema integrato delle comunicazioni" (10%).

Parliamo di tutto e di niente. La legge Gasparri introdusse il "Sic" proprio per ampliare all'infinito (e all'indefinito) la natura del business tv-tlc, per consentire allo stesso Berlusconi, allora premier, di tenersi ben stretto il suo impero mediatico. Una legge colabrodo, dunque. Fu scientemente e serenamente aggirata allora, quando in ballo c'erano gli interessi del Cavaliere. E potrebbe esserlo allo stesso modo oggi, quando in gioco ci sono quelli di un suo avversario. Si vedrà nei prossimi giorni.

Ma quello che si vede già oggi è che il "cadornismo" non ci salverà. È troppo tardi. Quando avremmo dovuto resistere non lo abbiamo fatto. Nell'ultimo anno proprio le manovre occulte o palesi di Bolloré hanno rivelato in modo plastico le debolezze italiane. Due re sono nudi, di fronte all'offensiva transalpina. È nudo Berlusconi. Il vecchio sovrano, stanco e malato, ha lasciato che i figli sbagliassero tutto lo sbagliabile su Mediaset. Chiudendo con un bagno di sangue la vendita di Endemol. Evitando l'accordo con Murdoch, nel timore di finire divorati dallo Squalo. Cercando di condividere con il falso amico bretone il rosso di Mediaset Premium. Ora che Bolloré ha gettato la maschera, il paradosso è che proprio il Cavaliere, il thatcheriano alle vongole, chiede l'aiuto dello Stato. E si gioca la richiesta di protezione al tavolo della crisi di governo, perpetuando una volta di più l'immane e irrisolto conflitto di interessi che non lo ha mai abbandonato. Quanto può essere utile il "soccorso azzurro" a un Gentiloni che al Senato ha una maggioranza di un pugno di voti? Quanto può servire il sostegno forzista, a un Pd che in Parlamento deve trovare un alleato per riscrivere la legge elettorale?

Ma è nudo anche Renzi. Il "Royal Baby", sconfitto ma non domo, che in estate ha fatto cacciare l'amministratore delegato di Mps ma in inverno non ha battuto ciglio di fronte a Bolloré nell'altra, decisiva scalata a Telecom (quella sì, "inappropriata", per usare la formula di Calenda). Avrebbe potuto, perché la "golden power", introdotta per legge nel 2012, permette allo Stato di intervenire (anche nei casi in cui non sia azionista) su acquisti in corso di aziende che possiedono asset di rilevanza strategica nei settori dell'energia, dei trasporti e delle comunicazioni. Su Vivendi (francese e dunque comunitaria) lo Stato non potrebbe vietare in assoluto l'acquisto di partecipazioni. Ma avrebbe potuto stabilire condizioni prescrittive sui medesimi acquisti, e in ogni caso impugnare delibere degli organi societari. Avrebbe potuto esercitare una "moral suasion", anche politica, perché nel caso Telecom la partita riguarda le infrastrutture di rete (e non solo i "contenuti tv", come nel caso di Mediaset). Renzi avrebbe potuto. Ma non l'ha fatto. Magari è stato anche meglio così, visti i disastri infiniti compiuti dai sedicenti "poteri forti" intorno alla telefonia italiana, dalla privatizzazione della Stet in poi. Ma il risultato è che anche Telecom è andata, nel borbottio sterile e colpevole dell'establishment.

Siamo terra di conquista, e la colpa è solo nostra. Cadranno altri bastioni. L'assedio francese, che parte da Telecom e incrocia Mediaset, potrebbe arrivare fino a Mediobanca, e per questa via (con lo sbarco di SocGen) alle
Generali. La "magnifica preda", come la chiamava Enrico Cuccia. La guerra è globale, e noi la combattiamo a mani nude. Anche per questo, oggi, non avrebbe alcun senso "morire per Arcore". Sarebbe un'inutile linea del Piave.

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16 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/economia/2016/12/16/news/lo_straniero_alle_porte_e_l_inutile_linea_del_piave-154228962/?ref=HRER2-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Mps, le risposte che mancano
Inserito da: Arlecchino - Dicembre 31, 2016, 02:26:55 pm
Mps, le risposte che mancano
L'inizio della fine comincia con Mussari, che compra Antonveneta e fa esplodere i conti. La cronaca di questi mesi ha zone d'ombra e il salvataggio della banca avrà costi enormi, ancora incalcolabili

Di MASSIMO GIANNINI
30 dicembre 2016

ABBIAMO messo in sicurezza il risparmio". Anche Paolo Gentiloni ricalca le orme di Matteo Renzi. Anche il nuovo premier, dopo aver varato il decreto salva-Mps, tira un sospiro di sollievo, come fece il vecchio premier il 22 novembre 2015, dopo aver varato il decreto salva-Etruria. Sollievo malriposto. Allora come oggi. Il salvataggio della banca più antica del mondo avrà costi enormi, ancora incalcolabili.
 
I20 MILIARDI stanziati sono nuovi debiti pubblici.
Dall'anno prossimo peseranno sulle tasche di tutti i contribuenti. È giusto sacrificarsi per Siena. Ma a patto che si faccia luce sull'infinita catena di errori commessi in questi anni (magari proprio con quella famosa commissione d'inchiesta che Renzi lanciò a sproposito il 23 dicembre 2015). E a patto che si fissi almeno un punto fermo: chi ha sbagliato, una volta tanto, tolga il disturbo. A pagare il conto finale non può essere sempre e solo Pantalone. Pantalone siamo noi. Vorremmo almeno sapere, con qualche domanda, chi dobbiamo "ringraziare".
 
IL TESORO.
In una lunga intervista al Sole 24 Ore, il ministro Padoan ripercorre a modo suo il calvario di Mps. Nulla c'è ancora di chiaro, sulle modalità con le quali saranno "coperti" gli obbligazionisti della banca, e quali saranno, anche in questo caso, i sommersi e i salvati. Per il resto, il ministro dice: "Non sono affatto pentito di aver sostenuto, nel rispetto del ruolo di tutti, l'operazione di mercato". Ma non era forse già chiaro a luglio che la "strada privata" avrebbe portato a un vicolo cieco? Si può considerare il licenziamento di un amministratore delegato come Fabrizio Viola, deciso con una telefonata fatta "per conto" dell'allora premier Renzi il 7 settembre, una mossa "nel rispetto del ruolo di tutti"? O qui non c'è forse una clamorosa invasione di campo della politica, che invece di salvare la banca quando le condizioni lo consentivano si è avventurata in un'improbabile "operazione di mercato"? Padoan aggiunge: do il "pieno sostegno all'attuale management della banca", compreso l'ad Marco Morelli. Considerato che in questi anni Mps ha bruciato 17 miliardi di patrimonio, non è il momento di attuare anche in Italia il metodo Obama, che nel 2009 varò il "Tarp", un piano di intervento dello Stato nelle banche da 700 miliardi di dollari, che aveva come condizione l'azzeramento totale di tutti i vertici e la nomina di manager pro tempore scelti dallo Stato? Padoan si lamenta perché "nel nostro Paese non sono sanzionate abbastanza le responsabilità di singoli manager che hanno prodotto danni rilevanti a investitori, azionisti, risparmiatori". Giusto, ma allora perché non presenta una legge che introduce e inasprisce queste sanzioni? Lui è il governo: ha l'obbligo politico e morale di parlare e di agire come il ministro del Tesoro, non come un cittadino qualunque.
 
LA BCE.
La Banca centrale europea ha avuto un ruolo cruciale, fa il suo mestiere. Ma il suo "accanimento terapeutico" nei confronti di Siena merita qualche chiarimento. Dopo gli stress test del 23 giugno, la Vigilanza europea guidata dalla francese Danièle Nouy impone la ricapitalizzazione da 5 miliardi entro il 31 dicembre. In base a quale criterio, solo 4 giorni fa, la Bce chiede per lettera al Monte di aumentare la ricapitalizzazione a 8,8 miliardi? Cosa è cambiato, in questo frattempo? E in base a quale principio Francoforte impone a Mps la stessa copertura patrimoniale (il Cet1, fissato all'8%) che nel 2015 applicò alle banche greche, mentre nelle stesse ore riduce dal 10,7 al 9,5% l'analogo parametro richiesto alla Deutsche Bank (la banca europea con il portafoglio più "zavorrato" dal peso dei titoli tossici)? Mario Draghi, giustamente, ha fatto della cosiddetta "accountability" la sua religione. Ma la necessità di "rendere conto" del proprio operato, a Francoforte, deve valere per tutti.
 
LA BANCA D'ITALIA.
Via Nazionale ha avuto un ruolo importante. Non tanto per quello che ha fatto, quanto per quello che non ha fatto. Sul fronte "esterno": il governatore Visco siede nel board di Francoforte, e l'italiano Ignazio Angeloni siede in quello della Vigilanza europea. Perché sono mancate comunicazioni puntuali tra l'Eurotower e Palazzo Koch? Sul fronte interno: la direttiva sul bail in (che scarica i costi dei fallimenti bancari su azionisti, obbligazionisti e correntisti oltre i 100 mila euro) viene approvata dalla Ue nel 2014, e in Italia viene introdotta per la prima volta un anno dopo con il "decreto di risoluzione" su Banca Etruria, Marche, Cariferrara e Carichieti. Perché Bankitalia (che solo in seguito si dichiarerà contraria a quelle norme, applicate in modo retroattivo su tutti i risparmiatori) non fa una campagna per sensibilizzare l'opinione pubblica e convincere i governi a modificarla? E poi, più in particolare sull'affare Mps: perché il governatore ripete dal gennaio 2013 che la banca "non ha problemi di tenuta ", mentre nei due anni successivi Viola è costretto a chiedere aumenti di capitali per ben 8 miliardi? Perché in estate non si oppone alla cacciata dello stesso Viola, decisa da Renzi il 6 luglio dopo una colazione di lavoro a Palazzo Chigi con il presidente di Jp Morgan, Jamie Dimon? Perché in autunno non si oppone al rinvio dell'aumento da 5 miliardi, che Renzi decide di spostare a dopo il referendum costituzionale del 4 dicembre, per evitare di dover mettere la faccia su un sicuro fallimento? Queste risposte sarebbero necessarie. Al contrario di quello che avviene per le ispezioni (sulle quali pure ci sarebbero tante domande da fare) non si viola nessun segreto d'ufficio.
 
LA CONSOB.
La commissione che vigila sulle società e la Borsa non può chiamarsi fuori dalle responsabilità. Stendiamo un velo pietoso sui derivati Alexandria e Santorini, che cinque anni fa nessuno vide e nessuno bloccò. Anche negli ultimi mesi su Mps sono accadute anomalie che una Vigilanza seria avrebbe potuto e dovuto intercettare. Almeno due delle emissioni obbligazionarie a rischio ("Lower Tier 2", a scadenza 2020) risultano vendute ai clienti al dettaglio della banca durante la gestione di Giuseppe Vegas. Se questo è vero, perché la Consob non le ha valutate e non le ha bloccate? E se invece non è vero, perché non smentisce e non chiarisce esattamente chi e quando ha autorizzato che cosa?
 
I VERTICI MPS.
Il "groviglio armonioso", a Siena, ha radici antiche. L'inizio della fine, com'è noto, comincia con Giuseppe Mussari, che compra Antonveneta dal Santander per oltre 9 miliardi, la cifra folle che fa esplodere i conti. Questa ormai è storia. La cronaca di questi ultimi mesi presenta zone d'ombra non meno inquietanti. Da settembre, dopo la famigerata "telefonata di licenziamento" di Padoan, ai vertici Mps siede Marco Morelli, già dirigente della banca ai tempi di Mussari. Insieme a Jp Morgan e Mediobanca (finora curiosamente rimasta "al riparo" da critiche) è proprio Morelli a farsi garante della cosiddetta operazione "di mercato", cioè del reperimento dei 5 miliardi di capitali privati. Ed è proprio Morelli a ventilare fino all'ultimo la possibilità che grandi fondi esteri intervengano nella ricapitalizzazione, nel ruolo di "anchor investor", convincendo il Tesoro a rinviare fino all'ultimo un intervento pubblico su Mps che si poteva e si doveva fare almeno sei mesi fa.
 
Dunque: quando e con chi ha parlato Morelli, tra i rappresentanti del fondo sovrano del Qatar? Quali sono stati i suoi interlocutori nel fondo gestito da George Soros? E quali offerte concrete aveva in mano, quando il 7 dicembre il cda della banca ha chiesto alla Bce una proroga al 20 gennaio 2017, per il closing dell'operazione? È il minimo che si possa chiedere a un manager che ha un compenso fisso di 1,4 milioni, superiore a quello del suo pari grado di Bnp Paribas. Per gestire la peggiore delle grandi banche europee, guadagna più di quello che guida la migliore. Come direbbero un Longanesi o un Flaiano: ah, les italiens...

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30 dicembre 2016

Da - http://www.repubblica.it/politica/2016/12/30/news/mps_giannini-155101167/?ref=HRER2-1


Titolo: MASSIMO GIANNINI Chi cade sui bastioni di Trieste nella battaglia per Generali
Inserito da: Arlecchino - Gennaio 29, 2017, 08:46:24 pm
Chi cade sui bastioni di Trieste nella battaglia per Generali

Di MASSIMO GIANNINI
26 gennaio 2017

L’ultima battaglia che si sta consumando intorno a quel che resta del povero, provinciale capitalismo italiano fa venire in mente Schiuma della Terra di Arthur Koestler. Passeri cinguettano sul filo del telegrafo, mentre il telegrafo trasmette l’ordine di sterminare tutti i passeri. Cos’altro sono i colpi incrociati tra Banca Intesa e Mediobanca, che si contendono le Generali? Nulla è ancora chiaro, nelle mosse dei contendenti. Non si capisce ancora se si profila una “guerra mondiale” in cui c’è in gioco la difesa della mitica “italianità” (minacciata dai giganti d’Oltralpe Axa e Allianz) o più banalmente si combatte una “guerricciola di potere” casareccia (la banca di Carlo Messina che vuole estorcere l’eredità a quella di Alberto Nagel).

Certo, vista con gli occhialini sfocati della piccola Italia la posta in palio sembra enorme: il Leone Alato resta pur sempre la “magnifica preda” che Enrico Cuccia ha difeso per anni con le unghie e con i denti. Il primo gruppo assicurativo tricolore, con una raccolta premi da 25,5 miliardi e un attivo di 496. Sforna 2 miliardi di utile, e stacca ai soci un dividendo di 72 centesimi per azione.

Ma con uno sguardo retrospettivo sul passato, e con gli occhi rivolti al mercato globale, le forze in campo diventano una somma di debolezze. E quando c’è troppa debolezza, non ti puoi meravigliare se arriva il più forte, fa strage di passeri e si porta via il bottino. Che ostenti il tricolore, come Intesa, o che batta un’altra bandiera, come Allianz o Axa. Fa lo stesso. È la lezione di Schumpeter, che valeva ieri e vale anche oggi. Generali e Mediobanca sono il Salotto Buono che esiste ormai solo nel “giornalese”, e non più nel Paese. Il Leone Alato è tuttora “strategico” per noi, anche solo per il fatto che si porta in pancia qualcosa come 60 miliardi di titoli del debito pubblico italiano. Ma in vent’anni ha perso tutti i suoi primati, che nascevano dall’internazionalizzazione. Il volume dei premi (scivolati al terzo posto in Europa). Il valore di Borsa (crollato da 42,5 a 24 miliardi in 10 anni). Il livello degli attivi (scesi alla metà di quelli della francese Axa e della tedesca Allianz, rispettivamente 887 e 833 miliardi).

Da anni, ormai, Generali ha smesso di crescere, e si è arroccata nell’asfittica e ormai quasi patetica Fortezza Italia. Il mondo è cambiato, dai tempi di Randone e Coppola di Canzano, di Gutty o dello stesso Bernheim. La compagnia non ha tenuto il passo dei cambiamenti. Ha rinunciato a sviluppare il business, per concentrarsi sulla rendita. In Italia ha comprato tutto il comprabile (Ina, Alleanza, Toro), mentre all’estero ha ceduto pezzi anche pregiati. Si è svenata in operazioni “di sistema” spesso fallimentari (da Alitalia a Telecom, da Ntv a Mps) e si è rifiutata di intervenire in quelle davvero convenienti (come l’affare Pioneer, colosso del risparmio gestito colpevolmente lasciata ai francesi di Amundi).

Oggi Generali è sottocapitalizzata: il patrimonio netto più le riserve ammontano ad appena 25 miliardi, il coefficiente di solidità Solvency Ratio II è fermo al 171% (contro il 205 di Axa e il 200 di Allianz). Ma anche questa fragilità, per paradosso, è frutto di una scelta. Generali è stata l’architrave dei Poteri Forti, in un groviglio azionario in cui, nel vecchio gioco delle scatole cinesi, si incrociava tutto, grandi griffe e grandi famiglie: da Mediobanca a Unicredit, dagli Agnelli ai Pirelli. L’obbiettivo era blindare il sistema, e rendere le partecipate non contendibili. Quindi niente aumenti di capitale, che avrebbero diluito le quote degli azionisti, e in compenso laute cedole.

Così è stato, da anni. E così continua ad essere, se è vero che l’ultimo Ceo di Generali Philippe Donnet ha brindato “ai più alti dividendi della storia” (5 miliardi, in valori aggregati). Peccato che per garantirli ha avviato una bella campagna di dismissioni, provando a cedere le attività di Generali in Francia e in Germania (che da sole valgono 27 miliardi di premi). Detta brutalmente: sottrai risorse al business, per distribuirle ai soci. Tutto legittimo, per carità. Ma poi non puoi sorprenderti se arriva uno più grosso di te e ti vuole mandare a casa.

Di chi è la colpa? Dei manager degli ultimi anni? In parte, certo. Ma non si può non vedere che la responsabilità principale, oggi, ricade proprio sugli azionisti delle Generali, che non hanno mai smesso di mungere il Leone. E se oggi rischiano di cadere i bastioni di Trieste, cadono insieme anche quelli già debolissimi di Piazzetta Cuccia. È stata ed è Mediobanca, con il suo 13%, che ha imposto la sua camicia di forza su Generali. È Mediobanca che ha impedito a Generali di nuotare in mare aperto, con la scusa dell’eterna protezione. Per una volta, viene da dare ragione a Cesare Geronzi, transitato sulle poltrone di entrambi i salotti, e a sua volta quasi mai animato solo dal “sacro fuoco” della sana competizione finanziaria: Generali è una compagnia “eterodiretta” da un azionista che oltre tutto non è più “il perno del sistema”.

Da che pulpito, si potrebbe dire. Ma questa è la verità. Le Generali hanno gli stessi vizi antichi di Mediobanca. E la presa di Mediobanca sul capitalismo italiano, ormai, non esiste più. Parlano i fatti: da Comit a Italcementi, fino ad arrivare a Rcs. Le schermaglie finanziarie alle quali stiamo assistendo sono solo il preludio alla caduta degli dei. È tutto un sistema che viene giù, dietro alla battaglia sulle Generali. E alla fine è un bene che succeda. Si tratterà di capire come intende procedere Intesa (scalata in Borsa, Ops, chissà). Si tratterà di verificare se farà da “taxi” per qualche scorribanda dall’estero (Axa o Allianz, appunto), o se invece gioca in proprio (ipotesi assai gradita al governo Gentiloni, che non parla ma non nasconde il suo sostegno all’offensiva di Messina).

Piazzetta Cuccia ormai non decide più i destini dell’economia italiana. E dunque anche l’arrocco difensivo che ha deciso per Generali (l’acquisto del 3% del capitale di Ca de Sass, oltre tutto preso a prestito con i soldi degli assicurati) rischia di essere un’arma spuntata. Il cinguettio di un passero, sul filo di un telegrafo. Ma forse l’ordine, su quel filo, è già passato.

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26 gennaio 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/01/26/news/chi_cade_sui_bastioni_di_trieste_nella_battaglia_per_generali-156891937/?ref=HRER2-2


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il Paese dell'immobilità
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 03, 2017, 08:31:26 pm
Il Paese dell'immobilità
Torti e ragioni nelle posizioni dei vari protagonisti, da Renzi a Napolitano, a Bersani. Il risultato è che l'Italia è paralizzata, di fronte a un bivio

Di MASSIMO GIANNINI
02 febbraio 2017

Capita che anche la ragione abbia i suoi torti. È il paradosso della politica. Il resto del mondo si interroga sulle devastazioni avviate da Trump, l'unico leader del pianeta che per nostra disgrazia realizza le promesse fatte prima del voto. La piccola Italia si incarta sulle elezioni anticipate volute da Renzi, l'unico leader d'Europa che per sua sfortuna non è ancora riuscito a farsi incoronare da un voto.

Dunque Giorgio Napolitano ha perfettamente ragione, quando dice che in un Paese civile si dovrebbe arrivare alla fine della legislatura, perché troppe volte abbiamo fatto ricorso allo scioglimento anticipato delle Camere. Ed ha ancora più ragione quando aggiunge che per togliere la fiducia a un governo servono solide argomentazioni politiche, non stolide rivendicazioni personali. Ma il presidente emerito ha anche torto, quando sottovaluta l'involontario contributo alla crescita dei populismi derivato proprio dagli ultimi quattro governi consecutivi mai eletti. Del tutto legittimi sul piano della democrazia costituzionale, ma un po' meno legittimati su quello della democrazia rappresentativa.

Anche Matteo Renzi ha ragione, quando osserva che dopo un pronunciamento netto come il referendum è necessario ridare al più presto la parola al popolo sovrano. Ed ha ancora più ragione quando aggiunge che l'unico modo per evitare il caos è andare a votare puntando al 40%. Ma ha perfettamente torto, per altre mille ragioni uguali e contrarie.

Dal punto di vista dell'interesse nazionale, sarebbe inaccettabile andare a elezioni anticipate solo perché conviene a lui, che è atterrito dal fantasma dell'oblio politico-mediatico. Dopo il folle azzardo sul referendum, sarebbe solo un altro giro di roulette russa. Dal punto di vista dell'interesse della sinistra, sarebbe intollerabile accelerare la rincorsa alle urne senza prima passare per un congresso del Pd. Nonostante l'ultima disfatta, Renzi ha mancato tutte le occasioni possibili per una riflessione seria e sincera sugli errori del passato e sulle sfide del futuro. Zero contenuti, zero titoli. A Rimini ha richiesto ai suoi il solito "atto di fede": seguitemi, sono il vostro unico capo. Sul web ha rilanciato i suoi soliti proclami sulle tasse: "Rottamiamo Dracula". Non aveva giurato "più cuore, meno slide"? Qual è, al di là degli slogan, la carta dei valori del nuovo riformismo italiano, di fronte alle imperiose "letterine" dell'Europa e alle velenose tossine dell'America?

Sul fronte opposto, Pierluigi Bersani ha altrettanta ragione, quando invoca il congresso e avverte l'ex premier che con questo strappo il Partito democratico muore. Ed ha ancora più ragione quando aggiunge che con il meccanismo elettorale lasciato sul campo dalla Consulta la quota dei capilista bloccati (e quindi dei parlamentari nominati) lievita addirittura al 70%. Ma ha anche torto perché non vede che il Pd (più che morto), forse non è mai nato, e poi perché usa la prospettiva di un nuovo Ulivo (l'unico esperimento ambizioso tentato dal centrosinistra dopo la caduta del muro di Berlino) come una minaccia da brandire contro Renzi, e non come un'opportunità per ricostruire un'area progressista in macerie. E la stessa cosa, volendo, si può dire del D'Alema scissionista e "pronto a tutto". Qual è stato, al di là della tattica, il contributo della minoranza del Pd alla costruzione di una nuova piattaforma programmatica? Su quali basi politico-culturali dovrebbe nascere l'ennesima Cosa Rossa, alternativa o a sinistra di Renzi?

La somma delle ragioni e dei torti produce una pericolosa entropia. Lo spread a ridosso di quota 200 ne è il riflesso automatico. L'Italia è paralizzata, di fronte a un bivio insidioso. Può imboccare la strada voluta da Renzi (il voto anticipato). In questo caso rischia l'ingovernabilità. Con il Legalicum non vince nessuno: l'asticella del 40% è fuori dalla portata di tutti. Servono coalizioni spurie, o ammucchiate secondo i punti di vista. Se arrivano primi i Cinque Stelle, può nascere solo un governo Grilloleghista, cioè il Fronte Popolare contro l'euro e contro l'Europa. Se arriva primo il Pd, può nascere solo un governo Renzusconi, cioè il Fronte Nazareno delle larghe intese. Due prospettive: l'una rovinosa, l'altra inquietante.

L'Italia può invece imboccare la strada voluta da Mattarella/Napolitano (il prosieguo fino alla fine della legislatura). Ma in questo caso, nei precari equilibri politici che viviamo, l'Italia rischia l'immobilità. Che può fare di qui al 2018 il pur volonteroso Gentiloni, con l'ombra di un Banco toscano alle spalle e la spada di Bruxelles sulla testa? Non molto. Una manovrina di pura sopravvivenza, per evitare la procedura d'infrazione. Non una riforma fiscale, non un piano per la crescita, forse neanche il doveroso decreto contro la povertà.

Siamo sospesi, tra l'ingovernabilità e l'immobilità. Siamo in bilico, tra l'eterno riposo (vedi la tragedia dell'Hotel Rigopiano) e l'eterno ritorno (vedi la farsa del Mattarellum-Porcellum-Italicum-Legalicum). Qualunque sia la scelta che faremo, la condizione è ideale per far lucrare nuove rendite elettorali alle forze anti-sistema. Cioè ai Grillo e ai Salvini, i "trumputinisti" tricolori. I più bravi a scommettere sul peggio, perché nessuno sembra capace di contrapporgli il meglio.

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02 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/02/news/paese_immobilita-157402913/?ref=HREC1-4


Titolo: MASSIMO GIANNINI Il rischio dell'Italia a due velocità
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 07, 2017, 04:04:16 pm
Il rischio dell'Italia a due velocità
Noi e l'Europa, noi e l'euro. Questa sarà la "faglia" che attraverserà il prossimo voto. Bisognerà trovare risposte serie e credibili

Di MASSIMO GIANNINI
06 febbraio 2017

IL MINISTRO del Tesoro Padoan che a Palazzo Madama parla di Europa a un'aula mestamente vuota, dove bivaccano annoiati tredici senatori, fotografa la miserabile ipocrisia della politica tricolore. Sempre pronta allo strepito usa-e-getta da studio televisivo, mai capace di elaborare un pensiero lungo in una sede istituzionale. Il futuro dell'Ue sarà il tema dominante delle prossime campagne elettorali.

In Olanda, in Francia, in Germania e anche in Italia (che si voti a giugno o nel 2018). Dall'Europa che verrà dipenderanno le vite di noi cittadini che la abitiamo. La crescita e il lavoro, il welfare e le tasse. Ma nel Paese, al di là delle schermaglie tattiche e delle sparate strumentali, manca la percezione della posta in gioco.

Il Fronte Popolare anti-sistema ha un programma drammaticamente chiaro. Truppe grilliste e destre "sovraniste" gridano sì alle piccole patrie, no alla moneta unica. Come Grillo e Salvini, ora anche Marine Le Pen infiamma il suo "popolo" evocando Trump, e propone una pericolosa saldatura culturale tra la deriva nazionalista europea e la pretesa anti-globalista americana. Cosa rispondono le forze progressiste e riformiste?

Poche idee, molto confuse.
Angela Merkel ha finalmente capito che l'attendismo non è una politica. La proposta di un'Europa "a due velocità" apre uno scenario inedito, ma tutt'altro che irrealistico. Le due velocità esistono da sempre, nei fatti e nei numeri. Dai tempi di Maastricht (febbraio 1992) l'Europa del Nord, trainata dalla Germania, viaggia in business class, mentre l'Europa del Sud, il famoso Club Med, viaggia low-cost.

Il modello esplicitato dalla Cancelliera di ferro rende strutturale questa differenza. L'Europa va avanti con le geometrie variabili, con chi ci sta e soprattutto con chi ce la fa. E qui si apre la grande questione, che ci riguarda più da vicino. L'entusiasmo con il quale il premier Gentiloni è salito sul carro della Merkel è comprensibile. L'Italia, Paese fondatore, vuole restare nel gruppo di testa.

Ma la proposta della Cancelliera implica un cambio di passo politico, istituzionale ed economico, che l'Italia in questo momento non sembra in grado di garantire. Veniamo da due anni di scontro permanente con la Commissione di Bruxelles, abbiamo beneficiato di 19 miliardi di flessibilità, abbiamo appena sforato i vincoli di deficit per 3,4 miliardi e tuttora pende su di noi il rischio di una procedura di infrazione. Abbiamo una crescita allo 0,8% (quattro volte meno della media Ue), e un debito al 134% del Pil (due volte il parametro dei Trattati). Abbiamo una produttività cresciuta del 4% dal 2000 ad oggi (contro il 19,2% della Germania e il 25,2% della Francia). Nelle condizioni date, l'Italia non sta nel blocco dei paesi che corrono, ma nel gruppone di quelli che arrancano. A meno che non sia pronta ad assumere impegni ancora più stringenti. Siamo pronti a farlo, o anche solo a discuterne?

Grillo e Salvini, i pifferai magici che ascoltano l'eco di Trump, sanno che musica suonare, e come farsi seguire da cittadini-elettori esausti da un ventennio di sacrifici e di austerità. Sfasciamo questa Europa, torniamo alla liretta, che metteva al riparo le famiglie a suon di aste dei Bot e le imprese a colpi di svalutazioni competitive. I partiti "responsabili", di fronte a questa bolla narrativa, che altro "racconto" sanno proporre? L'unione monetaria, da sola, è pericolosamente "zoppa" (come diceva Ciampi). Il Patto di stabilità, fatto solo di vincoli numerici, è maledettamente stupido (come diceva Prodi).

Ma c'è qualcuno, a partire dal Pd, che spiega perché l'euro va comunque difeso, visto che all'Italietta dell'inflazione e dei tassi di interesse a due cifre è servito come il pane? C'è qualcuno che racconta come e perché, invece di fare l'Europa a due velocità, è indispensabile riscrivere i Trattati, e prevedere che il tetto del deficit va portato a quota zero per la parte corrente, lasciando il 3% per finanziare la sola spesa per investimenti? Trump introduce i dazi per difendere l'occupazione: qual è il modello europeo, a parte i mini-jobs tedeschi o i voucher italiani? Trump smonta la riforma sanitaria di Obama: qual è il modello europeo, oltre ai tagli lineari al Welfare?

Domande senza risposta. Implicherebbero una "visione", che al momento le classi dirigenti di questo Paese (non solo l'establishment politico, ma anche quello imprenditoriale) non sembrano avere. Le domina la confusione e la paura. Noi e l'Europa, noi e l'euro. Questa sarà la "faglia" che attraverserà il prossimo voto. Bisognerà trovare risposte serie e credibili. Anche a chi, come il ministro tedesco Schaeuble, lancia l'attacco frontale a Mario Draghi, contestando la politica monetaria "troppo accomodante" della Bce, che non fa più l'interesse della Germania.

Una linea che stringe un Paese come il nostro in una morsa. Che succederebbe al nostro debito pubblico, alle nostre banche e ai nostri portafogli se la Bce rialzasse i tassi di interesse, o chiudesse anzitempo i rubinetti del "Quantitative easing"? Sarebbe un passo verso l'abisso. Ma servirebbe qualcuno che spiegasse a Schaeuble che senza l'ombrello di Draghi il tasso di crescita nell'eurozona tra il 2011 e il 2016 sarebbe stato inferiore del 5,6% (con un - 10,4 in Germania, - 7,4 in Italia, - 5,9 in Francia). Il totale degli occupati sarebbe stato inferiore di 6,6 milioni di persone (mentre i disoccupati sarebbero stati 5,6 milioni in più). E il debito pubblico sarebbe stato pari a 10.572 miliardi (quasi 1.000 miliardi in più di quello attuale).

Di tutto questo, nel Belpaese, non si parla. Siamo fermi alla post-verità di Renzi e alle fake- news della Raggi. Un tempo eravamo tutti euro-entusiasti. Ora siamo divisi, tra euro-combattenti in piazza ed euro-indifferenti nel Palazzo. Chiunque vinca, sarà un disastro.

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06 febbraio 2017


Titolo: Pd, tutti colpevoli in una scissione... (SE FOSSE L'AVVIO DEL POLO DEMOCRATICO?)
Inserito da: Arlecchino - Febbraio 20, 2017, 05:52:56 pm
Pd, tutti colpevoli in una scissione senza valori
La responsabilità primaria è dell'ex segretario. Ma c'è anche quella di chi ha taciuto nel giorno dell'Armageddon democratico. E che ora dovrà riempire la propria decisione di contenuti politici, svuotandola dagli incomprensibili cavilli burocratici

Di MASSIMO GIANNINI
20 febbraio 2017

L'intervento di Renzi davanti all'assemblea del Pd a Roma (lapresse)
Tanto fu tormentata e complessa la nascita del Partito democratico, quanto sarà lenta e penosa la sua agonia. Ma la "cerimonia degli addii" è cominciata. Se non si è consumata definitivamente al Parco dei Principi è solo per il solito gioco del cerino. Nessuno, di fronte a uno sgomento "popolo della sinistra", vuole assumersi la responsabilità formale della rottura.

Ma il partito "nato morto" (secondo la cruda ma purtroppo vera definizione di Massimo Cacciari) ha perso l'ultima occasione per dimostrarsi all'altezza della Storia. Non c'erano grandi speranze, dopo l'inutile spargimento di veleni degli ultimi giorni. Ma all'assemblea di ieri nessuno, tra quelli che avrebbero dovuto evitare lo strappo, è stato in grado di riempire il ruolo, con la serietà e la solennità che il momento richiede.

Gianni Cuperlo ha evocato un'immagine: la corsa suicida di "Gioventù bruciata", dove il leggendario James Dean e il suo rivale Buzz si lanciano la "sfida senza pareggio". Due macchine a tutta velocità verso il burrone: vince chi si butta dalla macchina per ultimo. Citazione drammatica, ma perfetta. Renzi e i suoi avversari non hanno fermato la corsa, né si sono buttati dalle rispettive macchine, che ora viaggiano serenamente verso il baratro.

La responsabilità primaria pesa tutta sull'ex segretario. Toccava a lui, non da oggi, farsi carico di tenere unita quella "comunità di senso e di destino" che dovrebbe ma non è mai riuscito ad essere il Pd. Toccava a lui, anche solo per un giorno, mettere da parte le ragioni e i torti dei due schieramenti, e indicare una via d'uscita condivisa. E invece, ancora una volta, Renzi non è riuscito ad andare oltre se stesso. Non ha saputo o non ha voluto aprire spiragli, rimettendo in discussione la sua road map "da combattimento" e i suoi tre anni di governo. Ha riproposto il solito linguaggio conflittuale (dalla "sfida" ai "ricatti") e il solito schema concorrenziale ("Se siete capaci, sconfiggetemi al congresso"). Soprattutto, non ha fugato l'atroce sospetto rivelato dal "fuorionda" di Delrio: "I renziani pensano che la scissione convenga, perché così diminuiscono le poltrone da distribuire...". La vera posta in gioco può essere il potere, e non l'identità?

La responsabilità secondaria grava sugli "scissionisti". Quelli sicuri (come Rossi), quelli probabili (come Bersani e Speranza) e quelli indecifrabili (come Emiliano). I primi hanno taciuto, mentre nel giorno dell'Armageddon democratico sarebbe stato doveroso sentir parlare dal palco (e non dalle telecamere Rai) chi ha sempre detto di avere a cuore il destino della "ditta". Il terzo ha tentato una furba mediazione finale, imprevista e improbabile. Ora tutti i "compagni del Teatro Vittoria" avranno comunque un gigantesco problema: riempire la scissione di nobili contenuti politici, e svuotarla di incomprensibili cavilli burocratici. Una grande forza di sinistra, che pensa se stessa come partito riformatore di massa, può sfasciarsi solo in nome dei valori fondanti: una diversa idea dell'Europa, della difesa del welfare universalistico e dei diritti del lavoro, della Costituzione formale e materiale. La vera posta in gioco può essere la data di un congresso o la "gazebata" delle primarie?

Sullo sfondo, rimane la testimonianza più convincente, ma anche più dolente, di chi le guerre intestine del Pd le ha patite sulla sua pelle. Veltroni, Fassino, lo stesso Cuperlo difendono le ragioni di un'idea che, se mai è esistita, si è smarrita da tempo, seminando il campo di troppe macerie. E anche qui sta la miopia di chi oggi, nel Palazzo d'Inverno renziano, crede di poter resistere tranquillamente ma ferocemente all'amputazione di una sua parte. Solo chi resta in macchina con il piede fisso sull'acceleratore può non capire che, dopo la scissione, il congresso-lampo con il "candidato unico" sarà una farsa. E il tentativo di fare del Pd una forza popolare, riformista e progressista, sarà precipitata per sempre nel burrone. Al suo posto, invece del grande partito-baricentro del sistema politico italiano, resterà un medio partito di centro, che non intercetterà il mitico "voto moderato", ma raccoglierà tutt'al più qualche rottame della nomenklatura ex democristiana.

Nel frattempo, arriveranno il referendum sui voucher e le elezioni amministrative. Con che faccia li affronta, questo centrosinistra in frantumi, è impossibile capirlo. E fanno pietà i "volontari carnefici" dei due fronti divisi, che fanno calcoli patetici, sondaggi alla mano, sul "potenziale elettorale" del Pd ridotto a Renzi e della Cosa Rossa ridotta a D'Alema. Dopo un trauma come questo, sono conti della serva, di cui le urne faranno giustizia. E sempre nel frattempo, come già successe a Prodi nel 2008, sul governo Gentiloni precipiteranno tutti i tormenti e i risentimenti di questa sinistra pulviscolare e neo-proporzionale. Un governo che deve durare fino al 2018, e che senza più l'ombrello di Draghi deve gestire una legge di stabilità che incorpora già 20 miliardi di clausole di salvaguardia e una crisi delle banche sempre più acuta. Con che spalle li sostiene, questo premier "a responsabilità limitata", è difficile immaginarlo.

In questo penosa "eutanasia democratica" riecheggia una delle grandi figure della sinistra novecentesca: quel Pietro Ingrao che nel 1993, dopo la Bolognina e la svolta di Occhetto (che non condivideva), decise comunque di "restare nel gorgo", perché il neonato Pds era l'unico luogo di un possibile cambiamento di un'Italia devastata dal dopo Tangentopoli. Allora come oggi, il Pd sarebbe stato il posto per azzardare lo stesso tentativo. Ma è troppo tardi. Il "gorgo" non è più sinonimo di un formidabile movimento, ma solo metafora di un inesorabile inabissamento. E mentre risucchia le schegge impazzite del centrosinistra, quel "gorgo" alimenta l'onda populista e sovranista. Grillo e Salvini, su tutt'altre automobili, hanno già caricato i surf.

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20 febbraio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/02/20/news/pd_tutti_colpevoli_in_una_scissione_senza_valori-158728136/?ref=HRER2-1



Titolo: MASSIMO GIANNINI Alitalia, un pasticciaccio tutto italiano
Inserito da: Arlecchino - Aprile 28, 2017, 12:00:03 pm
Alitalia, un pasticciaccio tutto italiano

Di MASSIMO GIANNINI
25 aprile 2017

A PARIGI si vota per salvare l’Europa. A Roma si vota per uccidere l’Alitalia. La vittoria dei no al referendum sul piano di salvataggio della compagnia aerea più disastrata del continente è il giusto epilogo di un fallimento permanente che dura ormai da trent’anni. L’ultimo capitolo, il più amaro, di un brutto pasticciaccio italiano.

Che tutti, ma proprio tutti, hanno contribuito a scrivere. Lo Stato e il mercato, la politica e il sindacato. Gli azionisti pubblici e i capitalisti privati, i manager cinici e i dipendenti privilegiati. Non c’è un solo attore, su questa quinta in rovina sulla quale sta per calare il sipario, che possa dire “io non c’entro”. Oggi serve a poco gettare la croce addosso ai lavoratori di cielo e di terra che hanno bocciato la proposta ultimativa dell’azienda (1.300 esuberi, 900 in cassa integrazione straordinaria, 8 per cento di stipendio in meno per tutti). È vero che a quella proposta Etihad, Invitalia e le banche avevano subordinato la concessione di altri 2 miliardi di capitali per tenere in piedi la compagnia. Ma è altrettanto vero che affidare ai dipendenti l’ultima parola sulla sopravvivenza di un’impresa (scambiandola con l’ennesimo giro di vite occupazionale e salariale), suona sempre come un vago ricatto. Non possono pagare colpe che non hanno.

Tuttavia, i tanti che hanno scritto il loro “no” sulla scheda hanno compiuto un gesto che racchiude in sé il vizio d’origine, culturale e industriale, che ha da sempre caratterizzato il volo avventuroso di Alitalia. A tutti i livelli. Cioè l’idea che di fronte ai dissesti epocali di questa compagnia ci sia sempre un piano B pronto in un cassetto. E che quel piano B, alla fine, sia sempre lo Stato padrone a dettarlo, tappando i buchi di bilancio con i soldi del contribuente. Questa volta non andrà così. Non c’è più una mammella pubblica, dalla quale succhiare i soldi per pagare gli stipendi, o il gasolio per far volare gli aerei. Questa volta c’è solo l’amministrazione straordinaria e la nomina di un commissario, che salda i creditori che può saldare e poi porta i libri in tribunale. E questo esito, doloroso quanto si vuole, non lo detta solo la solita Europa Matrigna, che vieta gli aiuti di Stato. Lo detta il buon senso. Non c’è più un cielo da solcare, per una compagnia aerea che perde 700 milioni all’anno, 2 milioni al giorno, 80 mila euro l’ora. Luigi Gubitosi è l’ultimo presidente arrivato al capezzale del moribondo, e se non riesce a rianimarlo lui (che ha avuto a che fare con il carrozzone Rai) non ce la può fare nessuno. Non ci sono più rotte da percorrere, per un vettore che ha creduto di giocare la partita dell’eccellenza insieme alle ricchissime compagnie degli Emirati, mentre Ryanair e Easyjet gli rubavano le tratte più battute (le turistiche a corto e medio raggio) e Freccerosse e Italo gli scippavano quelle più pregiate (la Roma-Milano su tutte). Ecco i colpevoli, di questo “delitto”. I politici l’Alitalia l’hanno usata come un taxi, per motivi elettorali e spesso anche personali. È stato così nella Prima Repubblica, quando le cavallette Dc e Psi l’hanno spolpata tra nomine lottizzate e assunzioni clientelari. È stato così nella Seconda, quando Berlusconi nel 2008 se l’è giocata al tavolo della campagna elettorale, facendo saltare l’unica fusione che allora aveva ancora un senso, quella con Air France-Klm. È stato così anche nella Terza, quando hanno finto di difendere a chiacchiere “la compagnia tricolore”, mentre nei fatti cedevano pezzi di mercato alle low cost straniere. I privati l’Alitalia l’hanno usata solo per ingraziarsi il Palazzo, come accadde con i “patrioti” che su ordine del Cavaliere ci misero un obolo solo per garantire la patetica difesa “dell’italianità”, e non certo una prospettiva strategica credibile.

I manager l’Alitalia l’hanno sfasciata, in un tourbillon di piani industriali buttati al macero e di bonus astronomici ficcati in portafoglio. In cinquant’anni sono cambiati tre all’anno, cinque solo negli ultimi cinque anni. Da Nordio a Cempella, da Mengozzi a Cimoli. E poi Sabelli, Ragnetti, Cassano. Pare una squadra di calcio. Peccato che si sia rivelata di serie C, moltiplicando i passivi anno su anno. Almeno Mengozzi e Cimoli, qualcosa hanno restituito, tra una condanna a 6 e una a otto anni. Ma siamo tutti garantisti, per carità. Restano i sindacalisti, che hanno lucrato prebende previdenziali e bloccato alleanze industriali, sempre convinti che il bengodi degli anni ‘70 non sarebbe mai finito. Siamo all’ultimo volo della Fenice. O sbuca fuori un grande partner (occidentale o asiatico che sia) e si compra la compagnia tutta intera, o siamo al capolinea. Bisogna dirlo, con dolore. Forse è meglio così. È bello, per un Paese, poter schierare nei cieli del mondo globalizzato la sua “compagnia di bandiera”. Da orgoglio, fa “identità”. Ma questo non può più avvenire a qualsiasi prezzo. Se ci sono le condizioni di mercato, bene. Altrimenti, se ne prenda atto, e si compiano le scelte conseguenti. Tra il 1974 e il 2014, per salvarla, abbiamo speso 7,4 miliardi di denaro pubblico: l’equivalente di una “Alitalia tax” da 180 milioni l’anno. Forse può bastare. Dio è morto, Pantalone è morto, e stavolta può morire pure Alitalia.

© Riproduzione riservata 25 aprile 2017

Da - http://www.repubblica.it/economia/2017/04/25/news/alitalia_un_pasticciaccio_tutto_italiano-163844851/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2


Titolo: MASSIMO GIANNINI La benedizione grillina al patto del Nazareno
Inserito da: Arlecchino - Maggio 30, 2017, 10:58:49 am
La benedizione grillina al patto del Nazareno
L'ANALISI / Eccolo, dunque, l’approdo. Sull'accordo già blindato tra Renzi e Berlusconi arriva adesso la sorprendente apertura di Grillo sul modello proporzionale tedesco, che apre la via al voto in autunno. Così la Generazione Telemaco della “nuova politica”, quella che doveva “uccidere il padre” e rottamare il vecchio, torna nel luogo dove tutto era cominciato, e dal quale forse non se n’era mai andata

Di MASSIMO GIANNINI
29 maggio 2017

NEGATE, temute, e alla fine volute, ecco le elezioni anticipate. Sull’accordo già blindato tra Renzi e Berlusconi arriva adesso la sorprendente benedizione di Beppe Grillo sul modello proporzionale tedesco, che apre la via al voto in autunno. Eccolo, dunque, l’approdo. Dopo tre anni di inutile pellegrinaggio tra vocazioni maggioritarie e Italicum, democrazie “decidenti” e premierati forti.

La Generazione Telemaco della “nuova politica”, quella che doveva “uccidere il padre” e rottamare il vecchio, torna nel luogo dove tutto era cominciato, e dal quale forse non se n’era mai andata. Il Nazareno. E al Nazareno, inteso appunto come Patto, ha la pretesa di riportare quel che resta della sinistra italiana. Ancora una volta smarrita, confusa, divisa. Incapace di produrre una qualunque alternativa, se non quella di abbracciare un Caimano per resistere a un Grillo.

L’accordo Renzi-Berlusconi, alla luce delle parole del segretario del Pd al Messaggero, è ormai cosa fatta. Con la scusa che “lo chiede Mattarella”, l’ex premier e l’ex Cavaliere sono pronti a fare quello che pareva chiaro dal giorno dopo la Caporetto sul referendum costituzionale, e che solo i ciechi, gli ipocriti o le anime belle si erano rifiutati di comprendere. Un’intesa sulla riforma elettorale, poi sulle elezioni anticipate, e infine sulla prospettiva di una Grosse Koalition all’italiana.

Come dice Roberto Saviano del Ventennio Berlusconiano, con la “svolta nazarena” tutto è dimenticato, tutto è perdonato. Ed è vero che è “uno scandalo” una politica che a pochi mesi dalla scadenza della legislatura costruisce meccanismi elettorali tagliati a misura dei propri bisogni. Ma così è, purtroppo. Ormai da almeno dodici anni, quando a questo “uso privato” delle istituzioni e delle Costituzioni ci abituò il disastroso Porcellum voluto dal Polo della destra per non far vincere l’Unione di Prodi. Anche il sì di Grillo fa parte della svolta. Ma il furbo via libera del capocomico al sistema proporzionale tedesco, attraverso la solita farsa del clic tra gli attivisti della Rete, è tutt’altro che disinteressato. Per Pd e Forza Italia risolve il problema dei numeri al Senato, che altrimenti sarebbero mancati, e che invece adesso ci saranno grazie ai pentastellati. Ma per il Movimento è manna dal cielo: gli consentirà di lucrare dividendi incalcolabili in una campagna elettorale tutta giocata contro il “Renzusconi” dell’inciucio neo-consociativo.

Ci sarà ancora qualche dettaglio tecnico da mettere a punto. Per esempio la soglia di sbarramento. Ma la strada è già aperta, da almeno due casi paradigmatici di queste ultime ore. Il primo caso è la sfiducia bipartisan a Campo Dall’Orto in consiglio d’amministrazione Rai: un “ribaltone” che ha ragioni tuttora imprecisate, se non quelle legate all’urgenza di avere un servizio pubblico televisivo ancora più malleabile e controllabile in campagna elettorale. Renzi nega, e porta come prova il fatto che il consigliere che lui conosce meglio nel cda è "Guelfo Guelfi, l’unico ad aver votato a favore del piano di Campo Dall’Orto". Tesi tartufesca, e facilmente controvertibile: più che una prova a discapito, il voto di Guelfi (difforme da quello degli altri consiglieri pd) sembra la smoking gun sul siluramento del direttore generale.

Il secondo caso è il ripristino dei voucher, sia pure con una formula “geneticamente modificata”. L’emendamento che reintroduce i buoni lavoro passa proprio grazie alla stampella azzurra del Cavaliere, perché nel frattempo viene meno la stampella rossa non solo dell’Mdp di Bersani, ma anche dei dissidenti di Orlando. Anche su questo Renzi ha una sua versione. La norma sui voucher ci sarà perché «abbiamo fatto quello che il ministro Finocchiaro ci ha chiesto di fare». Tesi pilatesca, e palesemente in-credibile: Gentiloni non avrebbe mai preso un’iniziativa autonoma, su un tema “sensibile” per la sinistra come i buoni lavoro. Ad annunciare l’emendamento in Commissione è stato il capogruppo dem Rosato. E su quello, poi, il governo ha dovuto convergere. È una forzatura della quale obiettivamente non si sentiva alcun bisogno. Sia per ragioni di metodo: i voucher erano stati appena abrogati per decreto proprio per evitare il referendum chiesto a tutta forza dai sindacati. Sia per ragioni di merito: i voucher non hanno risolto la piaga del lavoro nero (ormai superiore ai 100 miliardi l’anno) e non hanno offerto nessuna tutela contributiva a quel milione e 600 mila precari che ne hanno “beneficiato” (dovrebbero lavorare fino a 75 anni per avere una pensione da 208 euro al mese).

Dunque, anche questa mossa non nasce per caso. Non nasce a Palazzo Chigi. Nasce a Largo del Nazareno. E si inquadra nello stesso percorso che potrebbe portarci, in sequenza, al sistema tedesco, alla caduta di Gentiloni, al voto in autunno e alla Grande Coalizione. Non siamo più in presenza di un’episodica geometria variabile (che talvolta in Parlamento può capitare) ma di un’autentica mutazione della maggioranza (che stavolta il Quirinale deve valutare). Tutti i soggetti in campo non possono non esserne consapevoli. Se vanno avanti lo stesso, vuol dire nella migliore delle ipotesi che hanno accettato il rischio, nella peggiore che hanno concordato l’esito. E l’esito, ancora una volta, è quello ormai noto, nonostante le smentite a tamburo di questi mesi: un bel # paolostaisereno, e poi tutti alle urne.

In questa rincorsa congiunta alla rivincita di Renzi e alla rinascita di Berlusconi non c’è già più spazio per le prudenze istituzionali o per le pendenze finanziarie. L’idea è che il tripolarismo che paralizza l’Italia, con il modello tedesco, si risolve con la creazione e la contrapposizione di due blocchi: il Sistema (Renzi-Berlusconi) e l’Anti- Sistema (Grillo-Salvini). Comunque vada, un mezzo disastro.
Il rischio dell’instabilità, proprio durante una delicatissima sessione di bilancio, non è contemplato. Anzi, è inopinatamente ribaltato a nostro vantaggio. Anche questo dice Renzi: «Dopo le elezioni tedesche e fino al voto, l’Italia sarà l’osservato speciale sui mercati. L’eventuale anticipo del voto non genera l’incertezza, ma la anticipa… ». La scommessa è stravagante, e a dir poco azzardata. Non ci sarebbe nulla di strano se i due “pattisti” la giocassero in proprio. Purtroppo non è così: la posta in palio è il Paese.

© Riproduzione riservata 29 maggio 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/05/29/news/la_benedizione_grillina_al_patto_del_nazareno-166713608/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2


Titolo: MASSIMO GIANNINI Berlusconi e la doppia anomalia
Inserito da: Arlecchino - Giugno 10, 2017, 11:09:54 am
Berlusconi e la doppia anomalia
In questa Italia, che scivola ormai verso il "teatro dell'assurdo", almeno chi opera nelle istituzioni ha il dovere di non recitare troppe parti in commedia

Di MASSIMO GIANNINI
10 giugno 2017

LA "CONFIDENZA" del boss di Cosa Nostra Giuseppe Graviano, che in carcere rivela a un camorrista "Berlusca mi chiese questa cortesia...", non è solo una voce lontana che sale dall'Oltretomba della Repubblica per farci risprofondare nell'eterno mistero delle stragi mafiose. E non è neanche la "prova giudiziaria" definitiva che inchioda il Cavaliere alle sue responsabilità penali.

NON basta una chiacchiera, intercettata durante l'ora d'aria, per stabilire una volta per tutte che lui è davvero il mandante occulto della tragica mattanza che insanguinò l'Italia tra il 1992 e il 1993. Ma è senz'altro la "prova politica" di quanto sarebbe stata e sarebbe tuttora innaturale, dissennata e suicida la prospettiva di un "governissimo" tra Renzi e Berlusconi.

Un irriducibile manipolo di franchi traditori, insieme a un inaffidabile esercito di malpancisti grillini, si è preso la briga di assassinare in Parlamento l'accordo neo-proporzionale "alla tedesca". È stata una farsa. Ma è stata anche una fortuna. Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto, se fosse andato in porto lo scellerato "patto extra-costituzionale" nato solo sulla base delle "convenienze" dei leader (secondo la definizione impeccabile di Giorgio Napolitano). Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto, se il caso Graviano fosse esploso dopo le elezioni anticipate del 24 settembre e dopo l'auspicata nascita della Grosse Koalition de' noantri tra Pd e Forza Italia. Ci ritroveremmo a fare la manovra economica d'autunno e la riforma del fisco, le misure straordinarie sulla sicurezza e sull'immigrazione, la nuova legge sulla giustizia penale e sul codice antimafia, con un alleato nuovamente sospettato di aver trattato con le cosche quell'attacco al cuore dello Stato che 25 anni fa preparò il terreno alla sua "discesa in campo". E considerato "un traditore" da un capobastone (in prigione dal '94 per aver organizzato materialmente gli attentati di Milano Roma e Firenze) perché nonostante i "favori " ricevuti (cioè le bombe), "lui mi sta facendo morire in galera...".

Le parole di Graviano andranno attentamente vagliate dai magistrati, e sono state fermamente smentite dagli avvocati. Ma confermano la persistenza di una "anomalia berlusconiana", che in tutti questi anni nessuna Procura della Repubblica e nessun tribunale della Storia sono mai riusciti a dissolvere. E non sono solo i "soliti sospetti" di collusione con Cosa Nostra, a pesare in questo giudizio. Sono tutti i capitoli che compongono l'infinito e spesso dimenticato "Romanzo del Cavaliere Mascariato". È la condanna definitiva per frode fiscale su Mediaset, scontata tra i vecchietti di Cesano Boscone. È l'innumerevole filiazione dei processi Ruby, arrivati a quota "quater", dai quali emerge ogni volta un quadro di misfatti e di ricatti ormai quasi più penoso che criminoso. È quel grumo gigantesco di interessi, privati e pubblici, passati e futuri, che ieri lo ha spinto da premier " in chief" a varare con impudenza 38 leggi ad personam, e che oggi lo induce da leader "in attesa" a guardare con impazienza alle scelte sulla governance della Rai o sulle norme anti-scalata che dovrebbero difendere il suo impero tv dalle mire di Vivendi. È quella certa idea dello Stato come " res propria", più che " res publica". Delle istituzioni come strutture serventi, più che "organi di garanzia". Del principio di legalità come vincolo burocratico, più che valore democratico. Insomma, tutto ciò che abbiamo imparato a conoscere in un Ventennio, che ha costellato la sua avventura politica e che continuerebbe ad accompagnarlo sempre, in qualunque nuova maggioranza bipartisan lo si volesse ingaggiare.

Per tutti questi motivi è sorprendente che Renzi abbia pensato non solo di scrivere la nuova legge elettorale, ma anche poi di governare insieme al Cavaliere, schierandolo dalla parte sbagliata nel derby "responsabili contro populisti". È preoccupante che un segretario, privo di questo "mandato straordinario", si sia illuso di poter traghettare il Pd (giustamente depurato di ogni ideologia, ma colpevolmente svuotato di ogni identità) verso uno sbocco che ne stravolge la natura e il destino. È inquietante che la "talpa cieca" del Nazareno (come l'ha definita Ezio Mauro) abbia pensato non di scavare il suo tunnel a sinistra, ma di scavarsi la fossa con la destra.

Ma in questa vicenda oscura resta da segnalare anche un'altra anomalia. Il problema non è che le scottanti rivelazioni di un "mammasantissima" escano proprio adesso, nei giorni in cui il Palazzo si scontra sul sistema elettorale e si incontra sulle Larghe Intese: il sacro anatema dell'Unto del Signore, "giustizia a orologeria!", lascia il tempo che trova in un Paese in cui quell'orologio, che incrocia inchieste giudiziarie a raffica e scadenze elettorali a ripetizione, non smette mai di ticchettare. La coincidenza spiacevole è un'altra, e cioè che tra i quattro pm di Palermo che proprio ieri mattina hanno depositato la solita Treccani da 5000 pagine di intercettazioni ci sia anche Nino Di Matteo, toga anti-mafia di primissima linea, che giusto dieci giorni fa al seminario sulla giustizia organizzato dai Cinque Stelle a Montecitorio, rispondendo a chi gli chiedeva se si sentisse pronto a fare il ministro tecnico di un governo pentastellato, aveva risposto testualmente: "L'esperienza di un magistrato può essere utile alla politica".

La sala grillina lo ha acclamato con una standing ovation. Luigi Di Maio lo ha accolto con un "siamo contenti della sua disponibilità ". Non ci sogneremmo mai di pensare che ci sia un nesso tra questo endorsement e il caso Graviano. Primo, perché

Di Matteo è magistrato integerrimo. Secondo, perché la procura palermitana è organo collegiale. Ma in questa Italia, che scivola ormai verso il "teatro dell'assurdo", almeno chi opera nelle istituzioni ha il dovere di non recitare troppe parti in commedia.

© Riproduzione riservata 10 giugno 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/06/10/news/la_doppia_anomalia-167712176/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-F4