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Autore Discussione: MASSIMO GIANNINI  (Letto 166769 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Settembre 20, 2008, 04:23:43 pm »

ECONOMIA   

Intervista al leader della Cgil: "Che danno quegli applausi. Ma i piloti vanno coinvolti"

"Palazzo Chigi ci ha dipinto come quelli che giocano allo sfascio"

Alitalia, il rilancio di Epifani "Ora vendiamola agli stranieri"

di MASSIMO GIANNINI
 


ROMA - "O il governo e il commissario trovano il modo di riaprire la trattativa con Cai, oppure io vedo una sola strada: la vendita immediata a una grande compagnia straniera, che ci può assicurare un know how industriale più forte e condizioni finanziarie più solide". Il giorno dopo la disfatta politico-sindacale sull'Alitalia, Guglielmo Epifani riapre i giochi. In questa intervista a Repubblica il leader della Cgil respinge le accuse di Berlusconi, lancia segnali a Colaninno e soprattutto rilancia l'ipotesi di una cessione a un vettore internazionale. "Io personalmente vedo con favore Lufthansa, ma non sta certo a noi scegliere il partner. Tocca al governo decidere".

Epifani, lei giustamente ha fretta. Ma vedere quei dipendenti in divisa che esultavano davanti a Fiumicino, all'annuncio del ritiro dell'offerta Cai, è anche una vostra sconfitta, non trova?
"Certo, quegli applausi hanno nuociuto all'immagine dell'Alitalia. In qualsiasi altra situazione di grave crisi aziendale, e ne abbiamo vissute e ne viviamo tante, una notizia del genere viene accolta con profonda preoccupazione da tutti. Stavolta non è stato così, e di questo i lavoratori devono essere coscienti. Noi, di sicuro, non abbiamo gioito. Anche se è altrettanto certa un'altra verità: le caratteristiche della cordata italiana, l'assenza di know how specifico, la mancanza di procedure trasparenti, sono alla base della criticità oggettiva dell'intera operazione Cai".

Il problema è che dietro quella gente ci siete voi, c'è il vostro no. Avete giocato al tanto peggio tanto meglio?
"No, non è mai stata questa la nostra posizione. Noi abbiamo lavorato fin dall'inizio per cercare una soluzione positiva. Mentre fin dall'inizio è stato il governo ad accreditare l'immagine di una Cgil che giocava allo sfascio, sulla pelle dei lavoratori e del Paese. La nostra storia dimostra che questa non è e non è mai stata la nostra cultura. Berlusconi ripete da giorni che siamo manovrati dalla politica, quando è evidente a tutti che la Cgil ormai da decenni non è più cinghia di trasmissione di nessuno. Il giorno in cui Cai doveva decidere Berlusconi ha detto "si firmi anche senza la Cgil". Dopo che la Cai si è ritirata ha detto "è stata tutta colpa della Cgil". Le pare un modo serio di trattare? A colpi di ultimatum quotidiani, di drammatizzazioni continue, di ricatti veri e propri?".

Quanto ad accuse e a "penultimatum", anche i sindacati non sono stati da meno.
"Attenzione: un conto è la polemica, anche dura, che in una trattativa così delicata ci può stare. Tutt'altro conto è il livore degli attacchi, personali e politici, ai quali naturalmente abbiamo il dovere di rispondere. L'alzata di toni del governo contro di noi è indegna di un Paese civile. Questo modo di intendere i rapporti con le forze sociali è un imbarbarimento della vita del Paese".

Un clima di aggressione ideologica contro di voi, soprattutto da parte di un pezzo di governo che ha vissuto ai tempi di Craxi lo scontro sulla scala mobile, può anche esserci stata...
"Certo che c'è stata. L'abbiamo respinto e la respingiamo con altrettanta forza... ".

Ma qui c'è un fatto sul quale anche voi dovete riflettere. Un accordo è saltato per l'ennesimo no della Cgil. Non siete forse un elemento di freno sistematico alla modernizzazione del Paese?
"La modernizzazione del Paese la vuole anche la Cgil. Noi non viviamo con la testa rivolta al passato. Un sindacato che fa questo muore. Ma allo stesso tempo respingiamo una modernizzazione che scommette sulla sudditanza o peggio sull'irrilevanza delle rappresentanze sociali. Questa scommessa per noi è inaccettabile, anche perché prefigura una deriva autoritaria che dovrebbe preoccupare non solo noi, ma tutte le forze sociali che hanno a cuore la democrazia".

Perfetto. Ma nel caso Alitalia la Cgil ha compiuto uno strappo del tutto inedito. Si è schierata con sei sigle autonome, dividendosi da Cisl e Uil. Per difendere voi stessi, avete difeso una corporazione, i piloti. Non è così?
"Né oggi né mai ho difeso logiche di casta, privilegi o posizioni di potere consolidato. Ma una trattativa complessa non si gestisce usando l'esclusione e la forza. Il personale di volo non è rappresentato da noi, ma è sbagliato tagliarlo fuori dal confronto. E se io cerco di allargare il perimetro del confronto, lo faccio in nome della democrazia sindacale, non certo del corporativismo".

Ma c'è un paradosso: per cercare di allargare il consenso, come lei ha detto in questi ultimi giorni a proposito del piano Cai, avete finito per cavalcare il dissenso.
"Capisco che questa può essere l'impressione. Ma il problema di chi deve amministrare una compagnia aerea non è solo firmare un accordo. Perché se il giorno dopo la firma Fiumicino e Malpensa si bloccano e gli aerei non volano perché il personale di volo entra in sciopero, quell'accordo diventa carta straccia. E questo problema non si risolve minacciando soluzioni autoritative. Si risolve trattando con tutti, e cercando di trovare un'intesa che soddisfi tutte le rappresentanze dei lavoratori".

C'è anche un'altra chiave di lettura: la Cgil ha detto no perché, se avesse firmato, dal giorno dopo sarebbe implosa al suo interno. Che ne dice?
"Dico che è falso. Fratture con la base ne hanno e ne hanno avute tutti i sindacati. Fa parte della nostra storia. Ma nel caso dell'Alitalia questo è davvero l'ultimo dei problemi. La verità è che non si può trattare con la pistola alla tempia".

Continuate a sottovalutare un punto: Alitalia è nell'abisso. Tutti trattano con la pistola alla tempia, non crede?
"È vero. Ma tutto era già noto da un pezzo. La trattativa andava preparata per tempo, non improvvisata in un mese".

Per tempo, lei dice. E allora perché non avete accettato l'offerta Air France, che avrebbe risolto tutto e non sarebbe costata un euro ai contribuenti?
"Berlusconi scarica anche quella su di noi. Ma voglio ricordare che Spinetta, allora, pose due condizioni per acquistare Alitalia: la prima era in effetti il consenso del sindacato, e lì noi non trovammo l'intesa sui livelli occupazionali, ma la seconda era il via libera del governo in carica e di quello che, di lì a poco, avrebbe vinto le elezioni. Berlusconi aveva la vittoria in tasca, e fu lui a costruire la compagna elettorale sullo slogan "non passa lo straniero"".

Epifani, mettiamo da parte il passato, e veniamo al presente. Cai si è ritirata, il governo dice no a ogni forma di nazionalizzazione. Come si esce da questo buco nero, che rischia di ingoiare 20 mila famiglie?
"Innanzitutto bisogna che chi ha alzato irresponsabilmente i toni li abbassi immediatamente. E poi occorre che il capo del governo e il commissario straordinario riprendano in mano il bandolo di questa matassa".

Il suo collega Bonanni dice: basta che Epifani fa una telefonata a Colaninno, e tutto è risolto.
"Non sono io che devo attivarmi. Lo ripeto, la partita adesso è in mano a Berlusconi e a Fantozzi. Tocca a loro studiare una soluzione".

Ma lei cosa propone? Avrà un'idea, no?
"Io vedo solo due possibilità. La prima è che il governo ritrovi uno spiraglio per riprendere il negoziato con Cai, sapendo bene che il problema del consenso del personale di volo non è un'invenzione o una scusa, ma un'esigenza essenziale per chi fa trasporto aereo. So che è molto difficile, per le condizioni finanziarie della cordata e per i dissensi di merito che ancora restano in campo. Ma il governo ha il dovere di provarci".

E se non ci riesce?
"Vedo solo una seconda possibilità, che non considero nemmeno una "ipotesi B" perché è meno convincente, ma semmai è dal mio punto di vista addirittura più forte: il governo avvii subito, in modo limpido e trasparente, le procedure per vendere a una grande compagnia aerea internazionale. Io credo che le disponibilità ci siano, anche se ovviamente nessun partner potenziale si muove in assenza di una scelta netta e decisa da parte del governo".

Allude a Lufthansa?
"Non sta a me scegliere il partner. Ma lo ripeto, so che, a precise condizioni, esistono disponibilità. E dunque, se è così e se la pista Cai è chiusa per sempre, la Cgil chiede al governo di non esitare un solo minuto: faccia un passo indietro sul principio dell'italianità, e scelga subito un grande vettore straniero cui affidare le sorti di Alitalia. Sarebbe una scelta che avrebbe il vantaggio di un know how industriale più forte, condizioni finanziarie più solide e una tempistica più rapida. Se il governo fa questo, dichiarando a viso aperto il suo gioco nei confronti del Paese e del sindacato, la Cgil è pronta a fare fino in fondo la sua parte. Come ha sempre fatto, nella sua lunghissima storia".

(20 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #31 inserito:: Settembre 27, 2008, 10:09:48 am »

ECONOMIA    IL RETROSCENA. La proposta del presidente Mayrhuber anticipata a Cgil, Cisl e Uil

In alternativa, Air France si accontenterebbe di una quota del 10-15%

Lufthansa scopre le sue carte "Noi puntiamo al 49 per cento"


di MASSIMO GIANNINI
 


"ALITALIA ci interessa molto. Ma noi puntiamo alla maggioranza...". Wolfgang Mayrhuber va dritto al cuore del problema, quando spiega a Epifani, Bonanni e Angeletti i progetti di Lufthansa sulla nostra compagnia di bandiera.
Alle nove del mattino, davanti a una tazza di caffè sorseggiata nella quiete di Villa Almone, residenza romana dell'ambasciatore tedesco Michael Steiner, il chairman del colosso tedesco conferma ai leader di Cgil, Cisl e Uil che, se il governo italiano fosse disponibile, potrebbe acquisire fin da subito il controllo di Alitalia. "Ci vuole un accordo in tempi rapidi - spiega il manager - e Lufthansa è pronta a fare la sua parte".

Non tanto e non solo per bruciare la concorrenza di Air France, quanto piuttosto perché la mitica "cordata italiana" raggruppata sotto le insegne di Cai, per quanto corroborata dal sofferto accordo con le rappresentanze dei lavoratori, non avrebbe la "massa critica", in termini di capacità finanziaria e di potenzialità operativa, per reggere l'urto della concorrenza globale.

Dunque, nel breve giro di tre giorni, un altro bluff del governo è finalmente caduto. Non era affatto vero che "non esistono manifestazioni di interesse da parte delle compagnie straniere", come Berlusconi ha ripetuto per giorni e giorni, costringendo il commissario Fantozzi a ripetere lo stesso bugiardo refrain. Con l'unico obiettivo (del tutto strumentale) di mettere le confederazioni con le spalle al muro, e con l'unica pretesa (del tutto inattuale) di difendere la linea del Piave dell'"italianità", inopinatamente e irresponsabilmente fissata dal Cavaliere fin dalla campagna elettorale della scorsa primavera.

Sono bastate poche ore di colloqui nell'ufficio del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio (prima con Francesco Mengozzi in rappresentanza dei francesi, poi con lo stesso Mayrhuber in rappresentanza dei tedeschi) a far venire in campo le due proposte alternative di Air France e di Lufthansa. Molto diverse l'una dall'altra, ma entrambe molto concrete.

Negli incontri di Palazzo Chigi e di Villa Almone, i tedeschi hanno riproposto il loro schema di gioco, che contempla due ipotesi. Da un lato, una partecipazione con la quale Lufthansa si affianca a Cai: "Ma per noi - è il senso della posizione tedesca - questa è l'ipotesi meno preferibile". Dall'altro lato, un ingresso nel capitale della nuova compagnia in posizione di maggioranza relativa, o comunque con una quota che può arrivare o si può avvicinare al 49%: "E per noi - è la postilla tedesca - questa è una soluzione di gran lunga migliore".

Mayrhuber spiega ai sindacati perché questa seconda opzione è più "funzionale". "È inutile che voi, oggi, stiate a discutere dell'italianità e della non italianità della vostra compagnia di bandiera. Così come sarebbe inutile che lo facessimo noi tedeschi in casa nostra, o i francesi in casa loro. Rischiamo di fare una guerra nel pollaio di casa, mentre qui in Europa presto arriveranno i grandi vettori dell'Estremo Oriente che ci spazzeranno via".

Per questo l'unica strategia è quella dell'integrazione. E per i tedeschi la "polpa" buona di Alitalia è oggi una formidabile occasione di integrazione, dentro un modello di network aereo multi-hub e multi-brand. "Noi siamo pronti, il piano industriale è pronto". Epifani, Bonanni e Angeletti (e insieme a loro anche la leader dell'Ugl Renata Polverini) condividono e appoggiano la proposta Lufthansa, anche nella sua forma più "radicale", cioè il pieno controllo di Alitalia.

Ma a questo punto, se ci sarà il via libera all'accordo sindacale con Cai allargato anche a tutte le sigle autonome dei piloti e del personale di volo, il problema è solo politico. "Ma il governo di cosa ha paura?", è la domanda congiunta di Mayrhuber e Steiner. "Io sono chairman di Lufthansa - spiega il primo ai leader sindacali per smitizzare il mantra dell'italianità - e non sono nemmeno tedesco, sono austriaco. E tutto sommato nemmeno Lufthansa è poi così tedesca...". Oltre il 51% del suo capitale è collocato sul mercato, e i primi due azionisti sono la francese Axa (col 10,56%) e l'inglese Barclays (con il 5,07%).

Solo il premier può sciogliere il nodo. Ma per farlo deve uscire dalla logica "resistenziale" alla quale ha costretto tutti, a partire da Colaninno e dai suoi sedicenti "capitani coraggiosi". L'offerta Lufthansa è preferibile per ragioni economiche. Intanto parte con il consenso di tutte le sigle, confederali e autonome. E poi, ruotando su una strategia industriale "a rete integrata" che non contempla l'individuazione di un unico hub italiano, incontra il consenso politico della Lega e del Nord, che non devono subire lo smacco del downgrading di Malpensa.

Ma l'opzione tedesca pone un problema politico: obbliga il Cavaliere a una marcia indietro di fronte agli elettori (ai quali ha giurato che l'Alitalia sarebbe rimasta italiana) e di fronte ai soci di Cai (ai quali ha promesso prebende pubbliche in cambio della fiche privata sulla compagnia di bandiera).

L'offerta Air France è preferibile per ragioni politiche. Intanto la Francia è presidente di turno della Ue, e al Cavaliere può convenire l'idea di fare un favore a Sarkozy. E poi Jean Cyril Spinetta si accontenta di una quota del 10-15%, e in una prima fase si acconcia ad affiancare Cai in posizione minoritaria, perché questo gli consente di blindare comunque Alitalia nel patto Sky Team (la cui eventuale rescissione costerebbe circa 200 milioni di euro alla nostra compagnia) per poi fagocitarla con tutta calma nel giro di qualche anno.

Ma l'opzione francese sconta un'incognita economica: quanto può reggere lo schema "Cai più Air France"? La competizione internazionale nel trasporto aereo sarà feroce, e richiederà investimenti massicci. I soci Cai, nonostante la buona volontà dimostrata con l'accettazione del lock up che li obbliga a non cedere le proprie quote di qui a cinque anni, dovranno rimettere mano pesantemente al portafoglio, per fare cospicue ricapitalizzazioni molto prima del 2013. E poiché è chiaro che i vari Aponte, Fratini e Bellavista non avranno né denaro né voglia, a quel punto Air France avrà buon gioco a conquistare, senza inutili spargimenti di carta bollata, la maggioranza.

Alla fine, per l'Italia e per l'Alitalia, l'alternativa è semplice. Per il governo si tratta di scegliere tra una vendita immediata, o una svendita differita. Per il Cavaliere si tratta di scegliere tra un insano, autarchico provincialismo e un sano, realistico europeismo.


(27 settembre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #32 inserito:: Ottobre 03, 2008, 06:08:51 pm »

POLITICA     IL COMMENTO

Il potere oltre le regole

di MASSIMO GIANNINI


NEGLI STATI UNITI, alla vigilia del voto del Congresso americano sul maxi-piano di salvataggio bancario più imponente della storia, il segretario al Tesoro Henry Paulson ha compiuto un atto simbolico carico di significati: si è inginocchiato di fronte al presidente Nancy Pelosi, per invocare al Parlamento un'approvazione rapida di quel pacchetto di norme.

Il potere esecutivo, sia pure in una condizione di assoluta emergenza nazionale, si rimette al giudizio solenne del potere legislativo. È un segno tangibile di come, nonostante il caos finanziario che non ha saputo scongiurare e che ora fatica a gestire, la democrazia americana sa riconoscere i suoi valori, le sue regole, le sue istituzioni.

In Italia, alla vigilia del varo imminente dell'ennesimo decreto legge, stavolta sulla prostituzione, il presidente del Consiglio lancia un attacco ideologico contro il Parlamento, colpevole di intralciare l'azione del governo. "Imporrò alle Camere l'approvazione entro due mesi di tutti i decreti legge che riterrò necessari per governare il Paese - annuncia Berlusconi - e non esiterò a porre la fiducia ogni volta che servirà, poiché la fiducia è questione di coraggio e di responsabilità".

Il potere esecutivo, sia pure dotato di una maggioranza senza precedenti, sottomette il potere legislativo. È un segno tangibile di come, nonostante l'esistenza formale dei suoi precetti e la resistenza sostanziale dei suoi organi di garanzia, la democrazia italiana rischia di svilire i suoi principi, i suoi precetti, la sua qualità.

L'offensiva del premier tocca un nervo scoperto per il ceto politico, e un punto sensibile per l'opinione pubblica. In questi anni l'odiata Casta che abita le aule parlamentari, tra privilegi e inefficienze, non ha fatto nulla per meritare la fiducia del popolo sovrano. Berlusconi, ancora una volta, cavalca l'onda dell'antipolitica.

E da "uomo del fare" che combatte i "parrucconi", ha capito ciò che i governati sfiduciati chiedono ai governanti delegittimati: decidere, o anche solo far finta di aver deciso. È quello che il premier sta facendo, incrociando il senso comune dominante. Sui rifiuti e sull'Alitalia, sui rom e sulla camorra. Non conta ciò che c'è "nel" provvedimento. Conta solo che ci sia "il" provvedimento.

Tutto quello che intralcia o rallenta il processo va rimosso, o quanto meno esecrato. Vale la decisione. Non c'è più spazio per la discussione e, a volte, nemmeno per la ragione. E così, oggi, pur guidando un governo del presidente e comandando una maggioranza di 162 tra deputati e senatori, il Cavaliere si permette il lusso di additare proprio il Parlamento come il luogo della "non decisione".

L'attacco al potere legislativo è una mossa ad effetto, che può far presa nella gente. Ma è una scelta grave. Lo è dal punto di vista politico. Anche il Parlamento, per lo più ridotto a "votificio", necessita di riforme. Ma queste riforme non può imporle a forza il capo dell'esecutivo, a colpi di decreti legge e di fiducia.

La revisione dei regolamenti parlamentari è opportuna, ma è materia da trattare con cautela e rispetto. Non a caso è disciplinata addirittura dalla Costituzione, che attribuisce ai regolamenti la forza di fonti del diritto e all'articolo 64 ne vincola la modifica alla "procedura rinforzata" delle maggioranze assolute.

Ma la scelta di Berlusconi è grave anche e soprattutto dal punto di vista istituzionale. Ha un solo precedente, evidentemente non casuale, nella storia repubblicana. È Bettino Craxi, che al congresso del Psi di Verona, nel 1984, furibondo per la mancata conversione del decreto di San Valentino sulla scala mobile, tuonò contro i parlamentari che si occupavano "solo di conferenze sulle aspirine" e di "norme in materia di pollame, molluschi, prosciutto di San Daniele e scuole di chitarra".

Perché, a distanza di 25 anni, Berlusconi sente oggi il bisogno di replicare, con formule addirittura deteriori, il modello craxiano? Che bisogno ha, proprio ora che tiene il Paese in tasca e domina in splendida solitudine la scena politica, di riaprire un conflitto così aspro e avvelenato con le istituzioni?

C'è una sola risposta con un senso compiuto: è il Quirinale. Il Cavaliere ha fretta di chiudere la Seconda Repubblica e di inaugurare, se serve anche nel fuoco della battaglia, una Terza Repubblica tagliata ancora una volta a misura della sua biografia personale. E colpisce che, di questa trama palese, le anime belle della sedicente "cultura liberale" non vedano i fili.

Se Veltroni, per aver accostato il premier a Putin, è accusato di essere ancora prigioniero della "vecchia narrazione" di un centrosinistra tenuto insieme solo dal cemento dell'anti-berlusconismo, di quale "nuova narrazione" sarebbe invece interprete Berlusconi, che ritorna in guerra contro i suoi soliti fantasmi, umilia il Parlamento, svalorizza il Capo dello Stato, minaccia la Corte costituzionale?

La vera "cifra" del nuovo berlusconismo, micidiale miscela di cesarismo regressivo e di populismo deliberativo, è racchiusa in un mirabile enunciato di Giuliano Ferrara, il suo più brillante esegeta: "La democrazia, alla fine, non è expertise, ma è solo consenso". In questi tempi difficili è una verità agghiacciante. Ma purtroppo è esattamente così che Berlusconi sta riducendo la nostra democrazia.

(3 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #33 inserito:: Ottobre 09, 2008, 10:31:24 am »

ECONOMIA    IL COMMENTO

Due mosse, una incognita

di MASSIMO GIANNINI
 


I risparmiatori non perderanno un euro, lo Stato Padrone non tornerà. Se queste due promesse fossero vere, dovremmo accogliere con favore il decreto anti-crisi varato per fronteggiare la "tempesta perfetta" che sta travolgendo il sistema bancario mondiale. Non si può dire che Berlusconi e Tremonti non siano stati rapidi nell'azione, e convincenti nella comunicazione. Il governo ha dato un segnale forte e insieme rassicurante. Almeno nella forma.

Il coinvolgimento diretto del governatore della Banca d'Italia, nella preparazione e nell'illustrazione dei provvedimenti, restituisce ai cittadini, almeno sulla carta, l'immagine di una coesione istituzionale importante. Se poi verrà anche quella politica, e se il Cavaliere smetterà di "fregarsene" del contributo dell'opposizione, sarà un altro passo significativo sulla via della civiltà politica e della responsabilità nazionale.

Per giudicare la sostanza, invece, il condizionale è d'obbligo. Purtroppo, com'era già successo con la Finanziaria triennale approvata prima dell'estate, il Consiglio dei ministri è durato pochi minuti, forse anche meno dei nove necessari per la manovra. Non ha licenziato un testo. Non ha messo nero su bianco una sola cifra. Dunque, per esprimere un'opinione bisogna fidarsi sulla parola di quanto il premier e il ministro dell'Economia hanno detto in conferenza stampa.

L'impostazione del decreto si articola su due misure. Con una prima decisione, coerente alla luce della sonora bocciatura all'Ecofin della proposta italiana di istituire un grande Fondo europeo per gestire i fallimenti creditizi dell'Unione, Berlusconi e Tremonti hanno deciso di seguire l'esempio dell'Irlanda e della Germania: dunque sì a un fondo nazionale che affiancherà la garanzia mutualistica dello Stato a quella privatistica già prevista per i depositi degli italiani. Una scelta limitata, perché assunta al di fuori di quella logica comunitaria che sarebbe stata necessaria e sicuramente più efficace. Ma sensata, perché volta a tranquillizzare i clienti delle nostre banche, finora tutelati da un Fondo di garanzia interbancario ma non anche dal Tesoro. "Nessun cittadino ci rimetterà un euro", ripete il Cavaliere. E a questo punto, è ragionevole ritenere che sia così.

Con una seconda mossa, sorprendente per la pseudo-cultura del liberismo alle vongole che caratterizza da sempre la destra italiana, Berlusconi e Tremonti hanno invece deciso di non seguire l'esempio inglese e olandese: dunque no alle nazionalizzazioni e all'ingresso diretto dello Stato nella proprietà e nella gestione degli istituti di credito in crisi. Se questa "filosofia" è sincera, va dato atto al governo di aver evitato una forma di "socialismo finanziario" pericoloso, per i destini dell'economia di mercato.

L'intervento pubblico sarà "eventuale", cioè attivato o su richiesta della banca in difficoltà patrimoniale o su sollecitazione della Banca d'Italia. Sarà "temporaneo" perché finalizzato solo a rafforzare i "ratios" dell'istituto per il periodo necessario a superare le difficoltà. E soprattutto sarà "neutrale", perché si tradurrà nell'acquisto da parte del Tesoro di azioni privilegiate della banca, e dunque senza diritto di voto sulle strategie. "La gestione delle banche resterà assolutamente privata", giura Tremonti.

È un impegno solenne, che vogliamo prendere per buono. Sarebbe molto grave, invece, se la manovra per mettere al sicuro i risparmi degli italiani si accompagnasse al tentativo di mettere le mani sulle banche. E soprattutto su quelle più lontane dall'orbita del centrodestra. Nel decreto legge c'è un codicillo che autorizza qualche sospetto. Nel caso in cui la Banca d'Italia decida sull'opportunità di ripatrimonializzare una banca, e il Tesoro intervenga direttamente nel suo capitale, scatta anche la rimozione automatica del management responsabile.

In teoria, un principio legittimo, che è compreso tra i sette criteri concordati dall'Ecofin dell'altro ieri: come ha detto ancora Tremonti, "lo Stato non dà i denari del contribuente a chi ha sbagliato". Ma in pratica, anche un grimaldello pericoloso, che può essere usato per scardinare posizioni ritenute di volta in volta scomode o anche semplicemente non gradite al governo.

È inutile fingere di non vedere quello che tutti vedono. Almeno a livello italiano ci sono due piani diversi di valutazione della crisi, e dei suoi risvolti politico-finanziari. C'è un piano di sistema, che chiama in causa la qualità delle nostre banche, il loro modus operandi, la loro struttura patrimoniale. E a questo risponde (bene) la prima mossa. Ma c'è anche un piano di potere, che chiama in causa la proprietà delle nostre banche, la loro "governance" e la loro contiguità con la politica. E a questo rischia di rispondere (male) la seconda mossa.

Anche nel nostro sistema creditizio, per quanto solido e liquido, ci possono essere delle mele marce. Anche un banchiere come Alessandro Profumo ha sicuramente compiuto errori gravi, dei quali è giusto che risponda ai suoi azionisti. Se serve, anche rassegnando il suo mandato. Ma se la posta in gioco "nascosta" di questo giusto lavacro del "mercatismo" diventa solo la "normalizzazione" di Unicredit (colosso internazionale autonomo e distante dal nuovo capitalismo domestico che si va ricomponendo intorno al Cavaliere), allora si deve sapere che quella non è una mela. Non è neanche un albero. È almeno la metà del bosco. E sarebbe inaccettabile che a controllarlo, in modo diretto o indiretto, fosse il governo, o l'establishment che gli è sempre più vicino.
 
(9 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #34 inserito:: Ottobre 12, 2008, 09:52:27 am »

POLITICA

Intervista al leader del Pd: il corteo del 25 si farà, il governo lo rispetti

Le gaffe e gli svarioni del premier danneggiano il Paese: "Chieda scusa"

Veltroni: "Sì al dialogo in Parlamento per l'Italia, non per Berlusconi"


di MASSIMO GIANNINI


ROMA - Onorevole Walter Veltroni, la crisi mondiale dilaga, la gente è sempre più preoccupata, ma in Italia, nel piccolo teatrino della politica, si continua a litigare sul nulla. Com'è possibile?
"Non per colpa nostra. Noi stiamo vivendo la crisi più spaventosa che la nostra generazione abbia mai conosciuto. Una crisi planetaria che cambia i paradigmi fondamentali della nostra società e contagia anche l'industria e l'economia reale. In Italia non è più solo crisi del Mibtel, ma è ormai anche crisi occupazionale. Di fronte a tutto questo, il dibattito politico dovrebbe elevarsi a un'altezza molto diversa. Pagheremo a lungo i danni di questa tempesta. E per quanto il nostro sistema bancario sia più solido e più liquido di altri, le nostre aziende vivono già nel dramma. Il governo Berlusconi non se n'è accorto".

Come fa a dirlo? Il premier ha persino detto che potrebbero chiudere i mercati.
"Appunto. Il nostro premier è stato rimesso in riga, per la seconda volta in due giorni, dalla Casa Bianca. Sono momenti difficili e le parole sono pietre. Le gaffes e le smentite fanno danni profondi. Chi governa deve dimostrare se è o no all'altezza di una crisi di questa dimensione storica. E per ora, purtroppo, non ci siamo proprio".

Cosa glielo fa pensare?
"Intanto, mi piacerebbe che la destra chiedesse scusa per i tre gravissimi errori che ha commesso in questi anni. Primo errore: il mito della deregulation, mutuata dalle esperienze thatcherian-reaganiane degli anni '80, che è stato il vero elemento ideologico e fondativo di Forza Italia. L'idea che tutto dovesse essere libero e selvaggio, che ogni forma di presenza dello Stato e di regolazione fosse solo un orpello o un freno agli spiriti animali del capitalismo. Il secondo errore: il mito populista dell'autarchia e del partito 'Nimby', l'idea assurda che il mondo è solo casa tua, che l'Europa sia un fastidio. Il tutto, per inseguire e cavalcare in modo irresponsabile le paure dell'uomo moderno nella globalizzazione. La crisi globale rilancia, semmai, la necessità di forme di governo mondiale e la necessità di un'Europa unita e forte. Il terzo errore: il mito dell'economia come pura finanza. L'idea che il sistema economico sia un gioco di bussolotti, dove qualche signorotto sposta miliardi con un dito, dalle tasche dei cittadini alle sue. E invece la crisi dimostra che l'economia è fatta di impresa e lavoro".

La destra sbaglierà pure, ma stravince le elezioni. Come lo spiega?
"Senta, io l'altra sera io non ero al Bagaglino, ma ero a vedere il film di Calopresti, sulla tragedia della Thyssen: un racconto dell'Italia che si spezza la schiena per portare a casa 1.400 euro al mese. Berlusconi, in sei mesi, questo problema non lo ha proprio avvistato. E oggi sa qual è il paradosso? Che invece di riconoscere i suoi tragici errori, fa il triplo salto mortale: ora si riscopre statalista, si reinventa europeista".

Ma in compenso ha varato il decreto per coprire i depositi e per sostenere le banche. Lo voterete?
"Noi sosterremo quel decreto ma chiederemo un'integrazione: si deve rafforzare il fondo per le piccole e medie imprese. Altrimenti come si affronta la recessione in atto? Come si sostengono salari, consumi e investimenti? Serve un grande Patto tra i produttori, e serve anche un'interpretazione più flessibile del Patto di stabilità. Perché l'Italia e l'Europa hanno urgente bisogno di crescita. Anche per questo il governo deve immediatamente decidere misure fiscali a sostegno di salari e pensioni".

Ma lei non teme che, con il pretesto della crisi, il governo voglia allungare le mani sulle banche?
"Allarghiamo il discorso. Io credo che la cosa peggiore che si possa fare è rimbalzare dal liberismo allo statalismo. Io resto convinto che una società democratica viva se esiste un libero mercato. In una condizione in cui lo Stato si riservi il suo ruolo, quello di fare le regole e di farle rispettare. Lo Stato non è giocatore, è arbitro. Per questo può anche scendere in campo, per aiutare pro-tempore un'azienda di credito in crisi. Ma non può alterare l'intero campionato. Non mi basta l'intervento del Tesoro con le azioni privilegiate, se poi in assemblea ha diritto di veto sulla governance e sulle scelte strategiche della banca. Io non voglio che il governo gestisca le banche. Non voglio che un ministro, di destra o di centrosinistra, si trasformi in un nuovo Cuccia. La politica che gestisce la finanza l'abbiamo già vissuta: le banche pubbliche, i boiardi, ed è stata un disastro che non dobbiamo ripetere".

E' sempre convinto che l'Italia, per colpa di Berlusconi, stia vivendo una crisi democratica?
"Non io, tutto l'Occidente si interroga su questo problema. La società contemporanea ha bisogno di decisioni all'altezza della sua velocità, altrimenti l'urgenza dei problemi, il crescente bisogno di rassicurazione provocato dall'insicurezza sociale e personale possono portare, come già è avvenuto nella storia, a ritenere accettabili pericolose forme di scambio tra democrazia e decisione. In Italia la destra applica lo schema ideologico della deregulation economica anche alle istituzioni. Così tutto diventa un intralcio, per le scelte di un potere sempre più individuale e sempre più autoreferenziale. Per Berlusconi sono un fastidio le opposizioni, i sindacati, i giornali, la magistratura, la Corte costituzionale. Persino il Parlamento diventa un fastidio, mentre invece è e deve continuare ad essere la casa della democrazia".

Ma deve funzionare meglio, come chiede anche il presidente Napolitano.
"Assolutamente sì, è la nostra priorità. Il Parlamento deve essere veloce e trasparente. Ma guai se viene meno la sua funzione di garanzia. Alla crisi delle istituzioni si risponde con la democrazia che decide, non col potere di un uomo solo. Ma non possiamo non denunciare questo rischio: dalla crisi degli anni '30 si uscì con il New Deal di Roosevelt in America, ma con il nazismo in Europa".

Ora la accuseranno di equiparare Berlusconi a Hitler.
"Non scherziamo. Sto dicendo che la crisi dell'economia, quando si accompagna alla crisi della democrazia, può portare a sbocchi autoritari. E' sempre stato così nella storia. La democrazia è decisione e bilanciamento dei poteri. A Berlusconi, che oggi invoca la possibilità di usare a dismisura i decreti, vorrei ricordare che Bush e Paulson, il loro maxi-piano da 700 miliardi di dollari non l'hanno presentato con un decreto legge".

Resta convinto che con il Cavaliere rischiamo la "putinizzazione" della democrazia italiana? Non si pente di quel paragone?
"Guardi che quel rischio riguarda tutte le democrazie occidentali. Il mio riferimento a Putin è di carattere storico politico, è il richiamo a un modello di populismo personalistico, che mi pare del resto Berlusconi non disdegni affatto. E' vero o no che considera Putin il suo miglior partner politico? Ed è vero o no quello che ha raccontato Paolo Guzzanti, a proposito dei giudizi del premier sulla guerra in Georgia? Dunque, perché si offende tanto?".

Ma ci sono spazi per collaborare col governo? Ci sono spazi per una politica di "unità nazionale", come vi chiede un pezzo di Pd?
"Lo ripeto per l'ennesima volta: noi siamo pronti a dare il nostro contributo sulla crisi, come abbiamo già fatto sull'Alitalia. Questa non è "unità nazionale", è senso di responsabilità e amore per l'Italia. E vuol dire convergenza su provvedimenti che si condividono, ma senza nessuna confusione di ruoli tra maggioranza e opposizione, senza zone di vischiosità. Vuol dire atteggiamento consono, in Parlamento, alla grave situazione che il Paese sta vivendo, ma con il profilo di una grande forza nazionale, di alternativa e nel rispetto assoluto delle scelte fatte dagli elettori".

Cosa risponde al "me ne frego" del Cavaliere?
"Che è proprio una brutta frase, vedo ripetuta anche ieri. Comunque non mi importa delle risposte sgraziate e scorrette di Berlusconi. Registro solo quanto sia paradossale, in un momento come questo, rispondere respingendo con arroganza la disponibilità dell'opposizione a sostenere lo sforzo dell'Italia".

In compenso Gianni Letta dice "si deve dialogare".
"Esiste un abisso, ancora una volta, tra le sagge parole di Letta e l'aggressività inutile del premier. Voglio essere chiaro: è per l'Italia che siamo pronti a collaborare, non per Berlusconi. Confermo la mia disponibilità al confronto, verso il Paese e il Parlamento, non verso chi guida pro-tempore il governo. Perché, questo, ancora una volta, è il problema: chi ha vinto le elezioni è convinto di aver preso il potere".

Lei è disponibile, ma il premier dice "non si collabora con chi va in piazza".
"Il premier non può non ricordare che due anni fa manifestò in Piazza San Giovanni per contestare il governo Prodi, con uno slogan che diceva "contro il regime e per la libertà". E io mi chiedo: dov'erano allora, quelli che oggi ci invitano con il ciglio alzato a rinunciare alla nostra manifestazione? L'Italia non si deve rassegnare al pensiero unico, a questo Truman Show, al Paese irreale e senza memoria che Berlusconi vuole costruire".

Ma la manifestazione del 25 ottobre la farete? E per dire cosa?
"La faremo. E sarà una manifestazione grande, popolare, di un'opposizione nazionale che ha un forte contenuto di proposta e di alternativa e che vuole unire e rassicurare il Paese. Al contrario di quella del Polo nel 2006, la nostra sarà una piazza serena e senza odio, un modo per tenere unito il Paese, e per parlare agli italiani di tutto ciò di cui tace il governo. Lavoro, salari, investimenti, scuola, piccole imprese, contrasto del razzismo. Due anni fa Prodi rispettò la manifestazione della destra a Piazza San Giovanni. Ora Berlusconi faccia altrettanto, e rispetti la nostra. Se non lo farà, sarà purtroppo un'ulteriore conferma delle nostre preoccupazioni sul profondo malessere della democrazia italiana".

m.giannini@repubblica.it

(12 ottobre 2008)


da repubblica.it
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« Risposta #35 inserito:: Ottobre 20, 2008, 05:37:48 pm »

IL COMMENTO

Un'identità da ricostruire


di MASSIMO GIANNINI


Il lungo addio tra Partito democratico e Italia dei Valori si è infine consumato. A una settimana dalla manifestazione del 25 ottobre, la "rupture" decretata da Veltroni è per il centrosinistra un atto costitutivo di igiene politica, e un gesto tardivo di ricostruzione identitaria.

C'è una ragione tattica e congiunturale, che spiega la fine di questa alleanza spuria e antitetica. In Abruzzo è saltato definitivamente l'accordo che avrebbe consentito al Pd di saldare un asse solido e promettente con l'Udc, alla stregua di quello che è avvenuto in Trentino. Veltroni ha convinto Casini a siglare un patto elettorale in vista delle regionali di fine novembre: tu ritiri il tuo candidato, l'Idv ritira il suo, e tutti insieme troviamo una figura "terza" per il ruolo di "governatore", sulla quale convogliare tutti i nostri voti. Era fatta. E sarebbe stato un altro passo, forse decisivo, sulla via di una graduale ricomposizione politica tra la sinistra riformista (disintossicata dai germi massimalisti) e il centro cattolico (depurato dalle tossine berlusconiane). Ma Di Pietro ha fatto ciò che da tempo gli riesce meglio: ha detto no. E ha fatto saltare il tavolo.

La ferrea logica dei numeri dice ora che questa scelta, miope e irresponsabile, equivale a regalare l'Abruzzo al centrodestra. Se si considera che l'alzata d'ingegno dell'ex pm si produce nelle stesse ore in cui il Pd erige un muro persino esagerato per difendere come una "sua" bandiera la candidatura di Leoluca Orlando alla Commissione di vigilanza Rai, allora si capisce perché Veltroni debba aver considerato la misura ormai più che colma. E abbia deciso a sua volta di troncare il filo che lo teneva unito all'Italia dei Valori, già fragile e sfibrato soprattutto dopo gli attacchi insensati contro Napolitano riecheggiati tra la folla di Piazza Navona.

Ma c'è anche una ragione strategica e strutturale, che giustifica lo scioglimento di un "contratto" politico che, con tutta evidenza, non si doveva sottoscrivere. Fin dall'inizio, e cioè prima del voto del 13 aprile, l'accordo tra Pd e Idv è risultato strumentale e asimmetrico. Non si è capito in virtù di quale principio, nel ridefinire giustamente il perimetro delle alleanze dopo il disastroso fallimento dell'Unione e nel rivendicare con orgoglio il coraggio di presentarsi "da soli" alla resa dei conti con il Cavaliere, i riformisti abbiano concesso ai dipietristi la "deroga" che hanno negato a tutti gli altri, dai post-comunisti ai neo-socialisti. La necessità di coprirsi al centro, presidiando attraverso l'ex pm le piazze grilliste e giustizialiste, è parsa fin da allora una giustificazione ovvia, ma non sufficiente.

Ancora meno si è capito in virtù di quale principio, nel rinserrare le file dopo l'inevitabile disfatta elettorale, si è consentito a Di Pietro di rinegoziare unilateralmente i termini dell'accordo, e di rinnegare la pattuita costituzione di un unico gruppo parlamentare. Da allora, complice anche una linea "democrat" spesso timida e quasi sempre ondivaga, il tribuno di Montenero di Bisaccia ha occupato quasi per intero lo spazio politico dell'opposizione. Ha sparato sul quartier generale veltroniano, a colpi di cinica delegittimazione dell'alleato maggiore. E fingendo di assediare il Palazzo d'inverno berlusconiano, a forza di proclami populisti e barricaderi, ha finito per fare il gioco del Re di Prussia. Per lucrare una rendita di opposizione per se stesso, ha in realtà regalato una rendita di posizione al Cavaliere.

A questo punto si può chiudere una lunga stagione di ambiguità, che al Partito democratico ha recato solo danni. Ma la condizione è che, proprio alla vigilia di un rilevante appuntamento di piazza, il centrosinistra riformista riformuli il suo profilo di opposizione. Serve un'impronta più forte, più nitida, e soprattutto più coerente. E' difficile essere capiti dal cittadino, se un giorno si denuncia il rischio di "putinizzazione" della democrazia italiana e il giorno dopo si propone al "tiranno" uno scambio tra Commissione di vigilanza Rai e Corte costituzionale.

E' ancora più difficile essere votati dall'elettore, se un giorno si dichiara che il "dialogo è finito", e il giorno dopo si tratta su una pessima legge elettorale per le europee. Il Pd ora ha mani libere, e non rischia più di essere schiacciato sulle posizioni estreme di un alleato minore. Nel fuoco della crisi finanziaria e della recessione, ha molte frecce al suo arco per inchiodare il governo sulle misure di sostegno al reddito, ai consumi, agli investimenti. Rispetto a un centrodestra sempre più autarchico e autocratico, può scegliere una linea pregiudizialmente frontista o pragmaticamente trattativista. Ma fatta la scelta, ha il dovere di difenderla con rigore, e di assumerla come piattaforma per le future alleanze. E' finito il tempo delle geometrie variabili, dentro l'opposizione e nel rapporto tra opposizione e maggioranza.

Se il Pd vuole ricostruirsi come grande forza di alternativa e di governo, deve praticare la virtù dell'autonomia, senza coltivare il mito dell'autosufficienza. Nel test delle prossime amministrative l'Udc può essere una chiave, come lo sono le liste civiche con cui apparentarsi sul territorio.
Come dimostra il pessimo epilogo del caso Di Pietro, Veltroni fino ad oggi non è "andato da solo". Semmai è stato "male accompagnato". Questo errore non si deve più ripetere.

(20 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #36 inserito:: Ottobre 27, 2008, 03:10:05 pm »

L'ANALISI.

La manifestazione del Circo Massimo ha aperto lo spiraglio di una fase nuova di una politica diversa

La politica del disprezzo del premier e "l'assedio democratico" del Pd

La reazione di Berlusconi è l'indizio della inquietante deriva imboccata

di MASSIMO GIANNINI

 
SOLO nella "democrazia dell'applauso" che Berlusconi gradisce può succedere che la voce di una piazza, sicuramente severa ma serena, venga tacitata con uno spregevole "frottole e insulsaggini". Solo nell'"Impero dell'assenso" cui il Cavaliere ambisce può accadere che alla critica di un oppositore, sicuramente aspra ma legittima, si risponda con uno sprezzante "si riposi e ci lasci lavorare".

Come se nel sano gioco democratico non fosse proprio questa la funzione dell'opposizione: incalzare e insidiare ogni giorno la maggioranza, e non certo restare seduta in panchina per cinque anni, ad osservare immobile le giocate del "manovratore" e ad aspettare in silenzio che arrivi il fischio di fine legislatura.

Eppure è esattamente questa la realtà in cui vive questo Paese, degradato da un quasi Ventennio di berlusconismo dominante. La reazione del presidente del Consiglio alla grande manifestazione organizzata dal Pd al Circo Massimo è l'ennesimo indizio di quale deriva inquietante abbia imboccato il "premierato di comando" del Cavaliere. Nelle sue parole infastidite c'è una visione tecnicamente "totalitaria" della dialettica politica. Non c'è solo l'insofferenza verso ogni forma di dissenso. C'è anche l'intolleranza verso quello che Antonio Gramsci chiamava "l'assedio democratico" che le forze che ambiscono a governare, attraverso la critica incisiva e la proposta alternativa, devono portare a chi governa.

E invece è proprio questo che si è verificato sabato scorso, al Circo Massimo.
Un buon esercizio di "assedio democratico". Walter Veltroni ha riconquistato un pezzo importante dell'agorà. Cioè proprio di quello spazio, politico e pubblico, che il Cavaliere vorrebbe appunto ridotto all'assenso, o al silenzio. Già solo per questo l'evento è stato un successo per il leader che l'ha voluto, e un segnale per il Paese che l'ha osservato.

Il Pd ha dimostrato di esistere innanzi tutto a se stesso, attraverso una grande partecipazione popolare che rinsalda un legame sancito dalle elezioni primarie. Ma lo ha dimostrato anche all'Italia, attraverso un atto di fiducia collettiva che squarcia il velo del conformismo imperante ed apre almeno uno spiraglio alla speranza di una fase nuova e di una politica diversa, che può esistere al di là del "pensiero unico" della destra. Ci sarà modo e tempo per rispondere alle tre domande cruciali, che tuttora pendono sul Pd e che Veltroni ha lasciato in sospeso.

La prima domanda riguarda il rapporto con la società. Come si può ritornare a parlare a quella vasta area del Paese che ti ha voltato le spalle? Se è vero che "l'Italia è migliore della destra che lo vuole rappresentare", è purtroppo altrettanto vero che il Paese ha liberamente scelto di farsi governare proprio da questa destra "peggiore". Il centrosinistra non può non riflettere su questo, se non vuole archiviare il 25 ottobre come una prova di forza, magnifica ma autoreferenziale, e non vuole rifugiarsi nel porto sicuro, nostalgico ma minoritario, della berlingueriana "diversità".

L'ingranaggio tendenzialmente illiberale della macchina di potere berlusconiana (dominio politico-controllo economico-monopolio mediatico) è un problema enorme. Ma da solo non basta a spiegare il consenso "nordcoreano" riconosciuto al Cavaliere persino dal New York Times.

La seconda domanda riguarda il rapporto con la maggioranza. Se la natura di questa destra al governo è così rozza e imperiosa secondo la descrizione di Veltroni, così dura e dispotica secondo la reazione del premier, come si può continuare a parlare di "dialogo"? Berlusconi ha tutto l'interesse a usarlo come "termometro ideologico", per misurare tutti i rialzi di temperatura della sinistra e per denunciarne la presunta "febbre anti-democratica".

Veltroni ha tutto l'interesse a sfilarsi da questo trabocchetto politico: il Pd ha deve alzare la voce ogni volta che serve, e recuperare la sua capacità di proposta, distinta e diversa. Il dialogo può essere un buon "metodo" solo se chi lo invoca ne rispetta le regole. E soprattutto se, attraverso di esso, si raggiungono accordi migliorativi nel "merito". Ma che dialogo c'è con un premier che dichiara "facinorosa" la tua piazza composta, e respinge con un "me ne frego" qualunque offerta di collaborazione sulle misure anti-crisi? Che dialogo c'è con un ministro che definisce "campagna terroristica" la tua protesta pacifica sulla scuola, e rifiuta qualunque modifica al suo decreto? Il riformismo è modernizzazione della società, ma è anche conservazione dei valori repubblicani.

La terza domanda riguarda il rapporto con le opposizioni. Come si può rielaborare una strategia delle alleanze, riaprendo il confronto con Idv e sinistre, e provando a gettare un ponte verso l'Udc? E' un triplo salto mortale. Ma proprio il messaggio forte arrivato dal Circo Massimo consente l'azzardo. Se il Pd gioca le sue carte a viso aperto nella sua metà del campo, con la forza di un profilo identitario che respinge il massimalismo ma con il coraggio di un progetto radicalmente alternativo a quello della destra, può fare sua l'intera posta.

La prova è nelle parole concilianti di Di Pietro, che ora definisce la piazza veltroniana "la mia casa". E' la prova che sbaglia chi confonde il riformismo con la moderazione. Tanto più al cospetto di una "dittatura della maggioranza" così pervasiva, il riformismo deve coniugare responsabilità, compatibilità, ma anche radicalità. Lo slogan "un'altra Italia è possibile" non può diventare una scorciatoia nella suggestione anti-globalista e alter-mondialista. Ma il senso di questa festa del 25 ottobre dimostra che "un'altra politica" non solo è possibile, ma è necessaria.

Metterla responsabilmente in campo, ed opporla fermamente alla destra, è da oggi in poi la missione del Pd. Ma a condizione che i suoi leader smettano di indulgere nelle rituali pratiche di cannibalismo interno, ed inizino finalmente a dimostrarsi all'altezza del compito che le centinaia di migliaia di persone presenti al Circo Massimo gli hanno affidato. Per una sinistra riformista non ci sarebbe stagione più propizia di quella in cui bruciano, in un gigantesco falò delle vanità, gli immensi "valori di carta" del turbo-capitalismo moderno.


(27 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #37 inserito:: Ottobre 28, 2008, 09:35:53 am »

Intervista a Veltroni: "La reazione del premier alla nostra manifestazione è stata imbarazzante. Berlusconi non conosce le regole della democrazia"

"Crisi economica insopportabile voteremo un decreto sui salari"

"Detassare stipendi e pensioni: un provvedimento così si approverebbe in 5 minuti

In pochi mesi abbiamo creato una grande forza del riformismo di massa.


di MASSIMO GIANNINI


ROMA - "L'impoverimento del Paese è ormai una vera e propria emergenza nazionale. Berlusconi fa finta di non averlo capito. Ma così l'Italia non può andare avanti. Chiedo al governo un atto immediato di responsabilità: presenti un decreto urgente, per dare, a cominciare dalle tredicesime e per i prossimi anni, un importante sgravio fiscale a salari, stipendi e pensioni. E' necessario un importo medio tra i 400 e i 600 euro per sostenere la domanda interna. E questo è tanto più necessario per un paese come il nostro che ha livelli di povertà superiori alla media europea. Sono circa quindici milioni gli italiani sotto o appena sopra la terribile soglia di povertà. Se presentano un provvedimento così, siamo pronti a votarlo subito".

Tre giorni dopo la grande manifestazione del Pd al Circo Massimo, il leader Walter Veltroni accusa il governo e rilancia la sfida sulla crisi dell'economia. "C'è un'urgenza assoluta di provvedimenti che affrontino la durissima recessione in corso, tra aumento verticale della cassa integrazione, difficoltà creditizie enormi per le imprese, aumento esponenziale della precarietà dei lavoratori".

Secondo lei Berlusconi non si rende conto della drammaticità della situazione?
"Assolutamente no. Infatti invita gli imprenditori a cena per convincerli a spendere più soldi per gli spot sulle sue reti tv. Tutto questo è scandaloso. Per questo rilancio la mia proposta. Non basta detassare gli straordinari, infrequenti in tempi di recessione. Detassino subito i salari e le pensioni e garantiscano i flussi bancari, attraverso un fondo di garanzia, per le piccole e medie imprese. Se presentano al Parlamento un provvedimento del genere, lo approviamo in cinque minuti".

Lei non vuole proprio seguire il consiglio del Cavaliere, che nonostante il bagno di folla di sabato le dice "si riposi per i prossimi cinque anni"?
"Ho trovato la reazione del premier francamente imbarazzante. Solo lui poteva pronunciare parole di quel genere, che confermano la sua sostanziale estraneità alla cultura delle regole e l'idea sostanzialmente illiberale di una persona che non conosce a fondo la grammatica della vita democratica, che presuppone rispetto di chi la pensa diversamente. I governi esistono in tutti i paesi, mentre le opposizioni esistono solo nei paesi democratici. É questo principio che Berlusconi dimostra di non saper accettare. E per questo si spaventa di fronte a un grande movimento di popolo. Prenda il caso della scuola. I loro tagli e la loro "riformetta" sono mille miglia lontani da quel grande disegno di innovazione, fondata su pari opportunità e merito, di cui il sistema formativo italiano avrebbe bisogno. Invece di minacciare la polizia sarebbe giusto ritirare il decreto e sedersi a discutere, con una scadenza definita, con il mondo della scuola".

Lei parla di "grande movimento di popolo". Loro rispondono che il Circo Massimo è stato un flop, altro che 2 milioni e mezzo.
"E' un segnale di nervosismo inquietante. Un misto di arroganza e di smarrimento. Ho in tasca i ritagli dei giornali di due anni fa, dopo la manifestazione della Cdl a Piazza San Giovanni. Berlusconi disse "siamo oltre 2 milioni". A me non interessa rispondere con i numeri della manifestazione di sabato. So solo che noi, un partito solo, il Pd, eravamo tre volte tanti rispetto a loro, cioè i tre partiti Fi-An-Lega che manifestarono nel 2006 in una piazza, come tutti sanno, infinitamente più piccola del Circo Massimo. Non credono alle nostre cifre? Non mi importa: mettano loro la cifra che vogliono. Ma poi la moltiplichino comunque per tre. Per fortuna anche tra loro si cominciano a sollevare voci diverse. Fini, Fitto, Prestigiacomo. Si deve avere rispetto per una grande manifestazione di popolo. Perché questa è stata la nostra giornata al Circo Massimo. Guardi qua, il titolo di "Le Monde": parla di una "marea umana". Ora, questa marea umana qualcosa deve insegnare. Prima di tutto al governo, ma poi anche a noi stessi".

E cosa deve insegnare, secondo lei?
"Il Circo Massimo è stato un evento di straordinaria intensità, compostezza, serenità. Nulla a che vedere con le espressioni di odio della manifestazione della Cdl di due anni fa. Quell'evento parla in due direzioni. La prima direzione è il Paese, e la rappresentazione che al Paese danno i commentatori della vita politica. A me piacerebbe molto, oggi, che qualcuno tra costoro dicesse "forse ci siamo sbagliati". A dire che il Pd non esiste, che la sua leadership è debole. La marea umana di sabato ha spazzato via tutte queste diagnosi. Ha dimostrato non solo che il Pd esiste, ma anche che è forte, ha senso di appartenenza, radici, orgoglio e identità proprie. E soprattutto ha dimostrato che il Pd ha un popolo. Un grande popolo democratico, di cui tutti si devono rendere conto, e a cui tutti dobbiamo rendere conto".

Lei dubitava anche di questo?
"Non io. Io ero tranquillo sul successo dell'iniziativa perché sentivo crescere il disagio nel Paese, mentre non stavo a sentire le troppe cassandre che dicevano che la manifestazione era inutile. Ora ho avuto la conferma di quanto sia stata giusta la nostra scelta. Il Pd è nato meno di un anno fa. Si è costruito un profilo politico, si è dato un simbolo, un programma, una struttura, una carta dei valori, uno statuto, ma soprattutto si è costituito il popolo democratico, con il suo orgoglio e la sua identità. In pochi mesi abbiamo fatto ciò che in Italia non era mai riuscito a nessuno, dal Partito d'azione in poi: creare una grande forza del riformismo di massa, perché il riformismo non è una variabile del moderatismo. Il riformismo è innovazione. E io traggo dalla folla del Circo Massimo la spinta ad andare ancora più avanti sulla strada delineata al Lingotto. Una grande forza nazionale, di popolo, capace di contrastare ogni conservatorismo".

"Riformismo di massa": è così che lo ha definito. Non sembra un ossimoro?
"Sembra, ma non lo è affatto, perché di questo in effetti si tratta. Sa qual è la mia più grande soddisfazione, di fronte a quella folla immensa di sabato scorso? Il fatto che al Circo Massimo sventolassero solo bandiere del Pd. E non ci fossero altre bandiere. Questa, per l'Italia, è davvero un'epifania politica. Vuol dire che per la prima volta può scendere in piazza il popolo del riformismo. E vuol dire che per la prima volta può farlo senza sentirsi più "ex" di nulla. E se non si sente più "ex" il nostro popolo, meno che mai ci si deve sentire il nostro partito. Questa è la svolta che è necessaria: il Pd deve essere un partito del popolo. Per questo ho evitato di parlare di partiti, di alleanze, e invece ho parlato di persone, di operai, di piccoli imprenditori, di precari, di studenti. Io mi voglio alleare con la gente, perché penso che i cittadini esistano in quanto tali, non in quanto appartenenti a questo o a quel partito. Delle appartenenze ci si occuperà dopo".

La frase "la destra è peggiore dell'Italia che vuole rappresentare" non è un controsenso, visto che l'Italia ha chiesto proprio a quella destra di governarla?
"Nessun controsenso. Con quella mia frase voglio testimoniare a tutti gli italiani, compresi quelli che non ci votano, che noi siamo la forza responsabile che può portare l'Italia fuori da questa lunga notte. Vede, per il centrodestra hanno votato tanti italiani che hanno creduto alle promesse di Berlusconi, meno tasse più sicurezza e così via, e che oggi sono delusi. Ebbene, a quel Paese che lavora e che produce, e che non è dominato dall'ideologia e dalla xenofobia, io voglio testimoniare che noi siamo la forza, di volta in volta moderata e radicale, che può dare le risposte che cerca".

Parla da leader di un nuovo "populismo di sinistra", come scrive Edmondo Berselli?
"Depurata dall'"ismo", che come tutti gli "ismi" non mi piace, è una formula che approvo. Il Pd è e deve essere sempre di più un "partito del popolo". Questo è il senso della bellissima sfida democratica".

Lei accennava al Circo Massimo come un evento che parla in "due direzioni". La prima l'abbiamo capita, è il Paese. Qual è la seconda?
"E' il centrosinistra. Quella piazza ci sbatte in faccia per la terza volta la realtà vera, quella che abbiamo già conosciuto con l'enorme partecipazione delle primarie del 2007 e poi con quel 33,7% ottenuto alle elezioni del 13 aprile. E la realtà vera ci dice che il popolo del Pd vuole da noi certo una discussione democratica, ma anche e soprattutto coesione, spirito di squadra e contrasto dell'avversario. Basta con i distinguo e le interviste polemiche. Abbiamo di fronte una battaglia politica molto difficile, per affrontarla dobbiamo essere uniti. Tutti, senza eccezioni".

Non si illuderà mica di dare una spallata a Berlusconi, che viaggia col vento dei consensi in poppa?
"Noi dobbiamo convincere gli elettori, soprattutto i moderati, che quel vento sta cambiando. Ce lo confermano tre dati significativi. Primo dato: la manifestazione del Circo Massimo, che dimostra che un'altra politica è possibile. Secondo dato: l'ultimo sondaggio di Mannheimer dà il governo in calo di 18 punti e mezzo. Terzo dato: il voto in Alto Adige, con la destra che perde 3 punti alla provincia di Bolzano e 10 a Bolzano città. Sono primi segnali di uno sfaldamento che, prima o poi, arriverà. La crisi economica è realmente drammatica. Questa destra non l'ha capito, e ne pagherà le conseguenze. Purtroppo a pagarle saranno anche e soprattutto gli italiani".

m. gianninirepubblica. it


(28 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #38 inserito:: Ottobre 31, 2008, 11:22:18 pm »

Intervista a Massimo D'Alema: "Veltroni coinvolga tutti, il profilo riformista va alzato"

"Walter prenda l'iniziativa altrimenti non ci si lamenti se nascono le fondazioni" "

"Tra Berlusconi e il paese idillio finito nel Pd si deve aprire una nuova fase"

di MASSIMO GIANNINI


ROMA - "La protesta di massa sulla scuola, la drammatica crisi economica che attanaglia famiglie e imprese. Ormai è evidente: l'idillio tra Berlusconi e l'Italia si sta incrinando e la vicenda della legge elettorale europea, di cui apprezziamo il ritiro, non è solo il risultato della fermezza dell'opposizione ma anche di difficoltà interne alla maggiranza. Di qui dobbiamo partire per rifondare un nuovo centrosinistra, che rappresenti agli occhi dei cittadini un'alternativa vera e credibile per il futuro governo del Paese". Ammainate le bandiere della grande manifestazione del 25 ottobre, Massimo D'Alema scende in campo e suona la carica al Partito democratico e a Veltroni. "Adesso - dice l'ex premier ed ex ministro degli Esteri - bisogna lavorare per costruire intorno al Pd una vasta coalizione democratica, e che ci permetta di alzare il nostro profilo riformista, di dialogare con tutte le opposizioni, di parlare ai ceti moderati che hanno votato Berlusconi, e che ora capiscono la sua palese inadeguatezza".

Onorevole D'Alema, non è che state scommettendo un po' troppo su questa "fine della luna di miele" tra il Cavaliere e gli italiani?
"Nessuna illusione. Ma non possiamo non vedere quello che sta succedendo. L'Italia attraversa una crisi senza precedenti, che sarà di lungo periodo. Si è ormai dissolta l'idea che Berlusconi vivesse una sorta di 'luna di miele permanentè con il Paese. Stanno esplodendo i primi, seri problemi nel rapporto tra il governo e i cittadini. Sta crollando come un castello di carta la straordinaria 'fiction'costruita dal governo in questi mesi. Ci sono problemi enormi, il governo li ha gravemente sottovalutati e oggi dimostra di non avere la forza per affrontarli con la necessaria radicalità".

In realtà, l'unico serio "problema nel rapporto tra il governo e i cittadini", come lo chiama lei, riguarda la scuola.
"E le pare una cosa da poco? Quello che sta accadendo sulla scuola merita una grandissima attenzione. Un insegnate mi faceva notare una cosa molto giusta: mentre nel �77 in prima fila c'era la parte meno qualificata del corpo studentesco, oggi in testa ai cortei ci sono i primi della classe, che non vedono più una prospettiva per il futuro. Perché questo succede: se tagli gli investimenti nelle università, blocchi il turn over e cacci i ricercatori, rubi il futuro agli studenti più bravi e più capaci. Ora, io penso che l'opposizione debba rispettare e non strumentalizzare i fatti. Ma gli scontri dell'altro ieri a Roma mi hanno enormemente allarmato. Ci sono aspetti che devono essere chiariti e che riguardano anche la condotta della polizia: il centro era tutto bloccato alla circolazione, per chiunque, eppure un furgoncino carico di mazze è potuto arrivare fino a Piazza Navona, dove ha scaricato la sua 'merce', e dove un gruppo di squadristi ha atteso il corteo degli studenti. Com'è possibile?".

Comunque sulla scuola chi è senza peccato scagli la prima pietra.
"E' evidente, ma da questa crisi non si esce con le scelte primitive della destra. Giusto colpire gli sprechi e i privilegi, ma per farlo non si possono prosciugare le risorse di tutta la scuola. Giusto colpire gli abusi al diritto di assistenza dei disabili, ma per farlo non si può eliminare il diritto. Giusto colpire i casi di 'baronatò e i corsi universitari con un solo studente, ma per farlo non si può tagliare 1 miliardo di euro a tutta l'università. L'autonomia non è arbitrio. E il fatto che non ci siano i soldi è una scusa. Le scelte compiute dal governo su Alitalia alla fine costeranno 2 miliardi ai contribuenti. La soppressione dell'Ici per i più abbienti è costata 3,5 miliardi. Quei soldi c'erano. Il problema è che sono stati usati per effettuare una politica redistributiva a favore della parte più ricca del Paese. Quindi il governo non è stato costretto a tagliare: ha fatto una scelta, ben precisa. Ed è una scelta di destra che il Paese mostra di non gradire".

Lei ha qualche dubbio sul referendum contro la legge Gelmini. Perché?
"Non è questione di dubbi. Penso che il referendum è uno strumento monco e improprio, perché i tagli alla scuola approvati in Finanziaria non sono materia da referendum, e le norme della Gelmini, se e quando il referendum si facesse, cioè all'incirca nel 2010, avranno già prodotto i loro effetti. Quindi io dico: raccogliamo pure le firme, ma impegniamoci davvero, qui ed ora, per costringere il governo a un cambiamento di rotta".

Quali altri segnali vede, di questa incrinatura tra il governo e il Paese?
"C'è il profondo malessere che sta crescendo dentro la stessa maggioranza sulla riforma delle legge elettorale per le europee. Su questo abbiamo fatto una riunione con tutti i gruppi parlamentari. Ebbene, oltre a una convergenza sul tema specifico, è emersa la preoccupazione condivisa sulla visione della democrazia di questa maggioranza: questa idea oligarchica, presidenzialista e plebiscitaria del potere, indebolisce la democrazia e produce solo una parvenza di decisionismo".

Ma la denuncia di questa situazione, e tutti i no che ne derivano, basta a voi dell'opposizione per mettervi l'anima in pace?
"No, non basta. E qui veniamo al cuore del problema. Questa crisi, drammatica, non è solo della maggioranza, è del Paese. E questo da un lato getta le basi per una prospettiva politica nuova, dall'altro lato carica l'opposizione di una grande responsabilità. Dobbiamo alzare nettamente il nostro profilo riformista. Dobbiamo ridefinire il progetto politico dell'opposizione, e aprire una fase nuova che ci consenta di creare un campo di forze per l'alternativa. E non sto parlando di nomenklatura, ma di pezzi della società italiana, di ceti moderati, di classi dirigenti, che devono tornare a guardare a noi come a un nuovo centrosinistra di progetto e di governo, che non riproduca i limiti e gli errori del passato. La costruzione di questa coalizione va di pari passo con la nostra capacità di parlare al Paese, che non è solo quello che scende in piazza".

La vostra piazza del 25 ottobre non doveva servire proprio a questo?
"E' stata una piazza molto bella, soprattutto perché è stata festosa. Tuttavia, dopo il grande sforzo comune di quella manifestazione, mi piacerebbe adesso che l'insieme del gruppo dirigente fosse coinvolto in una riflessione per il rilancio della nostra prospettiva. Capisco l'appello di Veltroni all'unità, ma è innanzitutto da lui che deve venire l'iniziativa per favorirla e renderla efficace. Siamo in uno scenario che sta cambiando profondamente. Siamo passati dall'illusione di una partnership con Berlusconi per fare le riforme (quello che Ferrara sul Foglio sintetizzava con l'espressione 'Caw'), ad una aspra conflittualità, di cui innanzitutto il premier porta la responsabilità. Ora, però, è molto importante dare anche forza propositiva alla nostra iniziativa e rilanciare la capacità di dialogare con l'intera società italiana".

Partiamo dall'opposizione. Il suo ragionamento implica che, a partire da Di Pietro, vadano ridiscusse le alleanze. E' così?
" Prima ancora di questo occorre mettere a fuoco un nuovo progetto riformista e riformatore per l'Italia, sul quale cercare il massimo dei consensi possibili, e non solo nell'opposizione. I temi non mancano: dai meccanismi per il voto europeo al federalismo, dal referendum sulla legge elettorale al Mezzogiorno. Insomma, anziché una inutile discussione tra di noi se si debba guardare a destra o a sinistra, ciò che dobbiamo fare è accrescere la nostra capacità di attrazione, a partire dal nostro progetto riformista e dall'iniziativa politica che mettiamo in campo. L'obiettivo, certamente, è quello di allargare il campo delle alleanze".

E cosa intende quando parla di riflessione sul Pd e sulla sua organizzazione interna? Siamo di nuovo alla diarchia conflittuale D'Alema-Veltroni?
"No, nessuna diarchia e nessun conflitto. Ma per il Pd il problema non pienamente risolto continua ad essere quello della piena valorizzazione delle sue risorse. Andiamo verso la conferenza programmatica, e quello sarà un momento di verifica importante proprio per marcare il nostro profilo riformista. Questo richiederebbe il contributo di tutti, perché in caso contrario è inevitabile che le forze si disperdano. Se non è il partito a chiamare ed impegnare tutti, non ci si può lamentare se nascono fondazioni, associazioni, e iniziative di vario segno"..

La sua Red come la vogliamo giudicare?
"Io mi occupo della Fondazione Italianieuropei. Red è un'associazione che ci aiuta a sviluppare i nostri progetti, e sta coinvolgendo molte persone anche fuori dal Pd. Non c'è nulla di anormale in questo. E' sbagliata l'immagine di un partito che si identifica in un principe buono, minacciato da un gruppo di pericolosi oligarchi cattivi".

E questa idea chi la mette in giro, se non tutti voi messi insieme?
"Io non mi riconosco tra i diffusori di questa immagine. Veltroni è il leader del Pd. Come sa io non ho incarichi e non ne cerco. Sono uno dei pochi che ha lasciato incarichi per favorire il rinnovamento. Ma in questo partito c'è un gruppo dirigente formato da molte personalità, e non da oligarchi cattivi. Questo gruppo dirigente è anche una garanzia del rapporto tra il Pd e il Paese. Mettere al lavoro queste persone, vecchie e giovani, non indebolisce Veltroni, ma al contrario lo rafforza".

E il congresso straordinario che fine ha fatto? Ormai si farà dopo le europee.
"Non ho mai chiesto che si tenesse un congresso straordinario. Il congresso com'è previsto dallo statuto, si terrà dopo le europee".

Comunque di tempo ne avete. Il Cavaliere vi consiglia un riposo di 5 anni.
"Berlusconi non ha molto da ironizzare. I sondaggi dicono che le difficoltà della maggioranza sono serie, il governo ha perso 18 punti. Ma la fine dell'idillio non si traduce in un travaso di consensi dalla maggioranza all'opposizione. Quando un Paese non ha fiducia né nel governo, né nell'opposizione significa che c'è il rischio di una democrazia più debole. Anche per questo è urgente rilanciare non solo la nostra battaglia di opposizione, ma il nostro progetto politico. Il partito del centrosinistra riformista è nato per questo".
m.giannini

(31 ottobre 2008)

da repubblica.it
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« Risposta #39 inserito:: Novembre 14, 2008, 10:34:28 pm »

ECONOMIA   

Se prevale l'ideologia


di MASSIMO GIANNINI



ROMA - La sana retorica del Sogno americano spinge Paul Krugman a evocare il prossimo avvento di "Franklin Delano Obama" e la possibile apertura di un nuovo corso rooseveltiano, ricco di speranza e proiettato nel futuro. L'insana logica dell'incubo italiano ci costringe a fare i conti con un conflitto politico-sindacale fuori dal tempo e dalla storia, gravido di rischi e ripiegato sul passato.

Di fronte alla tempesta perfetta dei mercati finanziari e dell'economia reale, una classe dirigente degna di questo nome, in una democrazia seria e responsabile, si darebbe un'unica missione: unire gli sforzi collettivi in una sorta di "comitato di salute pubblica" e concordare, nei limiti del possibile e nel rispetto dei rispettivi ruoli, le misure necessarie a fronteggiare la crisi. Ma in questa Italia arrabbiata e irresponsabile succede l'esatto contrario. Tutto va in frantumi.

La maggioranza rompe con l'opposizione, la Cgil rompe con il governo, i sindacati confederali rompono tra di loro, gli irriducibili rompono con gli autonomi. In questo quadro in rapida decomposizione l'unica cosa che resiste sono gli scioperi, che sono un costo per gli imprenditori, un sacrificio per i lavoratori e un danno per i consumatori.

Stiamo assistendo a una stupefacente moltiplicazione di errori tattici, di rigurgiti ideologici, di riflessi condizionati. Il primo errore lo commette Berlusconi, che in un momento di forte tensione sociale non trova di meglio da fare che tagliar fuori la Cgil da un vertice segreto a Palazzo Grazioli in cui riunisce ministri economici, Confindustria, Cisl e Uil. Il secondo errore lo commettono la Marcegaglia, Bonanni e Angeletti, che non avvertono l'urgenza morale e l'esigenza politica di chiedere l'allargamento del tavolo o di rifiutare l'invito del premier.

Sono errori dettati non da dilettantismo, ma da un ideologismo: questo governo di destra sempre più marcata, soprattutto attraverso la filiera dei ministri ex-socialisti memori delle feroci battaglie sulla scala mobile, non rinuncia all'obiettivo di regolare una volta per tutte i conti con la Cgil: l'ultimo avamposto del dissenso sociale contro un esecutivo che, ormai, tollera solo il consenso universale.

A questo ideologismo (che trova una sponda gregaria nei segretari di Cisl e Uil, colpevolmente disposti a riesumare il fantasma degli accordi separati e lo spettro dei Patti della lavanderia) Epifani risponde con un riflesso pavloviano. Un altro sciopero il 12 dicembre, stavolta solitario, che si somma all'impressionante sequenza "cilena" delle agitazioni in corso: da quella dei cobas Alitalia che da tre giorni tengono sotto ricatto il Paese (dalla quale si sono dissociate le sigle del cosiddetto Fronte del no) a quella dell'Onda studentesca che domani torna in piazza contro la riforma Gelmini e i tagli alle università (dalla quale, per riflesso pavloviano uguale e contrario, si è ora dissociata la Cisl).

Da questo scenario di conflittualità endemica l'opinione pubblica può ricavare solo un'inquietante sensazione di inadeguatezza. È inadeguato il governo, cui sta palesemente sfuggendo il controllo della situazione. Siamo in pieno ciclo recessivo, e non si vede ancora una "exit strategy". Si rincorrono voci, si alternano ipotesi, ma per ora si sa solo che "anche il Tesoro ha problemi di liquidità", come avverte Tremonti. In questo clima, il premier dovrebbe avere tutto l'interesse a svelenire il clima: costruire un pacchetto anti-crisi, coinvolgere l'opposizione sindacale in un confronto leale e trasparente di fronte al Paese, chiamare l'opposizione politica a un dibattito serrato ma rispettoso di fronte al Parlamento.

Sta facendo l'opposto. Delegittima il centrosinistra e insulta il Pd. Spacca la Triplice e attacca la Cgil. È una scelta insensata e potenzialmente suicida. Un vero uomo di Stato come Nicolas Sarkozy non la compirebbe mai.

Ma è inadeguato anche il sindacato. La drammaticità del momento richiederebbe quello che un tempo si sarebbe definito un "equilibrio più avanzato". Uno sforzo unitario, piuttosto che la ricerca di una distinzione. Il terreno è infido, ma ci sarebbe. La crisi morde più duramente i ceti meno abbienti, che vanno difesi con tutti gli strumenti possibili. Ma è ormai chiaro che molti (tra gli ultimi, i penultimi e comunque i più deboli) sono fuori e lontani dal perimetro della rappresentanza confederale.

E dunque le piattaforme rivendicative e le "azioni di lotta" di Cgil, Cisl e Uil, tanto più se frammentate e contraddittorie tra loro, finiscono per assumere una fisionomia fatalmente corporativa, che spesso tutela chi è già tutelato e magari lascia scoperto chi non gode di alcuna protezione sociale. E per quanto possano essere legittime le proteste e le agitazioni messe in campo dai confederali in questi e nei prossimi giorni (al contrario di quelle realizzate da Aquila Selvaggia, in palese violazione delle norme di legge) non si può non tenere conto del devastante effetto-domino che producono nei cittadini, sempre più esasperati dai disservizi pubblici e dai disagi privati. Sono scelte scontate e probabilmente autolesioniste. Un grande leader sindacale come Luciano Lama non le avrebbe mai compiute.

m. gianninirepubblica. it

(13 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #40 inserito:: Novembre 29, 2008, 11:43:30 pm »

ECONOMIA      IL COMMENTO

Una manovra da 10 minuti

di MASSIMO GIANNINI


C'è qualcosa che non torna, nella filosofia adottata dal centrodestra per fronteggiare il micidiale intreccio di recessione-deflazione che sta soffocando l'economia italiana. Più che un "piano keynesiano", come lo definisce Giulio Tremonti, il decreto anti-crisi approvato dal governo somiglia a un "programma malthusiano". Scambia la carità di Stato per sostegno al reddito. Confonde il beneficio una tantum con il rilancio dei consumi. Spaccia il rinvio di un acconto fiscale per supporto agli investimenti. Se è vero che ad una "crisi eccezionale" si deve rispondere con "misure eccezionali", come ha detto Barroso tre giorni fa, la risposta italiana non è all'altezza della sfida. Di veramente "eccezionale", nel provvedimento, c'è solo la rapidità con la quale è stato licenziato dal Consiglio dei ministri: dieci minuti.

Trenta secondi in più dei nove minuti e mezzo con i quali fu approvata prima dell'estate la manovra di bilancio triennale. È la conferma che il governo è più interessato al "come" e molto meno al "cosa" si decide. Ma al di là di questa nuova performance decisionista (o "cesarista", secondo la disincantata visione di Gianfranco Fini) il New Deal tremontiano è insufficiente e deludente. La rituale raffica di soccorsi a pioggia. Nessuno di questi, singolarmente preso, inutile e disprezzabile. Ma è l'insieme delle misure, complessivamente considerate, che non suggerisce un disegno generale e strutturale. Il decreto parla in parte ai poveri, che non hanno avuto nulla da anni. Ma parla poco alle imprese, che dovrebbero essere il motore della ripresa. E non parla affatto ai ceti medi, che dovrebbero essere il volano della domanda. In compenso ha un forte accento populista, che il ministro dell'Economia rimarca con una mossa plastica in conferenza stampa: si toglie la giacca, si allenta la cravatta, e illustra il suo "pacchetto" così, da peronista "descamisado".

La manovra è insufficiente per quantità. Gli 80 miliardi venduti dal Cavaliere non possono ingannare nessuno. La quasi totalità di questa cifra-monstre è assorbita da fondi Ue e risorse Cipe per grandi opere che diventeranno agibili tra qualche decennio e infrastrutture che forse non lo diventeranno mai (come l'immancabile Salerno-Reggio Calabria). L'entità vera, per famiglie e imprese, non supera i 4 miliardi di euro. "Non potevamo fare manovre che aumentano il debito del 50% come fanno alcuni Paesi, proprio noi che abbiamo un debito pari al 105% del Pil", aggiunge Tremonti.

Un approccio molto responsabile. Ma da un lato colpisce che oggi sia proprio lui, dopo aver picconato senza pietà i "tecnocrati" del centrosinistra alla Ciampi e Padoa-Schioppa, a vestire i panni dell'ortodossia contabile. E dall'altro lato stupisce che oggi sia di nuovo lui, dopo aver inventato la finanza creativa e le cartolarizzazioni, a non saper trovare nelle pieghe del bilancio pubblico le risorse aggiuntive che avrebbero permesso di raddoppiare l'importo della manovra, come sarebbe stato necessario. Un esempio su tutti, già indicato da Tito Boeri: i 3,82 miliardi di euro di interessi sul debito risparmiati grazie al minor rendimento corrisposto dal Tesoro sui titoli di Stato.
La manovra è deludente per qualità. Da un ministro dell'Economia "fantasioso" come il nostro, era legittimo aspettarsi molto di più, rispetto all'ordinaria riproposizione delle solite misure-tampone, oltre tutto spalmate su una platea talmente estesa di beneficiari teorici che alla fine non ci saranno benefici pratici per nessuno. Tremonti usa un doppio registro. Nel rapporto con i cittadini-contribuenti, il registro è quello dello "Stato minimo" friedmaniano: molte banali una tantum, a sfondo demagogico e pauperista. Il bonus straordinario per le famiglie con redditi fino a 22 mila euro è senz'altro un aiuto a chi è più in affanno, ma difficilmente servirà a far ripartire gli acquisti da Natale in poi: la detassazione integrale delle tredicesime avrebbe avuto un impatto molto diverso. L'ampliamento del fondo degli ammortizzatori sociali per i lavoratori "parasubordinati" è senz'altro un gesto di buona volontà, ma non potrà mai coprire i bisogni dei 350 mila "atipici" che di qui a fine anno si ritroveranno senza contratto.

La Social Card da 40 euro al mese per i pensionati con meno di 6 mila euro di reddito è comunque una boccata d'ossigeno per chi non arriva alla quarta settimana. Peccato che quasi tre milioni di italiani non arrivino più neanche alla seconda, e dunque avrebbero bisogno di sussidi molto più consistenti. E sarebbe meglio evitare paragoni impropri tra la nostra "tessera del pane" (che vale 480 milioni di euro e di fatto trasforma un diritto del Welfare in un'elemosina del Sovrano) e i kennediani "Food stamp program" (che impegnano ben 10 miliardi di dollari e interessano quasi 30 milioni di americani incapienti).

Nel rapporto con gli altri poteri pubblici, al contrario, il registro è quello dello "Stato massimo" colbertiano: molti interventi a gamba tesa, dirigisti e anti-mercatisti. Il calmiere per i mutui a tasso variabile, con la copertura dello Stato per la quota di interessi superiore a 4%, trasforma la rinegoziazione dei contratti in un'imposizione governativa, benché rischi di rivelarsi una beffa visto che a gennaio, con il calo del costo del denaro già avviato dalla Bce, quel livello sarà raggiunto spontaneamente dal mercato. La sottoscrizione dei "bond" per le banche in difficoltà che vi faranno ricorso prevede l'obbligo di trattare con il Tesoro le condizioni di erogazione del credito alle piccole e medie imprese. Il blocco degli automatismi tariffari per l'elettricità e le autostrade mette a rischio i timidi passi di questi anni verso le liberalizzazioni, e prefigura quasi un ritorno al vecchio sistema dei prezzi amministrati.

Si potrebbe continuare. E parlare dello sconto Ires-Irap per le imprese, davvero troppo modesto per rappresentare una svolta per tante piccole aziende soffocate dal "credit crunch". O dell'aumento della quota di detassazione del salario di produttività, che poteva essere più corposo fin dall'inizio se solo si avesse avuto il buon senso di non detassare anche gli straordinari (mossa del tutto insensata in un ciclo di bassissima congiuntura). O ancora dell'inasprimento dell'Iva sulle pay-tv, bastosta secca contro Murdoch, ex alleato e ora acerrimo concorrente del Cavaliere: una norma che serve a Mediaset a far finta di indignarsi (con tanto di comunicato "di disappunto") mentre è chiaro a tutti che l'impero mediatico berlusconiano è il carnefice, mentre la vittima è solo Sky. Al fondo, resta l'impressione di una "manovrina d'autunno" modesta e contraddittoria. Così poteva farla il governo Prodi prima del tracollo di due anni fa, o lo stesso governo Berlusconi subito dopo il trionfo del 13 aprile.

Oggi serve molto di più, e molto di meglio. Se i democratici americani di Obama hanno avuto il grande merito di vincere le elezioni proponendo il ritorno "da Wall Street a Main Street", mentre i democratici italiani di Veltroni hanno avuto la grande colpa di esser passati in troppa fretta "from Marx to market", la ricetta berlusconian-tremontiana tradisce un impianto bushista, da "conservatorismo compassionevole". È probabile che lo sciopero della Cgil, confermato da Guglielmo Epifani, non serva a cambiare il corso della storia. È possibile che "l'unità degli sforzi", chiesta dalla Confindustria di Emma Marcegaglia, sia più utile a far uscire l'Italia dal declino. Ma la richiesta di "collaborazione nell'interesse del Paese", strumentalmente rilanciata dal premier all'opposizione, è solo l'ennesima presa in giro che avvelena il confronto parlamentare. Eppure di correzioni e di integrazioni ci sarebbe un enorme bisogno. Perché una cosa è chiara a tutti: questo falso "piano rooseveltiano" del governo non potrà reggere l'urto della tempesta perfetta.
m. gianninirepubblica. it


(29 novembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #41 inserito:: Dicembre 03, 2008, 07:21:46 pm »

ECONOMIA      L'EDITORIALE

L'editto albanese

di MASSIMO GIANNINI


Sei anni dopo l'editto bulgaro dell'aprile 2002 contro Biagi, Santoro e Luttazzi, è arrivato anche l'editto albanese contro i direttori dei giornali. Di ritorno da Tirana, il Cavaliere ci ha regalato un altro esempio del suo personalissimo modo di essere uno "statista liberale".

Non bastano più la militarizzazione della politica e la colpevolizzazione dell'avversario, la delegittimazione delle istituzioni e la denigrazione del dissenso. Ora siamo all'attacco pubblico rivolto contro le singole testate giornalistiche, i loro titoli, le loro vignette.

"Colpevoli" di aver informato i propri lettori su quanto accade ai danni di Sky con l'inasprimento dell'Iva, e di aver rivelato ciò che è palese a tutti e che questo giornale denuncia da anni: l'insostenibile conflitto di interessi che esplode sistematicamente tra il Berlusconi capo del governo e il Berlusconi proprietario di Mediaset.

Ma stavolta quel minaccioso "cambiate mestiere" indirizzato ai direttori (per lui un altro "cancro da estirpare", proprio come i magistrati) tradisce ormai molto di più del suo già colossale conflitto di interessi. Molto di più del vittimismo arrogante e manipolatorio, con il quale trasforma ogni volta un torto inflitto in un torto subito. Molto di più della "follia" lacaniana (e nient'affatto erasmiana) che lo pervade ogni volta che è in gioco il suo impero mediatico. Dietro quelle parole del Cavaliere c'è davvero una visione tecnicamente "totalitaria" della democrazia, che tra un editto e l'altro sta ormai precipitando in un'autocrazia.

m.giannini@repubblica.it


(3 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #42 inserito:: Dicembre 04, 2008, 09:48:48 am »

L'INTERVISTA.

Veltroni: "In direzione ci contiamo, poi tutti a remare per il Pd"

"Il centrosinistra ricade nel solito vizio autolesionista: segare l'albero su cui sta seduto"

"Basta veleni e attacchi anonimi chi vuole un nuovo leader esca fuori"


di MASSIMO GIANNINI


ROMA - "Io non amo parlare di questioni interne al Pd, ma di fronte a quello che sta accadendo avverto la necessità di dire: adesso basta. Basta con le confessioni anonime, basta con i retroscena, basta con i veleni. È inimmaginabile che nel cuore di una crisi economica gravissima e di una crisi di consenso del governo, il centrosinistra riformista ricada nel suo solito vizio autolesionista: quello di segare l'albero su cui sta seduto". Sono ore difficili, per Walter Veltroni. Nel suo ufficio del Nazareno, il segretario del Partito democratico ostenta serenità. Ma si capisce che non ne può più.

Diciamo la verità: non è un bel momento, per il Pd.
"Questo stillicidio quotidiano non fa male a me, fa male al partito e fa bene alla destra. Berlusconi è impegnato in un attacco contro di noi che non ha precedenti. Di fronte a questa offensiva io non invoco solidarietà o spirito di squadra. Capisco che sono termini "d'antan", che oggi in politica non vanno più di moda. Ma pretendo trasparenza e coerenza, questo sì".

Che vuol dire?
"Trasparenza vuol dire che se si è convinti che il problema del Pd sia la leadership, è giusto dirlo a viso aperto. Il 19 dicembre ci sarà la direzione del partito: quello è il luogo per sollevare il problema e per trovare serenamente le forme per risolverlo, se serve anche attraverso un congresso straordinario da fare subito. Io voglio bene al Pd, più di quanto ne voglia a me stesso. Sono pronto a mettermi in gioco, se questa si rivelerà la soluzione più condivisa. Ma se nessuno pensa che il nostro problema sia la leadership, allora chiedo a tutti il massimo della coerenza. Discutiamo pure. Ma avendo ben chiara una cosa: tutti remano nella stessa direzione per raggiungere i migliori risultati. Dopo le elezioni, nell'autunno del 2009, ci sarà il congresso e si tireranno le somme. Ma fino a quel momento, mai più conflitti sotterranei, mai più interviste polemiche, mai più giochi al massacro".

Lei sta dicendo che in direzione sarebbe pronto anche a farsi da parte, se non fosse possibile ricomporre le fratture interne?
"Considero gli interessi generali più importanti di quelli personali. Ho sempre lavorato per il bene di questa "creatura", un partito riformista di massa, una forza del 34% che in Italia non è mai esistita se non nella breve parentesi del primo governo Prodi, tra '96 e '98. In meno di un anno i risultati sono stati straordinari. La Summer School è stata un successo. La nostra tv sta andando benissimo. Il Circo Massimo è stato un trionfo. Abbiamo vinto le elezioni in Trentino e in Alto Adige. Abbiamo gioito per la vittoria di Obama, perché qui qualcuno aveva intuito che era uno straordinario seme di futuro. Siamo risaliti di 4 punti nei sondaggi mentre Berlusconi ha cominciato a cadere. Insomma, tutto stava andando per il meglio. Ho chiesto ai segretari regionali due giorni fa: cosa diavolo è successo in pochi giorni?".

Se vuole le faccio l'elenco: i pizzini di Latorre, il ritorno in pista di D'Alema, il pasticcio della Vigilanza Rai, gli attriti sul partito del Nord, il de profundis di Parisi, ora persino la nuova "questione morale" esplosa a Napoli. Non basta?
"Sono cose molto diverse tra loro. Alcune possono essere persino delle opportunità, come la disponibilità di alcuni dirigenti a contribuire al progetto Pd. Altre appartengono alla solita sindrome auto-distruttiva del centrosinistra. Una sindrome che ha ucciso l'Unione, e che nel nostro popolo produce sconcerto e amarezza. Ma sia chiaro, il Pd non può fare e non farà la stessa fine. Il logoramento è un errore che non possiamo permetterci, nell'interesse non di una persona, ma dell'intero partito che si deve presentare al Paese con un'immagine determinata e coesa, con un progetto forte e innovativo. Questo sarà il messaggio con il quale mi presenterò alla direzione del 19".

Lei ha parlato di "Lingotto 2". Sembra passato un secolo, da quel battesimo di Torino.
"Ma quella per me resta la piattaforma di modernizzazione sulla quale dobbiamo costruire. La profondità della crisi spinge ad una stagione di forte innovazione, serve un aggiornamento di molti paradigmi politici, un'accelerazione della nostra spinta riformatrice, pensi solo a come deve essere rinnovato il Welfare. Dobbiamo guardare al futuro, e profilarci come una grande forza di popolo. Alla direzione dirò esattamente questo: dobbiamo essere davanti alle fabbriche in crisi, in mezzo ai precari che perdono il lavoro, tra le piccole imprese soffocate dal credito".

Ma intanto c'è chi l'accusa di essere un "dittatore" e chi la critica di essere troppo debole. Come è possibile?
"Questo è un vero paradosso. Ho letto un retroscena su un giornale, in cui un anonimo mi rimproverava di gestire il partito con metodi addirittura dittatoriali (mentre se ho un difetto è quello di essere troppo tollerante) e di aver tenuto in piedi un inciucio con la destra sulla Rai, mentre non vedo Letta da mesi, e non parlo con Berlusconi da dopo il voto. Bene, è proprio questo veleno quotidiano che deve finire".

Lei continua a parlare di un governo in crisi, e di un centrodestra in enorme difficoltà. Ne è realmente così convinto?
"Basta vedere la giornata di martedì. Il premier la mattina dice "siamo disposti a rivedere la norma su Sky" e la sera chiede le dimissioni dei direttori del Corriere della Sera, della Stampa e di tutti i dirigenti della sinistra. È qualcosa che trasmette il senso di instabilità, di incertezza di chi in questi mesi ha detto tutto e il contrario di tutto, e che sulla crisi non ha fatto nulla, se non mettere le mani nelle tasche degli italiani. Oltre tutto senza avere l'onestà di Bush, che ha chiesto scusa al suo paese per la guerra in Iraq".

Diciamolo, onorevole Veltroni: la vicenda Villari è stata un mezzo disastro anche per il Pd.
"Abbiamo avuto un calo nei sondaggi, proprio nei giorni della vicenda Villari. Non voglio aggiungere altro, per amore di unità verso il partito. Altro che "atteggiamento dittatoriale"... E quello che mi sconcerta è che qualche giornale ha rappresentato Villari come una specie di campione della resistenza alla partitocrazia, un uomo che sta abbarbicato ad una poltrona contro il parere delle più alte autorità istituzionali e di tutte le forze politiche".

C'è un altro nervo scoperto, più doloroso. Genova, Firenze, ora Napoli: nel Pd c'è una "questione morale", come sostiene Gustavo Zagrebelski?
"Nel centrosinistra ci sono migliaia e migliaia di amministratori perbene, che lavorano nell'interesse della comunità e contrastano ogni forma di malaffare e di malgoverno. Premesso questo, c'è una questione morale nella vita politica italiana, che deve essere affrontata come dice il presidente della Repubblica. Il Pd non è al riparo da tutto questo. La nostra sfida è far crescere una generazione di dirigenti che abbia un'etica dell'amministrare in sintonia con lo spirito del partito. C'è bisogno che il Pd apra porte e finestre, e selezioni al suo interno le forze migliori. Soprattutto nel Sud".

Secondo Zagrebelski, i "cacicchi" del Pd proliferano in periferia perché il centro del partito non c'è...
"I cacicchi hanno cominciato a proliferare parecchio tempo fa. E poi insisto, questa idea del potere si fa strada quando vengono meno i grandi principi dell'impegno politico. Il Pd è nato anche per ricostruire quei principi. E se mi chiede se da questo punto di vista sono soddisfatto, la mia risposta è no, noi abbiamo ancora una grande lavoro da fare".

Perché avete ribadito il vostro no alle proposte di Chiamparino e Cacciari sul Pd del Nord?
"Faremo il coordinamento del partito del Nord, ma non il "partito del Nord". Perché l'Italia ha un'altra storia, e perché abbiamo bisogno di un partito nazionale grande e forte. Per questo faremo anche il coordinamento del partito del Sud. Ma un partito moderno ha bisogno di tempo e di tranquillità. A noi sono negati l'uno e l'altra. Non conosco altro partito nel quale ci sia una tale bulimia nei confronti dei leader. Io sono qui da dodici mesi. Ho conosciuto leader come Lula. Chirac, Blair che hanno impiegato anni per affermare il loro progetto. Serve tempo, per costruire una politica di innovazione radicale. Dopodiché naturalmente si risponde di quello che fa. Ed io risponderò del lavoro che avrò fatto. Ma a coloro i quali mi hanno scelto, cioè il popolo delle primarie, come prevede lo statuto".

Un altro fronte aperto è la collocazione in Europa. Rutelli non morirà mai socialista, Fassino firma il manifesto del Pse. Insomma, è il solito caos.
"C'è qualcuno che pensa che la soluzione migliore, come ho letto in qualche agenzia di un certo tipo, sia quella di tornare ciascuno al passato? Cioè tornare ai Ds, alla Margherita, magari Ds insieme a i comunisti e Nichi Vendola e la Margherita insieme a Casini? E' questa la prospettiva? Per me lo sbocco resta un altro. Io capisco che chi viene da una tradizione politica culturale diversa non se la sente di diventare socialista. Però capisco anche chi dice, perché è la verità, che nel campo socialista esiste gran parte delle leadership e delle politiche che stando al governo o all'opposizione incarnano nei singoli paesi lo schieramento di centrosinistra".

Ma così siamo sempre al "ma anche". Come se ne esce?
"Sono dell'idea che si debba creare un grande campo democratico progressista. Penso che il partito del socialismo europeo sbaglierebbe a coltivare l'autoreferenzialità, e penso che noi dobbiamo essere il soggetto attivo di un nuovo campo, capaci però di evitare ogni isolamento. Le forme attraverso le quali questo doppio movimento potrà realizzarsi le vedremo insieme".

Ma con quali alleanze pensa di rilanciare il Pd di qui alle europee?
"Questo Paese ha bisogno di avere finalmente ciò che nella storia gli è sempre mancato: un riformismo democratico, lo stesso che ha cambiato il volto di molti dei paesi europei. Per sconfiggere Berlusconi serve un cambiamento radicale del Paese. E questo cambiamento lo può fare solo il riformismo, non uno strano impasto di Dini e Caruso. Di fronte alla crisi di consenso della destra, se il riformismo italiano tiene la barra dritta può creare le basi per un consistente spostamento di elettorato da una parte all'altra. Questo significa "vocazione maggioritaria". Noi dobbiamo poter dire all'Italia: provate noi, provate un'alternativa riformista, provate a fare come si è fatto negli Stati Uniti con Obama o in Inghilterra con Blair. Questa è la mia scommessa, e questo proporrò alla direzione".

(4 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #43 inserito:: Dicembre 11, 2008, 10:57:54 am »

L'INTERVISTA.

L'ex capo dello Stato: "L'etica della politica riguarda tutti ma per il Pd rigenerarsi è doveroso.

C'è uno scollamento tra centro e periferia"

Ciampi: "Questione morale? Il Cavaliere non dia lezioni"


di MASSIMO GIANNINI


ROMA - "Sono avvilito. Non trovo un altro aggettivo per definire il mio stato d'animo...". Carlo Azeglio Ciampi osserva l'Italia, il quadro politico, l'andamento dell'economia, e scuote la testa. "Le cose non vanno affatto bene", dice l'ex presidente della Repubblica. Preoccupato tanto per la caduta dello standard etico della nazione, quanto per il crollo della produzione industriale e per la difficile tenuta della finanza pubblica.

Presidente Ciampi, cosa le sembra più preoccupante in questo momento? Il riesplodere della questione morale che attanaglia i partiti o la recessione economica che morde la carne viva delle famiglie e delle imprese?
"Penso che siano due facce della stessa medaglia: il Paese, in questo momento, non riesce più a trovare lo spirito per reagire di fronte ai problemi. Manca la spinta etica, latita la volontà politica, non si avverte la volontà di ricreare uno spirito di collaborazione senza il quale i problemi non si superano. Né quelli della politica, né quelli dell'economia".

Colpa del governo? Colpa dell'opposizione? Con chi dobbiamo prendercela?
"Non voglio entrare in polemiche personali. Quello che vedo è che, in questo momento, prevale sempre la necessità di costruire l'immagine. La sostanza dei problemi, cioè la realtà dei fatti, non interessa più. Conta solo la loro rappresentazione, soprattutto per chi governa. Ed è questo, soprattutto, che avvilisce l'opinione pubblica".

Ora è riesplosa la "questione morale", che secondo il presidente del Consiglio sta travolgendo la sinistra. Lei cosa ne pensa?
"Io penso che la questione morale esiste, eccome se esiste. Lo dico da tanto tempo, quando parlo con gli amici che mi vengono a trovare. Ma penso anche che la questione morale riguarda tutta la politica, e coinvolge allo stesso modo la sinistra e la destra, non certo solo uno schieramento".

Berlusconi afferma il contrario.
"Si sbaglia. Nessuno può rivendicare una purezza assoluta che purtroppo non esiste, in questo campo. Nessuno può arrogarsi il diritto di distribuire patenti di moralità o di immoralità. E' un problema che investe tutto il ceto politico. Vogliamo chiamarla deontologia? Vogliamo chiamarla onestà? Ognuno scelga il termine più appropriato. Sta di fatto che se la politica, tutta la politica, non ritrova e non rifonda le sue ragioni etiche, i cittadini si allontaneranno sempre di più, e la nostra democrazia vivrà momenti difficili".

Perché secondo lei il Pd sembra così vulnerabile, anche sotto questo profilo?
"Io ho guardato con grande simpatia alla nascita di un partito della sinistra riformista in Italia. Ma penso che ora il Pd debba davvero rigenerarsi. Sia sul piano dei gruppi dirigenti, sia sul piano del programma politico. La gestione del partito, in questi mesi, è stata difficoltosa, e ha finito per creare uno scollamento sempre più marcato tra il centro e la periferia. Si spiegano anche così le inchieste che sono state parte, da Firenze a Napoli. E anche in Abruzzo, dove si voterà domenica prossima, sarà difficile che il partito non risenta di quanto è accaduto al presidente della Regione qualche mese fa. Per questo dico che ora, al Pd, serve una scossa, uno scatto di volontà e di rinnovamento. Se manca quello, la forza del progetto sarà irrimediabilmente ridimensionata".

Ora Veltroni e D'Alema hanno ritrovato un terreno d'intesa, proprio per rispondere agli attacchi sul fronte giudiziario. Basterà secondo lei?
"Non lo so. Ma so che certi dualismi sono perniciosi nella vita di un partito. Non sono in grado di dire se si tratti di un dualismo reale. Ma so che viene percepito come tale dall'opinione pubblica. E tanto basta a creare il problema, che andrebbe risolto al più presto".

Intanto l'economia va sempre peggio, e il premier continua a dire che tutto va bene. Non è anche questo un gigantesco problema?
"Certo. Ma da ex governatore della Banca d'Italia, e da ex ministro del Tesoro, la cosa che mi preoccupa di più è vedere a che livello è tornato il differenziale tra i nostri Btp e il bund tedesco. Nei giorni scorsi abbiamo sfiorato addirittura i 140 punti base. E' un segnale pericoloso, che nessuno dovrebbe sottovalutare. Negli anni in cui raggiungemmo il traguardo dell'euro quella fu proprio la chiave di volta del nostro successo. Non vorrei che oggi accadesse il contrario".

L'Europa non ce lo perdonerebbe.
"L'Europa vive una fase molto delicata. Guardiamo a quello che sta succedendo in Grecia, dove ancora una volta si assiste a una divaricazione drammatica tra le elite e il popolo. Teniamo conto che la Grecia non è solo membro della Ue, ma è anche nell'euro, cioè nella moneta unica. Mai come in questo momento l'Italia deve dare un contributo positivo alla stabilità delle finanze pubbliche, e quindi della moneta unica".

(11 dicembre 2008)
da repubblica.it
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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 13, 2008, 05:01:13 pm »

IL COMMENTO

Le bugie del premier

di MASSIMO GIANNINI


 ANCORA una volta dobbiamo essere grati a Giorgio Napolitano. Il suo richiamo al rispetto dei "principi fondamentali della Costituzione", che nessuno "può pretendere di modificare o di alterare", è la terapia più tempestiva ed efficace contro la "sindrome di Cromwell" che ormai pervade il presidente del Consiglio, come ha magistralmente spiegato Gustavo Zagrebelsky nell'intervista a Repubblica di ieri. In un equilibrio sempre più instabile tra i poteri dello Stato, il presidente della Repubblica resta il garante più credibile della nostra democrazia. L'argine più forte rispetto all'autoritarismo plebiscitario del Cavaliere. Silvio Berlusconi può anche sublimare la sua inesauribile vena mimetica e mistificatoria, e dire "il Quirinale non ce l'aveva con me".

Ma è un fatto che il richiamo del Capo dello Stato arriva proprio all'indomani dell'annuncio tecnicamente "eversivo" del premier: la modifica unilaterale della Costituzione, imposta forzosamente al Parlamento e poi sottoposta eventualmente al giudizio del popolo sovrano attraverso il referendum confermativo. Ed è un fatto che quel richiamo tocca il nervo più scoperto del "berlusconismo da combattimento": l'ossessione giudiziaria, che spinge il premier a forzare le regole fino al punto più estremo.

Non solo piegando lo Stato di diritto in Stato di governo (con l'uso personale dei "lodi" e delle leggi). Ma addirittura trasformando la Costituzione in "strumento di potere" (come ha osservato ancora Zagrebelsky). Questo, e non altro, è il disegno del Cavaliere. Per quanto dissimuli, il premier racconta almeno due bugie. La prima bugia riguarda la forma. Berlusconi mente quando dice che il suo progetto non lede la Carta Costituzionale e i suoi principi fondamentali, perché "le ipotesi di riforma della giustizia, come per esempio quelle relative ad un intervento sul Csm, non riguardano questi principi". Non è così. Il Consiglio superiore della magistratura è organo di rilevanza costituzionale, disciplinato dall'articolo 104 all'articolo 113. E come insegna la dottrina, "è la massima espressione dell'autonomia della magistratura rispetto agli altri poteri dello Stato (in particolare il governo)". Dunque, nel dettato costituzionale la disciplina giuridica del Csm è intrinsecamente collegata al principio fondamentale su cui si regge l'intera giurisdizione, cioè la magistratura come "ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere". Per questo, al contrario di quello che sostiene il presidente del Consiglio, riscrivere le norme costituzionali sul Csm può tradursi facilmente in una lesione dei principi fondamentali e in una manomissione dei cardini della nostra democrazia, che si basa sulla separazione e sul bilanciamento dei poteri.

La seconda bugia riguarda la sostanza. Berlusconi mente quando dice che la riforma della giustizia per via costituzionale è irrinunciabile perché in caso contrario verrebbe meno uno degli impegni presi in campagna elettorale. Non è così. Nel programma del Pdl non c'è traccia di una riforma costituzionale del sistema giudiziario. E non è mai menzionata la separazione delle carriere. L'unica proposta concreta, contenuta nel decalogo berlusconiano, riguardava genericamente una "distinzione più marcata delle funzioni tra i giudici e pm". Perché ora il premier ha cambiato idea, se non per rimettere in riga la magistratura, giudicante e requirente, scorporando i pubblici ministeri dall'unico ordine giudiziario e subordinandone l'attività al controllo del potere politico? Qui sta la natura "rivoluzionaria", e per certi versi post-democratica, della visione berlusconiana. L'uso congiunturale delle istituzioni, l'uso strumentale dei fatti.

A rimettere in moto la necessità della sedicente "riforma costituzionale" della giustizia è lo scontro tra le procure di Salerno e Catanzaro intorno all'inchiesta "Why not". Uno scontro rovinoso per la credibilità delle toghe, e indecoroso per l'immagine della Repubblica. Ma al contrario di ciò che urlano i rappresentanti del centrodestra, il progetto di Berlusconi e Alfano sarebbe stato del tutto inutile a prevenire l'esplosione di quel conflitto, incubato esclusivamente nell'ambito della magistratura requirente. Se c'è una vera emergenza, quella non riguarda né la separazione delle carriere, nè il Csm. Ma solo la maggiore rapidità ed efficienza della macchina giudiziaria, che si può agevolmente raggiungere per legge ordinaria. Di tutto questo, nel piano del Cavaliere sulla giustizia non c'è traccia.
Stupisce che molti osservatori non vedano i rischi insiti in questa offensiva berlusconiana, e scambino la difesa della Costituzione per difesa di una corporazione. La giustizia va cambiata. Ma nell'interesse collettivo. Non nell'interesse soggettivo di chi (come denuncia Valerio Onida sul Sole 24 Ore) è pronto a fondare una "Costituzione di maggioranza". La Costituzione è di tutti. E tale vorremmo che restasse.

m.giannini @ repubblica.it

(13 dicembre 2008)
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